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Cedam - Le nuove leggi civili commentate di Cian Giorgio, Maffei

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Cedam - Le nuove leggi civili commentate di Cian Giorgio, Maffei
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
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ISSN 0391-3740
RIVISTA BIMESTRALE
a cura di
GIORGIO CIAN
ALBERTO MAFFEI ALBERTI
PIERO SCHLESINGER
2015
LE NUOVE
LEGGI CIVILI
COMMENTATE
Direzione:
G. BALENA
M. CAMPOBASSO
M. CIAN
G. DE CRISTOFARO
M. DE CRISTOFARO
F. DELFINI
G. GUERRIERI
M. MELI
S. MENCHINI
E. MINERVINI
S. PAGLIANTINI
D. SARTI
Il trasferimento dei servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15, conv. l. n. 33/15)
Cancellazione dal registro delle imprese:
profili societari (d.lgs. n. 175/14)
Cancellazione della società: profili tributari
(d.lgs. n. 175/14)
Divorzio breve (l. n. 55/15)
Certificato successorio europeo (l. n. 161/14)
Attribuzione fiduciaria
Overruling in materia processuale
Redattore capo:
A. FINESSI
Consumer Rights Directive, Consumer Sales
and English Law
www.edicolaprofessionale.com/NLC
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
La Direzione ha sede presso lo STUDIO SCHLESINGER, via Mozart, 21
- Tel. (02) 76.000.052 - 20122 Milano.
La Redazione ha sede presso il DIPARTIMENTO DI GIURISPRUDENZA
dell’Università di Ferrara, Corso Ercole I d’Este, 37 - 44100 Ferrara - Tel. e
Fax 0532.455.957 - E-mail: [email protected].
Curatori:
G. CIAN - A. MAFFEI ALBERTI - P. SCHLESINGER
Direzione:
G. BALENA - M. CAMPOBASSO - M. CIAN - G. DE CRISTOFARO - M. DE CRISTOFARO - F. DELFINI- G. GUERRIERI - M. MELI - S. MENCHINI - E. MINERVINI - S.
PAGLIANTINI - D. SARTI
Comitato scientifico:
P. AUTERI - C.M. BIANCA - E. BOCCHINI- F.D. BUSNELLI - G. CAIA - S. CASSESE G. COTTINO - R. DE LUCA TAMAJO - A. DI PIETRO - G. FALCON - P. FILIPPI - N.
IRTI - M. LIBERTINI - N. LIPARI - P. MARCHETTI - M. PERSIANI - P. RESCIGNO - G.
SANTORO PASSARELLI - A. TRAVI - T. TREU - A. ZACCARIA
Comitato per la valutazione scientifica:
S. BARIATTI - F. BARACHINI - P. BIAVATI - M. BOVE - G. CAPO - A. CETRA - S.
CHIARLONI - A. CHIZZINI - C. CONSOLO - L. COSTATO - V. CUFFARO - E. DEL
PRATO - S. DELLE MONACHE - D. MAFFEIS - L. DI NELLA - E. GABRIELLI - E.
GINEVRA - A. GORASSINI - A. JANNARELLI - F.P. LUISO - M. MAGGIOLO - M.
MANTOVANI - S. MONTICELLI - G. PALMIERI - M. PENNASILICO - A. PLAIA - D.
POLETTI - M. RESCIGNO - M. RICOLFI - R. SACCHI - F. SALERNO - P. SANFILIPPO
- M. SCIUTO - C. SCOGNAMIGLIO - M. SPERANZIN - M. SPOLIDORO - L.C. UBERTAZZI - G. VERDE - R. VIGO
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
N. 6
ANNO XXXVIII
NOVEMBRE-DICEMBRE 2015
LE NUOVE
LEGGI CIVILI
COMMENTATE
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Referaggio - Norme di autodisciplina
1. I contributi inviati alla Rivista per la pubblicazione vengono vagliati e approvati dalla Direzione, e successivamente sottoposti alla valutazione di un
componente del Comitato per la valutazione scientifica scelto volta per volta
dalla Direzione in considerazione delle sue competenze settoriali.
2. Il contributo trasmesso ai valutatori non reca l’indicazione dell’identità dell’Autore.
3. L’identità dei valutatori è coperta da anonimato.
4. Ove il valutatore, nel formulare il giudizio, suggerisca integrazioni o modifiche al contributo che gli viene sottoposto, la Direzione ne autorizza la
pubblicazione previa verifica dell’adeguamento alle indicazioni fornite.
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
LE NUOVE
LEGGI CIVILI
COMMENTATE
ANNO XXXVIII
2015
RIVISTA BIMESTRALE
a cura di
Giorgio Cian
Alberto Maffei Alberti
Piero Schlesinger
Università di Padova
Università di Bologna
Università Cattolica di Milano
Direzione
Giampiero Balena
Mario Campobasso
Marco Cian
Giovanni De Cristofaro
Marco De Cristofaro
Francesco Delfini
Gianluca Guerrieri
Marisa Meli
Sergio Menchini
Enrico Minervini
Stefano Pagliantini
Davide Sarti
Ord. dell’Università di Bari
Ord. della Seconda Univ. di Napoli
Ord. dell’Università di Padova
Ord. dell’Università di Ferrara
Ord. dell’Università di Padova
Ord. dell’Università di Milano
Ass. dell’Università di Bologna
Ord. dell’Università di Catania
Ord. dell’Università di Pisa
Ord. della Seconda Univ. di Napoli
Ord. dell’Università di Siena
Ord. dell’Università di Ferrara
Redazione
Arianna Finessi (Redattore capo)
Sara Bellettato, Marcello Farneti, Cristiana Fioravanti,
Francesco Oliviero, Silvia Schiavo, Omar Vanin
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Indice - Sommario del fascicolo VI
Le nuove leggi
Il trasferimento dei servizi di pagamento (d.l. 24 gennaio 2015, n. 3,
convertito dalla l. 24 marzo 2015, n. 33)
di Giovanni Barillà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1031
La cancellazione dal registro delle imprese dopo il c.d. decreto
« semplificazioni »: profili societari (art. 28 d.lgs. 21 novembre
2014, n. 175)
di Marco Speranzin . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1040
La cancellazione della società dopo il c.d. decreto « semplificazioni »: profili tributari (art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175)
di Gianpiero Porcaro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1050
La nuova normativa sul divorzio breve: analisi della disciplina e
aspetti problematici (l. 6 maggio 2015, n. 55; d.l. 12 settembre 2014,
n. 132, convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162)
di Francesca Tizi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1079
Certificato successorio europeo e autorità di rilascio italiana (art.
32 l. 30 ottobre 2014, n. 161)
di Fabio Padovini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1099
NLCC 6-2015
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VI
Indice-sommario del fascicolo VI
Saggi e approfondimenti
Intermediazione di società fiduciaria nella prestazione di credito al
fiduciante e art. 70, comma 1o, l. fall.
di Stefano Boatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1105
Overruling in materia processuale e principio del giusto processo
di Silvia Turatto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1149
Legislazione straniera
The Consumer Rights Directive, Consumer Sales and English Law.
The fear of coherence?
di Christian Twigg-Flesner . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1185
Indici annuali 2015
Indice analitico-alfabetico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1205
Indice cronologico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1209
Indice numerico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1210
Indice degli autori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1211
Indice-Sommario dei provvedimenti commentati. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1212
NLCC 6-2015
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
IL TRASFERIMENTO DEI SERVIZI
DI PAGAMENTO [,]
(d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito dalla l. 24 marzo 2015, n. 33)
di
Giovanni Barillà
(Ricercatore nell’Università di Bologna)
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Oggetto della portabilità. – 3. La procedura di trasferimento. – 4. Semplificazioni procedurali. – 5. Gratuità del trasferimento. – 6. Sanzioni. –
7. Estensione della disciplina agli strumenti finanziari in deposito titoli. – 8. Effetti sull’assetto concorrenziale del mercato.
Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
1. Introduzione.
La Camera dei deputati ha approvato in via definitiva, con l. 24 marzo
2015, n. 33 ( 1 ), le « Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti ». Questo provvedimento, che converte in legge il d.l. 24 gennaio
2015, n. 3 ( 2 ) meglio noto come « decreto banche popolari », contiene in
realtà anche altre importanti norme concernenti i servizi di pagamento. Si
tratta in particolare degli artt. 2 e 2 bis, rispettivamente rubricati « Norme
sul trasferimento dei servizi di pagamento connessi al rapporto di conto di
pagamento » e « Attuazione dell’articolo 11 della direttiva 2014/92/UE
del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 luglio 2014, in materia di
agevolazione dell’apertura di un conto transfrontaliero da parte dei consumatori ».
La disciplina uniforme dei servizi di pagamento è stata introdotta a livello comunitario dalla dir. 2007/64/CE (Psd: Payment Service Directive)
successivamente trasposta in Italia mediante il d.lgs. 27 gennaio 2010, n.
11 ( 3 ), ma essa non si occupava dei trasferimenti dei servizi di pagamento.
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) G.U. 25 marzo 2015, n. 70, s.o. n. 15.
( 2 ) G.U. 24 gennaio 2015, n. 19.
( 3 ) G.U. 13 febbraio 2010, n. 36, s.o. n. 29/L. Il testo si trova in Banca, borsa, tit. cred.,
2010, I, p. 347 ss., con commento di V. Santoro e Sciarrone Alibrandi, La nuova disciplina dei servizi di pagamento dopo il recepimento della direttiva 2007/64/CE (d.lgs. 27
gennaio 2010, n. 11); per un quadro generale in materia di servizi di pagamento cfr. pure
Rispoli Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi e Troiano (a cura di), Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/CE, Milano, 2009,
nonché O. Troiano, voce Contratto di pagamento, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2012, p.
392 ss. e spec. 395 ss.; ancora, recentemente, v. anche Aa.Vv., La nuova disciplina dei servizi di pagamento. Commento al d. lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, a cura di Mancini, Rispoli
Farina, Santoro, Sciarrone Alibrandi e Troiano, Torino, 2011; per il commento all’art. 2,
commi 1o e 2o, relativi all’ambito di applicazione della disciplina, cfr. V. Santoro, ivi, 41
ss. Da ultimo si segnala, sul più generale tema della moneta, ma con vari contributi dedicati ai servizi di pagamento, il Quaderno monografico La moneta ai tempi di Internet. Dove
si tufferà zio Paperone?, Age, 1/2015, a cura di Morera, Olivieri, Sciarrone Alibrandi. Di
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Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
Le nuove leggi
Ecco quindi che la lacuna è stata colmata. Come anticipato, l’art. 2 del d.l.
n. 3/15, convertito con l. n. 33/15, disciplina il trasferimento di servizi di
pagamento connessi al rapporto di conto di pagamento. La novella legislativa introduce un termine inderogabile di dodici giorni lavorativi entro il
quale il prestatore di servizi di pagamento ricevente è tenuto a dare esecuzione al trasferimento ( 4 ). In presenza, invece, di un deposito titoli, la tempistica per il trasferimento di strumenti finanziari dovrà essere definita dal
decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze che sarà adottato nel
volgere di quattro mesi a far data dal giorno di entrata in vigore della legge di conversione ( 5 ).
In ordine alla semplificazione procedurale, le nuove disposizioni prevedono che il prestatore di servizi di pagamento ricevente dovrà provvedere
direttamente all’esecuzione del servizio di trasferimento: questi, infatti, è
responsabile dell’avvio e della gestione della procedura per conto del
cliente ( 6 ).
Il trasferimento di servizi di pagamento dovrà essere eseguito gratuitamente da parte del prestatore di servizi di pagamento trasferente e ricevente: entrambi, infatti, dovranno astenersi dall’addebitare costi o spese al
cliente. Analoga disposizione è prevista per il trasferimento di strumenti
finanziari in giacenza presso un deposito titoli che dovrà avvenire senza
oneri o spese per il cliente ( 7 ).
Ove non siano rispettate le modalità e i termini per il trasferimento di
servizi di pagamento oggetto della novella legislativa in parola, potrà essere applicata una sanzione amministrativa pecuniaria, il cui importo, prima
di una ulteriore novella legislativa, era originariamente compreso tra i
5.160 e 64.555 euro, nei confronti di coloro che svolgono funzioni di amministrazione o di direzione o anche nei confronti dei dipendenti del prestatore di servizi di pagamento ( 8 ). Inoltre, il cliente avrà il diritto di ricevere dal prestatore di servizi di pagamento un indennizzo proporzionale al
ritardo del trasferimento e alla disponibilità sul conto di pagamento ( 9 ).
La disciplina in esame introduce novità di assoluto rilievo in materia di
notevole interesse, sia pure per un panorama rivolto all’operazione di pagamento nella sua
ottica procedimentale, è lo studio di De Stasio, Operazione di pagamento non autorizzata e
restituzioni, Milano, 2013. All’istituto dell’addebito diretto è dedicato il volume di Barillà, L’addebito diretto, Milano, 2014.
( 4 ) Art. 2, comma 5o.
( 5 ) Art. 2, commi 15o e 18o.
( 6 ) Art. 2, comma 8o.
( 7 ) Art. 2, commi 11o, 13o e 18o.
( 8 ) Art. 2, comma 9o. In realtà, il d.lgs. 12 maggio 2015, n. 72, in G.U. n. 134 del 12 giugno 2015, recante titolo « Attuazione della direttiva 2013/36/UE, che modifica la direttiva
2002/87/CE e abroga le direttive 2006/48/CE e 2006/49/CE, per quanto concerne l’accesso all’attività degli enti creditizi e la vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese
di investimento. Modifiche al decreto legislativo 1o settembre 1993, n. 385 e al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 », ha abrogato la norma di cui al comma 3 bis dell’art. 144
t.u.b., che disciplinava appunto le sanzioni richiamate nel testo. Il richiamo operato dall’art. 2, comma 9o, che qui si commenta, deve essere ora inteso all’art. 144, a sua volta modificato dal già citato d.lgs. n. 72 del 2015, e all’art. 144 ter, aggiunto dal provvedimento in
questione.
( 9 ) Art. 2, comma 16o.
NLCC 6-2015
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Le nuove leggi
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conti correnti e di investimenti che avranno un impatto notevole sul mercato. Essa recepisce nell’ordinamento italiano le disposizioni dell’articolo
10 della dir. 2014/92/UE, la quale è stata adottata al fine di facilitare la
trasparenza e il confronto delle spese connesse ai conti di pagamento ed al
fine di facilitare il trasferimento di conti di pagamento e l’accesso ai conti
di pagamento con caratteristiche di base ( 10 ). La normativa italiana persegue finalità analoghe a quelle previste dalla normativa europea, ancorché
esse prevedano regole parzialmente divergenti. La disciplina in esame si
colloca nell’alveo degli interventi legislativi realizzati al fine di tutelare la
concorrenza e i diritti dei consumatori nell’ambito dei contratti bancari.
Sebbene la dottrina ed i commentatori si siano concentrati principalmente sulla riforma delle banche popolari approvata con il medesimo
provvedimento e non abbiano riservato particolari attenzioni alla disciplina della portabilità dei conti correnti, sarà utile ripercorrerne i tratti così
da evidenziarne maggiormente pregi e difetti, con particolare riferimento
alla sua portata applicativa.
Anzitutto è utile rilevare in premessa che la direttiva europea e, successivamente, il legislatore nazionale, si sono riferiti indistintamente al trasferimento di servizi di pagamento connessi al rapporto di conto di pagamento, sia esso gestito da una banca ovvero da un istituto di pagamento,
che assurge quindi alla stessa dignità degli istituti di credito ( 11 ).
Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
2. Oggetto della portabilità.
Al n. 18) del par. 2 della dir. 2014/92/UE, la portabilità – tecnicamente,
il « servizio di trasferimento » – viene definita come il « trasferimento, su
( 10 ) La direttiva in questione, sulla falsariga della Psd, presenta un elenco di definizioni
contenuto all’art. 2. È singolare che il legislatore europeo abbia deciso di dare, assieme a
quella dell’addebito diretto (la cui definizione peraltro era già contenuta nella Psd e ora è
in parte diversa), anche quella del bonifico, servizio di pagamento quest’ultimo che non
trovava una sua specifica definizione nella dir. 2007/64/CE. Per evitare sovrapposizioni, il
legislatore nazionale ha giustamente inserito la norma di cui al comma 7o dell’art. 2, che
opera un rinvio all’art. 1 del d.lgs. n. 11/2010, norma questa che si occupa di dare le definizioni di tutto l’ambito relativo alla Sepa.
( 11 ) V. già V. Santoro, I servizi di pagamento, in Ianus, n. 6, 2012, e Id., I conti di pagamento negli istituti di pagamento, ne Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di
pagamento. Prime riflessioni, a cura di Mancini e Perassi, Quaderni di ricerca giuridica della Consulenza legale della Banca d’Italia, n. 63, 2008, p. 23 ss. e spec. 33, ove l’A. rimarca
il connotato funzionale del contratto di conto di pagamento rispetto a quello di conto corrente; per un aggiornamento Id., voce Istituti di pagamento, in Enc. dir., Annali, VI, 2013,
p. 353 ss. Per l’applicabilità della disciplina dei conti di pagamento al conto corrente bancario, v. Mirone, Sistema e sottosistemi nella nuova disciplina della trasparenza bancaria, in
Banca, borsa, tit. cred., 2014, I, p. 396. Il modulo indicato dall’ABI, nella Circolare Serie
Tecnica n. 11 del 18 giugno 2015, che dovrà essere compilato dal consumatore per il trasferimento del servizio, ha cura di precisare che con « conto di pagamento » si intende un
« conto intrattenuto presso un prestatore di servizi di pagamento per l’esecuzione di operazioni di pagamento. Il trasferimento di servizi di pagamento attivati su carte prepagate o
su conti di deposito a risparmio nominativo dotati di IBAN non è eseguito mediante le
modalità operative previste dal presente modulo, ferma rimanendo la possibilità di effettuare il trasferimento con modalità alternative e con il supporto dei Prestatori di Servizi di
Pagamento ».
NLCC 6-2015
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Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
Le nuove leggi
richiesta del consumatore, da un prestatore di servizi di pagamento ad un altro, delle informazioni su tutti o alcuni ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e bonifici in entrata ricorrenti eseguiti sul conto di pagamento o il trasferimento dell’eventuale saldo positivo da un conto di pagamento all’altro, o entrambi, con o senza la chiusura del precedente conto di
pagamento »: l’art. 2, comma 2o, d.l. n. 3/15, convertito in l. n. 33/15, recependo questo testo, lo ha leggermente modificato nella parte in cui non
fa più semplicemente riferimento al trasferimento « da un conto di pagamento all’altro », bensì ha cura di specificare che il trasferimento dell’eventuale saldo positivo si effettua « da un conto di pagamento di origine a un conto di pagamento di destinazione ».
Secondo il legislatore comunitario, la portabilità deve intendersi anzitutto destinata ad operare esclusivamente in favore dei consumatori e, sotto
il profilo oggettivo, limitata a ordini permanenti di bonifico, addebiti diretti ricorrenti e accrediti con bonifico o in alternativa, o anche congiuntamente ai primi qualora il correntista ne faccia richiesta, al saldo attivo
del conto; ogni altro rapporto e servizio a esso collegato è dunque escluso.
Oggetto della portabilità non è quindi il conto di pagamento tout court,
bensì solamente alcune delle operazioni di pagamento che vi si ricollegano.
3. La procedura di trasferimento.
Il trasferimento del conto di pagamento è disciplinato dall’art. 2, commi
4o ss. In particolare, il termine iniziale della procedura viene fissato con il
ricevimento, da parte dell’istituto originario, dell’autorizzazione al trasferimento impartita dal correntista (in caso di cointestazione, l’autorizzazione deve essere fornita da tutti i cointestatari). Con essa, si legge, il correntista deve essere messo in condizioni di identificare specificamente i bonifici in entrata, gli ordini permanenti di bonifico e gli ordini relativi ad addebiti diretti che devono essere trasferiti, nonché di precisare la data a
partire dalla quale gli ordini permanenti di bonifico e gli addebiti diretti
devono essere eseguiti dal conto di pagamento aperto o detenuto presso il
prestatore di servizi destinatario (tale data è fissata ad almeno sei giorni lavorativi a decorrere dalla data in cui il prestatore di servizi ricevente acquisisce i documenti trasferiti dal prestatore di servizi trasferente).
Successivamente, entro due giorni lavorativi dal ricevimento dell’autorizzazione del cliente, l’istituto ricevente deve inoltrare a quello trasferente la richiesta di trasferimento e, in particolare, eseguire le seguenti operazioni (nella misura in cui siano state previste nell’autorizzazione ricevuta):
a) trasmettere all’istituto ricevente e, se chiesto dal cliente, anche a
quest’ultimo: l’elenco degli ordini permanenti in essere relativi a bonifici e
le informazioni disponibili sugli ordini di addebito diretto che vengono
trasferiti, nonché le informazioni disponibili sui bonifici ricorrenti in entrata e sugli addebiti diretti ordinati dal creditore eseguiti sul conto di pagamento del consumatore nei precedenti tredici mesi;
b) cessare l’accettazione degli addebiti diretti e i bonifici in entrata
con effetto a decorrere dalla data specificata nell’autorizzazione, nei casi
NLCC 6-2015
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Le nuove leggi
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in cui l’istituto originario non fornisca un sistema di reindirizzamento automatico dei bonifici in entrata e degli addebiti diretti verso il conto di pagamento detenuto dal cliente presso l’istituto ricevente ( 12 );
c) annullare gli ordini permanenti con effetto a decorrere dalla data
specificata nell’autorizzazione;
d) trasferire l’eventuale saldo attivo sul conto aperto o detenuto dal
cliente presso l’istituto ricevente alla data indicata dal correntista e quindi
chiudere il conto.
È opportuno notare che secondo il tenore letterale della norma, ai fini
del trasferimento del conto (o meglio, delle operazioni di pagamento per
le quali il trasferimento stesso sia previsto e disciplinato), non è richiesta
l’apertura di un nuovo conto presso il prestatore di servizi di pagamento
ricevente, potendo il consumatore anche appoggiarsi a uno già detenuto
presso di esso.
Il prestatore di servizi di pagamento trasferente deve da parte propria
concludere le operazioni di cui alla lett. a) che precede entro cinque giorni
lavorativi dal ricevimento della relativa richiesta, mentre le altre devono
essere portate a termine nel rispetto delle prescrizioni temporali impartite
dal correntista con l’autorizzazione al trasferimento; in ogni caso, ai fini
della chiusura del conto, il cliente non deve avere obblighi pendenti su di
esso e devono essere state portate a termine le operazioni prodromiche di
cui sopra.
L’inderogabilità del termine di dodici giorni per il trasferimento di servizi di pagamento tutela in maniera molto decisa la posizione dei consumatori, in quanto preclude la possibilità di differire il completamento della procedura di trasferimento oltre tale termine.
Il termine previsto sembra essere particolarmente rigoroso, tenute anche in considerazioni le disposizioni della dir. 2014/92/EU e le indicazioni dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, la quale raccomandava un termine di quindici giorni ( 13 ). Il termine entro il quale il trasferimento deve essere eseguito è stato definito a seguito di un processo di
bilanciamento tra due interessi o esigenze tra loro contrastanti: da un lato
i consumatori hanno l’interesse ad ottenere il trasferimento dei servizi nella maniera più rapida possibile, dall’altro lato i prestatori di servizi hanno
l’esigenza di rispettare le loro procedure e tempistiche interne: pertanto, il
termine per il trasferimento dovrà essere il più breve possibile tenendo
però in considerazione le necessità organizzative ed operative dei prestatori di servizi. A valle di tale processo di bilanciamento, il legislatore italiano ha fissato appunto un termine di dodici giorni.
Al fine di valutare l’adeguatezza del termine entro il quale il trasferimen-
Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
( 12 ) La menzione del sistema di reindirizzamento automatico viene fatta esplicitamente
solo nel testo della dir. 2014/92, laddove il legislatore interno ne ha omesso il richiamo
specifico, dovendosi intendere comunque prevista la possibilità di tale strumento, nel momento in cui il consumatore scelga di non chiedere al prestatore di servizi trasferente di
cessare l’accettazione di tutti i bonifici e degli addebiti diretti in entrata, con effetto a decorrere dalla data della domanda di autorizzazione.
( 13 ) Cfr. « Proposte di Riforma concorrenziale ai fini della Legge Annuale per il Mercato e
la concorrenza anno 2014 » pubblicato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il 4 luglio 2014.
NLCC 6-2015
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
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Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
Le nuove leggi
to deve essere eseguito, un parametro utilizzabile è rappresentato dalla
prassi di mercato precedente alla riforma ( 14 ). Come si evince dalla prassi,
le tempistiche per la chiusura di conti correnti variano in maniera significativa a seconda dei servizi ad essi associati, tra i quali, a titolo esemplificativo, le carte bancomat, le carte di credito, il Telepass e le domiciliazioni
delle utenze: le tempistiche medie variano dai sei ai quattordici giorni lavorativi mentre le tempistiche massime variano da ventitré ai trentasette
giorni lavorativi. Il termine di dodici giorni fissato dal legislatore sostanzialmente comporta l’obbligo per i prestatori di servizi di adeguarsi alle
tempistiche medie del mercato e cerca di prevenire lungaggini abnormi
per la chiusura di conti correnti. Alla luce di quanto esposto, il termine di
dodici giorni fissato dal legislatore non sembra comportare oneri eccessivamente gravosi per i prestatori di servizi i quali, al fine di adeguarsi al
dettato normativo, dovranno affrontare difficoltà organizzative ed operative certamente superabili ( 15 ).
4. Semplificazioni procedurali.
Le semplificazioni procedurali comportano importanti benefici per i
consumatori e contribuiscono a garantire la loro libertà di scelta e di autodeterminazione. I consumatori, infatti, dopo aver sottoscritto e rilasciato il modulo di autorizzazione al prestatore di servizi ricevente, non dovranno prodigarsi ulteriormente al fine di ottenere il trasferimento: il prestatore di servizi ricevente sarà tenuto a gestire la procedura e ad eseguire
il trasferimento nei termini di legge.
La procedura interbancaria imposta dalla novella normativa implica una
duplicità di conseguenze positive per i consumatori. In primo luogo, i
consumatori non dovranno rivolgersi al prestatore di servizi trasferente
per richiedere il trasferimento dei servizi di pagamento, evitando così di
dare spiegazioni per la loro decisione e/o di essere destinatari di tentativi
di dissuasione da parte dei funzionari del prestatore di servizi trasferente.
In secondo luogo, l’esecuzione del trasferimento di servizi di pagamento
in maniera celere è assicurata dalla disposizione che indica come responsabile della procedura il prestatore di servizi ricevente il quale sarà incen-
( 14 ) Cfr. « Indagine conoscitiva sui costi dei conti correnti bancari » pubblicato dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato il 24 luglio 2013.
( 15 ) Nei moduli predisposti in base alle linee guida dell’ABI, Circolare Serie Tecnica n.
11 del 18 giugno 2015, cit., è richiesto al cliente di indicare la data di efficacia del trasferimento, con la notazione che « tale data è quella in cui ha effetto sul “nuovo conto” la presente richiesta di trasferimento. Essa è pari al 13o giorno lavorativo successivo al giorno in
cui il PSP Nuovo riceve questa richiesta. Il Cliente può indicare una “data di efficacia” diversa, purché successiva al 13o giorno lavorativo dalla data in cui il “PSP Nuovo” riceve
questa richiesta ». L’art. 2, comma 6o, lett. c) prevede in realtà che la data a partire dalla
quale gli ordini permanenti di bonifico e gli addebiti diretti debbano essere eseguiti o addebitati a valere sul conto di pagamento di destinazione sia di almeno sei giorni lavorativi a
decorrere dal giorno in cui il prestatore di servizi di pagamento ricevente riceva i documenti trasferiti dal prestatore di servizi di pagamento trasferente. Il dubbio che si pone è
se tali termini siano da considerarsi inderogabili, nulla disponendo il legislatore in merito.
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Le nuove leggi
1037
tivato a completare il trasferimento quanto prima ( 16 ); tuttavia tale potenziale beneficio potrebbe essere vanificato dall’assenza di incentivi a cooperare per il prestatore di servizi trasferente, pur nel rispetto dei termini
di legge la cui violazione darebbe luogo a sanzioni.
5. Gratuità del trasferimento.
La gratuità del trasferimento di servizi di pagamento e di investimenti è
uno degli elementi più caratterizzanti la novella normativa. A più riprese il
legislatore si premura di sottolineare che il prestatore di servizi trasferente
e ricevente dovranno astenersi dall’addebitare ai consumatori spese ed
oneri. Affinché la mobilità della clientela bancaria e la portabilità dei servizi di pagamento e di investimento siano effettive, è necessario che i consumatori non vengano disincentivati dall’imposizione di oneri e spese a loro carico. Detto ciò, è opportuno osservare che l’obbligo di non addebitare ai consumatori costi per il trasferimento dei servizi non preclude la possibilità per i prestatori di addebitargli oneri non direttamente associati al
trasferimento dei servizi che comunque potrebbero compromettere la libertà di scelta dei consumatori. È, pertanto, auspicabile un’attenta vigilanza da parte delle autorità competenti al fine di evitare surrettizie imposizioni di oneri e spese volte ad eludere la normativa in esame ed a frustrarne la ratio.
Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
conv. dalla l. n. 33/15)
6. Sanzioni.
Le conseguenze che possono derivare dalla violazione delle modalità e
dei termini previsti dalla disciplina de qua possono essere distinte in sanzioni di natura amministrativa ed obblighi di indennizzo. Dette norme sono state dettate al fine di prevenire condotte dei prestatori di servizi di pagamento che possano ledere gli interessi dei consumatori e, pertanto, è essenziale che esse abbiano una sufficiente capacità dissuasiva. È facile osservare che le violazioni delle norme sul trasferimento dei servizi di pagamento, a fini sanzionatori, sono disciplinate alla stregua delle violazioni
delle norme in materia di pubblicità, di obblighi precontrattuali ed informativi di cui agli artt. 116, 123, 124, 126 quater e 126 novies, comma 3o,
( 16 ) Il fac-simile di comunicazione per dar conto al cliente dell’esito della procedura di
trasferimento, redatta in base alle linee guida della già citata Circolare ABI, prevede che il
nuovo prestatore di servizi di pagamento debba trasmettere « tempestivamente » al cliente
il dettaglio delle informazioni relative agli ordini di bonifico permanenti trasferiti sul nuovo conto nonché evidenza di eventuali ordini di bonifico permanente non identificati dal
prestatore di servizi originario sulla base delle informazioni fornite dal cliente (ipotesi prevista solo in caso di trasferimento parziale); nel caso di trasferimento degli ordini di addebito diretto, viene fornito il dettaglio delle informazioni relative agli ordini trasferiti sul
nuovo conto nonché evidenza di eventuali addebiti diretti non trasferibili in quanto riferiti
a posizioni non identificate dal prestatore di servizi di pagamento originario (possibile solo
nel caso richiesta di trasferimento parziale) o a posizioni per le quali sussistono accordi tra
cliente e beneficiario.
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Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
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t.u.b., le quali sono caratterizzate da un grado analogo di disvalore. Il prestatore di servizi, oltre ad essere tenuto al pagamento delle sanzioni pecuniarie di cui sopra, è obbligato ad indennizzare i consumatori in misura
proporzionale al ritardo del trasferimento e alla disponibilità sul conto pagamenti. L’indennizzo sarà automatico, quindi non vi sarà la necessità di
avviare un contenzioso con il prestatore di servizi di pagamento. La norma non chiarisce chi tra il prestatore di servizi ricevente e il prestatore di
servizi trasferente dovrà indennizzare i consumatori: in assenza di indicazioni, si deve ritenere che entrambi, in caso di violazione delle rispettive
obbligazioni, saranno tenuti all’indennizzo ( 17 ). Le disposizioni concernenti l’obbligo di indennizzo prestano il fianco a rilievi critici. Da un lato
le disposizioni in questione si limitano ad enunciare il principio generale
senza però definire i criteri per la quantificazione dell’indennizzo che saranno individuati solo in seguito da uno o più provvedimenti (decreti attuativi) del Ministero dell’Economia e delle Finanze; dall’altro lato è agevole osservare che, al momento di determinare la proporzionalità dell’indennizzo, un ricorso « secco » al parametro della disponibilità sul conto
pagamenti potrebbe lasciare privi di tutela effettiva i consumatori che dispongono di sostanze modeste. Forse, in ordine al primo rilievo, sarebbe
stato più opportuno provvedere direttamente da parte del legislatore all’individuazione dei criteri per la quantificazione dell’indennizzo; in ordine, invece, al secondo rilievo, è auspicabile che il Ministero dell’Economia
e delle Finanze stabilisca un indennizzo pari ad un importo percentuale,
ove la giacenza sul conto sia superiore ad una certa soglia, ed un indennizzo pari ad un importo fisso, ove la giacenza sia inferiore a tale soglia.
7. Estensione della disciplina agli strumenti finanziari in deposito titoli.
La volontà del legislatore di estendere quanto più possibile la disciplina
del trasferimento dei servizi di pagamento anche agli strumenti finanziari
in deposito titoli è certamente condivisibile. Tuttavia, le modalità e i termini per l’adeguamento della disciplina del trasferimento di servizi di pagamento agli strumenti finanziari dovranno essere definiti dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze mediante decreto. Si auspica che il Ministero, pur tenendo in considerazione le peculiarità dei depositi titoli, predisponga una disciplina sostanzialmente equivalente alla disciplina del trasferimento di servizi di pagamento prevista dalla normativa primaria ( 18 ).
( 17 ) Fino a che non si sarà formata una giurisprudenza, ordinaria o dell’ABF, potranno
soccorrere le pronunce di quest’ultimo organo in tema di portabilità del mutuo. A tal proposito, per un caso del genere, cfr. ABF, Collegio di Roma, 28 febbraio 2013, n. 1125, est.
G. Scognamiglio, che ha statuito l’obbligo di indennizzo in capo al solo intermediario cedente e non anche a quello subentrante, nei confronti del quale il primo potrà esercitare
azione di rivalsa. Nemmeno il cliente è esonerato da responsabilità, qualora non abbia posto in essere i necessari adempimenti previsti dalla legge: anche qui, per un caso riferito alla surroga del mutuo, cfr. ABF, Collegio di Roma, 12 dicembre 2013, n. 6496, est. Silvetti.
( 18 ) Può essere anche qui utile richiamare una pronuncia dell’ABF in tema di trasferimento di dossier titoli (sia pure da un conto ad un altro acceso presso il medesimo intermediario): Collegio di Milano 19 luglio 2012, n. 2481, Est. Lucchini Guastalla, che ha reNLCC 6-2015
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Le nuove leggi
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8. Effetti sull’assetto concorrenziale del mercato.
La celerità, la semplificazione e la gratuità della procedura di trasferimento certamente hanno effetti notevoli sull’assetto concorrenziale del
mercato dei servizi di pagamento ed investimenti. Infatti, la riforma ha lo
specifico obiettivo di incrementare il tasso di mobilità della clientela bancaria e di rimuovere gli ostacoli alla libera concorrenza, rappresentati, ad
esempio, dai vincoli non necessari tra servizi bancari e tempistiche per il
trasferimento degli stessi. La spinta concorrenziale, però, dovrà essere innescata dai consumatori i quali dovranno attivarsi al fine di beneficiare dei
vantaggi derivanti dalla riforma.
Il tasso di mobilità della clientela bancaria degli ultimi anni è ancora
molto modesto per diverse ragioni, tra le quali le difficoltà procedurali, le
carenze informative e gli atteggiamenti dei consumatori restii alla mobilità. I benefici della disciplina del trasferimento di servizi di pagamento, infatti, potrebbero essere fortemente attenuati dall’assenza di sufficienti informazioni a disposizione dei consumatori o dalla loro riluttanza a trasferire i servizi di pagamento ad un altro prestatore per ragioni di ordine
« affettivo ». Pertanto, è necessario che la disciplina del trasferimento di
servizi di pagamento sia affiancata, in un contesto di trasparenza, da misure volte alla formazione dei consumatori che permettano loro di valutare
in maniera critica la convenienza dei conti di pagamento ( 19 ).
Il trasferimento dei
servizi di pagamento
(d.l. n. 3/15,
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spinto il ricorso di un cliente che chiedeva il risarcimento del danno da perdita di chance
senza aver allegato l’effettiva perdita subita nel presunto ritardo del trasferimento dei titoli
da un conto all’altro.
( 19 ) V. in proposito Mirone, Sistema e sottosistemi nella nuova disciplina della trasparenza bancaria, cit., p. 393, secondo il quale la « normativa sulla trasparenza bancaria non
sembra, così, svolgere oggi tanto la funzione di strumento per l’innesco dei meccanismi
concorrenziali di base nel mercato bancario, quanto piuttosto una duplice funzione, da un
lato, di necessaria promozione delle dinamiche concorrenziali effettive, rimaste in larga
parte bloccate da vari fattori; e dall’altro, di tutela della clientela dal potere di mercato delle banche »; Id., Le fonti « private » del diritto bancario: concorrenza, trasparenza e autonomia privata nella (nuova) regolamentazione dei contratti bancari, ivi, 2009, I, p. 290 ss. Per
una più ampia riflessione in materia di trasparenza, che evidentemente in questa sede non
è possibile compiere, si rinvia ai recenti studi di Dolmetta, Trasparenza dei prodotti bancari. Regole, Bologna, 2013, e di Mirone, La trasparenza bancaria, Padova, 2012. Nell’ambito della trasparenza nei servizi di pagamento, ma con approfondimenti di carattere sistematico, si inserisce il lavoro di Onza, La « trasparenza » dei « servizi di pagamento » in Italia (un itinerario conoscitivo), in Banca, borsa, tit. cred., 2013, I, p. 579 ss.
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LA CANCELLAZIONE DAL REGISTRO
DELLE IMPRESE DOPO IL C.D. DECRETO
« SEMPLIFICAZIONI »: PROFILI SOCIETARI [,]
(art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175)
di
Marco Speranzin
(Professore nell’Università di Padova)
Cancellazione dal
registro delle imprese:
profili societari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Presupposti di applicazione della norma. – 3. Problematiche applicative e riflessi sistematici. – 4. Ulteriori profili di rilevanza societaria della disposizione dell’art. 28 d.lgs. n. 175/14. – 5. Conclusione.
1. Introduzione.
L’art. 28, comma 4o, d.lgs. n. 175/14 (c.d. decreto semplificazioni), contenuto in una previsione singolarmente rubricata Coordinamento, razionalizzazione e semplificazione di disposizioni in materia tributaria, ha stabilito
che l’estinzione della società a seguito della cancellazione dal registro delle
imprese abbia effetto, « ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di
liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi », trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione.
Si tratta di una norma che, al di là della rubrica della disposizione, ha
l’evidente finalità di facilitare la riscossione di tributi e contributi, ed è,
quindi, una norma di favore per determinati creditori (l’Amministrazione
finanziaria e gli enti previdenziali) ( 1 ): si tratta, infatti, dei soggetti che forse in misura maggiore potrebbero subire rilevanti pregiudizi a seguito di
cancellazioni dal registro delle imprese attuate in modo fraudolento o repentino. Ciò in considerazione, come noto, della scelta in materia di estinzione societaria fatta proprio dalla riforma del 2003 all’art. 2495 c.c. ( 2 ),
scelta successivamente confermata dall’interpretazione della disposizione
seguita da numerose sentenze della S.C., anche a sez. un., in materia ( 3 ).
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) Sul punto v. la Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali, sub art. 28, p. 11 ss., che tra l’altro sottolinea la necessità di
coordinamento tra gli enti in esame al fine della riscossione di tributi e contributi; nel dettaglio sul punto v. Porcaro, La cancellazione dal registro delle imprese dopo il c.d. decreto
« semplificazioni »: profili tributari, infra in questo fascicolo della Rivista.
( 2 ) V. per tutti G. Niccolini, Art. 2495, in Società di capitali, a cura di G. Niccolini e
Stagno d’Alcontres, Napoli, 2004, p. 1839 ss.; Speranzin, L’estinzione delle società di capitali in seguito alla iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, in Riv. società,
2004, p. 514 ss., ove anche ricostruzione della posizione della giurisprudenza precedente
alla riforma.
( 3 ) Da ultimo Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, pubblicate in nuNLCC 6-2015
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Le nuove leggi
1041
In base a tale orientamento la cancellazione dal registro delle imprese
determina il venir meno « quasi » (come vedremo: a maggior ragione dopo la disposizione introdotta nel 2014) irreversibile del soggetto societario, con la conseguente possibilità per i creditori insoddisfatti di far valere
le loro pretese solo nei confronti dei soci, nei limiti di quanto riscosso in
base al bilancio finale di liquidazione (se si tratta di soci a responsabilità
limitata), nonché nei confronti dei liquidatori, se il pagamento è dipeso da
colpa di quest’ultimi (v. art. 2495 c.c.).
L’art. 28 d.lgs. n. 175/14, di indubbia rilevanza applicativa, ha già in fase di redazione, ma ancor più dopo la sua pubblicazione ed entrata in vigore (prevista per il 13 dicembre 2014), sollevato un amplissimo dibattito ( 4 ), e presenta aspetti di interesse innanzitutto dal punto di vista del diritto societario ( 5 ).
Cancellazione dal
registro delle imprese:
profili societari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
2. Presupposti di applicazione della norma.
In primo luogo è necessario esaminare i presupposti applicativi della
norma in esame, tralasciando ogni commento in merito allo scarso livello
della formulazione, già da altri fatto notare ( 6 ) (l’estinzione dovrebbe avere effetto, se la norma fosse letteralmente intesa, trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del registro delle imprese).
La disposizione pare innanzitutto doversi applicare, come prevede testualmente l’art. 28, comma 4o, d.lgs. n. 175/14, alle società di cui all’art.
2495 c.c., e quindi alle sole società di capitali e cooperative (quest’ultime
merose riviste, ad es. in Corr. giur., 2013, p. 691 ss., con nota di C. Consolo e Godio, Le
Sezioni Unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria « ritrovata » (o quasi), e in Società, 2013, p. 536 ss., con nota di Fimmanò, Le Sezioni Unite pongono la « pietra tombale »
sugli « effetti tombali » della cancellazione delle società di capitali, e nota di Guizzi, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il « problema » del soggetto: qualche considerazione critica.
V. per l’analitico esame delle problematiche poste dalle sentenze delle sez. un. soprattutto le due recenti monografie in materia di V. Sanna, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, Torino, 2013, p. 58 ss., e A. Zorzi, L’estinzione delle società di capitali, Milano, 2014, p. 50 ss.
( 4 ) Da ricordare, oltre agli innumerevoli articoli (quasi quotidiani) apparsi su Il-Sole-24ore, l’immediata presa di posizione da parte dell’Agenzia delle Entrate (circolare 31/E 30
dicembre 2014, che ha in particolare sostenuto la retroattività della norma), nonché da
parte della S.C. (v. Cass. 2 aprile 2015, n. 6743, Presid. Piccininni, Rel. Bielli, in Corr. trib.,
2015, p. 1631 ss., con nota di Ragucci, Le nuove regole sulla cancellazione delle società dal
registro imprese valgono solo « pro futuro »), la quale, con insolita tempestività, ha sostanzialmente fornito un primo commento alla norma (tra l’altro escludendone la retroattività,
in ragione della ritenuta natura sostanziale della regola).
( 5 ) Per gli aspetti di interesse dal punto di vista del diritto tributario v. Porcaro, op.
cit., par. 2 ss., secondo il quale la norma è funzionale ad assicurare validità ed efficacia all’atto di accertamento notificato alla società cancellata quale presupposto per la contestazione delle responsabilità dei liquidatori e dei soci ex art. 36 d.p.r. n. 602/73, responsabilità su cui si tornerà al par. 4 del presente contributo.
( 6 ) Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. trib., 2015, p. 47.
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
Le nuove leggi
per effetto del richiamo contenuto all’art. 2519 c.c.). Non, invece, alle società di persone (regolari) ( 7 ).
In senso contrario è stata richiamata ( 8 ) la giurisprudenza delle sez. un.
della Cassazione che, a partire dalle sentenze del 2010 e poi con le successive del 2013, ha equiparato in materia le due classi di società, e sostenuto
che l’effetto estintivo conseguente alla cancellazione dal registro delle imprese possa valere anche per le società di persone (seppure, hanno aggiunto le sez. un., con efficacia non costituiva, come per le società di capitali,
ma solo dichiarativa e con facoltà della prova contraria) ( 9 ).
Tuttavia, al di là della correttezza di quest’ultima ricostruzione ( 10 ); del
contrasto con la ritenuta natura di pubblicità costitutiva dell’iscrizione
della cancellazione, anche per le società di persone, ai sensi del decorso
dell’anno ex art. 10 l. fall. ( 11 ); nonché del fatto che l’applicabilità della
nuova disciplina alle società di persone sembrava essere stata affermata
per lo più a livello di obiter dicta ( 12 ), non pare che la soluzione dell’utilizzo dell’argomento sistematico per estendere l’applicazione della norma in
commento anche alle società di persone sia convincente.
Da un lato perché la norma in esame pare potersi considerare eccezionale, dato che rinvia l’effetto estintivo della cancellazione dal registro delle
imprese solo con riferimento a determinati atti (sostanziali e processuali)
degli enti legittimati a richiedere tributi o contributi (si v. l’incipit: « ai soli
fini (...) »).
( 7 ) Nello stesso senso la Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni
in materia di semplificazioni fiscali, sub art. 28, p. 12, e Fransoni, op. cit., p. 49, il quale
nota, tuttavia, il mancato coordinamento della soluzione con il diritto vivente di cui subito
si dirà nel testo.
( 8 ) Così Cass. 2 aprile 2015, n. 6743, cit.
( 9 ) V. Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060, 4061 e 4062, in Società, 2010, p. 640 ss.
e p. 1004 ss.; nonché Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, cit. La posizione della S.C. è tributaria sia della Relazione del Ministro Guardasigilli al codice civile, n.
938, che precisa l’efficacia puramente dichiarativa dell’estinzione della società, nonché di
G. Ferri, Delle società, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1981, p. 457 ss., secondo il quale, tuttavia, la natura dichiarativa della cancellazione è diretta a rendere opponibile ai terzi un fatto, ossia la già avvenuta estinzione conseguente allo spirare del termine
per l’impugnazione del bilancio finale di liquidazione.
Come riferimento comparatistico è interessante, sul punto, la disciplina spagnola: nonostante gli artt. 395 ss. della Ley de Sociedades de Capital abbiano esplicitato gli effetti estintivi collegati alla cancellazione dal registro delle imprese, la tesi prevalente in giurisprudenza ha mantenuto una qualificazione della pubblicità come aventi effetti meramente dichiarativi: v. anche per riferimenti A. Martínez Flórez e A. Recalde, Los efectos de la cancelación registral en relación con la extinción de las sociedades de capital, in Liber amicorum
Juan Luis Iglesias, Cizur Menor, 2014, in particolare p. 700 ss.
( 10 ) In senso critico v. Perrino, L’estinzione delle società di persone, in Riv. dir. comm.,
2011, I, p. 718 ss.; Positano, L’estinzione della società per azioni tra tutela del capitale e
tutela del credito, Milano, 2012, p. 61 ss.; A. Zorzi, S.n.c. Cancellazione della società, in
Trattato sulle società di persone, a cura di Busi e Preite, Torino, in corso di pubblicazione,
e consultato per cortesia dell’A., par. 2, secondo il quale si deve, invece, parlare di costituitività debole della cancellazione nelle società di persone, in quanto è comunque necessaria ai fini dell’estinzione la distribuzione dell’attivo.
( 11 ) Ibba, La pubblicità delle imprese, Padova, 2012, p. 284; conforme Perrino, op. cit.,
p. 712 ss.
( 12 ) Lo ricorda A. Zorzi, L’estinzione delle società di capitali, cit., p. 47.
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D’altro lato, e soprattutto – così superandosi il problema delle difficoltà
di accertamento delle norme eccezionali e degli ambiti di possibile interpretazione di tali regole ( 13 ) –, l’art. 28, comma 4o, d.lgs. n. 175/14 non
sembra applicabile alle società di persone perché i creditori sociali nel caso di estinzione hanno già una tutela forte, rappresentata dalla responsabilità illimitata personale dei soci, responsabilità che permane anche dopo
l’estinzione e che non richiede più il rispetto dell’onere di preventiva
escussione del patrimonio sociale (v. art. 2312 c.c.). I rischi di una cancellazione dal registro delle imprese di società di persone attuata in modo
fraudolento (con il conseguente venir meno del vincolo di destinazione
sul patrimonio sociale a favore dei creditori sociali) risultano, pertanto, indubbiamente minori rispetto alle società di capitali ( 14 ).
Una seconda questione è chiarire cosa intenda la legge per « richiesta »
di cancellazione, momento a partire dal quale decorre il quinquennio.
Con il termine richiesta pare doversi intendere – salvo quanto si dirà di
seguito sulle cancellazioni disposte d’ufficio – la domanda di iscrizione
(della cancellazione), ai sensi degli artt. 2189, comma 1o, c.c. e 11 d.p.r. n.
581/95.
L’indicazione quale termine a quo della data della domanda di iscrizione
ha, probabilmente, lo scopo di evitare che un possibile intervallo temporale (che può risultare non breve ( 15 )) tra la domanda e l’iscrizione della
cancellazione possa determinare un (ulteriore) allungamento dei tempi ai
fini della estinzione... definitiva (ossia opponibile anche agli enti legittimati a richiedere tributi o contributi). Una soluzione, peraltro, quanto meno
criticabile, in quanto gli effetti della cancellazione, come in genere delle
iscrizioni nel registro delle imprese, si producono dal momento in cui il
procedimento risulta completato ( 16 ).
Si può solo accennare, senza poterlo affrontare in questa sede di primo
commento della norma (anche perché tema da tempo segnalato come di
difficile inquadramento dal punto di vista della determinazione degli effetti della pubblicità ( 17 ), nonché tributari ( 18 )), al problema delle conse-
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registro delle imprese:
profili societari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 13 ) F. Modugno, Interpretazione giuridica, Padova, 2012, p. 381 ss.
( 14 ) Senza dimenticare che, in caso di fallimento della società entro l’anno (art. 10 l.
fall.), si ha l’estensione del fallimento anche ai soci (art. 147 l. fall.) e l’applicazione delle
disposizioni penali anche per gli atti compiuti dai soci ex art. 222 l. fall.
( 15 ) V. il caso deciso da Trib. Milano 28 maggio 2004, in Banca, borsa e tit. cred., 2006,
II, p. 380 ss., con nota di M. Lubrano, L’art. 10 l. fall. e la responsabilità da « prolungata
esposizione al fallimento ».
( 16 ) Già la dottrina si è dovuta molto impegnare nell’interpretazione dell’art. 2470 c.c.
con riferimento alla rilevanza del momento del deposito presso il registro delle imprese (e
non dell’iscrizione) ai fini dell’opponibilità alla società del trasferimento della partecipazione in s.r.l.: v., anche per riferimenti, V. Meli, L’opponibilità alla società dei trasferimenti
della partecipazione dopo la soppressione del libro soci, in Riv. società, 2011, p. 20 ss.; Bartalena, Commento all’art. 2470 c.c., B) Efficacia del trasferimento della partecipazione nei
confronti dei terzi, in S.r.l. - Commentario, a cura di Dolmetta e Presti, Milano, 2011, p.
362.
( 17 ) Speranzin, op. cit., p. 529; Perrino, op. cit., pp. 718 e 721; Positano, op. cit., p.
142 ss.
( 18 ) Tassani, Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: profili fiscali, in
Rass. trib., 2014, p. 1021.
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guenze di un’eventuale cancellazione d’ufficio (ai sensi dell’art. 2191 c.c.)
dell’iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese,
seguendo l’orientamento che tale provvedimento consente anche nel caso
dell’art. 2495 c.c. ( 19 ). L’art. 28 pare in ogni caso rappresentare un dato sistematico contrario alla possibilità di utilizzo dello strumento della cancellazione dell’iscrizione della cancellazione, dato che prevede un’efficacia
differita di tale iscrizione per determinate finalità.
Ci si è chiesti, in terzo luogo, se la formulazione dell’art. 28, comma 4o,
d.lgs. n. 175/14 escluda il riferimento alle cancellazioni disposte d’ufficio
(e non, quindi, su domanda dell’interessato), come ad esempio quella prevista dall’art. 2490, comma 6o, c.c., ossia relativa a società di capitali che
omettano di depositare per tre anni il bilancio di liquidazione ( 20 ). Già in
precedenza si era del resto osservato che la disciplina tributaria e societaria della cancellazione d’ufficio non risulta(va)no coordinate ( 21 ).
Al di là del flebile elemento letterale (l’utilizzo del termine richiesta),
poiché non pare ragionevole creare una disparità di trattamento tra le due
situazioni (disparità che, ancora una volta, potrebbe dare luogo a comportamenti fraudolenti che non possono essere del tutto eliminati dalla possibilità riconosciuta all’art. 10, comma 2o, l. fall.), sembra preferibile ritenere che siano comprese nella disposizione anche le cancellazioni disposte
d’ufficio, cui si applicano gli effetti dell’art. 2495 c.c. ( 22 ).
Infine non pare possa dubitarsi della circostanza che la norma si applichi ai soli creditori aventi titolo a chiedere tributi e contributi (e correlativi sanzioni ed interessi); considerazione che potrebbe determinare una
possibile illegittimità costituzionale della disposizione del decreto legislativo per irragionevole disparità di trattamento tra creditori, anche tenendo
conto, come fin da subito osservato dalla Cassazione ( 23 ), dell’art. 1 della
( 19 ) V. tra le altre Cass., sez. un., 9 aprile 2010, n. 8426, in Notariato, 2010, p. 639 ss.;
Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, cit.; Trib. Milano 19 maggio 2014, in
Giur. it., 2014, p. 1937. In dottrina v. ampiamente Spolidoro, Seppellimento prematuro.
La cancellazione delle società di capitali dal registro delle imprese ed il problema delle sopravvenienze attive, in Riv. società, 2007, p. 845 ss.; V. Sanna, op. cit., p. 136 ss., il quale nota,
in un successivo scritto (Id., Gli effetti della cancellazione dell’impresa e della società dal registro delle imprese, in Giur. comm., 2015, II, p. 80 ss.), che il rimedio della cancellazione
d’ufficio della cancellazione risulta utilizzato in giurisprudenza in modo non sempre coerente. In senso contrario alla possibilità di cancellare d’ufficio l’iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese Ibba, Il fallimento dell’impresa cessata, in Riv. società, 2008, p.
955; A. Martínez Flórez e A. Recalde, op. cit., p. 736. V. per una diversa interpretazione, secondo la quale in determinati casi l’iscrizione della cancellazione potrebbe essere dichiarata nulla (secondo le regole delle invalidità societarie), ma non cancellata, A. Zorzi,
op. ult. cit., p. 258 ss.
( 20 ) Pone il problema Cass. 2 aprile 2015, n. 6743, cit., che tuttavia non affronta il tema
essendo non rilevante nel caso di specie (avente ad oggetto una cancellazione di s.n.c. avvenuta su richiesta del liquidatore).
( 21 ) V. per una sintesi di questioni G. Niccolini, Appunti sui bilanci di liquidazione, in
Riv. dott. comm., 2013, p. 629 e nt. 76.
( 22 ) Anzi: proprio il rilievo del criterio sostanziale della cessazione dell’attività d’impresa che emerge all’art. 10, comma 2o, l. fall. sembrerebbe un argomento per estendere la disciplina in questione anche alle cancellazioni d’ufficio.
( 23 ) V. ancora Cass. 2 aprile 2015, n. 6743, cit.
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relativa legge delega (n. 23/14), il quale espressamente richiedeva il rispetto dell’art. 3 Cost. ( 24 ).
3. Problematiche applicative e riflessi sistematici.
L’art. 28, comma 4o, d.lgs. n. 175/14 fa salvo, come si diceva, l’effetto
estintivo della cancellazione dal registro delle imprese: effetto che risulta
ora differito non solo, seguendo l’orientamento della S.C., per l’anno entro il quale la società estinta può essere dichiarata fallita ai sensi dell’art.
10 l. fall.; ma anche, dal 13 dicembre 2014, per cinque anni relativamente
alla validità e all’efficacia degli atti degli enti legittimati a richiedere tributi
o contributi.
Una fictio iuris che postula esistente per determinate finalità un soggetto
ormai estinto, volendo seguire la terminologia della Cassazione ( 25 ), e che
apre quanto meno un duplice ordine di problemi, di tipo applicativo e sistematico ( 26 ).
In primo luogo, si pone la questione della soluzione degli aspetti processuali, e in particolare la necessità di procedere alla notificazione degli atti
presso l’ultima sede, che la società non dovrebbe avere più, o presso l’ultimo legale rappresentante (v. art. 145 c.p.c.). Le difficoltà di procedere
alla notificazione ai soci entro l’anno dall’estinzione presso l’ultima sede
della società ai sensi dell’art. 2495, comma 2o, c.c. ( 27 ) costituisce uno dei
presupposti che giustificano espressamente, nella Relazione allo schema di
decreto legislativo recante disposizioni in materia di semplificazioni fiscali,
l’introduzione della disposizione in commento (che differisce, per facilitare i creditori aventi titolo a chiedere tributi e contributi, l’effetto estintivo) ( 28 ).
Se si segue, anche con riferimento agli atti in questione, la tesi accolta
Cancellazione dal
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 24 ) Esclude che la norma possa ritenersi costituzionalmente illegittima per violazione
dell’art. 3 Cost. Porcaro, op. cit., par. 1, il quale, d’altro lato, sottolinea i profili di possibile illegittimità dal punto di vista della violazione dell’art. 76 Cost.; nel senso della possibile violazione dell’art. 24 Cost. dal punto di vista delle garanzie di difesa dei liquidatori e
soci v., invece, Ragucci, op. cit., p. 1631.
( 25 ) V. Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, cit.; accenna al mantenimento a favore della società di una capacità e soggettività altrimenti inesistenti Cass. 2
aprile 2015, n. 6743, cit.
( 26 ) Come ben rilevato da Fransoni, op. cit., p. 50 ss.
( 27 ) Cfr. A. Zorzi, L’estinzione delle società di capitali, cit., p. 332 ss., secondo il quale la
disposizione istituisce un onere per i soci di provvedere affinché l’ultima sede sia collocata
in luogo dove vi sia qualcuno che possa ricevere l’atto.
( 28 ) Si noti che risulta discusso se la notifica che il comma 2o dell’art. 2495 c.c. consente
presso l’ultima sede della società sia solo quella effettuata dai creditori per far valere l’azione nei confronti dei soci e dei liquidatori ai sensi di tale disposizione; oppure se il comma
2o dell’art. 2495 c.c., che indubbiamente è pensato quale meccanismo agevolativo per tutelare i creditori, seppure in modo insoddisfacente (dato che non determina le modalità di
individuazione dei soggetti nei cui confronti notificare la domanda), consenta ulteriori notifiche presso l’ultima sede della società (come ritiene Perrino, op. cit., p. 718; v. anche
Speranzin, Società estinta e procedimento per la dichiarazione di fallimento, in Fallimento,
2012, p. 1247).
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
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dalla Cassazione a sez. un., secondo cui il liquidatore permane legittimato
a ricevere le notifiche e a rappresentare l’ente al fine di rappresentare la
società nell’udienza prefallimentare e proporre reclamo ( 29 ), è inevitabile
concludere che, allo stesso modo, l’ultimo liquidatore abbia la legittimazione a contestare gli atti fatti salvi dall’art. 28, comma 4o, d.lgs. n. 175/14,
a proporre ricorso nonché ad assumere obbligazioni collegate alla rappresentanza dell’ente ( 30 ).
Ci si chiede però se non risulterebbe più coerente (soprattutto con
l’orientamento in materia di effetti dell’estinzione fatto proprio dalla Cassazione a sez. un. nel 2013, e sempre che non si seguano le interpretazioni
« riduzionistiche » di cui subito si dirà) ipotizzare una legittimazione a tal
fine dei soci, quali successori della società ( 31 ).
In secondo luogo, con riferimento alle possibili conseguenze sistematiche della norma in commento, si pone il problema dei potenziali effetti
patrimoniali, e quindi, del rapporto tra pubblicità (iscrizione della cancellazione dal registro delle imprese) ed eventuale venir meno dell’autonomia patrimoniale della società.
Ci si è, infatti, già interrogati se gli atti la cui validità ed efficacia è insensibile all’estinzione dell’ente possano implicare l’accertamento o la costituzione di situazioni giuridiche soggettive, tanto attive che passive, a
contenuto patrimoniale, che paiono incompatibili con l’effetto estintivo ( 32 ).
Si può, dunque, porre il dubbio che la norma in commento, unitamente
a quella dell’art. 10 l. fall., possa supportare ulteriormente quelle proposte
interpretative « riduzionistiche » che ritengono che la cancellazione dal
registro delle imprese non possa far venir meno definitivamente l’autonomia patrimoniale della società, che risulterebbe dopo la pubblicità solo diversa ed attenuata ( 33 ). Anche ai sensi dell’art. 28, comma 4o, d.lgs. n. 175/
14 sembra, infatti, permanere, quale fictio iuris, la soggettività dell’ente
formalmente cancellato ( 34 ).
In sostanza, seguendo queste proposte interpretative, si potrebbe configurare l’esistenza di una vera e propria Nachgesellschaft, così facendo tornare di attualità le riflessioni di autorevole dottrina sugli effetti, da consi( 29 ) V. Cass. 26 luglio 2013, n. 18138, in Giur. it., 2013, p. 2265 ss.; Alleca, Iscrizione
della cancellazione, estinzione e fallimento, in Riv. società, 2010, p. 720 ss.
( 30 ) Come rileva ancora Fransoni, op. cit., p. 51, il quale osserva che ciò determina altresì la necessità che permanga in funzione anche l’assemblea per l’eventuale sostituzione
del liquidatore, con conseguente sopravvivenza del vincolo sociale: il che realizza a parere
dell’A. un evidente corto-circuito con l’effetto estintivo.
( 31 ) Cfr., con riferimento al procedimento prefallimentare, App. Napoli 8 febbraio
2012, in Fallimento, 2012, p. 1242 ss.; Speranzin, op. ult. cit., p. 1247 ss.
( 32 ) Cfr. Fransoni, op. cit., p. 53.
( 33 ) V. per questa interpretazione in particolare V. Sanna, op. cit., p. 120 ss.; Guizzi,
op. cit., p. 563 ss., secondo il quale l’insieme delle attività non liquidate e delle sopravvenienze attive costituisce un patrimonio autonomo. Con particolare riferimento agli effetti
della cancellazione dal punto di vista processuale v. Ghirga, Interruzione del processo.
Artt. 299-305, in Commentario del codice di procedura civile, a cura di Chiarloni, Bologna,
2014, p. 78 ss. Nella dottrina spagnola v. analogamente A. Martínez Flórez e A. Recalde, op. cit., p. 732 ss.
( 34 ) Cfr. Ragucci, op. cit., p. 1630; Porcaro, op. cit., par. 3.
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derarsi in thesi mai costitutivi, della pubblicità commerciale, e ciò anche
nella fase estintiva delle società di capitali ( 35 ).
4. Ulteriori profili di rilevanza societaria della disposizione dell’art. 28 d.lgs. n. 175/14.
Esaminata la norma che differisce l’effetto estintivo, ci si potrebbe chiedere se qualche rilievo interpretativo rispetto alla disciplina societaria possa essere attribuito anche al successivo art. 28, comma 5o, d.lgs. n. 175/14,
e ciò fermo restando che la ratio di tutta la disposizione sembra, ancora
una volta, essere esclusivamente quella di potenziare l’attività di riscossione dei crediti tributari ( 36 ). Da tempo è stato evidenziato, infatti, come un
problema di interpretazione della norma civilistica possa essere risolto attraverso una disposizione tributaria di contenuto univoco ( 37 ).
Due sono le previsioni rilevanti, che modificano a favore dell’Amministrazione finanziaria l’art. 36 d.p.r. n. 602/73.
Da un lato l’art. 28, comma 5o, d.lgs. n. 175/14 rafforza il grado di responsabilità del liquidatore di società di capitali verso i creditori sociali;
egli risponde in proprio del pagamento di una somma corrispondente alle
imposte qualora abbia soddisfatto con il ricavato della liquidazione debiti
di grado inferiore a quelli tributari, ed è gravato dall’onere di provare di
non essere stato in colpa (mentre in precedenza era l’Amministrazione finanziaria ad avere l’onere della prova di un comportamento colposo del
liquidatore, circostanza che spesso determinava la soccombenza per
l’Agenzia delle Entrate ( 38 )).
La norma potrebbe costituire un elemento interpretativo nella ricostruzione della natura della responsabilità del liquidatore ai sensi dell’art. 2495
c.c.: responsabilità ritenuta di tipo risarcitorio dall’opinione prevalente ( 39 ), ma in relazione alla quale non manca una configurazione quale re-
Cancellazione dal
registro delle imprese:
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 35 ) Si fa riferimento al noto scritto di G. Oppo, Forma e pubblicità nelle società di capitali, in Riv. dir. civ., 1966, I, in particolare p. 163 ss.
( 36 ) Così la Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di
semplificazioni fiscali, sub art. 28, p. 13.
( 37 ) G. Oppo, Categorie commercialistiche e riforma tributaria, in Giur. comm., 1977, I,
p. 48; Baralis, Influenza della legislazione tributaria sulla legislazione civile. Anche modifiche « indotte » alla legislazione civile?, in Studi e materiali. Quaderni del Consiglio nazionale del Notariato, 2003, II, p. 403 ss.
( 38 ) V. per le varie interpretazioni relative alla natura della responsabilità tributaria del
liquidatore (come obbligazione risarcitoria o come obbligazione autonoma ex lege) e per
riferimenti V. Ficari, Cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali, « abuso della cancellazione » e buona fede nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 1040 ss.; Tassani, La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, p. 378 ss.; Ragucci, La
responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali, Torino, 2013, p. 40 ss.; Porcaro, op. cit., par. 4.
( 39 ) V. Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, cit.; nella giurisprudenza
di merito Trib. Milano 8 marzo 2011, in Società, 2011, p. 1138 ss.; Trib. Roma 19 luglio
2011, in Giur. merito, 2013, p. 335 ss.
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
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sponsabilità per debito ( 40 ); quest’ultima posizione potrebbe essere rivalutata dalla menzionata modifica alla disposizione dell’art. 36 d.p.r. n. 602/73,
in particolare se interpretata come ipotesi di responsabilità per obbligazione propria ex lege ( 41 ). A parte quest’aspetto, l’art. 28, comma 5o, d.lgs.
n. 175/14 pare rafforzare la posizione giurisprudenziale recente secondo
cui il liquidatore è gravato da un dovere di rispettare, anche nella liquidazione ordinaria, le cause di prelazione e la par condicio tra i creditori ( 42 ).
D’altro lato l’art. 28, comma 5o, d.lgs. n. 175/14 stabilisce, relativamente
alla responsabilità dei soci di società di capitali verso l’Amministrazione
finanziaria, che quanto ricevuto in assegnazione dalla liquidazione, limite
della responsabilità per le imposte dovute dalla società, si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale detenuta dal socio.
In questo caso, tuttavia, la norma, comunque si voglia ricostruire la responsabilità del socio ai sensi dell’art. 36 d.p.r. n. 602/73 ( 43 ), pare avere
l’esclusivo scopo di facilitare la determinazione del valore del residuo attivo distribuito tra i soci, che in caso risulti costituito da beni mobili (e in
particolare danaro) può essere di difficile determinazione ( 44 ).
5. Conclusione.
In conclusione può osservarsi che l’intervento normativo in esame sposta, ancora una volta, il bilanciamento tra certezza dei rapporti giuridici e
interesse dei soci, da un lato; e tutela dei creditori sociali, d’altro lato,
istanze come noto alla base della disciplina dell’estinzione societaria ( 45 ).
Se, infatti, l’orientamento della giurisprudenza ante riforma del 2003,
secondo cui l’estinzione presupponeva l’esaurimento definitivo di ogni
passività e la ripartizione delle attività, aveva posto al centro della tutela i
creditori sociali ( 46 ), già con un occhio di riguardo a quelli di norma più
lenti o ritardatari (l’Amministrazione finanziaria e gli enti previdenziali) ( 47 ); la scelta legislativa del 2003, e la successiva interpretazione fornita
( 40 ) Sia consentito il rinvio a Speranzin, L’estinzione delle società di capitali in seguito
alla iscrizione della cancellazione nel registro delle imprese, cit., p. 545 ss.
( 41 ) V. in questo senso da ultimo Cass. 10 giugno 2015, n. 12007.
( 42 ) V. Trib. Genova 2 aprile 2013, in Società, 2014, p. 301 ss.; Trib. Milano 6 agosto
2014, in Giur. it., 2015, p. 393 ss.; in dottrina v. A. Zorzi, S.n.c. Cancellazione della società,
cit., par. 11. Secondo la giurisprudenza più risalente, invece, il pagamento dei creditori doveva avvenire secondo l’ordine di presentazione: v. Cass. 6 aprile 1968, in Dir. fall., 1969,
II, p. 96 ss.
( 43 ) Cfr. Tassani, op. ult. cit., p. 373 ss. e Porcaro, op. cit., par. 4 e ss., ove ulteriori riferimenti.
( 44 ) Cfr. Fransoni, op. cit., p. 55. In giurisprudenza v. di recente Cass. 26 giugno 2015,
n. 13259, relativamente all’onere della prova, in capo all’Amministrazione finanziaria, dell’entità esatta delle somme incassate dai soci.
( 45 ) V. tra i molti già G. Ferri, Chiusura della liquidazione ed estinzione della società, in
Foro it., 1939, I, p. 1321.
( 46 ) V. R. Costi, Estinzione della società, esigenze del processo economico e politica dei
giudici, in Giur. comm., 1974, II, p. 403 ss.
( 47 ) V. per tutti G. Niccolini, Scioglimento, liquidazione ed estinzione della società per
azioni, in Trattato delle s.p.a. Colombo-Portale, VII***, Torino, 1997, p. 707.
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dalla S.C. anche a sez. un., avevano spostato (per alcuni un po’ troppo) la
tutela a favore della certezza dei rapporti giuridici e dei soci ( 48 ), tanto che
si era già prefigurato il ricorso, da parte dei giudici tributari e quale tutela
a fronte di cancellazioni fraudolente, alla figura dell’abuso del diritto ( 49 ).
Ora il provvedimento legislativo di fine 2014 riporta l’equilibrio a favore
dei (rectius: di alcuni) creditori sociali ( 50 ).
L’impressione è che con l’intervento normativo in esame, proprio in
considerazione della sua parzialità, non risultino risolte definitivamente le
complesse questioni connesse all’estinzione delle società, e che siano da
attendere ulteriori sviluppi in materia.
Cancellazione dal
registro delle imprese:
profili societari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 48 ) Cfr. C. Consolo e Godio, op. cit., p. 704; amplius sul tema degli strumenti di tutela dei creditori sociali a fronte della cancellazione A. Zorzi, L’estinzione delle società di
capitali, cit., p. 147 ss.
( 49 ) V. V. Ficari, op. cit., p. 1045 ss. V. anche Fimmanò, Estinzione fraudolenta della
società e ricorso di fallimento « sintomatico » del pubblico ministero, in Dir. fall., 2013, I, p.
757 ss., secondo il quale uno strumento di reazione contro le cancellazioni abusive potrebbe essere rappresentato dall’intervento del pubblico ministero ex art. 7 l. fall.
( 50 ) Ragione per cui, come già ricordato, Cass. 2 aprile 2015, n. 6743, cit. ha ravvisato
una possibile illegittimità costituzionale per irragionevole disparità di trattamento tra creditori; in senso diverso, come sempre già accennato, Porcaro, op. cit., par. 1.
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LA CANCELLAZIONE DELLA SOCIETÀ
DOPO IL C.D. DECRETO «SEMPLIFICAZIONI»:
PROFILI TRIBUTARI [,]
(art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175)
di
Gianpiero Porcaro
(Professore nell’Università di Udine)
Cancellazione
della società:
profili tributari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
Sommario: 1. Gli ostacoli (veri o presunti) di ordine costituzionale alla sopravvivenza della norma in commento. Le ragioni per il superamento dell’adombrata difformità all’art.
3 Cost. ... – 2. Segue: ... e i profondi dubbi sulla superabilità dello scrutinio di costituzionalità rispetto all’art. 76 Cost. – 3. Spunti a favore della conservazione, pur limitata, della soggettività tributaria. – 4. La portata (involontariamente?) sistematica della prevista
«validità ed efficacia dell’atto» impositivo nonostante la cancellazione dell’ente. – 5.
Questioni intorno al provvedimento che contesta la responsabilità di liquidatori e soci: il
profilo temporale ... – 6. Segue: ... il profilo formale e contenutistico. – 7. Sulla sorte dei
crediti verso l’Erario a seguito della cancellazione dell’ente.
1. Gli ostacoli (veri o presunti) di ordine costituzionale alla sopravvivenza
della norma in commento. Le ragioni per il superamento dell’adombrata
difformità all’art. 3 Cost. ...
L’art. 28, commi 4o, 5o e 6o, d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175, in G.U. n.
277 del 28 novembre 2014 (in seguito, per brevità di esposizione, art. 28),
necessita di un profondo sforzo ricostruttivo per superare tutte le problematiche di cui è portatore ( 1 ), anche nell’ottica di una rilettura della più
generale ipotesi di responsabilità tributaria di liquidatori e soci ad esito di
specifici fenomeni patologici emergenti dalla liquidazione.
Sforzo ricostruttivo che, peraltro, presupporrebbe il superamento di almeno un paio di pregiudiziali di costituzionalità, che, minacciose, aleggiano già nella parte conclusiva delle motivazioni contenute nella citata sentenza Cass. 2 aprile 2015, n. 6743.
Il primo aspetto riguarda il rapporto tra art. 28 e art. 3 Cost. ( 2 ), sotto il
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) Raramente si è avuto l’occasione di leggere una norma di legge scritta in modo così
sciatto e approssimativo. Valga, in tal senso, quella sorta di «velo pietoso» che lo stesso
Giudice di legittimità (Cass. 2 aprile 2015, n. 6743, in Corr. trib., 2015, p. 1631, con nota
di Ragucci, Le nuove regole sulla cancellazione delle società dal registro imprese valgono solo «pro futuro») ha steso sullo scempio alla grammatica italiana fatto dal legislatore dell’art.
28. Ciò che peraltro costituisce il minore dei problemi della norma in commento; se infatti
non si travalica la sua riferibilità testuale alla sola sorte degli atti impositivi, in termini di
loro validità, estraendo da essa (anche) una disciplina della soggettività, l’art. 28 finisce per
essere inutile proprio rispetto ai suoi concreti effetti giuridici. Dedicherò in seguito apposite considerazioni sul punto
( 2 ) Appare un infortunio argomentativo quanto scritto nella citata sentenza Cass. 2
aprile 2015, n. 6743, laddove, appunto rispetto al principio di uguaglianza, si legge che ocNLCC 6-2015
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Le nuove leggi
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profilo della (dis)parità di trattamento tra i creditori beneficiati dalla norma in commento e il resto dei creditori. Si afferma infatti che la sopravvivenza delle società all’estinzione da cancellazione, limitatamente ai rapporti obbligatori aventi natura tributaria o contributiva previdenziale, finirebbe per privilegiare i relativi enti, lasciando gli altri e diversi creditori
in balia dell’ordinario effetto estintivo di cui all’art. 2495 c.c. Formalmente ineccepibile, il rilievo; ma lo è altrettanto anche dal punto di vista della
concreta incisione delle ragioni creditorie asseritamente ritenute deteriori?
L’ormai attuale diritto vivente in merito all’effetto della cancellazione
dell’ente collettivo dal registro delle imprese è noto, quantunque avversato da parte della dottrina ( 3 ); al fatto della cancellazione consegue l’effetto
giuridico dell’estinzione del soggetto e della sua capacità giuridica; l’estinzione del soggetto non travolge però l’obbligazione eventualmente superstite, che si trasferisce sui soci, in virtù di un fenomeno di tipo successorio,
nei limiti di quanto percepito quale saldo attivo della liquidazione, ovvero
illimitatamente nel caso di soci di società di persone ( 4 ). Così come le obbligazioni non si vaporizzano con la cancellazione dell’ente, parimenti
non scompaiono dal modo giuridico i diritti e i beni non compresi nel bilancio finale di liquidazione ( 5 ); anch’essi si trasferiscono ai soci in regime
Cancellazione
della società:
profili tributari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
corre tenere «altresì conto che l’art. 1 della legge di delegazione n. 23 del 2014 richiede
espressamente il rispetto dell’art. 3 Cost.». Lo scrutinio di compatibilità con l’art. 3 Cost.
non deriva dalla circostanza che il suo rispetto sia indicato da una norma di legge ordinaria; il suo rispetto è dovuto in quanto norma costituzionale. E tanto basta, e avanza.
( 3 ) Limitandomi agli studiosi di diritto tributario, del tutto contrari all’idea che la cancellazione della società conduca ad una particolare forma di successione dei soci, pur ovviamente nei limiti dell’art. 2495 c.c., risultano Glendi, L’estinzione delle società di capitali
cancellate dal registro delle imprese al vaglio dei giudici tributari di merito, in GT – Rivista
di giurisprudenza tributaria, 2014, p. 234 ss.; Id., Corte Costituzionale, sezioni unite della
Cassazione ed estinzione delle società cancellate dal registro delle imprese, in Dir. prat. trib.,
2013, II, p. 954 ss.; Id., L’estinzione postliquidativa delle società cancellate dal registro delle
imprese. Un problema senza fine?, in Corr. giur., 2013, p. 7 ss.; L. Bianchi, Società di capitali cancellata: tra successione e responsabilità (tributaria) dei soci, in Dir. prat. trib., 2015, I,
p. 24 ss. Ferma restando l’estinzione della società, la cancellazione determinerebbe, ove
presenti i fatti-fonte di cui all’art. 2495 c.c., la configurabilità di una nuova ed autonoma
azione risarcitoria nei confronti dei soggetti ivi indicati; nessuno spazio, quindi, in termini
processuali, per gli artt. 110 e 111 c.p.c., per cui l’inesistenza degli atti del processo condurrebbe al suo termine con la formula della cessazione della materia del contendere.
( 4 ) Il comma 2o dell’art. 2495 c.c. prevede anche la responsabilità del liquidatore ove il
mancato soddisfacimento del creditore sia dipeso dalla di lui colpa (per gli opportuni approfondimenti di natura civilistica, rinvio al contributo di Speranzin, che mi precede, ove
ulteriori riferimenti).
( 5 ) Diversamente accade per le «mere pretese», anche se azionate o ancora azionabili, e
per i «crediti incerti o illiquidi»; per questi, la cancellazione, ove volontaria e non d’ufficio,
equivale a rinuncia alla posizione giuridica sostanziale (e connessa processuale) (così, da
ultima, Cass. 21 gennaio 2014, n. 1183, in Giur. comm., II, 2015, p. 253, con nota, peraltro
non adesiva, di Zorzi, L’estinzione delle società di capitali: la sorte di «mere pretese» e «crediti illiquidi»; la Corte si è allineata, richiamandola espressamente, alla pronuncia delle Sezioni Unite 12 marzo 2013, n. 6072, in Foro it., 2013, I, p. 2189, con nota di Nigro, Cancellazione ed estinzione delle società: una parola definitiva dalle sezioni unite). La questione
è particolarmente delicata in ambito tributario, considerando che l’art. 28 opera per le ipotesi in cui l’Erario è creditore del contribuente, e non viceversa, laddove quindi saranno
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profili tributari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
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di contitolarità o comunione indivisa e costituiscono una sorta di garanzia
patrimoniale appunto per l’adempimento delle obbligazioni sociali, trasferite ai soci.
Sulla base di tali arresti, allora, viene da domandarsi quale sostanziale
beneficio potrebbe ricavare il creditore «civilistico» dalla permanenza in
vita dell’ente. O quest’ultimo ha concluso la liquidazione in assenza di attivo, nel qual caso non esiste materialmente alcunché su cui soddisfarsi, a
prescindere dalla sua ascrivibilità all’ente o al socio ( 6 ); ovvero la liquidazione si è solo formalmente conclusa e vi è stata invece attribuzione di beni e diritti ai soci, nel qual caso questi ultimi saranno responsabili, per il
valore di tali beni e diritti, nei confronti del creditore rimasto insoddisfatto dalla liquidazione.
In altri termini, sulla base del ricordato diritto vivente, e al netto di complicazioni processuali comunque non agevolmente risolvibili, nonché al
netto degli effetti di azioni distrattive o frodatorie di liquidatore e soci, la
cui patologia non può inficiare le conclusioni ivi raggiunte, vista anche la
specifica reazione approntata dall’ordinamento giuridico penale, mi pare
che l’estinzione della società ad esito della sua cancellazione poco o nulla
toglie alle ragioni del creditore «civilistico». Il quale riterrei scarsamente
interessato a quella sorta di cristallizzazione della soggettività giuridica,
come vedremo in seguito, invece introdotta dall’art. 28.
Per quanto riguarda gli specifici enti creditori interessati dalla norma in
commento, ricordiamo come la relazione illustrativa al d.lgs. n. 175/14 individui puntualmente l’obiettivo dell’art. 28 nell’«evitare che le azioni di
recupero poste in essere dagli enti creditori possano essere vanificate» ( 7 ).
