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Migliaia di cittadini UE espulsi dal Belgio Un fenomeno che rischia

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Migliaia di cittadini UE espulsi dal Belgio Un fenomeno che rischia
Migliaia di cittadini UE espulsi dal Belgio
Un fenomeno che rischia di farsi strada anche in
altri Stati membri
Novembre 2014
A cura di Carlo Caldarini, direttore dell'Osservatorio Inca Cgil per le politiche sociali in Europa
Cominciamo raccontando una storia. Una storia vera. La storia di AM, operaio specializzato
di nazionalità italiana, nato a Marrakesh, in Marocco, 46 anni fa.
Il suo estratto conto INPS testimonia una carriera lavorativa lunga 23 anni, iniziata in una
città industriale del nord Italia nel 1990, e conclusasi nella stessa città a gennaio del 2013,
quando l’azienda presso la quale lavorava era ormai in procedura di concordato preventivo.
Durante questi anni AM ha subito 4 infortuni sul lavoro e, come altri suoi colleghi, ha
conosciuto la cassa integrazione e la mobilità.
Pochi mesi dopo la definitiva cessazione del suo rapporto di lavoro, AM ha già una nuova
opportunità di occupazione. Sempre nel settore in cui è specializzato, ma a 1000 km da casa.
Lascia quindi la sua famiglia in Italia, e si presenta al suo nuovo comune di residenza, in
Belgio, per regolarizzare il proprio soggiorno (giugno 2013). Ha in mano un contratto di
lavoro a tempo indeterminato e quindi, in quanto cittadino europeo, ha il diritto di
soggiornare senza restrizioni in qualsiasi stato membro dell’Ue (direttiva 2004/38).
Ma dopo otto mesi e mezzo, anche quest’impresa dichiara fallimento e AM si ritrova di
nuovo disoccupato (aprile 2014).
In Belgio, dove nonostante la vittoria delle destre alle ultime lezioni legislative vige ancora
un sistema di protezione sociale tra i più avanzati del mondo, per aver accesso al sussidio di
disoccupazione AM deve dimostrare 468 giornate (ossia 18 mesi) di lavoro salariato negli
ultimi 33 mesi. Avendo lavorato – e versato contributi assicurativi – prima in Italia, per 23
anni, e poi in Belgio, per 8 mesi e mezzo, sulla base della legislazione in vigore in Europa
quest’ultimo paese gli riconosce automaticamente il diritto all’indennità di disoccupazione,
sommando i periodi lavorativi dei due stati membri.
Dopo soli due mesi (giugno 2014), l’Ufficio federale per gli stranieri, diretto dalla liberale
Maggie De Block - Segretaria di stato per l’Asilo, l’immigrazione e l’integrazione sociale -,
avvia un’inchiesta per verificare il diritto di soggiorno di questo lavoratore straniero.
L’interessato fornisce le proprie buste paga, la prova del licenziamento, l’iscrizione
all’ufficio di collocamento, l’attestato di un corso di formazione in lingua francese, nonché
diverse offerte di lavoro e candidature spontanee.
Malgrado questo, il 29 agosto 2014 l’Ufficio per gli stranieri mette fine al suo permesso di
soggiorno e gli ordina di lasciare il Belgio “entro 30 giorni”. La motivazione principale
dell’ordine di espulsione consegnato ad AM è che “il suo lungo periodo d’inattività dimostra
che non ha alcuna possibilità di trovare un lavoro”.
Il suo lungo periodo di inattività! Con 24 anni di carriera lavorativa, dopo soli 5 mesi di
disoccupazione indennizzata, AM si ritrova senza reddito1. Un errore, pensa lui. Una svista.
Un intoppo burocratico. No, un caso tra migliaia.
Tra il 2010 e il 2013 sono stati espulsi dal Belgio 7.004 cittadini UE: bulgari, slovacchi,
rumeni, olandesi, francesi, spagnoli, italiani, tedeschi... Il governo federale è stato per questo
già messo in mora dalla Commissione europea nel 20132. Ciò nonostante il fenomeno
continua, e il numero delle espulsioni cresce di anno in anno. Con il ritiro del titolo di
soggiorno, viene meno anche il diritto all’assistenza sanitaria: cure mediche,
ospedalizzazione e medicinali sono infatti ormai collegati al documento di residenza, che fa
anche funzione di tessera sanitaria. Al punto che Médicins sans frontières e Médicin du
monde ricevono disposizioni per assicurare le cure di prima linea anche ai cittadini europei.
Per frenare queste pratiche, 14 personalità del mondo sindacale ed accademico di diverse
nazionalità - tra cui la presidente dell’INCA CGIL Morena Piccini, il segretario federale del
sindacato belga FGTB Jean-François Tamellini, e Laurent Vogel dell'ETUI, l’Istituto
sindacale europeo - avevano lanciato un appello alla vigilia delle elezioni europee3. È un
fenomeno infatti che si sta facendo strada anche in altri Stati membri.
La Francia, ad esempio, è stata richiamata dall’Ue, nel 2010, per le espulsioni collettive di
rom sinti e camminanti. Secondo Médecins du Monde, sono stati espulsi più di 9.000 rom
rumeni e bulgari (in totale erano 15.000). Secondo un rapporto della Ligue des droits de
l'homme pubblicato ad inizio 2014, sono stati allontanati 20.000 cittadini europei.
In Germania, il governo tedesco ha annunciato una serie di misure contro i cittadini europei
che abusano della protezione sociale: ad esempio, la riduzione delle prestazioni familiari ai
lavoratori stranieri i cui figli non siano residenti in Germania (in funzione del costo della vita
nel paese di residenza del minore). Se così fosse, la Germania si porrebbe in contrasto con le
norme europee, secondo cui una persona ha diritto alle prestazioni familiari ai sensi della
legislazione dello Stato membro competente, anche per i familiari che risiedono in un altro
Stato membro, come se questi ultimi risiedessero nel primo Stato membro. Misure analoghe
figurano in questi giorni nel dibattito politico in Francia e nell’agenda del nuovo governo di
destra in Belgio.
Già il Lussemburgo aveva introdotto una regola restrittiva, per impedire l’esportabilità di
alcune prestazioni familiari nei casi in cui i figli non fossero residenti nel Granducato. Nel
2013 la Corte di giustizia dell’Unione europea ha ordinato marcia indietro (causa 20/12).
Nel Regno Unito, il Primo ministro David Cameron ha dato una svolta alla rubrica di
governo e non usa mezze misure contro il turismo sociale dei cittadini comunitari che
mettono a rischio il benessere britannico. Al punto che, fallite le procedure di richiamo
ufficiose, la Commissione europea ha deciso di deferire il Regno Unito alla Corte di
Giustizia europea. In violazione del diritto dell’Ue, questo Stato sottomette infatti i cittadini
Ue al cosiddetto right to reside test (test del diritto di residenza), anziché applicare loro la
condizione di “residenza abituale”, come per i cittadini briutannici. E questo, al solo ed
esplicito scopo di limitare il diritto dei cittadini di altri Stati membri ad alcune prestazioni
sociali, come ad esempio gli assegni familiari (Child benefit), il credito d'imposta per figli a
carico (Child tax credit), l’indennità di disoccupazione su base del reddito (Jobseeker’s
allowance income-based), il credito di pensione statale (State pension credit) e l’integrazione
salariale e di sostegno collegata al reddito (Employment and support allowance incomerelated)4.
È il Belgio comunque, in questo momento, il paese che sta attaccando in maniera più massiva
e sistematica il diritto alla libera circolazione. Tre categorie di persone sono particolarmente
prese di mira: i beneficiari del reddito d'integrazione (una misura di protezione sociale non
contributiva), i disoccupati come abbiamo visto nell’esempio citato in apertura dell’articolo,
e persino lavoratori dipendenti e a tempo pieno con contratto stipulato nel quadro del
cosiddetto Articolo 60, ossia una forma d'impiego istituita nel 1976 per persone considerate
difficilmente occupabili.
Nel loro insieme, questi cittadini rappresenterebbero un onere eccessivo per il sistema di
assistenza sociale del paese ospitante. La legislazione europea vincola, infatti, il diritto di
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residenza dei cittadini UE alla condizione di disporre di risorse economiche sufficienti
affinché non diventino un onere a carico dell'assistenza sociale dello Stato ospitante. Tutto
in regola, quindi? Non esattamente.
Oggi due fonti principali di diritto disciplinano il sistema all’interno dell’UE: la direttiva
2004/38 e il regolamento 883/2004.