Del tutto agevolmente comprensibile, per quanto ovvio. Ma, se proviamo
a chiederci sotto quale profilo vi sarebbe, in assenza dell’art. 28, una vanificazione dei crediti erariali, allora ci rendiamo conto che, sotto una patina
di chiarezza, si nascondono problematiche ben più articolate.
Intanto, la sopravvivenza del soggetto ( 8 ) alla ordinaria estinzione non
può certo condurre alla sopravvivenza o alla creazione di consistenze pa-
applicabili le ordinarie regole fatte propria dalla giurisprudenza in tema di art. 2495 c.c.
Dedicherò a tale problematica l’ultimo paragrafo del presente lavoro.
( 6 ) Salva la responsabilità per colpa del liquidatore, che però in quanto tale, prescinde
dall’esito della liquidazione, configurandosi appunto quale responsabilità per fatto proprio;
e salva la responsabilità illimitata del socio di società di persone, che però anch’essa è tale
a prescindere dall’esito della liquidazione e financo dalla estinzione o meno della società.
( 7 ) Mi pare del tutto pacifico che la norma in commento si innesti nell’ambito di una responsabilità di natura tributaria/civilistica (art. 36 d.p.r. n. 602/73 e art. 2495 c.c.). Una tale responsabilità, sia nell’an che nel quantum, rileva quindi solo in tale ambito. Nessun effetto può svolgere rispetto alla disciplina penale tributaria, retta da tutt’altra struttura e logica normativa (condivisibilmente si è scritto che la limitazioni quantitative di cui all’art.
2495 c.c. non operano in sede di determinazione del valore da sottoporre a sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, disposto in conseguenza della presunta violazione dell’art. 11 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, in G.U. n. 76 del 31 marzo 2000, in tema di sottrazione fraudolenta, attribuita a due soci di società cancellata dal registro imprese; in tal senso,
Cass. 16 giugno 2015, n. 24960).
( 8 ) Profilo, questo, che assumo qui per presupposto. Ma che tale certo non è (emblematico, in tal senso, il contributo di Fransoni, L’estinzione postuma della società ai fini fiscali
ovvero della società un poco morta e di altre amenità, in Rass. trib., 2015, p. 48 ss.)
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trimoniali ormai insussistenti, perché utilizzate per adempiere ad altre obbligazioni ovvero perché assegnate ai soci. Nel qual caso, peraltro, opererebbe la specifica disposizione di cui all’art. 36 d.p.r. 29 settembre 1973,
n. 602, in G.U. n. 268 del 16 ottobre 1973, s.o. (di seguito, per semplicità,
art. 36) che, in breve, riproduce il contenuto sostanziale dell’art. 2495 c.c.,
con conseguente responsabilità patrimoniale di liquidatori e soci ( 9 ).
In altri termini, e in parallelo con quanto accade per il creditore «civilistico», la società, una volta cancellata è priva di beni o diritti, a prescindere dall’effetto estintivo o meno; se gli stessi non sussistono più in termini
generali, allora non vi sarà comunque alcunché su cui soddisfarsi; se gli
stessi sono invece confluiti nelle disponibilità dei soci, saranno questi a rispondere in quanto successori delle obbligazioni sociali, o, molto, più
semplicemente, in forza del testé citato art. 36 ( 10 ).
Ma allora, l’esigenza di sopravvivenza della società ai fini tributari deve
essere diversamente giustificata. Ed è qui che si concentra il primo momento di sforzo ricostruttivo ai fini dell’attribuzione di efficacia alla norma in commento; perché, lo si ribadisce, se la sua funzione è quella di assicurare il soddisfacimento del credito erariale, allora l’art. 28 non serve
proprio ad alcunché, se non a creare innumerevoli complicazioni procedimentali e processuali.
Ebbene, diversamente da quanto accade nel diritto civile, nella nostra
materia, in ipotesi di responsabilità solidale, o comunque di responsabilità
tributaria per capacità contributiva altrui, l’obbligazione ha bisogno di essere determinata ed ascritta all’obbligato principale, ovvero a colui che ha
realizzato il presupposto del tributo ( 11 ).
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 9 ) Da segnalare il «pasticcio» tributario relativo agli ambiti di applicabilità dell’art. 28 e
dell’art. 36 alle società di persone. Intanto, riterrei che il primo si riferisca anche agli atti
impositivi notificati a tali tipi di società; il rinvio operato all’art. 2495 c.c. è ovviamente un
rinvio al significato a questo attribuibile (sull’estinzione della società di persone a seguito
della cancellazione, da ultima, Cass. 11 febbraio 2015, n. 2668, che peraltro si richiama alla
pronuncia a Sezioni Unite 22 febbraio 2010, n. 4060). Meno comprensibile il riferimento
espresso di cui all’art. 36 alla responsabilità dei liquidatori delle sole società soggette ad
Ires (anche qui il legislatore è quanto mai superficiale, richiamando l’Irpeg, invero eliminata oltre dieci anni fa), che quindi verrebbero chiamati in responsabilità solo in applicazione dell’art. 2495 c.c.
( 10 ) Paradossalmente, la sopravvivenza della società rispetto alla cancellazione rischierebbe di rendere inattuabile il percorso di aggressione del socio che abbia riscosso beni
dalla liquidazione, proprio perché la successione nelle obbligazioni presuppone l’estinzione dell’ente. Si potrebbe così assisterebbe ad una obbligazione che resta in carico ad un
soggetto (la società), ormai svuotato della consistenza patrimoniale attribuita al socio. Peraltro, una tale lettura, al limite ricavabile dall’art. 2495 c.c., non troverebbe spazio nel diritto tributario, perché l’art. 36 d.p.r. n. 602/73 prescinde dalla cancellazione della società
e quindi prescinde dalla configurabilità dell’indicato fenomeno successorio.
( 11 ) Tipico è il caso dell’accertamento alle società di persone, laddove la imputazione
del maggior reddito al socio presuppone la rideterminazione, anche formale, del reddito
della società. Similmente accade per l’operatività della distribuzione ai soci del maggior
reddito accertato alla società (di capitali), che appunto richiede la previa formalizzazione
dell’attività impositiva nei confronti della società. L’attuazione di tale procedimento accertativo pare pacifico nelle ipotesi di coobbligazioni solidale, laddove addirittura viene legittimata la notifica diretta dell’atto della riscossione al responsabile in solido, sul presupposto appunto del preesistente accertamento dell’obbligazione principale.
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Se allora è vero che, anche rispetto alla operatività dell’art. 36, è necessaria la previa imputazione alla società del debito tributario non assolto,
attraverso la formazione e notifica dei relativi atti impositivi o della riscossione, allora l’art. 28 finisce per avere una sua precisa funzione: consentire
cioè all’Erario l’accertamento del presupposto impositivo in capo alla società, non tanto ai fini del soddisfacimento delle relative posizioni creditorie, quanto per la precostituzione della condizione per l’esecuzione delle
stesse in capo ai soggetti obbligati di cui al citato art. 36. Con il che si finirebbe per sostenere che la norma in commento avrebbe di fatto un ambito di portata di interpretazione autentica nel senso appunto di riconoscere che la responsabilità di liquidatori e soci di cui all’art. 36 sarebbe attivabile solo in presenza di acclarata realizzazione del presupposto impositivo in capo al soggetto passivo del tributo (la società); ciò che potrebbe
appunto avvenire solo ad esito dell’esistenza (sopravvivenza) della società,
cui notificare il provvedimento e chiamare avanti il giudice tributari ( 12 ).
Se tali considerazioni sono corrette, significa che la limitata portata soggettiva dell’art. 28 (enti creditori di tributi e contributi) sarebbe ampiamente giustificata da un peculiare procedimento di accertamento, non
rinvenibile in relazione ad altre posizioni creditorie/debitorie. Verrebbe
così a cadere quella unitarietà del tertium comparationis necessaria per parametrare il giudizio di (dis)uguaglianza; l’art. 28 non viola l’art. 3 Cost.
non perché tratti in modo irragionevolmente diseguale situazioni simili,
ma perché tratta in modo ragionevolmente diseguale situazioni diseguali;
una disparità di trattamento, quindi, giustificata da una disparità di condizioni sottostanti ( 13 ).
Superato, credo, l’ostacolo di una adombrata ipotesi di disuguaglianza
«esterna», cioè fra creditori in dipendenza del relativo titolo, di natura tributaria o meno, occorre forse spendere qualche breve considerazione sul
grado di conformità all’art. 3 Cost della norma in commento rispetto ad
un confronto meramente interno al diritto tributario; quando, cioè, creditore sia il contribuente. Ci si domanda, cioè, se la conservazione della soggettività nel solo caso di credito erariale possa condurre ad una irragionevole compressione dei diritti del contribuente (la società), ove sia quest’ultimo il titolare del credito tributario.
Dedicherò l’ultimo paragrafo del presente lavoro alla sorte del credito
vantato dalla società nei confronti dell’Erario nel momento della sua can-
( 12 ) Vedremo in seguito le conseguenze derivanti dalla circostanza che il processo tributario, pur regolarmente instaurato, non giunga a sentenza definitiva entro il termine quinquennale di cui all’art. 28.
( 13 ) Non credo quindi serva, nella fattispecie, far ricorso a un argomento frequentemente utilizzato nei giudizi di costituzionalità per misurare il grado di ragionevolezza di determinate prerogative che le norme di legge attribuiscono all’ente impositore, negate, o comunque affievolite, per il contribuente. Mi riferisco alla valorizzazione del cosiddetto «interesse fiscale»; la sua portata pubblica e la sua funzione essenziale nella vita sociale hanno,
appunto, spesso giustificato una disparità di disciplina attuativa del tributo dipendente
dalla posizione soggettiva, pubblica ovvero privata (per gli opportuni approfondimenti,
rinvio a L. Antonini, Dovere tributario, interesse fiscale e diritti costituzionali, Milano,
1996, p. 243 ss. e p. 325 ss., e a P. Boria, L’interesse fiscale, Torino, 2002, p. 169 ss. e p.
287 ss.).
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cellazione. Ciò che, secondo una visione forse un po’ limitata, potrebbe in
effetti condurre a rilevare una posizione deteriore del contribuente creditore, rispetto all’ipotesi dell’Erario creditore, beneficiato dall’art. 28, considerando il recente ma ormai consolidato orientamento del Giudice di legittimità, secondo il quale il fenomeno successorio a favore dei soci riguarda i soli crediti indicati nel bilancio finale di liquidazione e sempre che
non si sostanzino in mere pretese o crediti illiquidi. Orientamento che però omette un approfondimento, invece del tutto essenziale, sulla individuazione dei parametri utili a differenziare il «credito» dalla «mera pretesa» ( 14 ).
A questo punto, anche accettata la tesi per la quale l’effetto estintivo
della società può travolgere tali posizioni giuridiche attive, è però altrettanto vero che essa subisce tale effetto non passivamente, ma quale conseguenza di una sua scelta volontaria (la cancellazione dal registro imprese).
Ed è infatti proprio ponendo l’accento sulla manifestazione di volontà,
sottesa alla cancellazione, che la Corte di Cassazione giustifica la portata
abdicativa del credito non esposto nel bilancio finale o non qualificabile
come tale in quanto mera pretesa. In altri termini, optando per la cancellazione, la società dimostrerebbe una implicita ma chiara intenzione di abbandonare la propria posizione giuridica attiva non formalizzata, così che
gli effetti in tal senso deleteri dell’estinzione non derivano da una norma
irragionevolmente inclinata a favore dell’Erario, ma, appunto, da una propria manifestazione di volontà ( 15 ).
In definitiva, anche rispetto ad una verifica tutta interna ai soggetti attivi
e passivi dell’obbligazione tributaria, riterrei inconfigurabile, per l’art. 28,
un vizio di irragionevole disparità di trattamento. L’attuale ordinamento
giuridico, così come fatto proprio dalla pacifica giurisprudenza, già appronta tutti gli strumenti per la tutela del contribuente creditore, sui quali
la norma in commento non incide, né serve che incida.
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2. Segue: ... e i profondi dubbi sulla superabilità dello scrutinio di costituzionalità rispetto all’art. 76 Cost.
Come spero di aver dimostrato, dovrebbe risultare positivamente superato lo scrutinio di conformità costituzionale dell’art. 28 all’art. 3 Cost.
Ben più di qualche dubbio credo possa sollevarsi rispetto all’altro profilo di possibile incostituzionalità della norma in commento, anch’esso rinvenibile nella citata sentenza Cass. 2 aprile 2015, n. 6743. Il riferimento è
all’adombrato eccesso di delega (anche sotto il profilo del contrasto alla
( 14 ) Rinvio, sul punto, alle considerazioni esposte nell’ultimo paragrafo.
( 15 ) In un’ottica di valutazione di conformità all’art. 3 Cost., non mi pare proprio possano rilevare ipotetiche situazioni di fatto patologicamente incidenti sul diritto di credito
(erariale). È ben vero che uno scriteriato comportamento del liquidatore che proceda alla
cancellazione della società e/o alla mancata inclusione del credito nel bilancio finale di liquidazione potrebbe causare una situazione dannosa per il singolo socio (oltre che per la
società stessa). Ma tale problema trova una soluzione all’interno dei meccanismo risarcitori
previsti dal diritto societario e non può certo influire su un giudizio di conformità costituzionale che è di puro diritto e opera in astratto.
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medesima) rispetto alla l. 11 marzo 2014, n. 23, in G.U. n. 59 del 12 marzo
2014, in relazione alla violazione dell’art. 76 Cost.
I precedenti insegnano che il Giudice delle leggi è molto più sensibile
all’aspetto dell’uniformità di trattamento legale, piuttosto che a quello del
rispetto, più formale che sostanziale, del coerente rapporto fra poteri dello Stato (esecutivo e legislativo) così come strutturato nell’art. 76 Cost.
Peraltro, pur nella tendenziale benevolenza, la Corte Costituzionale ha
avuto modo di censurare ipotesi in cui il limite di discrezionalità governativa aveva oltrepassato i pur ampi limiti dalla stessa tracciati; giungendo,
negli anni, a consolidare le seguenti linee guida per una valutazione sul
grado di conformità della norma delegata all’art. 76 Cost. In particolare,
occorre porre le basi del giudizio di costituzionalità attraverso il previo
processo ermeneutico riguardante legge delega e decreto delegato: individuazione, per la prima, dell’oggetto, dei principi e dei criteri direttivi, tenuto conto del contesto normativo in cui si collocano e si individuano le
ragioni e le finalità relative; interpretazione, per il secondo, delle specifiche disposizioni nel significato compatibile con detti oggetti, principi e
criteri.
Riconosce, la Corte, la possibilità, per il legislatore delegato, di introdurre previsioni che costituiscono un coerente sviluppo e completamento
delle indicazioni fornite dal legislatore delegante, purché nel rigoroso ambito dei confini stabiliti. Tale opera di completamento deve quindi mantenersi nell’alveo delle scelte di fondo operate dal legislatore della delega,
senza potersi spingere ad allargarne l’oggetto, fino a comprendervi materie che ne erano escluse. Ancor più puntualmente, viene rilevato che,
quand’anche il Parlamento abbia ritenuto di delegare al Governo il compito di procedere al riassetto di determinati settori normativi, l’esercizio,
da parte di quest’ultimo, di poteri innovativi della normazione vigente,
non strettamente necessari in rapporto alla finalità di ricomposizione sistematica perseguita, debba ritenersi circoscritto entro limiti rigorosi ( 16 ).
Ebbene, se tale è, com’è, il generale orientamento del Giudice delle leggi, mi parrebbe molto poco agevole sviluppare serie motivazioni a sostegno di un rigetto della questione di illegittimità costituzionale dell’art. 28
rispetto all’art. 76 Cost.
Il decreto delegato che contiene la norma in commento è stato emanato
in attuazione dell’art. 1 (avente portata generale) e dell’art. 7 (avente portata specifica) della legge delega. Quest’ultimo, già nel titolo, lascia chiaramente intuire la relativa ratio: «semplificazione»; e i principi e criteri direttivi non la tradiscono. Il Governo deve agire in tema di «revisione sistematica dei regimi fiscali e loro riordino, al fine di eliminare complessità
superflue»; in tema di «revisione degli adempimenti, con particolare riferimento a quelli superflui (...) e a quelli che risultino di scarsa utilità per
l’amministrazione finanziaria ai fini dell’attività di controllo»; in tema di
«revisione, ai fini di semplificazione, delle funzioni dei sostituti d’imposta
( 16 ) Gli indicati principi interpretativi sulla portata dell’art. 76 Cost. si ritrovano ormai
quasi pedissequamente ripetute nelle sentenze della Corte Costituzionale; mi limito a ricordare le più recenti: Corte cost. 14 marzo 2014, n. 50 e Corte cost. 6 dicembre 2012, n.
272, ove ulteriori precedenti.
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e di dichiarazione (...) con potenziamento dell’utilizzo di sistemi informatici».
È chiara la ratio dell’art. 7: a prescindere da chi ne sia il beneficiario
(Erario o contribuente), il legislatore delegato deve sfoltire l’attuale sistema da adempimenti strumentali o formali inutili rispetto alla verifica del
rispetto delle norme impositive sostanziali. Davvero arduo, allora, pensare
che l’art. 28 possa essere ricondotto all’interno di tale ratio, dato che non
attiene in alcun modo ad attività strumentali all’attuazione del tributo da
parte del contribuente. Trattandosi di norma innovativa e, come meglio
vedremo in seguito, dal carattere eccezionale, occorre giudicare con deciso rigore la propria funzionalità rispetto alle finalità indicate dal legislatore delegante; funzionalità, a questo punto, davvero debole.
Sorte solo in parte diversa tocca all’art. 28 nel momento del suo confronto con i principi e criteri direttivi indicati dall’art. 1 della legge delega.
Pur nella loro ampiezza, il relativo perimetro di significato e funzione appare tranquillamente tracciabile: «uniformità della disciplina riguardante
le obbligazioni tributarie, con particolare riferimento alla solidarietà, sostituzione e responsabilità»; «semplificazione della disciplina sugli obblighi contabili e dichiarativi» (che poi si ritrova esplicitato nell’indicato art.
7); «uniformità dei poteri in materia tributaria e disciplina unitaria della
struttura, efficacia e invalidità degli atti dell’amministrazione finanziaria»;
«generalizzazione della compensazione fra crediti e debiti tributari».
L’art. 28 è senza dubbio estraneo a tale ultimo criterio e, per le ragioni
già esposte, da quello sulla semplificazione. Il relativo comma 5o, di riscrittura parziale dell’art. 36 d.p.r. n. 602/73, dovrebbe per contro rientrare nel primo indicato criterio, trattando di responsabilità di liquidatore
e soci, rilevante, tra l’altro, in relazione ad ogni tributo; nessun dubbio,
quindi, sulla sua conformità alle logiche della legge delega.
Difficile, però, che il comma 4o dell’art. 28 (quello specifico sul «congelamento» quinquennale dell’estinzione da cancellazione per la validità degli atti impositivi) possa essere ricondotto al criterio sui poteri di accertamento e vizi del provvedimento. E ciò per almeno due ordini di ragioni.
Da un lato, appare sufficientemente chiaro come tale criterio direttivo
sia quello di una rivisitazione sistematica del contenuto e delle patologie
dell’atto impositivo, attraverso una previsione di ampio respiro generale
che investa ogni tipologia di provvedimento per ogni tributo. Caratteri,
questi, che certo non possono riconoscersi alla norma in commento.
Dall’altro, come vedremo meglio in seguito, l’art. 28 solo apparentemente riguarda validità ed efficacia dell’atto amministrativo; tale aspetto,
infatti, ha natura di causa, e non di effetto della reale disciplina di fondo.
La norma «deve» presupporre ciò che in realtà testualmente non si legge;
deve cioè basarsi sulla fictio juris della permanenza in vita, quanto meno
per il diritto tributario (e comunque parzialmente), della soggettività giuridica dell’ente societario, pena la sua palese inattuabilità assoluta, come
avrò modo di chiarire in seguito.
In altri termini, la validità forzata (dal legislatore) del provvedimento, in
assenza della soggettività del contribuente, equivale ad un fabbricato costruito sulla sabbia senza fondamenta: crolla al primo serio colpo di vento.
Così, la validità dell’atto, prevista a dispetto della cancellazione della so-
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cietà, rappresenta solo l’aspetto «esteriore», per così dire effettuale, di una
logica normativa non scritta, e cioè la sopravvivenza, quanto meno a tal fine, dell’ente. Così, quella scritta (art. 28, comma 4o) è norma sugli effetti
rispetto a quella, non scritta ma essenziale e pregiudiziale, che è norma
sulla fattispecie ( 17 ).
In definitiva, si intravede, sullo sfondo, la norma che regola il fenomeno
sostanziale in termini soggettivi, nel senso appunto della fictio juris di conservazione o riattribuzione di soggettività tributaria in parte qua (procedimentale e processuale); in primo piano, si staglia la norma sulle conseguenze giuridiche di quella fictio juris, identificate appunto nella «validità
ed efficacia degli atti di accertamento (...)».
La norma in commento risulta allora estranea al terzo principio e criterio direttivo previsto dall’art. 1 della legge delega, riguardando la soggettività e non le caratteristiche dell’atto amministrativo. E, quand’anche le si
possa riconoscere una tale ultima funzione, appare comunque del tutto
inidonea a rispettare detto principio e criterio direttivo, visto il suo carattere eccezionale e quindi asistematico, soprattutto perché, appunto, non si
inserisce, pur nella sua particolarità, in un contesto di riscrittura complessiva dei requisiti di validità del provvedimento impositivo.
Superabile, allora, lo scoglio del controllo di conformità rispetto all’art.
3 Cost., mi appare in ripida salita il percorso per oltrepassare indenni
l’ostacolo del confronto con l’art. 76 Cost. Ciò che, in un’ottica di politica
del diritto, potrebbe anche non avvenire, senza con questo prefigurare foschi scenari sulla casse dello Stato. Trattasi infatti di una norma la cui carenza negli anni precedenti (quanto meno da dopo le sentenze della Corte
di Cassazione a Sezioni Unite del 2010 sull’effetto immediatamente estintivo della cancellazione dal registro imprese) non mi risulta abbia provocato drammatici sconquassi alla tutela del credito erariale. E, comunque,
trattasi di una norma che ben potrebbe essere riscritta ad esito di una riflessione più meditata e inserita nell’ambito di uno dei numerosi interventi di legislazione tributaria, senza necessariamente passare per le trappole
della legge delega.
3. Spunti a favore della conservazione, pur limitata, della soggettività tributaria.
Le problematiche legate alla cancellazione della società dal registro delle
imprese non nascono nel diritto tributario. Hanno trovato disciplina positiva e diritto vivente del diritto societario, nonché, soprattutto, per quanto
qui di interesse, nel diritto fallimentare.
Erra, quindi, il tributarista a non considerare adeguatamente le conclu-
( 17 ) Tale aspetto viene sottolineato anche nella più volte citata Cass. 2 aprile 2015, n.
6743, laddove la irretroattività della norma in commento è motivata proprio sulla circostanza che essa «opera su un piano sostanziale e non procedurale, in quanto non si risolve
in una diversa regolamentazione dei termini processuali o dei tempi di accertamento o riscossione», dato che è in realtà funzionale a «mantenere parzialmente per la società una
capacità e soggettività altrimenti inesistenti».
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sioni raggiunte in diversi rami dell’ordinamento giuridico, soprattutto laddove vi siano tratti di disciplina concettualmente uniforme.
L’art. 10 l. fall. prevede che «gli imprenditori collettivi possono essere
dichiarati falliti entro un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese, se l’insolvenza si è manifestata anteriormente alla medesima o entro
l’anno successivo». Norma, questa, abbastanza innocua rispetto a quanto
testualmente prescrive; ma densa di significati rispetto a quanto sottintende e, appunto, a quanto interpretativamente ricavato dal Giudice di legittimità e dalla dottrina.
Non è certo mia intenzione approfondire la questione internamente al
diritto fallimentare. Ma riterrei che le conclusioni ivi da altri raggiunte, e
che qui acquisisco quale sorta di diritto vivente, possano essere utilmente
riprodotte ai fini della perimetrazione della portata nella norma in commento ( 18 ).
Ebbene, dalla indicata previsione della condizionata (dal fattore tempo)
fallibilità della società pur se estinta a seguito della cancellazione, si è ricavato il principio per cui una tale conseguenza sarebbe configurabile solo
in dipendenza della fictio juris di sopravvivenza (o rinascita) dell’ente, peraltro limitatamente a tale profilo. Laddove comunque una tale sopravvivenza non riguarda, secondo la tesi senz’altro prevalente, la mera ascrivibilità ad un patrimonio degli effetti della sentenza dichiarativa di fallimento, quanto, prima ancora, il riconoscimento della soggettività giuridica,
quantunque per i soli fini e le tutele connesse alla procedura fallimentare.
In altri termini, quando la norma congela per un anno l’estinzione della
società, per la verifica di una sua eventuale fallibilità, certamente opera su
un piano di autonomizzazione patrimoniale (dell’ente) funzionale al soddisfacimento dei creditori; ma, in termini logicamente preliminari, presuppone il mantenimento della capacità giuridica soggettiva. La società finisce per rilevare come soggetto prima ancora che come individuazione
nominale di un complesso patrimoniale; soggetto estinto per il diritto «comune», ma esistente per il diritto fallimentare (cioè per l’esplicazione degli effetti delle norme della legge fallimentare).
Le ricadute di tale impostazione sono agevolmente ricavabili, almeno in
relazione ai profili qui rilevanti. Da un lato, gli atti vanno notificati presso
l’ultimo indirizzo della società; dall’altro, la legale rappresentanza resta in
capo all’ultimo liquidatore, il quale ha legittimazione passiva alla impugnazione degli atti stessi.
Lo si ribadisce. Tale conclusione non è forse di immediata derivazione
rispetto al testo della norma in commento. Ma è l’unica conclusione che
permette di attribuire efficacia normativa all’art. 28; infatti, senza la fictio
juris della permanenza della soggettività dell’ente formalmente cancellato
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( 18 ) Mi limito in tal senso a ricordare, da ultima, Cass. 30 maggio 2013, n. 13659 (che
richiama espressamente la pronuncia a sez. un. 12 marzo 2013, n. 6070), con nota di Hamel, Questioni in tema di fallimento di società cancellata, in Giur. comm., 2014, II, p. 935
ss.; si veda inoltre Sanna, Gli effetti della cancellazione dell’impresa e della società dal registro delle imprese, in Giur. comm., 2015, II, p. 80 ss., ove tutti gli ulteriori approfondimenti
del caso.
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(almeno ai fini della validità degli atti impositivi) ( 19 ), la norma sarebbe
semplicemente incostituzionale per manifesta irragionevolezza sotto svariati profili: a tacer d’altro, nessun significato giuridico può riconoscersi
alla affermazione della validità di un provvedimento notificato a un soggetto che, in quanto inesistente, non avrebbe legittimazione passiva alla
propria tutela giurisdizionale ( 20 ).
Vi è allora necessità di un soggetto esistente (anche se solo in parte qua)
per poter attribuire efficacia ad un atto impositivo, la cui natura recettizia
richiede appunto la sua giuridica conoscenza da parte del contribuente;
carente quest’ultimo, l’atto esiste nella materialità dei fatti ma non per il
mondo del diritto.
In definitiva, credo si debba accettare l’idea, dettata dal principio per il
quale va preferita l’interpretazione che conduce a un risultato ragionevole, piuttosto che a uno irragionevole, secondo la quale l’art. 28 presuppone il mantenimento ovvero la riattribuzione di soggettiva all’ente cancellato, almeno rispetto alla validità ed efficacia dell’atto impositivo, nonché rispetto al compimento di tutti quegli atti giuridici connessi allo sviluppo
procedimentale e processuale dell’atto stesso ( 21 ).
Mi rendo conto che sto correndo sul filo di una interpretazione additiva,
ma non vedrei altre soluzioni per una razionale efficacia della norma in
commento. Così, la fictio juris della soggettività consentirebbe di far costituire l’ente come valido contraddittore nell’intero ambito, anche procedimentale, riconducibile al provvedimento impositivo. L’ente, in persona
del proprio liquidatore, potrà quindi partecipare al procedimento di accertamento con adesione e, prima ancora, all’eventuale contraddittorio
anticipato, obbligatorio o facoltativo che sia; così come sarà tenuto alla
collaborazione attiva durante la fase istruttoria.
( 19 ) Negli interventi «a caldo» sull’art. 28 si è spesso criticata l’idea della sopravvivenza
della società («un po’ morta»), omettendo di considerare che tale sopravvivenza presuppone il mantenimento della soggettività, quanto meno in relazione agli effetti indicati dal legislatore. Ciò che non mi pare rappresenti uno scandalo, considerando che non solo il
mantenimento in vita parziale è insito nell’art. 10 l. fall., ma, soprattutto, che non sembra
vi siano dubbi sulla possibilità di attribuzione di soggettività passiva tributaria sostanziale
a entità non qualificabili come soggetti dal diritto civile (in tal senso, tra gli ultimi, Giovannini, Soggettività tributaria e fattispecie impositiva, Padova, 1996, p. 21 ss., F. Gallo, I
soggetti del Libro I del codice civile e l’Irpeg: problematiche e possibili evoluzioni, in Riv. dir.
trib., 1993, p. 345 ss., Scalinci, Il tributo senza soggetto, Padova, 2011, p. 186 ss.). Se
quindi il requisito della soggettività giuridica è superabile rispetto alla integrazione del
presupposto e alla ascrivibilità della relativa obbligazione (tributaria), mi parrebbe senz’altro configurabile una soggettività procedimentale e processuale come quella introdotta
dall’art. 28.
( 20 ) Preoccupazione, questa, bene espressa da Fransoni, L’estinzione postuma della società, cit., p. 50 ss.
( 21 ) Si pensi, in prima battuta, al conferimento del mandato ad litem e della assunzione
delle connesse obbligazioni. La fictio juris della permanenza della soggettività tributaria sarebbe comunque ulteriormente parziale, visto che il penultimo comma dell’art. 28 in commento chiarisce che tale soggettività non fa nascere obblighi o adempimenti strumentali o
dichiarativi, proprio perché, rispetto a tali profili, la società resta estinta. Tale fictio juris rileverebbe anche nel momento procedimentale della pretesa erariale, consentendo alla società, in persona dell’ultimo liquidatore, di contraddire nella fase dell’accertamento con
adesione.
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Agevole ribattere che tale idea supera il dato normativo, che si riferisce
solo al momento provvedimentale dell’agire amministrativo (atto di accertamento, liquidazione, etc). Il fatto è che il contraddittorio anticipato sta
ormai assurgendo a principio generale del diritto tributario, coessenziale
al diritto difesa e comunque a presidio anche del corretto esercizio del potere amministrativo ( 22 ). Sostenere che la fictio juris della soggettività scatta nel momento della notifica del provvedimento, significherebbe azzerare
la fase del contraddittorio, con incisione delle posizioni giuridiche testé
indicate. Ciò senza tener conto delle ipotesi (accertamento sintetico, disciplina antielusiva, liquidazione in caso di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione) in cui il contraddittorio anticipato è obbligatorio pena la
nullità del successivo atto di accertamento; se manca il soggetto, manca il
contraddittorio e l’atto sarà nullo.
Mi sembrerebbe allora più ragionevole sostenere che la normativamente
affermata validità dell’atto di accertamento debba riferirsi a tutti i profili
che verrebbero travolti dalla estinzione della società per sua cancellazione;
si avrebbe, altrimenti, una sorta di validità dimezzata e dipendente da fattori contingenti esterni all’atto stesso, quali appunto una previsione legale
di contraddittorio anticipato obbligatorio. Alternativa sulla cui ragionevolezza mi permetterei senz’altro di dubitare.
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4. La portata (involontariamente?) sistematica della prevista «validità ed
efficacia dell’atto» impositivo nonostante la cancellazione dell’ente.
Già ho accennato, trattando dei profili di (in)costituzionalità dell’art.
28, che elemento determinante per superare un dato testuale altrimenti di
dubbia ragionevolezza è quello di individuare le ragioni per le quali il legislatore ha sentito la necessità di disporre la «validità ed efficacia» dell’atto impositivo a prescindere dalla cancellazione della società.
Come già rilevato, la questione non è frutto di mera didascalica curiosità; se manca una situazione giuridica soggettiva tutelata, che non può certo essere quella della validità dell’atto fine a se stessa, la norma rischia fortemente una censura di incostituzionalità per irragionevole privilegio ai
crediti erariali rispetto agli altri crediti. Ecco che, allora, si è ipotizzata una
precisa funzione dell’art. 28, individuabile nella precostituzione, nei con-
( 22 ) Il contraddittorio anticipato in ambito tributario sta evolvendo, negli ultimi anni,
da fenomeno confinato alle specifiche ipotesi previste dalla norma a principio generale di
un civile rapporto fra contribuente e amministrazione finanziaria. Ampi sono stati i contributi in dottrina, fra i quali mi limito a ricordare i più strutturati: Ragucci, Il contraddittorio nei procedimenti tributari, Torino, 2009, p. 82 ss.; Marcheselli, Il «giusto procedimento» tributario, Padova, 2012, p. 65 ss.; Tundo, Procedimento tributario e difesa del contribuente, Padova, 2013, p. 301 ss. Grande impulso allo sviluppo del fenomeno è stato peraltro dato sia dalla giurisprudenza nazionale che comunitaria; mi limito a ricordare Cass.,
sez. un., 29 luglio 2013, n. 18184; Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19667; Cass. 5 dicembre 2014, n. 25759; da rimarcare inoltre l’ordinanza Cass., 14 gennaio 2015, n. 527 di
rimessione alle Sezioni Unite affinché si pronuncino sulla necessità del previo contraddittorio anche nei cosiddetti accertamenti «a tavolino»; in ambito comunitario, Corte giust. 3
luglio 2014, cause riunite 129/13 e 130/13 e Corte giust. 12 febbraio 2015, causa 662/13.
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fronti della società, del titolo per l’accertamento della responsabilità del liquidatore e/o dei soci nei cui confronti agire ai sensi dell’art. 36.
In altri termini, a prescindere dalla natura, tributaria o civilistica, della
responsabilità di tali soggetti ( 23 ), non credo sussistano dubbi sul fatto che
la quantificazione di detta responsabilità dipenda dall’accertamento del
maggior tributo e accessori in capo al soggetto passivo (la società). Il citato art. 36 ( 24 ) chiaramente si riferisce alla «imposta» riconducibile alla società di cui è stato omesso il «pagamento»; ciò che lascia tra l’altro intendere che la responsabilità si innesta, a livello procedimentale, quale momento della riscossione del tributo.
Nella qualificazione della natura di detta responsabilità, riterrei così di
attribuire preciso significato alla dissociazione, che l’art. 36 crea, tra «pagamento delle imposte» e «imposte dovute dalla società». Certamente,
l’oggetto della responsabilità di liquidatori e soci non riguarda l’imposta,
ma una somma corrispondente a questa; d’altronde, il presupposto del tributo si è realizzato solo nei confronti di un terzo (la società), così come il
fatto-fonte della responsabilità non è costituito dal mero collegamento
soggettivo (come nella solidarietà a titolo di garanzia), ma da una situazione riconducibile esclusivamente a tali soggetti (fatto proprio, arricchimento senza causa).
( 23 ) Sulla natura civilistica della responsabilità ex art. 36, la giurisprudenza appare sufficientemente concorde; da ultime, Cass. 10 giugno 2015, n. 12007; Cass. 11 maggio
2012, n. 7327 e Cass. 13 luglio 2012, n. 11968, le quali, tra l’altro, escludono che la situazione soggettiva prevista da tale norma sia riconducibile ad una forma di solidarietà. Si
rinvia, sul punto, a Ficari, Cancellazione dal registro delle imprese delle società di capitali,
abuso della cancellazione e buona fede nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente, in Riv. dir. trib., 2010, I, p. 1037; Tassani, La responsabilità di soci, amministratori e liquidatori per i debiti fiscali della società, in Rass. trib., 2012, p. 359; Selicato, I riflessi fiscali della cancellazione delle società dal registro delle imprese, in Rass. trib., 2010,
p. 868.
Non condivisibile appare quindi l’impostazione recentemente adottata da Cass. 17 luglio 2014, n. 16373, che ipotizza una responsabilità solidale del curatore ex art. 36 e che,
nel censurare (correttamente) l’omessa motivazione dell’atto a quest’ultimo notificato,
censura il fatto che detto atto si sia sostanziato in una cartella di pagamento, in luogo di un
avviso di accertamento.
( 24 ) Altra e diversa questione, qui non trattabile perché oltre i limiti del presente lavoro,
è quella attinente il rapporto fra il citato art. 36 e l’art. 2495 c.c. Mi pare comunque abbastanza evidente la specialità del primo rispetto al secondo, in termini sia di materia che di
condizioni di rispettiva operatività, soprattutto dopo la modifica introdotta proprio dall’art. 28 nel senso di applicabilità dell’art. 36 ad ogni tributo. Irrilevante ausilio è quello ricavabile dalla previsione che fa salve «le maggiore responsabilità stabilite dal codice civile»
perché questa non può riferirsi all’art. 2495 c.c., che ha ampiezza minore rispetto all’art.
36; il riferimento è probabilmente diretto alla responsabilità illimitata dei soci di società di
persone. Peraltro, riterrei che la questione possa essere sdrammatizzata, considerando che,
in ogni caso, la fase accertativa ed esecutiva tributaria nei confronti di liquidatori e soci si
svolge secondo le regole del procedimento tributario (sulla questione, Nussi, La riscossione dei tributi nei confronti di coobbligati in base a norme civilistiche, in Dialoghi tributari,
2004, p. 961 ss.).
Il problema semmai si pone per quella parte di ambito oggettivo non coperto dall’art.
36. Il riferimento è alle sanzioni (tributarie) non contemplate nella responsabilità così come strutturata in tale norma. Potrebbe quindi ipotizzarsi, per queste, una applicabilità residuale dell’art. 2495 c.c., con conseguente disciplina, anche processuale, di diritto civile.
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Tutto ciò non mi pare però sufficiente ad autonomizzare detta responsabilità, fino a rendere la relativa azione del tutto slegata dalla posizione
della società ( 25 ). Tale responsabilità ha bisogno dell’accertamento del tributo dovuto dalla società; in via principale, però, e non quale elemento
meramente incidentale. In un’ottica di responsabilità civilistica, quel tributo costituisce il «danno», da fatto illecito (liquidatori) o da indebito arricchimento (soci), come oggettivo nocumento per l’Erario. Ma la portata
testuale dell’art. 36 non è tale da assicurare il nesso causale tra azioni od
omissioni dei soggetti ivi indicati e l’evento dannoso.
Sia a tal fine sufficiente considerare che i fatti-fonte della responsabilità
sono strutturalmente inidonei ad assicurare che, sottostante, sia configurabile l’elemento soggettivo della colpa ( 26 ), dato che il maggior tributo in
capo alla società potrebbe emergere e divenire noto a liquidatori e soci in
data successiva alla chiusura della liquidazione. Così, l’autonomizzazione
della responsabilità in oggetto rischia di equivalere a negare la stessa in
tutti i casi in cui pagamento di debiti e assegnazione di beni avvengano in
data anteriore alla definitività dell’accertamento del maggior tributo in capo alla società; il tutto per la nota civilistica ragione della insussistenza del
nesso causale tra condotta e danno.
Riterrei allora che i fatti-fonti della responsabilità ex art. 36 possano essere ricondotti al «fatto proprio» e all’«arricchimento senza causa» solo
quali elementi giustificativi, in un’ottica di coerenza costituzionale, dell’imposizione di una prestazione patrimoniale a soggetti estranei alla realizzazione del tributo; imposizione che opera nel momento dell’attuazione
e non di formazione di quest’ultimo. Si tratterebbe allora di una responsabilità che si giustifica soggettivamente in termini civilistici, ma che ope-
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( 25 ) Recentemente, la dottrina ha ipotizzato una ricostruzione della responsabilità dei
soggetti di cui all’art. 36 caratterizzata da ampia autonomia rispetto alla responsabilità tributaria tipica delle società (Carinci, La nozione di «imposte dovute» rilevante per la responsabilità del liquidatore di società, in Corr. trib., 2014, p. 785 ss.; L. Bianchi, Società di
capitali cancellata, cit., p. 24 ss.). Il tratto comune è l’enfatizzazione della natura civilistica
della responsabilità, che diventa azionabile in presenza del fatto-fonte previsto dall’art. 36,
in modo che la questione della debenza dell’imposta da parte della società diviene incidentale rispetto alla cognizione sulla responsabilità di liquidatori e soci. Su tali basi, la definitività dell’accertamento in capo alla società diviene irrilevante; anzi, sarebbe tale il fatto
stesso che un accertamento, valido o meno, esista.
( 26 ) Nell’estremizzazione della natura civilistica della responsabilità dei liquidatori, il
debito della società diviene «fatto storico» a tal fine, con conseguente preclusione per tali
soggetti della possibilità di contestare l’effettiva debenza del tributo da parte della società;.
ciò che poi conduce a ritenere non rilevante l’elemento soggettivo della colpa. Come già
evidenziato, e come chiarirò in seguito, tale impostazione non mi convince: da un lato, infatti, la società potrebbe non avere alcun interesse all’impugnazione dell’accertamento nei
suoi confronti; dall’altro, la responsabilità, anche ove civilistica, sarebbe di natura extracontrattuale, con necessaria applicazione del principio di imputazione soggettiva del danno; inoltre, nel momento in cui si richiede che il liquidatore sia a conoscenza quanto meno
della pretesa erariale prima del pagamento (illecito) di debiti deteriori rispetto a quello fiscale, è perché, evidentemente, si presuppone il rilievo della colpa; infine, si dovrebbe
spiegare come conciliare un tale ipotizzato allontanamento dalla rilevanza tributaria della
posizione dei liquidatori, quando lo stesso art. 36 attribuisce la giurisdizione al giudice tributario (si veda nota seguente).
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ra, ai due estremi dell’an e del quantum del tributo da un lato, e della fase
attuativa dall’altro, a livello di diritto tributario ( 27 ).
A questo punto, la natura della responsabilità di cui all’art. 36 mi appare
di scarso rilievo, trattandosi di fenomeno insuscettibile di costituire una
base teorica per la soluzione delle varie questioni che si possono porre. La
irriconducibilità della responsabilità alla figura della solidarietà deriva dalla semplice constatazione che la norma non ne fa menzione; noto essendo
il principio per cui una prestazione patrimoniale o, in termini privatistici,
trova genesi nel contratto o nel fatto illecito, ovvero, in termini pubblicistici, abbisogna di specifica previsione legale (ex art. 23 Cost.) ( 28 ).
Ma anche una tale questione appare di ridotta portata concreta. Come
accennato, nessuno dubita che la responsabilità in oggetto, pur fondata su
atti e fatti diversi dall’obbligazione tributaria pertinente la società, sia
commisurata ad essa; laddove una tale riferibilità riguarda sia il quantum
che, soprattutto, l’an. Tanto che se, per avventura, la società adempie alla
propria obbligazione, nulla può essere ulteriormente richiesto ai liquidatori/soci, quand’anche si siano verificati i fatti costituenti la loro responsabilità. E, non a caso, quest’ultima è storicamente inserita nella disciplina
della riscossione e attiene, testualmente, al «pagamento» del tributo; attiene cioè alla fase attuativa e non formativa dell’obbligazione originaria
(dell’ente).
Come peraltro sta accadendo sempre più frequentemente nel diritto tributario, si assiste, con l’art. 36, ad una dissociazione tra fonte genetica dell’obbligazione tributaria (realizzazione del presupposto del tributo) e fonte genetica dell’obbligo di pagamento (fatto proprio o indebito arricchimento); quando però si passa alla fase dell’attuazione/adempimento, tali
( 27 ) L’art. 36 prevede che la responsabilità ivi prevista è accertata sulla base di un atto
motivato di natura tributaria, così come prevede che, avverso tale atto, sia attivabile la tutela giurisdizionale avanti le commissioni tributarie (alla medesima conclusione era giunto
Basilavecchia, Quale atto impositivo per riscuotere dall’amministratore il debito della società?, in Corr. trib., 2014, p. 2441 ss.). Ciò che sottintende che l’oggetto della cognizione
è, in via principale, e non incidentale, il tributo (oltre che, ovviamente, i fatti-fonti della responsabilità); diversamente opinando, la norma sarebbe incostituzionale per violazione
della disposizione che vieta la creazione di giudici speciali (da ultima, Corte cost. 14 marzo
2008, n. 64). Si è quindi all’interno del procedimento tributario, con applicazione di tutta
l’intera relativa disciplina, compresa la decadenza e non certo l’ordinaria prescrizione decennale (su tale profilo, Amatucci, Prescrizione e decadenza nel diritto tributario – profili
costituzionali, in Berliri e Perrone (a cura di), Diritto tributario e Corte Costituzionale,
Napoli, 2006, p. 463 ss.). In altri termini, quando ci si riferisce alla natura civilistica della
responsabilità in oggetto, è perché liquidatori e soci sono estranei alla realizzazione del
presupposto del tributo, così come non sono chiamati a rispondere a titolo di garanzia (come nella solidarietà); ma lo statuto procedimentale della contestazione che li riguarda è
prettamente tributario e attiene all’esercizio di un potere amministrativo autoritativo. Non
credo sia un caso che le ipotesi di prescrizione del diritto, piuttosto che di decadenza dall’azione, rappresentino situazioni eccezionali espressamente previste per legge.
( 28 ) Vero che la responsabilità in oggetto non trova origine dallo stesso fatto da cui sorge l’obbligazione d’imposta, ma, appunto, da un fatto proprio (del liquidatore) o da un indebito arricchimento (dei soci) (ciò che è sottolineato da Ragucci, Le nuove regole, cit., p.
1628; più diffusamente, Id., La responsabilità tributaria dei liquidatori di società di capitali,
Torino, 2013, p. 40 ss.). Ma nulla toglie che ben il legislatore avrebbe potuto legittimamente formalizzare una coobbligazione solidale tra società e liquidatori/soci.
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due momenti si unificano rispetto all’an e al quantum dovuto (come obbligazione prima e come obbligo poi). Nulla di rivoluzionario, però, perché,
ovviamente, «si adempie all’obbligazione», nel senso che, per quanto si
possano distinguere geneticamente e soggettivamente nascita del tributo e
sua attuazione, quest’ultima non può che riguardare il primo. Allora, se
c’è, come c’è, una sola obbligazione, non può che esservi un solo adempimento, provenga esso dalla società o dai soggetti responsabili ai sensi dell’art. 36.
In definitiva, possiamo, in astratto, qualificarla o meno come solidarietà.
Si tratterebbe comunque di fenomeno meramente descrittivo, quanto meno nei rapporti esterni con l’Erario ( 29 ). L’art. 36 dà infatti vita ad una
moltiplicazione di soggetti debitori di un’unica somma nei confronti di un
unico creditore; pagata la somma, a prescindere dal solvens, l’obbligazione originaria è adempiuta.
Così, acclarata la stretta dipendenza dell’obbligo di pagamento dei soggetti responsabili ex art. 36 rispetto all’an e al quantum dell’obbligazione
tributaria della società, si riesce a scorgere il cuore della funzione dell’art.
28: consentire la definizione di tale obbligazione, al cui solo necessario
esito può essere ricondotta l’azionabilità dell’obbligo di pagamento di liquidatori/soci ( 30 ). Ciò che, tra l’altro, come sopra evidenziato, consente
di superare l’ipotizzato vizio di incostituzionalità rispetto all’art. 3 Cost.
Potrebbe qui emergere una ulteriore approssimazione del legislatore
dell’art. 28. Perché, rispetto all’art. 10 l. fall., laddove la fictio juris della
sopravvivenza della società opera in termini oggettivi per la procedura fallimentare, senza limiti di tempo, l’art. 28 sospende l’estinzione dell’ente
non in relazione al procedimento/processo tributario, ma con riferimento
al decorso del tempo (cinque anni).
Chiara è l’idea del legislatore di ancorare la validità e l’efficacia del provvedimento impositivo all’ordinario termine di accertamento. Ma è evidente che, se una tale validità ed efficacia deve essere funzionale a cristallizzare sulla società il debito tributario, da eseguire poi in capo a liquidatori e
soci, ben potrebbe accadere che il quinquennio decorra senza che nel frattempo sia intervenuta una tale definizione.
Riterrei però che anche tale questione possa essere superata abbracciando quella idea di interpretazione costruttiva che rappresenta il filo condut-
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( 29 ) La qualificazione dei rapporti quali solidali sarebbe invece rilevante rispetto ai cosiddetti effetti interni fra coobbligati. Non vi sono dubbi sul fatto che ai soggetti responsabili di cui all’art. 36 possa essere richiesto il pagamento del debito societario limitatamente alla dimensione del fatto-fonte della propria responsabilità. Chiara è la norma soprattutto rispetto alla posizione dei soci, che rispondono in proporzione al valore dei beni
ricevuti in assegnazione (sorvoliamo sulla nuova previsione per la quale il valore di tali beni, salvo prova contraria, «si presume proporzionalmente equivalente alla quota di capitale
detenuta dal socio», laddove, il lemma «proporzionalmente equivalente» non ha alcun
contestualizzabile senso compiuto, considerando che norma avrebbe semmai dovuto avere
il seguente tenore: «per i soci assegnatari, il valore dei beni si presume equivalente alla rispettiva quota di capitale dagli stessi detenuta»).
( 30 ) Sulla necessità che vi sia certezza legale del tributo (quale «passaggio in giudicato»
dell’accertamento, come si può leggere nelle sentenze citate in seguito) anteriormente all’esercizio dell’azione di responsabilità ex art. 36, la giurisprudenza appare costante: Cass.
8 gennaio 2014, n. 179; Cass. 13 luglio 2012, n. 11968 e Cass. 23 aprile 2008, n. 10508.
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tore del presente lavoro e che è basata sulla ricerca della funzionalità della
novella legislativa. E si può a questo punto giungere ad attribuire a quest’ultima una portata sistematica, forse ulteriore rispetto all’intenzione del
legislatore. Credo infatti che questo si sia mosso nel solco dei noti arresti
giurisprudenziali del 2010 e del 2013, con particolare riferimento alla tesi
della successione dei soci nei debiti della società estinta (ovviamente con le
limitazioni di cui all’art. 2495 c.c. e art. 36). Lo stesso legislatore era inoltre
presumibilmente a conoscenza del citato consolidato orientamento giurisprudenziale nel senso del previo accertamento del maggior tributo alla società, quale antecedente logico della responsabilità di liquidatore e soci.
Ebbene, se tali assunti sono corretti, pare sufficientemente chiaro lo scenario cui si è trovato di fronte il redattore dell’art. 28: anche acclarabile il
fatto-fonte della responsabilità di cui all’art. 36, questa potrebbe essere
azionata solo previo accertamento del tributo alla società; se però questa
risulta cancellata, e quindi estinta, un tale accertamento sarebbe impossibile (atto inesistente), con evidente effetto domino sulla contestazione della responsabilità di liquidatori e soci ( 31 ).
A questo punto entra in gioco l’art. 28, che, nel salvare validità ed efficacia degli atti amministrativi tributari pur in presenza di società cancellata, altro non fa che porre le basi per innescare quel procedimento che si
concluderà, se del caso, con la contestazione della responsabilità ex art.
36. In tal modo, l’art. 28 concede all’Erario la possibilità di precostituirsi
il «titolo» legittimante l’azione verso liquidatori e soci, lasciando però sullo sfondo almeno due ulteriori e significative connesse questioni: tale azione richiede la definitività dell’accertamento del debito tributario della società? In caso affermativo, quando tale definitività deve intervenire, rispetto appunto al momento di innesco di detta azione?
Ho già ricordato (nt. 30) l’attuale impostazione giurisprudenziale, orientata nel senso della necessaria definitività dell’accertamento societario anteriormente alla contestazione della responsabilità ex art. 36. Ma può coerentemente combinarsi una tale esigenza con la limitazione temporale prevista dall’art. 28? Potrà definitivamente accertarsi il tributo in capo alla
società se interviene l’estinzione per decorso quinquennio?
Mi è invero sempre risultata oscura la ragione per la quale si debba vincolare l’azione di responsabilità ex art. 36 alla definitività del tributo contestato alla società. Se cioè è vero che una tale responsabilità sarà configurabile solo se e nei limiti in cui esiste un debito fiscale della società, non
vedo perché solo la sua certezza legale consentirebbe l’azionabilità dell’azione di responsabilità. Uno è infatti il formale esercizio dell’azione, altra è l’esecuzione della acclarata responsabilità di liquidatori e soci; ciò nel
senso che la mera notifica dell’avviso di accertamento societario sarebbe
sufficiente al primo, mentre occorrerà la definitività dello stesso per dar
corso alla seconda. D’altronde, non mi pare che l’azione parallela tra so( 31 ) La giurisprudenza risultava d’altronde orientata nel senso della nullità della cartella
notificata alla società cancellata, anche se il destinatario dell’atto poteva risultare legittimato ad impugnarla quale atto potenzialmente pregiudizievole della propria sfera giuridica
(così, Cass. 17 dicembre 2013, n. 28187; Cass. 5 settembre 2012, n. 14880; Cass. 13 luglio
2012, n. 11968 e Cass. 11 maggio 2012, n. 7327).
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cietà e liquidatori/soci porti ad un corto circuito processuale, ben potendo ipotizzarsi una sospensione ex art. 295 c.p.c. della seconda, in dipendenza della soluzione della prima ( 32 ).
Riterrei che a tale conclusione si debba pervenire proprio sulla base di
una interpretazione funzionalmente indirizzata dell’art. 28. Che senso
avrebbe, cioè, una conservazione quinquennale di validità ed efficacia dell’atto impositivo, se dovesse mantenersi ferma la tesi della previa definitività del maggior tributo contestato alla società? Decorso il quinquennio
senza che sia intervenuto giudicato, diverrebbe inconfigurabile una tale
definitività e quindi impercorribile l’azione di responsabilità ex art.
36 ( 33 ). E non credo proprio che il superamento di detto termine sia fenomeno così raro; considerando che, rispetto al periodo di imposta oggetto
di accertamento, il provvedimento interviene mediamente decorsi almeno
due se non tre anni, occorrerebbe che l’intero iter processuale si risolva
nei successivi tre o due anni: semplicemente irrealistico.
Invero, il riferimento al quinquennio non pare casuale, in quanto immediatamente riconducibile all’ordinario termine decadenziale per l’azione
di accertamento. A questo punto, sarebbe sufficiente l’innesco della contestazione del maggior tributo alla società; una volta avvenuto, si sarebbero poste le condizioni per la contestazione della responsabilità, così che
l’esito sarebbe rilevante non a livello di proponibilità dell’azione ex art. 36
ma a livello di configurabilità del presupposto della responsabilità, ferma
ovviamente restando la verifica dei fatti-fonte della responsabilità medesima ( 34 ).
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 32 ) Nello stesso senso, Glendi, Corte Costituzionale, sezioni unite della Cassazione, cit.,
p. 1281. Ciò che peraltro già abbastanza tranquillamente accade negli accertamenti di
maggior reddito societario poi imputati ai soci sulla base della nota presunzione di distribuzione. In tali ipotesi, è frequente la sospensione del processo relativo all’accertamento
del maggior reddito del socio ex art. 295 c.p.c., dipendendo esso dall’esito della controversia instaurata nei confronti della società. Si finirebbe così per sdrammatizzare il problema
della natura del termine, decadenziale o prescrizionale, dell’azione nei confronti di liquidatori e soci, vista una quasi coincidenza temporale fra accertamento alla società e contestazione della responsabilità.
( 33 ) Né credo possa farsi riferimento alla nota tesi giurisprudenziale per la quale l’estinzione della società provoca un fenomeno successorio in capo ai soci, nei limiti della loro
responsabilità, con conseguente prosecuzione del processo nei loro confronti, proprio perché l’accertamento del maggior tributo societario è presupposto «esterno», quantunque
essenziale, dell’azione nei loro confronti.
Si crea un difficilmente condivisibile «cortocircuito» fra fenomeno processuale e sottostante fenomeno sostanziale ove si intenda abbracciare l’impostazione adottata da Cass. 28
novembre 2014, n. 25275 (che peraltro rinvia alla pronuncia delle sez. un. 12 marzo 2013,
n. 6070), in base al quale, se la cancellazione della società interviene fra primo e secondo
grado del processo, l’appello va proposto da o nei confronti del socio (le conseguenze processuali della tesi sostanziale fatta propria dalla Corte di Cassazione paiono fonte di ulteriori e ancor più inestricabili problemi, come rileva Proto Pisani, Nota sulla estinzione delle
società, processi pendenti, e impugnazione della sentenza nei confronti della società estinta, in
Foro it., 2014, I, c. 229 ss.). La successione di quest’ultimo rispetto alle posizioni debitorie
della società estinta presuppone però la sussistenza delle condizioni, appunto sostanziali, di
cui all’art. 2495 c.c. Ecco che il riferimento dell’art. 28 agli «atti del contenzioso» lascia
chiaramente intendere, pur nella assoluta sciatteria espressiva, l’intendimento di mantenere
ferma la sopravvivenza dell’ente anche ove la cancellazione avventa durante il processo.
( 34 ) La situazione giuridica anteriore alla novella in commento, così come ricordata, si
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Ecco che, in definitiva, l’art. 28 finisce per avere una portata (forse involontariamente) sistematica. Ribadisco: tale norma potrebbe essere ampiamente criticabile ed è stata ampiamente criticata. Ma l’interprete, come
noto, deve percorre tutte le opzioni ermeneutiche dirette alla attribuzione
di un coerente significato alla norma. Così, se il legislatore sente l’esigenza
di assicurare validità ed efficacia all’atto di accertamento notificato a società cancellata è perché presupponeva che una tale validità ed efficacia
non fosse configurabile prima del suo intervento. E, siccome il legislatore non interviene per vezzo descrittivo, allora doveva presupporre che
quella invalidità e inefficacia impedivano il perseguimento degli interessi erariali, non consentendo l’accertamento del maggior tributo societa-
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prestava presumibilmente ad operazioni di «abusivo» sfruttamento della cancellazione
della società. Anche a prescindere da ipotesi patologiche di inesistenza soggettiva («cartiere» e simili), ben poteva configurarsi il caso di una società che, destinataria di significative
contestazioni fiscali, provvedeva a porsi in liquidazione di fatto, prima ancora che di diritto, per giungere, infine alla cancellazione dal registro imprese, così impedendo l’azione impositiva dell’Erario sia nei confronti della società, non più esistente, che nei confronti dei
soci o liquidatori (o ex amministratori), per impossibilità di precostituzione della maggiore
«imposta» societaria, presupposto appunto per l’azione contro detti soggetti.
Non agevole risultava l’individuazione dell’adeguata disciplina di reazione a tale escamotage. Non la cancellazione di cancellazione di matrice civilistica, ammissibile solo in caso di
continuazione di fatto dell’attività di impresa. Possibile in astratto, e certamente efficace,
la contestazione del reato di sottrazione fraudolenta di beni al pagamento di imposte di cui
all’art. 11 d.lgs. n. 74/00; reato proprio di amministratori e liquidatori, e configurabile per
concorso da parte dei soci assegnatari dei beni (sottratti); contestazione efficace in virtù
della applicazione del sequestro finalizzato alla confisca per equivalente.
Suggestivo il richiamo all’abuso del diritto, ma dalla difficile riconoscibilità nella fattispecie, almeno con riferimento alla struttura che all’abuso è stata riconosciuta in ambito
tributario. Perché la giustificazione concettuale dell’abuso è stata individuata nel rispetto
dell’art. 53 Cost., cioè della tipica norma costituzionale avente portata sostanziale. In altri
termini, l’abuso si è sempre posto rispetto ad una fattispecie imponibile realizzata (e costruita) dal contribuente, avente conseguenze fiscali migliorative rispetto alla fattispecie
imponibile asseritamente aggirata. Nel caso qui in esame, invece, non vi è alternativa fra
fattispecie imponibili; vi è semmai un callido sfruttamento di un momento procedimentale, dato appunto dalla finalizzata cancellazione della società, ferma però restando l’originaria obbligazione.
Non si sarebbe allora di fronte ad un abuso in termini di costruzione del presupposto
del tributo, affrontabile mercé il parametro della capacità contributiva, ma di fuga dalla fase attuativa del tributo stesso. Non di abuso del diritto tributario si tratterebbe, ma di abuso del diritto commerciale per ragioni tributarie. Fenomeno, questo, probabilmente contrastabile sul piano del diritto civile, ipotizzando la nullità della delibera di messa in liquidazione per inesistenza di causa concreta, ovvero per illiceità dei motivi (per approfondimenti sul punto, rinvio a G. Perlingeri, Profili civilistici dell’abuso tributario. L’inopponibilità delle condotte elusive, Napoli, 2012). Peraltro, dubbia sarebbe la giurisdizione, perché l’abuso della cancellazione, come testé configurata, non è elemento incidentale
dell’obbligazione tributaria, ma presupposto di fatto per l’azione accertativa fiscale.
Nella ricostruzione ad opera della giurisprudenza, l’abuso ha una perimetrazione molto
ampia, senz’altro superiore a quella che l’art. 37 bis d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, in
G.U. n. 268 del 10 ottobre 1973, s.o., riconosce all’elusione. Tale differenziazione pare però destinata ad azzerarsi nel momento in cui il legislatore delegato sta riscrivendo la disciplina anti elusiva, unificando i due fenomeni nell’ambito di una definizione puntuale e che
comunque sembra decisamente operare in termini di fattispecie imponibile, piuttosto che
come generale superamento di ogni comportamento adottato dal contribuente e sospettato di essere funzionale a sottrarsi al debito tributario.
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rio, quale presupposto per la contestazione della responsabilità ex art. 36.
Similmente, se avesse accettato la tesi della previa definitività di tale accertamento, rispetto a detta contestazione, allora non avrebbe avuto senso
concreto la limitazione quinquennale del congelamento dell’estinzione societaria; un tale limite temporale si giustificherebbe solo presupponendo
che l’accertamento alla società debba esistere, e non anche essere definitivo, in data anteriore all’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di liquidatori e soci.
In altri e conclusivi termini, si potrebbe sostenere che il legislatore dell’art. 28 ha risolto alcuni dei problemi che da sempre circondano significato e ambito di operatività della disposizione di cui all’art. 36. Altri, però,
restano sul tappeto.
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5. Questioni intorno al provvedimento che contesta la responsabilità di liquidatori e soci: il profilo temporale ...
Riconoscere, con la qui abbracciata interpretazione «costruttiva» dell’art. 28, che la notifica dell’atto di accertamento alla società è necessario,
e fors’anche in sé sufficiente ad innestare l’azione di responsabilità ex art.
36 costituisce solo una parte del percorso ricostruttivo dell’intero fenomeno in oggetto.
La novella in commento appare debole non tanto in relazione a ciò che
prevede o a come lo prevede, ma a ciò che omette di disciplinare; il legislatore ha perso una grande occasione per risolvere altre essenziali questioni; elenchiamole: il rapporto temporale fra accertamento alla società e
realizzo del fatto-fonte della responsabilità; la tipologia di atto formale
funzionale alla contestazione di detta responsabilità; il contenuto di tale
atto, con particolare riferimento alla motivazione che giustifica il maggior
tributo accertato alla società.
La prima questione non riguarda il rapporto tra momento dell’accertamento societario e momento dell’accertamento della responsabilità. Per le
ragioni già espresse, il primo deve precedere il secondo, quand’anche nessun carattere di definitività debba essere riconosciuto al maggior tributo
accertabile in capo alla società. Il problema, qui, è diverso e non riguarda
l’oggetto della responsabilità (tributo-danno), che appunto necessita d’essere contestato al contribuente, ma la condotta del supposto responsabile,
cioè la imputabilità del fatto-fonte della responsabilità stessa.
Sotto tale profilo, si può notare una decisa differenziazione tra la posizione del liquidatore e la posizione del socio; il primo è chiamato per aver
violato i legittimi gradi di prelazione, il secondo per il fatto stesso di aver
patrimonialmente beneficiato in danno di un creditore (l’Erario) sostanzialmente pretermesso. Per il liquidatore, la norma richiede una condotta
illecita; per il socio, la norma si accontenta di riconnettere effetti giuridici
al mero fatto dell’arricchimento ( 35 ).
( 35 ) Per una trattazione approfondita di tali profili, si rinvia al lavoro monografico di
Ragucci, La responsabilità tributaria, cit., p. 40 ss. I fatti fonte della responsabilità, proprio in quanto costitutivi della specifica pretesa erariale nei confronti dei soggetti responNLCC 6-2015
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Su tali premesse, ben diverso valore scriminante dovrebbe avere la conoscenza della previa esistenza del debito tributario. Per il socio, tale conoscenza è irrilevante, perché l’elemento soggettivo in termini di colpa ad
egli riferibile non è elemento costitutivo della responsabilità; assorbente si
manifesta infatti la circostanza del suo arricchimento, indebito in quanto
le relative risorse avrebbero dovuto assolvere debiti di grado superiore.
Mi pare cioè possa proprio affermarsi una sorta di responsabilità oggettiva
del socio, emergente con la mera realizzazione del fatto-fonte, a prescindere dai suoi connotati soggettivi ( 36 ). Ciò che allora ha immediati effetti
in riferimento alla conoscibilità previa del maggior tributo societario, nel
senso che tale conoscibilità sarebbe del tutto irrilevante. Rispetto quindi
al momento del fatto dell’arricchimento in sé, nessun rilievo assume il momento dell’accertamento del maggior tributo societario, che ben potrebbe
avvenire in data successiva alla acquisizione da parte del socio di beni o
valori della società, purché in data anteriore alla proposizione della azione
di responsabilità ex art. 36.
Ben diversa ritengo debba essere la soluzione del problema rispetto al liquidatore, il cui elemento soggettivo in termini di colpa, pur non testualmente nominato dall’art. 36 (ma indicato nell’art. 2495 c.c.), parrebbe indiscutibilmente rappresentare uno degli elementi costitutivi della relativa
responsabilità. Manca, per il liquidatore, quel riferimento al personale beneficio economico (indicato invece per il socio) che da solo giustificherebbe l’imposizione della prestazione patrimoniale. Ecco che, allora, non può
che essere l’illiceità del fatto a giustificare la chiamata in responsabilità del
liquidatore; illiceità che non può rilevare nella sua oggettività, ma quale
condotta colpevolmente contra legem ( 37 ).
sabili di cui all’art. 36, dovranno essere autonomamente indicati in termini motivazionali e
provati nell’ambito del provvedimento emesso nei confronti di detti soggetti. Proprio in
quanto la loro responsabilità ha autonoma causa, diversa da quella di mera garanzia, essa
deve essere puntualmente allegata a provata dall’erario procedente (in tal senso, da ultima,
Cass. 26 giugno 2015, n. 13259, in Corr. trib., 2015, p. 2499, con nota di Ragucci, Onere
della prova sull’Agenzia in caso di cancellazione della società dal Registro delle imprese).
( 36 ) È proprio il fenomeno dell’arricchimento che giustifica la prestazione patrimoniale
imposta al socio, pur del tutto estraneo al presupposto del tributo. In un ordinamento,
quello tributario, in cui assume rilievo determinante la conseguenza economica del fatto
civilistico, ben l’elemento soggettivo può essere fatto passare in secondo piano, laddove vi
sia appunto certezza dell’arricchimento indebito.
( 37 ) Non credo si debba scomodare la logica del «dovere di protezione» che mi risulta il
diritto civile riconduca alla cosiddetta responsabilità da contatto sociale. Tanto più cioè ci
si allontana dal (mancato) rispetto di norme di legge o di norme contrattuali, tanto più c’è
bisogno di costruire principi non scritti di tutela di posizioni giuridiche soggettive di terzi.
Nella fattispecie, però, lo svolgimento del procedimento di liquidazione è regolato da precise norme di legge, tra le quali rientrano quelle del rispetto dei diritti di prelazione (sulla
necessità del rispetto, nelle operazioni di liquidazione, della par condicio creditorum di cui
all’art. 2741 c.c., la giurisprudenza di merito sembra sufficientemente consolidata; sul punto, da ultimo, Trib. Milano 6 agosto 2014, n. 2014, in Giur. it., 2015, p. 393, ove ulteriori
riferimenti); il mancato pagamento del credito erariale a favore di altri creditori aventi titolo inferiore non viola il generale dovere di conservazione del patrimonio sociale a favore
della massa dei creditori, ma viola la specifica norma sui privilegi. E tanto basta a qualificare come illecito il fatto del pagamento del creditore in luogo dell’Erario e costituire
quindi la correlata responsabilità.
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È però evidente che, affinché possa ipotizzarsi un colpevole pagamento
in preferenza a un creditore di grado inferiore, è necessario che sia identificabile un creditore di grado superiore, titolare di un credito di natura legittimamente preferenziale. Ciò che si verifica nei casi di precedente iscrizione in contabilità del debito tributario, di notifica di una contestazione
sulla pur asserita sussistenza di un maggior tributo dovuto, a mezzo atto
di accertamento o processo verbale di constatazione ( 38 ).
Così, ove tali fenomeni abbiano data anteriore al pagamento preferenziale, quest’ultimo, da mero oggettivo fatto illecito, diviene fatto imputabile
in termini di responsabilità, perché appunto qualificato dall’elemento soggettivo della colpa. In definitiva, la previa contestazione del maggior tributo societario non solo rileva per la proponibilità dell’azione di responsabilità ma, prima ancora, per la configurazione del presupposto «interno»
della responsabilità stessa, quale fatto-fonte della medesima. Il che porta a
far retroagire la formale contestazione del maggior tributo societario ad
una data anteriore alla cancellazione dell’ente, o, più esattamente, ad una
data anteriore al pagamento preferenziale effettuato dal liquidatore ( 39 ).
Riassuntivamente, per la responsabilità del socio, il momento di contestazione di maggior tributo societario non è elemento costitutivo della
stessa, ma attiene alla sola proponibilità dell’azione. Diversamente, per la
responsabilità del liquidatore, la rilevanza della colpevole condotta richiede quanto meno la conoscibilità del debito fiscale in data anteriore al pagamento del creditore (che in tal modo diviene) illegittimamente privilegiato; da cui la necessità di una formalizzazione della pretesa erariale a
mezzo provvedimento impositivo o atto istruttorio definitivo (processo
verbale di constatazione).
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6. Segue: ... il profilo formale e contenutistico.
Qualche istintiva perplessità sorge dalla lettura del penultimo comma
dell’art. 36. Perché, in un ordinamento caratterizzato da tipicità e nomina( 38 ) Invero, notifica di avviso di accertamento o processo verbale di constatazione sono
sufficienti, ma non necessari, alla imputabilità per colpa del pagamento preferenziale, ben
potendo l’elemento soggettivo essere rinvenuto anche in altre e diverse circostanze. Ci si
riferisce all’ipotesi in cui tali atti vengano notificati successivamente a tale pagamento, ma
in relazioni a fatti di dolosa violazione di norme tributarie sostanziali da parte del liquidatore. È difficile, in tali casi, sostenere che il liquidatore non fosse a conoscenza del debito
nei confronti dell’Erario; o, meglio, che non fosse a conoscenza del sostanziale pregiudizio
nei confronti dell’Erario non solo e non tanto rispetto all’originario momento della violazione, quanto rispetto a momento della violazione delle cause di prelazione.
( 39 ) Rispetto alla configurabilità della responsabilità del liquidatore, l’atto di accertamento del maggior tributo societario potrebbe allora essere notificato dopo la cancellazione della società nei soli di casi di notifica, anteriormente ad essa (perché anteriormente al
pagamento tacciabile di preferenzialità), di processo verbale di constatazione, ovvero nei
casi in cui la violazione contestata in tale atto di accertamento abbia natura manifestamente dolosa e sia avvenuta in data anteriore a detto pagamento. Il tutto, lo si ribadisce perché
la responsabilità in questione necessità della connotazione soggettiva sulla condotta e
quindi necessita della conoscibilità dell’esistenza di un creditore privilegiato invece pretermesso.
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tività del provvedimento amministrativo, nonché dal generale obbligo di
motivazione del medesimo, prevedere che la responsabilità di cui all’art.
36 debba essere contestata «con atto motivato e notificato ai sensi dell’art.
60 d.p.r. n. 600/73», nulla aggiunge e nulla toglie ad un risultato cui qualsiasi avveduto interprete sarebbe giunto, salva la sua riconsiderazione che
a breve verrà esposta. Ed è proprio sotto tale profilo che il legislatore dell’art. 28 in commento ha perso un’ottima occasione per integrare adeguatamente la ricordata disposizione, chiarendo se l’atto che contesta la responsabilità debba assumere la forma dell’atto di accertamento ovvero
possa essere sufficiente che sia rappresentato da una cartella di pagamento. Questione che si intreccia con quella relativa al contenuto di tale atto
sotto il profilo della ampiezza della motivazione.
È consolidato l’orientamento giurisprudenziale che legittima l’escussione del coobbligato solidale dipendente sulla base del mero atto di riscossione (cartella di pagamento) ( 40 ); ciò in quanto la relativa posizione attiene non alla realizzazione del tributo, ma al «pagamento» del medesimo, e
quindi alla fase attuativa dell’imposizione.
La collocazione dell’art. 36 nell’ambito del decreto sulla riscossione,
nonché la riferibilità della responsabilità di liquidatori e soci al «pagamento» «dell’imposta dovuta dalla società» potrebbero condurre a risolvere la
questione in oggetto nel senso della contestazione a mezzo cartella di pagamento.
Ritengo però vi siano almeno due significativi elementi differenziali rispetto all’ipotesi di solidarietà dipendente, entrambi riguardanti la natura
della responsabilità in oggetto. Da un lato, non credo possano esservi
dubbi, come già rilevato, che la posizione di liquidatori e soci non sia riconducibile al fenomeno della solidarietà, perché la presenza di più debitori non necessariamente prefigura una ipotesi di coobbligazione, necessitando, a tal fine, una precisa fonte normativa della stessa. Dall’altro, una
tale responsabilità, quantunque commisurata al tributo dovuto dalla società, ha natura para-civilistica, e non tipicamente tributaria.
A questo punto, la funzione degli ultimi due commi dell’art. 36 appare
non quella ricognitiva di un principio immanente, ma innovativa di una
disciplina funzionale alla attrazione nella sfera del procedimento e della
giurisdizione tributaria di una controversia che, altrimenti, avrebbe potuto trovare diversa collocazione giudiziale (giudice ordinario). Se, quindi,
già l’applicazione del procedimento tributario appare in sé una sorta di
deroga ad un principio, costituirebbe una forzatura la collocazione dell’azione di responsabilità in oggetto non al momento di innesto di tale
procedimento, ma direttamente all’interno del medesimo. Perché uno è
l’atto di accertamento, con il quale vengono contestati gli elementi costitutivi di una certa obbligazione, altra è la cartella di pagamento, che attiene alla fase della riscossione di un tributo che ha già trovato altrove (nella
( 40 ) Tale specifica questione esula dall’economia del presente lavoro; mi limito così a
rinviare a Carinci, La riscossione nei confronti del coobbligato, tra ruolo e nuovo accertamento esecutivo, in Basilavecchia, Cannizzaro e Carinci (a cura di), La riscossione dei
tributi, Milano, 2011, p. 141 ss.
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dichiarazione ovvero, appunto, nell’avviso di accertamento) la propria determinazione.
Allora, dovendo l’Erario come minimo contestare i fatti-fonte della responsabilità ex art. 36, non potendo limitarsi a richiedere l’attuazione di
una obbligazione altrove accertata (alla società) ( 41 ), riterrei che l’utilizzo a
tal fine della cartella di pagamento costituisca un inammissibile salto procedimentale. Diversamente, anche ammessa l’adeguata motivazione della
cartella, si finirebbe per attribuire alla stessa un ruolo (accertamento di
fatti costituenti presupposti di un debito tributario) che la legge non le attribuisce, dovendo questa restare confinata appunto alla mera liquidazione del tributo già in diversa sede quantificato.
In definitiva, non avrei dubbi sul fatto che l’atto menzionato dall’art. 36
non può che essere l’avviso di accertamento, quale atto tipico del procedimento tributario finalizzato alla contestazione degli elementi costitutivi
l’obbligazione, sia essa tipicamente tributaria, che civilistica da responsabilità di cui alla suddetta norma.
Come anticipato, tale soluzione dovrebbe uscire rafforzata una volta che
si chiarisca la dimensione del contenuto motivazionale dell’atto in oggetto. Nessun ausilio può trarsi dall’art. 36 che, almeno sulla base dell’attuale
ordinamento giuridico ( 42 ), sembra affermare una mera ovvietà (l’obbligo
di motivazione); e anche qui il legislatore ha perso una buona occasione
per chiarire la questione. Perché, acclarato che la motivazione di cui fa
cenno l’art. 36 senza dubbio deve riferirsi ai fatti-fonti della responsabilità, il problema è capire se la stessa debba ampliarsi e riguardare gli elementi costitutivi della asserita obbligazione tributaria formalmente attribuibile alla società.
Il dubbio non è di poco conto, ove si considerino i gravi limiti di tutela
per liquidatori e soci che possono emergere proprio in conseguenza della
novella introdotta dall’art. 28. Potrebbe infatti tranquillamente accadere
che la società non abbia alcun interesse di fatto ad impugnare l’avviso di
accertamento che la riguarda ( 43 ); d’altronde, il suo patrimonio è azzerato
in seguito alla cancellazione e comunque gli altri soggetti coinvolti indirettamente (liquidatori) rispondono solo se e nella misura in cui venga a questi contestata la relativa responsabilità con la dimostrazione della integra-
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( 41 ) Sul punto, la norma di legge appare di una chiarezza esemplare. Stupisce un po’, allora, che si debba giungere fino al massimo grado della giurisprudenza per sentire affermare una regola tanto evidente (da ultima, Cass. 26 giugno 2015, n. 13259 e Cass. 13 luglio
2012, n. 11968, che appunto legittimano la pretesa erariale nei confronti dei soci solo se e
nei limiti in cui l’Amministrazione finanziaria provi l’avvenuta percezione di somme o valori in sede di liquidazione; tra l’altro, presupposto di proponibilità dell’azione nei confronti dei soci, proseguono i Giudici di legittimità, è proprio la cancellazione della società
dal registro imprese).
( 42 ) Non dimentichiamo che gli ultimi due commi dell’art. 36 sono stati scritti nel 1973
e mai modificati, purtroppo neppure dall’art. 28 in commento.
( 43 ) Ancor più deciso appare Ragucci, Le nuove regole sulla cancellazione delle società,
cit., p. 1630, laddove, dopo aver sostenuto che, con la cancellazione, viene meno qualsiasi
sostrato materiale e organizzativo in forza del quale un centro di imputazione di rapporti
tributari possa venire identificato, dubita che nei confronti della società estinta sia individuabile un interesse concreto e attuale ai sensi dell’art. 100 c.p.c. Ciò che, tra l’altro, rischia di non assicurare una tutela effettiva a liquidatori e soci.
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zione dei relativi fatti-fonte. Pacifico essendo il principio in base al quale
non è pensabile che l’eventuale giudicato nei confronti della società possa
fare stato nei confronti di liquidatori e soci che a quel processo non hanno
partecipato. Non configurabile l’estensione soggettiva del giudicato, parimenti non configurabile l’estensione soggettiva della definitività dell’atto
di accertamento societario per mancata impugnazione, pena un evidente
vulnus al diritto di difesa di liquidatori e soci.
In altri termini, l’accertamento del maggior tributo dovuto dalla società
è elemento necessario per l’azionabilità dell’azione nei confronti di liquidatori e soci, ma non sufficiente per la affermazione della responsabilità, e
ciò anche a prescindere dalla realizzazione dei fatti-fonti della medesima.
Quand’anche infatti quell’accertamento si dovesse consolidare in capo alla società, lo stesso non potrà traslarsi quale fatto irrevocabile su liquidatori e soci.
Prima dell’introduzione dell’art. 28, l’interesse erariale veniva frustrato
dalla impossibilità di costituire il debito tributario in capo alla società, a
causa della inesistenza dell’atto di accertamento notificato a soggetto
estinto e quindi a sua volta inesistente ( 44 ), con i rischi di abuso dello strumento della cancellazione di cui si è già dato conto (nt. 34). Con l’art. 28,
come sopra visto, il legislatore ha fatto in modo di rispondere a tale esigenza, prevedendo appunto la sospensione dell’estinzione della società;
non ha però considerato il problema in termini di effettività della tutela di
liquidatori e soci, messa in pericolo dal probabile disinteresse della società
a coltivare il contenzioso tributario contro il provvedimento che la riguarda.
In definitiva, ci troviamo di fronte, da un lato, ad un accertamento, magari definitivo, nei confronti della società che, utile per azionare l’azione
di responsabilità ex art. 36, non può fare stato nei confronti di liquidatori
e soci; dall’altro, nell’ottica dell’amministrazione finanziaria, ad un accertamento, necessario per la proponibilità di detta azione, ma insufficiente,
in sé, a cristallizzare il proprio credito nei confronti dei soggetti di cui all’art. 36. Risultato, quest’ultimo, che può allora essere raggiunto solo a seguito della contestazione del maggior tributo societario anche contro liquidatori e soci; contestazione specificamente finalizzata a far valere, nei
confronti di tali soggetti, il presupposto tipicamente tributario della «imposta dovuta dalla società» (come recita l’art. 36), quale elemento pregiudiziale financo alla sola idea di una responsabilità in capo a soggetti diversi dal contribuente (l’ente).