La prima definisce una serie di regole in materia di diritto di soggiorno dei cittadini UE. Per
citarne soltanto alcune:
>
Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di soggiornare nel territorio di un altro Stato
membro per un periodo non superiore a tre mesi, senza alcuna condizione o formalità,
salvo l'obbligo di essere in possesso di una carta identità o un passaporto valido (art. 5.1)
>
Ogni lavoratore cittadino dell'Unione, subordinato o autonomo, ha il diritto di
soggiornare senza altra condizione che quella di essere appunto un lavoratore ai sensi
dell'interpretazione della Corte di giustizia dell'Unione europea (7.1)
>
I cittadini dell'Unione conservano la qualità di lavoratore, subordinato o autonomo, anche
se sono involontariamente disoccupati dopo 12 mesi di lavoro e se sono registrati come
persone in cerca di lavoro (7.3)
>
Le altre persone che non svolgono un'attività economica devono disporre di «risorse
sufficienti» e avere un'assicurazione malattia, per se stessi e per la loro famiglia, in modo
da non diventare un «onere eccessivo» per il sistema di assistenza sociale e sanitaria del
paese ospitante (14.1)
>
In casi specifici, qualora vi sia un dubbio ragionevole che il cittadino dell'Unione non
soddisfi le condizioni per il soggiorno, lo Stato membro d'accoglienza può effettuare una
verifica in tal senso. Tuttavia tale verifica non può essere effettuata “sistematicamente”
(14,2)
>
Un cittadino dell'Unione in cerca di lavoro non può essere allontanato finché è in grado di
dimostrare che continua a cercare un lavoro e che ha possibilità di essere occupato (14.4)
>
Ogni cittadino dell'Unione ha il medesimo diritto di beneficiare delle prestazioni di
assistenza sociale che i cittadini del paese ospitante (24). Il ricorso al sistema di
assistenza sociale non comporta automaticamente l'espulsione (14.3)
>
Dopo cinque anni, ogni cittadino dell'Unione che abbia soggiornato legalmente nel
territorio di un altro Stato membro ha il diritto di soggiorno permanente senza condizioni
(16.1)
>
Ogni cittadino dell'Unione residente sul territorio di un altro Stato membro gode della
parità di trattamento con i cittadini dello Stato ospitante. Questo beneficio si estende ai
suoi familiari, anche se non sono cittadini di uno Stato membro (art. 24).
Il regolamento 883/2004, a sua volta, ha lo scopo di evitare che il lavoratore migrante si trovi
– dal punto di vista previdenziale - in una situazione sfavorevole per il solo fatto di aver
lavorato in più stati membri. Alla base, il principio della totalizzazione dei periodi (art. 6), in
virtù del quale, per fare un esempio, se si è lavorato in Italia e in Belgio, e in quest'ultimo si
resta disoccupati, questo paese è obbligato a versare le prestazioni di disoccupazione tenendo
conto - senza eccezioni e senza restrizioni - dei periodi di lavoro salariato maturati in
entrambi gli stati membri.
Veniamo dunque a questi “turisti sociali” che stanno mettendo a dura prova le finanze di uno
dei paesi fondatori dell’Unione europea.
Per quanto riguarda i beneficiari del reddito d'integrazione, il ritiro del permesso di
soggiorno non può essere la conseguenza automatica del loro ricorso all'assistenza sociale
Osservatorio INCA CGIL per le politiche sociali in Europa
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(art. 14.3 della direttiva). Il paese ospitante è tenuto infatti a valutare la situazione personale
secondo un criterio di proporzionalità, tenuto conto della durata del soggiorno, delle
difficoltà temporanee e dell'importo delle prestazioni concesse. Nel caso del Belgio, le
numerose
testimononianze
raccolte
dalla
piattaforma
Eu
for
People
(http://euforpeople.altervista.org), che riunisce le associazioni che si battono contro le
espulsioni, mostrano invece come queste espulsioni siano quasi sempre il risultato di
provvedimenti sistematici ed automatici, che non entrano nel merito delle diverse e
specifiche situazioni personali.
Per quanto riguarda i disoccupati, è appoggiandosi sull’articolo 7,3 della direttiva sulla libera
circolazione che il Belgio pretende di poter automaticamente espellere tutti coloro che sono
disoccupati da 6 mesi consecutivi e che hanno lavorato meno di 12 mesi prima della
disoccupazione. Per fare questo, dal gennaio 2011 il governo ha messo in piedi un
meccanismo automatico che permette all’Ufficio degli stranieri di ricevere ogni trimestre i
dati a carattere personale dei cittadini che beneficiano di prestazioni sociali. Le delibere che
autorizzano ogni anno questi scambi afermano esplicitamente che l’Ufficio degli stranieri ha
bisogno di questi dati per identificare le persone al fine di decidere sul mantenimento del
loro diritto di soggiorno5. Questo è chiaramente proibito dalla direttiva 2004/38 (art. 14,2).
L'indennità di disoccupazione non è assistenza sociale. Al contrario, si tratta di un sistema
basato su principi assicurativi, in cui le persone contribuiscono in proporzione al loro reddito
e ricevono benefici proporzionali ai loro contributi. Ma c'è dell'altro. I lavoratori e le
lavoratrici colpiti da queste espulsioni hanno aperto il loro diritto all’assegno di
disoccupazione in virtù di contributi versati anche in altri paesi UE. Privarli del diritto di
soggiorno significa negare loro anche il diritto alla totalizzazione. L'espulsione provoca cioè
l'interruzione della storia contributiva della persona e di conseguenza la perdita dei suoi
diritti assicurativi, che non saranno recuperati nel paese d'origine né altrove. Utilizzando uno
spiraglio lasciato aperto da una direttiva, lo Stato belga entra quindi in rotta di collisione con
un diritto sancito da un regolamento europeo, che è immediatamente e interamente
obbligatorio dal momento della sua pubblicazione6.
Veniamo infine alle espulsioni di lavoratori. Il governo belga si giustifica prendendo a
pretesto il fatto che i contratti Articolo 60 siano in realtà posti di lavoro a scopo di
reinserzione, e non attività economiche reali ed effettive da cui far discendere lo status di
lavoratore. Questo ragionamento riflette una visione della società che, implicitamente,
gerarchizza le persone e le loro attività in funzione della loro posizione amministrativa, e
della presunta utilità economica che questa posizione assegna loro. La tesi secondo cui il
lavoratore occupato con un contratto sussidiato dallo Stato non possa essere considerato un
lavoratore è perfettamente contestabile alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia
dell'Unione europea. Inoltre, contraddice la stessa legge belga del 1976 sull'assistenza
sociale. Il Servizio pubblico federale per l'integrazione sociale spiega anche sul suo sito web
che il contratto di lavoro Articolo 60 è un contratto di lavoro subordinato classico. E il
contratto che i servizi sociali fanno firmare alle due parti, datore di lavoro e lavoratore, sono
in tutto e per tutto un contratto di lavoro, dove uno dei due firmatari vi figura, appunto, come
lavoratore.
E dunque, un lavoro sovvenzionato dallo Stato con finalità di reinserzione professionale può
non essere considerato un'attività economica reale ed effettiva? Fin dai primi anni ottanta il
Belgio, come tanti altri paesi europei, ha messo in piedi una pletora di contratti cosiddetti di
attivazione, come appunto Activa, Rosetta, PTP, ACS, ecc. Perché lo Stato continua a
finanziare queste misure se le ritiene prive di valore economico? Più concretamente, se il
lavoratore articolo 60 occupato in un ospedale, in una scuola di circo o in qualsiasi altro
servizio alla popolazione non esercita una vera e propria attività economica, dovremmo
pensare lo stesso di tutti i lavoratori del sociale, della cultura, dell'insegnamento?
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Il diritto alla libera circolazione è uno dei vantaggi più visibili e significativi per il singolo
cittadino dell'UE. 13 milioni di persone stanno esercitando ora questo diritto e vivono in un
altro stato membro.
Nessun paese sfugge a questo fenomeno. Anche chi vive in un paese che oggi è globalmente
e soprattutto d'immigrazione, ha conservato infatti l'istinto di fare le valigie, un momento o
l'altro della propria vita. Il numero di cittadini belgi residenti all'estero, per esempio, è
cresciuto del 25% in dieci anni, secondo i dati del Servizio federale degli affari esteri.
Combinando questi numeri con le statistiche delle Nazioni Unite e dei paesi di destinazione,
il numero di belgi stabilmente residenti all'estero viene stimato a più di 500.000. Gli italiani
residenti all’estero sono 10 volte di più, secondo i dati ufficiali.