Il che val quanto dire che il provvedimento emesso contro liquidatori e
soci dovrà essere motivato non solo rispetto ai fatti-fonti della rispettiva
responsabilità, ma anche con riferimento agli elementi a sostegno della
pretesa del maggior tributo societari ( 45 ), in quanto tali soggetti devono
( 44 ) Specifico profilo messo in luce anche da Laroma Jezzi, Cancellazione di società e
responsabilità dei coobbligati, in Corr. trib., 2015, p. 2954.
( 45 ) Ciò che non rappresenta certo una novità nel panorama procedimentale e processuale tributario. Si pensi al caso dell’accertamento alle società di persone e relativi soci, il
cui atto singolare doveva essere motivato, almeno fino al consolidamento della tesi del litisconsorzio necessario, anche rispetto al maggior tributo determinabile in capo alla società.
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essere posti nella condizione di pienezza di esplicazione del diritto di difesa ( 46 ).
Si è ben consci delle complicazioni processuali che potrebbero sorgere,
soprattutto, nella forma del contrasto di giudicati fra i vari soggetti coinvolti; rischio, quest’ultimo, non superabile dalla sospensione del processo
ex art. 295 c.p.c., proprio perché ciascuno dei responsabili deve essere
messo nella condizione di difendersi non solo rispetto all’imputazione della propria condizione soggettiva, ma, prima ancora, rispetto al presupposto originario (il maggior tributo societario) della configurabilità già in
astratto di una sua responsabilità. Diversamente, o si ipotizza un litisconsorzio necessario fra società e soggetti responsabili, ciò che mi parrebbe davvero una forzatura senza patria processuale ( 47 ); ovvero si accetta che a liquidatori e soci venga fatta valere la definitività dell’atto di accertamento societario altrove raggiunta, con palese incisione del relativo diritto di difesa.
In definitivi termini, non mi pare vi sia una soluzione senza controindicazioni; non resta che scegliere quella meno dannosa in termini di coerenza ordinamentale. Soluzione che, riassumo, dovrebbe sostanziarsi nella
notificazione ai liquidatori e soci di un avviso di accertamento motivato
anche rispetto alla contestazione del maggior tributo societario, così che la
cognizione del giudice tributario investa anche tale profilo. Un eventuale
contrasto di giudicato, limitabile con il ricorso all’art. 295 c.p.c., costituirebbe a questo punto il male minore.
Cancellazione
della società:
profili tributari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
Similmente accade per l’accertamento alle società di capitali a ristretta base sociale di un
maggior reddito che si presume distribuito ai soci, i quali sono ammessi a contestare non
solo il fatto della distribuzione, ma, ancor prima, in radice, la sussistenza del maggior reddito societario. Così anche per le ipotesi di coobbligazione solidale, laddove, travolta ormai quarant’anni or sono la cosiddetta supersolidarietà tributaria da parte della Corte costituzionale proprio per violazione del diritto di difesa, nessuno dubita che, in sede di impugnazione anche del solo atto di riscossione, il coobbligato abbia diritto di eccepire tutti
i vizi dell’accertamento in capo all’obbligato principale.
Il già ipotizzato parallelismo con il diritto fallimentare (art. 10) potrebbe ampliarsi rispetto alla specifica questione, laddove si consideri l’attuale ormai consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinario sulla necessità di notifica dell’avviso di accertamento
anche al fallito, proprio per evitare che gli eventuali effetti pregiudizievoli della controversia tributaria possano essere fatti valere nei suoi confronti, una volta ritornato in bonis, pur
non avendo partecipato al processo (in tal senso, si ricordano le seguenti ultime pronunce
della Cass. 30 aprile 2014, n. 9434; Cass. 18 marzo 2014, n. 6248; Cass. 19 luglio 2013, n.
17687; Cass. 10 dicembre 2012, n. 22437; Cass. 26 ottobre 2011, n. 22277; in dottrina,
Tundo, Quali rimedi per il contribuente fallito di fronte al’inerzia del curatore nella impugnazione degli atti?, in Corr. trib., 2013, p. 785; Cipolla, La rilevanza degli atti istruttori e
degli atti di accertamento in pendenza di procedura, in Paparella (a cura di), Il diritto tributario delle procedure concorsuali e delle imprese in crisi, Milano, 2013, p. 328, e De Dominicis, I rapporti fra procedure concorsuali e il processo tributario, ivi, p. 498).
( 46 ) Ipotizzano, condivisibilmente, il potere di liquidatori e soci di impugnare il proprio
atto singolare anche rispetto all’obbligazione tributaria societaria, Fransoni, L’estinzione
postuma della società, cit., p. 56, e Ragucci, Le nuove regole sulla cancellazione, cit., p.
1631, L. Bianchi, Società di capitali cancellata, cit., p. 34.
( 47 ) Tanto che nessuno si è mai seriamente sognato di proporre tale soluzione processuale nel caso di coobbligazione solidale o nel caso di accertamento alla società a ristretta
base sociale di cui sopra.
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Le nuove leggi
7. Sulla sorte dei crediti verso l’Erario a seguito della cancellazione dell’ente.
Cancellazione
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
Come accennato in apertura del presente lavoro, l’art. 28 in commento è
strettamente funzionale alla specifica tutela dell’interesse erariale in presenza di cancellazione della società, piuttosto che diretto a disciplinare in
termini organici tributari tale fenomeno. Nei due paragrafi che precedono, ho evidenziato almeno tre aspetti che caratterizzano problematicamente il fenomeno in oggetto; riterrei di spendere qualche finale considerazione in relazione all’altra faccia della medaglia del rapporto fisco/contribuente: quando cioè il titolare del credito tributario è quest’ultimo.
Manifesto è il disinteresse del legislatore dell’art. 28 per tale questione,
la cui soluzione non può quindi che trovare spunti negli attuali arresti giurisprudenziali, in via di probabile consolidamento. Mi sembra allora che si
stia formando un orientamento, di fonte civilistica, nel senso che il subentro dei soci nelle posizioni giuridiche attive della società riguardi solo i
crediti certi e liquidi, rappresentando la cancellazione, per contro, una
manifestazione di volontà nel senso della rinuncia alle «mere pretese» o ai
crediti «illiquidi», anche se già azionati in giudizi ( 48 ).
La tesi non convince. Non è certo mia intenzione ripercorrere le critiche
già esposte dalla dottrina civilistica. Sia qui sufficiente sottolineare come
l’equiparazione tra volontà della cancellazione e volontà di rinuncia a
«mere pretese» o a crediti «illiquidi» risulti carente di una articolata argomentazione giustificativa e sembra basarsi su una lettura monodirezionale
dell’art. 2495 c.c. ( 49 ). Perché la successione dei soci nel debito societario
non è fenomeno di carattere generale, ma è configurato solo se e nei limiti
in cui tali soggetti siano stati beneficiari di somme o valori ad esito della
liquidazione.
Con l’ottica della tutela del creditore, una tale successione altro non fa
che riprodurre in capo ai soci, a mo’ di collazione, quello che sarebbe stato un patrimonio residuo della società; dato che questo avrebbe dovuto
essere destinato al soddisfacimento dei creditori, medesima funzione viene attribuita a quel patrimonio, non unitariamente considerato ma pro
quota in conseguenza della sua assegnazione ai soci. Una sorta, quindi, di
( 48 ) Alle sentenze delle sez. un. 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071 e 6072, si è poi aggiunta
la sentenza 21 gennaio 2014, n. 1183. Non proprio allineata appare la dottrina; fra gli altri,
Consolo e Godio, Le sezioni unite sull’estinzione di società: la tutela creditoria «ritrovata» (o quasi), in Corr. trib., 2013, p. 691 ss. e Speranzin, Successione dei soci ed iscrizione
nel registro delle imprese del fatto estintivo della società, ivi, 2014, p. 252 ss.
( 49 ) Eppure, le stesse sezioni unite, nella sentenza 12 marzo 2013, n. 6072, chiaramente
ampliano il fenomeno successorio anche alle posizioni attive laddove si può leggere che
«venuto meno il vincolo societario, la titolarità dei diritti residui o sopravvenuti torni ad
essere direttamente imputabile a color che della società costituivano il sostrato personale.
Il fatto che sia mancata la liquidazione di quei beni o di quei diritti, il cui valore economico
sarebbe stato altrimenti ripartito tra i soci, comporta soltanto che, sparita la società, si instauri tra i soci medesimi, ai quali quei diritti o quei beni pertengono, un regime di contitolarità o di comunione indivisa, onde anche la relativa gestione seguirà il regime proprio
della contitolarità o della comunione». Su tali premesse l’idea della rinuncia implicita per
fatti concludenti (cancellazione) a mere pretese o crediti illiquidi appare un salto argomentativo, ancor più significativo laddove si sostenga, come pur la Corte ha fatto, l’irrilevanza
dell’iscrizione in bilancio del bene ai fini di una sua attribuzione ai soci.
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spezzettatura, in capo ai soci, della società nelle sue posizioni giuridiche
attive e passive risultanti alla data della cancellazione.
Così, l’art. 2495 c.c., nel disporre la responsabilità dei soci, con successione nei debiti sociali, sembrerebbe presupporre che vi sia stata una sorta
di successione nell’attivo sociale ( 50 ); non solo nei beni risultanti dal bilancio finale di liquidazione, ma in tutte le posizioni giuridiche attive riconducibili alla società, tanto che non pare vi siano dubbi sul fatto che il credito certo, liquido ed esigibile ben potrebbe essere assegnato al socio, a
prescindere dalla sua iscrizione in detto bilancio ( 51 ). Sarebbe allora vero
che, con la cancellazione, la società ha scelto di non coltivare la pretesa
creditoria; ma si tratterebbe di una scelta meramente processuale, insuscettibile di incidere sulla posizione giuridica sostanziale sottostante. In
breve, la società ha optato per l’inazione, perché saranno i soci, titolari di
quella posizione giuridica, a optare, ove lo ritengano opportuno, per
l’azione.
Nell’ipotesi di voler continuare a muoversi nel solco della tesi giurisprudenziale, qui negata in radice, basata sull’effetto abdicativo della cancellazione sui crediti non certi o non liquidi, occorre evidenziare un grave difetto «interno» della tesi stessa. Il tratto scriminante per la produzione di
tale affetto sarebbe costituito dalla differenziazione fra credito e mera pretesa, ovvero tra credito liquido e credito illiquido: successione e responsabilità verso creditori per i primi; rinuncia e (ir)responsabilità per i secondi.
Se è così, però, il maleficio per i creditori appare evidente, dato che nessun interesse hanno la società o i soci a coltivare pretese giudiziarie attive
quando, incombente, è pronta a scattare la responsabilità di cui all’art.
2495 c.c., salva ovviamente l’ipotesi che la dimensione delle pretese sia
ben maggiore dei debiti residui. Il che però val quanto dire che la posizione del creditore è nelle mani di autonome scelte del debitore ( 52 ).
La ricordata tesi giurisprudenziale sorvola inoltre su una questione tutt’altro che secondaria: la distinzione tra credito e mera pretesa. È stato a
tal fine proposto l’utilizzo del criterio previsto dai principi contabili (OIC
15), laddove si prevede che «i crediti da iscriversi in bilancio devono rap-
Cancellazione
della società:
profili tributari
(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
( 50 ) Che ciò sia avvenuto pro quota o meno in rapporto alla percentuale di partecipazione appare del tutto irrilevante. Tanto è il valore assegnato, tanta è la responsabilità per i
debiti sociali insoddisfatti. Gli effetti fiscali della assegnazione di valori ai soci sono esaminati da Tassani, Estinzione delle società e residui attivi da liquidazione: profili fiscali, in
Rass. trib., 2014, p. 1019 ss.
( 51 ) La irrilevanza della iscrizione in bilancio è affermata anche nella sentenza a sez. un.
12 marzo 2013, n. 6072, al punto 4.1. delle motivazioni.
( 52 ) Curioso evidenziare come si sia scritto che «la ratio dell’art. 2495 c.c. palesemente
risiede proprio in questo: nell’intento di impedire che la società debitrice possa, con un
proprio comportamento unilaterale, che sfugge al controllo del creditore, espropriare quest’ultimo del suo diritto. Ma questo risultato si realizza appieno solo se si riconosce che i
debiti non liquidati della società estinta si trasferiscono in capo ai soci, salvo i limiti di responsabilità (...) Il dissolversi della struttura organizzativa su cui riposa la soggettività giuridica dell’ente collettivo fa naturalmente emergere il sostrato personale che, in qualche
misura, ne è comunque alla base» (Cass., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6072).
Ipotesi rimediali sono state proposte, da ultimo, da Zorzi, L’estinzione delle società, cit.,
p. 260 ss.
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(art. 28 d.lgs. n. 175/14)
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presentare validi diritti ad esigere ammontari di disponibilità liquide da
clienti o da terzi». Il riferimento mi pare, invero, di ridotta utilità: intanto,
considerando che, in termini generali, il credito è di per sé un diritto,
identificarlo come «valido diritto ad esigere (...)» costituisce una definizione circolare, che nulla aggiunge e nulla toglie a ciò che già è noto ( 53 );
dall’altro, tale definizione è funzionale alla individuazione delle condizioni per la iscrizione in bilancio del credito, quando già abbiamo visto che,
ai nostri fini, detta iscrizione appare ininfluente rispetto al problema della
trasferibilità o meno ai soci della posizione giuridica attiva della società.
Una chiave ricostruttiva potrebbe a questi fini essere data dalla tipologia
di fonte genetica del credito, anche rispetto alla natura dell’azione (costitutiva o dichiarativa) per il suo riconoscimento. Mi limito qui a trattare la
questione rispetto al solo ambito tributario.
Ebbene, nonostante pur significativa dottrina contraria, pare ormai sufficientemente consolidata, in giurisprudenza, la tesi fondata sulla natura
dichiarativa dell’accertamento fiscale e della previa dichiarazione, cui seguirebbe la natura sostitutiva (dell’accertamento stesso) da parte della
sentenza emessa dalle commissioni tributarie ( 54 ). L’oggetto del processo
tributario consisterebbe nell’accertamento del rapporto d’imposta, pur
nei limiti della motivazione e dei motivi rispettivamente di un legittimo
provvedimento impositivo e del ricorso del contribuente. Il tutto sulla base dell’idea per la quale l’obbligazione tributaria sorge con la realizzazione
del presupposto del tributo previsto per legge, di modo che gli ulteriori e
successive vicende atterrebbero solo alla fase attuativa dell’obbligazione
stessa; ciò perché, in breve, fonte del rapporto d’imposta è la legge. Su tali
premesse, il giudice tributario non «costituisce», ma «accerta» il rapporto
giuridico patrimoniale (cioè il rapporto debito/credito), limitandosi a disvelare se siano state o meno effettivamente integrate le condizioni che la
legge pone quali presupposto del tributo.
Riterrei allora che, in tutti i casi di credito tributario, sia esso da dichiarazione o da indebito, ci si trovi di fronte ad una situazione giuridica attiva
per il contribuente società qualificabile come «credito liquido», a prescindere dalla sua previa iscrizione in bilancio o dall’essere, lo stesso, sub iudice. Comunque irrilevante il primo profilo, parimenti insuscettibile di modificarne la natura (di credito) il secondo, trattandosi di processo di accertamento.
( 53 ) Tra l’altro, appare oscuro il significato di «valido» diritto; quando un diritto è invalido? Non mi pare, in definitiva, che il principio contabile costituisca un puntuale riferimento giuridico ai nostri fini.
( 54 ) Mi limito a ricordare due tra le più recenti pronunce: Cass. 6 marzo 2015, n. 4574,
in Corr. trib., 2015, p. 1466 ss., con nota di Pistolesi, La natura «sostitutiva» della sentenza tributaria rispetto all’atto impugnato, e Cass. 19 settembre 2014, n. 19750, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 2015, p. 425.
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LA NUOVA NORMATIVA SUL DIVORZIO
BREVE: ANALISI DELLA DISCIPLINA
E ASPETTI PROBLEMATICI [,]
(l. 6 maggio 2015, n. 55; d.l. 12 settembre 2014, n. 132,
convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162)
di
Francesca Tizi
(Ricercatore nell’Università di Perugia)
Divorzio breve
(l. n. 55/15)
Sommario: 1. La l. 6 maggio 2015, n. 55 e il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in l.
10 novembre 2014, n. 162. – 2. L’art. 1 l. n. 55/15. – 3. Segue: problemi di coordinamento tra divorzio breve e giudizio di separazione ancora pendente. – 4. Lo scioglimento
della comunione legale. – 5. La disciplina transitoria.
1. La l. 6 maggio 2015, n. 55 e il d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito
in l. 10 novembre 2014, n. 162.
La necessità di adeguare la tutela della crisi famigliare al sempre più sentito bisogno di intervenire sull’ablazione dello status matrimoniale è stata
recentemente avvertita anche a livello legislativo. È dello scorso 22 aprile
l’approvazione alla Camera dei deputati della l. 6 maggio 2015, n. 55 grazie a cui si è introdotto nell’ordinamento, senza eliminare la separazione
come passaggio obbligato, il c.d. divorzio breve.
In generale, l’innovazione legislativa in materia di divorzio, che ha il
principale obiettivo, anche al fine di superare l’ormai dilagante fenomeno
del turismo divorzile ( 1 ), di ridurre i tempi necessari per conseguire lo
scioglimento del matrimonio civile ovvero la cessazione degli effetti civili
del matrimonio religioso, introduce un breve articolato in cui sono disciplinati: la riduzione dei tempi di separazione ininterrotta necessari ai fini
della presentazione della domanda di divorzio (art. 1), lo scioglimento anticipato della comunione legale (art. 2), nonché l’applicazione della nuova
disciplina ai procedimenti in corso (art. 3).
La citata legge è, invero, solo un tassello di un ben più articolato disegno
iniziato con il sottrarre all’autorità giudiziaria l’esclusiva e inderogabile
competenza in materia di separazione e divorzio. Il riferimento, in particolare, è al nuovo istituto della negoziazione assistita che ha trovato in-
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) Tale fenomeno trovava la sua origine nel reg. CE n. 2201/2003 che consente ai cittadini comunitari, aventi residenza in uno dei Paesi dell’Unione, di poter adire la sua autorità giudiziaria e nel fatto che Paesi appartenenti alla Comunità europea quali la Romania e la Spagna ammettono la risoluzione del vincolo matrimoniale in tempi che, se confrontati ai tre anni previsti dalla previgente disciplina, appaiono assai rapidi. In tal senso v.
Lombardi, Divorzio breve, legge 6 maggio 2015 (G.U. 11 maggio 2015, n. 107), Sant’Arcangelo di Romagna, 2015, p. 14 s.
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Divorzio breve
(l. n. 55/15)
Le nuove leggi
gresso nell’ordinamento giuridico italiano con il d.l. 12 settembre 2014, n.
132, convertito nella l. 10 novembre 2014, n. 162.
Quest’ultimo, finalizzato a dettare « misure urgenti di de-giurisdizionalizzazione e altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di
processo civile », ha introdotto una duplice alternativa stragiudiziale all’ordinaria risoluzione dei conflitti: unitamente al trasferimento in sede arbitrale dei procedimenti pendenti ( 2 ), predispone, « istituzionalizzandola
in via “quasi generale” in materia civile » ( 3 ), la nuova procedura di negoziazione assistita, mirante anch’essa a portare i contenziosi fuori dalle aule
dei tribunali e, dunque, a bloccare a monte l’afflusso dei processi civili.
Per quel che riguarda la materia familiare la l. n. 162/14 prevede non solo all’art. 6 l’estensione a separazione e divorzio del nuovo istituto della
negoziazione assistita ( 4 ), ma anche all’art. 12 – intitolato « ulteriori disposizioni per la semplificazione di procedimenti di separazione personale e
di divorzio » – la possibilità che i coniugi, in assenza di figli minori o maggiorenni non autosufficienti, risolvano in via stragiudiziale la « crisi coniugale ». Questi ultimi possono, in alternativa alla negoziazione assistita,
concludere direttamente dinnanzi al Sindaco, quale ufficiale dello stato civile, un accordo di separazione personale, ovvero di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio di cui all’art. 3, comma 2o, n. 2,
lett. b), l. div. o ancora un accordo di modifica delle condizioni della separazione o del divorzio ( 5 ).
( 2 ) Sull’arbitrato di cui all’art. 1 l. n. 162/14 v. tra i primi commentatori: Bove, Sul c.d.
arbitrato forense, in questa Rivista, 2015, p. 205 ss.; Balena, Il trasferimento in sede arbitrale dei giudizi pendenti, in Foro it., 2015, V, c. 17 ss.; Navarrini, Riflessioni a prima
lettura sul nuovo « arbitrato deflattivo » (art. 1, d.l. 12 settembre 2014, n. 132), in www.
judicium.it, 2014, p. 3; Valerini, Il trasferimento alla sede arbitrale di procedimenti pendenti dinnanzi all’autorità giudiziaria, in Processo civile efficiente e riduzione arretrato. Commento al d.l. n. 132/2014, conv. in l. n. 162/2014, a cura di Luiso, Torino, 2014, p. 1 ss.,
spec. p. 2.
( 3 ) Sono parole di Danovi, Il d.l. n. 132/2014: le novità in tema di separazione e divorzio, in Fam. e dir., 2014, p. 949 ss., spec. p. 950.
( 4 ) Visto che l’art. 6 rinvia, in quanto compatibile, all’art. 2 del decreto, Danovi, op.
cit., p. 950, ritiene che, nel silenzio del legislatore, alla convenzione assistita in materia di
separazione e divorzio debbano trovare applicazione le regole contenute nei commi 2o,
lett. a), nonché 3o, 4o, 5o, 6o e 7o rispettivamente sul termine per l’espletamento della procedura, sulla determinatezza del termine di valenza della convenzione (in assenza di un positivo accordo), sulla necessaria forma scritta, sull’assistenza degli avvocati, sulla certificazione apposta da questi circa l’autografia delle sottoscrizioni delle parti, nonché sul dovere
deontologico dei legali di informare gli assistiti della possibilità offerta dalla nuova normativa. Di contro, non appare, invece, possibile applicare alla negoziazione assistita in materia di separazione e divorzio l’art. 3 che disciplina i rapporti con l’instaurato processo nei
casi di previo esperimento obbligatorio della negoziazione. Qualche dubbio, infine, sussiste, in relazione alla possibilità di estendere alla negoziazione assistita in materia familiare
l’art. 4 sulle conseguenze della mancata accettazione dell’invito o del mancato accordo ai
fini delle future spese processuali.
( 5 ) Il 24 aprile 2015 è stata emanata dal Ministero dell’interno, al fine di garantire uniformità a livello nazionale in tutti gli uffici di stato civile, la circolare n. 6/15 che ha chiarito alcuni dubbi interpretativi emersi in sede di applicazione degli artt. 6 e 12 l. n. 162/14.
In particolare, in ordine all’art. 6, comma 3o, prima parte, l. n. 162/14, che prevede che
l’avvocato della parte debba trasmettere entro 10 giorni all’ufficiale di stato civile del comune in cui il matrimonio fu iscritto o trascritto, copia autenticata dallo stesso dell’accor-
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Le nuove leggi
1081
A tali norme, che sembrano già riscontrare ampio successo applicativo,
introducendo nell’ordinamento nuove modalità, che si vanno ad aggiungere alle tradizionali forme di ricorso all’autorità giudiziaria, per pervenire
alla separazione consensuale, al divorzio congiunto ovvero alla modifica
congiunta delle condizioni di separazione o di divorzio ( 6 ), si unisce ora la
l. n. 55/15 grazie a cui si introduce nel sistema il divorzio breve.
L’uno e l’altro intervento legislativo, sebbene disarticolati in più norme,
verranno nelle pagine che seguono, tuttavia, considerati congiuntamente
in quanto finalizzati a raggiungere il comune obbiettivo di ridurre i tempi
e semplificare le modalità di definizione dello status matrimoniale ( 7 ).
Divorzio breve
(l. n. 55/15)
do, munito di nullaosta o autorizzazione dell’autorità giudiziaria, il Ministero chiarisce come tale termine decorra dalla data di comunicazione alle parti del provvedimento (nullaosta o autorizzazione) del procuratore della Repubblica o del Presidente del tribunale a cura della cancelleria ex art. 136 c.p.c. Inoltre, secondo il Ministero, sebbene la convenzione
di negoziazione debba essere conclusa con l’assistenza di « almeno un avvocato per parte », la trasmissione degli atti all’ufficiale di stato civile del comune non deve, invece, avvenire ad opera di entrambi i legali essendo « sufficiente che provveda uno soltanto degli avvocati che abbia assistito uno dei coniugi e abbia autenticato la sottoscrizione ». Conseguentemente, la sanzione amministrativa pecuniaria sarà applicata solo qualora nessuno
degli avvocati dei due coniugi abbia provveduto alla trasmissione nei termini di legge. In
ordine all’art. 12, comma 2o, della legge in oggetto che esclude che si possa ricorrere all’istituto in esame in presenza di figli minori o maggiorenni incapaci o portatori di handicap grave, ovvero economicamente non autosufficienti, il Ministero, invertendo le linee offerte nella precedente circolare n. 19/14, sottolinea come la disposizione deve essere intesa
nel senso che possono chiedere all’ufficiale dello stato civile la separazione o il divorzio,
nonché la modifica delle condizioni di separazione o di divorzio i coniugi che non abbiano
figli in comune che si trovino in una delle condizioni previste dalla legge, mentre l’eventuale presenza di figli minori, maggiorenni incapaci o economicamente non autosufficienti
di uno soltanto dei coniugi richiedenti non impedisce il ricorso all’istituto. Inoltre, sempre
in riferimento all’art. 12, comma 3o, l. n. 162/14, che vieta espressamente che l’accordo
possa contenere « patti di trasferimento patrimoniale », ancora una volta nell’opposta direzione della precedente circolare n. 19/14, il Ministero chiarisce che per « patti di trasferimento patrimoniale » debbano intendersi soltanto quelli produttivi di effetti traslativi.
Da ciò consegue che non rientra nel divieto della norma la previsione, nell’accordo concluso davanti all’ufficiale dello stato civile, di un obbligo di pagamento di una somma di denaro a titolo di assegno periodico, sia nel caso di separazione consensuale (assegno di mantenimento), sia nel caso di richiesta congiunta di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio (assegno divorzile). Diversamente, specifica la circolare, continua a
non poter costituire oggetto di accordo la previsione della corresponsione in unica soluzione dell’assegno periodico di divorzio (liquidazione una tantum) in quanto trattasi di attribuzione patrimoniale (mobiliare o immobiliare).
( 6 ) Si tratta come evidenziato da Danovi, op. cit., p. 949, di « due vie formalmente distinte (l’una resa possibile grazie all’intervento degli avvocati, l’altra direttamente gestita
dalle parti innanzi all’ufficiale dello stato civile), dunque, e pur tuttavia accomunate (...)
sotto numerosi profili: in particolare per quanto concerne i presupposti, il campo operativo e (parte de)gli effetti ».
( 7 ) È chiaro come l’indicata disarticolazione legislativa non giovi al sistema nel suo complesso. In tal senso v. Danovi, I nuovi modelli di separazione e divorzio: una intricata pluralità di protagonisti, in Fam. e dir., 2014, p. 1141 ss., spec. p. 1149 e Poliseno, La convenzione di negoziazione assistita per le soluzioni consensuali di separazione e divorzio, in Foro
it., 2015, V, c. 1 ss., spec. c. 6.
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2. L’art. 1 l. n. 55/15.
Divorzio breve
(l. n. 55/15)
Concentrandoci per il momento sull’art. 1 della legge sul divorzio breve
occorre, innanzitutto, sottolineare come questo, grazie ad una modifica
dell’art. 3, comma 2o, n. 2, lett. b), l. div. ( 8 ), riduca i tempi d’ininterrotta
separazione utili per la proposizione della domanda di divorzio, anticipandoli da tre anni ad un anno, se la separazione è conseguita in via giudiziale, e da tre anni a sei mesi, nel caso di separazione consensuale ( 9 ).
Inoltre, l’art. 1 l. n. 55/15 prevede la riduzione del termine di un anno a
sei mesi anche per il caso in cui i coniugi, intrapresa la via giudiziale, si accordino per una separazione consensuale. Con ciò superando completamente la formulazione approvata dalla Camera dei deputati il 29 maggio
2014, grazie a cui il termine per proporre la domanda di divorzio era individuato in ragione del tipo di procedimento inizialmente intrapreso a
nulla rilevando la successiva trasformazione della separazione da giudiziale in consensuale.
Inoltre, il citato articolo, disponendo che i nuovi termini decorrano ( 10 ),
non già, come previsto nel d.d.l. 29 maggio 2014, dalla domanda di separazione, bensì dall’udienza di comparizione dei coniugi innanzi al Presidente del tribunale ( 11 ), pone non poche questioni interpretative in ordine
tanto alla necessità di coordinare la nuova disciplina con la possibilità che
( 8 ) Quello indicato rappresenta il secondo intervento normativo (il primo risale all’art.
5 l. 6 marzo 1987, n. 74) sul termine di cui all’art. 3 l. n. 898/70, che nella sua formulazione
originaria era di cinque anni.
( 9 ) L’art. 1 l. n. 55/15 espressamente dispone: « le parole di cui all’art. 3, comma 2o, n.
2, lett. b) della l. n. 898/79 “tre anni a far tempo dalla avvenuta comparizione dei coniugi
innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale anche quando
il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale” sono sostituite dalle seguenti:
“dodici mesi dall’avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale
nella procedura di separazione personale e di sei mesi nel caso di separazione consensuale,
anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale” ».
( 10 ) Sulla decorrenza del termine iniziale di separazione utile ai fini della proposizione
della domanda di divorzio, seppur nel vigore della previgente disciplina, occorre segnalare, stante l’applicazione del principio anche alla nuova normativa, la sentenza del Trib. Milano 2 luglio 2014, in Fam. e dir., 2015, p. 139, con nota di Martini, La decorrenza del termine iniziale di separazione legale per la proponibilità della domanda di divorzio. Questa,
aderendo a Cass. 8 gennaio 2014, n. 139, in Dir. e giust., 9 gennaio 2014, afferma la perdurante efficacia del provvedimento giudiziale che, in una pregressa procedura, autorizzava i
coniugi a vivere separati. In altre parole, la decisione citata ammette, per il computo del
periodo di ininterrotta separazione necessario per proporre domanda di divorzio, la decorrenza del termine iniziale dall’autorizzazione presidenziale dei coniugi a vivere separati,
ancorché pronunciata in un precedente giudizio conclusosi con il rigetto della domanda.
( 11 ) Già prima della l. n. 55/15 la dottrina (Santosuosso, voce Scioglimento del matrimonio, in Enc. dir., XLI, Milano, 1989, p. 661; Galoppini, Divorzio (diritto privato e processuale), in Noviss. Digesto it., app. III, Torino, 1982, p. 84) aveva espresso il principio,
riferibile anche alla nuova disciplina, secondo cui la mancata comparizione, senza giusto
motivo, di uno dei coniugi all’udienza presidenziale non comportasse una proroga del termine iniziale del periodo d’ininterrotta separazione utile ai fini della proposizione della
domanda di divorzio, atteso che, ove la convivenza fosse cessata, per la proposizione della
domanda di divorzio, il termine iniziale per il computo del periodo di ininterrotta separazione dovesse in ogni caso decorre dall’udienza presidenziale a prescindere dall’effettiva
comparizione.
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1083
le parti ricorrano alla negoziazione assistita ovvero ad un accordo di fronte al Sindaco, quanto all’ipotesi di trasformazione della separazione da
giudiziale a consensuale.
In relazione a quest’ultimo profilo, qualche problema interpretativo potrebbe porsi ove la trasformazione della separazione da giudiziale a consensuale avvenisse ad una distanza di tempo dall’udienza di cui all’art. 708
c.p.c. ( 12 ) tale da non far apparire affatto conveniente per i coniugi calcolare il termine di sei mesi dall’udienza di comparizione di cui all’art. 711
c.p.c. di fronte al Presidente del tribunale e non il termine di un anno dall’udienza ex art. 708 c.p.c. Tuttavia, a tal proposito della disposizione in
parola potrebbe offrirsi un’interpretazione logica, mirante ad attuarne il
fine ultimo consistente nel favorire, attraverso il dimezzamento dei termini, l’accordo consensuale: si potrebbe, ai fini della proposizione della domanda di divorzio, far, pertanto, decorrere il termine di sei mesi di ininterrotta separazione dall’udienza ex art. 708 c.p.c. anziché dalla successiva
udienza di cui all’art. 711 c.p.c.
È sempre, inoltre, l’interpretazione logica a dover soccorrere anche per
consentire il coordinamento tra la disposizione di cui all’art. 1 l. n. 55/15 e
le nuove forme stragiudiziali di risoluzione dei conflitti matrimoniali.
Non solo la legge sul divorzio breve ha, infatti, mancato di specificare,
per le negoziazioni assistite ovvero per gli accordi conclusi dinanzi all’ufficiale dello stato civile, il termine di separazione ininterrotta necessario
per la proposizione della domanda di divorzio, ma non ne ha neanche
esplicitamente individuato il dies a quo. In altri termini, il legislatore, prevedendo la decorrenza del termine dall’udienza di comparizione delle
parti di fronte al Presidente del tribunale, ha indubbiamente trascurato la
presenza nel sistema di casi, quali appunto quelli indicati, in cui le parti
possono addivenire alla separazione senza la previa comparsa di fronte al
giudice statale.
Orbene, nel silenzio della norma, posta l’assoluta equiparazione, ex artt.
6 e 12 l. n. 162/14, tra l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita
e i « provvedimenti giudiziali », un’interpretazione logica ( 13 ) dovrebbe
condurre ad applicare il solo nuovo termine di sei mesi in rapporto a ciascuna delle due forme di separazione stragiudiziale ( 14 ) alle quali i coniugi,
in presenza dei relativi presupposti, possono attualmente accedere poiché,
comunque, trattasi di procedure consensuali.
In relazione a queste il dies a quo di decorrenza del termine si ritiene
debba, poi, essere individuato, per il caso di negoziazione assistita, nel
momento dell’accordo certificato dai difensori, chiaramente ove seguito
dall’autorizzazione ovvero dal nullaosta del p.m., mentre, per il caso di accordo davanti al Sindaco, dalla sua sottoscrizione ad opera dei coniugi e
sempre che, anche in tal caso, la volontà di separarsi sia confermata nei
Divorzio breve
(l. n. 55/15)
( 12 ) Il caso è, ad esempio, quello in cui la trasformazione avvenga, magari davanti al giudice istruttore, a distanza di otto-nove mesi dall’udienza di cui all’art. 708 c.p.c.
( 13 ) In tal senso v. anche Danovi, Al via il « divorzio breve »: tempi ridotti ma manca il
coordinamento con la separazione, in Fam. e dir., 2015, p. 607 ss., spec. p. 609.
( 14 ) Cfr. Danovi, Mezzi stragiudiziali di separazione e divorzio, in Codice della famiglia, a
cura di Sesta, Milano, 2015, p. 2534.
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Divorzio breve
(l. n. 55/15)
Le nuove leggi
successivi trenta giorni ( 15 ). Infatti, il momento di redazione dell’accordo,
tanto certificato dagli avvocati che sottoscritto di fronte al Sindaco, rappresenta, alla stregua dell’udienza di comparizione innanzi al Presidente
del tribunale, il primo atto con cui i coniugi manifestano la volontà di separarsi.
Se, quindi, come indicato i tempi di separazione ininterrotta utili ai fini
della proposizione della domanda di divorzio si differenziano in ragione
del tipo di procedimento prescelto, necessario ne è il controllo sul loro decorso. Questo appare delegato nell’attuale sistema a differenti soggetti ( 16 ): se la domanda di divorzio è rivolta all’autorità giudiziaria tanto in
via consensuale che giudiziale il controllo è rimesso al giudice, mentre,
ove si addivenga a divorzio attraverso i mezzi stragiudiziali introdotti con
la l. n. 162/14, il controllo appare, invece, deferito ora agli avvocati ora all’ufficiale di stato civile.
In particolare, nel caso di negoziazione assistita il controllo del rispetto
di sei mesi d’ininterrotta separazione sembra a chi scrive dover essere
compiuto dagli avvocati, garanti ( 17 ) dei requisiti dell’accordo necessari
per superare il vaglio del p.m. e confermato da quest’ultimo in sede di rilascio del nullaosta ovvero dell’autorizzazione. Ove, invece, i coniugi separati scelgano di sciogliere il matrimonio civile ovvero far cessare gli effetti civili del matrimonio religioso di fronte all’ufficiale dello stato civile è
a quest’ultimo che sarà delegato il controllo in ordine al rispetto dei termini di ininterrotta separazione ( 18 ).
Peraltro, se nel caso di separazione consensuale l’innovazione legislativa
( 15 ) In tal senso v. Dosi, I tempi ora indicati non variano in caso di figli minori, in Guida
al dir., 23 maggio 2015, n. 23, pp. 15-18, secondo cui « sono naturalmente equiparati alla
separazione consensuale omologata sia l’accordo di separazione raggiunto attraverso la negoziazione assistita da almeno un avvocato per parte (art. 6, comma 1o, del d.l. 12 settembre 2014, n. 132 convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) sia l’accordo di separazione
raggiunto dai coniugi senza figli con l’assistenza facoltativa di un avvocato davanti all’ufficiale di stato civile (art. 12 della normativa citata). In tali casi il termine minimo di sei mesi
per poter proporre domanda di divorzio decorre rispettivamente dalla data certificata dell’accordo ovvero dalla data dell’atto concluso davanti all’ufficiale di stato civile (art. 12,
comma 4o, della normativa citata, come precisato nella circolare n. 19/2014 del Ministero
dell’Interno) e non dalla successiva data della conferma di tale accordo prevista nella legge ».
( 16 ) Nel sistema possono, infatti, individuarsi ben quattro diversi tipi di procedimenti di
divorzio, delegati ad organi diversi. Questi sono: il divorzio giudiziale di cui all’art. 4 l.
div., quello su domanda congiunta di cui al medesimo art. 4, comma 16o, l. div., quello attraverso la negoziazione assistita di cui all’art. 6 l. n. 162/14, nonché quello per accordo
avanti al Sindaco ex art. 12 l. n. 162/14.
( 17 ) Quanto agli avvocati delle parti occorre rilevare come il controllo spetti ad entrambi: mentre un primo controllo ai sensi dell’art. 2 l. n. 162/14 sarà compiuto dall’avvocato
della parte proponente, un secondo controllo andrà, invece, effettuato dall’avvocato del
coniuge chiamato alla stipula della negoziazione.
( 18 ) Peraltro, l’opzione effettuata in sede di separazione non vincola in alcun modo i coniugi nella scelta del procedimento per lo scioglimento del vincolo matrimoniale: i coniugi,
separati consensualmente, decorso il termine di sei mesi, potranno optare tra divorzio giudiziale di fronte al Presidente del tribunale ovvero stragiudiziale nelle forme previste dalla
l. n. 162/14; allo stesso modo, anche ove la separazione sia stata contenziosa, le parti, dopo
un anno di ininterrotta separazione, potranno procedere al divorzio nelle forme consensuali secondo uno dei tre differenti procedimenti previsti dalla legge.
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non pone problemi di raccordo tra i procedimenti ( 19 ), una sovrapposizione cronologica tra separazione e divorzio può, invece, verificarsi ove la
prima segua le forme giudiziarie e in quest’ambito sia pronunciata una
sentenza non definitiva sullo status ( 20 ).
3. Segue: problemi di coordinamento tra divorzio breve e giudizio di separazione ancora pendente.
La riduzione dei tempi prevista dalla nuova disciplina del divorzio non
ha, invero, per nulla inciso sul presupposto per avanzare la relativa domanda ovvero sulla necessaria presenza di un provvedimento definitivo
sullo status di separati dei coniugi ( 21 ).
Divorzio breve
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( 19 ) Secondo Danovi, Al via il « divorzio breve »: tempi ridotti ma manca il coordinamento con la separazione, cit., p. 611, sebbene in ordine all’art. 710 c.p.c., non si sia avuto
alcun intervento normativo, la significativa riduzione dei termini per la proposizione della
domanda di divorzio, non potrà che incidere, riducendone di fatto l’utilizzo, sull’istituto
della modifica delle condizioni di separazione personale dei coniugi.
( 20 ) Nel testo è utilizzata la stessa espressione prevista dal legislatore ovvero quella di
« sentenza non definitiva », tuttavia la dizione non deve trarre in inganno. Infatti, le pronunce non definitive sono quelle che hanno ad oggetto questioni pregiudiziali di rito o
preliminari di merito, mentre quando nell’ambito di un processo con cumulo oggettivo il
giudice è chiamato a decidere su di una delle più situazioni giuridiche sostanziali dedotte,
rimettendo la causa in istruttoria sulle altre domande, si è in presenza – fattispecie che si
presenta nel caso della sentenza sullo status – di una vera e propria « sentenza parzialmente definitiva ». Così Luiso, Diritto processuale civile, IV, I processi speciali, Milano, 2013, p.
327 ss.
( 21 ) Cfr. Danovi, op. ult. cit., p. 610. In realtà, l’idea del c.d. divorzio diretto era già stata avanzata nel disegno di legge sul divorzio breve. Tuttavia, la norma che stabiliva per i
coniugi la possibilità di ricorrere al divorzio diretto è stata espunta dal testo definitivo.
Questa era l’art. 1, comma 2o, e prevedeva: « lo scioglimento o la cessazione degli effetti
civili del matrimonio può altresì essere richiesto da entrambi i coniugi, con ricorso congiunto presentato esclusivamente all’autorità giudiziaria competente, anche in assenza di
separazione legale, quando non vi siano figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori
di handicap grave ovvero figli di età inferiore ai ventisei anni economicamente non autosufficienti ». Se tale modalità di scioglimento del vincolo matrimoniale non ha, dunque,
trovato ingresso nella l. n. 55/15, occorre non di meno rilevare come i promotori abbiano,
sin da subito, manifestato l’intenzione di andare avanti in tal senso con un separato disegno di legge, presentato lo stesso giorno dell’approvazione della normativa sul divorzio
breve. Peraltro, in proposito sembra a chi scrive (in tal senso v. anche Ferrando, Il divorzio breve: un’importante novità legislativa nel solco della tradizione, in Corr. giur., 2015, p.
1141 ss., spec. p. 1142, che utilizza il termine « divorzio immediato ») che i tempi siano ormai maturi per prendere atto di una sempre maggiore contiguità tra la separazione e il divorzio tale da rendere ormai incomprensibile la duplicazione dei procedimenti. Segni in tal
senso sono presenti anche nella recente giurisprudenza di legittimità (cfr.: Cass. 4 aprile
2014, n. 7981, in Dir. fam. e pers., 2014, 3, I, p. 1070; Cass. 20 agosto 2014, n. 18078, in
Foro it., 2014, c. 3481) che ha di fatto equiparato la condizione di separazione a quella divorzile, ritenendo, alla stregua del divorzio, anche per la separazione non più operativa la
sospensione della prescrizione tra i coniugi di cui all’art. 2941, comma 1o, n. 1, c.c. In particolare, in Cass. 20 agosto 2014, n. 18078, cit., si legge: « l’originaria idea che lo stato di
separazione (...) pur rivelando una incrinatura dell’unità familiare, non ne implica la definitiva frattura, rimanendo possibile la ricostituzione (mediante la riconciliazione) della
coesione familiare (così Corte costituzionale 35/76), è oggi ampiamente superata, se si considera che la separazione non è più un momento di riflessione e ripensamento prima di riNLCC 6-2015
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Divorzio breve
(l. n. 55/15)
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Orbene, se l’attesa del passaggio in giudicato della sentenza di separazione non può che comportare una chiara, negativa incisione sull’effetto
acceleratorio della nuova normativa, questa non si verifica, invece, nel caso di pronuncia nel corso del processo di separazione di una sentenza non
definitiva sullo status ( 22 ), la quale non di meno, però, dall’altro lato, può
porre – come indicato – significativi problemi di coordinamento e sovrapposizione tra i giudizi.
Volendo più dettagliatamente entrare nell’ambito della questione, occorre evidenziare come l’esigenza, avvertita in un primo momento dalla
giurisprudenza ( 23 ), di evitare che il protrarsi del giudizio di separazione
costituisse un impedimento alla proposizione della domanda di divorzio
ha trovato riconoscimento legislativo con l’introduzione, grazie al d.l. n.
35/05, nel codice di rito dell’art. 709 bis ( 24 ). Tale norma, per il caso in cui
« il processo debba continuare per la richiesta di addebito, per l’affidamento dei figli o per le questioni economiche », riconosce alle parti la possibilità di ottenere « sentenza non definitiva relativa alla separazio-
prendere la vita di coppia, e nemmeno solo l’anticamera del futuro divorzio, ma rappresenta il momento della sostanziale esautorazione dei principali effetti del vincolo matrimoniale ». In tal senso v. Dosi, op. cit., p. 16. Peraltro, è già dalla seconda metà degli anni novanta che la dottrina comincia a parlare di divorzio diretto: cfr. Cipriani, Abrogazione della separazione coniugale?, in Dir. e fam., 1997, p. 1103 ss.
( 22 ) Sulla sentenza non definitiva di separazione v. Lupoi, Separazione e divorzio. Attività e questioni processuali, Rimini, 2011, p. 212; nonché in senso critico Danovi, I processi
di separazione e di divorzio tra autonomia normativa e necessità di integrazione, in nota a
Trib. Vercelli 15 gennaio 2002, in Dir. fam. e pers., 2002, p. 457 ss.
( 23 ) La prima decisione in materia è Trib. Vercelli 27 maggio 1992, in Dir. fam. e pers.,
1993, p. 624, con nota di Nappi, Separazione personale con sentenza non definitiva, la quale, quasi apoditticamente, aveva affermato che ai sensi dell’art. 23, comma 1o, l. n. 74/87
era compatibile con il procedimento di separazione personale dei coniugi la norma che
consentiva, nel giudizio di divorzio, la decisione sulla questione di status con sentenza non
definitiva, indipendentemente dalla risoluzione delle residue statuizioni (accessorie) relative all’assegno, ai rapporti interpersonali, non escluso l’accertamento dell’addebito.
L’orientamento si è poi consolidato con la decisione del Trib. Milano 29 settembre 1994,
in Dir. fam. e pers., 1995, p. 596, con nota di Nappi, Più sollecita la pronuncia di separazione personale; in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 736, con nota di Rimini, L’autonomia
del capo della sentenza relativa alla pronuncia di separazione personale fra coniugi sulle questioni accessorie, e successivamente nella giurisprudenza di legittimità. V., inoltre, per la giurisprudenza di legittimità: Cass. 29 novembre 1999, n. 13312, in Fam. e dir., 2000, p. 234,
con nota di Delconte; Cass., sez. un., 3 dicembre 2001, n. 15248 e Cass., sez. un., 4 dicembre 2001, n. 15279, in Foro it., 2002, I, c. 384, con nota di Cipriani, Sulle domande di
separazione, addebito e divorzio; Cass. 18 luglio 2005, n. 15157, in Mass. Giust. civ., 2005,
p. 6.
( 24 ) Invero, prima del d.l. n. 35/05, la possibilità di pronunciare in sede di separazione
sentenza non definitiva sullo status era possibile grazie all’art. 23, comma 1o, l. n. 74/87, a
norma del quale al procedimento di separazione si applicavano le regole del processo di
divorzio in quanto compatibili. In altri termini, la giurisprudenza citata nella nota precedente aveva ritenuto la disposizione normativa di cui all’art. 4, comma 9o, l. n. 898/70 nella
formulazione introdotta con l’art. 8 l. n. 74/87 compatibile con i giudizi di separazione
personale. Oggi, in sede di divorzio, la sentenza non definitiva sullo status è regolata dall’art. 4, comma 12o, l. div. come modificato dal d.l. n. 35/05 e dispone: « nel caso in cui il
processo debba continuare per la determinazione dell’assegno, il tribunale emette sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio. (...) ».
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ne » ( 25 ). Pertanto, sebbene il giudizio di separazione prosegua in ordine
alla decisione delle domande connesse di addebito o affidamento dei figli
ecc. ovvero alla risoluzione delle questioni economiche, il passaggio in
giudicato della decisione non definitiva sullo status legittima gli ormai ex
coniugi a proporre, nelle more del giudizio di separazione, domanda di
divorzio.
In relazione a tale profilo, se il disegno approvato dalla Camera dei deputati il 29 maggio 2014 ( 26 ), tenendo in considerazione l’esperienza anteriore all’entrata in vigore della legge sul divorzio breve, di possibile sovrapposizione dei giudizi, al fine di operare un coordinamento tra separazione e divorzio, stabiliva, auspicandone un raccordo, la competenza funzionale del giudice della separazione personale anche per la causa di divorzio, tale disposizione non è stata, tuttavia, riprodotta nel testo definitivo della legge.
Se – come da altri indicato ( 27 ) – neanche tale opzione sarebbe stata risolutiva, l’assenza di ogni espressa previsione diretta a coordinare i due
processi impone, anche al fine di valutarne la bontà, di analizzare le soluzioni sino ad ora prospettate da dottrina e giurisprudenza in ordine al
problema – oggi, indubbiamente, acuito dalla netta riduzione dei tempi di
separazione – della sovrapposizione dei giudizi.
Segnatamente, sebbene recentemente – ancorché limitatamente all’ipotesi di contemporanea pendenza del giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e di annullamento della separazione consensuale omologata tra gli stessi coniugi – la S.C. ( 28 ) abbia, a quanto consta per la prima volta ( 29 ), ritenuto possibile coordinare i due giudizi attraverso la so-
Divorzio breve
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( 25 ) La norma prevede, inoltre, che tale sentenza, ancorché parziale, sia soggetta al solo
appello immediato da decidersi in camera di consiglio. Cfr. Luiso, op. cit., p. 328.
( 26 ) In particolare l’art. 1 di tale disegno stabiliva: « qualora alla data di instaurazione
del giudizio di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia ancora
pendente il giudizio di separazione con riguardo alle domande accessorie, la causa è assegnata al giudice della separazione personale ».
( 27 ) In tal senso Danovi, Al via il « divorzio breve »: tempi ridotti ma manca il coordinamento con la separazione, cit., p. 611. Secondo l’A. la disposizione indicata nella precedente nota non avrebbe tenuto in alcuna considerazione l’impossibilità di assegnare la causa di
divorzio allo stesso giudice della separazione personale in alcune ipotesi, quali in particolare quella in cui, all’atto della proposizione della domanda di divorzio, il processo di separazione fosse pendente in grado di appello. Inoltre, in relazione a tale ultimo aspetto occorre considerare anche l’intervento della Corte cost. 23 maggio 2008, n. 169, in Dir. e
fam., 2008, p. 670, con nota di Tommaseo, Dichiarate parzialmente illegittime le regole sul
foro competente per i giudizi di divorzio: una sentenza scontata o un’occasione perduta?, che,
nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 4, comma 1o, l. div., enfatizza la divaricazione di
competenza tra il processo di separazione e quello di divorzio.
( 28 ) In particolare, Cass. 9 dicembre 2014, n. 25861, in Giustiziacivile.com, 6 marzo
2015, con nota di Ianni, afferma: « la pendenza di una lite sulla validità dell’accordo giustificativo della separazione consensuale tra coniugi pregiudica, in senso tecnico giuridico,
l’esito del giudizio, contemporaneamente pendente, di cessazione degli effetti civili del loro matrimonio, e ne comporta la sospensione ex art. 295 c.p.c., perché l’eventuale annullamento di quell’accordo determinerebbe il venir meno, con effetto ex tunc, di un presupposto indispensabile della pronuncia di divorzio ».
( 29 ) Invero, la giurisprudenza di legittimità ha da sempre negato la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c. del giudizio di divorzio. In tal senso v.: Cass. 22 febbraio 1979,
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Divorzio breve
(l. n. 55/15)
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spensione ex art. 295 c.p.c. del processo di divorzio, il revirement è, invero, solo apparente.
Mentre giustamente, infatti, nel caso di contemporanea pendenza tra
giudizio di divorzio e giudizio avente ad oggetto l’impugnativa della separazione omologata è possibile ravvisare un nesso di pregiudizialità tale da
giustificare la sospensione del processo di divorzio ( 30 ), così non è, invece,
nelle altre ipotesi in cui, pronunciata sentenza non definitiva sullo status, il
processo di separazione personale continui sulle domande connesse. Diversamente opinando, infatti, non solo si vanificherebbe la ratio acceleratoria della sentenza non definitiva in materia di status di separati, ma come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza di legittimità ( 31 ), non
sarebbe neanche possibile ravvisare, tra giudizio di separazione e divorzio,
la presenza di vero e proprio nesso di pregiudizialità.
Scartata, dunque, la possibilità di sospendere il giudizio di divorzio in
attesa della decisione in sede di separazione, dobbiamo ancora risolvere la
problematica relativa alla sovrapposizione dei processi.
In proposito, sebbene secondo una diversa impostazione ( 32 ) si dovrebbe distinguere il caso in cui le domande connesse possano, « simmetricamente e identicamente », essere proposte in entrambi i giudizi da quello
in cui queste siano per loro struttura differenti, a chi scrive tale distinzione
appare superflua: nell’una e nell’altra fattispecie la decisione raggiunta all’esito del giudizio di divorzio viene ad assorbire la causa ancora pendente
in sede di separazione.
Così è, infatti, nell’ipotesi in cui sia il contenuto della domanda ad imporre al giudice un’identica valutazione tanto in sede di separazione che
n. 1128, in Mass. Giust. civ., 1979, p. 498, secondo cui « la pronuncia di divorzio, operando ex nunc, dal momento del passaggio in giudicato, non determina la cessazione della materia del contendere del giudizio di separazione personale, in quanto non fa venir meno la
necessità e, quindi, l’operatività, fino a quel momento, della pronuncia di separazione e dei
relativi provvedimenti patrimoniali. Da ciò consegue anche che la proposizione della domanda di divorzio, in pendenza del giudizio di separazione, non determina la sospensione
necessaria di quest’ultima a norma dell’art. 295 c.p.c. », nonché, Cass. 16 dicembre 1985,
n. 6372, in Dir. e fam., 1986, p. 475 ss. In tale ultima decisione la Cassazione espressamente sostiene: « al fine della proponibilità della domanda di divorzio, a norma dell’art. 3, n. 2,
lett. b) della l. n. 898/70, acquistano rilevanza autonoma e indipendente ciascuna delle situazioni di separazione contemplate nella norma citata, vale a dire la separazione giudiziale
con sentenza passata in giudicato, la separazione consensuale omologata e la separazione
di fatto iniziatasi, però, almeno due anni prima della entrata in vigore della legge; pertanto,
qualora la domanda di divorzio venga introdotta sulla base di una separazione consensuale
omologata e sia rispettato il termine dilatorio all’uopo stabilito, la circostanza che sia pendente, su iniziativa del coniuge convenuto nel giudizio di divorzio, un procedimento rivolto a conseguire il mutamento del titolo della separazione, con pronuncia di addebitabilità,
non può essere invocata né per paralizzare detta domanda di divorzio sotto il profilo della
maggiore entità del termine dilatorio contemplato nell’ipotesi di separazione giudiziale
con addebito, a carico dell’attore in divorzio, né per conseguire la sospensione del procedimento di divorzio a norma dell’art. 295 c.p.c., difettando il requisito della pregiudizialità
dell’una rispetto all’altra controversia ».
( 30 ) In tal caso a venire meno sarebbe, invero, lo stesso presupposto di cui all’art. 3,
comma 2o, n. 2, lett. b), l. div.
( 31 ) In tal senso la giurisprudenza cit. supra in nota.
( 32 ) Danovi, op. ult. cit., p. 612, di cui, peraltro, sono le parole tra virgolette.
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di divorzio. Il caso è quello della domanda di assegnazione della casa familiare ovvero di affidamento e/o mantenimento dei figli: essendo il giudizio offerto in sede di divorzio « non soltanto logicamente successivo, ma
anche potenzialmente destinato ad avere una più estesa durata nella regolamentazione dei rapporti tra gli (...ex) coniugi » ( 33 ), si ritiene che la decisione assunta in tale sede non possa che assorbire la causa pendente nel
giudizio di separazione ( 34 ).
Lo stesso assorbimento di domande connesse e non decise in sede di separazione rispetto alla decisione di divorzio appare a chi scrive possa verificarsi, però, anche ove le domande oggetto dei due giudizi siano, per loro struttura, differenti. L’ipotesi è quella delle domande di addebito nonché delle domande di natura economica ( 35 ), proposte congiuntamente all’istanza di separazione.
In relazione a queste ultime, aderendo a quanto da altri sostenuto ( 36 ), si
rileva come la domanda, diretta ad ottenere l’assegno divorzile, non sia solamente diversa, quanto a presupposti, finalità e effetti ( 37 ), ma anche incompatibile con la domanda di mantenimento avanzata in sede di separa-
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( 33 ) Sono parole di Danovi, ibidem.
( 34 ) Conseguentemente, il coordinamento tra i giudizi di separazione e divorzio « dovrebbe avvenire unicamente ex post, tra le rispettive decisioni, tenuto conto di quella che
per prima sarà idonea a passare in giudicato ». Quelle tra virgolette sono parole di Danovi, op. ult. cit., p. 613.
( 35 ) Le domande economiche proposte da un coniuge nei confronti dell’altro hanno
una differente finalità. Questa è messa in evidenza da Danovi, ibidem, che sottolinea come diverso a tal fine sia anche il nomen iuris: assegno di mantenimento per la separazione
e assegno di divorzio in sede, per l’appunto, di divorzio.
( 36 ) In tal senso Danovi, op. ult. cit., p. 614.
( 37 ) In proposito, per un’attenta distinzione tra assegno di mantenimento e divorzile v.
Trib. Messina 18 gennaio 2013, in Dir. fam. e pers., 2013, I, p. 995, secondo cui « la diversità dei presupposti che fanno sorgere il diritto al mantenimento in sede di separazione e in
sede di divorzio emerge chiaramente già dal tenore letterale delle norme di rispettivo riferimento: mentre nella prima è sufficiente che il coniuge richiedente non abbia “adeguati
redditi propri”, in caso di divorzio è necessario che il coniuge richiedente non abbia “mezzi adeguati”, o, comunque, non possa procurarseli “per ragioni obbiettive”; la differenza
di disciplina si spiega alla luce del fatto che entrambi i coniugi dovrebbero aspirare, dopo
la cessazione del vincolo, ad una maggiore indipendenza reciproca (...) ». Mentre, infatti,
l’obbligo di corrispondere l’assegno di mantenimento, regolato dall’art. 156, comma 1o,
c.c., ha fonte nel dovere di solidarietà materiale e morale dei coniugi, dal momento che,
con la separazione, il vincolo matrimoniale non viene sciolto, ma solo sospeso, di altra natura è, invece, l’assegno divorzile, corrisposto nel caso di definitiva cessazione del rapporto
coniugale. Conseguentemente, nonostante anche l’assegno divorzile abbia finalità assistenziale-solidaristica, per questo, che deve essere corrisposto ove il legame personale dei coniugi sia definitivamente cessato, la legge richiede requisiti più rigidi. Peraltro, la diversa
natura dei due contributi economici è evidenziata anche da Cass. 20 dicembre 1995, n.
13017, in Giust. civ., 1996, I, p. 1694, secondo cui sarebbe « irrilevante, all’atto della cessazione degli effetti civili del matrimonio, la dichiarazione di autosufficienza economica o
la rinuncia al contributo economico, resa in sede di separazione ». Allo stesso modo, poi,
Cass. 28 ottobre 1994, n. 8912, in Fam. e dir., 1995, p. 14 con nota di Uda, afferma: « l’assegno divorzile, presupponendo necessariamente lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento operanti nel regime di convivenza o di separazione: ne
deriva che la sua determinazione deve avvenire in base a criteri propri e autonomi rispetto
a quelli rilevanti per il trattamento spettante al coniuge separato ».
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zione. Sebbene la Cassazione ( 38 ) ammetta, infatti, la continuazione del
giudizio di separazione indipendentemente dalla proposizione della domanda di divorzio, l’accoglimento della domanda di assegno divorzile
sembra escludere qualsivoglia pretesa a titolo di mantenimento in sede di
giudizio di separazione. Conseguentemente, una volta pronunciato il divorzio e, in quella sede, statuito in ordine all’assegno divorzile, viene meno anche l’interesse a domandare un assegno, quale quello di mantenimento, collegato all’ormai estinto rapporto di coniugio ( 39 ).
Infine, neanche la domanda diretta ad ottenere l’addebito della separazione, situazione in passato tenuta in particolare considerazione quale parametro di determinazione del quantum dell’assegno divorzile, appare, invero oggi, alla luce dell’ormai affermata natura essenzialmente assistenziale di tale assegno ( 40 ), più di tanto influire sulle ragioni della decisione relativa alla determinazione del suo ammontare in sede di divorzio.
Se in genere la domanda di addebito della separazione è proposta per
due ragioni, ovvero, per ottenere l’immediata perdita dei diritti successori,
nonché la cessazione del diritto all’assegno di mantenimento, tali effetti si
ottengono anche con pronuncia della sentenza di divorzio. La sentenza
costitutiva dello status di divorziato comporta, invero, non solo la definitiva cessazione dei reciproci diritti successori dei coniugi, ma anche l’assorbimento del diritto del coniuge « debole » al mantenimento nell’assegno divorzile eventualmente previsto. La ormai affermata natura assisten( 38 ) Cfr. Cass. 16 febbraio 2012, n. 2275, pubblicata per esteso in www.deiure.it e citata
in Danovi, op. ult. cit., p. 612, nt. 19, secondo cui: « va innanzitutto rigettata l’eccezione
di inammissibilità del ricorso, formulata dalla controricorrente in memoria, essendo stata
proposta domanda di divorzio. Tale domanda, infatti, non priva il ricorrente d’interesse al
presente giudizio (giudizio di separazione), trattandosi di procedimento di natura, carattere e finalità differenti (in particolare, con riguardo all’assegno divorzile e a quello di separazione) ».
( 39 ) In dottrina Dosi, op. cit., p. 18, ha sostenuto come lo stesso « avvicinamento tra la
separazione e il divorzio potrebbe interessare, oltre i tempi anche la natura dei due fenomeni ». Ciò, a detta del cit. A., potrebbe portare presto anche alla stessa scomparsa delle
distinzioni ancora esistenti tra assegno di mantenimento e di divorzio. In proposito, è citata anche la sentenza della Corte cost. 11 febbraio 2015, n. 11, in Dir. e giust., 12 febbraio
2015, secondo cui « il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio non costituisce
l’unico parametro di riferimento ai fini della statuizione sull’assegno divorzile, sicché deve
dichiararsi non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 6o, della l. 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come
modificato dall’art. 10 l. 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3 e 29 della Costituzione ».
Tale soluzione potrebbe, infatti, valere sia nella separazione che nel divorzio. L’A., conseguentemente, auspica « l’adozione di un nuovo e unitario modello di obbligazione economica post-matrimoniale fondato su parametri diversi da quelli attuali, specificamente su
parametri che, senza disconoscere l’impegno profuso da ciascuno dei coniugi nella vita familiare, sappiano guardare soprattutto al futuro (capacità di guadagno, età, condizioni di
vita) anziché in modo predominante al passato (conservazione del tenore di vita pregresso) ».
( 40 ) Sulla funzione assistenziale dell’assegno divorzile v. tra le più recenti, per tutti,
Cass. 12 febbraio 2013, n. 3398, in Foro it., 2013, I, c. 1464. Con tale nuovo, ma ormai
consolidato orientamento della S.C., si supera l’originaria connotazione c.d. « mista » di
tale assegno, ritenuto caratterizzato dalla triplice componente assistenziale, risarcitoria e
compensativa, per riconoscergli funzione solamente assistenziale.
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ziale di tale assegno ne importa, in effetti, una determinazione nel quantum quasi completamente svincolata dalla decisione relativa all’addebito
della separazione.
Conseguentemente, si ritiene di aderire alla ricostruzione secondo cui
non solo il giudice del divorzio non dovrà sentirsi in alcun modo ostacolato nella decisione dalla pendenza di un giudizio di separazione sull’addebito, ma la statuizione in ordine all’assegno divorzile farà venire meno
anche l’interesse della parte richiedente ad ottenere in sede di separazione
una pronuncia di addebito ( 41 ).
Se il legislatore del 2015 ha, dunque, perso un’importante occasione per
colmare la lacuna e risolvere, una volta per tutte, il problema del coordinamento tra giudizi, diversamente, in relazione allo scioglimento della comunione, questi è, invece, riuscito a prendere posizione e risolvere una serie di questioni relative alla determinazione del momento di cessazione
della comunione legale tra coniugi che, già nel vigore della previgente disciplina, erano state oggetto di diverse interpretazioni di dottrina e giurisprudenza.
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4. Lo scioglimento della comunione legale.
Per comprendere la portata innovativa dell’art. 191 c.c. ( 42 ), come novellato dall’art. 2 l. n. 55/15, occorre ricordare come la riforma del diritto
di famiglia del 1975 ( 43 ) sostituendo, ex art. 159 c.c., al regime legale della
separazione dei beni quello della comunione, abbia introdotto all’art. 191
c.c. tra le ipotesi di scioglimento della comunione anche la separazione
personale dei coniugi ( 44 ), senza tuttavia individuare il momento a decorrere dal quale questo si sarebbe verificato ( 45 ).
Ciò, a differenza di quanto stabilito dall’art. 193, comma 4o, c.c., in relazione alla retroattività del regime di separazione giudiziale dal dì della
( 41 ) In tal senso v. Cipriani, op. ult. cit., c. 385, secondo cui « non è giuridicamente possibile che, dopo il divorzio, si continui a discutere sull’addebito. Infatti, mentre l’addebito
presuppone che i due siano ancora coniugi, il divorzio estingue il rapporto di coniugio, sì
che nel giudizio di addebito, una volta passata in giudicato la sentenza di divorzio, non potrà che prendersi atto dell’avvenuta cessazione della materia del contendere », nonché Danovi, op. ult. cit., p. 613.
( 42 ) In argomento, tra i primi, v.: Oberto, « Divorzio breve », separazione legale e comunione legale tra coniugi, in Fam. e dir., 2015, p. 615 ss.; Lombardi, op. cit., p. 21 ss.; Dosi,
La comunione legale viene sciolta alla prima udienza, in Guida al dir., 23 maggio 2015, p. 19
ss.
( 43 ) Questa è stata operata da l. 19 maggio 1975, n. 151.
( 44 ) Specificamente l’art. 191, comma 1o, c.c. prevede « la comunione si scioglie per la
dichiarazione di assenza o di morte presunta di uno dei coniugi, per l’annullamento, per lo
scioglimento o per la cessazione degli effetti civili del matrimonio, per la separazione personale, per la separazione giudiziale dei beni, per mutamento convenzionale del regime patrimoniale, per il fallimento di uno dei coniugi ». Sulle fattispecie estintive della comunione v. T.V. Russo, Le vicende estintive della comunione legale, Napoli, 2004, p. 40 ss.
( 45 ) Il vuoto normativo era in dottrina messo in evidenza da: Oberto, I contratti della
crisi coniugale, I, Milano, 1999, p. 390 ss.; Id., La comunione legale tra coniugi, in Tratt. Cicu-Messineo, II, Milano, 2010, p. 1768.
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proposizione della domanda, aveva, invero, alimentato in dottrina e giurisprudenza un significativo dibattito.
Se, dunque, la giurisprudenza di legittimità ( 46 ) appariva granitica nell’affermare l’operatività dello scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi ex nunc ( 47 ) con il passaggio in giudicato della sentenza di
separazione ovvero con l’emanazione del decreto di omologazione dell’accordo di separazione consensuale ( 48 ), in dottrina si assisteva, invece, ad
una pluralità di interpretazioni.
Con maggiore impegno esplicativo si evidenzia come accanto a chi ( 49 )
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( 46 ) Cfr.: Cass. 12 gennaio 2012, n. 324, in Mass. Giust. civ., 2012, p. 23; Cass. 26 febbraio 2010, n. 4757, in Foro it., 2010, I, c. 1772; Cass. 27 febbraio 2001, n. 2844, in Fam. e
dir., 2001, p. 441; Cass. 5 ottobre 1999, n. 11036, in Notariato, 2000, p. 13, con nota di
Bartolucci; Cass. 23 giugno 1998, n. 6234, in Foro it., 1999, I, c. 655, con nota di Cipriani; Cass. 3 settembre 1998, n. 8707, in Vita not., 1998, p. 1605; Cass. 18 settembre
1998, n. 9325, in Fam. e dir., 1999, p. 182; Cass. 17 febbraio 1993, n. 12523, in Fam. e dir.,
1994, p. 424, con nota di Caliendo e in Nuova giur. civ. comm., 1994, p. 651, con nota di
Regine; Cass. 11 luglio 1992, n. 8469, in Giur. it., 1994, I, p. 1414; Cass. 11 luglio 1992, n.
8463, in Dir. e fam., 1993, p. 83; Cass. 29 gennaio 1990, n. 560, in Dir. e fam., 1990, p. 807.
L’orientamento della Cassazione era seguito anche da una parte della giurisprudenza di
merito cfr., tra più: Trib. Roma 10 novembre 1999, in Giur. it., 2000, p. 1412, con nota di
Scaglione; Trib. Reggio Emilia 20 novembre 1998, in Giur. merito, 1999, p. 473, con nota di di Pagliani; Trib. Trani 25 luglio 1995, in Fam. e dir., 1995, p. 573, con nota di
Chizzini; Trib. Terni 3 febbraio 1993, in Rass. giur. Umbra, 1993, p. 369, con nota di
Palma.
( 47 ) Ciò aveva come conseguenza – in assenza di sentenza non definitiva sullo status – la
permanenza del regime di comunione tra i coniugi, spesso anche per molti anni, dopo la
cessazione della convivenza.
( 48 ) La tesi era seguita in dottrina da: Civinini, Sulla cumulabilità della domanda di separazione personale e di scioglimento della comunione legale, in Foro it., 1997, I, c. 1597 ss.;
Paladini, Lo scioglimento della comunione legale e la divisione dei beni, in Aa.Vv., Il diritto di famiglia, II, in Tratt. Bessone, Torino, 1999, p. 405 s.; Oberto, La comunione legale
tra coniugi, cit., p. 1777 ss. Inoltre, a questo filone deve essere ricondotta anche l’ordinanza della Corte cost. 7 luglio 1988, n. 795, in Foro it., 1989, I, c. 928, che, dichiarando manifestamente infondata la questione di incostituzionalità dell’art. 191 c.c. per contrasto all’art. 3 Cost., aveva, di fatto, decretato l’inidoneità dei provvedimenti ex art. 708 c.p.c. a
determinare il dies a quo di scioglimento della comunione.
( 49 ) In tal senso, v. Schlesinger, Della comunione legale, in Commentario alla riforma
del diritto di famiglia, I, 1, a cura di Carraro, Oppo e A. Trabucchi, Padova, 1977, p. 439;
Id., Separazione personale e scioglimento della comunione, nota a Trib. Milano 20 luglio
1995, in Fam. e dir., 1996, p. 263; Barbiera, Procedimenti incompleti di separazione personale e disciplina del rapporto coniugale, Bari, 1989, p. 85; Id., La comunione legale, in Tratt.
Rescigno, III, 3, Torino, 1996, p. 586; Cecchella, Aspetti processuali della divisione nella
comunione tra coniugi, in Avvocati di famiglia, 5, settembre-ottobre 2008, p. 30 ss. Gli indicati AA. sostengono tale teoria grazie a un parallelo tra l’art. 191 e l’art. 193 c.c. V. in
particolare, poi, Chizzini, Ordinanza ex art. 708 c.p.c. e comunione legale, in Fam. e dir.,
1995, p. 573, il quale afferma che gli effetti della sentenza costitutiva « decorreranno (una
volta che il provvedimento giudiziario sia intervenuto) dalla data della notificazione del ricorso e del decreto presidenziale di comparizione ex art. 706, comma 2o, c.p.c., all’altro
coniuge ». Ciò, in quanto in tal senso militerebbe non solo l’applicazione analogica, anche
a tale fattispecie, dell’art. 193, comma 4o, c.c., ma anche il principio secondo cui la durata
del processo non può recare danno alla parte che ha ragione. Così v., inoltre, in giurisprudenza: App. Roma 4 marzo 1991, in Giust. civ., 1991, I, p. 2444, nonché Trib. Milano 20
luglio 1995, in Fam. e dir., 1996, p. 263, con nota di Schlesinger, secondo cui gli effetti
dello scioglimento della comunione di cui all’art. 191 c.c. « retroagiscono ad una data anNLCC 6-2015
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riteneva che lo scioglimento della comunione retroagisse al momento della proposizione della domanda di separazione, sostanziantesi, per la separazione giudiziale, nella notifica del ricorso introduttivo, ovvero, per la separazione consensuale, nel suo deposito in cancelleria, si poneva l’opinione di chi ( 50 ), enfatizzando la distinzione tra separazione contenziosa e
consensuale, vedeva come momento di scioglimento della comunione, nel
primo caso, la pronuncia dell’ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c. di
autorizzazione dei coniugi a vivere separati, mentre, nella seconda ipotesi,
la sottoscrizione ad opera dei coniugi dell’accordo di separazione consensuale ( 51 ).
È tale ultimo orientamento ad essere accolto dal legislatore del 2015
che, nell’intento di evitare l’ultrattività degli effetti patrimoniali della comunione alla cessazione della convivenza ( 52 ), riconduce, per il caso della
separazione consensuale, lo scioglimento della comunione al momento
della sottoscrizione del verbale di separazione dei coniugi dinanzi al Presidente del tribunale, purché seguito da omologazione, prevedendone, invece, nell’ipotesi di separazione giudiziale, lo scioglimento alla data della
pronuncia dell’ordinanza presidenziale di cui all’art. 708 c.p.c., ordinanza
da comunicare, ex novellato art. 191, comma 2o, seconda parte, c.c., all’ufficiale di stato civile per l’annotazione dello scioglimento della comunione
a margine dell’atto di matrimonio ( 53 ).
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teriore (alla sentenza definitiva di separazione), che si ravvisa non nell’udienza presidenziale di cui all’art. 708 c.p.c., bensì in quella antecedente della proposizione della domanda di
separazione ».
( 50 ) Cfr.: Bardi, Sullo scioglimento della comunione legale dei beni in caso di separazione
personale dei coniugi, nota a App. Genova 10 novembre 1997, in Dir. e fam., 1999, I, p.
107; Cipriani, Sullo scioglimento della comunione per separazione optimo iure ex art. 708
c.p.c., nota a Trib. Ravenna 17 maggio 1990, in Rass. dir. civ., 1991, p. 953 ss.; Nappi, Sullo
scioglimento del regime di comunione legale tra i coniugi, nota a Trib. Milano 20 luglio
1989, in Dir. e fam., 1990, I, p. 162. Peculiare è, poi, l’opinione di T.V. Russo, op. cit., p.
40 ss., secondo cui, mentre nel caso di separazione giudiziale lo scioglimento della comunione, applicando analogicamente l’art. 193 c.c., si sarebbe verificato, grazie all’efficacia
retroattiva della sentenza, al momento della proposizione della domanda, viceversa, per la
separazione consensuale, lo scioglimento della comunione sarebbe, invece, venuto a coincidere con la sottoscrizione ad opera dei coniugi del verbale di separazione consensuale.
( 51 ) La tesi in parola aveva, invero, origine nella giurisprudenza di merito, v., tra più:
App. Genova 1 ottobre 1998, in Fam. e dir., 1999, p. 147, con nota di Grondona; App.
Genova 10 novembre 1997, cit.; Trib. Roma 14 dicembre 1994, in Giust. civ., 1995, I, p.
352; Trib. Ravenna 17 maggio 1990, cit.; Trib. Milano 20 luglio 1989, cit.
( 52 ) L’anticipata cessazione della comunione legale consente anche di evitare che i beni
acquistati dai coniugi nelle more del giudizio di separazione ricadano, ex art. 177, comma
1o, lett. a), c.c., nella comunione legale. Inoltre, questa comporta la proponibilità della domanda di divisione dei beni anche nel corso del procedimento di separazione. Sulle problematiche relative al tema, non trattato in queste sede, del mancato intervento normativo
relativo alle domande divisorie in pendenza di giudizio di separazione, si rinvia a Oberto,
« Divorzio breve », separazione legale e comunione tra coniugi, cit., p. 629 ss.
( 53 ) L’art. 191, comma 2o, seconda parte, c.c. dispone che « l’ordinanza con la quale i
coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all’ufficiale dello stato civile ai fini
dell’annotazione dello scioglimento della comunione ». Se tale comunicazione deve avvenire a cura della cancelleria, un’interpretazione funzionale della disposizione e tale da evitare gravosi incombenti su cancellerie e ufficiali dello stato civile dovrebbe condurre a ritenere necessario questo adempimento solo là dove tra i coniugi sussista il regime di comuNLCC 6-2015
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Il novellato articolo solleva, invero, ancora una volta, una serie di questioni interpretative relative non solo al significato da attribuire all’inciso
« purché omologato », riferito all’accordo di separazione consensuale, ma
anche, ancora una volta, al coordinamento della disciplina del divorzio
con le nuove forme stragiudiziali di risoluzione della crisi matrimoniale,
dal momento che subordina lo scioglimento della comunione alla sola
emanazione di un provvedimento giurisdizionale.
Più in particolare, in ordine al primo profilo è opinione di chi scrive che
il legislatore del 2015 abbia nel caso di separazione consensuale voluto introdurre nel sistema una vera e propria condizione risolutiva ( 54 ). Il diverso inquadramento della questione in termini di condizione sospensiva non
farebbe, infatti, altro che ribadire, anche in seguito alla novella, la disciplina anteriore, atteso che anche nel vigore della previgente normativa lo
scioglimento della comunione coincideva con la pronuncia del decreto di
omologazione della separazione, mostrando una sostanziale incoerenza
con l’anticipazione del momento di cessazione della comunione previsto
per le procedure di separazione contenziosa.
Se, dunque, interpretare l’inciso « purché omologato » come descrittivo di una condizione risolutiva collegata all’emanazione del decreto di
diniego dell’omologazione della separazione consensuale, potrebbe
comportare dubbi interpretativi in ordine al tipo di regime da applicare agli acquisti effettuati dai coniugi nel lasso di tempo intercorrente
tra la sottoscrizione del verbale di separazione e l’eventuale decreto di
diniego dell’omologazione, non di meno occorre, però, sottolineare come
tale ipotesi non solo appaia di difficile verificazione, ma anche risolvibile
alla luce di quella giurisprudenza ( 55 ) che, per il caso di riconciliazio-
nione legale, non dovendosi, quindi, comunicare l’ordinanza se il regime prescelto dai coniugi è quello della separazione dei beni. In riferimento alla disposizione in parola Oberto, op. ult. cit., p. 642, mette, inoltre, in evidenza il mancato coordinamento tra l’istituto
dell’annotazione e quello della trascrizione. In proposito l’A. osserva come l’effetto-opponibilità della pubblicità dichiarativa sarebbe previsto per la sola annotazione sull’atto di
matrimonio di cui all’art. 162, ult. comma, c.c. delle convenzioni matrimoniali, mentre per
lo scioglimento della comunione legale l’art. 2647 c.c. continuerebbe a prescrivere la trascrizione nei pubblici registri immobiliari.
( 54 ) In tal senso Oberto, op. ult. cit., p. 624.
( 55 ) Nel caso di un’eventuale riconciliazione dei coniugi si verificherà – secondo principi accolti da tempo in giurisprudenza (cfr. Cass. 12 novembre 1998, n. 11418, in Fam. e
dir., 1996, p. 549, con nota di Figone; Cass. 5 dicembre 2003, n. 18619, in Fam. e dir.,
2004, p. 285, in Vita not., 2004, p. 285 e in Il civilista, 2009, p. 77, con nota di Bianchi) –
il ripristino del regime di comunione legale a condizione, però, per l’opponibilità a terzi,
che ne sia fatta dichiarazione, ex art. 69, lett. f), d.p.r. n. 396/00, all’ufficiale di stato civile
ai fini dell’annotazione a margine dell’atto di matrimonio. In tal senso v. Cass. 5 dicembre
2003, n. 18619, cit., secondo cui « in materia di comunione legale tra i coniugi, la separazione personale costituisce causa di scioglimento della comunione, che è rimossa dalla riconciliazione dei coniugi, dalla quale deriva il ripristino del regime di comunione originariamente adottato; tuttavia, in applicazione dei principi costituzionali di tutela della buona
fede dei contraenti e della concorrenza del traffico giuridico (artt. 2 e 41, Cost.), occorre
distinguere tra effetti interni e esterni del ripristino della comunione legale e, conseguentemente, in mancanza di un regime di pubblicità della riconciliazione, la ricostituzione della comunione legale derivante dalla riconciliazione non può essere opposta al terzo in buona fede che abbia acquistato a titolo oneroso un immobile dal coniuge che risultava unico
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ne ( 56 ) tra i coniugi statuisce l’automatico ripristino del regime patrimoniale originariamente adottato ( 57 ).
Ciò detto e passando ad esaminare l’aspetto relativo al coordinamento
tra la disciplina del divorzio breve e le nuove forme stragiudiziali di risoluzione della crisi coniugale, si sottolinea come lo scioglimento della comunione legale nelle ipotesi di separazione per negoziazione assistita dagli
avvocati ovvero per accordo di fronte al Sindaco, in cui non è prevista
un’apposita udienza dinanzi al tribunale e neppure un provvedimento reso dal giudice, non sono state affatto prese in considerazione dal legislatore del 2015.
Orbene – come in precedenza indicato – l’art. 6, comma 2o, l. n. 162/14
profila un’assoluta equiparazione tra l’accordo raggiunto in sede di negoziazione assistita e i « provvedimenti giudiziali », con la conseguenza che
gli effetti della negoziazione dovrebbero prodursi dal dì dell’accordo.
Sebbene tanto in mancanza di figli minorenni che in loro presenza è, infatti, necessario un intervento del p.m. sostanziantesi nel primo caso in un
nullaosta e nel secondo in un’autorizzazione, si ritiene – alla stregua dell’omologa nella separazione consensuale raggiunta di fronte al giudice –
che lo scioglimento della comunione avvenga al momento della sottoscrizione dei coniugi dell’accordo di negoziazione di fronte agli avvocati, purché a questo segua il nullaosta ovvero l’autorizzazione del procuratore
della Repubblica.
In altri termini, come indicato per la separazione consensuale di fronte
al giudice, è opinione di chi scrive che anche in tal caso, se lo scioglimento
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(l. n. 55/15)
e esclusivo proprietario del medesimo, benché lo avesse acquistato successivamente alla riconciliazione. (Fattispecie alla quale ratione temporis non era applicabile l’art. 69, d.p.r. n.
396 del 2000, che ha previsto l’annotazione a margine dell’atto di matrimonio delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione) ».
( 56 ) Sulla riconciliazione v., tra più, Breccia, voce Separazione personale dei coniugi, in
Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. civ., XVIII, Torino, 1998, p. 425 ss.; Panuccio Dattola,
Lo status dei coniugi separati, in Tratt. Iudica-Zatti, Famiglia e matrimonio, II, Milano,
2002, p. 1119 s., nonché in giurisprudenza, ex multis: Cass. 15 marzo 2001, n. 3744, in
Mass. Giust. civ., 2001, p. 484; Cass. 7 luglio 2004, n. 12427, in Mass. Giust. civ., 2004, pp.
7 e 8, secondo cui « non è sufficiente, per provare la riconciliazione tra coniugi separati,
per gli effetti che ne derivano, che i medesimi abbiano ripristinato la convivenza a scopo
sperimentale, essendo invece necessaria la ripresa dei rapporti materiali e spirituali, caratteristici della vita coniugale ».
( 57 ) Come rilevato da Oberto, op. ult. cit., p. 626 ss., la riconciliazione dei coniugi separati mostra in relazione allo scioglimento della comunione legale delle problematiche
che, sebbene non affrontate dal legislatore del 2015, toccano tanto l’ipotesi della riconciliazione successiva alla separazione (art. 157 c.c.), che quella che si verifica in pendenza di
giudizio. In tale ultima ipotesi, l’art. 154 c.c. prevede l’abbandono della domanda di separazione, nonché la conseguente estinzione del giudizio. Se nel vigore del previgente art.
191 c.c., che – come indicato – disponeva lo scioglimento della comunione al momento del
passaggio in giudicato della sentenza di separazione, la riconciliazione risultava « fenomeno del tutto neutro » (in tal senso v. Aricò, Gli effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale dei coniugi, nota a Cass. 12 novembre 1998, n. 11418, in Notariato, 1999, p. 111
ss.), ciò non può essere ripetuto anche oggi: l’estinzione del giudizio in seguito alla riconciliazione non potrà che travolgere con efficacia ex tunc gli effetti prodotti dalla domanda
di separazione. Ciò in ordine allo scioglimento della comunione se da un lato comporta la
ricostituzione del regime patrimoniale originario, dall’altro lato fa, però, venire meno la
certezza giuridica nei rapporti sia tra le parti, che verso i terzi.
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1096
Divorzio breve
(l. n. 55/15)
Le nuove leggi
della comunione legale si verifica immediatamente al momento della sottoscrizione dell’accordo, l’eventuale rigetto, da parte del procuratore della
Repubblica, del nullaosta o dell’autorizzazione, ne sostanzi una condizione risolutiva ( 58 ).
Le stesse conclusioni devono, poi, ripetersi anche in riferimento all’art. 12 l. n. 162/14 per l’ipotesi in cui l’accordo sia raggiunto innanzi al
Sindaco, quale ufficiale dello stato civile. Siccome in tal caso « l’ufficiale
dello stato civile, quando riceve le dichiarazioni dei coniugi, li invita a
comparire di fronte a sé non prima di trenta giorni dalla ricezione per la
conferma dell’accordo », si ritiene che la comunione si sciolga, analogicamente a quanto detto per la negoziazione assistita, non già al momento della seconda comparizione, ma della prima ricezione, ad opera dell’ufficiale di stato civile, delle dichiarazioni delle parti. Anche in tal caso,
dunque, la mancata comparizione delle parti ai fini della conferma sostanzierà una condizione risolutiva degli effetti della separazione personale prodotti al momento delle dichiarazioni dei coniugi di fronte al
Sindaco.
Da ultimo, si rileva come l’art. 3 l. n. 55/15 preveda l’estensione della
nuova disciplina dello scioglimento della comunione legale di cui al novellato art. 191, comma 2o, c.c. anche ai procedimenti in corso alla data di
entrata in vigore della normativa sul divorzio breve ( 59 ).
5. La disciplina transitoria.
Se, dunque, l’art. 3 della disciplina in commento non si limita a consentire un’anticipazione dei tempi per la proposizione della domanda di divorzio per i procedimenti di separazione in corso alla data di entrata in vigore della legge, prevedendo, piuttosto, una contrazione dei tempi anche
rispetto allo scioglimento della comunione legale, è opinione di chi scrive
che proprio quest’ultimo aspetto rappresenti il punto maggiormente nevralgico dell’intera disciplina ( 60 ).
In proposito in dottrina è, infatti, stata avanzata l’idea ( 61 ) secondo cui la
presenza del generale principio di irretroattività di cui all’art. 11 disp.
prel., nonché la sostanziale assenza di specifiche disposizioni transitorie
riferibili allo scioglimento della comunione legale renderebbe di fatto
inapplicabile il novellato art. 191 c.c. ai procedimenti in corso al momento
di entrata in vigore della presente legge, con la conseguenza che « le regole sullo scioglimento della comunione novellamente introdotte si dovran( 58 ) L’idea ripresa nel testo è di Oberto, op. ult. cit., pp. 625 e 626.
( 59 ) Invero, mentre il testo approvato dalla Camera dei deputati nel maggio 2014 non
conteneva alcuna disposizione specifica, limitandosi a regolare gli effetti intertemporali
delle norme sul divorzio breve, l’art. 3 l. n. 55/15 espressamente prevede che « le disposizioni di cui agli articoli 1 e 2 si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in
vigore della presente legge, anche nei casi in cui il procedimento di separazione che ne costituisce il presupposto risulti ancora pendente alla medesima data ».
( 60 ) Secondo Lombardi, op. cit., p. 14, sarebbe l’intera disciplina transitoria a porre rilevanti problemi interpretativi.
( 61 ) Oberto, op. ult. cit., p. 642 ss.
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Le nuove leggi
1097
no considerare applicabili solo alle autorizzazioni a vivere separati, ovvero
alle sottoscrizioni dei verbali di separazione consensuale dei coniugi dinanzi al presidente intervenute dopo l’entrata in vigore della novella » ( 62 ).
Sebbene non si ritenga di poter aderire alla tesi esposta, non di meno
della disposizione transitoria deve necessariamente offrirsi un’interpretazione restrittiva. In altre parole, pur considerandosi la nuova disciplina
dello scioglimento della comunione legale applicabile ai procedimenti di
separazione personale in corso, in relazione a questi, la comunione deve,
tuttavia, ritenersi sciolta solo al momento dell’entrata in vigore della legge
sul divorzio breve, non anche a far data dall’autorizzazione presidenziale
dei coniugi a vivere separati ovvero dal dì della sottoscrizione del verbale
di separazione. Una diversa interpretazione porrebbe, infatti, insanabili
problemi di opponibilità a terzi dei rapporti patrimoniali medio tempore
intercorsi tra i coniugi ( 63 ).
Per il resto, i nuovi termini di cui all’art. 1 della legge sul divorzio breve
troveranno applicazione a tutti i processi di divorzio che andranno ad essere introdotti, indipendentemente dallo stato del giudizio di separazione,
ovvero, tanto a quelli per cui la separazione, conseguita nel vigore della
previgente disciplina richiedeva il decorso di tre anni, che a quelli per cui
il procedimento di separazione, tanto consensuale che giudiziale, sia ancora in corso al momento dell’entrata in vigore della l. n. 55/15.
Ciò non necessariamente avrà come « conseguenza (...) un immediato
possibile sovraccarico di domande (e di ruoli giudiziari) per tutte quelle
vicende in cui i nuovi termini siano ormai decorsi » ( 64 ), posto il possibile
ricorso, per ottenere il divorzio, alle forme stragiudiziali di risoluzione
della crisi matrimoniale di cui alla l. n. 162/14, miranti per l’appunto,
bloccando a monte l’afflusso dei processi civili, a portare i contenziosi
fuori dalle aule dei tribunali.
Prima di concludere ci sia concessa ancora una breve notazione relativa
alle sorti della riforma del diritto di famiglia. Questa, sebbene disarticolata in più normative e iniziata con il d.l. n. 134/14 convertito in l. n. 162/
14, non appare tuttavia aver trovato conclusione nella recentissima l. n.
55/15.
Non solo a pochi giorni dall’approvazione della normativa in commento
sono, infatti, stati presentati alle Camere due nuovi progetti in tema, il primo, del c.d. divorzio diretto ( 65 ) e, il secondo, di accordi pre-matrimonia-
Divorzio breve
(l. n. 55/15)
( 62 ) Sono parole di Oberto, op. ult. cit., p. 643.
( 63 ) In proposito Oberto, op. ult. cit., p. 644, nt. 92, propone una significativa questione. L’A. giustamente rileva: « poco dopo aver iniziato la causa di separazione tre anni prima dell’entrata in vigore della novella e dopo l’emanazione dei provvedimenti presidenziali, un coniuge ha acquistato un bene destinato a cadere in comunione ex art. 177, lett. a),
c.c., bene che è stato immediatamente pignorato dai creditori “comuni”, ex artt. 186-190
c.c.; a distanza di tre anni si “scopre” che il bene è (era) del solo coniuge che l’ha acquistato. Quid juris? ».
( 64 ) Sono parole di Danovi, op. ult. cit., p. 614.
( 65 ) D.d.l. AS 1504 bis, che – come indicato supra – è stato presentato alle Camere lo
stesso giorno di approvazione della legge sul divorzio breve.
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Divorzio breve
(l. n. 55/15)
Le nuove leggi
li ( 66 ), ma il legislatore sembra, più in generale, tornare ad occuparsi di
giustizia civile con un nuovo disegno di legge delega.
Quest’ultimo, recante « disposizioni per l’efficienza del processo civile », contiene un assai ampio progetto di riforma della giustizia amministrata dallo Stato ( 67 ) che viene ad incidere nuovamente anche sui rapporti
famigliari.
Per quanto in questa sede rileva il disegno di legge da ultimo citato sembra, in particolare, aprire una prospettiva che tocca il piano strutturale
della giustizia in materia di famiglia attraverso l’istituzione presso ogni tribunale ordinario di nuove « sezioni specializzate in materia di famiglia e
della persona », con competenza su tutti gli affari relativi alla famiglia, anche non fondata sul matrimonio, e sui procedimenti non rientranti nella
competenza del tribunale per i minorenni in materia civile.
Se i tempi, anche sulla scia di ordinamenti, quali quello tedesco ( 68 ), non
troppo lontani dal nostro, sono ormai maturi per una riforma completa e
organica del diritto di famiglia, la strada da percorrere, soprattutto sotto il
profilo processuale, appare però ancora molta e in salita e ad agevolare le
riforme verso l’istituzione di un organo unico ( 69 ) che, attraverso un modello processuale uniforme, decida le controversie in materia di famiglia e
della persona, non sembrano di certo porsi le frammentarie modalità prescelte dall’attuale legislatore ( 70 ).
( 66 ) Il progetto mira alla regolamentazione del regime patrimoniale della coppia nella
prospettiva di un futuro scioglimento del matrimonio. V. ex multis: Fanetti, Autonomia
dei coniugi e trasferimenti immobiliari nei procedimenti di separazione e divorzio, in Fam.,
pers. e success., 2010, p. 369; Oberto, I contratti della crisi coniugale, cit.; Vincenzi Amato, I rapporti patrimoniali, in Commentario sul divorzio, a cura di Rescigno, Milano, 1980.
( 67 ) Il d.d.l. delega recante « disposizioni per l’efficienza del processo civile » n. 2953 è
stato presentato per l’esame in Parlamento lo scorso 11 marzo.
( 68 ) La prima legge di riforma del diritto di famiglia (Erstes Gesetz zur Reform des Eheund Familienrechts- 1. EheRG), risalente al 14 giugno 1976, ha istituito il tribunale della
famiglia. Tuttavia, le sue competenze sono state più volte ampliate nel corso degli anni. Un
primo significativo passo verso un grande tribunale della famiglia (großes Familiengericht)
si è avuto nel 1997 attraverso l’attribuzione della competenza in materia minorile (legge di
riforma del diritto dei minori/Kindschaftsrechtsreformgesetz - KindRG), nonché nel 2001
in materia di convivenza registrata (Gesetz über die Eingetragene Lebenspartnerschaft, Lebenspartnerschaftsgesetz - LPartG) e di tutela civilistica per atti violenti e persecutori (Gesetz zum zivilrechtlichen Schutz vor Gewalttaten und Nachstellungen, Gewaltschutzgesetz GewSchG). Nel dicembre 2008 con la legge sul procedimento nelle questioni familiari e
nelle questioni della volontaria giurisdizione (Gesetz über das Verfahren in Familiensachen
und in Angelegenheiten der freiwilligen Gerichtsbarkeit - FamFG) si è, inoltre, assistito, anche in virtù dell’abrogazione delle norme della ZPO, del FGG e dell’HausratsVO e altre
leggi, all’unificazione del procedimento dinanzi al tribunale della famiglia, nonché all’attribuzione a questo di molte materie prima di competenza del tribunale tutelare (Vormundschaftsgericht).
( 69 ) In tal senso sembra, peraltro, al momento ostare la previsione nell’indicato disegno
di legge della permanenza del tribunale per i minorenni che, sebbene avente un ambito di
competenza molto limitato, continuerebbe in ogni caso a concorrere con le nuove sezioni
specializzate in materia di famiglia e della persona.
( 70 ) In tal senso v. Lombardi, op. cit., p. 27, secondo cui sarebbe ormai giunto il momento per « una riforma completa e organica del diritto di famiglia così da evitare continui
e frammentati interventi normativi ».
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CERTIFICATO SUCCESSORIO EUROPEO
E AUTORITÀ DI RILASCIO ITALIANA [,]
(art. 32 l. 30 ottobre 2014, n. 161)
di
Fabio Padovini
(Prof. nell’Università di Trieste)
Sommario: 1. Le finalità e le ragioni della disposizione. – 2. L’individuazione dell’autorità
di rilascio. – 3. La disciplina applicabile al rilascio. – 4. Gli strumenti di impugnazione. –
5. Il coordinamento con la legislazione tavolare.
Certificato
successorio europeo
(art. 32 l. n. 161/14)
1. Le finalità e le ragioni della disposizione.
Il reg. UE n. 650/2012, del 4 luglio 2012, entrato in vigore il 17 agosto
2015, ha istituito il certificato successorio europeo (c.s.e.), destinato a favorire la prova della qualità di erede nelle successioni transfrontaliere ( 1 ).
La disciplina dettata dal reg. UE n. 650/2012 ha, nella parte dedicata al
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) Nella dottrina italiana v.: Padovini, Il certificato di eredità europeo, in Trattato di diritto delle successioni e donazioni (diretto da Bonilini), I, Milano, 2009, p. 1623 ss.; Id., Il
certificato successorio europeo, in Famiglia e successioni, II, Liber amicorum per Dieter Henrich, Torino, 2012, p. 215 ss.; Pasqualis, Successioni, certificato di eredità e circolazione in
Europa dell’atto pubblico notarile, in Notariato, 2012, p. 495 ss.; Ballarino, Il nuovo regolamento europeo sulle successioni, in Riv. dir. internaz., 2013, p. 1144 ss.; Barone, Il certificato successorio europeo, in Notariato, 2013, p. 427 ss.; Bergami, Le principali novità del
regolamento (UE) n. 65/2012; i criteri di collegamento nell’individuazione della legge regolatrice della successione mortis causa e l’introduzione del certificato europeo, in Vita not.,
2013, p. 1138 ss.; Damascelli, Diritto internazionale privato delle successioni a causa di
morte, Milano, 2013, p. 141 ss.; Ferretti, Successioni transfrontaliere e certificato successorio europeo: prime osservazioni sul Regolamento UE n. 650 del 2012, in Contr. e impr./Europa, 2013, p. 458 ss.; Maida, Il certificato successorio europeo, in questa Rivista, 2013, p.
389 ss.; Padovini, Il certificato successorio europeo, in Il Diritto internazionale privato europeo delle successioni mortis causa (a cura di Franzina e Leandro), Milano, 2013, p. 191
ss.; Padovini, Il certificato successorio europeo, in Eur. dir. priv., 2013, p. 729 ss.; Sartori,
Successioni transfrontaliere: il nuovo regolamento europeo di diritto internazionale privato,
in Riv. not., 2013, p. 1351; Tacconi, Prime osservazioni sul regolamento UE n. 650/2013
del Parlamento europeo e del Consiglio in materia di successioni, in Vita not., 2013, p. 96 ss.;
Benanti, Il certificato successorio europeo: ragioni, disciplina e conseguenze della sua applicazione nell’ordinamento italiano, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, p. 7 ss.; Zanobetti,
Il certificato successorio europeo, in Davì-Zanobetti, Il nuovo diritto internazionale privato
europeo delle successioni, Torino, 2014, p. 231 ss.; C.M. Bianca, Certificato successorio europeo: il notaio quale autorità di rilascio, in Vita not., 2015, p. 1 ss.; Marcoz, Nuove prospettive e nuove competenze per i Notai italiani: il rilascio del Certificato Successorio Europeo, in Notariato, 2015, p. 497 ss.; Pennazio, Il nuovo diritto delle successioni in Europa:
l’introduzione del certificato successorio europeo e la tutela dei terzi acquirenti di beni ereditari, in Contr. e impr./Europa, 2015, p. 317 ss.; Wautelet e Padovini, in Il regolamento
europeo sulle successioni, a cura di Bonomi e Wautelet, Milano, 2015, sub artt. 62-73, p.
635 ss.
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1100
Certificato
successorio europeo
(art. 32 l. n. 161/14)
Le nuove leggi
c.s.e., natura di diritto materiale uniforme ed è concepita come una disciplina autosufficiente, cioè capace di avere attuazione senza necessarie integrazioni ad opera delle legislazioni nazionali. Al di là del rilievo che questo carattere è in generale proprio ai regolamenti emanati dal Parlamento
europeo e dal Consiglio dell’Unione europea, la ragione sottesa a tale scelta di tecnica legislativa sta nella volontà di garantire la maggiore diffusione
possibile ad un mezzo che rimane pur sempre facoltativo, non intendendo
il reg. UE n. 650/2012 sostituire gli strumenti nazionali destinati alla prova della qualità di erede.
Ferma questa scelta di principio, il reg. UE n. 650/2012 ha, purtuttavia,
rimesso ai singoli Stati membri la decisione – talvolta necessaria, altre volte eventuale – circa alcuni profili specifici della disciplina così introdotta.
Si tratta, in particolare, di: individuazione dell’« organo giurisdizionale »
competente a rilasciare il certificato [cfr. art. 64, reg. UE n. 650/2012]; facoltà o no per l’autorità di rilascio di ricevere le dichiarazioni del richiedente sotto giuramento o nella forma di dichiarazioni sostitutive di atto di
notorietà [cfr. art. 66, comma 3o, reg. UE n. 650/2012]; possibilità o no
per le autorità competenti di uno Stato membro di fornire informazioni a
un’altra autorità nazionale [cfr. art. 66, comma 5o, reg. UE n. 650/2012];
possibilità o no per l’autorità di rilascio di modificare o revocare d’ufficio
il c.s.e. già emesso [cfr. art. 71, reg. UE n. 650/2012]; individuazione dell’autorità giudiziaria nazionale davanti alla quale impugnare le decisioni
dell’autorità di rilascio [cfr. art. 72, par. 1, comma 3o, reg. UE n. 650/
2012].
La legge europea 2013 bis (l. 30 ottobre 2014, n. 161) ha provveduto ad
operare alcune fra le scelte rimesse al legislatore nazionale, individuando
con l’art. 32 ( 2 ) – che qui si commenta – nel notaio l’autorità competente a
rilasciare il c.s.e. e nel tribunale ordinario l’autorità giudiziaria cui proporre ricorso avverso le decisioni dell’autorità di rilascio. Il legislatore italiano
ha, così, esercitato le scelte necessarie, mentre non ha ritenuto di avvalersi
delle ulteriori opzioni rimesse alla sua valutazione discrezionale, né ha ritenuto di dettare regole di coordinamento fra la disciplina europea e quella nazionale implicitamente richiamata, ad esempio della legge notarile.
La scelta dipende probabilmente dalla volontà di non incidere su uno
strumento, qual è il c.s.e., destinato alla circolazione transfrontaliera e, di
massima, ad essere uguale qualunque sia l’autorità di rilascio.
Purtuttavia, la soluzione non appare del tutto convincente, poiché essa
( 2 ) « Art. 32 - Disposizioni in materia di certificato successorio europeo.
1. Il certificato successorio europeo di cui agli articoli 62 e seguenti del reg. UE n. 650/
2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 luglio 2012, è rilasciato, su richiesta di
una delle persone di cui all’art. 63, paragrafo 1, del regolamento stesso, da un notaio, in
osservanza delle disposizioni di cui agli articoli da 62 a 73 del citato regolamento.
2. Avverso le decisioni adottate dall’autorità di rilascio ai sensi dell’articolo 67 del reg.
UE n. 650/2012 è ammesso reclamo davanti al tribunale, in composizione collegiale, del
luogo in cui è residente il notaio che ha adottato la decisione impugnata. Si applicano le
disposizioni di cui all’articolo 739 del codice di procedura civile.
3. Nei territori in cui vige il sistema del libro fondiario continuano ad applicarsi le disposizioni di cui al titolo II del regio decreto 28 marzo 1929, n. 499, in materia di rilascio
del certificato di eredità e di legato ».
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Le nuove leggi
1101
crea lacune normative che tocca all’interprete colmare, così generando
proprio quel pericolo di frammentazione normativa che il legislatore voleva evitare.
2. L’individuazione dell’autorità di rilascio.
La principale scelta rimessa dal legislatore europeo a quelli nazionali era
rappresentata dall’individuazione dell’autorità di rilascio. L’art. 64 del
reg. UE n. 650/2012 dispone, infatti, che: « il certificato è rilasciato nello
Stato membro i cui organi giurisdizionali sono competenti a norma dell’art.
4, dell’art. 7, dell’art. 10 o dell’art. 11. L’autorità di rilascio è: a) un organo
giurisdizionale quale definito dall’art. 3, paragrafo 2; o b) un’altra autorità
che in forza del diritto nazionale è competente in materia di successione ».
Quanto alla nozione di « organo giurisdizionale », l’art. 3, comma 2o,
reg. UE n. 650/2012 offre, invero, un orizzonte ampio, là dove precisa
che: « ai fini del presente regolamento il termine “organo giurisdizionale”
indica qualsiasi autorità giudiziaria e tutte le altre autorità e i professionisti
legali competenti in materia di successioni che esercitano funzioni giudiziarie o agiscono su delega di un’autorità giudiziaria o sotto il controllo di
un’autorità giudiziaria, purché tali altre autorità e professionisti legali offrano garanzie circa l’imparzialità e il diritto di audizione delle parti e purché le
decisioni che prendono ai sensi della legge dello Stato membro in cui operano: a) possano formare oggetto di ricorso o riesame davanti a un’autorità
giudiziarie e b) abbiano forza ed effetto equivalenti a quelli di una decisione
dell’autorità giudiziaria nella stessa materia. Gli stati membri notificano alla
Commissione, conformemente all’articolo 79, le altre autorità e i professionisti legali di cui al primo comma ».
La soluzione dettata dal legislatore europeo era, in effetti, una soluzione
aperta ad una pluralità di scelte, imponendosi soltanto il rispetto dei principi di terzietà – qui evocato dalla nozione di imparzialità – e del contraddittorio – qui evocato dal diritto di audizione delle parti – con la garanzia,
successiva, del controllo giurisdizionale sui provvedimenti assunti.
La scelta del legislatore italiano è stata nel senso di attribuire la competenza ai notai e muove dal postulato che la legge professionale dedicata all’ordinamento notariato offra strumenti capaci di soddisfare le necessarie
garanzie di terzietà e del contraddittorio ( 3 ).
La scelta così preferita appare – su un piano sovranazionale – coerente
con quella operata dal legislatore francese del 2002, quando novellò il code civil (con le norme degli artt. da 730 a 730-5) e attribuì all’acte de noto-
Certificato
successorio europeo
(art. 32 l. n. 161/14)
( 3 ) A favore di questa soluzione v.: Barone, Il certificato successorio europeo, cit., p. 429
e p. 438; Marcoz, Nuove prospettive e nuove competenze per i Notai italiani, cit., p. 497 ss.;
di recente, in senso contrario Maida, Certificato successorio europeo: ai notai la competenza
al rilascio, cit., p. 210 ss., il quale oppone, fra l’altro, i vantaggi propri al provvedimento
giurisdizionale – trascurando che gli effetti del c.s.e. sono fissati dal reg. UE n. 650/2012 –
e la modestia del costo proprio ai procedimenti di volontaria giurisdizione – dimenticando
che ben spesso il ricorso introduttivo è predisposto da un libero professionista.
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Certificato
successorio europeo
(art. 32 l. n. 161/14)
Le nuove leggi
riété la funzione di attestare la qualità di erede: la competenza fu, invero,
affidata al notaio.
La scelta appare – su un piano nazionale – coerente altresì con l’odierno
favore del legislatore per una sempre crescente degiurisdizionalizzazione.
Del resto, già altre volte il nostro ordinamento ha attribuito ai notai competenze, in senso lato, di volontaria giurisdizione, immaginando un intervento giurisdizionale soltanto in caso di contestazioni. Basti pensare alle
funzioni tradizionalmente assegnate al notaio in materia di divisione, di
recente sottolineate dalla novella degli artt. 790 ss. e in particolare dall’introduzione dell’art. 791 bis c.p.c., oppure al meccanismo prefigurato dall’art. 2436 c.c. in relazione alle modificazioni dello statuto delle società
per azioni o, ancora, alle funzioni che possono venir delegate ai professionisti nell’ambito delle espropriazioni forzate.
La scelta appare, ancora, coerente con la soddisfazione di esigenze pratiche, perché il notariato dispone certamente di mezzi capaci di consentire
una rapida emissione del c.s.e.
Conferma alla bontà della scelta potrà venire – ove in questo senso sia il
provvedimento finale – dall’attribuzione al notariato della competenza a
tenere il registro delle successioni, oggi affidata al tribunale: la novella dell’art. 52 disp. att. c.c. prevede, infatti, che nel registro – tenuto dal Consiglio nazionale del notariato – siano inseriti e conservati i certificati successori europei emessi in Italia e le domande dirette al loro rilascio ( 4 ).
Per un solo profilo la scelta appare dissonante rispetto all’ordinamento
vigente: nei territori dove si applica il regime del libro fondiario, il certificato di eredità o di legato è rilasciato dal tribunale (cfr. art. 13, r.d. 28
marzo 1929, n. 499). L’incoerenza, non va, però, sopravvalutata, ove si
tenga in conto che le regole vigenti nel regime tavolare si fondano sulla
circostanza che la pubblicità tavolare è contraddistinta da effetti peculiari,
più rilevanti rispetto a quelli tipici della trascrizione, com’è per la presunzione di proprietà e, più in generale, per gli effetti del cosiddetto principio
di pubblica fede. Sicché la scelta dell’organo giurisdizionale si spiega – oltreché con il dato storico, rappresentato dalla matrice austriaca del modello – anche con le caratteristiche della pubblicità nei libri fondiari, rispetto
alla quale il certificato di eredità è titolo necessario.
3. La disciplina applicabile al rilascio.
Si è già detto che la disciplina dettata dal reg. UE n. 650/2012 è, di principio, autosufficiente, volendo il legislatore europeo perseguire l’uniformità nel rilascio del c.s.e., sì da garantirne la massima diffusione.
Conseguenza immediata di questo principio è che il c.s.e. non sarà soggetto, di massima, alla legge notarile: così, ad esempio, la forma del c.s.e.
sarà quella prescritta dal reg. UE n. 650/2012, che ha trovato una ricaduta
( 4 ) In questo senso è il testo dell’art. 28 bis, del disegno di legge concorrenza (A.C.
3201-Camera dei Deputati) che novella l’art. 52 disp. att. c.c., attribuendo al Consiglio nazionale del notariato la tenuta del registro delle successioni.
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Le nuove leggi
1103
concreta nel Regolamento di Esecuzione, e non quella degli atti pubblici
notarili.
L’attribuzione al notaio della competenza per il rilascio del c.s.e. non significa, insomma, richiamo della disciplina nazionale dedicata agli atti ricevuti da notai ( 5 ).
Alla legge notarile potrà farsi rinvio soltanto ove il reg. UE n. 650/2012
presenti una lacuna altrimenti non colmabile: così, ad esempio, potrà ricorrersi alla legge notarile quanto alle modalità di conservazione del c.s.e.,
che va messo a repertorio e a raccolta ( 6 ).
La tendenziale estraneità del c.s.e. rispetto alla legge notarile spiega, altresì, perché il notaio potrà avvalersi di strumenti altrimenti inusuali: l’applicazione diretta del reg. UE n. 650/2012 fa sì, invero, che al notaio siano
rimesse attività e funzioni solitamente estranee a questa figura di pubblico
ufficiale ( 7 ). Dubbio è, però, se il notaio possa avvalersi di una dichiarazione sostitutiva di notorietà, perché il reg. UE n. 650/2012 lo consente, ma
se il diritto nazionale lo prevede e alle condizioni da esso stabilite (cfr. art.
66, comma 2o): ora, la legge notarile (cfr. art. 1, comma 2o, n. 2) attribuisce sì al notaio la facoltà di ricevere atti di notorietà in materia civile e
commerciale, ma taluno si chiede se l’ambito così individuato abbracci
anche la materia successoria e, in particolare, il c.s.e. ( 8 ).
Certificato
successorio europeo
(art. 32 l. n. 161/14)
4. Gli strumenti di impugnazione.
La seconda scelta operata dal legislatore italiano è stata nel senso di prevedere che le impugnazioni avverso le decisioni dell’autorità di rilascio
siano proposte al tribunale in composizione collegiale ( 9 ).
La scelta appare, un’altra volta, coerente con le tendenze odierne dell’ordinamento, che spesso affida al tribunale collegiale la decisione sui
provvedimenti, positivi o negativi, emanati da autorità delegate: si pensi
alle contestazioni che possono insorgere nell’ambito di un procedimento
di espropriazione forzata.
Di nuovo occorre rilevare che il reg. UE n. 650/2012 ha costruito anche
a questo proposito un regime specifico direttamente applicabile, ad esempio quanto agli effetti del provvedimento. Il legislatore italiano individua,
( 5 ) Per una rassegna delle soluzioni prospettabili ai molti integrativi pratici che la nuova
competenza suscita conviene rinviare ad Aa.Vv., Il Certificato Successorio Europeo - CSE.
Prime proposte operative, a cura di Fondazione Italiana del Notariato - Consiglio Nazionale
del Notariato, Roma, 2015.
( 6 ) Così Marcoz, Nuove prospettive e nuove competenze per i Notai italiani, cit., p. 504;
sul tema specifico della conservazione probabilmente inciderà il disegno di legge concorrenza (AC 3201-Camera dei Deputati), là dove novella l’art. 52 disp. att. c.c. prevedendo
che nel registro delle successioni – una volta tenuto dal Consiglio nazionale del notariato –
siano inseriti i certificati successori europei nonché le domande dirette al loro rilascio.
( 7 ) Così anche C.M. Bianca, Certificato successorio europeo: il notaio quale autorità di
rilascio, cit., p. 3.
( 8 ) Così C.M. Bianca, op. ult. cit., p. 6 ss.; altri immaginano di dare spazio alle previsioni di cui alla disciplina sulla documentazione amministrativa: Marcoz, Nuove prospettive
e nuove competenze per i Notai italiani, cit., p. 502 ss.
( 9 ) Cfr. già Barone, Il certificato successorio europeo, cit. p. 436.
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Le nuove leggi
così, la disciplina suppletiva con il richiamo alle norme di cui all’art. 739
c.p.c.
Al di là di una disamina analitica, qui merita segnalare che si seguiranno
le regole sul contraddittorio ove il c.s.e. sia impugnato da un terzo estraneo [cfr. art. 62, comma 3o, reg. UE n. 650/2012].
5. Il coordinamento con la legislazione tavolare.
Certificato
successorio europeo
(art. 32 l. n. 161/14)
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Di difficile comprensione è il comma 3o dell’articolo qui commentato: è,
invero, pacifico che il c.s.e. non sostituisce i certificati nazionali [art. 62,
comma 3o, reg. UE n. 650/2012].
Probabilmente, l’unico significato plausibile sta nel fare leva sulla necessità del certificato di eredità quale titolo per le iscrizioni tavolari degli acquisti per causa di morte, anche in ragione della pubblica fede che assiste
questo sistema pubblicitario.
In questa prospettiva il valore della regola si risolve nel prevedere che il
c.s.e. non è titolo idoneo alla pubblicità, a tale scopo essendo necessario il
certificato di eredità.
È ben vero che la soluzione sembra capace di superfetazioni – con la duplicazione di certificati per una sola successione: nazionale ed europeo –,
ma è altrettanto certo che l’emissione del certificato di eredità avviene sulla base di un ricorso che deve essere sottoscritto con firma autenticata, la
quale vale accettazione della vocazione ereditaria, mentre il c.s.e. è rilasciato sulla base di un’istanza a forma libera, che può non avere il valore
di un’accettazione dell’eredità.
Sul piano formale, poi, non può trascurarsi di rilevare che il certificato
di eredità contiene – in ossequio alla regola di cui all’art. 32 l. tav. e a differenza di quanto previsto per il c.s.e. – la descrizione dei beni immobili,
con l’esatta indicazione tavolare dei medesimi, e che la revoca del certificato di eredità è annotata d’ufficio nel libro fondiario (art. 20, comma 2o,
r.d. 28 marzo 1929, n. 499): donde una parziale giustificazione alla regola
che qui si commenta.
Merita, piuttosto, segnalare che appare errata la comunicazione dello
Stato Italiano alla Commissione europea, resa ai sensi dell’art. 78 del reg.
UE n. 650/2012, là dove ha preteso di ricavare dalla norma che qui si
commenta l’attribuzione al tribunale del potere di rilasciare il c.s.e.: non
pare, invero, dubbio che questa disposizione è dedicata al certificato di
eredità, di cui proclama la perdurante vigenza ed efficacia, mentre non incide sul rilascio del c.s.e., il quale resta attribuito alla competenza dei notai anche nei territori dove si applica il sistema del libro fondiario.
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INTERMEDIAZIONE DI SOCIETÀ FIDUCIARIA
NELLA PRESTAZIONE DI CREDITO
AL FIDUCIANTE E ART. 70, COMMA 1o, L. FALL. [,]
di
Stefano Boatto
(Dottore di ricerca in diritto europeo dei contratti civili, commerciali e del lavoro)
Sommario: 1. Premessa: la vicenda da cui originano le riflessioni in materia di attribuzione fiduciaria di « pagamenti ». – 2. La qualificazione della fattispecie dell’attribuzione fiduciaria: una questione di metodo oltre che di merito. – 3. Fiducia « romanistica », collegamento contrattuale e mandato senza rappresentanza. – 4. Segue: il rapporto fiduciante-fiduciario-terzo quale mandato senza rappresentanza: critica. – 5. Segue: la fattispecie fiduciaria quale esito, in conformità al tradizionale « modello romanistico », di
due contratti collegati: critica. – 6. Attribuzione fiduciaria come investitura avente a oggetto una legittimazione nei confronti di un bene altrui. – 6.1. L’investitura come presupposto per l’allocazione, tra fiduciante e fiduciario, di obblighi e prerogative originati
dall’incarico fiduciario. – 6.2. Segue: modello « romanistico » e « germanistico » come
modi di essere di una medesima fattispecie e « fiducia legale ». – 7. Lo svolgimento di
un’attività quale oggetto dell’incarico fiduciario a favore di società fiduciaria. – 7.1. Segue: l’attività delle società fiduciarie disciplinate dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966,
e modelli di svolgimento dell’incarico. – 8. La legittimazione passiva del fiduciante sulla
base dell’art. 70, comma 1o, l. fall. – 8.1. Le soluzioni interpretative proposte dell’art. 70,
comma 1o, l. fall. In particolare, la soluzione che configura l’art. 70, comma 1o, l. fall.
quale disciplina delle cc.dd. « attribuzioni indirette ». – 8.2. Segue: critica. – 9. L’art. 70,
comma 1o, l. fall. quale disposizione che sancisce l’irrilevanza dei soggetti ivi indicati a
rivestire, rispetto all’obbligazione da cui origina il pagamento, il ruolo di parte: i pagamenti avvenuti « tramite intermediari specializzati e procedure di compensazione multilaterale ». – 9.1. Segue: i pagamenti « avvenuti [...] dalle società previste dalla legge 23
novembre 1939, n. 1966 ». – 10. La revocatoria dei pagamenti « avvenuti [...] dalle società previste dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966 ».
Attribuzione
fiduciaria
1. Premessa: la vicenda da cui originano le riflessioni in materia di attribuzione fiduciaria di « pagamenti ».
Una vicenda in cui è protagonista una società fiduciaria e la sentenza
con la quale il Tribunale di Milano l’ha decisa contribuiscono, benché in
modi e per motivi assai diversi, a una serie di più generali riflessioni sull’istituto dell’attribuzione fiduciaria ( 1 ). La vicenda si segnala non tanto
perché ripropone noti profili critici di vertice attinenti il fenomeno fiduciario, quanto piuttosto per il fatto di costringere ad indagarli, con la immediatezza tipica dei casi di scuola, nell’ambito di un contesto normativo
innovato: quindi anche da una prospettiva meno tradizionale di quella attraverso la quale essi sono stati sino ad ora analizzati. La sentenza, tuttavia, svaluta tali profili, preferendo affidarsi a soluzioni ricostruttive del fe-
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) Si tratta della sentenza del Tribunale di Milano, depositata in data 15 aprile 2011, a
quanto consta, inedita.
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Attribuzione
fiduciaria
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nomeno fiduciario che non esita a qualificare come dato acquisito. In realtà, a ben vedere, si tratta di ricostruzioni già discutibili nel merito e la cui
stabilità, più che l’esito di un approfondito dibattito, pare l’effetto di una
loro acritica quanto meccanica riproposizione.
Nei limiti in cui ciò risulti funzionale alle programmate riflessioni, conviene tratteggiare, dapprima, lo svolgimento dei fatti e, di seguito, i passaggi che innervano la citata pronuncia.
Una società di intermediazione finanziaria erogava un finanziamento a
favore di una società per azioni che, già nella documentazione funzionale
al perfezionamento del contratto, precisava di agire nella qualità di società
fiduciaria. In seguito, attese la dichiarazione di quest’ultima quanto all’impossibilità di rimborsare il finanziamento – alla quale ne seguiva altra con
cui veniva comunicato il nome della persona fisica del fiduciante – e di rispettare il successivo nuovo piano di ammortamento, la società di intermediazione finanziaria conveniva in giudizio società fiduciaria e fiduciante, affinché fossero condannati al pagamento di quanto dovuto a titolo di
rimborso del finanziamento medesimo oltre interessi. Secondo la società
attrice, mentre la legittimazione passiva della società fiduciaria era coerente con il ruolo da questa formalmente assunto nel contratto di finanziamento, la legittimazione passiva del fiduciante conseguiva all’imputazione
della titolarità dell’interesse economico sotteso all’operazione di finanziamento, ossia al fatto di essere, in definitiva, concreto beneficiario della relativa somma. Ciò, soggiungeva l’attrice, risultava viepiù confermato dall’art. 70, comma 1o, l. fall., norma cui andava riconosciuta l’idoneità ad affermare un principio di carattere generale. Essa, infatti, ove prevede che
« [l]a revocatoria dei pagamenti avvenuti tramite intermediari specializzati, procedure di compensazione multilaterale o dalle società previste dall’art. 1 della l. 23 novembre 1939, n. 1966, si esercita e produce effetti nei
confronti del destinatario della prestazione », svaluta l’interposizione del
fiduciario per circoscrivere la rilevanza giuridica della vicenda a fiduciante
e terzo, ossia ai titolari delle sfere giuridiche concretamente interessate. Il
fiduciante, d’altra parte, eccepiva e provava di non avere mai beneficiato
delle somme oggetto del contratto di finanziamento.
Il Tribunale di Milano dichiara fondata la domanda della società attrice
nei confronti della sola società fiduciaria ed esclude che al fiduciante possa riconoscersi idonea legittimazione passiva in quanto: (i) in forza di
« principi di carattere generale », « la struttura dei rapporti tra terzo finanziatore, società fiduciaria e fiduciante, deve essere ricondotta [...] allo
svolgimento di un mandato senza rappresentanza, nel quale la società fiduciaria, assumendo (e dando esecuzione ad) un mandato senza rappresentanza, risponde delle obbligazioni contratte con i terzi per conto del fiduciante salvo il diritto di rivalersi nei confronti di questi per l’esecuzione
del mandato [...] »; (ii) il negozio fiduciario, al tempo stesso, non è simulato ma negozio vero e voluto che « si realizza mediante il collegamento di
due negozi, l’uno di carattere esterno, realmente voluto e con efficacia
verso i terzi, e l’altro di carattere interno – pure effettivamente voluto – ed
obbligatorio, diretto a modificare il risultato finale del primo negozio per
cui il fiduciario è tenuto a ritrasferire il bene al fiduciante o ad un terzo »;
(iii) infine, la legittimazione del fiduciante non può essere argomentata
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neppure sulla base dell’art. 70, comma 1o, l. fall., una norma che « [ha]
carattere eccezionale [e] che trova ragione ed espresso ambito di applicazione limitatamente alla revocatoria fallimentare ».
2. La qualificazione della fattispecie dell’attribuzione fiduciaria: una questione di metodo oltre che di merito.
I citati passaggi, più precisamente i percorsi ermeneutici che li fondano ( 2 ), da tempo ricorrono, salva ovviamente la statuizione concernente
Attribuzione
fiduciaria
( 2 ) Ai fini del presente contributo, meritano poco più che un cenno quelle considerazioni svolte dal giudicante circa i profili di disciplina conseguenti, in particolare, alla qualificazione della relazione intercorrente tra le parti in termini di mandato senza rappresentanza. Anzitutto, per il Tribunale non può trovare accoglimento la difesa della società fiduciaria ove mira a giustificare l’imputazione dell’obbligo di rimborso nei confronti del fiduciante sulla base della consapevolezza da parte della società attrice del fatto che il contratto
era stato concluso in conformità ad un accordo fiduciario e più in particolare del fatto che
la società formalmente figurante come mutuataria agiva, in vero, nell’interesse di un fiduciante. Il Tribunale precisa infatti che la disciplina del mandato senza rappresentanza svaluta fino alla irrilevanza la consapevolezza da parte dei terzi, al momento della conclusione
del contratto, quanto alla circostanza che il contraente abbia agito bensì in nome proprio
ma nell’interesse di altri: e la svaluta sino al punto da non consentirle di mutare la qualificazione del rapporto che è, e rimane, mandato senza rappresentanza con tutti i conseguenti riflessi, in particolare, sul ruolo e sugli obblighi del mandatario. Peraltro, aggiunge il Tribunale, la legge esclude che la conoscenza da parte dei terzi del mandato, ovvero dell’esistenza di un mandante interessato agli effetti del contratto, possa essere qualificata quale
forma di contemplatio domini, atto che invece implica la effettiva spendita del nome del
mandante da parte del mandatario (cfr. art. 1705, comma 1o, c.c.). In senso conforme si
esprimono Cass. 7 aprile 1979, n. 1999, in Mass. Giust. civ., 1979, p. 4 e App. Firenze 30
gennaio 1989, in Arch. civ., 1989, p. 1092. In dottrina, si vedano almeno, Santagata, Del
mandato – Disposizioni generali, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 1985, p. 202 ss; Luminoso, Il mandato, Torino, 2000, p. 81; Id., Il mandato, in Tratt. Rescigno, XII, Torino,
2007, p. 434. Del pari irrilevante, prosegue il Tribunale, è il fatto che il mandatario comunichi il nome del mandante al terzo contraente, successivamente alla conclusione del contratto con quest’ultimo: una simile comunicazione non ha l’attitudine a integrare l’elemento della spendita del nome, e per ciò stesso a mutare la qualificazione del rapporto in mandato con rappresentanza. Il profilo, evidentemente, attiene all’idoneità della comunicazione del nome del mandante a produrre gli effetti della contemplatio domini qualora sia effettuata successivamente alla conclusione del negozio giuridico tra il mandatario e il terzo.
Sul punto pare sufficiente rinviare a Luminoso, op. cit., p. 369 ss. ove si precisa che il criterio di imputazione soggettiva del profilo formale del negozio opera al momento della dichiarazione negoziale, e quindi al momento del compimento degli atti funzionali alla conclusione del negozio i cui effetti si vogliono deviare verso il rappresentato-mandante. Tale
regola è indisponibile alle parti e trova un limite solo nei casi previsti dalla legge (cfr., ad
es., art. 147 l. fall.). In giurisprudenza, cfr. Trib. Brindisi 21 gennaio 2003, in Fiducia e
trust, 2003, 3, p. 36 ss. Quanto alla necessità che la spendita del nome da parte del mandatario debba risultare al momento della conclusione del negozio – ancorché da un documento distinto ma giuridicamente collegato a quello attinente il negozio giuridico formalizzato dal mandatario con il terzo – mentre non possa essere desunta aliunde, cfr. Cass. 23
luglio 2009, n. 17346, in Riv. not., 2010, p. 790 con nota di Scuderi, Requisiti della contemplatio domini negotii con specifico riferimento al problema della spendita del nome « tacita ». Infine, la legittimazione passiva del fiduciante (mandante) va senz’altro esclusa per il
Tribunale pure a fronte di quelle argomentazioni della società attrice tendenti a valorizzare, a sostegno di una interpretazione analogica, la disposizione che attribuisce al mandante
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l’irrilevanza della più recente norma concorsuale, in un significativo numero di sentenze, sia di merito sia di legittimità: passaggi sviluppati attorno a un canovaccio costituito da formule, qui e altrove, offerte come esito
di orientamenti consolidati ( 3 ).
Tuttavia, è agevole rilevare, da un lato, come la pretesa stabilità degli as-
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il diritto di agire verso i terzi (art. 1705, comma 2o, secondo periodo, c.c.): di qui una legittimazione passiva, quella del fiduciante (mandante), da vedersi come completamento,
logico prima che giuridico, di quella legittimazione attiva già positivamente statuita. Il Tribunale respinge una siffatta ricostruzione a fronte del principio di recente affermato dalla
Suprema Corte (il riferimento esplicito da parte del Tribunale è a Cass., sez. un., 8 ottobre
2008, n. 24772, in Riv. not., 2009, II, p. 1023 ss. con nota di Mazzotta, Le Sezioni Unite
risolvono un duplice contrasto giurisprudenziale in materia di mandato ed azione generale di
arricchimento, e in Giust. civ. 2010, I, p. 441 ss.) secondo cui, nel mandato senza rappresentanza, la legittimazione attiva del mandante è relegata al rango di eccezione: in questo
senso depongono le disposizioni, da vedersi invece come regole, che a) statuiscono la
esclusiva responsabilità del mandatario per gli atti compiuti con i terzi e b) escludono che
questi ultimi abbiano alcun rapporto con il mandante. In questo senso, l’art. 1705, comma
2o, secondo periodo, c.c. va qualificata disposizione di carattere eccezionale e in quanto tale va posta ad oggetto « di stretta interpretazione »: quindi, esclusa da qualunque « integrazione di tipo analogico o estensivo ». In questo stesso senso si pronunciano anche:
Cass. 8 giugno 2007, n. 13375, in Dir. maritt., 2008, p. 1335 e in Mass. Giust. civ., 2007, p.
6; Cass. 25 agosto 2006, n. 18512, in Dir. maritt., 2008, p. 1302 con nota di Tassinari e in
Mass. Giust. civ., 2006, p. 9; Cass. 21 gennaio 2005, n. 1312 in Mass. Giust. civ., 2005, 1;
Cass. 5 novembre 1998, n. 11118, in Giur. it., 1999, p. 94 e in Contratti, 1999, p. 579, con
nota di Bondi.
( 3 ) A collegamento contrattuale e mandato senza rappresentanza alludono o rinviano
esplicitamente: Cass. 8 maggio 2009, n. 10590, in Società, 2010, p. 543 ss., con commento
di F. Di Maio; Cass. 2 maggio 2007, n. 10121, in Società, 2008, p. 855 ss. con commento di
Platania; Cass. 27 luglio 2004, n. 14094, in Riv. not., 2005, p. 1443, con nota di Criscuoli; Cass. 16 novembre 2001, n. 14375, in Giur. it., 2002, p. 780 ss.; Cass. 27 novembre
1999, n. 13261, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, II, p. 268 ss. con annotazione di Politi;
Cass. 21 maggio 1999, n. 4943, in Giust. civ., 1999, II, p. 2635 ss. con nota di Salafia, Note in tema di mandato conferito dai fiducianti a società fiduciaria; Cass. 14 ottobre 1995, n.
10768, in Società, 1996, p. 406 con nota di Montesano e in Dir. fall., 1996, II, p. 201 con
nota di Ragusa Maggiore, Il pactum fiduciae e l’intestazione fiduciaria di azioni; App.
Milano 3 luglio 1992, in Giur. it., 1993, I, 2, p. 228 ss.; Trib. Perugia 29 febbraio 2008, in
Giur. comm., 2010, II, p. 304 ss., con nota di Tripputi, Questioni in tema di scaglionamento del diritto di voto, divieto di concorrenza del socio e sanzioni statutarie per la violazione di
tale divieto; Trib. Milano 13 febbraio 2008, in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, p. 498 ss.,
con annotazione di De Luca; Trib. Como 2 marzo 2005, in Società, 2006, p. 741 ss., con
commento di Bisinelli; Trib. Brindisi 21 gennaio 2003, cit. Per le pronunce che, negando
la natura simulata dell’attribuzione fiduciaria, aderiscono alla teoria dei contratti collegati,
senza esprimersi con riguardo alla qualificazione del rapporto in termini di mandato, si vedano, oltre a quelle già menzionate all’inizio della presente nota e a quelle espressamente
richiamate dal Tribunale (ovvero Cass. 2 aprile 2009, n. 8024 in Foro it., 2010, I, c. 551 e
Cass. 6 maggio 2005, n. 9402, in Foro it., 2006, c. 2167): Cass. 28 febbraio 2011, n. 4927, in
Contratti, 2011, p. 545 ss. con commento di Reali; Cass. 10 maggio 2010, n. 11314, in
Contratti, 2010, p. 818 con commento di Faltoni, L’intestazione fiduciaria di quote di società di persone; Cass. 1 aprile 2002, n. 4886, in Giust. civ., 2004, I, p. 1591 e in Corr. giur.,
2003, p. 1041 con nota di Mariconda; Cass. 21 maggio 1999, n. 4943, cit. Per la giurisprudenza di merito si vedano App. Milano 11 febbraio 2011, in Giur. it., 2012, p. 349 ss.
(che però nega la qualificazione di mandato al rapporto fiduciario); Trib. Roma 30 luglio
2014, in www.ilcaso.it; Trib. Pavia 25 maggio 2011 (decreto), in www.ilcaso.it; Trib. Como
2 marzo 2005, in Società, 2006, p. 741 con commento di Bisinelli; Trib. Cagliari 10 dicembre 1999, in Riv. giur. sarda, 2001, p. 661.
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sunti poc’anzi indicati – ossia quello secondo cui il negozio fiduciario sarebbe l’esito di due contratti collegati e quello in forza del quale il rapporto fiduciante-fiduciario-terzo sarebbe da ricondurre al contratto di mandato – sia in vero alimentata da una loro meccanica riproposizione; dall’altro, come a questa stessa reiterazione la giurisprudenza ricorra in ragione
della funzionalità degli stessi assunti a comporre specifici e concreti interessi propri della natura del bene di volta in volta affidato. Infatti, al variare degli interessi in gioco, in conseguenza della diversità della natura del
bene affidato, cambia – e spesso cambia radicalmente – la soluzione ricostruttiva dell’istituto. Un approccio, come è evidente, che già nel metodo
tradisce l’assenza di un’indagine, e di un’analisi, di carattere sistematico e
che già per questo non pare idoneo a contribuire alla formazione di un
« orientamento » in senso proprio. Del resto a poco, o nulla, serve quel
formale esercizio esegetico tipicamente consistente nell’imbastire un qualche raccordo tra la soluzione decisa sul piano fattuale e l’istituto giuridico
più confacente suggerito dalla formula consacrata nell’orientamento giurisprudenziale cui si fa di volta in volta riferimento. Come anche sotto
questo profilo la vicenda in esame indica, ciò che a seconda dei casi viene
invocato – a sostegno di una certa conclusione – come « giurisprudenza
consolidata » va, a ben vedere, ridimensionato a raggruppamento di pronunce adottate (e reiterate) in corrispondenza di vicende attributive assimilabili sotto il profilo dell’oggetto che così possono condividere la formula all’uopo elaborata ( 4 ). Sono per ciò stesso fuorvianti, anche per
quanto meglio si dirà, i toni assertivi con cui il Tribunale ambrosiano e
con esso molte altre corti accreditano quella impiegata come soluzione
suffragata da « giurisprudenza consolidata ».
Passando poi al piano più attinente al merito, non può sottacersi come
questi stessi toni neppure si addicano al dibattito, tutt’ora in corso, sul
versante dottrinale in materia di attribuzione fiduciaria: anche se circo-
Attribuzione
fiduciaria
( 4 ) È un dato agevolmente verificabile quello secondo cui gli orientamenti giurisprudenziali in materia di fiducia possono utilmente essere censiti sulla base dei beni oggetto di
affidamento che, a seconda della natura, si prestano a una qualificazione piuttosto che a
un’altra del rapporto fiduciario: si consideri, a titolo di esempio, il caso dell’affidamento fiduciario di azioni, fattispecie rispetto alla quale la giurisprudenza si è dimostrata incline ad
accogliere la ricostruzione della fiducia secondo il modello c.d. « germanistico » propenso,
come noto, a valorizzare figura, ruolo, obblighi e prerogative non già del fiduciario ma del
fiduciante. In ogni caso, sembra pure difficile sostenere che all’interno di categorie più o
meno omogenee di beni, si possa discorrere di « orientamenti consolidati ». Sotto questo
profilo, infatti, basta rilevare che la soluzione accolta dal Tribunale di Milano nella pronuncia qui illustrata è stata esplicitamente respinta rispetto a fattispecie « assimilabili »:
cfr. Cass. 23 settembre 1997, n. 9355, in Foro it., 1999, I, c. 1323 – secondo cui è il fiduciante e non il fiduciario l’effettivo titolare dei beni oggetto dell’attribuzione fiduciaria –;
da Cass. sez. un. 10 dicembre 1984, n. 6478, in Foro it., 1985, I, c. 2325, con nota di Mazzia, Intestazione fiduciaria e successione mortis causa – secondo cui nei confronti del fisco
rileva l’effettiva proprietà del fiduciante –; da App. Milano 21 gennaio 1994, inedita, e 11
febbraio 2011, cit. – ove si esclude che la fattispecie fiduciaria possa essere più specificamente ricondotta al mandato. Mette bene in evidenza le contraddittorie pronunce della
giurisprudenza con specifico riguardo alla configurazione del rapporto fiduciante – fiduciario in termini di mandato senza rappresentanza, F. Di Maio, Il problema del « mandato
fiduciario », in Contr. e impr., I, 2014, p. 138 ss. Per la dottrina che esclude la sovrapponibilità del mandato alla vicenda fiduciaria si rinvia alle note di cui al § 4.
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Attribuzione
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scritto ai contributi offerti dalla dottrina specialistica, esso continua a contraddistinguersi per la persistenza di marcate contrapposizioni più che per
l’approdo a esiti interpretativi condivisi ( 5 ).
È stato autorevolmente osservato, del resto, che proprio quella tradizionale ricostruzione della fiducia, il cd. « modello romanistico », che il Tribunale adotta e offre come acquisita, è all’origine di un vizio di prospettiva che la trasforma in questione insolubile, al limite del paradosso ( 6 ). Del
pari, pure l’altrettanto nota tesi, che a quello appena ricordato contrappone il cd. « modello germanistico », elaborata sulla base di alcuni indici
normativi tratti dall’ordinamento tedesco ( 7 ), a sua volta seguita da una si-
( 5 ) Cfr. Gentili, La fiducia: tipi, problemi (e una proposta di soluzione), in Ginevra (a
cura di), La fiducia e i rapporti fiduciari. Tra diritto privato e regole del mercato finanziario
(Atti del convegno, Bergamo, 22-23 aprile 2012), Milano, 2013, p. 31 ss.
( 6 ) Gentili, op. cit., p. 35. Per una illustrazione dei profili ricostruttivi e dei relativi limiti, anche dogmatici, del c.d. « modello romanistico » si rinvia al successivo § 5.
( 7 ) Si tratta come noto del modello elaborato, anzitutto, sulla base della concezione di
« contratto fiduciario » che muove, diversamente dalla ricostruzione (funzionale all’elaborazione del c.d. « modello romanistico ») fondata sulla teoria di due contratti tra loro collegati (concezione c.d. « dualista »: cfr. infra § 3), dalla qualificazione della vicenda fiduciaria quale fattispecie unitaria (e per ciò nota anche come concezione c.d. « monista »). Al
« contratto fiduciario » si è infatti riconosciuta una causa fiduciae idonea a giustificare tanto l’effetto traslativo, in particolare, della legittimazione a disporre del bene affidato, da fiduciante a fiduciario quanto l’obbligo di quest’ultimo al ri-trasferimento (come pure degli
obblighi accessori tra i quali quello di amministrazione del bene affidato nell’interesse del
fiduciante). In proposito si vedano Grassetti, Del negozio fiduciario e della sua ammissibilità nel nostro ordinamento, in Riv. dir. comm., 1936, I, p. 345 ss.; Id., Il negozio fiduciario nel diritto privato, in Fiducia, trust, mandato ed agency, Milano, 1991, p. 1 ss.; Lipari, Il
negozio fiduciario, Milano, 1964, p. 444; Carnevali, Il trasferimento e l’intestazione fiduciaria di valori mobiliari, in Gli aspetti civilistici e fiscali dell’intestazione fiduciaria (atti del
Convegno di Venezia – 5 giugno 1976), Milano, 1976, p. 24 ss.; Id., Negozio fiduciario e negozio post mortem, in Giur. comm., 1975, II, p. 694 ss.; Id., voce Intestazione fiduciaria, in
Carnevali (a cura di), Diritto commerciale industriale, in Irti (a cura di), Dizionario di diritto privato, Milano, 1981, p. 458; Id., voce Negozio giuridico. III) Negozio fiduciario, in
Enc. giur. Treccani, Roma, XX, 1990, 4 ss. Tali studi hanno trovato in seguito decisa applicazione con riguardo all’attribuzione fiduciaria di partecipazioni sociali dando origine, sulla scorta di alcune disposizioni tratte dall’ordinamento tedesco, al modello per l’appunto
noto, nella prospettiva italiana, come « fiducia germanistica ». Un modello che si contrappone a quello « romanistico » poiché, diversamente da quest’ultimo, predica l’inidoneità
dell’attribuzione fiduciaria a modificare l’imputazione della titolarità, del bene attribuito
fiduciariamente, al fiduciante con la conseguenza di qualificare il fiduciario come mero legittimato al compimento di atti nell’interesse del fiduciante. La ricaduta pratica più sperimentata e nota del modello « germanistico » riguarda l’attribuzione fiduciaria di partecipazioni sociali rispetto alle quali non si esita a rivendicare la piena proprietà del, e quindi
la permanenza della qualità di socio nel, fiduciante. D’obbligo il rinvio a Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano, 1968, passim; Id., Sull’intestazione
fiduciaria di quote di società a responsabilità limitata, in Giur. comm., 1979, I, p. 187 ss.
Quanto agli indici normativi tratti dall’ordinamento tedesco, il riferimento è al § 185 BGB,
che legittimerebbe, in via generale, una separazione tra titolarità e legittimazione e ai §§
129, Abs. 3, e 135, Abs. 7, AktG che, prevedendo la separata indicazione degli intermediari
finanziari nell’elenco dei partecipanti all’assemblea per l’esercizio del diritto di voto in nome proprio di azioni di cui non hanno la titolarità, sembrano autorizzare l’attribuzione, anche a chi pure figura come intestatario di azioni, di una più limitata legittimazione (appunto separata dalla effettiva titolarità delle stesse). Più recentemente, condividono tale impostazione Zoppini, La nuova disciplina dei finanziamenti dei soci nella società a responsabiliNLCC 6-2015
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gnificativa parte della giurisprudenza ( 8 ), si è esposta a non pochi rilievi
critici, anzitutto ma non solo, come esito di un trapianto funzionale a consentire la produzione, nell’ordinamento italiano, di quegli stessi generali
effetti che si presuppone si realizzino nell’ordinamento autoctono ( 9 ). E
comunque, più in generale, il dibattito sull’affidamento fiduciario, per
ampiezza dei profili discussi e varietà di contributi offerti, trascende ormai la contrapposizione fra le tesi ora accennate. Tesi, anche questo è noto, via via rivelatesi inadeguate a ricondurre a una convincente prospettiva
sistematica un fenomeno caratterizzato dalla straordinaria duttilità ( 10 ) e
da una non comune, conseguente, interdisciplinarietà ( 11 ); e quindi inade-
Attribuzione
fiduciaria
tà limitata e i prestiti provenienti da « terzi » (con particolare riguardo alle società fiduciarie),
in Riv. dir. priv., 2004, p. 417; Zoppini e Tombari, Intestazione fiduciaria e nuova disciplina dei gruppi di società, in Contr. e impr., 2004, p. 1104; Zoppini, Intestazione fiduciaria e
responsabilità per atti di « eterogestione » (art. 2476, comma 7, c.c.), in Banca, borsa, tit.
cred., 2006, I, p. 573.
( 8 ) Cfr. Cass. 2 maggio 2007, n. 10121, cit.; Cass. 21 maggio 1999, n. 4943, cit.; Cass. 23
settembre 1997, n. 9355, cit.; Cass. 14 ottobre 1997, n. 10031, in Banca, borsa, tit. cred.,
1999, II, p. 141, con nota di Salamone, La Cassazione fa un passo avanti rispetto alla giurisprudenza consolidata in materia di rivendicazione fallimentare (art. 103 l. fall.) di quantità
di fungibili non individuati; Cass., sez. un., 10 dicembre 1984, n. 6478, cit.; Trib. Milano 25
marzo 2010, in Juris data; e, sebbene il principio sia stato affermato come obiter dictum,
Trib. Perugia 29 febbraio 2008, cit. La giurisprudenza ha accolto l’elaborazione della fiducia in chiave « germanistica » pure con riguardo alle quote di s.r.l.: cfr., in questo senso,
Trib. Milano 19 novembre 2001, in Giur. it., 2002, p. 1438 ss. con nota di Fiorio, Osservazioni in tema di intestazione fiduciaria di quote sociali, voto divergente e compensi eccessivi agli amministratori; Trib. Trani 29 settembre 2003, in Contratti, 2004, p. 586.
( 9 ) Cfr. Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., Torino, 2012, p. 62 ss. e p. 217;
Ginevra e Portale, Intestazione a società fiduciaria di azioni non interamente liberate e
responsabilità per i conferimenti residui, in Studi in ricordo di Pier Giusto Jaeger, Milano,
2011, p. 415 ss. e in Riv. società, 2011, p. 813 ss. (e in particolare p. 834 ss.). Gli Autori
precisano infatti che nell’ordinamento tedesco è anzitutto disciplinata quella che noi definiamo « fiducia romanistica », detta « vera fiducia » (echte Treuhand) per distinguerla da
quella diversa e minore figura di fiducia in cui, tramite una autorizzazione (Ermächtigung:
§ 185 BGB), il fiduciante (Treugeber) attribuisce al fiduciario (Treuhänder) non un diritto
« pieno » (Vollrecht) quanto piuttosto una mera legittimazione a esercitare in nome proprio un diritto del fiduciante (Legitimationstreuhand o Ermächtigungstreuhand: cfr. §§
129, Abs. 3, e 135, Abs. 7, AktG). Ma questa legittimazione ad agire in nome proprio: a)
opera alla stessa stregua di una più contenuta rappresentanza, non costituendo, per diritto
tedesco, il presupposto per l’imputazione al fiduciario di obblighi imposti dalla partecipazione all’organizzazione societaria; b) è accessoria a un più ampio negozio giuridico di gestione di affari perfezionato con il fiduciante (Geschäftsbesorgungsvertrag); c) è per ciò risultato di una stabile autorizzazione a disporre che comprende la più limitata, e appunto
accessoria, autorizzazione (Ermächtigung); infine, d) si ritiene sia già ricompresa dalla legittimazione a disporre da parte dell’intermediario-fiduciario (che diversamente svolgerebbe
la funzione di un mero Platzhalter: ferma-posto). E si vedano, poi, i più generali rilievi formulati da Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., cit., p. 21 ss., ove l’A. precisa, fra
l’altro, come la vocazione sistematica del modello « germanistico » risulti quantomeno revocabile in dubbio posto che lo stesso non pare agevolmente configurabile in ipotesi diverse dall’intestazione azionaria, e quindi fuori dall’ottica cartolare, e presuppone comunque
che la separazione tra titolarità e legittimazione, profilo caratterizzante il modello in discorso, sia negozialmente adottata.
( 10 ) Mi. Bianca, La fiducia attributiva, Torino, 2002, p. 113.
( 11 ) Come dimostra la rilevante varietà di aree interessate da puntuali interventi normativi, ulteriori a quelli che si occupano specificamente dell’attribuzione (fiduciaria) a società
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fiduciaria
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guate, in definitiva, a offrire fondati, organici parametri sulla base dei quali allocare, tra fiduciante e fiduciario, prerogative e obblighi originati dall’attribuzione fiduciaria ( 12 ). Una inadeguatezza, val la pena aggiungere,
che si palesa ancor più chiaramente ove, come nel caso che occupa, l’applicazione dell’una o dell’altra tesi mal si coordina pure con le regole disciplinanti lo svolgimento dell’incarico, in via esclusiva e professionale, da
parte del fiduciario (la c.d. « fiducia legale »).
Allo stato, l’unico vero dato acquisito in materia di attribuzione fiduciaria è, piuttosto, la constatazione circa la parzialità e l’insufficienza degli
approdi ermeneutici sinora raggiunti ( 13 ). Una constatazione, questa, che
ha convinto parte della dottrina a intraprendere percorsi ricostruttivi non
convenzionali che si propongono di ripensare radicalmente e sistematicamente la complessiva vicenda fiduciaria: emancipandola definitivamente
dalle tradizionali e inappaganti prospettive contrattuali (o anche solo negoziali) per indagarla nella più ampia e feconda dimensione di rapporto fiduciario ( 14 ).
I passaggi ricordati all’inizio del presente paragrafo devono pertanto esfiduciarie. Il riferimento è alle molteplici previsioni normative, anche di carattere secondario, che affievoliscono l’interposizione (tra fiduciante e terzi) del fiduciario: a titolo esemplificativo, si pensi, tra le prime, a quanto dispongono gli artt. 2357, comma 5o, 2358, comma 7o, 2359, comma 2o, 2359 bis, comma 6o, c.c., 115, comma 3o, t.u.f., artt. 21 e 22, t.u.b.
e, si deve aggiungere, art. 70, comma 1o, l. fall.; tra le seconde, a quanto stabilito dal Regolamento Emittenti adottato con delibera n. 11971 del 14 maggio 1999, aggiornato con modifiche apportate dalla delibera n. 18671 dell’8 ottobre 2013, agli artt. 118, comma 3o e
120, comma 2o. È pertanto agevole comprendere come, con particolare riguardo all’organizzazione sociale, siano ancora controversi i criteri di imputazione (cioè se a fiduciante
e/o a fiduciario) di obblighi (i.e.: situazioni soggettive passive) e prerogative (i.e.: situazioni
potestative) derivanti dalla partecipazione sociale. L’espansione del perimetro di disciplina
del fenomeno fiduciario è di recente riscontrabile pure negli ordinamenti stranieri: cfr. il
Book X, 1:101 del Draft Common Frame of Reference, che ha fatto riferimento alla vicenda
fiduciaria nella prospettiva del trust di diritto inglese; la Loi 19 février 2007, no 2007-211
(in J.O.R.F., 21 février 2007) che ha introdotto nel Code civil francese (artt. 2011-2030) la
fiducie; e infine, nell’ordinamento austriaco, il § 7, Abs 1, EKEG, disciplinante la fattispecie del sostegno finanziario da parte del socio a favore della società partecipata, secondo
cui, in caso di partecipazione fiduciariamente intestata, il fiduciante, unitamente al fiduciario, è considerato socio, salvo che il rapporto fiduciario sia comunicato, nel contratto di finanziamento, alla società (nel qual caso, socio sarà il solo fiduciante).
( 12 ) Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., cit., p. 7 ss. ove diffuse considerazioni circa la solidità solo apparente offerta sia dal modello « romanistico » sia dal modello
« germanistico », come bene dimostra, peraltro, l’oscillante giurisprudenza in materia di
attribuzione fiduciaria di partecipazioni sociali in particolare quando chiamata a risolvere
la nodale questione dell’imputazione di obblighi e diritti, derivanti dalla partecipazione fiduciariamente intestata, comunemente risolta a favore del fiduciante (secondo il modello
« germanistico ») o del fiduciario (secondo il modello « romanistico »).
( 13 ) Una constatazione riassunta nella lapidaria affermazione di Falzea, Rappresentanza
e fiducia, in Alcaro e Tommasini (a cura di), Mandato, fiducia e trust. Esperienze a confronto, Milano, 2003, p. 157 ss. secondo cui « si parla di negozio fiduciario, ma poi che cosa sia questo tipo di negozio, con precisione, ancora non lo sappiamo ».
( 14 ) Il riferimento è a Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., cit., passim; Id., La
fiducia: il fenomeno e le tipologie. Fiducia « romanistica », « germanistica » e « anglosassone », in Ginevra (a cura di), La fiducia e i rapporti fiduciari. Tra diritto privato e regole del
mercato finanziario (Atti del convegno, Bergamo, 22-23 aprile 2012), cit., p. 107 ss.; Ginevra e Portale, op. cit., p. 824.
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sere vagliati sullo sfondo del più complesso contesto appena tratteggiato
cui va senz’altro ricondotto, per quanto meglio si dirà nel prosieguo, anche l’art. 70, comma 1o, l. fall.
3. Fiducia « romanistica », collegamento contrattuale e mandato senza rappresentanza.
La disamina dei citati passaggi motivazionali presuppone la valorizzazione di una relazione logico-giuridica, meglio detto di pregiudizialità-dipendenza, intercorrente, come per lo più avviene nelle pronunce che li
adottano, non già tra gli assunti riguardanti la qualificazione del rapporto
fiduciante-società fiduciaria-terzo finanziatore in termini di mandato senza rappresentanza, da un lato, e la prospettazione, tra le relative transazioni, di un collegamento contrattuale, dall’altro; quanto piuttosto, e più precisamente, tra la figura contrattuale tipica richiamata, il mandato, e la più
generale, a quest’ultimo pregiudiziale, ricostruzione della vicenda fiduciaria, nota come « fiducia romanistica », nel provvedimento del Tribunale
ambrosiano implicitamente invocata per respingere l’eccezione di simulazione ( 15 ).
È questo modello ricostruttivo a precedere, e quindi a fondare, la esplicitata scomposizione della fattispecie nei due contratti collegati, cui poi
segue il rinvio al mandato.
Della « fiducia romanistica » – che la dottrina tradizionale, come noto,
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fiduciaria
( 15 ) Cfr. le pronunce citate all’inizio della nt. 3. Come noto, la « fiducia romanistica »,
quale vicenda caratterizzata da un trasferimento di un determinato bene da parte del fiduciante a favore del fiduciario a sua volta obbligato (tra l’altro) al ri-trasferimento dello stesso al fiduciante o a un terzo da questo indicato, è stata anzitutto elaborata dalla pandettistica tedesca a seguito dello studio delle fonti romane (i.e.: Gaio, Istituzioni, II, 59-60, III,
201; Boezio, Ad Ciceronis topica, 4, 10,41). In questi stessi termini essa è stata successivamente ripresa dalla dottrina italiana, che, nel recepirla, la ha giustificata, inizialmente, sulla
base della nozione di negozio fiduciario (concezione c.d. « monista ») mentre, successivamente, si è orientata nel senso di scomporre la complessiva fattispecie in due contratti tra
essi collegati (concezione c.d. « dualista »). Nel primo senso, cfr. la dottrina citata alla nota
7. Nel secondo senso, si vedano almeno Galgano, Il negozio giuridico, Milano, 2002, p.
490 ss., Roppo, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, p. 681 ss.; Mi. Bianca, op.
cit., p. 74; C.M. Bianca, Diritto civile. Vol. 3: Il contratto, Milano, 2000, p. 713; Putti, voce Negozio fiduciario, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. civ., Agg. II, Torino, 2003, p. 914, e,
in particolare, p. 921. Vale d’altra parte la pena precisare che la versione del modello « romanistico », come caratterizzato dalla sequenza di un trasferimento e di un successivo ritrasferimento originato da un patto esterno aggiuntivo (il c.d. pactum fiduciae), proposta
dalla dogmatica tedesca e poi ripresa, come detto, dalla dottrina italiana, è stata oggetto di
numerose critiche con riguardo al procedimento esegetico e interpretativo delle fonti romane indagate. Si è infatti apertamente sostenuto che la qualificazione del fenomeno nei
termini appena riferiti altro non sarebbe che l’esito di un grave « malinteso », di una filologica inesattezza o, più banalmente, di un evidente errore. Offrono ampia testimonianza
in questo senso Diurni, Fiducia. Tecniche e principi negoziali nell’alto Medioevo, I, Torino,
1992; Id., Fiducia e negozio fiduciario, in Digesto IV ed., Disc. priv., Sez. civ., VIII, Torino,
1992, p. 288 ss.; Id., Variazioni sul tema fides e fiducia nella storia giuridica, in Ginevra (a
cura di), op. cit., p. 1 ss.; Grosso, Fiducia (diritto romano), in Enc. dir., XVII, Milano,
1978, p. 387; Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., cit., p. 1 ss. e p. 44 e ss. con
ampi riferimenti bibliografici; Gentili, La fiducia: tipi, problemi, cit., p. 34.
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vuole incardinata sul trasferimento della titolarità di un bene a favore del
fiduciario vincolato al suo successivo ri-trasferimento al fiduciante (o a un
terzo da questi indicato) –, il collegamento negoziale rappresenta, del resto, il più fortunato approdo esegetico: ove, per l’appunto, al primo contratto, funzionale a realizzare, erga omnes, l’effetto traslativo a favore del
fiduciario si vuole collegato il secondo contratto che, con efficacia solo inter partes, limita, attraverso una serie di vincoli (essenzialmente: obbligo di
amministrare secondo le istruzioni del fiduciante; obbligo di ritrasferire al
fiduciante, o a un terzo da questi indicato, il bene trasferito), il precedente
effetto (il cd. pactum fiduciae) ( 16 ).
È d’altra parte nota la duplice natura dell’elemento caratterizzante tale
ricostruzione, ossia l’atto di trasferimento concluso da fiduciante a fiduciario: se si guarda alla fattispecie complessiva presupposta dal modello
adottato, esso ne è certo l’elemento costitutivo ma al tempo stesso ne è pure l’elemento impeditivo. Il primo contratto, infatti, è condizione necessaria e sufficiente per qualificare il fiduciario quale esclusivo titolare effettivo del bene trasferito e conseguentemente a legittimarlo nel disporne, in
ogni caso, validamente: cioè, in ipotesi, anche in violazione dell’obbligo
assunto verso il fiduciante. Infatti, il diritto dei terzi acquirenti, anche se
in mala fede, prevale sul diritto del fiduciante al ri-trasferimento (o al diverso trasferimento come delineato nel pactum fiduciae) perché i primi
hanno pur sempre acquistato a domino e ad essi non è opponibile il diverso contenuto del pactum fiduciae. Di qui, appunto, il paradosso: proprio il
perfezionamento del primo trasferimento espone il fiduciante alla frustrazione della aspettativa al ri-trasferimento poiché contro l’abuso del fiduciario infedele, da qualificarsi come mero inadempimento del patto, valgono i soli rimedi risarcitori ( 17 ).
( 16 ) La tesi elaborata dalla dottrina (cfr. nt. 15) ha riscosso consenso in giurisprudenza:
cfr., oltre alle pronunce riportate alla nt. 3, Cass. 19 luglio 2000, n. 9489, in Mass. Giust.
civ., 2000, p. 2044; Cass. 29 maggio 1993, n. 6024, in Corr. giur., 1993, p. 855 ss.; Cass. 18
ottobre 1991, n. 11025, in Giur. it., 1992, I, 1, p. 1786 ss. Tra le pronunce di merito si vedano, oltre a quelle indicate alla nota 3, i recenti provvedimenti resi da Trib. Cuneo 27 settembre 2011, in Trusts, 2012, p. 165; Trib. Terni 8 marzo 2006, in Rass. giur. umbra, 2007,
p. 705, con nota di Fani; Trib. Milano 29 giugno 2005, in Giur. merito, 2006, p. 612, con
nota di Santarsiere.
( 17 ) Il ricorso al rimedio dell’esecuzione forzata dell’obbligo di trasferimento in forza di
quanto disposto dall’art. 2932 c.c. soffre di almeno due limiti: la forma del patto aggiuntivo, fonte dell’obbligo di ritrasferire, di rado presenta quei requisiti di forma che fossero
presupposti dal negozio avente a oggetto il bene da ritrasferire; in secondo luogo, il rimedio in discorso, come del resto la revindica, si arresta in presenza di disposizioni abusive
compiute verso terzi. Nemmeno è sicura la percorribilità della soluzione secondo cui la
successione tra atto traslativo e ri-trasferimento rifletterebbe a ben vedere quella tra preliminare e atto definitivo: anche qui, per l’assenza nel secondo atto dei necessari requisiti
formali (ove richiesti). Rilevano la mancanza del requisito formale da parte del c.d. pactum
fiduciae Cass. 14 marzo 1995, 10768, cit.; Cass. 29 maggio 1993, n. 6024 cit.; Cass. 21 novembre 1988, n. 6263, Foro it., I, 1991, c. 2495. Si veda anche Cass. 20 febbraio 2013, n.
4184, in Società, 2014, p. 7 ss. con commento di Perrino, ove la condanna del fiduciario a
un facere, nella specie consistente nell’obbligo di ritrasferire al fiduciante la titolarità anche
formale della partecipazione attribuita fiduciariamente, era diversamente giustificata, in
aderenza a quanto stabilito dalla Corte d’Appello, dall’accertamento della nullità dell’atto
traslativo per violazione dell’art. 2744 c.c. Cfr., Gentili, op. cit., p. 59 e, in particolare, p.
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Ben si comprende allora come in questa prospettiva l’abuso del fiduciario, o il che è lo stesso, la ricerca di rimedi impiegabili dal fiduciante sul
più sicuro piano reale, costituisca il punto nevralgico del fenomeno ( 18 ).
Profilo critico, quest’ultimo, che una parte della dottrina, in ciò seguita
anche da una parte della giurisprudenza, ha variamente affrontato e, infine, tentato di risolvere configurando il contratto, collegato all’atto traslativo, quale mandato ( 19 ). Tanto è sembrato idoneo: (i) ad argomentare il
diritto del fiduciante-mandante di sottrarsi al concorso con i creditori (del
fiduciario-mandatario) reclamando la separazione del bene trasferito dal
patrimonio del fiduciario insolvente ( 20 ); (ii) a giustificare il diritto del fiduciante-mandante a esercitare le prerogative derivanti dalla (mantenuta)
titolarità del bene affidato; infine (iii) ancora a fondare il diritto del fiduciante-mandante ad agire in rivendicazione contro il fiduciario-mandatario, anche in ipotesi di acquisto del bene oggetto di attribuzione fiduciaria, da un terzo ( 21 ).
Una volta scomposta la formula nella sequenza concettuale « fiducia romanistica » (collegamento contrattuale)-mandato senza rappresentanza, è
ora possibile vagliarne la relativa fondatezza.