Che facciamo, torniamo ognuno al proprio paese? È un fenomeno, dicevamo, che ci riguarda
tutti. Altre espulsioni e respingimenti –peggiori di questi - ci indignano e ci mobilitano, come
sindacato e come associazioni. Il termine espulsione associato oggi al destino di un cittadino
(o di una cittadina) europeo fa paura. Questa estensione delle politiche di espulsione potrebbe
domani colpire chiunque. Coloro che hanno già esercitato il loro diritto di circolare
liberamente in Europa, coloro che stanno per farlo, o che hanno un figlio o una figlia che
sicuramente lo farà: in quanto studenti, precari, disoccupati, lavoratori, pensionati, o
semplicemente motivati dal desiderio di cogliere queste opportunità che fino a ieri la
cittadinanza europea sembrava offrire.
Qualche cifra
Uno studio sulla mobilità internazionale dei lavoratori e sul suo impatto sui sistemi nazionali
di welfare, pubblicato a giugno da IZA World of Labor, mostra come le decisioni individuali
in materia di migrazione non vengono effettuate sulla base della relativa generosità delle
prestazioni sociali del paese ospitante. Anzi, pur di fronte a un rischio più elevato di povertà,
gli immigrati mostrano meno dipendenza dal welfare rispetto ai nativi. In sostanza, versano
nelle casse dello stato ospitante più di quanto ricevono. Anche quando gli immigrati si
trovano ad utilizzare il benessere più intensamente rispetto ai nativi, questo è principalmente
attribuibile alle differenze sociali tra immigrati e non immigrati, piuttosto che allo status di
immigrazione di per sé7.
Un dossier pubblicato il 25 settembre dalla Commissione europea dimostra, cifre alla mano,
che la mobilità della forza lavoro non è un costo per i paesi ospitanti8, ma lo è per quelli di
origine.
Nel 2013, poco più di 7 milioni di cittadini dell'Unione europea hanno lavorato e vissuto in
un paese dell'UE diverso dal proprio: il 3,3% dell'occupazione totale nell'UE. Se a questi
aggiungiamo i lavoratori frontalieri e transfrontalieri, ossia lavoratori che risiedono in un
paese ma lavorano in un altro e i lavoratori distaccati dal proprio datore di lavoro in un altro
stato membro dell’UE, arriviamo a circa 9,3 milioni di lavoratori: un po’ più del 4%
dell’occupazione totale nell’insieme dei 28 stati membri dell’Unione europea.
Ora, la causa principale della mobilità di questa forza di lavoro è di natura economica, e le
cifre mostrano come i flussi si dirigano principalmente laddove (e quando) c’è lavoro. Nel
2013, il tasso medio di attività dei cittadini europei residenti in un altro stato membro è stato
del 78% rispetto al 72% per i cittadini dei paesi ospitanti, e il loro tasso di occupazione del
68% contro il 64% dei cittadini nazionali. Questo semplicemente perché i lavoratori migranti,
o mobili come si preferisce nel gergo comunitario, sono anagraficamente più giovani ed
economicamente più attivi rispetto alla forza lavoro dei paesi ospitanti.
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Inoltre, tra i beneficiari di prestazioni sociali la presenza di stranieri è in realtà molto bassa:
meno dell'1% in Austria, Bulgaria, Estonia, Grecia, Malta e Portogallo, e tra l'1% e il 5% in
Germania, Finlandia, Francia, Paesi Bassi e Svezia (lo studio prendeva in conto soltanto 11
paesi). L’impatto sui bilanci nazionali di welfare è quindi davvero irrilevante. Sempre
secondo dati della Commissione europea, nel caso della spesa sanitaria nazionale è del 0,2%
in media.
Altri esempi di espulsioni di cittadini UE dal Belgio
Un’intera famiglia francese che viveva da tre anni a La Louviere è stata espulsa dal Belgio il
20 novembre 2012. L'Ufficio stranieri ha ritenuto che questa coppia con 4 figli non dispone
di mezzi di sussistenza sufficienti ed è quindi un onere eccessivo per il sistema di assistenza
sociale del regno. Il padre, Frank D. aveva perso il lavoro. Sua moglie, Stephanie C., stava
invece lavorando in una casa di cura. Era stata assunta a norma dell’Articolo 60.
Carlos, di nazionalità spagnola, lavorava a Bruxelles in un ospedale pubblico. Il 3 dicembre
2013 ha ricevuto un ordine di lasciare il territorio nonostante fosse in possesso di un regolare
titolo di soggiorno, valido 5 anni. Anche lui era stato assunto con un contratto Articolo 60
Una donna francese con tre figli ha ricevuto un ordine di lasciare il paese mentre lavorava
anche lei con un contratto a tempo pieno Articolo 60. In un giorno, la donna ha perso lavoro,
reddito e diritto di risiedere in Belgio, per sé e per i suoi tre bambini, e questo in pieno anno
scolastico.
Una giovane artista francese aveva ricevuto una sovvenzione pubblica come artista
particolarmente promettente, ma, nonostante i suoi sforzi, è dovuta tornare nel suo paese,
perché colpita dal decreto di espulsione.
Christine, 47 anni, vive in Belgio da 30 anni e convive con un cittadino belga. È stata espulsa
perché i suoi redditi e quelli del suo partner derivano dall'assistenza sociale. Secondo
l'Ufficio per gli stranieri, anche se la signora e il suo compagno dovessero sposarsi, per
restare in Belgio la signora deve avere un reddito stabile, poiché da settembre 2013 il
reddito d'integrazione non è più sufficiente per il ricongiungimento familiare.
Un caso che ha attirato l’attenzione dei media è quello di Silvia Guerra, una musicista
italiana di 39 anni che nel 2010 si è stabilita a Saint-Gilles, in Belgio, con suo figlio, nato nel
2006 a Carcassonne, in Francia. Dal 1 dicembre 2012 Silvia lavorava come artista presso una
scuola di circo, con un contratto di lavoro a tempo pieno di tre anni, anche questo a norma
del più volte citato Articolo 60. Il 20 novembre 2013 a Silvia, e a suo figlio, è stato notificato
l’ordine di lasciare il territorio. I servizi sociali le avevano fatto firmare un documento con il
quale “di comune accordo” il suo contratto di lavoro veniva sospeso. Silvia ha presentato
ricorso ma il Tribunale non si è ancora pronunciato.
Ugualmente noto, e ancor più paradossale, il caso di Willem Groenewegen, poeta e traduttore
olandese, titolare da 13 anni di una ditta individuale di traduzioni, stabilitosi ad Anversa a
febbraio 2013. Durante un controllo cosiddetto di routine, un agente di polizia lo ha invitato a
presentarsi al Comune per regolarizzare la sua posizione, e così ha fatto. Dopo 3 mesi, gli è
stato comunicato che le informazioni raccolte erano insufficienti (questo si sarebbe poi
rivelato essere il cosiddetto lavoro d’inchiesta). Dopo aver presentato al Comune circa 50
documenti, il 19 agosto 2013 gli è stato comunicato l'ordine di lasciare il territorio belga,
adducendo come motivo che, non potendo dimostrare sufficienti risorse per vivere, avrebbe
potuto, in via teorica, chiedere un sussidio. W.G. ha presentato ricorso contro il decreto di
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allontanamento, ma il Tribunale di Anversa non gli ha dato ragione, adducendo come motivo
che il signor Groenewegen non ha fornito prove sufficienti del fatto che, in futuro, non farà
ricorso all’assistenza sociale. E a marzo 2014 questo cittadino olandese ha ricevuto un
nuovo ordine di allontanamento dal Belgio.
Note
1
L’Italia non è infatti l’ultimo paese di lavoro, né vi sono gli estremi per l’indennità di disoccupazione speciale
per i lavoratori italiani rimpatriati, essendo trascorsi più di 180 giorni dalla cessazione del rapporto di lavoro. Il
Belgio, da parte sua, interrompe l’erogazione del sussidio di disoccupazione per il venir meno del requisito di
residenza.
2
http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-13-122_it.htm
3
www.osservatorioinca.org/section/image/attach/ESPULSIONI.pdf
4
http://europa.eu/rapid/press-release_IP-13-475_en.htm
5
Vedi, ad esempio: Délibération du Comité sectoriel de la sécurité sociale et de la santé n° 13/051, du 7 mai
2013 (http://bit.ly/1t6JttU)
6
Nel diritto dell'UE, una direttiva ha bisogno, per essere applicabile, di una legge nazionale di recepimento. Un
regolamento, invece, è direttamente obbligatorio e non può che applicarsi immediatamente, e nella sua
totalità.
7
Giulietti C., The welfare magnet hypothesis and the welfare take-up of migrants, IZA World of Labor 201
8
http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-14-541_en.pdf
Per saperne di più :
Carlo CALDARINI
INCA CGIL
Osservatorio per le politiche sociali in Europa
[email protected]
Rue de la Loi, 26/20
B-1040 Bruxelles
Osservatorio INCA CGIL per le politiche sociali in Europa
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