Attribuzione
fiduciaria
4. Segue: il rapporto fiduciante-fiduciario-terzo quale mandato senza rappresentanza: critica.
Conviene anzitutto considerare la sequenza appena indicata nella parte
in cui rinvia al contratto di mandato. Ebbene, pare agevole anzitutto
68 ove si precisa che anche la sottoposizione del trasferimento alla condizione risolutiva
dell’abuso offre tutela al fiduciante nella misura in cui, però, la risoluzione sia opponibile
al terzo acquirente.
( 18 ) Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., cit., p. 7 ss.; Roppo, op. cit., p. 685.
( 19 ) Esplicito in questo senso, Galgano, op. cit., p. 490 ss. secondo il quale « la causa
del negozio avente a oggetto il primo trasferimento tra fiduciante e fiduciario sarebbe solo
in astratto riconducibile a quella di un negozio traslativo giacché in concreto varrebbe la diversa causa del mandato: alla eventuale pretesa del pagamento del prezzo da parte del fiduciante, il fiduciario opporrebbe il pactum fiduciae su cui fondare ruolo e prerogative di
mandatario ». Nello stesso senso, Falzea, Introduzione e considerazioni conclusive, in Destinazione di beni allo scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, a cura del Consiglio
Nazionale del Notariato, Milano, 2003, p. 35. Per quanto concerne la giurisprudenza si
rinvia alla lettura della nt. 3.
( 20 ) In questo senso, Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, cit.,
pp. 324 e 189.
( 21 ) Per entrambi i profili, cfr. Cass. 21 maggio 1999, n. 4943, cit. Nel caso di specie, la
Cassazione riconosce ai fiducianti la legittimazione a promuovere l’azione di responsabilità
nei confronti degli amministratori di una società fiduciaria assoggettata, anteriormente all’entrata in vigore della l. 2 gennaio 1991, n. 1, in G.U. n. 3 del 4 gennaio 1991, a liquidazione coatta amministrativa (negandola, nel contempo, ai commissari liquidatori), sulla base del principio per cui gli stessi fiducianti dovevano ritenersi proprietari degli strumenti
finanziari affidati in gestione alla società: principio a sua volta desunto, anteriormente l’entrata in vigore dell’art. 22 t.u.f., dalla qualificazione del rapporto intercorrente tra fiducianti e società fiduciaria in termini di mandato e dalla separazione dei patrimoni (fiducianti – mandanti, da un lato, e società fiduciaria – mandatario, dall’altro) argomentabile
sulla base della disciplina di tale tipo contrattuale (art. 1706 c.c.).
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obiettare che, in considerazione del fine perseguito, consistente nel decretare la carenza di legittimazione del fiduciante, quella in parola, a prescindere dalla fondatezza, è attività esegetica inconferente poiché nulla il mandato (senza rappresentanza) aggiunge che non sia già argomentabile sulla
base del passaggio logico-giuridico pregiudiziale in cui si aderisce alla ricostruzione (tradizionale) del « modello romanistico ». Per il fatto stesso
di predicare la pienezza del trasferimento da fiduciante a fiduciario, tale
modello esclude, quantomeno rispetto al bene in thesi trasferito, la configurabilità di ogni rapporto tra i terzi, entrati in contatto con il fiduciario, e
il fiduciante stesso. Sotto altro profilo poi, è contraddittorio sostenere che
la qualificazione in questione è pur sempre un dato da considerarsi acquisito per « principi di carattere generale ». Il riferimento al mandato, lo si è
appena constatato, è stato « promosso » da una parte della giurisprudenza
allo specifico fine di attribuire al fiduciante, nei limiti fissati dall’ordinamento, la titolarità di pretese restitutorie coercibili verso il fiduciario opponibili anche ai creditori di questo (art. 1706 c.c.). Ma un rinvio a isolati
profili di disciplina, in questi stessi termini peraltro di recente respinto
dalla Suprema Corte ( 22 ), e a maggior ragione, si deve aggiungere, se in
contraddizione con il modello caratterizzato da trasferimento e obbligo di
ri-trasferimento quando oggetto di affidamento siano beni mobili proprio
in forza di quanto previsto dall’art. 1706 c.c., non pare minimamente idoneo ad autorizzare assimilazioni sotto il profilo della fattispecie e quindi
ricostruzioni di carattere tipologico. Più in generale poi, anche dove la
qualificazione in discorso è stata affrontata ex professo, essa non ha mancato di generare numerose osservazioni critiche in specie là dove presuppone ciò che, anzitutto in fatto, non è, ovvero la sovrapponibilità sino alla
coincidenza del ruolo di fiduciario a quello di mandatario: è stato infatti
agevole sottolineare che la fattispecie dell’attribuzione fiduciaria riconosce al fiduciario prerogative del tutto sconosciute al mandatario ( 23 ).
( 22 ) Cfr. Cass. 10 maggio 2010, n. 11314, cit. Nello stesso senso, si veda pure App. Milano 11 febbraio 2011, cit.
( 23 ) In effetti, al di là del più generale e discusso problema concernente l’insufficienza di
una causa mandati a reggere e così spiegare il fenomeno attributivo qui ipotizzato a favore
del mandatario-fiduciario (sul punto, pare sufficiente rinviare a Pugliatti, Fiducia e rappresentanza indiretta, in Diritto civile. Metodo – Teoria – Pratica. Saggi, Milano, 1951, p.
201 ss.; Cariota Ferrara, I negozi fiduciari, Padova, 1933, p. 73 ss.; più recentemente, V.
Mariconda, Contrastanti decisioni sul trust interno: nuovi interventi a favore ma sono nettamente prevalenti gli argomenti contro l’ammissibilità, in Corr. giur., 2004, p. 76 ss.) resta
la difficoltà di ridurre, entro i limiti imposti alle prerogative gestorie del mandatario, il potere discrezionale caratterizzante il ruolo e la posizione del fiduciario. L’affidamento a favore del fiduciario, infatti, presuppone la disponibilità da parte di quest’ultimo del potere
di realizzare l’interesse del fiduciante in modo esclusivo: di qui un maggiore controllo del
fiduciario sulla cosa o sul bene affidato, un corrispondente dovere di conservazione e una
tendenziale stabilità dell’affidamento destinato a cessare (non già per una, neppure divisata, revoca ma) solo a seguito dell’espletamento da parte del fiduciario della funzione attribuita. In questo senso, Ginevra e Portale, Intestazione a società fiduciaria di azioni non
interamente liberate, cit., p. 824 ss. che aderiscono alla soluzione secondo cui il rapporto
interno fra fiduciante e fiduciario è da accostarsi al c.d. deposito in amministrazione di matrice bancaria. Si veda anche F. Di Maio, Il problema del « mandato fiduciario », cit., p.
138 ss.
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5. Segue: la fattispecie fiduciaria quale esito, in conformità al tradizionale
« modello romanistico », di due contratti collegati: critica.
Guardando poi al « modello romanistico » della fiducia, e alla sua tradizionale scomposizione secondo la teoria dei contratti collegati, è da rimarcare come la constatazione circa l’evoluzione della frustrazione dell’interesse del fiduciante per effetto dell’abuso del fiduciario infedele in deficienza strutturale del modello ricostruttivo abbia reso inevitabile concludere che il vizio risiede allora nell’impostazione: e cioè nell’assunto che
l’atto concluso tra fiduciante e fiduciario integri un vero e proprio atto di
trasferimento (a titolo oneroso) ( 24 ). È stato infatti autorevolmente obiettato che tale atto è invero privo degli elementi costitutivi necessari alla
produzione degli effetti pretesi: anzitutto dell’oggetto, non essendo ipotizzabile la corresponsione di un prezzo da parte del fiduciario a favore del
fiduciante ( 25 ); in secondo luogo, della causa. Sotto quest’ultimo profilo, si
è precisato, esclusa l’ammissibilità nel nostro ordinamento di un trasferimento pieno di un diritto limitato, si dovrebbe coerentemente ammettere
che se l’unico effetto in concreto perseguito è il munire il fiduciario all’esterno, e solo all’esterno, del potere di agire, allora il trasferimento è apparente poiché non è solo causalmente astratto ma, più radicalmente, del
tutto privo di causa ( 26 ). Un’obiezione, quest’ultima, che resiste pure dinanzi alla più articolata variante costruttiva del « modello romanistico »
nota come « monista » poiché incardinata, in contrapposizione alla soluzione « dualista » dei contratti collegati, sulla figura di un unico contratto
o negozio detto fiduciario ( 27 ). Anche in tal caso, si precisa, l’atipica causa
fiduciae (art. 1322 c.c.), comunicando al trasferimento la natura transitoria
dell’acquisto, non smette di presupporre, ancora, ciò che è incompatibile
con l’ordinamento attuale ossia un trasferimento nell’interesse dell’alienante, o, il che è lo stesso, una titolarità limitata nell’interesse altrui di diritti propri: in altri termini, quindi, una proprietà fiduciaria ( 28 ).
Tali rilievi inducono a dubitare seriamente della configurabilità, tra fiduciante e fiduciario, di un valido atto di trasferimento (e con esso della
correttezza del « modello romanistico » così come tradizionalmente inteso) poiché, diversamente da come preteso, esso non sembra vero e voluto
quanto piuttosto apparente quindi simulato e allora nullo ( 29 ).
Attribuzione
fiduciaria
( 24 ) Gentili, op. cit., p. 35.
( 25 ) Gentili, op. cit., p. 61 ss.
( 26 ) Gentili, op. cit., p. 66 ss. e, in particolare, p. 80.
( 27 ) Il riferimento è alla impostazione secondo la quale l’affidamento fiduciario rappresenta l’esito di un unitario contratto munito di una sua propria causa, ovvero la causa fiduciae (concezione c.d. « monista »): cfr. nt. 7.
( 28 ) Gentili, op. cit., p. 80 ss.
( 29 ) Gentili, op. cit., p. 85 ss. dove si precisa che si tratta di simulazione relativa poiché
le parti mentre vogliono un trasferimento limitato simulano un trasferimento pieno ovvero, vogliono una attribuzione di diritto limitata ma simulano una attribuzione di diritto
piena: « ma non è meno simulazione solo perché invece di fingere un trasferimento tipico
ovvero un’attribuzione di diritto dominicale tipico a copertura del nulla, fingono un trasferimento tipico o un’attribuzione di diritto tipico e ne vogliono uno atipico ». L’A. chiarisce, d’altra parte, la meritevolezza della soluzione incardinata sulla simulazione piuttosto
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6.1. L’investitura come presupposto per l’allocazione, tra fiduciante e fiduciario, di obblighi e prerogative originati dall’incarico fiduciario.
Attribuzione
fiduciaria
Più ancora delle osservazioni critiche appena esposte, convince della
opportunità di abbandonare la tradizionale ricostruzione della fiducia
fondata sul « modello romanistico », così come ogni altra ricostruzione
che presupponga un rapporto di natura contrattuale tra fiduciante e fiduciario, una più recente tesi che si studia di dimostrare, in coerenza con le
approfondite analisi storiche dell’istituto nonché dei dati tratti dall’analisi
giuridica comparata, come l’attribuzione fiduciaria sia caratterizzata, più
semplicemente, da un atto di disposizione da parte del fiduciante privo di
una causa contrattualmente intesa e senz’altro inidoneo a provocare un
qualche arricchimento a favore del fiduciario ( 30 ). Un atto di disposizione,
pertanto, del tutto incapace di incidere su una qualsivoglia situazione giuridica soggettiva appartenente alla sfera del fiduciante. In questa prospettiva, la fattispecie in discorso si rivela come costituita, in aderenza al programma fiduciario effettivamente voluto dalle parti ( 31 ), da un atto idoneo
a immettere il fiduciario « in una mera posizione formale, che gli consenta
in via effettiva, pure in assenza di una situazione di titolarità, l’esercizio di
un potere, allo stesso tempo precludendo al fiduciante la medesima possibilità » ( 32 ). Un atto formale, come è stato precisato, avente i connotati di
una investitura, di per sé necessaria e sufficiente a integrare la fattispecie
fiduciaria: già con essa, infatti, il fiduciario è per l’appunto investito della
disponibilità dei presupposti legali, cioè la c.d. legittimazione formale, necessari all’esercizio dei diritti relativi alla situazione giuridica volta a volta
considerata ( 33 ).
Sulla base di queste premesse, si comprende bene come configurare l’atto di disposizione del fiduciante quale atto traslativo tradirebbe non solo,
come detto, la natura dell’atto effettivamente voluto e concretamente realizzato dalle parti, ma pure l’effetto cui le stesse parti aspirano. Un effetto
che lungi dall’incidere sulla situazione giuridica soggettiva (i.e. la proprietà) del fiduciante rispetto al bene affidato, più limitatamente coincide con
la concessione a favore del fiduciario di quelle facoltà per il cui esercizio la
legge richiede, rispetto al bene o al diritto considerato, la mera titolarità
che sulla astrattezza o sulla attribuzione di un diritto non ammesso dall’ordinamento: la
nullità consegue in entrambi i casi, ma solo nel primo non travolge gli atti abusivi a favore
dei terzi di buona fede.
( 30 ) Ginevra, La partecipazione fiduciaria in s.p.a., cit., passim.
( 31 ) Ginevra, op. ult. cit., p. 92 ss. ove puntuali riflessioni circa il fatto che l’assenza di
una qualsivoglia attribuzione patrimoniale piena da parte del fiduciante a favore del fiduciario si giustifica guardando proprio, tra l’altro, all’istituto di diritto romano da cui si è ritenuto la fiducia abbia tratto origine dal punto di vista storico. E nello stesso senso convincono valutazioni e verifiche sull’effettività del rapporto: « [m]ai l’intestatario nemmeno “si
sogna” di realizzare un affare consistente nell’acquisto del bene in senso sostanziale; né il
fiduciante ha alcuna intenzione di cedere effettivamente a chicchessia i propri beni, il quale, anzi, nella maggior parte delle occasioni, intesta ad altri proprio allo scopo di “tenerseli
ben stretti” » (Id., ivi, p. 93).
( 32 ) Ibidem.
( 33 ) Ginevra, op. ult. cit., p. 94.
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formale (o, se si vuole, legittimazione formale) ( 34 ). Una titolarità formale
che si distingue nettamente dalla titolarità della situazione giuridica soggettiva (i) per l’esaurirsi completamente nella dimensione possessoria e così potersi realizzare con l’acquisto, non già di un titolo, ma di un potere di
fatto (ii) la cui precarietà, nella ricostruzione qui esposta, può ben essere
qualificata quale elemento strutturale della fattispecie ( 35 ).
Un atto di disposizione così descritto pare oltretutto apprezzabile per la
capacità di far emergere e preservare la specificità dell’attribuzione fiduciaria: ossia la fides (« ricambiata ») del fiduciante nel fiduciario testimoniata dalla volontà del primo di affidare ciò che gli appartiene alle mani
del secondo in quanto soggetto reputato fidato; e dalla disponibilità di
quest’ultimo che accettando l’investitura si assume responsabilmente la
relativa posizione.
All’esito di siffatta analisi, tanto il modello della « fiducia romanistica »,
opportunamente depurato della componente traslativa, quanto il modello
della « fiducia germanistica » degradano a possibili modi di essere di un
Attribuzione
fiduciaria
( 34 ) Ginevra, op. ult. cit., p. 97 ss. ove si sottolinea come negli stessi termini la configurabilità di una « legittimazione o disponibilità formale » sia stata evidenziata, quale effetto
del medesimo fenomeno in discorso, in materia di responsabilità patrimoniale. L’A. rinvia
infatti agli studi di Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, passim,
secondo cui il perimetro della responsabilità patrimoniale del debitore non corrisponde a
quello tracciabile sulla base del concetto di titolarità dei beni. Tale perimetro, si prosegue,
corrisponde invece con quello desumibile sulla base di una situazione indiziaria, o meramente formale, in conformità a quanto stabilito dall’art. 2910 c.c. Ciò con l’effetto di attribuire rilievo non già alla riferibilità del diritto sul bene e quindi all’esistenza del relativo titolo, bensì alla disponibilità del potere effettivo all’esercizio del diritto medesimo in una
logica, in definitiva, non proprietaria ma in senso lato possessoria (ibidem, nt. 192).
( 35 ) Ginevra, op. ult. cit., p. 100 ss. La precarietà della posizione del fiduciario chiarisce infatti la sua soggezione rispetto alla (mai venuta meno) titolarità del fiduciante in contrapposizione alla situazione del fiduciario, rispetto al fiduciante, immaginata nella ricostruzione che si fonda su trasferimento e obbligo restitutorio: in quest’ultimo caso, infatti,
la descritta soggezione non è elemento strutturale della fattispecie poiché è fatta dipendere
dall’adempimento di un obbligo restitutorio assunto dal fiduciario con la formalizzazione,
nella concezione dualista, del pactum fiduciae. L’A. individua la idoneità di un gruppo di
norme a « provocare, in assenza di un riconoscimento tipico dell’incarico fiduciario, la
possibilità di un efficace esercizio di situazioni attive collegate a determinati beni da parte
del non titolare nonché provoca la deviazione sul medesimo soggetto dell’imputazione di
situazioni passive relative ai beni suddetti » (Ginevra, op. ult. cit., p. 123 s.). Sul piano
reale le norme indiziate sono gli artt. 1153, 1264, 1992, 2470 e 2652, n. 6, c.c., norme che
per quanto poste a tutela di soggetti terzi rispetto a chi compie l’atto ben possono prestarsi
a consentire l’immissione di chi quell’atto compie nella descritta posizione di potere nei
confronti del bene che di volta in volta ne è l’oggetto. L’ampiezza dei poteri in concreto
esercitabili dal fiduciario dipenderanno dalla fiducia a lui assegnata e questa stessa fiducia
delimiterà anche i confini per valutare se il terzo acquirente fosse o meno in buona fede al
momento dell’acquisto del bene (dal fiduciario). Sul piano obbligatorio, quindi attinente il
rapporto fiduciario, le norme impiegate al fine di assicurare adeguata protezione al fiduciante riguardano quelle vicende in cui un soggetto dispone della cosa ricevuta indebitamente: quindi, l’art. 2038 c.c., se si assimila da un lato la posizione del fiduciario a quella
dell’accipiens che abbia alienato la cosa pur conoscendo l’obbligo di restituirla e dall’altro
quella del fiduciante a quella del solvens che dispone tanto del diritto di esigere il corrispettivo dell’alienazione tanto del diritto di agire direttamente per conseguirlo; l’art. 1148
c.c., ove si assimili la posizione del fiduciario a quella del possessore convenuto in rivendica dal legittimo titolare per la restituzione dei frutti indebitamente percepiti.
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medesimo fenomeno. Modi di essere che si rivelano acconci a realizzare i
diversi interessi volta a volta perseguiti: nel caso del « modello romanistico », l’interesse alla deviazione, con effetto verso i terzi, della titolarità formale verso un altro soggetto ( 36 ); nel caso del « modello germanistico »,
l’interesse a che il godimento della più efficiente intermediazione, in particolare su strumenti finanziari, offerta da soggetto qualificato non trovi
intralcio nella conservazione della proprietà da parte del fiduciante ( 37 ).
Attribuzione
fiduciaria
6.2. Segue: modello « romanistico » e « germanistico » come modi di essere
di una medesima fattispecie e « fiducia legale ».
Rimosse dal campo d’indagine le interferenze concettuali originate dalla
sequenza « fiducia romanistica » (contratti collegati) – mandato (senza
rappresentanza), non resta che analizzare la vicenda dell’attribuzione fiduciaria nella prospettiva ricostruttiva da ultimo riferita.
Non sfuggirà, peraltro, che l’adozione di questa più moderna tesi rifugge risposte aprioristiche alla questione circa il soggetto, tra fiduciante e fiduciario, cui debbano essere imputate le diverse situazioni soggettive, ma
fa dipendere la soluzione del problema dall’atteggiarsi dell’investitura ( 38 ).
Ciò nel senso che poteri, obblighi e prerogative (rispetto ai beni affidati)
del fiduciario non possono che dipendere, oltre che dall’effettivo realizzarsi dell’investitura in conformità alle modalità richieste dalla legge in ragione della natura del bene affidato (su cui si eserciteranno i poteri, gli obblighi e le prerogative menzionati) anche dal modello realizzato (« romanistico » o « germanistico »), attraverso l’investitura, in conformità al programma fiduciario.
D’altra parte, l’indagine circa l’investitura a favore del fiduciario non
può non tenere pure conto dei limiti entro i quali la legge richiede che
questa investitura possa realizzarsi allorché destinatario dell’affidamento
sia soggetto ammesso a svolgere la relativa attività in via professionale (cd.
« fiducia legale »): quindi, una società fiduciaria. E, in effetti, le riflessioni
che seguono saranno principalmente rivolte a quest’ultima ipotesi rispetto
alla quale, a mente della vicenda da cui si sono prese le mosse – dove l’investitura è discussa con riguardo alla sola conclusione di un contratto di
finanziamento –, ci si deve anzitutto interrogare sul perimetro oggettivo
minimo dell’investitura idoneo a integrare lo svolgimento da parte di società fiduciarie di una attività fiduciaria: e quindi, in definitiva, idoneo a
integrare la fattispecie fiduciaria.
( 36 ) Ginevra, op. ult. cit., p. 128 ss. Deviazione funzionale a perseguire l’interesse vuoi
alla riservatezza, ottenendo che le iniziative legate ai beni affidati non coinvolgano il fiduciante, vuoi alla garanzia di conferire un esercizio vincolato delle prerogative, ancora, originate dal bene affidato.
( 37 ) Ginevra, op. ult. cit., p. 131 ss.
( 38 ) Cfr. nt. 34.
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7. Lo svolgimento di un’attività quale oggetto dell’incarico fiduciario a favore di società fiduciaria.
La centralità che, ai fini della prospettiva adottata nella ricostruzione
della fattispecie, occupa l’investitura, unita alla precisazione svolta circa
l’inadeguatezza del mandato a « ospitare » e disciplinare il fenomeno attributivo in discorso, impone ora di accertare se, a mente della vicenda da
cui si sono prese le mosse, la conclusione di un contratto di finanziamento
sia idoneo a costituire l’oggetto di una attribuzione fiduciaria. È questa, se
si vuole, una ulteriore prospettiva attraverso la quale indagare la distinzione già illustrata che intercorre tra mandato e attribuzione fiduciaria. Infatti, ammettere che la conclusione di un contratto del tipo riferito può ben
costituire ed esaurire l’attività di cui fosse incaricato il fiduciario ridurrebbe significativamente il senso della suindicata distinzione giustificando così la consegna del fenomeno attributivo in questione alla più comune fattispecie negoziale di matrice gestoria. Diversamente, l’esclusione di una tale ricostruzione porta a discutere, per l’appunto, delle condizioni minime
affinché si possa dire integrata una fattispecie di attribuzione fiduciaria.
In effetti, sembra corretto ammettere che l’attribuzione fiduciaria, a fortiori se a favore di società fiduciaria, non possa esaurirsi, diversamente dal
mandato, nel compimento di un singolo atto richiedendo, all’opposto, la
previsione dello svolgimento di una attività ( 39 ).
È infatti da più parti rivendicato l’elemento dell’attività come tipico della fattispecie fiduciaria; un’attività, pare corretto aggiungere, che pur
avendo, come il mandato, matrice gestoria è tale da contrapporsi sia ad
una condotta che si esaurisce nel compimento di in un atto isolato sia a
quella che si risolve in un rapporto di soggezione al punto da escludere
ogni forma di discrezionalità (in colui che tale attività è chiamato a svolgere): quale sarebbe, in tutta evidenza, l’esecuzione di un pagamento ovvero, a mente della vicenda sottoposta al Tribunale di Milano, la conclusione di un contratto di finanziamento scomponibile, nella prospettiva della
società fiduciaria incaricata, nella ricezione di un pagamento (effettuato
dal terzo finanziatore) e nella esecuzione di uno o più pagamenti (rimborso) in conformità all’incarico fiduciario (i.e.: in conformità alle istruzioni
in precedenza ricevute dal fiduciante) ( 40 ). Del resto, e a ben vedere, tali
Attribuzione
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( 39 ) Nisio, L’attività di amministrazione delle società fiduciarie (evoluzione e prospettive), in questa Rivista, 2003, p. 42 ss. e, in particolare, p. 53 s. ove l’A., con riguardo alle
società fiduciarie disciplinate dalla l. 23 novembre 1939, n. 1966, in G.U. n. 7 del 10 gennaio 1940, precisa che (al momento della predisposizione della disciplina specifica) seppure in astratto non si potesse escludere una opzione legislativa in forza della quale rendere
configurabile un incarico fiduciario avente a oggetto il compimento di singoli atti giuridici
di amministrazione, resta il fatto che la l. n. 1966/39 riserva alle società fiduciarie il compimento di « una attività di amministrazione, e quindi di una serie di atti giuridici (di acquisto, di esercizio ovvero di alienazione di diritti) fra di loro coordinati e finalizzati alla
realizzazione di un determinato scopo ».
( 40 ) Alle già esposte conclusioni circa l’incapacità del mandato di ospitare la fattispecie
dell’affidamento fiduciario, sia questo ipotizzato in via generale ovvero in conformità alle
fattispecie tipizzate dalla legge (l. n. 1966/39 e art. 199 t.u.f.) (v. nt. 39), vanno ora aggiunte le argomentazioni formulate nella prospettiva opposta ovvero quella dell’incapacità delNLCC 6-2015
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Attribuzione
fiduciaria
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considerazioni paiono coerenti con il profilo caratterizzante la relazione
fiduciaria che deve pur sempre intercorrere tra fiduciante e fiduciario. Si
intende dire che solo l’affidamento di un’attività consistente in una complessità di atti non definibili dettagliatamente a priori e rispetto ai quali
non possa per ciò stesso ipotizzarsi per il fiduciario un ruolo di mera esecuzione sembra idoneo a legittimare nel fiduciante una valutazione in termini di fiducia nei confronti del fiduciario ( 41 ).
Conferme in tal senso, in particolare ove l’incarico fiduciario sia conferito a una società fiduciaria, sembrano offerte dalla disciplina di legge nella parte in cui delimita l’oggetto dell’incarico fiduciario, a ben vedere configurato in termini di attività o complesso di atti ( 42 ). Ciò a maggior ragio-
l’attribuzione fiduciaria di ospitare il mandato. Mandato e fiducia, in altri termini, non solo si distinguono ma, ove si consideri l’oggetto delle rispettive relazioni, si respingono.
L’articolazione dell’attività che il fiduciante chiede al fiduciario di svolgere è del resto coerente con la più recente tesi che propone di qualificare il fenomeno fiduciario in termini di
rapporto (cfr. § 6). In questo senso, infatti, ed al di là dell’esplicito riferimento normativo,
se pare un dato empirico difficilmente confutabile quello per il quale l’attività richiesta al
fiduciario ha carattere gestorio, pare prima ancora corretto giungere alla medesima conclusione muovendo dalla qualificazione di gestione delineata da autorevole dottrina secondo cui, criticando l’associazione mandato – gestione, « [...] non appare corretto alcun approccio che avvicini le gestioni ad una figura contrattuale tipica, oppure atipica, poiché la
gestione è piuttosto un comportamento umano, sia esso spontaneo oppure dovuto, poi in
forza di atto di autonomia privata oppure di legge, con la mediazione o non di un provvedimento giudiziario. La nozione di gestione è dunque estranea alla zona concettuale dell’atto giuridico (tantomeno dell’atto di autonomia privata). Il mandato, invece, è un contratto: qualcosa che si iscrive alla categoria dell’atto di autonomia privata diretto all’autoregolamentazione di privati interessi » (in questi termini Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, cit., p. 27, ancorché, è il caso di dire, l’A. sia persuaso di tenere separati i
concetti di fiducia e gestione sulla base dell’assunto, non condivisibile, che la fiducia si risolve, sulla base della teoria dei contratti collegati, in una intestazione del diritto soggettivo). Il concetto di gestione come comportamento umano, in ogni caso, pare coerente con
quello qui svolto di fiducia intesa come rapporto che si fonda e si articola al di fuori delle
categorie negoziali.
( 41 ) E a tale principio sembra in effetti alludere Cass. 24 dicembre 1994, n. 11158, in
Mass. Giur. it., 1994 e Juris data, secondo cui « se è vero che l’interesse del mandante è affidato al mandatario e che il primo deve contare sulla lealtà del secondo, in siffatta situazione la “fiducia” viene assunta nel suo aspetto generico, comune allo stesso mandato e
non come elemento specifico causale del negozio ». In questi stessi termini, Ma. Lupoi, Il
contratto di affidamento fiduciario, Milano, 2014, p. 79 ss., ancorché sulla base della non
condivisibile impostazione del fenomeno in termini contrattuali. Sulla irriducibilità del
rapporto fiduciario al mandato si veda anche Luminoso, Il mandato, cit., p. 22 ss. che valorizza la fiducia come effetto sia dell’affidarsi alla lealtà del fiduciario sia della capacità di
questo di meritarla e quindi come elemento della fattispecie che più contribuisce ad allontanare la fiducia dal mandato.
( 42 ) Cfr. art. 1 ss. l. n. 1966/39; art. 5, d.m. Industria 16 gennaio 1995; art. 24 t.u.f. e artt.
38 ss. reg. Consob adottato con delibera n. 16190 del 29 ottobre 2007. Il fatto che la disciplina del mandato costituisca quadro giuridico di riferimento cui l’attività di gestione di
portafogli possa attingere non è di per sé argomento sufficiente a qualificare il rapporto in
discorso in termini di mandato. Ed invero, si è di recente avvertito che, per quanto la ineliminabile preesistenza, alla disciplina di settore, del sistema codicistico così come i più recenti riferimenti testuali a fattispecie contrattuali tipiche disciplinate dal codice rendano
difficilmente accettabile un’idea di tipizzazione dei contratti aventi a oggetto la prestazione
dei servizi di investimento, la riconducibilità di questi ultimi a fattispecie generali non deve
neppure essere sopravvalutata. In questi termini, Maggiolo, Servizi ed attività d’investiNLCC 6-2015
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ne se si considera l’ipotesi in cui quello affidato dovesse costituire l’unico
incarico che la società fiduciaria si propone di svolgere: esso dovrebbe
inevitabilmente integrare, atteso il vincolo posto dalla legge sotto il profilo
organizzativo, un’attività, intesa come serie coordinata di atti (artt. 2082 e
2247 c.c.), pena l’impossibilità di configurare l’iniziativa stessa.
Il fatto che la vicenda decisa dal Tribunale di Milano si concentri sul solo contratto di finanziamento e che lo stesso sia considerato quale oggetto
di attribuzione fiduciaria non varrebbe a giustificare, in parte qua, l’adozione da parte del giudicante di un diverso orientamento rispetto a quello
qui delineato non potendosi a priori escludere (anzi, dovendosi presumere) che, in concreto, la fattispecie fosse più articolata di quanto non suggerisca, in definitiva, il perimetro del petitum ( 43 ).
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7.1. Segue: l’attività delle società fiduciarie disciplinate dalla legge 23 novembre 1939, n. 1966, e modelli di svolgimento dell’incarico.
Il percorso di indagine intrapreso, teso a indagare la fattispecie dell’attribuzione fiduciaria sì da individuare, in ultima analisi, un adeguato criterio di imputazione di obblighi e prerogative originate dall’incarico fiduciario, deve ora chiarire in via generale a quali condizioni ed entro quali
limiti l’investitura a favore di società fiduciaria è disponibile ad atteggiarsi
in conformità ai modelli, nei termini in cui gli stessi sono stati qui definiti
(cfr. § 6.1), « romanistico » o « germanistico ». Condizioni e limiti la cui
individuazione non può che muovere dalla regole che governano lo svolgimento dell’attività da parte dei tipi di società fiduciarie attualmente disciplinate dall’ordinamento.
L’attività che le società fiduciarie sono ammesse a svolgere dipende, come noto, dalla circostanza che esse siano o meno iscritte nella sezione speciale dell’albo di cui all’art. 9 d.lgs. 23 luglio 1995, n. 415, in G.U. n. 186
del 9 agosto 1996, s.o. n. 133 ( 44 ). Infatti, le società iscritte in tale sezione
mento. Prestatori e prestazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano, 2012, p. 254 ss. e, in particolare, p. 549 ss. D’altra parte, va pure prestata la massima attenzione al fatto che l’attività di gestione svolta in esecuzione di un programma fiduciario, ove (come qui) indagata
come rapporto, non può condividere alla base quella natura negoziale che invece caratterizza lo svolgimento di una attività gestoria comunemente intesa (mandato). Si potrà tutt’al
più ammettere che per alcuni profili di disciplina concernenti lo svolgimento dell’attività
di gestione da parte di società fiduciaria soccorreranno le norme in materia di mandato,
senza che per ciò si possa concludere nel senso di una qualificazione della vicenda fiduciaria in termini di mandato.
( 43 ) In questo senso, l’assenza di eccezioni sia da parte della società finanziatrice – che al
momento della conclusione del contratto non ha dubitato della legittimazione della società
fiduciaria nel rivestire il ruolo e le prerogative di mutuatario – sia da parte della società fiduciaria – che al momento della conclusione del contratto ha adottato una condotta conforme alla titolarità del ruolo dichiarato alla società finanziatrice –, inducono a supporre
che l’investitura della società fiduciaria da parte del fiduciante abbia, anche sotto il profilo
dell’oggetto, le caratteristiche illustrate nel testo portando a ritenere che la conclusione del
contratto sia, in concreto, parte di una più ampia attività affidata.
( 44 ) Cfr. art. 199 t.u.f. che mantiene in vigore l’art. 60, comma 4o, d.lgs. n. 415/96 ai sensi del quale « [l]e società fiduciarie che, alla data di entrata in vigore del presente decreto,
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speciale sono ammesse a svolgere, purché in via esclusiva e in conformità
alla disciplina approntata dal t.u.f., l’attività di gestione di portafogli di investimento mediante intestazione fiduciaria (cc.dd. società fiduciarie « dinamiche ») ( 45 ). Diversamente, le società non iscritte in tale sezione speciale continuano ad essere sottoposte alla l. n. 1966/39 quali fiduciarie in
tanto in quanto assumano la sola attività di amministrazione di beni per
conto di terzi, l’organizzazione e la revisione contabile di aziende e la rappresentanza dei portatori di azioni e di obbligazioni (cc.dd. società fiduciarie « statiche »). Peraltro, quelle tra queste ultime che dovessero integrare i presupposti indicati dall’art. 199, comma 2o, t.u.f. ( 46 ) sono parificate, benché solo sotto il profilo dell’autorizzazione all’attività e della vigilanza, agli intermediari finanziari di cui all’art. 106 t.u.b. ( 47 ).
sono iscritte nella sezione speciale dell’albo previsto dall’articolo 3 della legge 2 gennaio
1991, n. 1, devono introdurre nella denominazione sociale le parole “società di intermediazione mobiliare” entro novanta giorni. Esse continuano a prestare il servizio di gestione di
portafogli d’investimento, anche mediante intestazione fiduciaria, e sono iscritte di diritto
in una sezione speciale dell’albo previsto dall’articolo 9; non possono essere autorizzate a
svolgere servizi di investimento diversi da quello di gestione di portafogli di investimento a
meno che non cessino di operare mediante intestazione fiduciaria. Dalla data di iscrizione
nella sezione speciale dell’albo, le stesse sono soggette alle norme del presente decreto e
non si applicano la legge 23 novembre 1939, n. 1966 e il decreto legge 5 giugno 1986, n.
233, convertito con modificazioni dalla legge 1 agosto 1986, n. 430 ». Per un’analisi dell’evoluzione della disciplina in materia di società fiduciarie si veda Nisio, L’attività di amministrazione delle società fiduciarie, cit., passim; Id., Le società fiduciarie – S.I.M., Bari,
2012, passim.
( 45 ) Una categoria, quella delle società fiduciarie autorizzate a svolgere il servizio di gestione di portafogli, a esaurimento: l’art. 66, comma 2o, lett. b, d.lgs. n. 415/96 abroga l’art.
17, l. n. 1/91 che consentiva anche alle società fiduciarie di ottenere l’autorizzazione all’esercizio dell’attività di gestione patrimoniale sicché è corretto desumere che nessuna
nuova autorizzazione può essere concessa dopo il 1o settembre 1996 (data di entrata in vigore del d.lgs. n. 415/96); d’altra parte, vale quanto stabilito dall’art. 199, comma 1o, t.u.f.
ai sensi del quale l’art. 60, comma 4o del d.lgs. n. 415/96 conserva vigore « [f]ino alla riforma organica della disciplina delle società fiduciarie e di revisione [...] ».
( 46 ) Così come da ultimo modificato dall’art. 4, comma 1o, lett. b, d.lgs. 19 settembre
2012, n. 169, in G.U. n. 230 del 2 ottobre 2012. I presupposti indicati dall’art. 199, comma
2o, t.u.f. sono previsti in via alternativa e coincidono con: a) l’essere controllate direttamente o indirettamente da una banca o da un intermediario finanziario (i.e., uno dei soggetti di cui all’art. 106 t.u.b.); b) l’avere adottato la forma di società per azioni con capitale
versato di ammontare non inferiore al doppio di quello richiesto dall’art. 2327 c.c. (ora pari a Euro 50.000, per effetto della modifica introdotta dall’art. 9 ter, d.l. 24 giugno 2014, n.
91 e convertito con l. n. 11 agosto 2014, n. 116, in G.U. n. 192 del 20 agosto 2014, s.o. n.
72).
( 47 ) In entrambi i casi, quindi, l’attività rimarrà circoscritta a quanto previsto dall’art. 1
l. n. 1966/39. Infatti, l’art. 199, comma 2o, t.u.f., per le società integranti i presupposti ivi
indicati, si limita a prescrivere un procedimento di autorizzazione e vigilanza diverso rispetto a quello previsto dalla l. n. 1966/39: è cioè stabilito che esse siano autorizzate in
conformità a quanto previsto dall’art. 107 t.u.b., quindi iscritte in una sezione speciale dell’albo di cui all’art. 106 t.u.b. e infine vigilate dalla Banca d’Italia (che vigila in conformità
all’art. 108 t.u.b.; trovano poi applicazione gli artt. 110, 113 bis, 113 ter del t.u.b. in quanto
compatibili: cfr. art. 199, comma 2o, t.u.f.). Tuttavia, l’art. 199, comma 2o, t.u.f. ha pure
cura di precisare che tali società fiduciarie « non possono esercitare le attività elencate nel
comma 1o del medesimo articolo » quindi le attività di cui all’art. 106 t.u.b. La finalità dell’attrazione della vigilanza alla Banca d’Italia è rivelata dall’art. 199, comma 2o, t.u.f. ultima
parte ove si prevede che la Banca d’Italia esercita i poteri di vigilanza « al fine di assicurare
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La distinzione appena tracciata riveste centrale importanza rispetto alla
astratta facoltà di svolgere l’incarico fiduciario in conformità ai modelli
« romanistico » e « germanistico ». È stato infatti precisato che l’affidamento fiduciario secondo il « modello germanistico », dove l’intestazione
dei « titoli » è ritenuta funzionale al conseguimento della mera legittimazione a disporne, è opzione configurabile per le società fiduciarie « dinamiche » mentre deve ritenersi preclusa alle società fiduciarie « statiche » ( 48 ). In effetti, ove la legge consente alle società fiduciarie di svolgere
l’attività riservata, ossia la gestione individuale di portafogli di investimento, non si limita a introdurre una deroga al principio di riserva di attività ( 49 ). Invero, seppur accompagnato dalla severa previsione di esclusività
dell’oggetto, l’esercizio della descritta attività è espressamente subordinato al fatto che tali società siano iscritte nell’elenco speciale: quindi previamente autorizzate allo svolgimento dell’attività ammessa e, in seguito, adeguatamente vigilate ( 50 ). Una simile opzione non pare in effetti configurabile per le società fiduciarie « statiche »: alle già persuasive ragioni testuali, che chiaramente le escludono dal perimetro della deroga suindicata, si
aggiungono convincenti considerazioni di carattere sistematico, tutte improntate a svalutare un qualche interesse per rendere aperta la categoria
di soggetti autorizzati allo svolgimento dell’attività fiduciaria nei termini
prospettati, considerazioni tutte che tolgono fondamento ad una eventuale interpretazione estensiva della portata della deroga ( 51 ).
Attribuzione
fiduciaria
il rispetto da parte delle società fiduciarie iscritte nella sezione separata delle disposizioni
contenute nel d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231 ».
( 48 ) L’adozione del modello « germanistico » nello svolgimento dell’attività di gestione
individuale di portafogli di investimento presuppone che l’investitura sia limitata all’attribuzione del potere a favore della società fiduciaria di disporre degli strumenti finanziari
oggetto della gestione: investitura che determina l’intestazione fiduciaria degli strumenti
oggetto di gestione (con la possibilità di configurare, nell’ipotesi di titoli azionari, il diritto
della società fiduciaria di ottenere l’iscrizione nel libro soci della società emittente ancorché tale iscrizione non priva il fiduciante della titolarità della posizione di socio). L’investitura ha, in tal caso, perimetro più circoscritto rispetto a quello assunto in ipotesi di investitura in conformità al modello « romanistico » dove, come accennato, l’incarico attribuito ha l’effetto di privare il fiduciante di ogni potere sul bene affidato in quanto spettante,
appunto, (al fiduciario o) alla società fiduciaria (disciplinata dalla l. n. 1966/39).
( 49 ) Cfr. art. 18, comma 4o, t.u.f.
( 50 ) Cfr. art. 60, comma 4o, d.lgs. n. 415/96 richiamato dall’art. 199, comma 1o, t.u.f.
( 51 ) La funzionalizzazione dell’attribuzione fiduciaria alla legittimazione a disporre tipica della gestione di portafogli di investimento non è solo dalla legge riservata a favore delle
società fiduciarie che, in quanto iscritte nell’albo di cui all’art. 60, comma 4o, d.lgs. n. 415/
96, sono sottoposte al medesimo regime di vigilanza cui sono sottoposte le imprese di investimento, ma non pare neppure configurabile come una opzione estendibile oltre i limiti
della citata riserva. Cfr. Ginevra e Portale, Intestazione a società fiduciaria di azioni non
interamente liberate, cit., p. 838 ss., secondo i quali la generale configurazione di una intestazione degli strumenti finanziari nei termini in cui è qui descritta, mentre è giustificabile
in ordinamenti in cui tale regola si presenta come coerente con la disciplina di circolazione
dei titoli (Germania) ovvero con la disciplina relativa all’esercizio del diritto di voto (in
particolare, in assenza di un regime di dematerializzazione) (USA), non pare ipotizzabile in
Italia: « nel nostro diritto – diversamente che in Germania e negli USA – l’assunzione da
parte di un intermediario della legittimazione azionaria con riferimento a titoli altrui non è
giustificabile in vista di una più facile alienazione delle azioni: sicché una siffatta assunzione o sottende un lecito accordo fiduciario “pieno” (il che può avvenire – salvo sempre il
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Le riflessioni appena svolte risultano di particolare interesse ove applicate alla vicenda decisa dal Tribunale ambrosiano consentendo di ipotizzare la categoria di appartenenza della società fiduciaria incaricata, inter
alia, della conclusione del contratto di finanziamento. Si dovrebbe poter
affermare, in particolare, che attesa la esplicitata volontà delle parti, fiduciante e società fiduciaria, di replicare, in aderenza all’incarico programmato, quello che si è da ultimo definito « modello romanistico », la società
fiduciaria convenuta è da ricondurre alla categoria delle società fiduciarie
non autorizzate alla gestione di portafogli di investimento, cioè « statiche », e come tale attratta alla disciplinata della l. n. 1966/39.
Sulla base di tali premesse, allora, la decisione del Tribunale di imputare
alla sola società fiduciaria la legittimazione passiva dell’obbligo restitutorio non appare condivisibile. Si è infatti constatato come la deviazione a
favore del fiduciario, per essere circoscritta alla sola titolarità formale concernente la posizione giuridica affidatagli, lascia impregiudicata la titolarità effettiva a favore del fiduciante. Nel caso di specie, infatti, l’investitura
a favore della società fiduciaria produce il solo effetto di autorizzare quest’ultima all’esercizio di un potere formale – vale a dire la conclusione del
contratto di finanziamento –, rispetto a una posizione giuridica, quella di
soggetto beneficiario delle somme, la cui titolarità rimane in capo al fiduciante. Quest’ultimo, dunque, non già la società fiduciaria, merita di rivestire, con la società finanziatrice, il ruolo di parte del contratto di finanziamento. Se ciò che precede è vero dovrebbe anche bastare a) ad escludere
che il fiduciario si interponga tra fiduciante e terzo, e b) a concludere nel
senso che soggetto legittimato passivo rispetto alle pretese avanzate dalla
società finanziatrice è il fiduciante. Il disagio in qualche modo causato dal
divorzio della sostanza dalla forma può forse ricomporsi non appena si è
disposti a riconoscere che una tale circostanza è per definizione nota al
terzo che entra in contatto con il fiduciario: vale a dire, egli è a conoscenza
del fatto che, certamente, il fiduciario non è il soggetto nel cui interesse
quel contratto è stipulato, perché non è il soggetto cui vanno ricondotti, in
definitiva, i relativi effetti ( 52 ).
8. La legittimazione passiva del fiduciante sulla base dell’art. 70, comma 1o,
l. fall.
Sulla base delle considerazioni e dei rilievi sinora svolti si è potuto concludere che, nei limiti dell’investitura ricevuta, le società fiduciarie discicaso delle “fiduciarie dinamiche” – solo nell’ipotesi in cui non si tratti di intermediazione
professionale: pena la violazione dell’esclusiva prevista dalla legge a favore delle società fiduciarie) o non sembra potersi considerare lecita » (Id., ivi, nt. 71). Per una interpretazione restrittiva della deroga a favore delle sole società fiduciarie iscritte, e quindi disciplinate
ai sensi e per gli effetti dell’art. 199 t.u.f., si vedano Fauceglia, voce Gestione fiduciaria, in
Enc. dir., Agg., VI, Milano, 2002, p. 390; La Sala, Commento sub art. 199, in G.F. Campobasso (a cura di), Testo unico della finanza, III, Torino, 2001, p. 1546.
( 52 ) Con tali conclusioni, del resto, si coordina l’impostazione del rapporto tra società
finanziatrice e società fiduciaria: non già quest’ultima, intestataria solo in via formale delle
prerogative di « mutuatario », ma il fiduciante dovrebbe essere destinatario delle opportune valutazioni concernenti il merito di credito funzionale all’erogazione del prestito.
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plinate dalla l. n. 1966/39 non si interpongono, con rilevanza esterna, tra
fiduciante e terzi. Questi ultimi, pertanto, sono senz’altro autorizzati a rivendicare la titolarità della legittimazione attiva nei confronti del fiduciante cui è da riconoscersi, rispetto alle medesime iniziative, la titolarità di
una speculare legittimazione passiva. La fondatezza di tali conclusioni,
che hanno indotto a non condividere nei termini già prospettati il provvedimento di rigetto da parte del Tribunale della domanda avanzata dalla
società finanziatrice avverso il fiduciante, deve ora essere verificata anche
alla luce di quanto previsto dalla norma concorsuale di cui all’art. 70,
comma 1o, l. fall.
Infatti, al di là del riferimento testuale alle società fiduciarie, vale a giustificare una tale indagine il possibile impiego della norma citata al fine di
confermare le conclusioni offerte nei paragrafi precedenti, in effetti tratte
dall’analisi di un quadro giuridico che, tale norma, non ha specificamente
considerato. Lo scrupolo è tutt’altro che teorico non appena si considera
che, nella vicenda in discorso, la domanda proposta dalla società finanziatrice-attrice, avente a oggetto l’imputazione della responsabilità da inadempimento nei confronti del fiduciante, è argomentata proprio sulla base di quanto dispone l’art. 70, comma 1o, l. fall. ai sensi del quale « [l]a revocatoria dei pagamenti avvenuti [...] dalle società previste dall’art. 1 della
l. 23 novembre 1939, n. 1966, si esercita e produce effetti nei confronti del
destinatario della prestazione » ( 53 ). Là dove la norma invocata, questa pare la premessa, sembra predicare l’indifferenza di « intermediari specializzati » e « procedure di compensazione multilaterale » rispetto alla promozione dell’azione revocatoria da parte degli organi della procedura concorsuale aperta in danno del debitore, azione che quindi andrebbe promossa non già verso questi ultimi ma verso il creditore quale destinatario
della prestazione (i.e. il pagamento), potrebbe essere idonea ad affermare,
in via più generale, l’indifferenza di « intermediari specializzati » e « procedure di compensazione multilaterale » rispetto ai rapporti giuridici intercorrenti tra debitore, cliente dell’intermediario o aderente al sistema di
pagamento, da un lato, e creditore, dall’altro: una irrilevanza, quella appena descritta, che non potrebbe non valere allora anche sul piano della tutela dei diritti originati dai suindicati rapporti e valere in « entrambi i sensi » (i.e., azione promossa dal debitore verso il creditore e viceversa). In
questa prospettiva, la legittimazione attiva potrebbe ben essere riconosciuta al creditore ove intenda agire verso il debitore a titolo di azione di
responsabilità da inadempimento, debitore a cui soltanto, esclusa la rilevanza dell’« intermediario specializzato » o della « procedura di compensazione multilaterale », sarebbe imputabile la corrispondente legittimazione passiva. Ebbene, se ciò la disposizione concorsuale prevede con riguardo a « intermediari specializzati » e « procedure di compensazione multilaterale », essa potrebbe negli stessi termini voler disciplinare il complesso
rapporto intercorrente tra fiduciante, società fiduciaria e terzo. Ciò vorrebbe dire che l’art. 70, comma 1o, l. fall. affermerebbe anche per « le società previste dall’art. 1 della l. 23 novembre 1939, n. 1966 » quella « in-
Attribuzione
fiduciaria
( 53 ) La versione attuale dell’art. 70 è stata introdotta dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, convertito con l. 14 maggio 2005, n. 80, in G.U. n. 111 del 14 maggio 2005, s.o. n. 91.
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differenza » più esplicitamente espressa per « intermediari specializzati »
e « procedure di compensazione multilaterale ». Continuando a seguire le
argomentazioni della società finanziatrice e così applicando, in modo speculare, alle società fiduciarie di cui alla l. n. 1966/39 le riflessioni appena
svolte per « intermediari » e « procedure », la norma concorsuale muoverebbe dal presupposto secondo il quale la titolarità della posizione giuridica passiva verso il terzo creditore è senz’altro imputabile al fiduciante.
Per ciò stesso, la norma affermerebbe che l’azione revocatoria, promossa
dagli organi della procedura aperta in danno per l’appunto del fiduciante,
andrebbe rivolta al creditore, il destinatario del pagamento. Più precisamente, l’art. 70, comma 1o, l. fall. nel presupporre che la titolarità del pagamento, solo formalmente eseguito dalla società fiduciaria, debba essere
imputata al fiduciante finisce per estendere l’area di irrilevanza della società fiduciaria oltre il perimetro dell’azione revocatoria: come è stato detto per « intermediari » e « procedure », tale irrilevanza non potrebbe non
valere anche per la tutela dei diritti originati dal rapporto tra, a questo
punto, fiduciante e terzo. In tale prospettiva, al fiduciante, quale titolare
della posizione giuridica passiva, sarebbe senz’altro imputabile la legittimazione passiva rispetto a quelle iniziative che fossero promosse dal terzo
creditore, legittimato attivo, come per l’appunto l’azione diretta a far valere la responsabilità da inadempimento del pagamento promesso.
Se, come è agevole comprendere, le argomentazioni proposte dalla società finanziatrice presuppongono alcuni degli effetti derivanti da quella
più generale ricostruzione del fenomeno fiduciario proposta nei paragrafi
che precedono (e il riferimento è alla inidoneità del fiduciario a essere
qualificato come soggetto che si interpone tra fiduciante e terzo), è d’altra
parte vero che la loro fondatezza impone una più ampia verifica. Si tratta,
in definitiva, di accertare se, entro quali limiti e sulla base di quali presupposti, la norma concorsuale sia in effetti disposta ad accogliere le riflessioni più generali sull’attribuzione fiduciaria in precedenza svolte. Una tale
indagine, peraltro, consente di prendere pure consapevole posizione rispetto alla più generale questione posta dalla decisione del Tribunale ambrosiano ove, nel rigettare la domanda della società finanziatrice, esclude
la norma concorsuale dal quadro giuridico funzionale alla ricostruzione
del fenomeno fiduciario.
8.1. Le soluzioni interpretative proposte dell’art. 70, comma 1o, l. fall. In
particolare, la soluzione che configura l’art. 70, comma 1o, l. fall. quale
disciplina delle cc.dd. « attribuzioni indirette ».
Secondo un’opinione diffusa tra gli interpreti, l’art. 70, comma 1o, l. fall.
ha disciplinato l’azione revocatoria dei pagamenti alla cui estinzione un
terzo coopera, a vario titolo, con l’obbligato principale e tanto la norma in
discorso avrebbe fatto valorizzando le sfere giuridiche dei soggetti effettivamente incise dall’atto di disposizione « pagamento »: quella di chi subisce il depauperamento economico-finanziario conseguente alla disposizione di pagamento e quella di chi ne risulta in effetti corrispondentemente
arricchito.
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A parere di alcuni autori, tale opzione si porrebbe sul solco di soluzioni
già adottate dall’ordinamento (cfr.: art. 68 l. fall.; art. 6 l. 21 febbraio
1991, n. 52, in G.U. n. 47 del 25 febbraio 1991; art. 4 l. 30 aprile 1999, n.
130, in G.U. n. 111 del 14 maggio 1999; art. 2 d.lgs. 12 aprile 2001, n. 210,
in G.U. n. 130 del 7 giugno 2001), e si giustificherebbe per la specificità
del contesto delineato dalla norma: qui caratterizzato dall’intervento nel
procedimento estintivo dell’obbligazione principale – più che di una categoria di soggetti unitariamente intesa e comprendente quindi anche le società fiduciarie di cui alla l. n. 1966/39 – di quei soggetti esercenti professionalmente una non meglio precisata attività di intermediazione nei pagamenti ( 54 ).
Secondo altri ( 55 ), invece, la disposizione in esame rivestirebbe natura di
norma di vertice in quanto avente a oggetto quella più generale fattispecie
in cui la cooperazione del terzo, a prescindere a) dal profilo soggettivo di
quest’ultimo così come b) dal rapporto che lo lega al debitore dell’obbligazione principale, rileva per la sua obiettiva funzionalità ad estinguerla.
Per le ipotesi replicanti siffatta struttura costitutiva, da tali autori designate con l’espressione di « prestazioni indirette » o « attribuzioni indirette » ( 56 ), dovrebbe dunque valere la regola stabilita dall’art. 70, comma 1o,
Attribuzione
fiduciaria
( 54 ) De Biasi, Le « esenzioni » dalla revocatoria. I pagamenti effettuati tramite intermediari specializzati e società fiduciarie, in Bonfatti e Falcone (a cura di), La riforma delle
legge fallimentare, Milano, 2005, p. 119 ss.; Id., La disciplina dell’azione revocatoria dei pagamenti effettuati tramite intermediari specializzati e compiuti nell’ambito dei sistemi di pagamento, in Bonfatti (a cura di), La disciplina dell’azione revocatoria nella nuova legge fallimentare e nei « fallimenti immobiliari », Milano, 2005, p. 279 ss.; Rago, Diritto fallimentare, Manuale della revocatoria fallimentare, Padova, 2006, p. 914 ss.; Nigro, Commento
sub art. 70, in A. Nigro e M. Sandulli (a cura di), La riforma della legge fallimentare, Torino, 2006, p. 404; Zanichelli, La nuova disciplina del fallimento e delle altre procedure
concorsuali (dopo il d.lg. 12.9.2007, n. 169), Torino, 2008, p. 146 ss.; Guerrieri, Commento sub art. 70, in A. Maffei Alberti (a cura di), Commentario breve alla legge fallimentare,
Padova, 2013, p. 365; Patti, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori,
in Il diritto fallimentare riformato, a cura di L. Schiano di Pepe, Padova, 2007, p. 204 ss.;
Jorio, Gli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori, in Ambrosini, Cavalli e Jorio (a cura di), Il fallimento, in Tratt. Cottino, XI, Padova, 2009, p. 463; Vassalli,
Commento sub art. 70, in A. Nigro, M. Sandulli e V. Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma, Torino, 2010, p. 977 ss.
( 55 ) Montanari, La disciplina degli effetti della revocazione, in Fallimento, 2005, p.
1022 ss. e, in particolare, p. 1026 ss.; Mangano, Revocabilità del pagamento di terzo (intermediario) ed irrevocabilità del pagamento del fideiussore, in Banca, borsa, tit. cred., 2006, II,
p. 478 ss.; per più generali riflessioni sulla categoria delle « attribuzioni indirette », Id., La
revocatoria fallimentare delle attribuzioni indirette, Torino, 2005. In questo stesso senso pare orientato anche F. Di Maio, La revocatoria del « pagamento tramite ... le società previste
dall’articolo 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1966 »: semiotica e semantica delle espressioni « per il tramite di società fiduciaria » e « per interposta persona », in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2006, I, p. 1262 ss.; Terranova, Par condicio e danno nelle revocatorie fallimentari, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, I, 2010, p. 10
ss. e, in particolare, p. 49 ss.; Id., Effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori,
III, Parte speciale, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna, 2002, p. 125 ss.; Limitone, Commento sub art. 70, in M. Ferro (a cura di), La legge fallimentare. Commentario teorico-pratico, Padova, 2011, p. 822 ss.; Angelino, Commento sub art. 70, in M. Bocchiola e Paluchowsky (a cura di), Codice del fallimento Pajardi, Milano, 2013, p. 856 ss.; M.R.
Grossi, La riforma della legge fallimentare, Milano, 2008, p. 611 ss.
( 56 ) Terranova, op. cit., passim e in particolare Mangano, La revocatoria fallimentare
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l. fall. in forza della quale il pagamento eseguito per mezzo del o dal terzo è
in quanto tale revocabile dagli organi della procedura aperta in danno del
debitore; e revocabile, si prosegue, nei confronti non già del terzo ma del
creditore-accipiens, ovvero l’effettivo beneficiario del pagamento perciò
dalla norma designato come il « destinatario della prestazione ». Benché
l’enfasi attribuita da questa tesi al profilo funzionale della fattispecie svincoli la promozione dell’azione revocatoria verso il creditore-accipiens dal
compimento di un atto di disposizione del debitore, sicché in questa logica porta a trascurare il fruttuoso esercizio da parte del terzo del diritto di
recesso o dei diritti conseguenti alla surrogazione (nelle ragioni del creditore-accipiens dopo avere adempiuto a suo favore) verso il debitore, i suoi
sostenitori sono d’altra parte propensi a escludere dalla fattispecie in esame ipotesi in cui sull’interesse alla revoca del pagamento eseguito per
mezzo del terzo o da parte del terzo, nei termini delineati, prevarrebbero
altri specifici interessi: sarebbe questo il caso dell’interesse all’estinzione
del debito da parte del terzo ove questi abbia agito in qualità di garante; e
sarebbe poi il caso dell’interesse a tutelare l’affidamento del creditore-accipiens circa la disponibilità del terzo di assumersi il rischio di rimanere
insoddisfatto, come di regola avverrebbe ove il pagamento fosse effettuato
da un terzo legato al debitore da rapporto di solidarietà familiare (parente) o di carattere organizzativo (capogruppo) ( 57 ).
delle attribuzioni indirette, cit., passim. Quella delle « attribuzioni indirette » ambisce ad
acquisire il ruolo di categoria dogmatica, peraltro, a vocazione onnicomprensiva posto
che, se ben si comprende, con essa si vorrebbero designare fattispecie bensì caratterizzate
dalla complessità, sotto il profilo soggettivo, dello schema estintivo, in effetti (almeno) trilatero, del rapporto obbligatorio; ma pure, considerando il profilo di maggior rilievo ai fini
che occupano, fattispecie in cui la prestazione del terzo, mero tradens verso il creditore
della provvista anzitempo procuratagli dal debitore, viene fatta coesistere con quella in cui,
diversamente, il terzo adempie l’obbligazione verso il creditore con provvista propria, per
poi agire, eventualmente, in via di regresso verso il debitore, figurando perciò stesso (i.e., il
terzo e non già il debitore) quale soggetto cui l’atto di disposizione è imputabile (quest’ultima ipotesi è nella prassi nota anche come pagamento del terzo). Cfr. Montanari, op. cit.,
p. 1026 che fa rientrare all’interno della categoria di « attribuzioni indirette » e quindi riconduce all’interno del perimetro dell’art. 70, comma 1o, l. fall.: la delegazione di pagamento (con fallimento del delegato), i mandati all’incasso (con fallimento del solvens debitore del mandante), le cessioni di credito solutionis causa (con fallimento del debitore ceduto), ipotesi in cui a sopportare la revocatoria dovrebbero essere, rispettivamente il delegante anziché il delegatario, il mandante in luogo del mandatario e infine il cedente anziché il cessionario. All’espressione « prestazioni indirette » ricorre, invero, già Libertini,
Pagamento cambiario e revocatoria fallimentare, Milano, 1974, p. 122 ss.; Id., Sulla funzione
della revocatoria fallimentare: una replica e un’autocritica, in Giur. comm., 1977, I, p. 84 ss.
( 57 ) Montanari, op. cit., p. 1025; Terranova, op. cit., p. 52 secondo cui nel caso del
pagamento da parte del garante « sarebbe assurdo che la garanzia perda ogni valore proprio nel momento in cui dovrebbe servire, e cioè quando viene escussa perché il debitore
principale è diventato insolvente »; mentre nel caso del pagamento da parte di chi è legato
al debitore da vincolo di solidarietà familiare o sociale « si può supporre che l’intervento
del terzo serva a evitare la dichiarazione di insolvenza del congiunto (o della società controllata) e, quindi, si può supporre che il solvens intenda assumere il rischio di restare insoddisfatto, qualora il debitore non riesca a superare la crisi. In tali condizioni l’accipiens è
portato a nutrire un ragionevole affidamento sulla mancanza di pregiudizio per la massa e
sulla conseguente stabilità degli effetti dell’atto. Di tale ragionevole affidamento si deve tenere conto in sede di revoca ».
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I più consapevoli sostenitori di siffatta tesi ( 58 ) hanno confidato di superare l’incongruenza tra la pretesa generalità riconosciuta alla fattispecie e i
limiti, in particolare attinenti il perimetro soggettivo, emergenti sul piano
della disciplina ipotizzando che l’art. 70, comma 1o, l. fall. abbia anticipato quanto più compiutamente avrebbe dovuto essere disposto in conformità alla (di poco successiva) legge avente a oggetto la delega al Governo
per la riforma organica delle procedure concorsuali. Tale legge delega, infatti, imponeva di « modificare la disciplina degli effetti della revocazione,
prevedendo che essi si rivolgano nei confronti dell’effettivo destinatario
della prestazione ». In ogni caso, si aggiungeva che di tale disposizione sarebbe rimasta intatta l’idoneità ad essere elevata « a canone generale dell’ordinamento concorsuale », in conformità al quale, pertanto, anche l’art.
70, comma 1o, l. fall. avrebbe dovuto essere interpretato ( 59 ).
Una tale opzione rivela l’interesse per assegnare alla revocatoria fallimentare una marcata funzione redistributiva attraverso una collettivizzazione massima delle perdite derivanti dal fallimento: ad esse sono infatti
chiamati a partecipare pure quei creditori che fossero soddisfatti non solo
e non tanto in via indiretta (ipotesi in cui i creditori sono soddisfatti per
mezzo di un pagamento eseguito da un terzo che successivamente riceve
dal debitore principale quanto anticipato: sicché si ragiona in un contesto
che presuppone pur sempre un atto di disposizione del debitore principale) ma pure in assenza di un formale atto di disposizione del debitore fallito (il creditore è soddisfatto a seguito del pagamento eseguito da un terzo a favore del quale il debitore principale non esegue alcuna prestazione). Una funzione, quella appena indicata, coerente con una revocatoria
che si vorrebbe ormai evoluta, in conformità alla crescente complessità
delle transazioni commerciali, in strumento idoneo a rimuovere anche
quegli atti che, in base a una prognosi postuma fondata su giudizi di valore e su regole d’esperienza, debbono ritenersi compiuti in frode in quanto
realizzati in violazione di norme di condotta poste a presidio del comune
interesse dei creditori ( 60 ).
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8.2. Segue: critica.
Per ragioni di ordine espositivo, nei limiti consentiti dal presente scritto,
pare opportuno anticipare alcune considerazioni critiche rispetto alla tesi
da ultimo esposta.
Invero, il mancato recepimento del principio stabilito dalla legge delega
( 58 ) Montanari, op. cit., p. 1026.
( 59 ) Come noto l’art. 70, comma 1o nella versione attualmente in vigore è stato introdotto dal d.l. 17 marzo 2005, n. 35 poi convertito dalla l. n. 80/05 che conteneva anche la delega al Governo per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali il cui
art. 1, comma 6o, lett. a), n. 5 recita: « [n]ell’esercizio della delega di cui al comma 5o, il
Governo si attiene ai seguenti principi e criteri direttivi: modificare la disciplina degli effetti della revocazione, prevedendo che essi si rivolgano nei confronti dell’effettivo destinatario della prestazione ».
( 60 ) Terranova, op. cit., passim; Mangano, op. ult. cit., passim.
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circa la riforma della revocatoria ( 61 ) mentre indebolisce non poco il tentativo di attribuirgli quella funzione di canone interpretativo generale, finisce per restituire dignità a tutti quei profili che fanno dell’art. 70, comma 1o, l. fall. una norma a raggio soggettivamente limitato: in effetti a) ai
contesti nell’ambito dei quali il legislatore ipotizza lo svolgersi di un’attività di intermediazione, e il riferimento è alle « procedure di compensazione multilaterale »; e b) ai soggetti cui tale attività è associata, ovvero gli
« intermediari specializzati » e le « società previste dall’art. 1 della l. 23
novembre 1939, n. 1966 » ( 62 ). Una norma siffatta è già per questo inidonea a rivestire il ruolo di disciplina generale della revocatoria dei pagamenti nelle cc.dd. « attribuzioni indirette », una categoria alla quale le fattispecie, tipicamente trilatere, vengono ricondotte indipendentemente dai
rispettivi profili soggettivi. In ogni caso, v’è da dubitare che il principio di
cui alla norma delegante, espresso in termini così generali e astratti, fosse
(prima dell’entrata in vigore della riforma organica e dopo, nei limiti in
cui si ritenga di un qualche rilievo una norma delegante rimasta inattuata)
di per sé idoneo a suffragare un così marcato ampliamento degli effetti redistributivi dell’azione revocatoria come quello proposto. Invero, il legislatore delegante non è andato oltre un esplicito richiamo a disciplinare
l’impugnazione secondo un criterio di effettività lasciando così al legislatore delegato l’onere di fissare modi e limiti entro i quali realizzare un tale
obiettivo: quindi, se si vuole, l’onere di selezionare il grado di intensità
della funzione redistributiva stessa ( 63 ). Del resto, una soluzione come
quella poc’anzi illustrata non è solo priva degli auspicati indici normativi
ma, come si dirà oltre, non pare agevolmente sostenibile neppure considerando nel suo complesso il quadro normativo concorsuale ( 64 ).
9. L’art. 70, comma 1o, l. fall. quale disposizione che sancisce l’irrilevanza
dei soggetti ivi indicati a rivestire, rispetto all’obbligazione da cui origina
il pagamento, il ruolo di parte: i pagamenti avvenuti « tramite intermediari specializzati e procedure di compensazione multi-laterale ».
L’indagine deve allora concentrarsi su quanto dispone l’art. 70, comma
1o, l. fall., facendosi anzitutto carico di chiarirne la fattispecie. Rispetto a
( 61 ) Lo rilevano esplicitamente: Nigro, op. cit., p. 404, nt. 4; Jorio, op. cit., p. 463;
Bonfatti, Commento sub art. 70, in Jorio (diretto da), Il nuovo diritto fallimentare, I, Bologna, 2006, p. 1096 ss. e, in particolare, p. 1098 ss.; Id., in Bonfatti e Censoni, Manuale
di diritto fallimentare, Padova, 2011, p. 300 ss.
( 62 ) Bonfatti, op. ult. cit., p. 301.
( 63 ) Rimane poi certamente possibile nutrire dubbi sulla opportunità di un simile scelta.
Pare interessante notare che la genericità del riferimento normativo era stata pure imputata alla disposizione contenuta nel precedente schema di disegno di legge recante Delega al
Governo per la riforma organica della disciplina della crisi di impresa e dell’insolvenza e
relativa agli « atti di interposizione nel pagamento ». In proposito si vedano le considerazioni di Inzitari e Limitone, Tendenze riduzionistiche della revocatoria fallimentare nel
progetto di riforma: effetti sulla concorrenza e sulla libertà di mercato, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2005, I, p. 170 ss. e, in particolare, p. 187.
( 64 ) Cfr. § 9 nt. 82.
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tale obiettivo appaiono decisivi, come si accennava, i riferimenti alle
« procedure di compensazione multilaterale », agli « intermediari specializzati » e alle « società previste dall’art. 1 della l. 23 novembre 1939, n.
1966 ». È bene fin da subito precisare che la verifica di cui ci si è appena
fatti carico non potrà che, almeno nella sua fase iniziale, concentrarsi sull’individuazione degli elementi maggiormente idonei a condizionare una
valutazione della norma concorsuale in termini critici: quindi i riferimenti
meno immediati agli « intermediari specializzati » e alle « procedure di
compensazione multilaterale ».
Si tratta in effetti di locuzioni spurie non coincidenti con categorie di
soggetti o contesti puntualmente definiti dalla legge. Questa circostanza
costringe ad ampliare il criterio di indagine all’attività cui in tale contesto
alludono le locuzioni impiegate ( 65 ). I rinvii alle « procedure » e agli « intermediari » sembrano invero più agevolmente intellegibili ove associati
allo svolgimento della attività di cooperazione nell’esecuzione di pagamenti ( 66 ) che per l’appunto la norma pare presupporre: più precisamente,
l’attività svolta come « servizio di pagamento » e l’attività svolta nell’ambito di un « sistema di pagamento ». Il fatto che in particolare la prima
delle attività appena indicate sia stata fatta oggetto di una disciplina sistematica solo successivamente all’entrata in vigore dell’art. 70, comma 1o, l.
fall., e il riferimento è al d.lgs. 27 gennaio 2010, n. 11, in G.U. n. 36 del 13
febbraio 2010 [che, tra l’altro, all’art. 1, comma 1o, lett. b, nn. 1-7 definisce i « servizi di pagamento » ( 67 ) mentre all’art. 1, comma 1o, lett. d), for-
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( 65 ) Si tratta, peraltro, di soluzione ermeneutica consapevolmente indotta dal legislatore, anche comunitario, per quelle aree disciplinari particolarmente soggette, vista la marcata concorrenza di fonti normative di rango secondario, a innovazioni e modifiche. Si
constata infatti che la individuazione dell’elemento soggettivo della fattispecie anziché avvenire in via diretta, dove la puntuale elencazione di soggetti sarebbe continuamente esposta al rischio di dover essere aggiornata, avviene in via indiretta e cioè per il tramite dell’attività: sicché i soggetti autorizzati a svolgerla non saranno tanto quelli ricompresi in un dato elenco previsto da una certa norma ma tutti quelli che in un dato momento sono autorizzati dall’ordinamento all’esercizio dell’attività menzionata. Tale tecnica riesce comunque a soddisfare l’esigenza di escludere interpretazioni che per quanto legittime sul piano
letterale finirebbero per far coesistere soggetti e contesti indipendentemente dall’attività
svolta, frustrando così ogni tentativo di delineare la benché minima ratio e fattispecie della
norma. Per ulteriori utili considerazioni in questo senso è opportuno rinviare a Moliterni, I bonifici transfrontalieri dalla legge modello UNCITRAL alla direttiva 97/5/CE, in Dir.
comm. int., 1999, p. 547 ss. e, in particolare, p. 554.
( 66 ) Cfr. Bonfatti, Commento sub art. 70, cit., p. 1100 ss. e Id., Manuale di diritto fallimentare, cit., p. 302 ss.; De Biasi, Le « esenzioni » dalla revocatoria, cit., p. 279 ss. Commento sub art. 70, cit., p. 977. La rinuncia ad una elencazione tassativa degli intermediari è
in effetti strumentale a valorizzare un criterio di selezione di carattere funzionale coincidente, per l’appunto, con lo svolgimento in via stabile, e in conformità alle condizioni ed ai
limiti posti dalla relativa disciplina, di una attività di intermediazione nei pagamenti. Secondo gli autori citati all’inizio della nota vanno considerati in astratto ricompresi dalla
norma in esame, oltre a tutti gli operatori autorizzati allo svolgimento di attività qualificata
nell’ambito di una procedura di compensazione multilaterale, anche le imprese di investimento, le SGR (gestore), gli IMEL, i soggetti operanti nel settore finanziario ai sensi degli
artt. 106 ss. d.lgs. n. 385/93 e le banche.
( 67 ) Che definisce « servizi di pagamento » come « le seguenti attività: 1) servizi che permettono di depositare il contante su un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un conto di pagamento; 2) servizi che permettono prelievi in conNLCC 6-2015
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nisce una definizione aggiornata di « sistemi di pagamento » ( 68 )] non può
valere ad escludere la circostanza che la norma concorsuale sia intervenuta in un contesto ove tanto l’una quanto l’altra delle attività indicate avevano già ricevuto un apprezzabile, per quanto ancora incompleto, inqua-
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tante da un conto di pagamento nonché tutte le operazioni richieste per la gestione di un
conto di pagamento; 3) esecuzione di ordini di pagamento, incluso il trasferimento di fondi, su un conto di pagamento presso il prestatore di servizi di pagamento dell’utilizzatore o
presso un altro prestatore di servizi di pagamento: 3.1. esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum; 3.2. esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; 3.3. esecuzione di bonifici, inclusi ordini permanenti; 4) esecuzione di operazioni di pagamento quando i fondi rientrano in una linea di
credito accordata ad un utilizzatore di servizi di pagamento: 4.1. esecuzione di addebiti diretti, inclusi addebiti diretti una tantum; 4.2. esecuzione di operazioni di pagamento mediante carte di pagamento o dispositivi analoghi; 4.3. esecuzione di bonifici, inclusi ordini
permanenti; 5) emissione e/o acquisizione di strumenti di pagamento; 6) rimessa di denaro; 7) esecuzione di operazioni di pagamento ove il consenso del pagatore ad eseguire
l’operazione di pagamento sia dato mediante un dispositivo di telecomunicazione, digitale
o informatico e il pagamento sia effettuato all’operatore del sistema o della rete di telecomunicazioni o digitale o informatica che agisce esclusivamente come intermediario tra
l’utilizzatore di servizi di pagamento e il fornitore di beni e servizi ».
( 68 ) Che definisce « sistema di pagamento » o « sistema di scambio, di compensazione e
di regolamento » « un sistema di trasferimento di fondi con meccanismi di funzionamento
formali e standardizzati e regole comuni per il trattamento, la compensazione e/o il regolamento di operazioni di pagamento ». Come è noto il d.lgs. n. 11/10 è stato adottato in
attuazione della dir. 2007/64/CE del Parlamento europeo e del Consiglio in data 13 novembre 2007 avente a oggetto i servizi di pagamento nel mercato interno, e recante modifica delle dir. 1997/7/CE, 2002/65/CE, 2005/60/CE e 2006/48/CE, e che abroga la dir.
1997/5/CE (cd. Payment Services Directive o dir. PSD). Il quadro normativo di riferimento
va poi completato con il rinvio al Regolamento del parlamento Europeo e del Consiglio del
14 marzo 2012, n. 260 che stabilisce i requisiti tecnici e commerciali per i bonifici e gli addebiti diretti in euro e che modifica il reg. CE n. 924/2009, nonché al Provvedimento della
Banca d’Italia recante istruzioni applicative del reg. 260/2012 adottato con delibera 85/13
(Febbraio 2013). Sul d.lgs. n. 11/10 si veda, almeno, M. Mancini, Rispoli Farina, V.
Santoro, Sciarrone Alibrandi e Troiano (a cura di), La nuova disciplina dei servizi di
pagamento, Torino, 2011. Sulla direttiva si veda Rispoli Farina, V. Santoro, Sciarrone
Alibrandi e Troiano (a cura di), Armonizzazione europea dei servizi di pagamento e attuazione della direttiva 2007/64/CE, Milano, 2009. Ancorché precedenti l’entrata in vigore
della dir. 2007/64/CE, si vedano comunque Carriero e V. Santoro (a cura di), Il diritto
del sistema dei pagamenti, Milano, 2005; V. Santoro (a cura di), Il diritto dei sistemi di pagamento, Milano, 2007. La definizione di « sistema di pagamento » di cui al d.lgs. n. 11/10
va quantomeno completata con quella di « sistema » prevista dall’art. 1, comma 1o, lett. r),
d.lgs. 12 aprile 2001, n. 210, in G.U. n. 130 del 7 giugno 2001, qualificato come « insieme
di disposizioni di natura contrattuale o autoritativa in forza del quale vengono eseguiti con
regole comuni e accordi standardizzati la compensazione attraverso una controparte centrale o meno, o ordini di trasferimento fra i partecipanti, che sia contestualmente: 1) applicabile a tre o più partecipanti, senza contare l’operatore del sistema né un eventuale agente
di regolamento, una eventuale controparte centrale, una eventuale stanza di compensazione o un eventuale partecipante indiretto; ovvero applicabile a due partecipanti, qualora ciò
sia giustificato sotto il profilo del contenimento del rischio sistemico per quanto attiene ai
sistemi italiani, o nel caso in cui altri Stati membri dell’Unione europea abbiano esercitato
la facoltà di limitare a due il numero dei partecipanti; 2) assoggettato alla legge di uno Stato membro dell’Unione europea, scelta dai partecipanti o prevista dalle regole che lo disciplinano, in cui almeno uno dei partecipanti medesimi abbia la sede legale; 3) designato come sistema e notificato all’AESFEM dallo Stato membro dell’Unione europea di cui si applica la legge. Un accordo concluso tra sistemi interoperabili non costituisce un sistema ».
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dramento normativo ( 69 ). In effetti, l’area appena tratteggiata è stata fatta
oggetto di una sempre più densa e particolareggiata regolamentazione alla
cui espansione e progressiva rilevanza hanno non poco contribuito tutti i
provvedimenti, per lo più adottati in materia di lotta all’evasione fiscale e
al riciclaggio di denaro di provenienza illecita, funzionali a ridurre drasticamente la possibilità di eseguire pagamenti con l’impiego di moneta contante ( 70 ). Ciò al punto che la relazione tra « procedure/intermediari », da
un lato, e « sistemi di pagamento/servizi », dall’altro, non sembra potersi
( 69 ) Il riferimento è alla dir. 1997/5/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27
gennaio 1997 sui bonifici transfrontalieri recepita in Italia con il d.lgs. 28 luglio 2000, n.
253, in G.U. n. 212 dell’11 settembre 2000, provvedimenti che la dottrina non ha mancato
di valorizzare per rilievo sistematico e generale valenza applicativa. In questo senso, Olivieri, Compensazione e circolazione della moneta nei sistemi di pagamento, Milano, 2002,
p. 211; Sciarrone Alibrandi, I bonifici transfrontalieri dalla direttiva 97/5/CE al d.lgs.
28 luglio 2000, n. 253, in Banca, borsa, tit. cred., 2001, I, p. 736 ss. e, in particolare, p. 740;
Carriero, Verso un nuovo diritto privato dei pagamenti, in Il diritto del sistema dei pagamenti, cit., p. 6 ss. E il riferimento è poi alla pressoché coeva dir. 1998/26/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 maggio 1998 concernente il carattere definitivo del
regolamento nei sistemi di pagamento e nei sistemi di regolamento titoli recepita in Italia
dal d.lgs. n. 210/01 (cfr. nt. precedente).
( 70 ) Il riferimento è all’art. 49, rubricato « Limitazioni all’uso del contante e dei titoli al
portatore », del d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, in G.U. n. 290 del 14 dicembre 2007, s.o.
n. 268, avente a oggetto la « Attuazione della direttiva 2005/60/CE concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo nonché della direttiva 2006/70/CE che ne reca misure
di esecuzione », nonché al d.m. Economia e delle Finanze del 20 marzo 2008. L’art. 49,
comma 1o, vieta il trasferimento di denaro contante o di libretti di deposito bancari o postali al portatore o titoli al portatore in euro o in valuta estera quando il valore oggetto di
trasferimento è complessivamente pari o superiore a 1.000 euro salvo che non sia eseguito
« per il tramite di banche, Poste Italiane S.p.A., istituti di moneta elettronica e istituti di
pagamento, questi ultimi quando prestano servizi di pagamento diversi da quelli di cui all’articolo 1, comma 1o, lettera b), n. 6 del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11 ». Originariamente, l’importo di 5.000 euro è stato elevato a 12.500 euro dall’art. 32, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, in G.U. n. 147 del 25 giugno 2008, s.o. n. 152; poi ridotto a 5.000 euro
dall’art. 20, comma 1o, d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito in l. 30 luglio 2010, n. 122, in
G.U. n. 176 del 30 luglio 2010, s.o. n. 174, e ridotto ulteriormente a 2.500 euro dall’art. 2,
comma 4o, d.l. 13 agosto 2011, n. 138 convertito in l. 14 settembre 2011, n. 148, in G.U. n.
216 del 16 settembre 2011. L’importo attuale è stato introdotto dall’art. 12, comma 1o, d.l.
6 dicembre 2011, n. 201, convertito in l. 22 dicembre 2011, n. 214, in G.U. n. 300 del 27
dicembre 2011, s.o. n. 276. L’impianto normativo di cui al d.lgs. n. 231/07 segue l’impostazione assunta dal precedente d.lgs. 56 del 20 febbraio 2004, in G.U. n. 49 del 28 febbraio 2004, s.o. n. 30, avente a oggetto l’Attuazione della direttiva 2001/97/CE in materia
di prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi da attività
illecite, poi modificato dalla l. 25 gennaio 2006, n. 29, in G.U. n. 32 dell’8 febbraio 2006,
s.o. n. 34, (legge comunitaria del 2005) sicché molte delle considerazioni svolte sullo sfondo del d.lgs. 231/2007 possono senz’altro valere anche per il periodo precedente: periodo
in cui, sotto il vigore del d.lgs. 20 febbraio 2004, n. 56, in G.U. n. 49 del 28 febbraio 2004,
s.o. n. 30, veniva per l’appunto adottato il d.l. n. 35/05 che introduceva l’art. 70, comma
1o, l. fall. Ma si veda pure il d.l. 3 maggio 1991, n. 143 convertito con l. 5 luglio 1991, n.
197, in G.U. n. 157 del 6 luglio 1991. Sulla stretta connessione tra disciplina funzionale alla
repressione dei fenomeni di criminalità e servizi di pagamento si veda, per la ricchezza dei
profili analizzati, Lineamenti della disciplina internazionale di prevenzione e contrasto del riciclaggio e del finanziamento al terrorismo, in Condemi e De Pasquale (a cura di), Quaderni di Ricerca Giuridica della Consulenza Legale, 60, 2008, disponibile sul sito www.
bancaditalia.it.
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ridurre a mero esito di disciplina di una attività riservata (come sarebbe,
appunto, il riservare a determinati soggetti lo svolgimento di una altrettanto determinata attività) ( 71 ). Invero, constatare che la moneta scritturale non è solo strumento necessario allo svolgimento di una attività riservata quanto piuttosto lo strumento esclusivo per l’esecuzione di un numero
assai rilevante di operazioni di pagamento che costituiscono l’oggetto dell’attività riservata stessa significa riconoscere a quest’ultima una centralità
la cui effettiva misura è data dalla sua irrinunciabilità ( 72 ). Del resto,
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( 71 ) Per quanto attiene ai « servizi di pagamento » cfr. art. 1, comma 1o, lett. g) del d.lgs.
27 gennaio 2010, n. 27, in G.U. n. 53 del 5 marzo 2010, s.o. n. 43, ove si definisce il « prestatore di servizi di pagamento » come « uno dei seguenti organismi: istituti di moneta
elettronica e istituti di pagamento nonché, quando prestano servizi di pagamento, banche,
Poste Italiane s.p.a., la Banca centrale europea e le banche centrali nazionali se non agiscono in veste di autorità monetarie, altre autorità pubbliche, le pubbliche amministrazioni
statali, regionali e locali se non agiscono in veste di autorità pubbliche ». Quanto alle
« procedure di compensazione multilaterale », atteso il disposto di cui all’art. 2, comma 2o,
lett. h), d.lgs. n. 27/10, valgano i riferimenti di cui al d.lgs. n. 210/01 rispettivamente a
« ente » (art. 1, comma 1o, lett. h, nn. 1-5), « sistema » (art. 1, comma 1o, lett. r), « ordine
di trasferimento » (art. 1, comma 1o, lett. m, n. 1), « controparte centrale » (art. 1, comma
1o, lett. g, cui va aggiunto il rinvio all’all. al d.lgs. n. 210/01 avente a oggetto i Sistemi per
l’esecuzione di ordini di trasferimento di cui all’art. 1, comma 1o, lett. m, n. 1, ove si menzionano i sistemi TARGET2 e BI-COMP entrambi gestiti da Banca d’Italia).
( 72 ) La giurisprudenza ha infatti assunto un approccio sempre più permissivo rispetto
alla regola codificata all’art. 1277 c.c. negando in alcune ipotesi la buona fede al soggetto
che rifiuti di ricevere un pagamento in moneta bancaria: cfr. Cass., sez. un., 4 giugno 2010,
n. 13658, in Obbl. e contr., 2011, p. 338, con note di Giovannelli, Limiti di legittimità
dell’offerta di pagamento mediante assegno bancario, e di Salomone, Il pagamento mediante assegni; Cass. 10 marzo 2008, n. 6291 e Cass., sez. un., 18 dicembre 2007, n. 26617, entrambe in Banca, borsa, tit. cred., 2008, II, 553 ss., con nota di Lemme, La rivoluzione copernicana della Cassazione: la moneta legale, dunque, non coincide con la moneta fisica;
Cass. 28 giugno 2006, n. 14957, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, II, 139, con nota di Piccinini, In tema di adempimento delle obbligazioni pecuniarie mediante assegno circolare;
Cass. 10 giugno 2005, n. 12324, in Foro it., 2006, I, c. 3061, con note di Valdarnini, In
tema di efficacia solutoria dei pagamenti effettuati a mezzo di assegno circolare delle obbligazioni pecuniarie e di A. Palmieri, In tema di pagamento tramite assegno circolare delle obbligazioni pecuniarie. E si veda la decisione resa dall’ABF, Collegio di coordinamento, in
data 15 ottobre 2012, n. 3299 reperibile sul sito http://www.arbitrobancariofinanziario.it.
In dottrina, hanno sostenuto che l’adempimento in moneta scritturale costituisce un equivalente dell’adempimento in moneta legale Inzitari, La moneta, in Tratt. dir. comm. e dir.
pubbl. econ. Galgano, VI, Padova, 1983, p. 24 ss.; Id., L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria nella società contemporanea: tramonto della carta moneta e attribuzione pecuniaria
per trasferimento della moneta scritturale, in Banca, borsa, tit. cred., 2007, I, p. 133 ss.; Id.,
Obbligazioni pecuniarie, in Comm. Scialoja-Branca, artt. 1277-1284, 2011, p. 108 ss.; Farenga, La moneta bancaria, Milano, 1997, passim; Sciarrone Alibrandi, op. ult. cit., passim; Id., L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria tra diritto vivente e portata regolatoria
indiretta della Payment Services Directive 2007/64/CE, in Il nuovo quadro normativo comunitario dei servizi di pagamento. Prime riflessioni. Quaderni di Ricerca Giuridica della
Consulenza Legale, 63, dicembre 2008, p. 59 ss.; P. Ferro-Luzzi, Un nuova fattispecie giurisprudenziale: « l’anatocismo bancario »; postulati e conseguenze, in Giur. comm., 2001, I,
p. 1 ss. Per una recente ricognizione sul grado di sviluppo e diffusione di strumenti di pagamento alternativi alla moneta legale si vedano i contributi di Bonaiuti, Le nuove forme
di pagamento, AGE, 2015, p. 17 ss.; Rajola e Frigerio, Servizi in mobilità e pagamenti via
mobile: caratteristiche e linee di sviluppo nel settore finanziario italiano, AGE, 2015, p. 35 ss.;
Moneti, « Mobile Payments »: gli sviluppi del mercato e l’inquadramento normativo, AGE,
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l’espansione dell’area dei pagamenti in moneta scritturale ha potuto in larga misura prescindere dal grado di vincolatività dei provvedimenti funzionali al raggiungimento degli obiettivi di politica legislativa, ovvero la trasparenza (in senso ampio) delle transazioni. Alla citata espansione, infatti,
ha non poco contribuito un assai rilevante interesse, tutto privatistico, di
ogni pagatore, non solo quando operante nella veste di imprenditore, ad
accrescere la rapidità della circolazione della ricchezza e quindi a ricercare
l’efficienza nell’esecuzione e nella regolazione dei pagamenti che solo un
sistema incardinato sulla moneta scritturale, affidato a intermediari specializzati adeguatamente vigilati, riesce meglio a garantire ( 73 ).
Le considerazioni sino ad ora svolte sembrano utilmente impiegabili ai
fini che occupano sotto più aspetti. Esse non si limitano a giustificare già
sul piano formale la specificità della fattispecie delineata dall’art. 70, comma 1o, l. fall. Si è visto, infatti, come tale norma valorizzi i riferimenti a
soggetti, cioè gli « intermediari specializzati », e contesti, cioè le « procedure di compensazione multilaterale », in quanto idonei a rinviare a una
specifica attività – da svolgersi come « servizio di pagamento » o nell’ambito di un « sistema di pagamento » – che si connota per l’avere reciso, attraverso la moneta scritturale, il tradizionale legame tra adempimento dell’obbligazione pecuniaria e moneta contante. Una fattispecie, quindi, non
riconducibile alla categoria delle « attribuzioni indirette » non foss’altro
perché questi stessi profili, mentre sono essenziali per la prima, sono invece del tutto irrilevanti per le seconde.
Ed è in effetti a questo punto dell’analisi che si scorge la divaricazione
massima tra la fattispecie sottesa dall’art. 70, comma 1o, l. fall. e quelle integranti le cc.dd. « attribuzioni indirette ». A ben vedere, infatti, tanto le
procedure di compensazione multilaterale quanto la cooperazione nell’esecuzione di pagamenti da parte di intermediari specializzati non alludono al pagamento civilistico, cioè all’atto coincidente con la consegna di
moneta contante (art. 1277 c.c.): ciò che si realizza per loro tramite, diversamente, è un servizio che consiste, e si esaurisce, nel mero trasferimento,
tipicamente da un conto ad un altro, di moneta scritturale, come tale del
tutto indifferente al rapporto giuridico da cui origina l’obbligazione pecuniaria ( 74 ). Tale servizio ha una dimensione esclusivamente procedurale
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2015, p. 101 ss.; Mancini, Valute virtuali e Bitcoin, AGE, 2015, p. 117 ss.; Scalcione, Gli
interventi delle autorità di vigilanza in materia di schemi di valute virtuali, AGE, 2015, p. 139
ss.
( 73 ) Si veda l’interessante rapporto prodotto dall’Osservatorio sulle Carte di Credito di
Assofin, Crif e GfK Eurisko relativo all’anno 2013 (cfr. Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2014,
sezione Finanza e Mercati) in cui si registra un complessivo aumento dei cc.dd. pagamenti
elettronici apprezzati dai pagatori per la capacità di soddisfare una crescente esigenza sul
controllo delle transazioni, anche di piccoli importi, e di ridurre in modo drastico i rischi e
le scomodità derivanti dall’uso del contante.
( 74 ) Mette bene in evidenza il profilo Onza, Estinzione dell’obbligazione pecuniaria e finanziamento dei consumi: il pagamento con « carta », Milano, in particolare p. 3 ss., che
parla di divorzio concettuale e normativo tra res e moneta affermando poi che « [n]ell’attualità non sembra più discutibile che la moneta, in quanto ideal unit, possa essere rappresentata con diversi mezzi, strumenti solutori diversi dalla consegna di pezzi di moneta sempre più (irreversibilmente) diffusi e imposti da un interesse (riconosciuto) pubblico » (Id.,
ivi, p. 17 s.).
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che non ha pertanto alcun bisogno di giustificarsi causalmente ( 75 ). E non
varrebbe insistere obiettando che pure nell’estinzione di obbligazioni pecuniarie, nell’ambito delle cc.dd. « attribuzioni indirette », non manca il
ricorso alla moneta scritturale poiché qui, evidentemente, il ruolo del terzo non è certo quello di prestatore del servizio di pagamento ma quello,
tutto diverso, di nuovo pagatore: quindi, di soggetto portatore di un ulteriore e autonomo interesse, che si aggiunge a quelli imputabili al debitore
e al creditore rispetto ai quali si deve causalmente giustificare e qualificare. In tali ipotesi, il terzo interferisce sempre con le sfere giuridiche di debitore e creditore: o dando origine a una successione (sostitutiva o cumulativa) del debito a titolo particolare, ipotesi in cui il terzo entra nel rapporto giuridico debitore-creditore; o dando luogo all’estinzione di una
obbligazione altrui, effetto che sarà pertanto a lui e non già al debitore imputabile ( 76 ). In ogni caso, questo pagamento, diversamente dal trasferimento di moneta scritturale nel servizio di pagamento, esclude che l’estinzione dell’obbligazione pecuniaria sia e rimanga vicenda circoscritta al
rapporto debitore-creditore. E ciò, indipendentemente dalla circostanza
che le risorse impiegate al fine di estinguere l’obbligazione pecuniaria
coincidano con provvista propria o consegnata dal debitore.
( 75 ) De Stasio, Operazione di pagamento non autorizzata e restituzioni, Milano, 2013, p.
56 ss. ove, sulla base di ampi riferimenti bibliografici, viene elaborato il concetto secondo
cui « la modernità dell’approccio del diritto comunitario al problema del trasferimento
della moneta mediante l’esecuzione di servizi di pagamento si pone tutta nella scelta di disciplinare il servizio di pagamento in maniera separata rispetto alla disciplina del rapporto
obbligatorio tra clienti ». E si veda pure quanto l’A. afferma circa la natura tutta procedimentale e non negoziale del pagamento eseguito mediante il trasferimento di moneta scritturale: « [...] se la dimensione negoziale dell’ordine di pagamento resta intatta nelle operazioni di pagamento disposte “in presenza”, viceversa la dimensione procedimentale e organizzativa dell’operazione emerge in tutta la sua portata allorché questa sia disposta mediante uno strumento di pagamento » (Id., ivi, p. 107 ss.). Ed è infatti in questa prospettiva procedimentale e organizzativa che l’A. ricostruisce i rimedi alle interferenze che vicende relative al pagatore o al beneficiario hanno, per es., sull’effettività dell’ordine di
pagamento, comportando delicati profili, sconosciuti al pagamento con moneta legale perché in gran parte originati dalla natura procedimentale dei servizi di pagamento, attinenti
la restituzione della moneta scritturale (Id., ivi, in particolare, p. 165 ss.). Valorizza l’alto
grado di astrazione del servizio di pagamento offerto dalla banca nella forma del’addebito
diretto anche Barillà, L’addebito diretto, Milano, 2014, p. 57 ss. In ogni caso, ampie indicazioni nel senso della riduzione del ruolo degli intermediari bancari nell’adempimento
delle obbligazioni pecuniarie già in Sciarrone Alibrandi, L’interposizione della banca
nell’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, Milano, 1997, passim.
( 76 ) In questo senso, anche nella delegazione, non meno di quanto avvenga nell’ipotesi
disciplinata dall’art. 1180 c.c., il pagamento del delegato trova la propria causa non già in
un rapporto obbligatorio tra lui e il delegatario (che non esiste), bensì nei rapporti che
l’uno, delegato, e l’altro, delegatario, hanno con il delegante: l’obbligazione del delegato di
« dare » trova giustificazione nel debito del delegato verso il delegante (rapporto di provvista); il credito del delegatario verso il delegante (rapporto di valuta) giustifica il diritto
del delegatario di « ricevere ». Al tempo stesso, che il terzo rappresenti un autonomo centro di interessi dovrebbe potersi ricavare dal fatto che questi potrà sempre opporre al delegatario le eccezioni relative ai suoi rapporti con questo: invalidità, incapacità, vizi della
promessa fatta al delegatario e compensazione (art. 1271 c.c.). Per la qualificazione di ciascuno dei soggetti coinvolti nella delegazione in termini di « parte », in quanto titolare di
specifici interessi, già Pugliatti, I fatti giuridici, Milano, 1996, p. 147 ss.
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La dimensione dell’atto pagamento eseguito, quale servizio di pagamento, dall’intermediario specializzato, o eseguito, come tipicamente avviene,
per il tramite di una controparte centrale nell’ambito di un sistema di pagamento, è invece tutta procedurale e astratta rispetto al rapporto che origina l’obbligazione pecuniaria: come del resto suggerisce la stessa disciplina ( 77 ). Non è un caso che l’attività compiuta dall’intermediario viene designata dal d.lgs. n. 11/10 con l’espressione di « servizi[o] di pagamento »
(art. 1, lett. b, d.lgs. n. 11/10) e che lo stesso decreto sostituisca i termini
« debitore » e « creditore » con quelli di « pagatore » (art. 1, lett. e, d.lgs.
n. 11/10) e « beneficiario » (art. 1, lett. f, d.lgs. n. 11/10). E ancora: che
l’attività dell’intermediario per essere tale deve essere autorizzata sulla base del previo consenso espresso dal pagatore « nella forma e secondo la
procedura concordata nel contratto quadro o nel contratto relativo a singole operazioni di pagamento » (art. 5 d.lgs. n. 11/10); che l’intermediario, quale prestatore del servizio di pagamento, può disporre del diritto di
« bloccare l’utilizzo di uno strumento di pagamento al ricorrere di giustificati motivi » (sicurezza dello strumento, utilizzo fraudolento o non autorizzato ecc.) (art. 6 d.lgs. n. 11/10); che il pagatore può, ma solo entro determinati limiti, rettificare l’operazione di pagamento non autorizzata (art.
9 d.lgs. n. 11/10); che l’intermediario, prestatore del servizio di pagamento, sia responsabile per l’esecuzione di operazioni non autorizzate nei soli
limiti fissati dal decreto (art. 11 d.lgs. n. 11/10); che, a determinate condizioni, il pagatore ha diritto al rimborso dell’importo trasferito in caso di
operazione di pagamento autorizzata disposta su iniziativa del beneficiario (art. 13 d.lgs. n. 11/2010); che l’ordine di pagamento sia disciplinato
con riguardo al momento della sua ricezione (art. 15 d.lgs. n. 11/10); che,
in presenza di tutte le condizioni previste dal contratto quadro, il prestatore di servizi di pagamento del pagatore non può rifiutare di eseguire un
ordine di pagamento autorizzato (art. 16 d.lgs. n. 11/10) e, soprattutto,
che l’ordine di pagamento sia, verificatesi determinate condizioni, irrevocabile (art. 17 d.lgs. n. 11/10) con la precisazione che « [l]’irrevocabilità
non pregiudica il rimborso al pagatore dell’importo dell’operazione di pagamento eseguita in caso di controversia tra il pagatore e il beneficiario » e
che l’ordine sia comunque inidoneo, anche se revocato, a pregiudicare il
carattere definitivo delle operazioni di pagamento nei sistemi di pagamento in ciò replicando quindi, per i « servizi di pagamento », quella condizione di stabilità assicurata dalla disciplina sui « sistemi » ove prevede la
definitività degli ordini di trasferimento, della compensazione e dei conseguenti pagamenti e trasferimenti ( 78 ). L’elencazione potrebbe evidente-
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( 77 ) Cfr. anche Onza, op. cit., p. 22.
( 78 ) Cfr. art. 17, comma 6o, d.lgs. n. 11/10 ove peraltro si precisa che « [i]n ogni caso, la
revoca di un ordine di pagamento ha effetto solo nel rapporto tra prestatore di servizi di
pagamento e l’utilizzatore del servizio, senza pregiudicare il carattere definitivo delle operazioni di pagamento nei sistemi di pagamento ». Si veda, infatti, l’art. 2, d.lgs. n. 210/01 ai
sensi del quale « [g]li ordini di trasferimento, la compensazione e i conseguenti pagamenti
e trasferimenti sono vincolanti tra i partecipanti a un sistema, e nel caso di apertura di una
procedura d’insolvenza nei confronti di un partecipante sono opponibili ai terzi, compresi
gli organi preposti alla procedura medesima, se gli ordini di trasferimento: a) sono stati immessi nel sistema prima del momento di apertura della procedura d’insolvenza; b) sono
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mente continuare ma, nei termini qui illustrati, pare già in grado di fornire
chiari indizi circa il ruolo rivestito da « intermediari » e « procedure » con
riguardo ai pagamenti menzionati dall’art. 70, comma 1o, l. fall.: un ruolo
che si esplica e si svolge su un piano che è altro rispetto a quello del rapporto obbligatorio intercorrente tra debitore e creditore e con il quale, anzi, pretende di non confondersi ( 79 ). D’altra parte, tali presupposti, ove
implicano la professionalità dell’attività svolta rivelano pure il senso del riferimento normativo al profilo della specializzazione. Se questo, come
sembra, è il contesto, e se si condivide pure il fatto che solo un’attività imprenditoriale affidata a soggetti dotati di adeguata organizzazione può
realizzare concretamente gli obiettivi di efficienza, certezza e sicurezza
nella regolazione delle transazioni commerciali, e quindi giustificare « una
percezione diffusa della moneta scritturale come surrogato equiparabile
con facilità alla moneta legale » ( 80 ), si dovrebbe allora anche concedere a
questa stessa attività imprenditoriale di essere effettivamente sottratta a rischi che non è in grado di governare, o il cui governo renderebbe comunque l’attività del tutto inefficiente: come accadrebbe se i rischi di instabilità che riguardano il rapporto contrattuale da cui origina l’obbligo del pagamento si potessero direttamente ripercuotere sul servizio di pagamento,
e quindi sull’intermediario, o peggio ancora, sul sistema dei pagamenti nel
suo complesso ( 81 ).
stati immessi nel sistema successivamente al momento di apertura della procedura d’insolvenza ed eseguiti il giorno stesso dell’apertura, qualora l’agente di regolamento o la controparte centrale o la stanza di compensazione provi che al momento dell’immissione non
era a conoscenza dell’apertura della procedura di insolvenza, né avrebbe dovuto esserlo.
Ciò vale anche in caso di apertura di un procedura di insolvenza nei confronti di un partecipante, al sistema interessato o a un sistema interoperabile, o nei confronti dell’operatore del sistema di un sistema interoperabile che non sia un partecipante ». La stretta connessione tra la disciplina dei « servizi di pagamento » e i « sistemi di pagamento » era già
stata evidenziata da Sciarrone Alibrandi, La definitività dei pagamenti dalla direttiva
98/26/CE al d.lgs. 12 aprile 2001, n. 210, in Eur. dir. priv., 2002, p. 797 ss. ove si rilevava,
considerando la dir. 1997/5/CE sui bonifici transfrontalieri e la dir. 1998/26/CE sul carattere definitivo del regolamento nei sistemi di pagamento e nei sistemi di regolamento titoli,
come i due provvedimenti comunitari attenessero a due dimensioni diverse dello stesso fenomeno: la direttiva sui bonifici privilegiando la « micro dimensione » dei rapporti contrattuali tra gli agenti economici; la direttiva sui sistemi privilegiando la « macro-dimensione » della capacità dei sistemi di pagamento di garantire la definitività ai regolamenti dei
pagamenti « con conseguente attribuzione di certezza ed effettività alle negoziazioni degli
operatori economici e finanziari ».
( 79 ) Si veda ancora De Stasio, Operazione di pagamento non autorizzata e restituzioni,
cit., p. 58, ove, alla luce degli indici normativi della disciplina sui servizi di pagamento, si
chiarisce ulteriormente come tali regole segnino la prevalenza della tecnica dei pagamenti
sul controllo causale delle operazioni, obiettivo questo concepibile ed effettivamente realizzabile solo ammettendo « la neutralità dell’impresa di pagamento, la standardizzabilità e
prevedibilità delle sue operazioni, la sua autonomia imprenditoriale nella predisposizione
delle regole nel contratto-quadro, ma anche la tendenziale estraneità del PSP nella relazione con il cliente rispetto alle vicende che coinvolgono quest’ultimo con l’altro cliente, beneficiario o pagatore dell’operazione volta a volta considerata ».
( 80 ) De Stasio, op. cit., pp. 51 e 61.
( 81 ) Invero, e più in generale, la concezione e realizzazione di ogni sistema di pagamento
è indissolubilmente legata alla valorizzazione massima della riduzione di ogni rischio derivante dall’esecuzione dei pagamenti. Scopo, questo, effettivamente perseguito anche con
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Se si concorda con quanto appena affermato, dovrebbe essere possibile
concludere nel senso che la cooperazione di « intermediari specializzati »
o « procedure di compensazione multilaterale » è attività che in alcun modo altera l’imputazione dell’adempimento dell’obbligazione di pagamento: ferma la riferibilità del ruolo di parte, nel rapporto da cui origina l’obbligazione di pagamento, rispettivamente a debitore (cliente dell’intermediario o, per semplicità, del soggetto aderente al sistema di compensazione multilaterale) e creditore, è necessariamente al primo che si dovrà pure
continuare a imputare la prestazione idonea a estinguere la medesima obbligazione – la sola prestazione integrante esatto adempimento –, non
avendo alcuna rilevanza il fatto che alla sua estinzione abbia materialmente cooperato uno dei soggetti suindicati. In altri e più semplici termini, il
rapporto obbligatorio, sorto come bilaterale, rimane bilaterale e in quanto
tale circoscritto alle sfere giuridiche del debitore e del creditore (« destinatario della prestazione »). D’altra parte, il fatto che ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 70, comma 1o, l. fall., e quindi della
configurabilità stessa dell’azione revocatoria ivi disciplinata, sia presupposto l’atto di disposizione del debitore a favore del creditore (soggetto verso il quale, appunto, la revocatoria di tale prestazione dovrà essere promossa), evidenzia l’inadeguatezza della tesi della revocatoria delle « attribuzioni indirette »: tanto dove essa ritiene che la norma in esame predisponga la disciplina del « pagamento del terzo »; quanto dove essa afferma che la stessa norma autorizza la revocatoria del pagamento a favore del
creditore-accipiens a prescindere da, e quindi anche in assenza di, ogni atto di disposizione (tipicamente, ma non solo, l’anticipo della provvista a
favore del terzo che coopera da parte del debitore (poi fallito). Del resto,
come anticipato, sono ancora attuali le puntuali critiche già tempo addietro autorevolmente formulate, proprio con riguardo ai profili appena indicati, avverso l’opzione della revocatoria delle « attribuzioni indirette »
allora, e oggi, da respingersi perché in contrasto con il complessivo ordinamento concorsuale ( 82 ).
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riguardo alle modalità operative che caratterizzano ciascun sistema, come chiaramente risulta dal ruolo e dalle funzioni svolte dalla controparte centrale. Sul punto è senz’altro il
caso di rinviare a Perrone, La riduzione del rischio di credito negli strumenti finanziari derivati. Profili giuridici, Milano 1999, in particolare, p. 58 ss.
( 82 ) Maffei Alberti, La « funzione » della revocatoria fallimentare, in Giur. comm.,
1976, I, p. 362 ss. e, in particolare, p. 375 ove si afferma che « qualsiasi atto che riguardi
esclusivamente il patrimonio di due terzi è logicamente estraneo all’ambito di operatività
dell’azione [revocatoria: nds.] ». L’A., oltre a respingere l’esempio della costituzione della
garanzia ipotecaria giudiziale come ipotesi sulla quale ricostruire la revocatoria di atti posti
in essere da terzi giacché in tal caso si tratta pur sempre di atto che ha una incidenza diretta
sul patrimonio del debitore, respinge anche la tesi secondo cui la revocatoria della prestazione eseguita dal terzo a favore del creditore dipenderebbe dalla esecuzione della prestazione diretta del debitore fallito a favore del terzo. L’A. precisa infatti che non vi è relazione giuridica tra le due prestazioni. Utilizzando l’esempio della cessione del credito, si rimarca che l’esecuzione della prestazione indiretta (da parte del creditore cedente a favore
del creditore cessionario) dipende dalla cessione del credito; e che non dipenda dalla prestazione diretta (da parte del debitore ceduto, poi fallito, a favore del creditore cessionario) è dimostrato dal fatto che quest’ultima potrebbe ben sussistere anche in assenza della
seconda (nel caso in cui ad esempio la cessione del credito fosse a titolo gratuito). Il proNLCC 6-2015
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9.1. Segue: i pagamenti « avvenuti [...] dalle società previste dalla legge 23
novembre 1939, n. 1966 ».
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Le considerazioni sinora svolte sembrano ora utilmente impiegabili al fine di rispondere ai quesiti innanzi esposti, vale a dire: a) fattispecie sottesa
dall’art. 70, comma 1o, l. fall. e b) pertinenza di tale norma al quadro giuridico funzionale alla ricostruzione della vicenda fiduciaria.
Quanto al primo pare corretto concludere nel senso che la norma concorsuale conferma l’inidoneità dei soggetti e dei contesti in corrispondenza delle (sole) ipotesi selezionate ad alterare la struttura soggettiva e oggettiva del rapporto da cui origina l’obbligazione di pagamento ( 83 ). Al tem-
blema, prosegue l’A., emerge semmai nel caso in cui il cedente è anche debitore del fallito:
questi potrà eccepire la compensazione al fallimento (tra quanto ha anticipato al terzo e
quanto deve al fallimento) nei limiti di cui all’art. 56 l. fall.; mentre il creditore potrà eccepire di esser stato pagato da un terzo. Problema la cui soluzione, proposta dalla giurisprudenza (vedi oltre in questa nota) non sta nel revocare la prestazione indiretta a seguito della compensazione, ragionando secondo l’assunto per cui il pagamento è « come se » fosse
eseguito dal debitore. Se infatti la premessa (indipendenza della prestazione diretta da
quella indiretta e impossibilità di revocare prestazioni che riguardano il, cioè incidono sul,
patrimonio di terzi) vale, come dovrebbe valere, sia per la delegazione di debito come per
la delega allo scoperto, la soluzione criticata finisce per negarla (Id., ivi, p. 376, nt. 23 ove
si precisa che « [n]è potrebbe dirsi che in questo secondo caso [delega allo scoperto: nds.]
manca il pregiudizio per la massa, che sarebbe anzi avvantaggiata dall’atto; se si accetta la
premessa secondo cui il pagamento ricevuto dal delegatario è come se provenga dal delegante, si deve concludere che il vantaggio derivante a quest’ultimo dal pagamento effettuato dal delegato non può non andare a vantaggio di un solo creditore, ma deve andare a
vantaggio dell’intera massa »). In altri termini, sono indifferenti al sistema revocatorio atti
di disposizione, come quelli incidenti solo su patrimoni di terzi, che avvantaggiano bensì
uno o più creditori ma ove tale vantaggio non si traduce in alcun pregiudizio per la massa.
Per la irrevocabilità tout court dei pagamenti del terzo nel fallimento del debitore, cfr. anche Bonfatti, Manuale di diritto fallimentare, cit., p. 195 ss. ove il pagamento del terzo è
ritenuto irrevocabile sia sulla base di quanto disposto dall’art. 56 l. fall. sia sulla base della
disciplina riservata alla revocatoria delle garanzie prestate dal terzo a favore del debitore
poi fallito: in effetti revocabili, e come tali ritenute dalla giurisprudenza, solo nel caso di
fallimento del terzo garante non già del debitore garantito. In giurisprudenza, per la tesi
secondo cui il pagamento del terzo è revocabile nel fallimento del debitore a condizione
che abbia inciso sul suo patrimonio (a seguito della rivalsa a titolo, p.es., di regresso), cfr.:
Cass. 20 dicembre 2012, n. 23652, in Mass. Giust. civ., 2012, 12, p. 1440; Cass. 7 dicembre
2012, n. 22247, in Mass. Giust. civ., 2012, 12, p. 1389; Cass. 30 luglio 2012, n. 13549, in
Mass. Giust. civ., 2012, 7-8, p. 995; Cass. 31 maggio 2012, n. 8783, in Mass. Giust. civ.,
2012, 5, p. 708; Cass. 24 febbraio 2011, n. 4553, in Mass. Giust. civ., 2011, 2, p. 299; Cass.
14 febbraio 2011, n. 3583, in Mass. Giust. civ., 2011, 2, p. 239; Cass. 22 gennaio 2009, n.
1609, in Fallimento, 2009, p. 809 ss. con nota di G. Tarzia, Realizzo del pegno e revocabilità del pagamento del terzo; Cass. 8 febbraio 2008, 3021, in Diritto e giustizia on-line, 2008;
Cass. 17 aprile 2007, n. 9143, in Fallimento, 2008, p. 559 ss. con nota di Blatti, La revocabilità dei pagamenti infragruppo e l’autonomia delle società controllate; Cass., sez. un., 12
agosto 2005, n. 16874, in Fallimento, 2005, p. 1233 ss., con nota di G. Tarzia, Pagamento
del fideiussore con accredito sul conto corrente bancario del fallito, e revocatoria fallimentare:
intervengono le sezioni unite.
( 83 ) Ma rimane criticabile la scelta di politica legislativa essendo pressoché « oscuro »
quale sia il principio che ha condotto a selezionare le ipotesi poi disciplinate come le sole
meritevoli di beneficiare dei relativi apprezzabili effetti. Indice dell’assenza, sul punto, di
chiarezza concettuale è secondo Bonfatti, Manuale di diritto fallimentare, cit., p. 304,
l’incertezza del linguaggio impiegato, anche nella Relazione di accompagnamento della noNLCC 6-2015
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po stesso, il fatto che tale indifferenza degli uni e degli altri rispetto all’atto pagamento – per ciò imputabile al solo debitore/cliente dell’intermediario, debitore/aderente al sistema di compensazione multilaterale o debitore/fiduciante – sia effetto coerente con i più generali profili, sia di
fattispecie sia di disciplina, attinenti ai modi di esercizio delle rispettive attività dei soggetti e dei contesti ivi richiamati, consente pure di rispondere
positivamente al secondo quesito. Come infatti si è potuto comprendere,
l’art. 70, comma 1o, l. fall., ove impone di dirigere l’azione revocatoria del
pagamento – eseguito tramite « intermediari » o « procedure », ovvero solo formalmente eseguito dalla società fiduciaria ma effettivamente riconducibile al fiduciante poi dichiarato insolvente – verso il creditore-accipiens, afferma certamente il principio consistente nel selezionare le sole
sfere giuridiche, e quindi i patrimoni, dei soggetti realmente incisi dall’atto di disposizione; ma è pur vero che tanto può disporre proprio perché
muove da quelle più generali ricostruzioni, altrove offerte, dell’intermediazione nei pagamenti e del fenomeno fiduciario. In questo senso, quindi, e guardando all’ipotesi che maggiormente qui interessa, la norma concorsuale rientra a pieno diritto nel quadro giuridico funzionale alla ricostruzione e qualificazione della attribuzione fiduciaria.
La configurazione nei termini ora esposti del rapporto fra ricostruzione
più generale della fattispecie fiduciaria e disciplina approntata dalla norma concorsuale autorizza pure a respingere la statuizione con la quale il
Tribunale di Milano non solo nega che l’art. 70, comma 1o, l. fall. possa
essere utilmente impiegato per giustificare l’indifferenza dei soggetti ivi
menzionati rispetto a pretese diverse dalla testuale revoca del pagamento;
ma anche ove esclude l’idoneità della norma in questione a disciplinare le
pretese azionate non dal debitore (i.e., dagli organi della procedura concorsuale aperta in suo danno) verso il creditore-accipiens bensì da quest’ultimo verso il primo. Infatti, se, come si ritiene di avere dimostrato,
l’indifferenza di soggetti e « procedure » presupposta dalla norma concorsuale ha (da un punto di vista oggettivo) portata generale non c’è ragione per circoscriverla alla sola ipotesi della (seppur testuale) revocatoria
concorsuale. E non v’è ragione di farlo neppure rispetto alle sole iniziative
proposte dal debitore verso il creditore-accipiens.
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10. La revocatoria dei pagamenti « avvenuti [...] dalle società previste dalla
legge 23 novembre 1939, n. 1966 ».
Alle conclusioni appena raggiunte non può che conformarsi la disciplina circa le modalità di promozione dell’azione revocatoria avverso il pagamento eseguito dal debitore (in seguito dichiarato insolvente) cliente dell’intermediario specializzato, aderente al sistema di compensazione multilaterale ovvero fiduciante. A tali pagamenti rimarrà applicabile la disciplivella (« la quale afferma che la nuova disciplina delle “esenzioni” mirerebbe ad evitare gli
effetti perversi “delle azioni giudiziarie conseguenti all’accertata insolvenza del destinatario (sic!) dei pagamenti”, laddove è ovvio che il riferimento va effettuato, se mai, all’insolvenza dell’autore degli stessi »).
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na di cui agli artt. 65 o 67 l. fall. senza che la loro applicazione sia giustificata da argomentazioni circa una qualche attitudine dell’art. 70, comma
1o, l. fall. a introdurre una nuova ipotesi di esenzione (a favore di intermediari, procedure di compensazione multilaterale o società fiduciarie) ( 84 ). I
soggetti indicati dall’art. 70, comma 1o, l. fall. non sono dispensati dal subire l’azione revocatoria cui, in assenza di tale norma, sarebbero stati
esposti semplicemente perché le condizioni per la sua promozione avverso tali soggetti, se si mantiene il discorso circoscritto alla complessiva operazione di estinzione del debito, sono assenti ab origine. Se si guarda a
« intermediari specializzati » e « procedure di compensazione multilaterale », le norme funzionali a garantire la stabilità degli ordini di pagamento
impartiti al prestatore del servizio (art. 17 d.lgs. n. 11/10) o immessi nel sistema (art. 2 d.lgs. n. 210/01) hanno solo la funzione, per le ragioni già illustrate, di rimarcare l’insensibilità degli intermediari e delle procedure
multilaterali di compensazione alle vicende che riguardano esclusivamente, e devono perciò coinvolgere, le parti del rapporto obbligatorio. Infatti,
queste stesse norme, rispetto alle quali l’art. 70, comma 1o, l. fall. può in
effetti dirsi complementare, non escludono la promozione dell’azione revocatoria, da parte degli organi della procedura aperta in danno al debitore, verso il creditore, effettivo destinatario della prestazione ( 85 ). Non
diversamente si deve ragionare con riguardo alle società fiduciarie: la cui
carenza di legittimazione ai fini della revocatoria non è certo l’effetto di
una qualche esenzione ma di una ben più radicale assenza di presupposti
sostanziali. Se, infatti, la deviazione con effetto verso i terzi della sola legittimazione formale rispetto all’oggetto dell’investitura a favore della so-
( 84 ) In questi termini, peraltro, già Santoro, Il diritto del sistema dei pagamenti, cit., p.
65 ss. e Il diritto dei sistemi di pagamento, cit., p. 93 ss.
( 85 ) Con riguardo ai servizi di pagamento, la revocatoria dei pagamenti sarà promuovibile verso il creditore sul presupposto che la prestazione abbia prodotto l’effetto estintivo
dell’obbligazione, effetto coincidente, nell’ipotesi in cui l’autorizzazione sia stata data dal
pagatore al proprio prestatore del servizio, con il momento del ricevimento dell’importo
da parte del prestatore del beneficiario. Sul punto è senz’altro opportuno rinviare a Sciarrone Alibrandi, L’adempimento dell’obbligazione pecuniaria, cit., p. 69 ss.; Sciarrone
Alibrandi e Dellarosa, Commento sub art. 25, in La nuova disciplina dei servizi di pagamento, cit., p. 245 ss. L’applicazione dell’art. 65 o dell’art. 67, comma 2o, l. fall. dipenderà
dalla collocazione temporale dell’effetto estintivo rispetto alla scadenza originaria dell’obbligazione, oltre che, ben inteso, rispetto alla dichiarazione di insolvenza (e fermo restando, nell’ipotesi di cui all’art. 67, comma 2o, l. fall., l’assolvimento dell’onere della prova da
parte degli organi della procedura circa la conoscenza da parte del creditore-beneficiario,
non già dell’intermediario, dello stato di insolvenza del debitore-pagatore). Nell’ipotesi in
cui l’autorizzazione sia stata impartita dal debitore-pagatore al proprio prestatore del servizio prima della dichiarazione di insolvenza senza che, entro tale momento, si sia prodotto
l’effetto estintivo sembra ragionevole ritenere applicabile l’art. 44 l. fall. In considerazione
dell’impossibilità per il prestatore del servizio di rifiutare gli ordini di pagamento (se correttamente impartiti: cfr. art. 16 d.lgs. n. 11/10) così come dell’irrevocabilità dell’ordine di
pagamento dal momento del suo ricevimento (cfr. art. 17 d.lgs. n. 11/10), l’insolvenza dichiarata in danno del debitore-pagatore subito dopo il ricevimento dell’ordine da parte del
prestatore del servizio mentre non ha l’attitudine a pregiudicare l’attività dell’intermediario non consentirà d’altra parte che l’effetto estintivo dell’obbligazione, qui ipotizzato avvenire successivamente la dichiarazione di insolvenza, sia opponibile agli organi della procedura.
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cietà fiduciaria non priva il fiduciante del ruolo e delle prerogative di debitore non può evidentemente avere l’attitudine a sottrarlo dall’imputazione dei pagamenti inerenti all’attività posta a oggetto dell’investitura
stessa ( 86 ).
È peraltro il caso di precisare che il pagamento eseguito con la cooperazione della società fiduciaria pone la delicata questione concernente la
effettiva disponibilità da parte del terzo (destinatario del pagamento)
convenuto in revocatoria delle necessarie informazioni idonee, a seconda
dei casi, a provare la propria « inscientia decoctionis » o a respingere le
allegazioni formulate dagli organi della procedura funzionali a imputargli
la « scientia decoctionis » ( 87 ). In effetti, il dibattito avente oggetto l’individuazione dell’onere probatorio in discorso – se cioè consistente nella
dimostrazione di una oggettiva insussistenza dell’insolvenza ( 88 ) ovvero
della (più agevole) ignoranza dell’insolvenza del debitore (come desunta
da indici obbiettivi) ( 89 ), nel primo caso (art. 67, comma 1o, l. fall.); e, se
consistente nella prova della conoscibilità dello stato di insolvenza del
terzo ( 90 ) ovvero (della più ardua prova, per la curatela attrice) della ef-
Attribuzione
fiduciaria
( 86 ) Per quanto la prassi seguita dalla società fiduciarie coincida con l’esecuzione di pagamenti sulla base di provvista anticipata dal fiduciante, non si possono escludere, almeno
in teoria, ipotesi in cui la società fiduciaria anticipi l’importo del pagamento nell’interesse
del fiduciante. Tuttavia, si tratterebbe di una modalità di esecuzione che non avrebbe l’attitudine a impedire, neppure in questo caso, l’imputabilità dell’adempimento al fiduciante.
Con la conseguenza che una tale ipotesi non varrebbe a dare credito alle tesi che propongono l’assimilazione dei pagamenti eseguiti con la cooperazione della società fiduciaria ai
pagamenti eseguiti dal terzo (cfr., supra, § 9 e in particolare nt. 82). Resterebbe solo da rilevare come, data la disciplina in esame, l’esecuzione del pagamento da parte della società
fiduciaria « allo scoperto » la esporrebbe a un rischio circa il recupero di quanto anticipato
del tutto irrazionale, non foss’altro perché evitabile a favore di una condotta – quella appunto coincidente, come presupposto dall’art. 70, comma 1o, l. fall., nell’esecuzione del
pagamento previa consegna della relativa provvista – che la vedrebbe immune da qualsiasi
pretesa in relazione al pagamento effettuato. Evidentemente, discorso diverso va fatto con
riguardo ai pagamenti eseguiti dal fiduciante a favore della società fiduciaria in forza di un
rapporto tra essi, ed essi soltanto, effettivamente sussistente (tipico il caso dei pagamenti
che costituiscono la remunerazione del servizio fiduciario), così come ai pagamenti effettuati a favore di qualsiasi altro soggetto terzo all’esterno dell’attribuzione fiduciaria: essi rimarranno assoggettati alla revocatoria dei pagamenti a seguito della dichiarazione dello
stato di insolvenza pronunciata in danno di chi, rispetto a tali vicende, riveste il più immediato ruolo di debitore e non già di fiduciante.
( 87 ) Ma la questione si pone pure nell’ipotesi inversa in cui è il terzo a eseguire il pagamento (con la cooperazione della società fiduciaria) a favore del fiduciante giacché quest’ultimo potrebbe ragionevolmente ignorare l’identità del primo.
( 88 ) Cass. 6 agosto 2009, n. 17998, in Fallimento, 2010, p. 621; Cass. 9 maggio 2007, n.
10629, in Fallimento, 2007, p. 1232; Cass. 18 maggio 2005, n. 10432, in Fallimento, 2006,
p. 409; App. Napoli 13 settembre 2007, in banca dati online Leggi d’Italia; App. Bologna
13 gennaio 2006, in Fallimento, p. 1337; Trib. Roma 30 marzo 2005, in Il diritto fallimentare e delle società commerciali, 2005, II, p. 1029.
( 89 ) Trib. Milano 18 aprile 2007, in Fallimento, 2007, p. 1484; Trib. Roma 7 marzo
2006, in Fallimento, 2007, p. 108. In dottrina, A. Nigro, Commento all’art. 67, in A. Nigro, M. Sandulli e Santoro (a cura di), La legge fallimentare dopo la riforma. Disposizioni generali. Fallimento, I, artt. 1-83 bis, Torino, 2010, p. 924.
( 90 ) Cfr. Trib. Modena 5 giugno 2009, come citata da Pecoraro e Rosapepe, Rassegna
di giurisprudenza. La revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2012, II, p. 524, nt. 226;
Trib. Milano 10 gennaio 2007, in Fallimento, 2007, p. 728; App. Catania 16 gennaio 2009,
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fettiva conoscenza della condizione di insolvenza del debitore, nel secondo caso ( 91 ) (art. 67, comma 2o, l. fall.) – ha, nel contesto in discorso,
massima rilevanza proprio se si considera la fisiologica « distanza » tra
terzo creditore, destinatario del pagamento, e debitore-fiduciante quale
effetto della riservatezza (della persona del fiduciante) che l’attribuzione
fiduciaria tipicamente tutela. Evidentemente, ove si optasse per le tanto
note quanto anche di recente criticate soluzioni tendenti a favorire il rimedio revocatorio ben oltre la sua acquisita natura redistributiva – che
quindi propendono per onerare il terzo della prova dell’oggettiva insussistenza della insolvenza ove si discuta della revocatoria degli atti cc.dd.
« anormali »; e per onerare il curatore della prova di una più attenuata
conoscibilità dello stato di insolvenza ove si discuta della revocatoria degli atti cc.dd. « normali » –, si finirebbe per degradare, causa la « distanza » suindicata, a ipotesi teorica ogni difesa per il terzo convenuto in revocatoria ( 92 ). Ciò, peraltro, si tradurrebbe in un esiziale sfavore per le
transazioni perfezionate con la cooperazione di una società fiduciaria
giacché su quest’ultima finirebbero per ricadere, in definitiva, i costi di
protezione contro l’elevatissimo rischio cui sarebbe esposto il terzo creditore, destinatario del pagamento. Al tempo stesso, sarebbe, qui più che
altrove, del tutto irrazionale acconsentire a soluzioni eccessivamente formaliste poiché equivarrebbe a esonerare il terzo destinatario del pagamento dalla stessa azione revocatoria – in questa prospettiva, il creditore
convenuto in revocatoria sarebbe ammesso a far valere la decisiva ignoranza della identità della persona del fiduciante come elemento assorbente la più specifica ignoranza o conoscenza dell’insolvenza.
La consapevolezza circa la necessità di individuare criteri selettivi dello
stato psicologico rilevante rispettosi degli interessi in gioco ha indotto alcuni dei sostenitori della tesi della revocatoria delle « attribuzioni indirette » a ipotizzare una soluzione nella valorizzazione della « vicinanza » della società fiduciaria al fiduciante. In questa prospettiva, si è suggerito di
imputare al terzo creditore, destinatario del pagamento, lo stato soggettivo di chi coopera nel pagamento sulla base di una interpretazione analogica dell’art. 1391 c.c. ( 93 ). Tuttavia, la soluzione ipotizzata suscita, già a
in banca dati online Leggi d’Italia; App. Bologna 13 marzo 2008, in banca dati online Leggi
d’Italia; App. Napoli 17 dicembre 2007, in Fallimento, 2008, p. 1301.
( 91 ) Cass. 4 marzo 2010, n. 5256, in banca dati dejure; Cass. 4 maggio 2009, n. 10209, in
Fallimento, 2009, p. 1477; Cass. 15 novembre 2007, n. 23638, in Fallimento, 2008, p. 517;
Cass. 2 luglio 2007, n. 14978, in Fallimento, 2007, p. 1371.
( 92 ) Sul punto pare senz’altro opportuno rinviare a Stanghellini, La nuova revocatoria
fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in Aa.Vv., Studi per Franco Di
Sabato, II, Napoli, 2009, p. 867 ss. che offre una esaustiva illustrazione delle ragioni, anche
alla luce delle modifiche apportate dalla riforma delle procedure concorsuali, per abbandonare quelle rigorose e oltremodo severe soluzioni interpretative adottate dalla giurisprudenza in materia di revocatoria fallimentare, soluzioni che hanno comportato: da un lato,
una inaccettabile divaricazione tra il concetto di insolvenza ai sensi e per gli effetti dell’art.
5, l. fall. e quella oggetto di conoscenza o ignoranza ai fini della revocatoria; dall’altro, una
altrettanto inaccettabile banalizzazione della capacità selettiva dell’elemento soggettivo nel
contesto della più generale funzione redistributiva del rimedio revocatorio, trasformandolo in un arbitrario strumento per una indiscriminata ricostituzione dell’attivo concorsuale.
( 93 ) Mangano, La revocatoria fallimentare delle attribuzioni indirette, cit., p. 195 ss. che
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tutta prima, alcune riserve: non solo e non tanto per il fatto che la norma
invocata non sembra prestarsi agevolmente all’estensione proposta, attesa
la difficoltà nel ravvisare, come si è già rilevato, nella società fiduciaria
quella dipendenza dal fiduciante che tipicamente caratterizza, invece, la
posizione del rappresentante verso il rappresentato ( 94 ); ma prima ancora
poiché, se mai, essa risulterebbe pertinente nella sola ipotesi in cui a rivestire il ruolo di debitore, poi fallito, non sia il fiduciante (come peraltro tipicamente prevede la disciplina dell’art. 70, comma 1o, l. fall.) ma il terzo,
dichiarato fallito successivamente all’esecuzione del pagamento ( 95 ).
Le considerazioni che precedono non escludono, d’altra parte, di ricercare un equo contemperamento tra i molteplici interessi in gioco, mantenendo la irrinunciabile funzione selettiva attribuita all’elemento soggettivo. Precisato il banale dato che la questione non ha ragione di porsi ove la
riservatezza del fiduciante è già esplicitamente subordinata dalla legge al
più generale interesse per la trasparenza ( 96 ), in tutti gli altri casi sembra
proficuo recuperare l’indirizzo giurisprudenziale favorevole a considerare, quale oggetto della prova dell’elemento soggettivo, una complessità di
circostanze o fatti apprezzati nella loro obbiettiva capacità di far ritenere a
una persona di ordinaria prudenza e avvedutezza che l’imprenditore si
trova in una situazione di normale esercizio dell’impresa ( 97 ). In questo
senso, pur consapevoli del fatto che tale profilo necessiterebbe di ben altro approfondimento, si potrebbe ipotizzare la possibilità per il terzo creditore, destinatario del pagamento effettuato dal debitore-fiduciante, di
Attribuzione
fiduciaria
elabora la soluzione sulla base dell’interpretazione che la giurisprudenza tedesca ha dato
del § 166 BGB che, come pure l’art. 1391 c.c., esplicitamente si riferisce alla necessità di
considerare, per gli stati psicologici rilevanti ai fini del perfezionamento della fattispecie, la
persona del rappresentante e non a quella del rappresentato.
( 94 ) Non per nulla la giurisprudenza che è disponibile ad applicare il principio espresso
dall’art. 1391 c.c. precisa altresì che è comunque alla volontà del rappresentato, convenuto
in revocatoria per avere ricevuto un pagamento dal fallito, che si dovrà tornare tutte le volte in cui era possibile anche per il terzo fallito distinguere tra elementi predeterminati dal
rappresentato e vincolanti per il rappresentante ed altri elementi riguardanti il negozio giuridico concluso dal rappresentante. In questo senso si veda Cass. 13 luglio 2007, n. 15677,
in Fallimento, 2007, p. 1481; Trib. Milano 30 aprile 2007, in Fallimento, 2008, p. 101 ss.
( 95 ) D’altra parte, l’ipotesi in cui è il terzo a figurare come il debitore che effettua il pagamento a favore del fiduciante per il « tramite » della società fiduciaria sembra, se non ci
si inganna, quella meno preoccupante giacché pare ragionevole ipotizzare che rientri proprio nelle prerogative e nella funzione della società fiduciaria la diretta assunzione delle
necessarie informazioni circa la situazione patrimoniale ed economica del terzo, ciò rispondendo alla funzione di garantire la migliore cura degli interessi del fiduciante.
( 96 ) Cfr. supra nt. 11.
( 97 ) In questo senso, si vedano le sentenze menzionate a nt. 92 e, in aggiunta, si considerino pure Cass. 18 maggio 2005, n. 10432, in Fallimento, 2006, p. 49, con nota di De
Matteis, Obbligazione restitutoria e condanna alla consegna nella revocatoria fallimentare,
e Cass. 31 ottobre 2008, n. 26331, in banca dati online Leggi d’Italia. Questo stesso orientamento predica inoltre il condivisibile principio secondo il quale, anche quando la prova
dell’elemento soggettivo è raggiunta in via presuntiva, è pur sempre necessaria una valutazione complessiva di una pluralità di fatti o circostanze obbiettivi (peraltro nel rispetto dei
canoni di cui all’art. 2729 c.c.). In questo senso, si veda Trib. Milano 13 marzo 2007, in
Fallimento, 2007, p. 1376 ove si è escluso che un bilancio con indici negativi sia sufficiente
– in assenza di altri idonei elementi presuntivi – a ritenere integrata la prova della conoscenza dello stato di insolvenza.
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assolvere il proprio onere probatorio rendendosi parte diligente nei confronti della società fiduciaria, ad essa richiedendo le informazioni funzionali a precostituirsi e quindi correttamente motivare la sua inscientia decoctionis o fondatamente respingere l’allegazione funzionale ad attribuirgli la scientia decoctionis. In questa prospettiva, dovrebbe trattarsi di informazioni che, per le modalità in cui sono comunicate e per l’oggetto, a)
non sono idonee a pregiudicare il diritto alla riservatezza e che, per il fatto
di riguardare elementi di carattere obbiettivo, b) non espongono la società
fiduciaria a responsabilità verso il terzo per i danni da questo subiti (i.e.:
originati dal successo dell’azione revocatoria promossa) a fronte di una disclosure fuorviante (perché, per esempio, frutto di una rielaborazione irragionevolmente ottimistica) ( 98 ). La integrazione della prova da parte del
creditore, destinatario della prestazione, della sua inscientia decoctionis,
così come la fondatezza della sua eccezione rispetto all’imputazione della
sua scientia decoctionis, dipenderebbero dalla diligenza impiegata nell’acquisizione delle informazioni sul debitore-fiduciante per il tramite della
società fiduciaria, non già dal modo in cui quest’ultima assolve un preesistente, ed in effetti inesistente, obbligo di comunicazione nei suoi confronti ( 99 ).
( 98 ) Pare utile rimarcare che molti dei profili idonei a influire sulla prova dell’elemento
soggettivo sono disponibili al terzo indipendentemente dal fatto che gli sia o meno nota
l’identità del fiduciante. Ed è questo il caso della « anormalità » dei pagamenti. Infatti, se
si è escluso che l’attribuzione fiduciaria possa avere a oggetto solo pagamenti si dovrà concludere che essi integreranno l’oggetto di un più articolato negozio giuridico i cui estremi
sono senz’altro noti al terzo, che allora sarà nelle condizioni per valutare se, e fino a che
punto, il pagamento riporti indici di « anomalia » rilevanti ai sensi e per gli effetti dell’art.
67, comma 2o, l. fall. Tra gli elementi che potrebbero costituire oggetto della preventiva indagine da parte del terzo, la cui disponibilità sarebbe idonea a escludere la sua scientia decoctionis o a confermare la sua inscientia decoctionis, si segnalano (oltre alla riconducibilità
del fiduciante alla categoria degli imprenditori commerciali rilevanti ai fini dell’art. 1, l.
fall.): (i) i ritardi negli adempimenti; (ii) la pubblicazione nel bollettino dei protesti; (iii) la
presenza di esecuzioni forzate, individuali o collettive; (iv) gravi perdite del capitale sociale
o gravi squilibri patrimoniali; (v) l’iscrizione di consistenti sofferenze alla Centrale dei Rischi; (vi) la riduzione consistente di linee di credito; (vii) l’aver intrapreso forme di composizione della crisi, sia giudiziali sia extra-giudiziali. Per altro verso, gli elementi appena
elencati possono bene essere comunicati da parte della società fiduciaria senza violare l’obbligo di riservatezza se è vero che essi rilevano (a eccezione dei gravi indici desumibili dal
bilancio) ai fini della prova da parte del terzo proprio in quanto assenti (ad es.: mancata
iscrizione nel registro dei protesti).
( 99 ) Si intende dire che ove la diligenza con cui il terzo acquisisce le necessarie informazioni per assolvere correttamente al proprio onere probatorio fosse censurabile egli soccomberebbe dinanzi all’iniziativa degli organi della procedura che sarebbero così ragionevolmente tutelati dinanzi a una condotta sospetta di opportunismo. Per altro verso, ove le
informazioni fornite dalla società fiduciaria fossero insufficienti o lacunose dovrebbe essere lo stesso terzo a rifiutarsi di ricevere il pagamento tale circostanza ponendolo, di fatto,
nella condizione di chi non sarebbe in grado di respingere il sospetto circa la sua conoscenza di indici decisivi in merito al dissesto del debitore.
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OVERRULING IN MATERIA PROCESSUALE
E PRINCIPIO DEL GIUSTO PROCESSO [,]
di
Silvia Turatto
(Dottore di ricerca in diritto processuale civile)
Sommario: 1. Premessa. – 2. Due considerazioni preliminari: la giurisprudenza può essere
innovativa. – 3. Segue: (senza che ciò valga ad elevarla a « fonte del diritto »). – 4. Segue:
2) l’affidamento sulla giurisprudenza consolidata è legittimo. – 5. Prima conclusione: i
giudici non possono avere possibilità ablative di posizioni giuridiche che neanche il legislatore può avere. – 6. La concessione della tutela ripristinatoria si impone ogni qual
volta una parte subisca una lesione del diritto di azione o di difesa per effetto del mutamento di giurisprudenza. – 7. Segue: (e ciò anche se questo sia frutto di un’interpretazione « evolutiva »). – 8. Il mutamento di giurisprudenza è « retrospettivo » (pur essendo
« innovativo »). – 9. Le concrete modalità di tutela della parte colpita da un mutamento
di giurisprudenza in materia processuale: la rimessione in termini e la « convalida » dell’atto irrituale. – 10. La decisione sulla scusabilità dell’errore presuppone che le parti abbiano avuto la possibilità di contraddire su tale questione. – 11. L’affidamento su di un
indirizzo giurisprudenziale consolidato (de iure condendo) potrebbe ritenersi non più tutelabile dopo un congruo termine dalla inserzione sul sito web della Cassazione del
provvedimento che ne ha operato il revirement.
Overruling in materia
processuale
1. Premessa.
Il problema relativo agli effetti del mutamento di giurisprudenza in materia processuale si è posto all’attenzione degli interpreti in seguito ad una
stagione di eccezionale fermento delle sezioni unite. A partire dal 2009 le
sezioni unite hanno infatti, in più occasioni, inaspettatamente abbandonato orientamenti consolidati nell’interpretazione di norme procedurali in
materia di lunghezza o decorrenza di termini o di forma dell’atto d’impugnazione a favore di indirizzi più rigorosi, sollecitando la dottrina e la giurisprudenza ad elaborare soluzioni in grado di « salvare » dal rigetto in rito i rimedi giurisdizionali già esperiti e ancora non decisi ( 1 ).
Mentre una legge che innovi il diritto preesistente di regola contiene infatti le norme transitorie destinate a disciplinare i rapporti in corso e, se
non le contiene, in base ai principi generali in materia (artt. 10 e 11 disp.
prel., art. 25, comma 2o, Cost., ecc.), dispone soltanto per l’avvenire, una
[,] Contributo pubblicato previo parere favorevole formulato da un componente del
Comitato per la valutazione scientifica.
( 1 ) V., ad es., Cass., sez. un., 3 settembre 2009, n. 19161, in Mass. Giust. civ., 2009, p.
1274, la quale, innovando il precedente orientamento, ha statuito che spetta al giudice civile la competenza a decidere sulle opposizioni nei confronti dei provvedimenti di liquidazione dell’onorario del difensore del soggetto ammesso al patrocinio a spese dello Stato (o
di persone ammesse al programma di protezione), ovvero dei provvedimenti sui compensi
agli ausiliari dei giudici o sulle spese di custodia di beni sottoposti a sequestro, emessi nel
corso di un procedimento penale. Per un elenco esauriente v. Verde, Mutamento di giurisprudenza e affidamento incolpevole (considerazioni sul difficile rapporto fra giudice e legge),
in Riv. dir. proc., 2012, p. 13 s.
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nuova regola giurisprudenziale – che, a dispetto dei moniti di autorevoli
studiosi ( 2 ) e della stessa Cassazione ( 3 ), può sempre intervenire anche in
Overruling in materia
processuale
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( 2 ) Cfr. Barone, Caponi, Costantino, Dalfino, Proto Pisani e Scarselli, Le Sezioni Unite e i termini di costituzione dell’opponente nei giudizi in opposizione a decreto ingiuntivo, in Foro it., 2010, I, p. 3034: « Fra le regole processuali che trapassano le epoche
giuridiche ve n’è una che si staglia al di sopra delle altre: non si cambiano le regole del processo quando esso è in corso »; Caponi, Il mutamento di giurisprudenza costante della Corte di cassazione in materia di interpretazione di norme processuali come « ius superveniens »
irretroattivo, in Foro it., 2010, V, p. 314; Proto Pisani, Un nuovo principio generale del
processo, in Foro it., 2011, I, p. 119, il quale, riprendendo un fermo convincimento di Vittorio Scialoja e di Virgilio Andrioli, ammonisce che, « ove non siano in gioco inviolabili diritti di azione o di difesa, in materia processuale la certezza è un valore superiore rispetto
alla esattezza o no della soluzione »; Costantino, Il principio di affidamento tra fluidità
delle regole e certezza del diritto, in Riv. dir. proc., 2011, p. 1074 s., per cui « sul piano processuale i valori prevalenti consistono della certezza e della uniformità della interpretazione »; Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, di nuovo propiziando la figura
dell’avvocato « internet-addicted » e pure « veggente », in Giur. cost., 2012, p. 3168: « L’affidamento delle parti su di una interpretazione giurisprudenziale consolidata di norme
processuali è valore che va preservato, quantomeno ove l’interpretazione abbia ad oggetto
norme schiettamente, diremmo “nudamente”, procedurali non innervate da valori. L’impegno profuso nella ricerca della soluzione interpretativa astrattamente più corretta si rivela qui in ultima istanza inutilmente laborioso, poiché attiene a profili procedurali che
non modificano la qualità della tutela delle parti (né sostanziale né processuale) »; v. anche
Santangeli, La tutela del legittimo affidamento sulle posizioni giurisprudenziali, tra la cristallizzazione delle decisioni e l’istituto del prospective overruling, con particolare riguardo
al precedente in materia processuale, in www.judicium.it, p. 27.
( 3 ) V. Cass., sez. un., 18 maggio 2011, n. 10864, in Foro it., 2012, I, p. 1864, note di Poli e di Consolo, la quale, investita della questione relativa al se il termine di dieci giorni
per la costituzione dell’appellante ai sensi del combinato disposto degli artt. 347 e 165
c.p.c., in caso di processo litisconsortile dal lato passivo, decorra dal dì in cui si perfeziona
(con la ricezione) la prima notificazione ad uno dei plurimi convenuti – secondo l’indirizzo
dominante – ovvero dal dì in cui si perfeziona l’ultima delle notifiche dell’atto introduttivo, ha statuito che « se la formula del segmento di legge processuale, la cui interpretazione
è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione
non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile », posto che « [s]oltanto fattori esterni alla
formula della disposizione di cui si discute – derivanti da mutamenti intervenuti nell’ambiente processuale in cui la formula continua a vivere o dall’emersione di valori prima trascurati – possono giustificare l’operazione che consiste nell’attribuire alla disposizione un
significato diverso ». In realtà, come sottolineano Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, Le Sezioni Unite aprono (ma non troppo) all’errore scusabile: funzione dichiarativa della
giurisprudenza, tutela dell’affidamento, tipi di overruling, in Corr. giur., 2011, p. 1408, « un
programmatico attaccamento al precedente non pare giustificato rispetto alla maturazione
di revirement di segno ampliativo degli spazi di tutela, che non nocciano ad alcuno »: « la
cristallizzazione pregiudiziale degli indirizzi giurisprudenziali a fronte del revirement ampliativo risulterebbe fine a sé stessa, poiché la piena ed immediata operatività dell’indirizzo
novellamente accolto in bonam partem – oltre a debitamente premiare la parte che ha combattuto per la sua affermazione – non viene in alcun modo a tradire affidamenti meritevoli
di tutela. Tali non essendo quelli di chi, dietro allo schermo dell’invocazione di una parità
di trattamento, in realtà mira o a sottrarsi ad una rinnovata verifica nel merito del fondamento della propria posizione sostanziale, o (immaginando ad es. un’innovazione giurisprudenziale di segno distensivo quanto agli spazi per deduzioni istruttorie) a limitare le
fonti di cognizione idonee a consentire al giudice di rendere una sentenza per quanto possibile “giusta” poiché aderente ai fatti, si sia verofobi o verofili poco importa ». Sulla que-
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materia processuale – nasce del tutto slegata da problematiche di diritto
intertemporale, pur venendo di fatto a rivestire, nella formazione del diritto vivente e concretamente applicato, una rilevanza non inferiore a quella
della legge. La mancata espressa disciplina del problema si ricollega al
principio generale per cui le regole di origine pretoria non vincolano formalmente i consociati, potendo essere disattese in qualunque momento,
precedente o successivo alla loro formulazione. Nel momento in cui però
si constata che le interpretazioni giurisprudenziali – in particolare quelle
della Corte di cassazione – sono decisive ai fini del riconoscimento della
situazione sostanziale dedotta in giudizio ed orientano il comportamento
degli operatori del diritto tanto quanto le regole di diritto scritto (se non
di più, soprattutto là dove la legge sia ambigua o ne venga integrato il dettato letterale), diviene però fondamentale che la questione relativa all’efficacia nel tempo delle regole giurisprudenziali trovi compiuta sistemazione, soprattutto con riguardo alle materie, in primis quella processuale, in
cui il principio tempus regit actum svolge un insostituibile ruolo di garanzia ( 4 ). Il presente lavoro si propone di analizzare questo obiettivo e di
chiarire così a quali condizioni e con quali modalità possa ricevere tutela
la parte esposta alle conseguenze negative di un overruling in materia processuale.
Per impostare correttamente la questione, sembra utile approfondire
preliminarmente due aspetti.
Overruling in materia
processuale
2. Due considerazioni preliminari: la giurisprudenza può essere innovativa.
Il primo profilo che è opportuno considerare è come sia possibile che
l’opera interpretativa del giudice risulti decisiva ai fini dell’accertamento
del contenuto del diritto. Nel nostro ordinamento infatti le norme giuridiche sono di fonte legislativa; i giudici dovrebbero solo applicarle ai casi
concreti e quindi trarre da esse la soluzione delle controversie sottoposte
al loro giudizio ( 5 ).
stione relativa ai presupposti di ammissibilità di un overruling in materia processuale v. ancora, da ultimo, Cass., sez. un., 6 novembre 2014, n. 23675 (v. amplius alla nt. 22).
( 4 ) In questi termini v. Cass. 22 marzo 2011, n. 6514 (in Foro it., 2011, I, p. 1039, con
nota di richiami di Costantino; in Giusto proc. civ., 2011, p. 441 ss., con nota di Trisorio Liuzzi), che ha rimesso alle sezioni unite la questione relativa al dimezzamento dei
termini di costituzione per l’opponente nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo,
quale prefigurato da Cass., sez. un., 9 settembre 2010, n. 19246 (in Foro it., 2010, I, p.
3014 ss., con nota di Barone, Caponi, Costantino, Dalfino, Proto Pisani e Scarselli; in Riv. dir. proc., 2011, p. 210 ss., con nota di Ruggeri; in Corr. giur., 2010, p. 1447 ss.,
con nota di Tedoldi).
( 5 ) Nei paesi anglosassoni, retti dal sistema di common law, tradizionalmente il giudice
invece crea, egli stesso, la norma secondo la quale risolvere il conflitto; mentre assume carattere eccezionale (anche se, in progresso di tempo, importanza crescente) la legge che
precostituisce norme generali e astratte. L’esigenza di tutelare l’affidamento del cittadino
sugli indirizzi giurisprudenziali consolidati è da sempre avvertita però anche in questi paesi (ove anzi costituisce materia tradizionale di dibattito), giacché, in virtù del principio, ivi
vigente, dello stare decisis, ossia del precedente giudiziario vincolante, la norma creata dal
giudice finisce con l’assumere, per i giudici che successivamente affronteranno casi analoNLCC 6-2015
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Overruling in materia
processuale
Saggi e approfondimenti
Ebbene, per quanto si provi a tenere distinto il momento della posizione
della norma da quello della sua applicazione, assoggettando il giudice alla
legge (art. 101, comma 2o, Cost.), non è possibile elidere le componenti
innovative dell’attività giurisdizionale e relegarla a mero atto di invenzione
in senso etimologico, ossia di scoperta di contenuti preesistenti nella formula normativa.
Da tempo è stato sfatato il mito rassicurante della riconducibilità del ragionamento posto in essere dal giudice ai fini della decisione entro gli
schemi lineari e stringenti della sussunzione e del sillogismo tra una premessa maggiore (la decifrazione del contenuto normativo della disposizione) e una premessa minore (la descrizione del fatto). L’analogia legis e
l’analogia iuris soddisfano solo nominalmente il principio, proprio dei sistemi di civil law, della completezza dell’ordinamento giuridico, giacché il
giudice è chiamato a colmare le inevitabili lacune attraverso operazioni
quasi mai meccaniche e interamente logiche, ma intrise di scelte di valore ( 6 ). Studi approfonditi hanno dimostrato inoltre, in un primo momento, che per ogni regola, attorno ad un hard core di settled meaning, sussiste
sempre una « zona di penombra » in cui l’applicazione è incerta ( 7 ); nonché, in una fase successiva, che anche per quel nucleo centrale di significato assodato e non controverso può sempre presentarsi una situazione
reale che ne metta in crisi la determinatezza semantica, rendendo imprescindibile risalire all’intendimento della ratio della regola per la decisione
del caso ( 8 ). Non vi è quindi alcuno spazio in cui i processi mentali dell’interprete siano riconducibili alla forma elementare dell’applicazione meccanica della regola al fatto secondo tappe squisitamente logiche ( 9 ).
ghi e quindi per tutti i consociati, lo stesso valore di una norma generale ed astratta. Nella
nostra letteratura questo sistema si trova descritto, ad esempio, in Criscuoli, Introduzione allo studio del diritto inglese. Le fonti, Milano, 1981; De Franchis, Dizionario giuridico
inglese-italiano, Milano, 1984.
( 6 ) Cfr. Lombardi, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, p. 245 s., il quale
sottolinea come il fatto che l’analogia legis e l’analogia iuris soddisfino solo nominalmente
il dogma della completezza dell’ordinamento giuridico (cfr. Conte, Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, Torino, 1962, p. 111: « giacché non necessariamente tutti i
comportamenti inqualificati sono analoghi a comportamenti qualificati ») provochi un
« immancabile momento giurisprudenziale del diritto, cioè una fase di lavorazione inventiva da parte della giurisprudenza », anche « all’interno di un ordinamento legale tendente
o pretendente alla completezza, qual è la nostra legislazione codificata », nel quale sussiste
un largo spazio vuoto che l’interprete è chiamato a colmare con mezzi propri.
( 7 ) H.L.A. Hart, Essays in Jurisprudence and Philosophy, Oxford, 1983, p. 64.
( 8 ) Si pensi al noto esempio di L. Fuller, Positivism and Fidelity to Law – A Reply to
Professor Hart, in Harvard Law Rev., 1957-1958, p. 661 ss. (che riprende criticamente
quello di H.L.A. Hart, op. cit., p. 63) relativo ad un’immaginaria norma che vieti di introdurre veicoli nel parco: pur dinanzi al chiaro significato linguistico del termine « veicolo »,
sarebbe comunque necessario risalire alla ratio del divieto per decidere se essa consenta la
collocazione di un automezzo della seconda guerra mondiale per edificare un monumento
ai caduti. Sulla disputa, v. Tedeschi, L’insufficienza della norma e la fedeltà dell’interprete
(Riflessioni sul pensiero di Tullio Ascarelli), in Riv. dir. civ., 1962, I, p. 542.
( 9 ) In proposito v. Sorrenti, La tutela dell’affidamento leso da un overruling processuale corre sul filo della distinzione tra natura creativa e natura dichiarativa della giurisprudenza, in www.associazionedeicostituzionalisti.it (31 gennaio 2012), p. 7. Come osserva l’Autrice, « Ogni interprete al cospetto del testo lo “interroga” in base alle categorie di senso e di
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3. Segue: (senza che ciò valga ad elevarla a « fonte del diritto »).
Il coefficiente di innovatività dell’opera della giurisprudenza dovrebbe
costituire dunque un’acquisizione non più contestabile nella cultura giuridica contemporanea ( 10 ); esso però è ancora disconosciuto dalla S.C., che
ancora ripropone l’idea dell’interpretazione come mero atto di accertamento ( 11 ).
Invero le sezioni unite, nella celebre sent. n. 15144 del 2011, per spiegare come si possa realizzare un mutamento di giurisprudenza, ammettono
chiaramente che ogni proposizione normativa è suscettibile di assumere
più significati ( 12 ); tuttavia, ritenendo che riconoscere la componente in-
Overruling in materia
processuale
valore di cui è dotato, che gli forniscono vere e proprie anticipazioni di senso da cui muovere. L’attività interpretativa come processo binario che procede dalla disposizione alla
norma si converte nel più aggiornato circolo ermeneutico che include al suo interno lo
stesso soggetto interpretante ». Sulla non contraddittorietà del carattere creativo dell’ermeneutica con la subordinazione alla legge dell’interprete – di ogni interprete, e soprattutto del giudice che sentenzia –, essendo tale carattere esercizio di congenialità, non già di
libera inventiva, v. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile. Volume I. Le tutele
(di merito, sommarie ed esecutive) e il rapporto giuridico processuale, Torino, 2014, p. 9.
( 10 ) Sull’apporto « creativo » della giurisprudenza v., a titolo puramente esemplificativo: Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1401: « (...) l’interpretazione prescelta dai giudici finisce con l’assumere, essa stessa, la funzione di una norma di diritto,
creata giudizialmente entro i limiti di compatibilità con la norma di legge (zona grigia) »;
Sorrenti, op. cit., p. 6 ss., la quale osserva come la distinzione fra atti-fonte e atti di applicazione giurisdizionale non sottenda una identificazione rigida ed esclusiva tra i primi e
gli atti di creazione del diritto, da una parte, e i secondi e gli atti di accertamento, dall’altra
(e ricorda come gli studi più avanzati rivelino semmai la preoccupazione di evitare pur
sempre possibili derive teoriche di diritto libero). Del resto già Jeremy Bentham definiva
l’assunto secondo cui i giudici non creano diritto una « childish fiction » (sulla citazione v.
Bigiavi, Appunti sul diritto giudiziario, Padova, 1989, p. 136).
( 11 ) V., per tutte, Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, in Corr. giur., 2011, p. 1392
ss., con nota di Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro; in Riv. dir. proc., 2012, p. 1073
ss., nota Vanz; più di recente, ancora, Cass., sez. un., 20 giugno 2012, n. 10143: « [S]ul
piano del sindacato di legittimità, in particolare di questa Corte, è possibile non di meno
ipotizzare che l’interpretazione di una disposizione muti nel tempo in ragione del diverso
contesto normativo in cui si innesta e che quindi ci sia parimenti una modulazione diacronica del suo significato precettivo senza che ciò smentisca la natura meramente dichiarativa dell’interpretazione della legge fatta dalla giurisprudenza ».
( 12 ) V. in particolare il punto 2.3, lett. b) e c), della sentenza.
La norma applicata non coincide notoriamente con il testo appunto perché (pur non potendo prescinderne del tutto) è il risultato della selezione tra più alternative ermeneutiche.
Per il rilievo che le norme generali ed astratte che il giudice è chiamato ad applicare sono
sempre suscettibili di più interpretazioni, tutte compatibili con il dettato normativo, v. già
Kelsen, La dottrina pura del diritto, trad. it. della seconda edizione tedesca del 1960 di
M.G. Losano, Torino, 1966, p. 384 (l’interpretazione della legge non deve necessariamente condurre ad un’unica decisione da ritenersi la sola esatta, bensì a varie decisioni, che
hanno tutte egual valore, in quanto corrispondono alla norma da applicarsi). La distinzione fra atto (disposizione) e norma e fra attività propriamente normativa, consistente nella
creazione delle disposizioni, intese come proposizioni normative (Rechtssatz, enunciato
linguistico, statuizione o frammento di testo esprimente una proposizione normativa) e attività interpretativa, che si risolve nell’enucleazione da queste delle norme, intese come risultato del processo interpretativo delle disposizioni, è stata proposta in Italia da Crisafulli, voce Atto normativo, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 258; Id., voce Disposizione (e
norma), in Enc. dir., XIII, Milano, 1964, p. 195 s; Id., Lezioni di diritto costituzionale, II, 1:
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Overruling in materia
processuale
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novativa dell’attività giurisdizionale equivalga ad elevare i singoli arresti a
« fonte del diritto » (e così a sovvertire il principio della separazione dei
poteri, nucleo qualificante dello Stato di diritto), fingono che questi siano
già racchiusi nel testo e solo « disvelati » dal giudice ( 13 ).
Come si è visto però questo modo di ragionare non può essere condiviso.
La decisione di un caso concreto sottende sempre infatti un’attribuzione
di significato che non è mai coartata dal significante letterale, per sua natura mai univoco ( 14 ) – come conferma del resto il fatto che oggetto del vaglio di costituzionalità non sono le norme in sé stesse, ma come esse sono
interpretate dalle Corti di vertice (c.d. diritto vivente) ( 15 ) –. Riconoscere
questa circostanza non vale però ad includere la giurisprudenza fra le
« fonti del diritto »: la creazione di senso decisorio da parte dei giudici deve essere congeniale con il « progetto normativo » ed è quindi qualitativamente diversa da qualunque atto di normazione ( 16 ); e le regulae iuris che
L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti), Padova, 1970-1976, p. 38 s. In teoria generale del diritto, specialmente quella di derivazione analitica, vengono impiegati locuzioni e
vocaboli diversi, ma equivalenti: v. Tarello, Studi sulla teoria generale dei precetti, Milano, 1968, p. 199 s.; Id., L’interpretazione della legge, I, 2, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano,
1980, che distingue tra documenti legislativi, enunciati (cioè minime unità linguistiche
portatrici di significato completo) normativi e norme.
( 13 ) V. in particolare il punto 2.3, lett. f), della sentenza.
( 14 ) Sul punto v. Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1404 ss., i quali
sottolineano che i termini impiegati nelle disposizioni di legge – che sono vaghi e generali
(« elastici »), insufficienti a considerare tutti gli elementi caratteristici della fattispecie concreta come si presenta nell’esperienza – spesso non riescono da soli ad assumere un significato univoco e, per essere usati utilmente, devono venire « specificati », e che la « specificazione » non può mai avvenire mediante un accertamento, bensì solo attraverso una determinazione di significato, evidenziando così che la pretesa delle sezioni unite di attribuire ad una sentenza un carattere di mero accertamento del significato insito in una disposizione di legge si rivela come una posizione destituita di qualunque senso. È significativo
del resto che l’art. 65 ord. giud., nell’attribuire alla Corte di cassazione, che è l’organo al
quale ogni controversia può essere portata e che si presume confermerà la soluzione già
data, la funzione di assicurare « l’esatta osservanza e l’uniforme applicazione della legge »,
oltre che « l’unità del diritto oggettivo nazionale », ammette che non basta la sottoposizione del giudice alla legge per assicurare uniformità di decisioni, quale garanzia della loro
prevedibilità e dell’uguale trattamento giudiziario dei cittadini.
Va osservato comunque che, in molti recenti casi di overruling in materia processuale, il
fatto che l’interprete si sia trovato a scegliere fra varie possibilità ermeneutiche non conseguiva alla ineliminabile plurivocità del significante, ma a scadenti modalità di redazione
della norma, se non a vere e proprie lacune nella disciplina degli istituti. L’attuale tendenza
del legislatore ad adottare testi di legge ambigui o contraddittori non fa che aumentare la
possibilità che vi siano poco auspicabili mutamenti di giurisprudenza (o contrasti giurisprudenziali).
( 15 ) Come noto, infatti, non solo la Corte costituzionale (a partire da Corte cost. n. 276
del 1974) pronuncia l’incostituzionalità della norma legislativa per come applicata dalla
S.C., ma anche la Corte di Strasburgo assume il diritto vivente quale termine di riferimento
per la valutazione di ammissibilità – a fronte della garanzia della certezza del diritto sottesa
all’art. 6 Cedu – degli interventi di interpretazione autentica del legislatore diretti ad incidere sui processi in corso. In proposito v. infra il par. 5.
( 16 ) Questo carattere di necessaria congenialità e quindi di fondamentale vincolatezza
proprio del formante giudiziario (così come di qualunque interpretazione) è sottolineato
in particolare da Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit., p. 3170, che altresì ricorda come sia sufficiente accostarsi alle riflessioni di Bülow, Legge e giurisdizione,
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possono essere ricavate dalle decisioni giudiziarie, ai fini di una loro possibile invocazione in casi analoghi, sono sempre suscettibili di essere disattese in qualunque momento da qualsiasi giudice della Repubblica ( 17 ): anche
quelle desumibili dalle decisioni dell’organo della nomofilachia, come ricordato di recente dalla Consulta nell’intento di escludere che l’overruling
giurisprudenziale favorevole alla parte la cui condanna è già passata in giudicato possa assurgere a ragione di revocazione della sentenza penale ( 18 ).
Inoltre il ragionamento condotto dalle sezioni unite nella sent. n. 15144
del 2011 appare manchevole anche sotto un altro profilo. Nel descrivere i
fattori che possono determinare il rovesciamento di un orientamento giurisprudenziale, le sezioni unite menzionano solo eventi riconducibili a
cambiamenti in ambito sociale o legislativo ( 19 ). Tuttavia, come si è ricordato ( 20 ), il mutamento degli indirizzi interpretativi dominanti non è solo
Overruling in materia
processuale
sull’ufficio del giudice e il diritto, della seconda metà del XIX secolo (di recente ripubblicate in Giusto proc. civ., 2011, p. 1269 ss.) per farsi convinti dell’impossibilità di sovrapporre funzione legislativa e funzione giurisdizionale; v. anche Cavalla, Consolo e M. De
Cristofaro, op. cit., p. 1399: unicamente il potere legislativo « è “libero nel fine” al momento della posizione della norma, salvo solo restando l’obbligo di rispetto dei superiori
principi costituzionali e sovranazionali », mentre « la soggezione alla legge implica (...) che
la giurisprudenza, quando viene ad individuare nel tempo il contenuto della norma, si
muove necessariamente “entro il limite dei significati resi possibili dalla plurivocità del significante testuale” ».
( 17 ) Per il rilievo che il precedente giudiziario non è fonte del diritto (ma – per dirla con
Sacco, La comparazione giuridica, in Gambaro e Sacco (a cura di), Sistemi giuridici comparati, in Tratt. Sacco, Torino, 2002, spec. p. 6 ss. – « formante » della regola con dei caratteri del tutto peculiari), essendo sempre suscettibile di essere successivamente disatteso, v.,
in particolare, Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit., p. 3170. In senso
contrario, Caponi, Il mutamento di giurisprudenza costante, cit., p. 313 s., riprendendo la
tesi di Pizzorusso secondo cui l’efficacia delle fonti del diritto consisterebbe « in una pressione sui destinatari delle norme, affinché ne osservino il comando », la quale le renderebbe più o meno strettamente « vincolanti »: quando il vincolo è più tenue, si parlerebbe di
efficacia « persuasiva » delle norme (Pizzorusso, Delle fonti del diritto, in Commentario
Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 2011, p. 723 ss., spec. p. 724). Come rilevano tuttavia Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1401, lo stesso Pizzorusso sottolinea
che la giurisprudenza è solo « fonte-fatto », che induce a modelli di comportamento ricavati sulla base di un dato grezzo la cui sintesi in massime è sempre suscettibile di verifica o
contestazione (Pizzorusso, op. cit., p. 173). Peraltro, anche in giurisprudenza non mancano prese di posizione a favore dell’inclusione della giurisprudenza fra le « fonti del diritto »: v., in particolare, Cass. 11 maggio 2009, n. 10741, in Foro it., 2010, I, p. 141 ss. (spec.
p. 146 s.), con nota critica di Di Ciommo.
( 18 ) V. Corte cost. 12 ottobre 2012, n. 230, in Giur. cost., 2012, p. 3440 ss., con nota di
Rescigno: « L’orientamento espresso dalla decisione delle Sezioni Unite “aspira” indubbiamente ad acquisire stabilità e generale seguito, ma si tratta di connotati solo “tendenziali”, in quanto basati su una efficacia non cogente, ma di tipo essenzialmente “persuasivo”. Con la conseguenza che, a differenza della legge abrogativa e della declaratoria di illegittimità costituzionale, la nuova decisione dell’organo della nomofilachia resta potenzialmente suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo e da qualunque giudice della
Repubblica, sia pure con l’onere di adeguata motivazione; mentre le stesse Sezioni Unite
possono trovarsi a dover rivedere le loro posizioni, anche su impulso delle sezioni singole,
come in più occasioni è in fatto accaduto ».
( 19 ) V. il punto 2.3, lett. c), della sentenza.
( 20 ) E come peraltro finiscono per riconoscere implicitamente anche le sezioni unite,
laddove affermano che un overruling possa conseguire ad un’interpretazione « correttiva »: v. infra al par. 7.
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Overruling in materia
processuale
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il portato della dinamica giuridica legata alla trasformazione degli interessi
e al sopraggiungere di nuovi atti normativi (aspetto diacronico), ma anche
il risultato di un ineliminabile e non occultabile momento di scelta dell’interprete tra più norme, più o meno plausibili (aspetto sincronico). Il significato « storico » con cui il testo « vive » nelle aule giudiziarie è sempre
frutto di una scelta tra varie possibilità ermeneutiche, essendo una delle
tante soluzioni alternative che il potenziale semantico del testo e diversi
inquadramenti di senso e di valore o il ricorso a distinti argomenti consentono ( 21 ).
Non ha dunque senso negare la componente innovativa dell’attività giurisdizionale e, anzi, è di importanza fondamentale che di tale componente
la giurisprudenza abbia piena coscienza (in questo senso v. Cass., sez. un.,
6 novembre 2014, n. 23675 ( 22 )); e ciò non soltanto in funzione dell’esigenza di soddisfare i criteri di controllabilità del ragionamento giuridico ( 23 ), ma anche al fine di evitare soluzioni palesemente inique ( 24 ).
( 21 ) Per questi rilievi, v. Sorrenti, op. cit., p. 9 ss.
( 22 ) Con tale pronuncia le sezioni unite hanno confermato la soluzione, recentemente
propugnata con la sent. 19 aprile 2013, n. 9535, secondo cui, nei procedimenti introdotti
con citazione, ai fini della prevenzione, la lite si considera pendente nel momento in cui la
notificazione si perfeziona nei confronti del destinatario, e non in quello anteriore della richiesta della notifica all’ufficiale giudiziario, muovendo proprio dal riconoscimento che la
« funzione di aggiornamento, adattamento e adeguamento delle norme » svolta dalla giurisprudenza può « presentare profili innovativi, quindi (nei limiti e nei termini dell’adeguamento suddetto) in certa misura “creativi” ». In particolare, secondo quanto affermato
dalle sezioni unite in tale pronuncia, in virtù del fatto che l’overruling in materia processuale tradisce l’affidamento dei cittadini in ordine alla portata delle « regole del gioco »,
incide sulla ragionevole durata dei processi, imponendo un ulteriore sforzo ermeneutico
alla Corte, e infine inflaziona l’intervento nomofilattico, depotenziandone la funzione, per
potersi procedere ad un revirement giurisprudenziale in ambito processuale non sarebbe
sufficiente che l’interpretazione precedente sia, in ipotesi, ritenuta « meno plausibile o meno condivisibile (...) sul piano letterale, logico e/o sistematico », ma sarebbe necessario che
essa « risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa e/o comunque dia luogo (eventualmente anche a seguito di mutamenti intervenuti nella legislazione o nella società) a risultati
disfunzionali, irrazionali o “ingiusti” ».
( 23 ) Sorrenti, op. cit., p. 9 s., rileva che, poiché le recenti elaborazioni sul ragionamento giuridico, lungi dal costituire un’alternativa metodologica all’impostazione tradizionale,
descrivono dati ontologici relativi alle condizioni della conoscenza, una concezione interpretativa più avvertita da parte della nostra giurisprudenza costituirebbe la migliore garanzia dell’oggettività dei processi ermeneutici; cfr. anche Calzolaio, Mutamento giurisprudenziale e overruling, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, p. 917, che rileva come, da noi, il
giudice crei diritto, muovendo però dall’assunto che non lo sta facendo, de-responsabilizzando così all’origine la propria condotta. Agli studi sul metodo degli operatori giuridici
oggi si chiede di fornire le condizioni di correttezza e di verificabilità del discorso giuridico, capaci di fondare « l’accettabilità razionale » dei suoi esiti (in proposito, v. Bongiovanni, Teorie costituzionalistiche del diritto. Morale, diritto e interpretazione in R. Alexy e
R. Dworkin, Bologna, 2000, p. 190). Tali condizioni possono consistere, ad esempio, nell’esigere la massima apertura del discorso giuridico a tutte le « ragioni » che in esso sono
coinvolte e nell’ammettere queste ad un confronto paritario e razionale; il che tende ad alimentare teorie del diritto che, per la loro neutralità rispetto alla bontà sostanziale degli argomenti spesi, sono prevalentemente ispirate ad un « concetto forte di razionalità procedurale » (v. Habermans, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della
democrazia, a cura di Ceppa, Napoli, 1996, p. 268).
( 24 ) La Corte costituzionale, con la già ricordata sent. n. 230 del 2012, ha ritenuto non
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manifestamente irrazionale ai sensi dell’art. 3 Cost. il fatto che il legislatore ometta di prevedere, quale motivo di revoca delle condanne definitive ex art. 673 c.p.p., la circostanza
che queste siano state pronunciate in relazione a fatti che, alla stregua di una sopravvenuta
decisione dell’organo della nomofilachia (recte, delle sezioni unite), non sono previsti dalla
legge come reato, pur se ciò comporta che autori di fatti analoghi ricevano trattamenti radicalmente differenziati, affermando: a) che, « al fine di porre nel nulla ciò che di per sé
dovrebbe rimanere intangibile », ossia il giudicato, il legislatore esigerebbe, non irragionevolmente, una vicenda modificativa che determini la caduta della rilevanza penale di una
determinata condotta con connotati di generale vincolatività e di intrinseca stabilità (salvo,
nel caso di legge abrogatrice, un eventuale nuovo intervento legislativo di segno ripristinatorio), connotati che l’adozione di una nuova regola giurisprudenziale ad opera delle sezioni unite, di contro, non possiede (punti 9-10); e b) che il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo atterrebbe – anche in base alla relativa disciplina codicistica
(art. 2, commi 2o, 3o e 4o, c.p.) – alla sola successione di « leggi », sì che, per poterlo estendere anche ai mutamenti giurisprudenziali, bisognerebbe « poter dimostrare (...) che la
consecutio tra due contrastanti linee interpretative giurisprudenziali equivalga ad un atto di
produzione normativa »: ad una simile equazione si opporrebbe non solo « la considerazione (...) attinente al difetto di vincolatività di un semplice orientamento giurisprudenziale, ancorché avallato da una pronuncia delle Sezioni Unite », ma anche, e prima ancora –
« in uno alla (...) riserva di legge in materia penale » di cui all’art. 25, comma 2o, Cost. – « il
principio di separazione dei poteri, specificamente riflesso nel precetto (art. 101, comma
2o, Cost.) che vuole il giudice soggetto (soltanto) alla legge » (punti 11-13).
Il ragionamento svolto dalla Corte non pare però persuasivo. Per quanto riguarda le affermazioni sub b), è un fatto che l’attività giurisdizionale possa « innovare » l’ordinamento
giuridico, come riprova il fatto stesso che una certa condotta possa costituire reato o meno
a seconda dell’interpretazione accolta dalle sezioni unite (o anche semplicemente dal giudice adito); ma, come si è visto, riconoscere questo carattere dell’attività giurisdizionale
non equivale a consegnare « al giudice, organo designato all’esercizio della funzione giurisdizionale », « una funzione legislativa, in radicale contrasto con i profili fondamentali dell’ordinamento costituzionale » – in questo senso v. invece la Consulta –, perché, come si è
osservato, la creazione di senso decisorio da parte dei giudici deve essere congeniale con il
progetto normativo ed è quindi qualitativamente diversa da qualunque atto di normazione. In ordine ai rilievi sub a), il fatto che l’interpretazione accolta dalle sezioni unite non
abbia i connotati di « generale vincolatività » e di « intrinseca stabilità » non fa venir meno
l’esigenza che una sopravvenuta decisione delle sezioni unite possa costituire motivo di revoca delle sentenze penali di condanna: con riguardo al primo profilo, se è vero che i giudici di merito sono liberi di non condividere l’interpretazione accolta dalle sezioni unite, è
altrettanto vero però (ed è questo l’unico aspetto che conta ai fini della questione de qua)
che, ove questo accada – al di là del fatto che essi non possono comunque condannare
l’imputato se il giudizio verte su un fatto commesso dopo la decisione delle sezioni unite,
stante l’affidamento da questa ingenerato nei consociati, in forza dell’estensione del principio di irretroattività anche alla nuova interpretazione sfavorevole della norma penale
sancita dalla Corte di Strasburgo (come riconosciuto dalla stessa Consulta: v. il punto 10)
–, l’imputato può sempre rivolgersi in ultima istanza alla Corte di cassazione, la quale, qualora non condivida a sua volta detta interpretazione, deve rimettere la decisione del ricorso
alle sezioni unite (sebbene l’art. 618 c.p.p. continui a prevedere che le sezioni semplici possono rimettere il ricorso alle sezioni unite se rilevano che la questione di diritto sottoposta
al loro esame può dar luogo ad un contrasto giurisprudenziale, deve ritenersi infatti, anche
alla luce del novellato art. 374, comma 3o, c.p.c., che queste abbiano un vero e proprio dovere in tal senso); con riguardo al secondo aspetto, va sottolineato che anche il legislatore
può reintrodurre una fattispecie incriminatrice precedentemente abrogata, ma questa
eventualità – per vero fisiologica al pari di quella che si verifichi un mutamento di giurisprudenza delle sezioni unite – non impedisce che l’abrogazione della norma incriminatrice sia motivo di revoca della sentenza penale di condanna. Una simile eventualità – e così il
rischio che sia dichiarata la non punibilità di soggetti che, in base ad una valutazione a po-
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4. Segue: 2) l’affidamento sulla giurisprudenza consolidata è legittimo.
Il secondo aspetto su cui occorre soffermarsi è se sia effettivamente legittimo riporre affidamento su di un’interpretazione giurisprudenziale.
Nel nostro ordinamento infatti – a differenza che in altri ordinamenti, anche di civil law ( 25 ) – i precedenti giudiziari non sono vincolanti ( 26 ), sì che
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steriori, avrebbero meritato di continuare a scontare la pena – appare accettabile sulla base
della considerazione che la legge, come si legge in altro passaggio della motivazione, promana dalla « istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica », ovvero dal « Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale, il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione ». Ove si consideri che, da un lato, sta al legislatore ridurre la possibilità che la legge si presti ad interpretazioni diverse ad opera della giurisprudenza con testi di legge chiari e non
contraddittori fra loro e, dall’altro lato, che entro certi limiti è inevitabile che anche l’applicazione delle norme penali richieda un apporto « creativo » da parte del giudice, cadono tutte le remore all’annoverare, fra le ragioni di revoca della sentenza penale, il mutamento di giurisprudenza favorevole alla parte la cui condanna è passata in giudicato.
D’altronde, il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo trova fondamento nell’esigenza che nessuno sconti una pena per un fatto che, alla luce di una mutata
valutazione del suo disvalore, non costituisce più reato. Ebbene, la rilevanza penale di una
determinata condotta può venir meno non solo in conseguenza dell’abrogazione della norma incriminatrice, ma anche a seguito dell’adozione di una nuova interpretazione ad opera
delle sezioni unite. Ragioni di giustizia sostanziale impongono quindi che sia possibile ottenere la revoca delle condanne definitive pronunciate in relazione a fatti che non sono più
previsti dalla legge come reato alla stregua di una sopravvenuta decisione di questo organo
(e, anzi, chi fa mostra di credere che solo il legislatore possa incidere sul preesistente ordine
normativo dovrebbe ritenere maggiormente intollerabile che continui ad essere punibile un
soggetto che ha commesso un fatto che, nel momento in cui è stato commesso, non era vietato dalla legge, ma solo da una certa interpretazione giurisprudenziale, successivamente
superata, piuttosto che un soggetto che ha commesso un fatto che, nel momento in cui è
stato commesso, era vietato dalla legge... In realtà, come si è visto, anche i fatti che sembrano vietati « dalla legge » sono vietati in virtù di una certa interpretazione della legge).
( 25 ) In alcuni ordinamenti di civil law, è riconosciuto valore di precedente vincolante alle decisioni dei più alti consessi giudiziari: così, in particolare, in Spagna la ley de enjuiciamiento civil permette il ricorso per cassazione, oltre che per violazione della legge, anche
per violazione della doctrina admitida por la jurisprudencia de los tribunales (che altro non
è, in ultima analisi, se non la giurisprudenza della Cassazione). La regola spagnola è seguita
dal código procesal civil y commercial argentino, nonché dal diritto messicano, per il quale
cinque successive sentenze conformi della Corte Suprema conferiscono al principio di diritto accolto valore di precedente vincolante; in Portogallo era stato introdotto l’assento
per realizzare, con le decisioni della Corte Suprema, l’uniforme interpretazione delle leggi
(e, in anni più recenti, sono stati previsti altri strumenti che hanno la funzione di evitare
contrasti di giurisprudenza e di uniformare la giurisprudenza); l’ordinamento brasiliano
prevede che la Corte costituzionale possa, dopo ripetute decisioni in materia costituzionale, approvare una sùmula che, a partire dalla sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, avrà
effetto vincolante in relazione agli altri organi del potere giudiziario e dell’amministrazione
politica. In arg. v. Galgano (a cura di), Atlante di diritto privato comparato, Bologna,
2011, p. 31; Punzi, Il ruolo della giurisprudenza e i mutamenti d’interpretazione di norme
processuali, in Riv. dir. proc., 2011, p. 1352 s.
( 26 ) Peraltro, come si accennava retro alla nt. 5, anche nei sistemi quali quello inglese e
quello statunitense, in cui i giudici hanno il dovere di seguire i precedenti propri (stare decisis in senso orizzontale) e quelli dei giudici di grado superiore (stare decisis in senso verticale), può porsi l’esigenza di tutelare l’affidamento del cittadino sugli indirizzi giurispru-
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è sempre possibile che l’esegesi accolta da un giudice venga successivamente disattesa da un altro o anche dal medesimo giudice, consolidata o
meno che sia ( 27 ).
Orbene a questo riguardo va osservato innanzitutto che, benché non vi
sia alcun obbligo per i giudici di seguire i precedenti propri o dei giudici
di grado superiore ( 28 ), qualora in passato un giudice abbia accolto una
certa interpretazione, per diverse ragioni risulta comunque probabile che
in futuro la stessa interpretazione sia accolta da altri giudici ( 29 ) (e peraltro
denziali consolidati, posto che la corte di vertice è libera di mutare orientamento. V. Calzolaio, op. cit., p. 906 ss.; Mandelli, Recenti sviluppi dello stare decisis in Inghilterra e in
America, in Riv. dir. proc., 1979, p. 660 ss.
( 27 ) Come riconosce la Corte di cassazione, « l’attività interpretativa delle norme giuridiche compiuta da un giudice, in quanto consustanziale allo stesso esercizio della funzione
giurisdizionale, non p[uò] mai costituire un limite alla attività esegetica esercitata da un altro giudice », giacché « il principio dello “stare decisis” (cioè del precedente giudiziario
vincolante) (...) non trova riconoscimento nell’attuale ordinamento processuale » (v. Cass.
21 ottobre 2013, n. 23722 e n. 23723; Cass. 30 ottobre 2013, n. 24438 e n. 24439; Cass. 9
gennaio 2015, n. 174). È opportuno ricordare comunque che il giudice di merito, secondo
la S.C., per quanto « libero di non adeguarsi all’opinione espressa da altri giudici », ivi
compresa la Corte di cassazione, ha pur tuttavia l’obbligo di « addurre ragioni congrue,
convincenti a contestare e a far venire meno l’attendibilità dell’indirizzo interpretativo rifiutato » (v. ex multis, Cass. 3 dicembre 1983, n. 7248; cfr. anche Cass. 13 maggio 2003, n.
7355, Cass. 15 ottobre 2007, n. 21533, Cass., sez. un., 31 luglio 2012, n. 13620, in Riv. arb.,
2012, p. 847 s., con nota di Tiscini, Cass. 15 ottobre 2013, n. 23351, secondo le quali,
« benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello
“stare decisis”, essa tuttavia costituisce un valore o una direttiva di tendenza immanente
nel nostro ordinamento, in forza della quale non ci si deve discostare da un’interpretazione
consolidata del giudice di legittimità, investito, istituzionalmente, della funzione di nomofilachia, senza una ragione giustificativa »). E che, a mente dell’art. 118, comma 1o, disp.
att. c.p.c., il giudice soddisfa l’obbligo di motivazione della sentenza, impostogli dall’art.
132, n. 4, c.p.c., « anche con riferimento a precedenti conformi » (a questo proposito, v.
anche l’art. 348 ter c.p.c. con riguardo alla motivazione dell’ordinanza di inammissibilità
dell’appello). Al precedente è dunque riconosciuto questo valore: esso dispensa il giudice
che vi si adegui dall’obbligo di motivare; impone al giudice che voglia discostarsene l’obbligo di esplicitare le ragioni che lo inducono a discostarsene.
( 28 ) Con l’unica eccezione del « vincolo » delle sezioni semplici al principio di diritto
enunciato dalle sezioni unite: come noto infatti, in seguito alla novellazione dell’art. 374,
comma 3o, c.p.c. operata dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, se una sezione semplice ritiene
di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, ha il dovere di rimettere la decisione del ricorso a queste ultime.
( 29 ) Cfr. Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1406: « Da Aristotele a
Perelman i grandi studiosi della argomentazione ci dicono che, quando si agisce in un contesto di probabilità, la frequenza degli accadimenti tien luogo di verità. Il che significa, in
più semplici parole, quanto segue: quando non è possibile prevedere con assoluta certezza
un accadimento futuro, è bene ipotizzare che esso avrà la forma più frequentemente assunta nel passato. Sicché, non essendo mai possibile prevedere con certezza come si comporterà un uomo in una data circostanza, è opportuno ritenere che, probabilmente, egli si
condurrà nei modi nel suo passato ricorrenti ». Per una particolare applicazione del predetto criterio di « credibilità », v. Perelman e Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica, Torino, 1966, pp. 318 e 319. Sulle ragioni per cui la soluzione già adottata da alcuni giudici, specie se si tratta di giudici di grado superiore e specie
se si tratta di decisioni più volte ripetute (giurisprudenza consolidata), influenza di fatto gli
altri giudici secondo il c.d. argomento ab exemplo, v. Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano, 1962, passim. In proposito v. anche V. Marinelli, voce Precedente giudiziario, in Enc. dir., Agg., VI, Milano, 2002, p. 902 ss.
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le stesse parti sono portate a convincersi che tale interpretazione sia corretta ( 30 )).
D’altra parte la legge avalla la tendenza dei consociati ad orientare le
proprie condotte sulla base dei precedenti giudiziari: ciò vale in modo
particolare per le pronunce della Corte di cassazione, alle quali, sebbene
non riconosca efficacia vincolante, conferisce comunque la massima autorevolezza attribuendo alla Cassazione la funzione di assicurare « l’esatta
osservanza » della legge (art. 65 ord. giud.) ed ora anche assumendo la
« giurisprudenza della Corte » a parametro di inammissibilità – recte, di
manifesta infondatezza ( 31 ) – del ricorso per cassazione (art. 360 bis, n. 1,
c.p.c.) ( 32 ).
Da questi rilievi appare evidente che è del tutto legittimo che le parti
facciano affidamento sulla giurisprudenza. In particolare, per la parte che
ha posto in essere un atto processuale nel modo prescritto dall’indirizzo
giurisprudenziale pacifico o, comunque, maggioritario al momento del
suo compimento, l’overruling si risolve, come è stato detto, in « un cambiamento delle regole del gioco a partita già iniziata »: in « una somministrazione all’arbitro del potere-dovere di giudicare dell’atto (...) in base a
forme e termini il cui rispetto non era richiesto al momento del suo compimento » ( 33 ). Ne consegue che essa merita tutela ove, a seguito dell’overruling, possa subire un’inaccettabile lesione della propria sfera giuridica.
( 30 ) Un’interpretazione giurisprudenziale reiterata nel tempo, sul piano fattuale, crea infatti l’apparenza di una regola ad essa conforme. Sul punto v. anche Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, cit., punto 2.3, lett. g), in fine.
( 31 ) Come noto, l’art. 360 bis c.p.c., introdotto dalla l. 18 giugno 2009, n. 69, prevede al
n. 1 che il ricorso per cassazione è « inammissibile » « quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e
l’esame dei motivi non offre elementi per confermare o mutare l’orientamento della stessa ». Nel senso che la norma configura in realtà un’ipotesi di manifesta infondatezza, v.
Cass., sez. un., 6 settembre 2010, n. 19051 (su cui Consolo, Dal filtro in cassazione ad un
temperato stare decisis: la prima ordinanza sull’art. 360 bis c.p.c., in Corr. giur., 2010, p.
1405 ss.; in arg. v. anche M. De Cristofaro, sub artt. 360 bis-392, in Consolo (diretto
da), Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, Milano, 2009, p. 248 ss.;
Carbone, Le difficoltà dell’interpretazione giuridica nell’attuale contesto normativo: il diritto vivente, in Corr. giur., 2011, p. 153).
( 32 ) Sul punto, v. Cass. 22 marzo 2011, n. 6514, cit. È significativo inoltre che l’art. 92,
comma 2o, c.p.c., come novellato dal d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito in legge,
con modificazioni, dall’art. 1 l. 10 novembre 2014, n. 162, prevede ora che il giudice possa
compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, « se vi è soccombenza reciproca ovvero nel caso di assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti ».
( 33 ) V. Cass. 17 giugno 2010, n. 14627, in Foro it., 2010, I, p. 6050 ss. e in Rass. trib.,
2011, p. 181, con nota di Biavati; Cass. (ord.) 2 luglio 2010, nn. 15809, 15811, 15812 (la
n. 15811 in Foro it., 2010, I, p. 3050 ss., con nota di Tripaldi e in Corr. giur., 2010, p.
1473 ss., con nota di D’Alessandro), che affermano: « Allorché si assista ad un mutamento, ad opera della Corte di cassazione, di un’interpretazione consolidata a proposito delle
norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza
della stessa Corte, successivamente travolta dall’overruling, ha tenuto un comportamento
irreprensibile e perciò è da escludere la rilevanza preclusiva dell’errore in cui essa è incorsa ». Per il rilievo che l’ordinamento giuridico di una società è il frutto non solo dell’esercizio del potere legislativo, ma anche dei giudizi specificatori formulati dalle pronunce giurisdizionali, v., per tutti, Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, cit., p. 7.
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5. Prima conclusione: i giudici non possono avere possibilità ablative di posizioni giuridiche che neanche il legislatore può avere.
Una volta chiarito che l’attività interpretativa del giudice (a prescindere
dal suo inquadramento fra le « fonti del diritto ») sottende sempre, accanto ad una componente prettamente logica, un’immancabile componente
creativa di significato e che l’affidamento che può ingenerare è pienamente legittimo, è agevole trarre una prima conclusione, ossia che i limiti alla
retroagibilità della regola che valgono per il legislatore, sotto il profilo dell’incisione dei diritti quesiti delle parti, non possono non valere anche per
i dicta dei giudici ( 34 ).
Ne discende che il mutamento di giurisprudenza, di regola, non può
scalfire le situazioni giuridiche dedotte in giudizio dalle parti. La Corte
Edu ha più volte riconosciuto infatti che la legge – che, come ben noto, di
norma non ha efficacia retroattiva, ma può averla per precisa scelta del legislatore ( 35 ) – non può modificare le sorti dei processi in corso dettando
disposizioni retroattive dirette a scalzare il c.d. diritto vivente precedentemente in vigore, se non in presenza di « preminenti esigenze di interesse
generale » ( 36 ), individuate in fattispecie estremamente circoscritte e ad
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( 34 ) Se la parte che ha fatto affidamento su una determinata disposizione di legge per
come costantemente interpretata dalla Corte di vertice merita di essere tutelata dagli effetti
di una legge avente ambizione di applicabilità retroattiva, essa merita di essere tutelata anche dagli effetti di un mutamento di giurisprudenza suscettibile di applicarsi al processo in
corso. In questo senso v., per tutti, Costantino, Il principio di affidamento, cit., p. 1081:
« (...) sembra ovvio osservare che ciò che non è permesso al legislatore non può essere consentito alla giurisprudenza »; Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit., p.
3170, il quale sottolinea come – nel sistema dei valori della tutela dei diritti dell’uomo e del
giusto processo – non si possa consentire all’organo della nomofilachia « di far nascere effetti all’atto pratico percepiti come retroattivi, laddove ciò è precluso anche al legislatore,
dalla giurisprudenza di Strasburgo e ora anche dalla nostra giurisprudenza costituzionale ». Critico invece Ruffini, Mutamenti di giurisprudenza nell’interpretazione delle norme
processuali e « giusto processo », in Riv. dir. proc., 2011, p. 1397, che ritiene inutile, ai fini
della soluzione del problema in esame, « un fallace parallelismo fra la legge, naturalmente
irretroattiva in materia processuale, e l’interpretazione giurisprudenziale della stessa, necessariamente dichiarativa di una regola posta altrove e perciò, naturalmente ed innegabilmente, retroattiva ». Con riferimento a questa affermazione va osservato però sin d’ora che
riconoscere che il mutamento di giurisprudenza non possa incidere negativamente su situazioni giuridiche su cui nemmeno una legge retroattiva può incidere non equivale a ritenere che le modalità per impedire tale incisione siano le stesse in un caso e nell’altro (v. infra par. 8). Nel senso del testo, in giurisprudenza, v. Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n.
15144, cit., punto 2.3, lett. g).
( 35 ) Il principio della irretroattività della legge è espresso in via generale infatti soltanto
nell’art. 11 disp. prel. c.c. (l’art. 25, comma 2o, Cost. lo prevede solo per le norme penali
incriminatrici) ed è quindi derogabile dal legislatore ordinario.
( 36 ) V. Corte Edu 7 giugno 2011, ricorsi nn. 43549/08, 6107/09 e 5087/09, Agrati e altri
c. Italia, ove è stata accertata la violazione dell’art. 6 Cedu da parte della Repubblica italiana per aver emanato una legge retroattiva – in materia di retribuzioni di una certa categoria di dipendenti pubblici – che ripudiava l’interpretazione consolidata precedentemente
accolta dalla Cassazione, così influenzando negativamente le controversie al riguardo pendenti e superando i limiti « à l’ingérence du pouvoir législatif dans l’administration de la
justice dans le but d’influer sur le dénouement judiciaire du litige »; nello stesso senso, in
precedenza, v. anche Corte Edu 31 maggio 2011, ricorsi nn. 46286/09, 52851/08, 53727/
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elevatissimo tasso di peculiarità ( 37 ). Tale impostazione è stata alfine recepita anche dalla nostra Corte costituzionale, la quale, dopo varie incertezze ( 38 ), ha riconosciuto che il legislatore non può emanare norme, anche di
interpretazione autentica, retroattivamente applicabili ai procedimenti
pendenti allorché la retroattività non trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare valori di rilievo costituzionale, costituenti altrettanti
« impérieux motifs d’intérêt général » ai sensi dell’art. 6 Cedu ( 39 ).
Ciò posto, occorre prendere atto però che la giurisprudenza della Corte
europea, così come quella della Corte costituzionale sui limiti all’efficacia
retroattiva delle leggi ( 40 ) (e anche delle stesse sentenze di accoglimento
della Corte ( 41 )), non consentono di individuare quali siano le « situazioni
08, 54486/08 e 56001/08, Maggio e altri c. Italia; 11 febbraio 2010, ricorso n. 39730/06, Javaugue c. Francia; 10 giugno 2008, ricorso n. 71399/01, Bortesi e altri. c. Italia.
( 37 ) Quale, ad es., l’esigenza di disciplinare i « conflits consécutifs à la réunification allemande afin d’assurer de manière durable la paix et la sécurité juridiques en Allemagne »
(Corte Edu 20 febbraio 2003, ricorso n. 47316/99, Forrer-Niedenthal c. Germania).
( 38 ) Per un certo periodo infatti la Corte costituzionale, pur riconoscendo formalmente
che il principio dello Stato di diritto e la nozione di giusto processo di cui all’art. 6 Cedu
escludono che il legislatore possa interferire nell’amministrazione della giustizia, influenzando l’esito di una controversia, a meno che ricorrano « motivi imperativi di interesse generale », ha ritenuto legittime leggi qualificate dal legislatore come interpretative, e così
applicabili ai giudizi in corso, dirette a scalzare il diritto giurisprudenziale con riferimento
a fattispecie relativamente alle quali non sussistevano ragioni univocamente sufficienti ad
escludere l’applicabilità della garanzia del giusto processo, quale declinata dalla Corte di
Strasburgo (v. Corte cost. n. 311 del 2009 – in relazione a fattispecie analoga a quella su
cui poi è intervenuta la sentenza Agrati – e Corte cost. n. 1 del 2011).
( 39 ) V. Corte cost. n. 78 del 2012, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61o, d.l. 29 dicembre 2010, n. 225, convertito, con modificazioni, dalla l. 26
febbraio 2011, n. 10 (« In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l’art.
2935 c.c. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall’annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell’annotazione stessa ») sia per violazione
dell’art. 3 Cost., sulla base della considerazione che, retrodatando il dies a quo del decorso
della prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l’arco temporale disponibile per
l’esercizio dei diritti nascenti dal rapporto di conto corrente, pregiudicando in particolare
la posizione dei correntisti che, anteriormente all’entrata in vigore della norma denunziata,
abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate,
come interessi superiori al tasso legale o anatocistici; sia per violazione dell’art. 117, comma 1o, Cost., in relazione all’art. 6 Cedu, rilevando che, ancorché tale disposizione si autoqualifichi come di interpretazione autentica, lungi dall’esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili all’art. 2935 c.c., detta una disciplina innovativa retroattivamente applicabile ai giudizi pendenti, senza che tale retroattività sia giustificata da
« motivi imperativi di interesse generale ».
( 40 ) Per una panoramica sulla giurisprudenza costituzionale relativa all’ammissibilità di
disposizioni interpretative o innovative con efficacia retroattiva, v. Costantino, Il principio di affidamento, cit., p. 1078 ss.
( 41 ) È evidente, infatti, che una parte può trovarsi ad essere « privata » di un proprio diritto (o veder giudicato un proprio atto sulla base di regole diverse da quelle che poteva
ragionevolmente aspettarsi fossero in vigore al momento del suo compimento) anche a seguito di una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale in quanto, dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza, le norme dichiarate incostituzionali non possono
più trovare applicazione. La Corte costituzionale ha quindi limitato o, addirittura, escluso
l’efficacia ex tunc delle proprie sentenze di accoglimento, quando la legge sottoposta al suo
sindacato poteva aver fatto sorgere nei destinatari, al tempo in cui essa era in vigore, aspettative in ordine alla tutela o al riconoscimento di un diritto soggettivo o di un interesse leNLCC 6-2015
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processuali » che non possono essere pregiudicate per effetto di un overruling ( 42 ). Al fine di chiarire tale aspetto, sembra allora opportuno muogittimo e, in particolare, quando questa tutela o questo riconoscimento erano stati affidati
ad un procedimento giurisdizionale o amministrativo in itinere, facendo prevalere su una
asettica giustizia formale una consapevole giustizia sostanziale (v., ad es., Corte cost. n. 50
del 1989). Sulla possibilità per la Corte costituzionale di autolimitare l’efficacia retroattiva
delle proprie decisioni, v. Bellocci e Giovannetti, Il quadro delle tipologie decisorie nelle pronunce della Corte Costituzionale, in Quaderno predisposto in occasione dell’incontro di
studio con la Corte Costituzionale di Ungheria, Palazzo della Consulta, 11 giugno 2010, in
www.cortecostituzionale.it; cui adde Calamandrei, La illegittimità costituzionale nel processo civile, Padova, 1950, p. 250 ss.; Aa.Vv., Effetti temporali delle sentenze della Corte anche con riferimento alle esperienze straniere, in Atti del seminario tenuto a Palazzo della
Consulta il 23 e 24 novembre 1988, Milano, 1989; Zagrebelsky, Il controllo da parte della
Corte degli effetti temporali delle sue pronunce, in Quad. cost., 1989. V. di recente il grande
dibattito sollevato dalla sent. 11 febbraio 2015, n. 10, sulla c.d. Robin Tax.
In ordine invece alla possibilità che, in caso di dichiarazione di incostituzionalità della
norma che limiti o impedisca illegittimamente l’esercizio di una facoltà processuale, la parte possa chiedere la rimessione in termini, v. Caponi, La rimessione in termini nel processo
civile, Milano, 1996, p. 294 ss.
( 42 ) Sia la Corte di Strasburgo, sia la nostra Corte costituzionale hanno avuto occasione
di pronunciarsi per lo più in ordine alla legittimità di leggi interpretative o, comunque, retroattive in materia sostanziale. Questa giurisprudenza è utile però per riflettere sull’affermazione, ricorrente tanto in giurisprudenza quanto in dottrina, secondo cui sussisterebbe
una netta distinzione fra mutamenti di giurisprudenza riguardanti l’interpretazione di norme processuali e mutamenti concernenti norme sostanziali, nel senso che per questi ultimi
sarebbe sempre esclusa la tutela dell’affidamento sul precedente indirizzo (v. Cass. 25 luglio 2012, n. 13087; Cass., sez. un., 16 giugno 2014, n. 13676; Cass. 9 gennaio 2015, n. 174;
in dottrina, Caponi, Il mutamento di giurisprudenza costante, cit., p. 314; Barone, Caponi, Costantino, Dalfino, Proto Pisani e Scarselli, Le Sezioni Unite, cit., p. 3034).
Allorché l’overruling riguardi norme di diritto sostanziale, si tende infatti ad escludere la
tutela della parte che ha fatto affidamento sull’indirizzo overruled, muovendo dalla considerazione che, se è rinvenuta una regola più « giusta » per disciplinare i rapporti fra consociati, questa deve trovare subito applicazione. In realtà, allorché l’overruling riguardi
norme di diritto sostanziale, si può escludere tout court la tutela della parte che ha fatto affidamento sull’indirizzo overruled solo se – come invero accade sovente – la nuova interpretazione è un’interpretazione che « scopre » nuovi diritti o amplia la tutela di diritti esistenti, ipotesi questa in cui, rispetto all’esigenza di garantire che la parte possa realizzare la
nuova situazione di vantaggio, quella di tutelare la controparte, inaspettatamente pregiudicata dall’overruling, passa in secondo piano (si pensi ad es. alla risarcibilità del danno per
lesione di un interesse legittimo o di voci di danno ulteriori rispetto al danno patrimoniale). Anzi alla parte che avrebbe titolo per esercitare il nuovo o più ampio diritto non solo
non può mai ovviamente essere opposta l’intervenuta prescrizione o decadenza del diritto,
posto che prima dell’overruling tale diritto non era riconosciuto (in questo senso v. Cass.
26 ottobre 2011, n. 22282; contra, tuttavia, Cass. 25 luglio 2012, n. 13087, Cass., sez. un.,
16 giugno 2014, n. 13676; tutte rese comunque in fattispecie peculiari, non trattandosi
propriamente di casi di overruling, ma di declaratorie di contrarietà al diritto comunitario
di norme impositive nazionali ad opera della Corte di giustizia), ma deve anche essere riconosciuta la possibilità di essere rimessa in termini nell’ipotesi in cui l’overruling di segno
ampliativo sopraggiunga in un momento in cui, per effetto del maturare delle preclusioni,
non possa più farlo valere in giudizio (emblematica la situazione che si è presentata a seguito di Corte cost. nn. 348-349 del 2007, in materia di indennità di esproprio). Nell’ipotesi in cui l’overruling sia invece di segno restrittivo, esigenze di giustizia sostanziale impongono di tutelare la parte che ha agito in giudizio confidando sull’indirizzo overruled (si
pensi, ad es., all’ipotesi in cui una parte, a seguito di un mutamento di giurisprudenza riguardante il termine di prescrizione di un diritto o l’idoneità di un certo atto ad interrompere la prescrizione, si trovi ad essere spogliata di un diritto pur avendolo esercitato nei
Overruling in materia
processuale
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vere dalla considerazione del tipo di attività su cui può incidere un overruling in questo ambito.
6. La concessione della tutela ripristinatoria si impone ogni qual volta una
parte subisca una lesione del diritto di azione o di difesa per effetto del
mutamento di giurisprudenza.
Overruling in materia
processuale
Per effetto di un overruling in materia processuale, una parte può vedersi privata della prospettiva di ottenere una decisione di merito o di incidere sul suo contenuto. Ove ricorra questa situazione, essa merita doverosamente la concessione di un rimedio ripristinatorio. Un errore incolpevole
sull’applicazione di una norma processuale non può precludere infatti la
possibilità di ottenere l’attuazione del diritto sostanziale. Questo principio, già desumibile in via interpretativa dalla Cedu – ove riconosce « il diritto ad un equo processo » –, risulta forse ancora più evidente se si legge
la nostra Costituzione.
L’art. 111, comma 1o, Cost. riconosce infatti espressamente il valore della predeterminazione delle regole del processo, stabilendo che queste siano pre-stabilite per legge, allo scopo di garantire l’effettività della tutela
giurisdizionale ( 43 ). Come si è visto, però, la decisione di un caso concreto
non discende mai da una meccanica applicazione della legge, ma costituisce il prodotto (potenzialmente mutevole) dell’opera interpretativa del
giudice, e ciò anche per effetto della soluzione di questioni processuali.
Un’interpretazione teleologica della clausola del giusto processo impone
dunque di tutelare la parte tutte le volte in cui, a seguito di un mutamento
di giurisprudenza, essa subisca una lesione del suo diritto di azione o di
difesa ( 44 ).
termini e nei modi prescritti dall’orientamento giurisprudenziale sin lì dominante, o – per
citare un caso recente – alla vicenda originata da Cass. 22 febbraio 2010, n. 4240, la quale,
rovesciando il precedente orientamento, ha ritenuto ammissibile l’acquisto per usucapione
del diritto (servitù) avente ad oggetto il mantenimento di una costruzione a distanza inferiore a quella fissata dai regolamenti o dagli strumenti urbanistici locali, facendo così
« evaporare » il diritto del vicino ad ottenerne il corrispettivo arretramento).
( 43 ) Ed è utile rammentare che tale norma non va letta nel senso che in materia processuale non possono esservi leggi retroattive, ma solo nel senso che non possono esservi leggi
retroattive che ledano l’effettività della tutela.
( 44 ) La dottrina è concorde nel ritenere che l’errore incolpevole sulla norma processuale
non può cagionare la chiusura in rito del processo o, peggio, la perdita del diritto sostanziale dedotto in giudizio. Cfr., con accenti diversi: Caponi, Il mutamento di giurisprudenza
costante, cit., p. 312 ss., per cui « il rischio che l’errore processuale cagioni al titolare la
perdita del diritto sostanziale dedotto in giudizio deve essere confinato entro il minimo indispensabile »; Barone, Caponi, Costantino, Dalfino, Proto Pisani e Scarselli, op.
cit., p. 3034; Costantino, Il principio di affidamento, cit., p. 1096, per cui altro è l’evoluzione della interpretazione della disciplina processuale nel senso di allargare le possibilità
di una decisione nel merito ed altro è invece quella nel senso di introdurre decadenze e
preclusioni non previste, né prevedibili; Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op.
cit., spec. p. 1407; Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit., p. 3172 s.; Trisorio Liuzzi, La dimidiazione del termine di costituzione nell’opposizione a decreto ingiuntivo torna alle Sezioni Unite unitamente agli effetti del mutamento di giurisprudenza, in Giusto proc. civ., 2011, p. 450; Biavati, Nuovi orientamenti della Cassazione e rimessione in
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Per effetto di un overruling in materia processuale, una parte può veder
preclusa però anche la possibilità di ottenere il rigetto in rito della domanda o dell’impugnazione ex adverso proposta ( 45 ), o di sollevare eccezioni
che, pur consentendole di conseguire un vantaggio « strategico », non incidono di per sé sull’effettività della tutela, come il difetto di giurisdizione ( 46 ) o l’incompetenza del giudice adito. Ove ricorra una situazione di
termini, in Rass. trib., 2011, p. 195. In posizione isolata Ruffini, op. cit., p. 1399 ss., ad avviso del quale « l’idea secondo la quale le regole predeterminate poste alla base della disciplina del giusto processo siano quelle emergenti dalla costante interpretazione dell’organo
cui è affidato l’esercizio della funzione nomofilattica » sarebbe da respingere.
Nel senso del testo in giurisprudenza cfr. Cass. 17 giugno 2010, n. 14627, cit., Cass. 2
luglio 2010, nn. 15809, 15811, 15812, cit., secondo cui sarebbe « contrario alla garanzia di
effettività dei mezzi di azione o di difesa e delle forme di tutela – la quale è componente
del principio del giusto processo – che rimanga priva della possibilità di accedere alla Corte di Cassazione e di vedere celebrato un giudizio che conduca ad una decisione sul merito
delle questioni di diritto veicolate dall’impugnazione, la parte che quella tutela abbia perseguito con un’iniziativa processuale conforme alla legge del tempo – nel reale significato
da questa assunto nella dinamica operativa per effetto dell’attività “concretizzatrice” della
giurisprudenza di legittimità –, ma divenuta inidonea per effetto del mutamento di indirizzo giurisprudenziale »; Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, cit., punto 2.3, lett. g); v.
anche Cass. 22 marzo 2011, n. 6514, cit., ove si afferma che « il principio per cui il giusto
processo deve essere regolato dalla legge richiede e presuppone che il privato abbia il diritto di sapere con certezza quali siano le regole in vigore nel momento in cui agisce, siano
esse legali o giurisprudenziali ». A proposito di quest’ultima osservazione, occorre osservare che, in realtà, mentre si può esigere, in virtù del principio del giusto processo, che le regole legislative non abbiano effetto sui processi in corso, posto che per regola generale esse
non hanno effetto retroattivo (art. 11 disp. prel.), ciò non vale per quelle di origine giurisprudenziale, le quali sono sempre per loro natura « retrospettive » (v. infra par. 8). Alla
luce di quanto si è detto, è innegabile però che la parte vada tutelata di fronte ad un mutamento di giurisprudenza, con appositi strumenti (v. infra par. 9).
( 45 ) Quest’ultima fattispecie potrebbe ricorrere, ad es., nell’ipotesi in cui le sezioni unite, pronunciandosi sulla questione sollevata dall’ord. interlocutoria della prima sez. del 13
maggio 2015, n. 9782, ritenessero, di contro al precedente orientamento, che la notificazione di un gravame inammissibile o improcedibile non è idonea a determinare la decorrenza
del termine c.d. breve di impugnazione: sì che la parte che abbia notificato un siffatto gravame potrebbe ammissibilmente riproporlo entro il termine c.d. lungo, sempre che, ovviamente, nel frattempo il primo gravame non sia previamente dichiarato inammissibile o improcedibile (così « attivando » la fattispecie degli artt. 358 e 387 c.p.c.). Tale situazione si
sarebbe potuta verificare altresì qualora le sezioni unite, investite della questione relativa al
dies a quo del termine di dieci giorni per la costituzione dell’appellante ai sensi del combinato disposto degli artt. 347 e 165 c.p.c., in caso di processo litisconsortile dal lato passivo,
avessero ritenuto che tale termine decorre dal dì in cui si perfeziona l’ultima delle notifiche
dell’atto introduttivo, anziché dal dì in cui si perfeziona la prima notificazione ad uno dei
plurimi convenuti (v. Cass., sez. un., 18 maggio 2011, n. 10864, cit., su cui amplius alla nt.
3).
( 46 ) In questo senso, v. Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1407, i
quali osservano esattamente che a nessuna tutela può ambire chi, « lungi dal lamentare un
pregiudizio del proprio diritto di difesa, invochi le questioni di astratta spettanza della potestas iudicandi – in materia di giurisdizione, ordinaria od esclusiva, ma comunque su diritti – per pretendere una nuova decisione di merito da altro giudice che, per definizione,
sul piano funzionale è del tutto equivalente a quello che ha reso la decisione che si vorrebbe azzerare tramite il rilievo per la prima volta in Cassazione del difetto di giurisdizione »
in virtù dell’ampio avvicinamento delle potenzialità cautelari ed istruttorie conseguente al
codice del processo amministrativo; Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling,
cit., p. 3172, il quale rileva come qui non venga in rilievo un diritto quesito processuale che
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questo tipo – così come nell’ipotesi di overruling di segno ampliativo
quanto agli spazi di tutela per tutte le parti ( 47 ) –, non vi è alcuna necessità
di far luogo ad un rimedio ripristinatorio. La facoltà di impedire o comunque di ritardare la decisione nel merito della domanda o dell’impugnazione, a motivo della nullità di un atto o del difetto di un requisito del processo, ha senso che possa essere esercitata solo nella misura in cui tale facoltà effettivamente sussiste secondo il giudice volta a volta investito del
compito di decidere della causa ( 48 ).
La tutela ripristinatoria andrà concessa quindi (solo) nell’ipotesi in cui,
per effetto del mutamento di giurisprudenza, risulti insanabilmente nulla
ovvero preclusa un’attività in grado di incidere sulla decisione sulla fondatezza della domanda (o sulla possibilità di ottenere un esame delle questioni veicolate dall’impugnazione ( 49 )).
abbia quella dignità che la Cedu richiede per approntare la tutela restitutoria finalizzata ad
impedire alla giurisprudenza di sortire conseguenze retroattive che neppure per il legislatore è ammissibile ricercare. Sul punto v. anche Punzi, op. cit., p. 1350, che sottolinea come « l’impossibilità di far valere il difetto di giurisdizione per la prima volta, alla stregua
del nuovo indirizzo, non implica alcuna lesione del diritto di difesa delle parti, dal momento che la pretesa azionata è stata oggetto di cognizione e decisione nel merito nei gradi anteriori ».
( 47 ) Si pensi, ad es., ad un revirement di segno distensivo quanto agli spazi per le deduzioni istruttorie, o ad un’innovazione giurisprudenziale volta ad ampliare le fonti di cognizione idonee a consentire al giudice di rendere una sentenza per quanto possibile « giusta » poiché aderente ai fatti, di cui possano beneficiare, in concreto, tutte le parti in causa.
Sul punto cfr. Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1408.
( 48 ) In questo senso v., per tutti, Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling,
cit., p. 3137, il quale rileva esattamente come non tutti gli errori astrattamente scusabili
meritino di avere la possibilità di essere emendati, ma solo quegli errori scusabili che, se
non ovviati, pregiudicano la parte incidendo sull’effettività della tutela giurisdizionale. È
evidente infatti che, se una parte voleva « tenersi in tasca » un’eccezione di rito per riservarsi la possibilità di « mandare a monte » il processo, una volta che questo fosse giunto in
una fase avanzata, non merita certamente di essere reintegrata nel potere di sollevarla. Problema diverso è stabilire invece se la parte che, facendo affidamento su di un’interpretazione giurisprudenziale consolidata, abbia erroneamente confidato nel rigetto in rito della domanda o dell’impugnazione ex adverso proposta meriti di essere reintegrata nel potere di
proporre le proprie difese nel merito (o nel potere di compiere le attività strumentali all’esercizio di tale potere). In senso affermativo, Ruffini, op. cit., p. 1396 s.
( 49 ) Va osservato invero che l’impugnazione potrebbe veicolare anche questioni dirette
ad ottenere la riforma o la cassazione della sentenza impugnata per profili di rito che non
incidono sull’effettività della tutela (a meno di ritenere – poco realisticamente – che il giudice chiamato a decidere se concedere rimedi ripristinatori debba subordinare la concessione di tali rimedi al tipo di questioni veicolate dall’impugnazione; la S.C. non sembra peraltro orientata in questo senso: v. Cass. 17 giugno 2010, n. 14627, cit., Cass. 2 luglio 2010,
nn. 15809, 15811, 15812, cit., ove non vi è alcuna indagine sul contenuto dei motivi di impugnazione). Questa ipotesi è comunque diversa rispetto a quella in cui, per effetto dell’overruling, una parte si trovi ad essere privata della prospettiva di veder accolta un’eccezione che non incide sull’effettività della tutela: l’eccezione infatti nella prima ipotesi è – in
thesi – meritevole di essere proposta secondo il giudice adito; nella seconda ipotesi invece
non è fondata.
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7. Segue: (e ciò anche se questo sia frutto di un’interpretazione « evolutiva »).
La tutela della parte che, in seguito ad un mutamento di giurisprudenza,
veda lesa l’effettività della tutela giurisdizionale dovrebbe essere universalmente riconosciuta; essa però non è sempre garantita dalla S.C., che la
accorda solo a fronte di overruling qualificati come « imprevedibili ».
A questo proposito le sezioni unite distinguono le ipotesi in cui il mutamento giurisprudenziale è il frutto di un’interpretazione « evolutiva », ove
l’attribuzione al significante di un nuovo significato è dettata dall’emersione di nuovi valori o da modifiche del contesto normativo in cui questo è
inserito, da quelle in cui esso discende invece da un’interpretazione « correttiva », volta ad ascrivere al significante un significato diverso da quello
precedentemente enucleato in modo del tutto indipendente dal fatto che
questo sia stato interessato da vicende evolutive ( 50 ). Ad avviso della Corte, il principio del giusto processo imporrebbe la concessione di rimedi ripristinatori a favore della parte colpita da un mutamento di giurisprudenza soltanto nel caso in cui questo consegua ad un’interpretazione « correttiva », che sola concreterebbe overruling imprevedibile ( 51 ).
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( 50 ) Su questa distinzione, v. in particolare Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, cit.,
punto 2.3, lett. d) ed e), che definisce « evolutiva » l’interpretazione « volta ad accertare il
significato evolutivamente assunto dalla norma nel momento in cui il giudice è chiamato a
farne applicazione »; « correttiva » l’interpretazione « con la quale il giudice torna direttamente sul significante, sul testo cioè della disposizione, per desumerne – indipendentemente da vicende evolutive che l’abbiano interessata – un significato diverso da quello
consacrato in una precedente esegesi giurisprudenziale. E ciò o perché il nuovo significato
sia ritenuto preferibile rispetto a quello – pur compatibile con il testo – precedentemente
enucleato (...), ovvero perché l’interprete ritenga che la precedente lettura del testo sia errata, perché frutto di non corretta applicazione dei canoni di ermeneutica della legge ».
( 51 ) La distinzione tra overruling « repentino », o quanto meno « inaspettato », e overruling prevedibile (e così doverosamente pronosticabile dal bravo difensore), individuata
per la prima volta – a quanto ci consta – dalle sez. un. nella sent. 28 gennaio 2011, n. 2067,
e compiutamente teorizzata da queste nella sent. 11 luglio 2011, n. 15144, cit. (v. nt. precedente), è stata successivamente riproposta in diverse pronunce: v., ad es., Cass., sez. un.,
12 ottobre 2012, n. 17402, in Giur. cost., 2012, p. 3163 ss., con nota di Consolo, secondo
cui « Per overruling deve intendersi il mutamento di giurisprudenza nell’interpretazione di
una norma giuridica o di un sistema di norme dal carattere, se non proprio repentino,
quantomeno inatteso o privo, comunque, di preventivi segnali anticipatori sul suo manifestarsi; segnali che possono essere quelli di un, pur larvato, dibattito dottrinale o di qualche
significativo intervento giurisprudenziale sul tema oggetto di indagine ». Sulla base di questo criterio la Corte di cassazione ha negato la tutela dell’affidamento in diversi casi: così,
ad es., Cass., sez. un., 28 gennaio 2011, n. 2067, ha escluso che la parte la quale, proponendo appello in epoca precedente a Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, non abbia contestato la giurisdizione implicitamente affermata dal giudice di primo grado, possa invocare una rimessione in termini anche sulla base della considerazione che tale pronuncia
« non ha rappresentato una svolta inopinata e repentina rispetto ad un diritto vivente fermo e consolidato, ma ha solo portato a termine un processo di rilettura dell’art. 37 c.p.c.,
pervenendo ad un esito interpretativo da tempo in via di elaborazione »; Cass. 11 giugno
2012, n. 9421, in Riv. dir. proc., 2013, p. 477 ss., con nota di Guarnieri, ha negato che la
parte la quale, in epoca anteriore a Cass., sez. un., 30 luglio 2008, n. 20604, abbia omesso
di notificare l’appello nel rito del lavoro facendo conto sulla fissazione di una nuova udienNLCC 6-2015
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La circostanza che il mutamento di giurisprudenza sia il prodotto di
un’inopinata interpretazione « correttiva » piuttosto che il risultato di una
graduale vicenda « evolutiva » non costituisce però un valido criterio per
distinguere i casi meritevoli da quelli non meritevoli di tutela ( 52 ). Il mutamento di giurisprudenza, anche laddove sollecitato dall’emersione di nuovi valori – e così in thesi prefigurato, ad esempio, in un obiter della Cassazione ( 53 ) o in un articolo di dottrina –, è sempre per sua natura imprevedibile ( 54 ), non disponendo le parti di alcuno strumento che consenta loro
di sapere se e quando effettivamente la nuova interpretazione troverà consacrazione da parte delle sezioni unite ( 55 ). Ed anzi l’esigenza di tutela si
za possa ottenere la concessione di un nuovo termine per la notifica, sulla base del rilievo
che l’overruling operato da tale pronuncia non sarebbe stato imprevedibile « in ragione
dell’articolato dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul punto » (fermo quanto detto subito nel testo in ordine all’imprevedibilità di qualsiasi mutamento giurisprudenziale, merita ricordare peraltro che, in realtà, la soluzione opposta era stata propugnata da due conformi pronunce delle sezioni unite abbastanza recenti: v. Cass., sez. un., 29 luglio 1996, n.
6841 e Cass., sez. un., 25 ottobre 1996, n. 933; ed appunto, in senso contrario alla sentenza
da ult. cit., due precedenti interventi della S.C. hanno invece ritenuto che l’overruling operato con la sent. n. 20604 del 2008 ponesse senz’altro l’esigenza di tutelare la parte che abbia confidato incolpevolmente sul pregresso indirizzo: così Cass. 30 marzo 2012, n. 5181,
nonché Cass., sez. lav., 28 febbraio 2012, n. 3042, che ha negato la rimessione in termini
per notificare l’appello incidentale ai sensi dell’art. 436, comma 3o, c.p.c. unicamente in
considerazione del fatto che, nel caso considerato, il deposito della sent. n. 20604 del 2008
era avvenuto molto tempo prima che la parte incorresse nell’omessa notifica del proprio
appello incidentale; v. anche infra nt. 90).
( 52 ) In questo senso v. Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1406 ss.;
Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit., p. 3172 s.; nell’opposto v. invece
Costantino, Il principio di affidamento, cit., p. 1082 ss., per cui la questione della valutazione dell’affidamento incolpevole si porrebbe nei casi in cui le nuove interpretazioni sarebbero del tutto imprevedibili.
( 53 ) Se il mutamento di un orientamento consolidato è prefigurato in un obiter dictum,
non si pone ovviamente alcun problema di tutela dell’affidamento in relazione al caso concreto; ove ricorra questa situazione, sopravviene però una situazione di oggettiva incertezza per le parti circa l’interpretazione da seguire, posto che l’obiter può costituire un’anticipazione di future decisioni, nella misura in cui sia persuasivo (si pensi ad es. alla situazione
che si è venuta a creare a seguito dell’obiter sui termini per la costituzione dell’opponente a
decreto ingiuntivo, contenuto in Cass., sez. un., 9 settembre 2010, n. 19246).
( 54 ) Sull’impossibilità di prevedere il mutamento di giurisprudenza, v. Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1404 ss.; Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit., p. 3171. Come osserva l’insigne A., l’affermazione della centralità della rimessione in termini viene temperata dalle sezioni unite distinguendo « due fenomeni di
evoluzione della giurisprudenza che sarebbero fra loro assolutamente diversi, ed a fronte
dei quali le parti del processo (rectius, de facto, gli avvocati) dovrebbero virtuosisticamente
sapersi regolare in termini diversi. Da un lato l’overruling improvviso, inopinato e non
preannunciato; [appunto] la menzionata “strambata” velistica. Ad esso è dato rimedio.
Dall’altro, invece, il mutamento graduale nella direzione del vento, per stare alla metafora,
che il bravo avvocato (alias velista) deve saper individuare. Epperò, se è vero che in certi
bacini i venti hanno un andamento orario piuttosto preciso, altrettanto non è per la giurisprudenza ».
( 55 ) Ogni pronuncia giudiziaria che accolga consapevolmente un’interpretazione diversa rispetto a quella sin lì dominante ha attitudine ad operare un « mutamento di giurisprudenza », cioè è suscettibile di porsi come iniziatrice di un nuovo orientamento giurisprudenziale. Tuttavia si potrà dire che essa ha effettivamente realizzato un « mutamento di
giurisprudenza » solo a distanza di tempo, ove si constati che l’interpretazione da essa acNLCC 6-2015
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può porre non solo in presenza di veri e propri « mutamenti di giurisprudenza », a prescindere dalle ragioni che ne sono all’origine, ma – come
conferma l’evoluzione relativa all’errore scusabile nel processo amministrativo ( 56 ) – anche di semplici « contrasti giurisprudenziali » (che si realizzano, ad esempio, quando la nuova interpretazione è adottata « soltanto » da una od alcune pronunce della Cassazione a sezioni semplici) o di
un dato normativo incoerente o ambiguo ( 57 ), giacché anche in queste ipocolta è stata ripetutamente seguita dalle successive pronunce (e, in particolare, ove si tratti
di una decisione di merito, da una pronuncia della Corte di cassazione, organo competente
a pronunciarsi in ultima istanza); sino a quel momento dando vita piuttosto ad un « contrasto giurisprudenziale ». L’unica situazione che pare poter essere definita a priori come
« mutamento di giurisprudenza » (ed ingenerare sin da subito un affidamento nei consociati sulla stabilità del principio espresso) è quella in cui la nuova interpretazione sia accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella decisione di un caso concreto (cfr. in
arg. Santangeli, La tutela del legittimo affidamento sulle posizioni giurisprudenziali, tra la
cristallizzazione delle decisioni e l’istituto del prospective overruling, con particolare riguardo al precedente in materia processuale, cit., p. 34) o anche nell’enunciazione di un principio di diritto ex art. 363 c.p.c. Certamente anche l’interpretazione accolta dalle sezioni unite può essere successivamente disattesa dai giudici di merito o dalle stesse sezioni unite
(non invece dalle sezioni semplici: v. il novellato art. 374, comma 3o, c.p.c.); tuttavia, in virtù dell’autorevolezza dell’organo da cui promana, è lecito presumere che questa – quanto
meno per un certo periodo – sarà seguita dalle successive pronunce (v., ad es., Cass., sez.
un., 31 luglio 2012, n. 13620, cit.).
( 56 ) L’art. 37 c.p.a. (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104), che come noto ha attribuito rilevanza
generale all’istituto dell’errore scusabile – già contemplato dagli artt. 36 r.d. 26 giugno
1924, n. 1054, e 34 l. 6 dicembre 1971, n. 1034, con riguardo alla possibilità di riacquistare
il potere di impugnazione e di disporre la rinnovazione del ricorso –, stabilisce espressamente che il giudice amministrativo possa disporre la rimessione in termini « in presenza
di oggettive ragioni di incertezza su questioni di diritto ». L’applicazione dell’istituto della
rimessione in termini per errore scusabile in presenza di indirizzi giurisprudenziali oscillanti (o anche di un dato normativo intrinsecamente ambiguo) è peraltro già da tempo familiare alla giurisprudenza amministrativa. Cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. V, 10 settembre 2009, n. 5427, in Rep. Foro it., 2009, voce Contratti pubblici, n. 1388; Cons. Stato, sez.
V, 10 marzo 2009, n. 1384, ivi, voce Giustizia amministrativa, n. 625; Cons. Stato, sez. V,
10 marzo 2009, n. 1381, ivi, voce Giustizia amministrativa, n. 133; Cons. Stato, sez. VI, 15
giugno 2009, n. 3829, in Foro it., 2009, III, p. 497. Sulla coerenza della nuova disposizione
con la giurisprudenza anteriore si è pronunciata l’adunanza plenaria: v. Cons. Stato, ad.
plen., 2 dicembre 2010, n. 3, in Foro it., 2011, III, p. 133; nello stesso senso v. anche Cons.
Stato, sez. V, 13 maggio 2011, n. 2892: « Il riconoscimento dell’errore scusabile e la conseguente rimessione in termini presuppongono uno stato di incertezza per la oggettiva difficoltà di interpretazione di una norma, per la particolare complessità della fattispecie concreta, per contrasti giurisprudenziali esistenti o per il comportamento non lineare dell’Amministrazione, idoneo a ingenerare convincimenti non esatti o comunque errore non imputabile al ricorrente ».
( 57 ) In questo senso v. D’Alessandro, L’errore scusabile fa il suo ingresso nel processo
civile: il mutamento di un precedente e consolidato orientamento giurisprudenziale quale giusta causa di rimessione in termini ai fini della proposizione del ricorso per cassazione, in Corr.
giur., 2010, p. 1480 ss., la quale prospetta la possibilità che la rimessione in termini operi
« non solo a fronte di situazioni in cui l’atto processuale posto in essere dall’interessato entro un termine perentorio nel rispetto dei requisiti di forma fissati dalla giurisprudenza di
legittimità nell’esercizio della sua funzione nomofilattica risulti successivamente viziato
proprio per difetto di forma a causa di un mutamento giurisprudenziale, rendendosi necessaria la rinnovazione; ma altresì quando l’errore in cui sia incorsa la parte è più latamente dovuto ad oscillazioni giurisprudenziali di legittimità (e forse anche di merito) che solo
successivamente al compimento dell’atto trovino composizione, ovvero a monte ad un da-
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tesi le parti non sono in grado di prevedere quale sia l’interpretazione da
seguire e, diversamente da quanto sembra supporre la S.C. ( 58 ), a volte
non è possibile premunirsi contro il rischio di incorrere in decadenza neppure con la migliore diligenza.
La circostanza che il mutamento di giurisprudenza abbia un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa di una parte è quindi condizione
sufficiente per distinguere i casi meritevoli da quelli non meritevoli di tutela ( 59 ) e di ciò è bene che abbia coscienza anche la Cassazione affinché
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to normativo incoerente od ambiguo: in altri termini a tutte quelle situazioni (...) ricondotte, nel contesto del processo amministrativo, alla nozione di errore scusabile ». Come rileva l’A., « se nell’ambito del processo amministrativo può essere concessa la rimessione in
termini a fronte di oscillazioni giurisprudenziali che abbiano causato il mancato rispetto di
un termine perentorio per causa non imputabile alla parte » (o di incertezze derivanti dal
dato normativo), « ragioni di uguaglianza inducono a ritenere che lo stesso fenomeno debba essere ricondotto alla sfera di applicazione dell’art. 153, comma 2o, c.p.c. ». In questo
senso cfr. anche Santangeli, op. cit., p. 36.
( 58 ) In una recente pronuncia (Cass., sez. lav., 25 febbraio 2011, n. 4687, in Foro it.,
2011, I, p. 1074, con oss. di Costantino), la S.C. ha negato la rimessione in termini per la
rinnovazione della notifica del ricorso per cassazione alla parte che, in epoca precedente a
Cass., sez. un., 24 luglio 2009, n. 17352, di fronte all’esito negativo, per causa ad essa non
imputabile, della notificazione del ricorso per cassazione presso l’avvocato domiciliatario
della controparte, non aveva richiesto all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento
notificatorio entro un termine ragionevolmente contenuto, sulla base della considerazione
che, con tale pronuncia, le sezioni unite avrebbero « dato continuità » ad una serie di precedenti anteriori al tentativo di notificazione dell’atto di impugnazione in questione (ove la
giurisprudenza « non innovi un consolidato orientamento precedente, ma risolva una questione già decisa da altri giudici in senso difforme, dissipando un’incertezza interpretativa
(...) l’inosservanza del principio di precauzione può escludere l’affidamento incolpevole
(...) »; in senso adesivo v. Costantino, Il principio di affidamento, cit., p. 1083 ss., per cui,
al cospetto di divergenti interpretazioni, l’affidamento incolpevole sarebbe escluso dal
« dovere di precauzione », in quanto, in questo caso, « la “norma” o il “diritto vivente” già
presentano elementi di ambiguità »; Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 449; Verde, Mutamento
di giurisprudenza e affidamento incolpevole (considerazioni sul difficile rapporto fra giudice e
legge), cit., p. 16). Il principio affermato dalla Corte, se può valere per i casi – quale quello
deciso dalla pronuncia in questione – in cui uno dei due orientamenti si limiti a richiedere
un adempimento in più dell’altro, non vale però sicuramente in relazione all’ipotesi in cui
alle parti si imponga la scelta netta tra un comportamento o un altro (come avviene, ad es.,
laddove il conflitto fra i due diversi orientamenti attenga alla scelta del mezzo di impugnazione proponibile contro un dato provvedimento: i.e. appello o ricorso straordinario per
cassazione). Ove ricorra quest’ultima situazione sarà meritevole di tutela tanto la parte che
abbia erroneamente confidato sull’interpretazione più recente, sebbene ancora minoritaria, quanto la parte che abbia erroneamente confidato sull’interpretazione maggioritaria,
ma disattesa da una o più pronunce recenti (cfr. in arg. Santangeli, op. cit., p. 41 testo e
nt. 123). V. il caso deciso da Cass., sez. un., 2 ottobre 2012, n. 16727, in Riv. trim. dir. e
proc. civ., 2013, p. 1533 ss., con nota di Lombardi (su cui amplius alla nt. 60).
( 59 ) Secondo quanto affermato dalle sez. un. nella sent. 28 gennaio 2011, n. 2067, la parte che, prima di Cass., sez. un., 9 ottobre 2008, n. 24883, abbia interposto gravame avverso
la sentenza di primo grado senza censurare la soluzione (esplicita o implicita) della questione di giurisdizione non potrebbe giovarsi della rimessione in termini per far valere tale
eccezione in cassazione, in quanto l’overruling operato da detta pronuncia sarebbe un
esempio paradigmatico di overruling « prevedibile ». Come osservato dalla migliore dottrina, la ragione per cui tale parte non può abbeverarsi alla tutela restitutoria non risiede però
nella circostanza che il mutamento giurisprudenziale operato da detta pronuncia fosse
« prevedibile », bensì nel fatto che tale mutamento non incide sulla effettività della tutela
giurisdizionale, tenuto conto della equivalenza funzionale delle giurisdizioni (v. retro alla
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non risultino violati i principi del giusto processo in pregiudizio di parti
incolpevoli ( 60 ).
nt. 46). In quest’ottica è significativo che, in questa stessa pronuncia, le sezioni unite riconoscono che, in siffatta ipotesi, dal mutamento di indirizzo giurisprudenziale non consegue l’esigenza di una tutela restitutoria anche sulla base del rilievo che « la nuova lettura
dell’art. 37 c.p.c. data nel 2008 da queste Sezioni Unite non ha (...) inciso sui diritti di difesa delle parti nei gradi di merito né ha impedito di adire, per questioni attinenti alla giurisdizione, la Corte di legittimità, ma ha solo inciso sui tempi e sui modi per porre le questioni stesse e quindi sulle “strategie processuali” delle parti, escludendo, con fermezza, la
compatibilità con il sistema della dilazione della questione (attraverso la diluizione dei
tempi della sua proponibilità) (...) » (nel senso del testo v. poi anche Cass., sez. un., 11
aprile 2011, n. 8127, in Giur. it., 2011, p. 995 ss., ove la Corte, nel respingere il ricorso della parte che lamentava l’erronea soluzione della questione di giurisdizione operata implicitamente dal Tar, sulla base di quanto statuito in tema di giudicato implicito da Cass., sez.
un., 9 ottobre 2008, n. 24883, anche se l’appello era stato proposto prima di tale pronuncia, afferma del tutto condivisibilmente che la parte che abbia fatto affidamento su una
consolidata giurisprudenza di legittimità, successivamente travolta, ha diritto ad essere rimessa in termini solamente nel « caso in cui il revirement giurisprudenziale abbia reso impossibile una decisione sul merito delle questioni sottoposte al giudice scelto dalla parte »
e non nel « caso inverso, nel quale la pretesa azionata sia stata compiutamente conosciuta
dal giudice dotato di giurisdizione secondo le norme vigenti al momento dell’introduzione
della controversia, come allora generalmente interpretate », atteso che in tale ipotesi « il ricorrente, senza poter lamentare (...) alcuna lesione del suo diritto di difesa, già pienamente
esercitato, tend[e], con la richiesta di tutela dell’affidamento, a porre nel nulla il processo
celebratosi per poter invocare un nuovo pronunciamento sul merito della questione »).
In altra occasione poi le sezioni unite (Cass., sez. un., 12 ottobre 2012, n. 17402, cit.)
hanno escluso che possa invocare rimedi ripristinatori l’avvocato che, in epoca precedente
a Cass., sez. un., 22 dicembre 2011, n. 28335, abbia impugnato davanti al C.N.F. la delibera di apertura del procedimento disciplinare, disposto nei suoi confronti dal Consiglio
dell’ordine territoriale, anche sulla base della considerazione che, prima di tale pronuncia,
non poteva ritenersi esistente « un orientamento univoco » tale da fondare il legittimo affidamento in tal senso dell’interessato. La conclusione secondo cui nel caso di specie non
doveva farsi luogo a rimedi ripristinatori appare condivisibile, ma non perché l’esigenza di
tutela ripristinatoria non possa porsi anche nel caso di conflitti di giurisprudenza (v. supra), quanto perché – come riconosciuto del resto nella stessa sent. n. 17402 del 2012 – in
tale caso non era ravvisabile alcuna lesione del diritto di difesa del ricorrente, dal momento
che l’avvocato nei cui confronti sia stata deliberata l’apertura del procedimento disciplinare ha sempre la facoltà di far valere eventuali vizi di tale atto – non solo procedurali, ma
anche sostanziali – avanti al C.N.F. nel momento in cui il procedimento si concluda con un
provvedimento disciplinare.
( 60 ) Nell’ottica abbracciata nel testo è dunque apprezzabile invece Cass., sez. un., 2 ottobre 2012, n. 16727, cit., la quale, pur dando atto che il principio secondo il quale l’ordinanza di cui all’art. 789, comma 3o, c.p.c., emessa in presenza di contestazioni, è impugnabile con l’appello ha tratto alimento da una modifica normativa del 1998 – e quindi pur ritenendo implicitamente che l’inversione di rotta operata da Cass. 22 febbraio 2010, n.
4245, che per prima ha accolto tale principio (con riguardo alla correlata fattispecie dell’ordinanza di vendita di immobili di cui all’art. 788 c.p.c.), consegua ad un’interpretazione « evolutiva » –, reputa meritevole di tutela l’affidamento riposto dalla parte sul precedente orientamento a favore dell’impugnabilità di tale provvedimento con ricorso straordinario in cassazione ex art. 111 Cost., assegnando rilievo decisivo al fatto che solo a seguito della sent. n. 4245 del 2010 « è venuto ad emersione il diverso orientamento » (ed invero, a nostro avviso, l’affidamento riposto dalla parte sul precedente orientamento sarebbe
meritevole di tutela sino al momento di oggettiva conoscibilità della stessa sent. delle sez.
un. n. 16727 del 2012, che ha composto il contrasto).
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8. Il mutamento di giurisprudenza è « retrospettivo » (pur essendo « innovativo »).
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Una volta compreso che un overruling in ambito processuale non può
pregiudicare l’effettività della tutela, si pone però il problema di come assicurare tale risultato.
Una parte minoritaria della dottrina ( 61 ), in sintonia con alcune pronunce di merito ( 62 ), muovendo dal presupposto che il mutamento di giurisprudenza costante della Corte di cassazione in materia processuale determini « un effetto giuridico sopravvenuto », come « l’entrata in vigore di
una nuova norma giuridica », risolve in radice la questione, negando che
esso possa avere efficacia retroattiva. Se l’interpretazione giurisprudenziale, in virtù della garanzia del giusto processo, ha la capacità di « resistere »
alla legge « interpretativa » avente ambizione di applicarsi ai processi in
corso (a meno che questa sia giustificata da « preminenti esigenze di interesse generale »: v. supra), anche l’overruling in materia processuale non
potrebbe che essere « prospective » ( 63 ).
La dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono all’opposto che
il mutamento di giurisprudenza abbia intrinsecamente carattere « retro( 61 ) V. Caponi, Il mutamento di giurisprudenza costante, cit., p. 313 ss.; Barone, Caponi, Costantino, Dalfino, Proto Pisani e Scarselli, op. cit., p. 3034 s., secondo i quali
il « mutamento di giurisprudenza costante della Corte di cassazione in materia di interpretazione di norme processuali » sarebbe « uno ius superveniens irretroattivo », sulla base
della considerazione che altrimenti il processo non solo sarebbe « un percorso affatto predeterminato dalla legge, come vuole l’art. 111 Cost., ma uno strumento più che di attuazione del diritto sostanziale, di produzione di ingiustizie evidenti e mai prevedibili »; v. anche Proto Pisani, Un nuovo principio generale del processo, cit., p. 119: « [D]al combinato disposto: a) dell’art. 111 Cost. in tema di predeterminazione delle regole processuali, b)
degli artt. 153 c.p.c. in tema di rimessione in termini e 37 nuovo c.p.a. in tema di errore
scusabile, c) e del principio dell’affidamento [è] agevole ma anche doveroso desumere il
seguente principio generale: il compimento di un atto processuale secondo le forme e i termini previsti dal “diritto vivente” al momento in cui l’atto è compiuto, comporta la validità
dell’atto stesso in caso di successivo mutamento giurisprudenziale in tema di quelle forme
e di quei termini ».
( 62 ) V. Trib. Milano 7 ottobre 2010 e Trib. Varese 8 ottobre 2010, in Foro it., 2010, I, p.
3015 ss. e in Corr. giur., 2010, p. 1450 ss., con nota di Tedoldi, le quali, allo scopo di
« salvare » le opposizioni a decreto ingiuntivo, in thesi improcedibili in base al principio
affermato da Cass., sez. un., 9 settembre 2010, n. 19246, cit., si sono richiamate all’esistenza di un principio di affidamento sul diritto vivente che renderebbe l’overruling non applicabile retroattivamente.
( 63 ) Cfr. in questo senso Santangeli, op. cit., spec. p. 30. Come noto, per ovviare alle
conseguenze ingiuste cui può condurre l’efficacia retroattiva del mutamento di giurisprudenza, nel diritto statunitense si è affermata la tecnica del c.d. prospective overruling:
l’espressione indica fenomeni diversi, tutti rivolti a limitare gli effetti retroattivi dell’overruling, ma con varianti significative: da quella più semplice (pure prospective overruling), in
base alla quale il precedente overruled continua ad applicarsi al caso di specie e a quelli
pendenti al momento della pronuncia, ad altre più articolate che limitano l’efficacia retroattiva alle sole parti in causa (in proposito v. Calzolaio, Mutamento giurisprudenziale e
overruling, cit., p. 914 ss.; cfr. anche Santangeli, op. cit., p. 15, nt. 49). Va osservato comunque che questa tecnica non comporta la generale ed automatica irretroattività dell’overruling giurisprudenziale, ma l’irretroattività viene disposta caso per caso dalla Corte
Suprema. Nel senso di una generale ed automatica limitazione di retroattività dell’overruling in materia processuale v. invece Santangeli, op. cit., p. 30, nt. 89.
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spettivo », fondando però sovente tale conclusione sulla sua supposta natura meramente dichiarativa ( 64 ).
Orbene, il mutamento di giurisprudenza è bensì « retrospettivo »; tuttavia, come sottolineato da attenta dottrina ( 65 ), questa conclusione non si
impone per il fatto che l’opera interpretativa del giudice abbia natura meramente dichiarativa – dacché, come si è visto, questa ha al contrario com( 64 ) Cfr. Ruffini, op. cit., p. 1401, per cui l’attività di interpretazione del giudice « è e
non può non essere, anche per quanto riguarda le norme processuali, dichiarativa di un comando posto altrove e come tale indubbiamente retroattivo »; Verde, op. cit., p. 10 ss. In
giurisprudenza, per tutte, Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, cit., punto 2.3, lett. f);
Cass., sez. un., 4 novembre 2004, n. 21095, che, nel rimarcare come la giurisprudenza non
avrebbe potuto conferire normatività al meccanismo di capitalizzazione trimestrale degli
interessi, dalla « incontestabile premessa » per cui « la funzione assolta dalla giurisprudenza, nel contesto di sillogismi decisori, non può essere altra che quella ricognitiva, dell’esistenza e dell’effettiva portata, e non dunque anche una funzione creativa, della regola stessa », trae quale « logico ed obbligato corollario » che, « in presenza di una ricognizione,
pur reiterata nel tempo, che si dimostri poi però erronea nel presupporre l’esistenza di una
regola in realtà insussistente, la ricognizione correttiva debba avere una portata naturaliter
retroattiva, conseguendone altrimenti la consolidazione medio tempore di una regola che
troverebbe la sua fonte esclusiva nelle sentenze che, erroneamente presupponendola,
l’avrebbero con ciò stesso creata ».
( 65 ) Per il rilievo che la questione relativa all’efficacia sul piano temporale del mutamento di giurisprudenza è del tutto slegata da quella relativa alla natura – meramente dichiarativa o anche innovativa – dell’opera interpretativa del giudice, essendo invece strettamente correlata al tipico modulo di efficacia degli atti giurisdizionali, v. Sorrenti, op. cit.,
p. 4 s.; in giurisprudenza, cfr. Cass., sez. lav., 25 febbraio 2011, n. 4687, cit., la quale (pur
affermando che la giurisprudenza assolve una funzione « meramente dichiarativa », « con
esclusione formale di qualsiasi efficacia creativa ») riconosce che i mutamenti di giurisprudenza sono « naturalmente retroattivi perché operanti sulla fattispecie concreta sottoposta
al giudice ed anteriore alla decisione di questo ». Secondo Punzi, op. cit., p. 1352, solo se
« la giurisprudenza creativa o innovativa » costituisse una « vera e propria “fonte del diritto” » si potrebbe concludere che, « per la regola tempus regit actum, le norme frutto della
giurisprudenza creativa non possono operare che per il futuro e cioè (...) sono applicabili
solo per gli atti posti in essere in epoca successiva all’entrata in vigore della nuova norma »
(in senso analogo, Costantino, Il principio di affidamento, cit., p. 1073 s., per cui « l’applicazione ai mutamenti di giurisprudenza dei principi operanti per lo ius superveniens »
sarebbe incompatibile con il sistema vigente in considerazione del fatto che l’art. 101,
comma 2o, Cost. dispone che « i giudici sono soggetti soltanto alla legge »; cfr. anche Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 447). In realtà, anche nei paesi di common law, in cui la giurisprudenza è tradizionalmente la principale « fonte del diritto », le nuove regole giurisprudenziali di regola hanno efficacia retroattiva proprio perché l’attività « creatrice » del giudice è
sempre intimamente legata a quella di decidere un caso concreto, inevitabilmente già verificatosi. Ed è anzi significativo ricordare che la tecnica del prospective overruling non è stata introdotta nell’ordinamento inglese anche in considerazione al fatto che « adjudication
is thought of as something that relates to past events » e che, benché il giudice inglese sia
« to a limited extent a developer of the law, even a legislator », « his other funcion, that of
administering justice according to law between the parties who are concerned with past
events, is unquestionably the more important of the two » (v. Cross, Precedent in English
Law, Oxford, 1977, p. 233); mentre nell’ordinamento statunitense la scelta tra efficacia retroattiva ed efficacia in futuro della nuova norma e le possibili combinazioni di essa, è regolata, come detto da Cardozo, « non da concezioni metafisiche sulla natura del diritto di
produzione giudiziale, né dal feticcio di qualche dogma implacabile, come quello della divisione dei poteri governativi, ma da considerazioni di convenienza, di utilità e dei più profondi sentimenti di giustizia » (v. Cardozo, Il giudice e il diritto, trad. it. di V. Gueli, Firenze, 1961, p. 71; sul punto, v. Mandelli, Recenti sviluppi dello stare decisis, cit., p. 674).
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ponenti « innovative » –, ma, molto più semplicemente, per la stessa ragione per cui la « retrospettività » è connaturata all’attività giurisdizionale. Anche il revirement della S.C. infatti, per quanto innovativo sia il suo
contenuto a confronto con il diritto vivente sin lì formatosi, non è che
esercizio tout court di giurisdizione: ed è quindi chiamato a rispondere alla
domanda « quid iuris? » nei casi concreti già verificatisi nel passato ( 66 ).
Ne consegue che un atto processuale, « irrituale » in base all’interpretazione accolta dal giudice investito del compito di decidere sulla sua ritualità, di per sé non può considerarsi rituale ( 67 ); ma, se era rituale in base all’indirizzo dominante al momento in cui è stato compiuto, è il principio
del giusto processo che impone che la « irritualità » dell’atto non si ripercuota sull’effettività della tutela giurisdizionale.
9. Le concrete modalità di tutela della parte colpita da un mutamento di
giurisprudenza in materia processuale: la rimessione in termini e la
« convalida » dell’atto irrituale.
Se è vero che il mutamento di giurisprudenza ha carattere « retrospettivo », si pone però allora il problema di individuare lo strumento processuale più idoneo a tutelare la parte che ne sia colpita.
In una prima occasione la Cassazione ha ritenuto che questo strumento
fosse la rimessione in termini: così, ad esempio, nella sent. 17 giugno
2010, n. 14627, la Corte, dopo aver rilevato che una parte aveva erroneamente proposto ricorso per cassazione nelle forme del rito penale, anziché
in quelle del rito civile, ha concesso alla parte un nuovo termine per proporre il ricorso secondo le forme del codice di procedura civile ( 68 ). Successivamente, nella sent. 11 luglio 2011, n. 15144, la S.C. ha operato però
un distinguo, statuendo che, ove non venga in rilievo un vizio di forma,
ma di tempestività dell’atto, il valore del giusto processo possa trovare diretta applicazione con la semplice esclusione dell’operatività della preclusione derivante dall’overruling ( 69 ). Da ultimo, nella sent. 2 ottobre 2012,
( 66 ) In questo senso Sorrenti, op. cit., p. 4.
( 67 ) Sul punto v., per tutti, Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1401:
« (...) la condotta tenuta in conformità ad un orientamento poi abbandonato non potrà ritenersi intrinsecamente valida ed efficace, poiché da valutarsi solo e proprio in base alla
“norma” vivente all’epoca. Detta condotta dovrà invece essere necessariamente ritenuta irrituale o tardiva in forza del novello apporto ermeneutico affermatosi (nell’individuare il
significato – più – conforme al significante) (...) ».
( 68 ) V. Cass. 17 giugno 2010, n. 14627, cit., la quale ha concesso la rimessione in termini
per la proposizione del ricorso per cassazione nelle forme del rito civile alla parte che, in
epoca precedente a Cass., sez. un., 3 settembre 2009, n. 19161, aveva impugnato l’ordinanza di rigetto dell’opposizione, proposta avverso il decreto di liquidazione dell’indennità e
delle spese di custodia di beni sottoposti a sequestro, emesso a suo favore nell’ambito di
un procedimento penale, con ricorso per cassazione redatto nelle forme e secondo i termini del rito penale.
( 69 ) V. Cass., sez. un., 11 luglio 2011, n. 15144, cit., la quale, dopo aver ricollegato – innovando il proprio precedente orientamento – la decorrenza del termine breve di impugnazione della sentenza del tribunale superiore delle acque pubbliche alla notificazione, ad
istanza della cancelleria del giudice, della copia integrale del dispositivo, indipendenteNLCC 6-2015
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n. 16727, la Corte, pur richiamandosi a quanto statuito nella sent. n.
15144 del 2011, è andata oltre la distinzione tracciata in tale decisione,
escludendo l’inammissibilità dell’impugnazione proposta al giudice « sbagliato » ( 70 ).
L’evoluzione che si è registrata nella giurisprudenza della S.C. rende
dunque evidente come la tutela della parte colpita da un overruling in
materia processuale vada modulata in correlazione alla peculiarità del
caso concreto. Alle volte ( 71 ) potrà soccorrere lo strumento della rimessione in termini ( 72 ), senz’altro applicabile – nonostante il contrario
avviso di una parte minoritaria della dottrina ( 73 ) – anche all’ipotesi di un
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mente dalla previa registrazione della sentenza, ha « considerato tempestivamente proposto » il ricorso per cassazione proposto dalla parte oltre tale termine, ritenendo non operante nei suoi confronti la decadenza per tardività.
( 70 ) Cass., sez. un., 2 ottobre 2012, n. 16727, cit., rovesciando l’orientamento pressoché
pacifico fino al 2009, ha ritenuto che l’ordinanza emessa dal giudice monocratico ai sensi
dell’art. 789, comma 3o, c.p.c., espressamente qualificata dalla norma come « non impugnabile », sia impugnabile con l’appello (e non con ricorso straordinario per cassazione)
allorché sia stata emessa in presenza di contestazioni da parte dei condividenti sul progetto
di divisione oggetto della dichiarazione di esecutività o di altri impedimenti processuali.
Alla stregua del principio accolto, la S.C., dopo aver rilevato che, nella specie, la parte aveva impugnato l’ordinanza de qua con ricorso per cassazione in conformità all’orientamento
sin lì dominante (e pur osservando che la contraria interpretazione ha tratto alimento da
una modifica normativa del 1998), anziché rimettere in termini la parte per proporre appello sulla base di quanto affermato da Cass. n. 14627 del 2010, ha « convalidato » il ricorso per cassazione proposto, decidendolo nel merito.
( 71 ) Lo strumento della rimessione in termini potrà essere proficuamente utilizzato nel
caso in cui la parte abbia omesso di compiere un atto (o nel caso in cui l’atto compiuto dalla parte difetti di un requisito) intrinsecamente indispensabile per la pronuncia della decisione di merito.
( 72 ) La nuova disposizione sulla rimessione in termini di cui all’art. 153, comma 3o,
c.p.c., non diversamente da quella contenuta all’art. 184 bis c.p.c. di cui ripete la formulazione, è applicabile non soltanto a tutte le ipotesi di perdita di un potere processuale per
mancato esercizio nei limiti temporali previsti dalla legge, siano essi rappresentati da un
termine perentorio ovvero da un’udienza o fase del processo, nella quale o entro la quale il
potere doveva essere esercitato (ipotesi quest’ultima che la prevalente dottrina, sulle orme
di Chiovenda, suole ricondurre alla più generica figura della preclusione, riservando il termine decadenza alla sola ipotesi di inosservanza del termine: così ad es. Taruffo, voce
Preclusioni (dir. proc. civ.), in Enc. dir., Agg., I, Milano, 1997, p. 794 s.), ma anche alle ipotesi di mancato corretto esercizio del potere nel termine all’uopo stabilito: nell’uno e nell’altro caso, infatti, non si perfeziona la fattispecie cui la legge collega il prodursi dell’effetto, ma si perfeziona, col decorso del termine, la fattispecie della decadenza (Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, cit., p. 338).
( 73 ) V. Caponi, Il mutamento di giurisprudenza, cit., p. 312 s., secondo cui quasi tutti i
tratti salienti dell’istituto della rimessione in termini non quadrerebbero se applicati alla
fattispecie del mutamento di un orientamento costante di giurisprudenza. Scrive l’A.: « La
rimessione in termini presuppone: a) l’inosservanza di un limite temporale assegnato al
compimento di un atto processuale; b) il verificarsi di un impedimento di fatto puntuale e
tendenzialmente limitato alla parte, non imputabile a quest’ultima; c) l’apprezzabilità dell’impedimento, in quanto tale, con una valutazione già coeva al verificarsi di quest’ultimo;
d) l’accertamento in concreto dell’impedimento, sulla base degli elementi forniti dall’istanza della parte, che lasci al giudice significativi margini di valutazione circa la sussistenza o
meno del fatto che ha impedito il tempestivo compimento dell’atto. Viceversa, in questa
fattispecie: a) il limite temporale » per il compimento dell’atto « è stato a suo tempo osservato; b) non si è verificato un impedimento incolpevole, bensì non si è verificato nessun
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revirement della S.C. in ambito processuale ( 74 ). Più di frequente risul-
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impedimento; non c’è errore scusabile, bensì manca proprio l’errore; c) l’impedimento viene supposto come esistente unicamente con una valutazione ex post, dettata dal sopravvenire di un evento (mutamento dell’orientamento costante di giurisprudenza sull’interpretazione di una norma processuale), che viene artificiosamente qualificato come “venir meno dell’impedimento”; d) l’accertamento in concreto dell’impedimento è superfluo, come
è superflua l’istanza della parte, né sussiste un significativo margine di apprezzamento da
parte del giudice ». Questa tesi non sembra però condivisibile (e, se la si accogliesse, sembrerebbe doversi escludere la possibilità di ottenere la rimessione in termini anche con riguardo all’ipotesi di errore scusabile, che può essere dovuto, ad es., ad oggettiva incertezza
sul contenuto di una norma processuale; a favore invece della concessione della rimessione
in termini – ex art. 184 bis o ex art. 153, comma 2o, c.p.c. – anche nel caso di errore scusabile v., per tutti, Boccagna, sub art. 153, in Consolo (diretto da), Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, Milano, 2009, p. 132, oltre che lo stesso Caponi, La
rimessione in termini nel processo civile, cit., passim). Se è vero infatti che la fattispecie contemplata dall’art. 153, comma 2o, c.p.c. (e, in precedenza, dall’art. 184 bis) non è perfettamente sovrapponibile a quella del mutamento di giurisprudenza – come risulta evidente
considerando che la prima si attaglia propriamente all’ipotesi in cui la parte abbia fatto tutto il possibile per compiere una certa attività processuale nel modo considerato rituale dal
giudice adito, ma non vi sia riuscita a causa di un evento materiale estraneo alla sua sfera di
controllo, mentre, nel caso del mutamento di giurisprudenza (come anche in quella dell’errore scusabile), la parte ha volutamente compiuto l’atto in modo difforme da quello ex post
considerato rituale dal giudice adito, confidando legittimamente però sull’orientamento
giurisprudenziale sino a quel momento dominante –, non si vede perché la rimessione in
termini non possa essere concessa anche in quest’ultima ipotesi, giacché ciò che rileva ai
fini di tale rimedio è la circostanza – che ricorre pure in siffatta evenienza – che la parte sia
incorsa in decadenza per causa a sé non imputabile (la « causa non imputabile », che ha impedito alla parte il compimento dell’atto in modo rituale, non è – come sembra presupporre talvolta la dottrina (v., ad es., D’Alessandro, op. cit., p. 1479 s.) – il fatto che, successivamente al compimento dell’atto, sia intervenuto un mutamento di giurisprudenza, ma la
circostanza che, al momento del compimento dell’atto, fosse dominante un diverso orientamento giurisprudenziale e che su quell’orientamento la parte avesse fatto legittimo affidamento, dacché la prospettiva dalla quale la vicenda va osservata è quella del giudice autore dell’overruling). Fra le due fattispecie vi è però una differenza tale da far sì che i presupposti della rimessione in termini non siano esattamente coincidenti. Mentre infatti, nell’ipotesi dell’impedimento materiale, la parte si vede preclusa un’attività processuale che,
secondo il giudice adito, è ammessa dall’ordinamento, nel caso del mutamento di giurisprudenza (come in quello dell’errore scusabile) la parte si vede preclusa invece un’attività
processuale che, secondo il giudice adito, non è ammessa dall’ordinamento. Di conseguenza se, con riguardo all’ipotesi dell’impedimento materiale, si può convenire con la tesi secondo cui la rimessione in termini va concessa anche allorché la decadenza, pur precludendo alla parte il compimento di una determinata attività processualmente rilevante, arrechi
alla parte un semplice svantaggio strategico, anche contrastante con il fine del processo,
i.e. la decisione nel merito nel rispetto del principio di difesa e del contraddittorio (come
ad es. la perdita della possibilità di invocare una nullità formale o extraformale; in questo
senso v. Caponi, op. ult. cit., p. 327 ss.; Boccagna, op. cit., p. 118), nell’ipotesi del mutamento di giurisprudenza (e lo stesso dovrebbe valere con riguardo all’ipotesi dell’errore
scusabile) la tutela restitutoria deve ritenersi concedibile solo allorché la decadenza pregiudichi l’effettività della tutela giurisdizionale (come avviene, ad es., laddove incida sull’attività di deduzione e produzione o sui poteri processuali di impulso)(v. retro al par. 6).
( 74 ) Condizione per ottenere la rimessione in termini è che il tempestivo esercizio del
potere sia stato ostacolato da un impedimento derivante da causa non imputabile alla parte e quindi anche che sia stato impedito dalla mancata conoscenza dell’esistenza e delle
modalità di esercizio del potere, dovuta non solo ad ignoranza del fatto legittimante, ma
anche ad ignoranza della norma processuale (v. Caponi, op. ult. cit., pp. 28 ss. e 271 ss.;
Id., La causa non imputabile alla parte nella disciplina della rimessione in termini nel pro-
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terà però diseconomico, se non del tutto inutile, assegnare alla parte un
nuovo termine per il compimento dell’atto ed il rimedio sarà allora l’inibizione dell’effetto « sanzionatorio » riconnesso all’irrituale o al mancato
compimento dell’atto ( 75 ). Ciò accadrà, ad esempio, allorché un atto processuale sia stato compiuto tardivamente, come dimostra il caso deciso
dalle sez. un. con la sent. n. 15144 del 2011 ( 76 ); ma anche, si potrebbe ri-
cesso civile, in Foro it., 1998, I, p. 2666). In senso favorevole all’applicazione della rimessione in termini all’ipotesi del mutamento di giurisprudenza, D’Alessandro, op. cit., p.
1480 ss., la quale rileva come siffatta interpretazione abbia lo scopo di ovviare alle conseguenze inique derivanti dall’applicazione retroattiva di un mutamento giurisprudenziale
mediante l’impiego di un istituto di diritto positivo; v. anche Costantino, op. cit., p.
1089; Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 448; Punzi, op. cit., p. 1354; Cavalla, Consolo e M.
De Cristofaro, op. cit., p. 1398; Consolo, Le Sezioni Unite tornano sull’overruling, cit.,
p. 3169; Verde, op. cit., p. 12 ss.
( 75 ) Sul punto, v. Ruffini, op. cit., p. 1405, secondo cui « la dichiarata esclusione dell’operatività della decadenza (...) altro non è che una forma particolare di rimessione in termini pronunciata dal giudice in tutti quei casi nei quali l’assegnazione di un termine per la
rinnovazione dell’atto si risolverebbe in un inutile spreco di attività processuale ed in una
irragionevole dilazione della durata del processo, in palese contrasto con l’art. 111 Cost. »;
Verde, op. cit., p. 12 ss., secondo cui l’art. 153, comma 2o, c.p.c. si applica anche all’ipotesi in cui si tratta di convalidare o sanare retroattivamente un atto compiuto irritualmente
senza colpa dalla parte, con la conseguenza che la sanatoria non può ritenersi un effetto
automatico derivante dal supposto carattere non retroattivo della nuova interpretazione (è
necessario infatti un apposito provvedimento del giudice non solo per restituire alla parte
– che dimostri di essere incorsa in decadenza per causa non imputabile – il potere di compiere l’atto, ma anche per escludere la rilevanza preclusiva del suo errore).
L’ipotesi di convalida o sanatoria retroattiva dell’atto viziato si avvicina molto a quella
particolare variante di prospective overruling in base alla quale la Corte Suprema statunitense, dopo aver operato l’overruling, stabilisce che il precedente overruled continua ad applicarsi al caso di specie. A tal riguardo si può osservare però che nell’ipotesi di (prospective) overruling il giudice, nel momento in cui opera il cambio di giurisprudenza, « annuncia » che per il futuro troverà applicazione la nuova interpretazione (fermo restando comunque che neppure la Supreme Court statunitense è vincolata ai propri precedenti). Risultando problematico che il giudice di civil law annunci di vincolarsi per il futuro ad una
certa interpretazione (vincolo che resta peraltro sempre reversibile e caduco), la dottrina
tedesca ha criticato il ricorso alla tecnica del prospective overruling da parte delle Corti di
vertice tedesche (sul punto v. la Relazione tematica del 31 marzo 2011 dell’Ufficio del
Massimario e del Ruolo della Corte Suprema di Cassazione su L’overruling giurisprudenziale in materia di processo civile, in www.cortedicassazione.it, p. 20).
( 76 ) In senso adesivo v. Costantino, op. cit., p. 1089, il quale afferma che il riconoscimento dell’affidamento incolpevole può implicare « la negazione della decadenza frutto
della nuova interpretazione giurisprudenziale »; Punzi, op. cit., p. 1354, ad avviso del quale è utile la proposta di considerare la parte « come aver agito correttamente », una volta
verificata la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 153 c.p.c.; Ruffini, op. cit., p.
1404 ss., il quale sottolinea inoltre che, nell’ipotesi in cui al compimento ad opera di una
parte di un’attività processuale che debba essere considerata tardiva alla stregua del mutato orientamento giurisprudenziale non sia seguita la costituzione in giudizio dell’altra parte, che abbia confidato nel rilievo officioso della decadenza, « l’eventuale riconoscimento
dell’affidamento incolpevole, con conseguente esclusione dell’operatività della decadenza,
non potrebbe valere certamente a sanare ex tunc l’attività processuale compiuta nella contumacia dell’altra parte; con la conseguenza che, pur potendosi ritenere inutile e dispendiosa la rinnovazione dell’atto tardivamente compiuto, l’eventuale provvedimento di
esclusione di operatività della decadenza dovrà essere notificato alla parte non costituitasi,
Overruling in materia
processuale
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tenere, nell’ipotesi in cui venga in rilievo il difetto di un requisito dell’atto
che – com’è frequente che sia ( 77 ) – non sia intrinsecamente indispensabile
per l’esame nel merito della domanda (o dell’impugnazione), ma solo funzionale alla sua più efficiente trattazione ( 78 ), secondo quanto emerge dalla sent. n. 16727 del 2012 ( 79 ).
10. La decisione sulla scusabilità dell’errore presuppone che le parti abbiano
avuto la possibilità di contraddire su tale questione.
Overruling in materia
processuale
Quanto alla questione relativa al se i rimedi appena menzionati possano
essere apprestati solo su istanza di parte o anche d’ufficio, è noto che la
S.C. li ha concessi d’ufficio, talora adducendo, a sostegno di detta soluzione, il fatto che nella specie, a differenza di quanto avviene nel caso di impedimento materiale prefigurato in passato dall’art. 184 bis ed ora dall’art.
153, comma 2o, c.p.c., la causa non imputabile sarebbe nota al giudice ( 80 ).
con conseguente rimessione di quest’ultima nei termini per la costituzione in giudizio e necessità di rinnovare tutta l’attività processuale medio tempore compiuta » (v. anche supra
nt. 48).
( 77 ) Considerato che, fino alla pronuncia che ha operato l’overruling, era pacifica o comunque dominante un’interpretazione che negava rilievo al vizio.
( 78 ) Si pensi, ad es., a molti requisiti prescritti a pena di inammissibilità o di improcedibilità dell’impugnazione, che rispondono alla finalità di incanalare l’esercizio del potere di
impugnazione nel rispetto di precise forme, sì da rendere più serrata la cadenza del giudizio di gravame. Astrattamente, anche qualora manchi uno di questi requisiti, sarebbe necessario che il giudice rimettesse in termini la parte per il compimento dell’atto nel rispetto
delle forme individuate; in pratica, però, anche in queste situazioni potrebbe risultare più
opportuno, in virtù dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del
processo, che il giudice convalidi direttamente l’atto invalido. Così ad es., alla luce di queste considerazioni, nel caso deciso da Cass. n. 14627 del 2010 l’impugnazione avrebbe potuto essere direttamente scrutinata nel merito, senza la necessità di disporre la rimessione
in termini per la proposizione secondo le forme del rito civile (e, dunque, senza la formulazione del quesito di diritto prescritto dall’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis applicabile).
Per un accenno in questo senso v. Biavati, Nuovi orientamenti della Cassazione, cit., p.
193 s.; in senso contrario invece D’Alessandro, op. cit., p. 1485, la quale, pur affermando
che il giudice, disponendo la rimessione in termini, dovrebbe per ciò solo convalidare retroattivamente l’atto processuale già compiuto senza il rispetto delle forme e delle modalità processuali prescritte, ove questo sia munito dei requisiti di forma necessari al raggiungimento dello scopo, ritiene che verosimilmente l’originario ricorso presentato nelle forme
del processo penale fosse inidoneo a valere come ricorso introduttivo del procedimento di
cassazione civile; v. anche Costantino, op. cit., p. 1089.
( 79 ) Sembrerebbe invece non condividere il principio affermato da tale pronuncia (né
invero ammettere che il giudice possa rimettere in termini la parte per la proposizione del
gravame) Ruffini, op. cit., p. 1402 s., secondo cui il ricorso per cassazione proposto, nell’esercizio di un potere processuale spettante sulla base di un consolidato orientamento
giurisprudenziale, avverso un provvedimento che la successiva giurisprudenza della Corte
ritenga al contrario non assoggettabile a tale rimedio, non potrebbe essere deciso nel merito, ma il ricorrente potrebbe invocare l’incolpevole affidamento sulla consolidata precedente interpretazione della norma processuale quale giusto motivo per ottenere la (mera)
compensazione delle spese di lite.
( 80 ) V. Cass. 17 giugno 2010, n. 14627, cit.; Cass. 2 luglio 2010, nn. 15809, 15811,
15812, cit.: « (...) nell’art. 184 bis c.p.c. – la disposizione ratione temporis applicabile – (e
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Questa prospettiva, già avallata in passato dal Consiglio di Stato ( 81 ) e
poi recepita dal legislatore all’art. 37 c.p.a. ( 82 ), non sembra però del tutto
persuasiva.
Innanzitutto non sembra condivisibile che, nel contesto dell’art. 184 bis
prima e dell’art. 153, comma 2o, poi, l’istanza di parte, ai fini della rimessione in termini, sia necessaria soltanto nel caso in cui il giudice non sia a
conoscenza dei fatti che hanno impedito il rispetto del termine perentorio
o delle forme prescritte; in virtù del principio dell’impulso di parte che informa il nostro sistema processuale, appare congruo che, anche se tali fatti
fossero noti al giudice o, come nel caso in questione, potessero essere da
lui presunti, egli non possa tenerne conto in difetto di un’apposita istanza ( 83 ).
Overruling in materia
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nell’art. 153, comma 2o, c.p.c.) la necessità di una apposita istanza di parte indirizzata al
giudice è strettamente legata all’onere della parte interessata di allegare, con essa, i fatti che
hanno determinato la decadenza e di offrire la prova della loro non imputabilità, mentre,
nel caso in esame, la causa non imputabile si riconnette, non ad uno stato di materiale impedimento rientrante nell’onere di allegazione e di dimostrazione ad opera della parte interessata, ma alla scelta difensiva dipendente da indicazioni sul rito da seguire provenienti
dalla consolidata giurisprudenza del tempo del promosso ricorso, solo ex post rivelatesi
non più attendibili; in una situazione siffatta, nella quale l’affidamento creato dalla giurisprudenza costituisce chiara ed evidente spiegazione e giustificazione della condotta processuale della parte, la causa non imputabile è determinata e, al contempo, conosciuta dallo stesso arbitro ».
( 81 ) V. Cons. Stato, ad. plen., 19 aprile 1996, n. 2, in Dir. proc. amm., 1997, p. 115, con
nota di Ramajoli; in Foro it., 1997, III, p. 96; in Urb. e app., 1997, p. 100, con nota di Bassani; in Giur. it., 1996, III, p. 690; Cons. Stato, sez. VI, 20 ottobre 1998, n. 1320, in Foro
amm.-Cons. Stato, 1998, p. 2861; Cons. Stato, sez. VI, 20 gennaio 2000, n. 257; Cons. Stato, sez. IV, 29 luglio 2003, n. 4352, in Foro amm.-Cons. Stato, 2003, p. 2205; Cons. Stato,
sez. V, 28 maggio 2004, n. 3451, in Urb. e app., 2004, p. 1433, con nota di Agnolotto e in
Giur. it., 2004, p. 1950; Cons. Stato, sez. VI, 31 maggio 2006, n. 3323, in Foro amm.-Cons.
Stato, 2006, p. 1585; Cons. Stato, sez. V, 21 giugno 2007, n. 3389; Cons. Stato, sez. VI, 26
novembre 2007, n. 6021, in Foro amm.-Cons. Stato, 2007, p. 3194; Cons. Stato, sez. VI, 10
settembre 2008, n. 4308, in Foro amm.-Cons. Stato, 2008, p. 2446; Cons. Stato, sez. V, 17
ottobre 2008, n. 5061; Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1460; Cons. Stato, sez. VI,
13 aprile 2010, n. 2047. In particolare, secondo Cons. Stato, sez. VI, 20 ottobre 1998, n.
1320, cit., la rilevabilità ex officio dell’errore scusabile conseguirebbe alla (tendenziale) rilevabilità d’ufficio della « regolarità dei rapporti processuali ». Come osservato però da
D’Alessandro, op. cit., p. 1483, tale argomento non risulta condivisibile, essendo ben
possibile che il giudice rilevi d’ufficio la decadenza senza concedere alcun rimedio ripristinatorio in assenza di un’istanza in tal senso della parte interessata, pur supponendosi l’esistenza di un errore scusabile. Fino agli anni ’80 il Consiglio di Stato aveva ritenuto invece
che la rimessione in termini potesse essere concessa solo su istanza di parte: v. Cons. Stato,
sez. V, 25 maggio 1979, n. 276, in Foro amm.-Cons. Stato, 1979, I, p. 772. In dottrina, sulla
rimessione in termini per errore scusabile nel processo amministrativo, v. gli autori cit. da
D’Alessandro, op. cit., p. 1482, nt. 19, cui adde De Santis, La rimessione in termini nel
processo civile, Torino, 1997, spec. p. 146 ss.
( 82 ) Come noto, l’art. 37 c.p.a. stabilisce che il giudice amministrativo possa disporre,
anche d’ufficio, la rimessione in termini in presenza di « oggettive ragioni di incertezza su
questioni di diritto » o di « gravi impedimenti di fatto ».
( 83 ) In linea di principio, nel momento in cui il giudice rileva che una parte è incorsa in
decadenza, spetta alla parte in questione allegare (e provare) che è incorsa in decadenza
per « causa a sé non imputabile » anche se quest’ultima sia nota al giudice o possa essere
da lui presunta, e sia che consista nell’essere colpita da un impedimento materiale, sia che
consista nell’essere caduta in errore per aver fatto affidamento sull’orientamento giuriNLCC 6-2015
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Va osservato poi che, anche a voler ritenere che il giudice abbia il potere
di rimettere in termini d’ufficio, si dovrebbe comunque ammettere che
egli, prima di assumere tale provvedimento, debba riservare la decisione e
assegnare alle parti un termine per il deposito di osservazioni al riguardo
(artt. 101, comma 2o, e 384, comma 3o, c.p.c.) ( 84 ). Sì che la tesi a favore
della rilevabilità d’ufficio dell’errore scusabile non risulta neanche parti-
Overruling in materia
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sprudenziale sino a quel momento dominante. In questo senso, cfr. Costantino, op. cit.,
p. 1092, Id., in Foro it., 2011, I, p. 1081, sulla base della considerazione che anche in quest’ambito varrebbe il principio secondo cui iudex secundum alligata iudicare debet, mentre
consentire il rilievo d’ufficio dell’affidamento incolpevole significherebbe applicare ai mutamenti di giurisprudenza i principî operanti per lo ius superveniens; Ruffini, op. cit., p.
1403, osserva che « la conoscenza che il giudice necessariamente ha della giurisprudenza
consolidata al momento del compimento dell’atto processuale può esimere la parte interessata alla rimessione in termini dall’onere della prova di detta “notoria” giurisprudenza e
consente di presumere l’affidamento nella stessa della parte che abbia compiuto una scelta
difensiva con essa coerente, ma non sembra davvero possa esimerla – a fronte del chiaro
dettato dell’art. 153, comma 2o, c.p.c. – dall’onere di richiedere il beneficio della rimessione, allegando l’errore incolpevole »; Verde, op. cit., p. 19, il quale osserva come sia fuorviante il richiamo alla (imperfetta) stesura dell’art. 37 c.p.a., che accomuna errore scusabile
e causa di forza maggiore o fortuito come fondamento della rimessione in termini, prevedendo per entrambi la possibilità del rilievo d’ufficio. Più cauta invece D’Alessandro, op.
cit., p. 1483 s., la quale, dopo aver sottolineato che il fatto che l’impedimento in questione
non sia bisognoso (di allegazione e) di prova non implica di per sé il venir meno della necessità dell’istanza di parte, che potrebbe essere richiesta in quanto manifestazione della
volontà di giovarsi dell’istituto, si chiede se, con riferimento all’istituto della rimessione in
termini, operi il principio di autoresponsabilità, nel senso che spetti imprescindibilmente e
soltanto alla parte interessata attivarsi onde porre rimedio all’avvenuta lesione del proprio
diritto di azione o di difesa, ovvero se a monte dell’istituto non vi sia piuttosto un’esigenza
pubblicistica di protezione di siffatti valori, tale per cui non solo l’interessato ma anche il
giudice, attivandosi d’ufficio, potrebbe rimettere in termini in modo da ristabilire quella
garanzia del giusto processo che fu lesa per causa non imputabile. Sembra invece dare per
scontata la rilevabilità d’ufficio dell’errore scusabile Caponi, Il mutamento di giurisprudenza costante, cit., p. 313.
( 84 ) Cfr. Costantino, op. cit., p. 1093, Id., in Foro it., 2011, cit., p. 1079, il quale rileva come l’accertamento dell’affidamento incolpevole implichi che su tale questione sia
provocato il contraddittorio ai sensi degli artt. 101, comma 2o, e 384, comma 3o, c.p.c.
(dovendosi superare l’interpretazione restrittiva secondo cui quest’ultima norma sarebbe
riferibile solo all’ipotesi in cui la S.C. ritenga di dover decidere nel merito il ricorso). Alle
parti, in specie a quella che trarrebbe vantaggio dalla dichiarazione di decadenza, deve
essere data infatti la possibilità di contraddire in ordine all’effettiva scusabilità dell’errore
(si pensi, ad es., al caso in cui l’atto sia stato posto in essere in modo conforme ad un indirizzo giurisprudenziale consolidato dopo che questo è già stato rovesciato: v. infra il
prossimo par.). Come osserva l’A. dianzi citato, la valutazione dell’affidamento incolpevole verte sul comportamento tenuto dalla parte che è incorsa in decadenza e richiede
quindi un giudizio di fatto, che potrà essere compiuto anche dalla Corte di cassazione,
trattandosi di valutare fatti « processuali ». La parte che lo invoca dovrà infatti allegare –
e provare – specificamente: 1) la circostanza che, prima dell’overruling, fosse pacifico o,
comunque, dominante un orientamento giurisprudenziale in base al quale l’atto rispetto
al quale è maturata la decadenza doveva essere compiuto in un certo modo; 2) il fatto
che l’atto in questione sia stato compiuto in questo certo modo; 3) se l’overruling è precedente al momento del compimento dell’atto, il fatto che, in quel momento, l’overruling
non fosse ancora conoscibile con l’ordinaria diligenza (o, meglio, che, in quel momento,
non potesse ancora configurarsi l’onere di adeguare il proprio comportamento all’overruling: su questo aspetto v. amplius il par. seguente). A fronte della prova di questi elementi
(e invero potrebbe ritenersi che il primo di essi non debba neppure essere provato dalla
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colarmente vantaggiosa nell’ottica di tentare di accorciare il più possibile i
tempi del processo.
In conclusione, sembra congruo ritenere che, ogni volta che si prospetti
la possibilità che una parte abbia compiuto un atto del processo in modo
irrituale e ciò possa essere dovuto al fatto che essa è incorsa in errore scusabile, il giudice conceda alle parti un termine per il deposito di osservazioni sia in ordine alla questione concernente l’irritualità dell’atto, sia in
ordine a quella relativa alla scusabilità dell’errore ( 85 ). In questa sede la
parte che rischia di essere incorsa in decadenza avrà la possibilità, dopo
aver eventualmente difeso il suo comportamento, di allegare (e provare)
di essere caduta in errore per aver fatto affidamento sull’orientamento
giurisprudenziale sino a quel momento dominante e di chiedere quindi al
giudice la concessione di un rimedio ripristinatorio; mentre l’altra parte,
dopo aver eventualmente addotto argomenti a sostegno dell’irritualità
dell’atto, avrà la possibilità di contestare la scusabilità dell’errore (oltre
che di chiedere al giudice, in subordine, di essere ammessa a compiere
tutte le attività che non fossero state compiute in conseguenza della ritenuta operatività della decadenza stessa, conseguente ad un’interpretazione della norma processuale anticipatrice del nuovo orientamento giurisprudenziale ( 86 )).
Overruling in materia
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11. L’affidamento su di un indirizzo giurisprudenziale consolidato (de iure
condendo) potrebbe ritenersi non più tutelabile dopo un congruo termine dalla inserzione sul sito web della Cassazione del provvedimento
che ne ha operato il revirement.
L’ultimo punto che resta da chiarire è quando può ricorrere un errore
scusabile allorché, nel momento in cui una parte faccia affidamento su un
orientamento consolidato della S.C., questo sia già stato da poco rovesciato. Gli arresti nomofilattici della Cassazione infatti – a differenza, in particolare, delle leggi e delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale ( 87 ) – non sono pubblicati mediante inserzione in un giornale ufficiale, ma solo con il deposito nella cancelleria ( 88 ) e ciò rende problematiparte, quasi che si tratti di un fatto notorio: cfr. Verde, op. cit., p. 16) il giudice potrà
presumere che la parte sia incorsa in decadenza per aver fatto affidamento sull’indirizzo
giurisprudenziale pregresso.
( 85 ) Costantino, op. cit., p. 1092, rileva come la sequenza vuoi in primo grado, vuoi in
appello, vuoi in sede di legittimità sia la seguente: una parte invoca il nuovo indirizzo della
Corte ovvero il giudice lo segnala d’ufficio; l’altra invoca l’affidamento incolpevole nella
giurisprudenza anteriore; il giudice valuta il comportamento della parte incorsa in decadenza, dopo aver sollecitato l’instaurazione del contraddittorio.
( 86 ) Su questo aspetto v. Ruffini, op. cit., p. 1404 s. (v. supra alle nt. 48 e 76).
( 87 ) Il diverso regime di pubblicità delle leggi e delle sentenze di accoglimento della
Corte costituzionale rispetto alle sentenze della Corte di cassazione è frutto dell’idea – come si è visto, non proprio esatta – che solo le prime incidono sul preesistente ordine normativo.
( 88 ) V. l’art. 133, comma 1o, c.p.c., a tenore del quale le sentenze sono rese pubbliche
mediante il deposito nella cancelleria del giudice che l’ha pronunciata. Con il deposito – il
quale non va confuso con l’atto (del cancelliere) della certificazione del deposito stesso di
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Overruling in materia
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co stabilire il momento in cui essi possono ritenersi noti a tutti i consociati ( 89 ).
Sul punto i giudici di legittimità hanno escluso di poter far leva, a tal fine, sull’essere il provvedimento segnalato su una o più riviste giuridiche,
attribuendo invece valore decisivo al momento in cui la decisione è inserita nel Servizio novità del sito web della Corte ( 90 ).
Premesso che competerebbe al legislatore risolvere la questione e così
eventualmente ricollegare alla inserzione del testo dei provvedimenti giurisdizionali sul sito web della Cassazione effetti di pubblicità lato sensu dichiarativa ( 91 ), il criterio indicato dalla S.C. appare, in sé, valido, ancoran-
cui all’art. 133, comma 2o, c.p.c. – la sentenza diviene immodificabile ed irrevocabile da
parte del giudice che l’ha emessa e idonea a divenire immutabile se non fatta oggetto delle
impugnazioni previste dalla legge (a tal riguardo va osservato invero che il dies a quo per la
decorrenza del termine lungo d’impugnazione in mancanza di notificazione ex art. 327
c.p.c. è rappresentato dalla data del deposito della sentenza da parte del giudice, o da quella successiva della certificazione del deposito stesso ad opera del cancelliere di cui all’art.
133, comma 2o, c.p.c., nell’ipotesi patologica in cui le due date non coincidano: v. Corte
cost. 22 gennaio 2015, n. 3).
( 89 ) Sul punto v. Costantino, op. cit., p. 1093, che esclude recisamente la possibilità di
individuare il momento nel quale il mutamento di giurisprudenza è conoscibile dai consociati in quello della pubblicazione della decisione.
( 90 ) Cass. 7 febbraio 2011, n. 3030, in Foro it., 2011, I, p. 1075, con oss. di Costantino, ha disatteso l’istanza di rimessione in termini per riproporre e notificare ricorso per
cassazione nelle forme del codice di procedura civile sulla base della considerazione che,
nella specie, non rilevava che, al momento della proposizione del ricorso per cassazione
(avvenuta il 4 novembre 2009), la sent. delle sez. un. 3 settembre 2009, n. 19161, da cui
originava la svolta giurisprudenziale in questione, non fosse stata ancora pubblicata « sulle
riviste giuridiche più note e diffuse tra gli operatori del diritto », in quanto il testo integrale
della sentenza « era già disponibile (a partire dal 13 ottobre 2009) nel Servizio novità del
sito web della Corte di cassazione, accompagnato da un abstract di presentazione, curato
dall’Ufficio del Massimario della Corte, con il quale il mutamento di indirizzo giurisprudenziale era stato segnalato agli utenti », e che « l’evidenza data alla svolta giurisprudenziale nel Servizio novità della Corte di cassazione – istituzionalmente rivolto, secondo il decreto istitutivo del Primo Presidente, proprio a dare risalto alle più importanti decisioni di
legittimità – esclude[va] che, al momento della introduzione del ricorso, fosse ancora configurabile un affidamento incolpevole nel precedente orientamento e, con ciò, la scusabilità dell’errore conseguente ». V. anche Cass., sez. lav., 28 febbraio 2012, n. 3042, che ha negato la rimessione in termini per notificare l’appello incidentale ai sensi dell’art. 436, comma 3o, c.p.c. sulla base del rilievo che, nel caso considerato, il deposito della pronuncia che
aveva mutato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui, nell’ipotesi di
omessa notifica del ricorso e del conseguente decreto di fissazione dell’udienza, il giudice
avrebbe dovuto concedere un nuovo termine per provvedere alla notifica ex art. 291 c.p.c.,
era avvenuto quasi sei mesi prima che la parte incorresse nell’omessa notifica del proprio
appello incidentale e che, « pur tenendo conto dei normali tempi tecnici di memorizzazione di tale precedente nella banca dati della Suprema Corte di cassazione consultabile in rete, deve ritenersi che la parte abbia avuto a sua disposizione un arco temporale sufficiente
a tener conto della nuova giurisprudenza e, conseguentemente, a prevenire il verificarsi
della menzionata decadenza ». A quest’ultimo riguardo va peraltro notato che la tesi secondo cui la notifica della memoria difensiva contenente l’appello incidentale rientra fra
gli oneri prescritti a pena di decadenza sia tutt’altro che pacifica in giurisprudenza (sul
punto v. M. De Cristofaro e Gioia, Il nuovo rito dei licenziamenti: l’anelito alla celerità
per una tutela sostanziale dimidiata, in questa Rivista, 2013, p. 28, nt. 75).
( 91 ) In assenza di un simile intervento del legislatore, paiono dunque pienamente condivisibili i rilievi svolti da Cavalla, Consolo e M. De Cristofaro, op. cit., p. 1398, nt. 7,
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do il momento in cui l’affidamento su di un orientamento giurisprudenziale cessa di essere tutelabile ad un parametro ben definito ( 92 ). E, se è vero che allo stato attuale forse solo una non cospicua parte degli avvocati
consulta abitualmente il Servizio novità del sito web della Cassazione ( 93 ),
è altrettanto vero però che questo è istituzionalmente rivolto a dare risalto
alle più importanti decisioni di legittimità; e che, nell’era del c.d. processo
civile telematico, l’avvocato non può non essere munito delle necessarie
abilità informatiche.
Con riguardo invece al problema di stabilire dopo quanto tempo dall’upload sul sito della Cassazione l’arresto nomofilattico possa ritenersi noto a tutti i consociati ( 94 ), tenuto conto che nel nostro ordinamento, di regola, le leggi si presumono conosciute il quindicesimo giorno successivo
Overruling in materia
processuale
che ritengono criticabile – non tanto il valore riconosciuto alla divulgazione via internet,
quanto piuttosto – « l’approccio geometrico e anelastico alla questione », considerato che,
non venendo in considerazione atti legislativi, per i quali vale la presunzione connessa alla
pubblicazione in G.U., non sembra potersi ritenere che l’upload in internet equivalga a
prova legale di conoscenza diffusa. Critico in proposito anche Verde, op. cit., p. 18, secondo cui la diffusione per via telematica del nuovo indirizzo della giurisprudenza potrebbe
costituire, « a tutto concedere, la base per una presunzione di conoscenza, avverso la quale
deve essere consentita la prova contraria (sia per dimostrare che tale diffusione non è sufficiente – in quanto non c’è l’obbligo di possedere il computer e tanto meno quello di leggere quotidianamente il sito della Cassazione – e sia per dimostrare da parte del controinteressato che del mutamento l’avversario è venuto a conoscenza ben prima della sua diffusione per via informatica) ».
( 92 ) Nel momento in cui un arresto nomofilattico della S.C. viene inserito nel Servizio
novità del sito internet della Corte, dovrebbe essere ovviamente sempre indicata la data in
cui è avvenuto l’inserimento e il provvedimento dovrebbe permanere sul sito a tempo indefinito (v. al riguardo i rilievi formulati da Verde, op. cit., p. 18, nt. 23). Sarebbe auspicabile poi che, all’interno di tale pagina web, fosse creata una specifica sezione dedicata
agli overruling in materia processuale, al fine di agevolare il reperimento dei provvedimenti
innovatori della Corte in questa materia.
Sarebbe invece più difficoltoso nella pratica – tenuto conto anche della necessità di considerare la posizione e l’interesse dell’altra parte (in questo senso Trisorio Liuzzi, op.
cit., p. 448) – individuare il momento oltre il quale l’affidamento su di un orientamento
giurisprudenziale consolidato non è più tutelabile in funzione della divulgazione del provvedimento innovatore sulle riviste o banche dati giuridiche, considerato che ben difficilmente il provvedimento in questione potrebbe essere segnalato in contemporanea su tutte
le riviste o banche dati giuridiche esistenti (o anche solo su quelle di più ampia diffusione)
e che certamente non è configurabile in capo alle parti l’onere di consultare quotidianamente tutte le riviste o banche dati giuridiche (si pensi ad es. al caso in cui, al momento del
compimento dell’atto, il provvedimento sia segnalato su una o più riviste, diverse però da
quella consultata abitualmente dalla parte). Potrebbe accadere inoltre che il provvedimento innovatore sia segnalato a notevole distanza di tempo dal suo deposito in cancelleria (o
addirittura che non lo sia mai).
( 93 ) In questo senso Trisorio Liuzzi, op. cit., p. 451.
( 94 ) Sebbene il punto non sia mai stato affrontato apertamente dalla S.C., non è revocabile in dubbio che vi debba essere un congruo lasso di tempo fra il momento in cui la decisione è adeguatamente resa conoscibile a tutti i consociati – essendo segnalata sul Servizio novità del sito web della Corte, secondo la tesi prospettata dalla Cassazione – e quello
in cui si onerano i consociati di uniformarsi alla decisione stessa. Sarebbe inaccettabile infatti escludere la scusabilità dell’errore di chi abbia fatto affidamento su di un consolidato
orientamento della Corte di cassazione rovesciato ad es. da un provvedimento segnalato
solo il giorno prima sul Servizio novità del sito web della Corte. In questo senso parrebbe
orientato invece Costantino, op. cit., p. 1094, ove afferma che « può richiedersi alla parte
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alla loro inserzione in G.U. (c.d. vacatio legis), sembra ragionevole ritenere
che, in linea generale, un congruo lasso di tempo debba valere anche per
l’onere di conoscenza degli arresti nomofilattici della S.C. ( 95 ): sì che l’affidamento su di un orientamento giurisprudenziale potrebbe ritenersi de
iure condendo non più tutelabile dal trentesimo giorno successivo alla inserzione sul Servizio novità del sito web della Cassazione del provvedimento che ne ha operato il revirement.
Overruling in materia
processuale
e, specificamente, al qualificato professionista che l’assiste un onere di informazione sulla
giurisprudenza, fino all’ultimo momento precedente la notificazione del ricorso (...) » (c.vo
ns.).
( 95 ) Sempre in considerazione del fatto che il mutamento di giurisprudenza, anche se
non è « fonte del diritto », ha comunque carattere « innovatore » e che è legittimo l’affidamento su di un orientamento giurisprudenziale consolidato.
Nelle occasioni in cui la Supr. Corte ha negato la rimessione in termini sul presupposto
che l’affidamento sull’orientamento pregresso non fosse più legittimo, fra il momento della
segnalazione del provvedimento sul sito web della Corte e quello del compimento dell’atto, erano trascorsi invero meno di trenta giorni: precisamente, 22 giorni nel caso deciso da
Cass. 7 febbraio 2011, n. 3030; 20 giorni nel caso deciso da Cass., sez. lav., 28 febbraio
2012, n. 3042. Ha cassato invece la sentenza impugnata statuendo che il giudice di merito
avrebbe dovuto verificare che la parte non fosse incorsa in decadenza per aver confidato
incolpevolmente su di un indirizzo giurisprudenziale, anche se verosimilmente, all’epoca
dei fatti, questo era stato superato già da diversi mesi, Cass. 30 marzo 2012, n. 5181.
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THE CONSUMER RIGHTS DIRECTIVE,
CONSUMER SALES AND ENGLISH LAWL.
THE FEAR OF COHERENCE?
di
Christian Twigg-Flesner
(Professore nella University of Hull)
Table of contents: 1. Introduction: Context. – 2. Towards Consumer Law Reform. – 3.
The Implementation of Directive 2011/83/EU. – 4. Specific points. – 4.1. Art. 7, par. 4.
– Art. 8, par. 6, Art. 9, par. 3. – 4.2. Art. 5, par. 4, Art. 6, par. 7 and 8 – gold plating? –
4.3. Art. 6, par. 1, Art. 8, par. 2.2, Art. 8, par. 6 – transposition language. – 4.4. Nonbinding nature of contract terms waiving rights. – 4.5. Artt. 23-24: enforcement, sanctions and penalties? – 4.6. Overlap with the Consumer Rights Act 2015. – 5. The Relationship between the national “special” rules concerning consumer sales and the general
domestic rules on sales contracts. – 6. The Expected impact of CESL on the national
regulations of consumer sales. – 7. Conclusions.
Consumer Rights
Directive, Consumer
Sales and English Law
1. Introduction: Context.
The starting point for this chapter is the implementation the Consumer
Rights Directive (CRD) ( 1 ) in the United Kingdom. Although the implementation itself is rather unremarkable in that it largely copies out the text
of the CRD verbatim (something which undoubtedly is a side-effect of the
maximum harmonisation nature of the CRD) ( 2 ), the prospect of a much
more detailed directive with a wider scope – as originally proposed –
prompted the UK government to embark upon a wider process of reforming and modernising UK consumer law. This has culminated in the enactment of the Consumer Rights Act 2015, although, as will become clear,
the Act does not constitute as significant a development as had originally
been hoped. The discussion of the implementation of the CRD will therefore focus mainly on this wider reform process. Later sections in this
chapter will consider how the EU’s special rules for consumer sales fit
into the landscape of general sales law, as well as the possible impact of
the proposed Common European Sales Law (CESL) – although the latter’s fate is somewhat uncertain now.
2. Towards Consumer Law Reform.
It is well-known that the legal system of England and Wales is a common law system, which means that most of the law in the private law field
is found in case-law rather than in legislation – and there is no codification
( 1 ) Dir. 2011/83/EU on Consumer Rights (2011), OJ L 304/64.
( 2 ) For a very useful critique of this approach, see Giliker, The Transposition of the
Consumer Rights Directive into UK Law: Implementing a Maximum Harmonization Directive, European Review of Private Law, 23, 2015, p. 5 seq.
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Consumer Rights
Directive, Consumer
Sales and English Law
Legislazione straniera
of private law as such. There are some aspects of private law which have
been put on a statutory footing through legislation, but these are not
wide-ranging attempts to codify large areas of private law ( 3 ).
The field of Consumer Law, on the other hand, is largely found in legislation, with more recent measures adopted in response to EU directives
(although there was a considerable body of legislation in place before the
EU embarked on its harmonisation programme). However, despite this,
there is no single statute which includes all the legislative provisions on
consumer law – even the Consumer Protection Act 1987 only covered
three broad areas at the time of its enactment (the implementation of the
Product Liability Directive, rules on pricing, and rules on product safety),
although two of those have been significantly affected by subsequent EU
directives. Rather, whenever a new EU directive was adopted, the UK
generally implemented this by adopting statutory instruments (or “Regulations”) under s. 2(2) of the European Communities Act 1972. This procedure generally has the advantage of speed and simplicity as the process
of transposing directives in this way takes up very little Parliamentary
time. Section 2(2) contains broad powers for amending UK law in order
to give effect to EU law, including the power to amend existing Acts of
Parliament. However, most EU directives in the field of consumer law are
implemented through free-standing regulations ( 4 ), with only consequential adjustments to existing Acts of Parliament made by them ( 5 ). As a
consequence, legislation on consumer law is scattered throughout the
statute book, with each measure operating separately from others and insufficient co-ordination between their substantive provisions.
This approach to implementation is not accidental, as is evident from
the UK government’s official guidance document on the implementation
of EU directives ( 6 ). At paragraph 5, the guidance states that “when transposing EU law, the Government will: a. ensure that (save in exceptional
circumstances) the UK does not go beyond the minimum requirements of
the measure which is being transposed; (...) d. always use copy out for
transposition where it is available, except where doing so would adversely
affect UK interests e.g. by putting UK businesses at a competitive disadvantage compared with their European counterparts. If departments do
not use copy out, they will need to explain to the RRC the reasons for
their choice; e. ensure the necessary implementing measures come into
force on (rather than before) the transposition deadline specified in a di-
( 3 ) E.g., the Sale of Goods Act 1979 (and its 1893 predecessor), the Law Reform (Frustrated Contracts) Act 1943; the Unfair Contract Terms Act 1977 or the Contracts (Rights
of Third Parties) Act 1999.
( 4 ) One notable exception to this approach was the implementation of the Consumer
Sales Directive (Dir. 1999/44/EC), discussed in section IV, below.
( 5 ) For example, the Consumer Protection from Unfair Trading Regulations 2008
amended or repealed a number of measures, including Acts of Parliament, as part of the
implementation of the Unfair Commercial Practices Directive (Dir. 2005/29/EU).
( 6 ) Cf. H.M. Government, Guiding Principles for EU Legislation, 2013, available at https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/185626/bis13-774-guiding-principles-for-eu-legislation.pdf [last accessed 23 March 2015].
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rective, unless there are compelling reasons for earlier implementation;
(...)”.
There are a number of points which arise from this position. First, Government policy is that there will generally be no “gold-plating”, i.e., where
a directive only lays down a minimum standard, national legislation will
not exceed that standard, nor will the scope of national law be wider than
that of the directive. There may be exceptions to this (as the provision referring to “exceptional circumstances” indicates), although the guidance
document does not say when the circumstances might warrant this. However, if one takes into account previous instances of implementing consumer law directives, it seems likely that there would be a willingness to
accept gold-plating if this would mean retaining existing levels of domestic consumer protection which are higher than those required by a directive.
Secondly, the preference is for a “copy-out” approach, i.e., the text of
directives should be reflected as much as possible word-for-word in domestic legislation. The motivation for this is to ensure that the adverse impact on business of new regulatory measures is minimised, and taking the
copy-out approach would seem to ensure that national legislation would
require no more from business than the corresponding directive. It also
minimises the risk of facing non-implementation proceedings by the European Commission under Art. 258 TFEU. However, this approach does
not sit comfortably with the general view of directives in Art. 288, par. 3,
TFEU ( 7 ), according to which “a directive shall be binding, as to the result to be achieved, upon each Member State to which it is addressed, but
shall leave to the national authorities the choice of form and methods”,
suggesting that, whilst not prohibited, a “copy-out” approach is not envisaged in the Treaty whenever directives are used. This has been endorsed
by the CJEU, which held some time ago that “the transposition of a directive into domestic law does not necessarily require that its provisions be
incorporated formally and verbatim in express, specific legislation” ( 8 ).
Nevertheless, the UK Government has made copy-out the default situation. Despite the advantages this might entail for ensuring compliance and
minimising the chances of adding additional burdens on business, it does
create a risk of creating a more incoherent and inaccessible legal landscape in particular areas of law such as consumer law. The UK experience
with the transposition of consumer law directives thus far provides clear
evidence of the problems associated with the copy-out approach.
Criticisms of the copy-out were first made in a sustained way ( 9 ) in light
of what is perhaps the worst example of this approach: the area of unfair
contract terms. In 1977, the UK had enacted its Unfair Contract Terms
Act (UCTA), which regulates certain types of contract terms in both con-
Consumer Rights
Directive, Consumer
Sales and English Law
( 7 ) See generally, Twigg-Flesner, The Europeanisation of Contract Law, London,
2013, p. 23 seq.
( 8 ) E.g. Case C-59/89 Commission v Germany [1991] ECR I-2607, par. 18.
( 9 ) See e.g., Brownsword and Howells, The implementation of the EC Directive on
unfair terms in consumer contracts – some unresolved questions, Journal of Business Law,
1995, p. 243 seq.
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Consumer Rights
Directive, Consumer
Sales and English Law
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sumer and commercial contracts. When the Unfair Contract Terms Directive was implemented, the UK government did so through separate regulations rather than by amending UCTA or adopting a new consolidation.
The Law Commission was asked to consider a consolidation and published its recommendations in 2005 ( 10 ), but no action was taken until the
bill which became the Consumer Rights Act was introduced into Parliament (discussed below).
This rather formulaic attitude of the UK Government when dealing
with the implementation of directives would seem to make it rather difficult to reshape an area heavily influenced by EU law, such as consumer
law. Under this approach, each new directive is simply transposed by
copying-out the directive, with no opportunity to consider how each national measure giving effect to a new directive might relate to legislation
implementing earlier directives, nor, indeed, how domestic law covering
those aspects of a given area of law not regulated at the EU level would relate to these measures. It could certainly limit the possibility of a fundamental overhaul of an area of law such as consumer law. Nevertheless, the
UK government embarked on just such a project: a major reform of domestic consumer law. In the discussion that follows, the UK’s consumer
law reform process and its relationship with the process of transposing the
Consumer Rights Directive will be analysed. It will become clear that the
tension between the need to reform an area of law and the formulaic attitude to implementing directives is such that it ultimately restricts the
scope for proper reform, no matter how much this might be needed.
As early as 2004, the UK government had mooted ideas for the modernisation of consumer law ( 11 ), which resulted in a decision to pursue a
rationalisation and consolidation of what was quite a complex legal landscape. At the time, the Unfair Commercial Practices Directive was under
negotiation, and on completion, the implementation through the Consumer Protection from Unfair Trading Regulations 2008 (CPUTR) ( 12 ) resulted in a first major simplification and the replacement of over thirty
older measures. The opportunity for simplification offered by the UCPD
seemed to prompt the government into considering simplification and
consolidation of areas of consumer law outside the scope of the UPCD/
CPUTR, and it duly issued a call for evidence in 2008 ( 13 ). This, in turn,
led to the publication of a White Paper ( 14 ) which outlined specific plans,
including the simplification of complex areas of law and the consolidation
of other key areas of consumer law. That White Paper also announced
plans for a Consumer Rights Bill which would both implement the Con( 10 ) Cf. Law Commission, Report 292 – Unfair Terms in Contracts, London, 2005; and
Id., Unfair Terms in Consumer Contracts: Advice to the Department for Business, Innovation and Skills, London, 2013.
( 11 ) Department of Trade and Industry, Extending Competitive Markets: Empowered Consumers, Successful Business, London, 2004.
( 12 ) s.i. 2008, n. 1277.
( 13 ) Cf. Department for Business, Enterprise and Regulatory Reform, Consumer Law Review: Call for Evidence, London, 2008.
( 14 ) Cf. H.M. Government, A Better Deal for Consumers – Delivering Real Help Now
and Change for the Future, London, 2009.
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sumer Rights Directive and modernise and simplify UK Consumer
Law ( 15 ). After the general election, the new government continued to
pursue this initiative, and two academic reports analysing the options for
consolidation and simplification ( 16 ) and the possible regulation of digital
content ( 17 ) respectively were commissioned. The Law Commission also
continued its work, publishing two key reports to further consumer law
reform: one on simplifying the remedies for faulty goods ( 18 ) and another
on a private right of redress in respect of some unfair commercial practices prohibited under the CPUTR ( 19 ). The government reaffirmed its
plans in a further policy document ( 20 ), before consulting on specific proposals in 2012 ( 21 ). By then, the decision had already been taken to implement the Consumer Rights Directive separately, with the Bill focusing on
the sale and supply of goods, services and digital content, unfair contract
terms, damages for breach of competition law rules, and improved enforcement measures. A draft Consumer Rights Bill was published in June
2013, and the Bill itself commenced its legislative process on 23 January
2014. It completed its Parliamentary journey in March 2015. Despite its
grand name, it is not a full consolidation of all areas of consumer law.
Most notably, the Consumer Rights Act 2015 does not implement the
Consumer Rights Directive, nor does the Act include the rules on Unfair
Commercial Practices (CPUTR 2008, as amended ( 22 )) or the remaining
provisions from the Consumer Protection Act 1987. The very ambitious
reform plans originally discussed around the time when the Consumer
Rights Directive was first proposed have therefore been reduced quite noticeably, an outcome which, overall, is rather regrettable ( 23 ).
With the implementation of the Consumer Rights Directive separated
from the process resulting the Consumer Rights Act 2015, the next section will focus on how the CRD was transposed into domestic law.
Consumer Rights
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( 15 ) Ibidem, p. 78 s.
( 16 ) Howells and Twigg-Flesner (editors), Consolidation and Simplification of UK
Consumer Law, London, 2010.
( 17 ) Bradgate, Consumer Rights in Digital Products: A research report prepared for the
UK Department for Business, Innovation and Skills, London, 2010.
( 18 ) Law Commission, Report 317 - Consumer Remedies for Faulty Goods, London,
2009.
( 19 ) Law Commission, Report 332 - Consumer Redress for Misleading and Aggressive
Practices, London, 2012.
( 20 ) Department for Business, Innovation and Skills, Consumer Empowerment
Strategy; Better Choices: Better Deals. Consumers Powering Growth, London, 2011.
( 21 ) Department for Business, Innovation and Skills, Enhancing Consumer Confidence by Clarifying Consumer Law – Consultation on the Supply of Goods, Services and
Digital Content, London, 2012.
( 22 ) The Consumer Protection (Amendment) Regulations 2014 (“CPAR”) s.i. 2014, n.
870 amend the Consumer Protection from Unfair Trading Regulations 2008 in order to
give effect to the Law Commission’s recommendations in respect of consumer redress for
misleading/aggressive practices.
( 23 ) See Twigg-Flesner, Some thoughts on Consumer Law Reform – Consolidation,
Codification, or a Restatement?, in Gullifer and Vogenauer (editors), English and European Perspectives on Contract and Commercial Law – Essays in Honour of Hugh Beale,
Oxford, 2014; also Giliker, op. cit., p. 7.
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3. The Implementation of Directive 2011/83/EU.
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As will be apparent from the previous section, it seems somewhat odd
that a lot of time and effort was spent on taking a major piece of consumer
law reform through Parliament and yet not take the opportunity to consolidate all the key measures on consumer law in one measure. The implementation of the CRD became a separate process, resulting in the adoption of separate regulations which implement the CRD.
The CRD was implemented in stages. Art. 19 CRD, which prohibits
“traders from charging consumers, in respect of the use of a given means
of payment, fees that exceed the cost borne by the trader for the use of
such means”, was implemented in 2012 through the Consumer Rights
(Payment Surcharges) Regulations ( 24 ). The government was keen to
implement this provision quickly because of concerns particularly in respect of some online traders who were charging consumers high amounts
for the use of some types of card payments. These regulations were
adopted in December 2012 and entered into force from 6 April 2013.
However, as time-limit for complying with the obligation to transpose the
CRD had not yet expired, the 2012 Regulations contain provisions which
gave new businesses, as well as small businesses (those with fewer than 10
employees), a grace period until June 2014. This is a rare instance when
an aspect of a directive was brought into force well ahead of the transposition deadline – as noted earlier, the general position is to implement on
the due date rather than before “unless there are compelling reasons for
earlier implementation” ( 25 ), something which was the case on this occasion.
Most of the Directive was transposed through the Consumer Contracts
(Information, Cancellation and Additional Charges) Regulations 2013
(“CCR”) ( 26 ). In order to implement Art. 27 CRD on inertia selling,
amendments were made to the Consumer Protection from Unfair Trading
Regulations 2008 by inserting a new Regulation 27A. Moreover, whilst the
CCR contain provisions implementing Arts. 18 (delivery) and 20
(risk) ( 27 ), these are duplicated in the Consumer Rights Act 2015.
The Regulations generally retain the text of the CRD, with limited
modifications which will be noted shortly. During the implementation
process, there was some debate as to whether some terms or phrases
might need to be defined more clearly. Thus, the reference to the “basic
rate” ( 28 ) of a telephone call is not particularly clear. However, rather than
include a more detailed explanation in the legislation itself, the government’s preference is to rely on guidance to expand on issues such as
this ( 29 ).
( 24 ) s.i. 2012, n. 3110.
( 25 ) H.M. Government, Guiding Principles for EU Legislation, par. 5(e).
( 26 ) s.i. 2013, n. 3134.
( 27 ) In Regulations 42 and 43 respectively.
( 28 ) Art. 21 CRD, implemented in Reg. 41 CCR.
( 29 ) Guidance on the Regulations is available: Department for Business, Innovation and Skills, Consumer Contracts (Information, Cancellation And Additional Charges)
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There have been some grammatical or linguistic adjustment, but on the
whole these are minor. One difference is that instead of “withdrawal”, the
CCR refer to the consumer’s right to “cancel” the contract.
Arts. 5 and 6 CRD contain detailed information requirements. These
have generally been copied-out, although the items of information required to be given are located in two schedules to the CCR rather than
with the main provisions specifying the obligation to prove information ( 30 ). The Schedules have arranged the items of information in a
slightly different way by splitting what are quite lengthy paragraphs in the
CRD into separate paragraphs; however, there is no substantive difference in these items.
As the CRD is a maximum harmonisation directive, there is limited
scope for deviating from the standard of protection laid down in the Directive, except where it expressly permits this. However, there has been
some “gold-plating” in that the Regulations are extended to cover certain
contracts which are not covered by the CRD. Thus, the CCR extend to
contracts for social services and healthcare services provided by professionals in an off-premises or distance situation. These contracts are excluded from the scope of the CRD altogether ( 31 ), but as existing UK legislation in force prior to the implementation of the CRD did cover such
contracts, this position was retained under the CCR.
Art. 3, par. 4, CRD allows Member States not to apply the provisions on
off-premises contracts to contracts for which the consumer’s payment
does not exceed 50 Euros ( 32 ). The UK has taken advantage of this provision in respect of Part 2 of the CCR ( 33 ), which deals with the various information requirements and Part 3 ( 34 ), which contains the provisions on
the right of withdrawal. However, Part 4 on additional charges and Part 5
on delivery and risk are extended to all contracts, including off-premises
contracts irrespective of the value. Similarly, the Consumer Rights (Payment Surcharges) Regulations 2012 apply to off-premises contracts of any
value, and so Art. 3, par. 4, CRD has not been utilised in respect of the
implementation of Art. 19 CRD either. The government decided not to
apply this limitation to the provisions of the Directive dealing with hidden
charges for two reasons: first, to avoid traders setting an artificially low
price and then recoup additional sums through hidden charges; and secondly, to ensure that off-premises and distance contracts are treated alike
in respect of the provisions dealing with hidden charges ( 35 ).
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Directive, Consumer
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Regulations – Implementing Guidance, London, 2013. Section J contains the guidance on
compliance with the “basic rate” requirement.
( 30 ) Schedule 1 contains the information to be provided in the context of an on-premises contract (Art. 5 CRD), and Schedule 2 the information required in respect of offpremises/distance contracts (Art. 6 CRD).
( 31 ) See Art. 3, par. 3, (a) and (b) CRD.
( 32 ) The CCR refer to the GBP equivalent of 50 Euros, which has been set at £42.
( 33 ) Reg. 7(4) CCR.
( 34 ) Reg. 27(3) CCR.
( 35 ) Department for Business, Innovation and Skills, Government Response to
Consultations on Misleading and Aggressive Practices and the European Consumer Rights
Directive, London, 2013, p. 17.
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4. Specific points.
Having considered how the CRD was transposed in general terms, this
section considers a few selected provisions of the directive and their
implementation into UK law. In view of the government’s position on
gold-plating and copy-out mentioned earlier, it will be seen that any variations from the scope of the CRD have generally only been taken up where
this would be beneficial to business.
Consumer Rights
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Sales and English Law
4.1. Art. 7, par. 4 – Art. 8, par. 6, Art. 9, par. 3.
Art. 7, par. 4, CRD provides more limited formal requirements for offpremises contracts in circumstances where repair or maintenance is carried out immediately and where the value does not exceed 200 Euros.
Member States are given the choice whether to apply this paragraph. The
UK has decided to introduce this in Regulation 11 CCR, which follows
the requirements of Art. 7, par. 4, CRD, except that it specifies the
amount in GBP as £170.
Art. 8, par. 6, CRD gives Member States an option to provide that
where a distance contract is concluded over the telephone, the trader has
to confirm the offer to the consumer, which, as a separate option, Member States may require to be made on a durable medium. The consumer
would only be bound once he has signed the offer or sent his written consent. The UK government has decided not to exercise this option for two
reasons ( 36 ): first, the government thinks not exercising this option would
be a “lighter touch approach” which would be beneficial to both consumers and business. There is some logic in this as the process envisaged by
Art. 8, par. 6, CRD is potentially rather cumbersome. There is no significant risk to consumers in any event, which is underlined in the second
reason given by the government, which is that business will have to provide confirmation of the contract terms in any event, and consumers will
have the 14-day withdrawal/cancellation period, should they wish to
change their mind.
According to Art. 9, par. 3, CRD, Member States may maintain legislation which prohibits a trader from collecting payment during the period
in which the consumer may withdraw from the contract. This option has
not been exercised by the UK as there was no such legislation in existence
at the time the Directive was adopted.
4.2. Art. 5, par. 4, Art. 6, par. 7 and 8 – gold plating?
Although the Directive is essentially a maximum harmonisation directive, there are some instances when Member States are given permission
( 36 ) Department for Business, Innovation and Skills, Consultation on the implementation of the Consumer Rights Directive 2011/83/EU, London, 2012, p. 45.
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to introduce additional or more protective rules than those laid down in
the Directive itself. Thus, Art. 5, par. 4, CRD provides that, in the case of
contracts other than off-premises or distance contracts, Member States
can add additional pre-contractual information requirements to those
listed in Art. 5 CRD. The UK has not exercised this option on the basis
that the information requirements which already exist in both the CRD
and the CPUTR 2008 are sufficient, and that adding additional information requirements would have been an “unwarranted additional burden
on business” ( 37 ). Similarly, the UK has not exercised the option in Art. 6,
par. 7, CRD to introduce language requirements regarding contractual information. Both decisions are in accordance with the government’s general “no gold-plating” policy.
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4.3. Art. 6, par. 1, Art. 8, par. 2.2, Art. 8, par. 6 – transposition language.
The phrase “bound by an off-premises contract or by a corresponding
offer” in Art. 6, par. 1, CRD has been retained in Regs. 10(1) and 13(1)
CCR, although the words “or by a corresponding offer” have been omitted. The phrase in Art. 8, par. 2, second intent, that the consumer “shall
not be bound by the contract or order” where the trader has failed to
comply with the formal requirement for the trader to ensure that the consumer explicitly acknowledges that placing the order entails an obligation
to make payment has also been transposed verbatim into UK law ( 38 ).
This reflects the UK government’s policy to utilise a “copy-out” technique
as much as possible.
4.4. Non-binding nature of contract terms waiving rights.
With regard to Art. 25, par. 2, that contract terms which directly or indirectly restrict the rights resulting from the provision of the CRD shall
not be binding on the consumer, there is no specific implementation into
domestic law because the domestic law provisions which implement the
directive are mandatory and therefore cannot be excluded by contract
terms in any event.
4.5. Art. 23-24: enforcement, sanctions and penalties?
The CRD includes two general provisions on the enforcement of the
legislation transposing the Directive, as well as the penalties to imposed
for infringing national legislation. Thus, Art. 23 CRD requires “adequate
and effective means (...) to ensure compliance”, with the familiar obligation to ensure that public bodies and/or consumer organisations can take
( 37 ) Ibidem, p. 41.
( 38 ) As Art. 8, par. 6, CRD was not utilised by the UK, the corresponding phrase in that
provision has no equivalent in the legislation transposing the Directive.
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appropriate action before national courts or administrative authorities,
and Art. 24 stipulates that there should be “effective, proportionate and
dissuasive” penalties for infringing the national legislation implementing
the Directive (i.e., the CCR).
Part 6 of the CCR contains specific rules for the enforcement of the
CCRs. Under Reg. 44 CCR, any enforcement authority ( 39 ) is under a duty
to consider complaints, except where the complaint appears to be “frivolous or vexatious” ( 40 ), or where another enforcement authority has already notified the Competition and Markets Authority (CMA) ( 41 ) that it
is considering the complaint. This arrangement reflects the public enforcement structure now in place in the UK, which limits the role of the
CMA largely to a co-ordinating function and places the primary burden of
enforcing consumer law on local authorities. One not insignificant concern about this is that local authorities are generally operating within tight
budgetary constraints (a situation exacerbated by the reduction in central
government funding following the financial crisis), and the departments
responsible for consumer law enforcement will have limited resources to
do so. In response to a complaint, an enforcement authority may be able
to persuade the trader concerned to promise to comply in the future and
accept a formal undertaking from the trader to that effect ( 42 ). However,
if the trader is not willing to comply, or subsequently breaches that undertaking, an enforcement authority can apply to the court for an injunction
(an interdict in Scotland) to ensure compliance, and the court has the
power to make an order on “such terms as it thinks fit” ( 43 ).
Furthermore, if a trader fails to comply with his obligation to provide
information about the right of withdrawal in respect of an off-premises
contract (but not a distance contract), he may be subject to criminal law
sanctions ( 44 ). The penalty on summary conviction would be a fine
only ( 45 ).
In addition to these specific provisions, the CCR have also been included in the list of measures which are within the scope of Part 8 of the
Enterprise Act 2002 ( 46 ). Under the Enterprise Act 2002, various enforcers can take action to stop a current infringement or to prevent the future
infringement of consumer legislation either by obtaining an undertak-
( 39 ) Reg. 44(3) CCR defines “enforcement authority” for the purposes of these Regulations as “every local weights and measures authority in Great Britain” (commonly known
as Trading Standards Departments) and “the Department of Enterprise, Trade and Investment in Northern Ireland”.
( 40 ) Reg. 44(2)(a) CCR.
( 41 ) The precursor to the CMA was the Office of Fair Trading (OFT). The CMA now
combines some of the consumer enforcement functions of the OFT with the investigatory
and enforcement powers of the Competition Commission.
( 42 ) Such undertakings must be notified to the CMA – Reg. 46(a) CCR.
( 43 ) Reg. 45 CCR.
( 44 ) Reg. 19 CCR.
( 45 ) Reg. 19(2) CCR. Regulations 20-26 CCR contain standard provisions on defences,
investigation and enforcement.
( 46 ) As per The Enterprise Act 2002 (Part 8 EU Infringements) Order 2013 s.i. n. 2013/
3168.
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ing ( 47 ) or by seeking an enforcement order ( 48 ) from a court. The Consumer Rights Act 2015 makes significant changes to the general consumer
law enforcement powers. Thus, Schedule 5 introduces improved investigatory powers for the various enforcers of consumer law, which include a
power to require the production of information ( 49 ), as well as the power
to purchase products ( 50 ), to observe the carrying on of a business ( 51 ), to
enter premises without a warrant ( 52 ), to inspect products ( 53 ), to test
equipment ( 54 ), and others. Schedule 7 to the Act then adds to the enforcement powers in Part 8 of the Enterprise Act 2002 by adding socalled “enhanced consumer measures”. These are three types of additional measures which can be required from a trader who has been subject
to enforcement action, and can be part of an agreed formal undertaking
between trader and enforcer or be required by a court issuing an injunction. The first type of measure focuses on “redress” and includes compensation and the possibility to terminate contracts. The second category is
“compliance” and is designed to prevent the reoccurrence of the conduct
which has given rise to enforcement action or at least reduce the risk that
this might happen. Finally, the “choice” type of measures is “intended to
enable consumers to choose more effectively between persons supplying
or seeking to supply goods or services” ( 55 ).
There are, therefore, detailed and extensive enforcement powers available in the UK to ensure that all the various consumer law measures are
complied with. The focus of the UK’s approach to enforcement is generally to encourage enforcers and traders subject to possible enforcement
action to come to a negotiated agreement about changing the trader’s
conduct rather than to seek a court order immediately; however, if such
negotiation does not result in a lasting change in the trader’s conduct,
then formal enforcement orders and potential sanctions for non-compliance can be utilised.
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4.6. Overlap with the Consumer Rights Act 2015.
Although the CCRs are intended to be the main implementation of the
CRD – apart from the Consumer Rights (Payment Surcharges) Regulations 2012 which implement Art. 19 CRD and an amendment to the
CPUTR to implement Art. 27 CRD –, there is also some overlap with the
Consumer Rights Act 2015. The duplication of the provisions on delivery
and transfer of risk has already been mentioned.
There is an overlap with regard to some of the pre-contractual informa( 47 )
( 48 )
( 49 )
( 50 )
( 51 )
( 52 )
( 53 )
( 54 )
( 55 )
S. 219, Enterprise Act 2002.
S. 217, Enterprise Act 2002.
Schedule 5, par. 4.14, Consumer Rights Act 2015.
Schedule 5, par. 21, Consumer Rights Act 2015.
Schedule 5, par. 22, Consumer Rights Act 2015.
Schedule 5, par. 23, Consumer Rights Act 2015.
Schedule 5, par. 25, Consumer Rights Act 2015.
Schedule 5, par. 26, Consumer Rights Act 2015.
S. 219A (4) Enterprise Act 2002.
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tion regarding the “main characteristics of the goods”. The general requirement that any pre-contractual information given in respect of offpremises or distance contracts becomes part of the contract (Art. 6, par. 5,
CRD) is implemented in the CCR (Regs. 10(5) and 13(6) respectively ( 56 )).
This covers all the items of information to be provided. However, S. 11(4)
of the Consumer Rights Act 2015 states that information about the main
characteristics of the goods provided in accordance with the CCR is to be
“treated as included as a term in the contract”. Moreover, S. 12(2) of the
Act then does the same in respect of information which has to be provided under the CCR other than the information about the main characteristics of the goods. So Art. 6, par. 5, CRD is effectively implemented
twice, once in a straightforward fashion in the CCR, and then again in a
rather more complex manner in the Consumer Rights Act 2015. This, and
the other instances of duplication already mentioned, are clear examples
of the problems with the approach to implementing the Directive and the
insufficient integration with the wider reforms of consumer law in the
UK.
5. The Relationship between the national “special” rules concerning consumer sales and the general domestic rules on sales contracts.
As the preceding section has demonstrated, the implementation of the
Consumer Rights Directive has not been altogether successful – whilst all
the provisions are now part of English law, they continue to be scattered
across a range of measures rather than having been combined into one
more coherent Act of Parliament – and that is despite the fact that the
Consumer Rights Act 2015 would have offered a golden opportunity for
this, with a considerable amount of Parliamentary time devoted to it. That
said, the Consumer Rights Act does seek to improve one area of law
where the implementation of another directive created a very complex legal picture: the sale of goods to consumers, partly regulated by the Consumer Sales Directive (Dir. 1999/44/EC).
The implementation of the Consumer Sales Directive posed a rather different challenge for the UK government than other directives, because
this was one area where there was legislation in place already. The Sale of
Goods Act 1979 (SoGA) is a codification of aspects of the law relating to
the sale of goods, and was initially enacted as the Sale of Goods Act 1893
to codify the complex case-law which had developed up to that point. The
1893 version was amended on a number of occasions and a consolidated
version was adopted in 1979. Since then, there had been a number of further amendments, some to remove archaic provisions which were no
longer relevant ( 57 ), with others to amend the law for the interests of con-
( 56 ) Note that the same principle also applies in respect of on-premises contract (Reg.
9(5) CCR).
( 57 ) Sale of Goods (Amendment) Act 1994, which removed the rule of market overt.
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1197
sumer ( 58 ) and commercial parties ( 59 ) respectively. Until the enactment of
the Consumer Rights Act in 2015, SoGA applied to all sales transactions,
whether private, business-to-consumer or business-to-business, albeit
with some modifications of its rules depending on the type of contract. In
essence, SoGA deals with delivery, quality and fitness of the goods (conformity), remedies, and the transfer of ownership and related issues.
Prior to the adoption of the Consumer Sales Directive, SoGA already
contained requirements which goods had to meet whenever a business is a
seller: goods had to correspond with their description ( 60 ), be of “satisfactory quality” ( 61 ), and be fit for any particular purpose made known by
the buyer to the seller ( 62 ). These requirements were implied into each
contract and classified by the Act as “conditions”, which, in English legal
terminology, means that a breach of one of these terms would entitle the
buyer to reject the goods and terminate the contract, as well as claim damages for any additional losses. However, the right to reject the goods and
terminate the contract is restricted under SoGA by the notion of acceptance ( 63 ), which precludes rejection and termination in three key circumstances, the most relevant to consumer transactions being that a “reasonable period of time” has elapsed.
Following the adoption of the Consumer Sales Directive, an initial challenge was whether to adopt free-standing legislation (similar to the way the
Unfair Contract Terms Directive had been implemented), to amend the
SoGA, or to enact a new consumer sales law. Despite concerns expressed
about further “patching” to the SoGA ( 64 ), the government proceeded
with amendments to SoGA as the means of implementing most of the Directive ( 65 ), with the exception of Art. 4 (not transposed) and Art. 6 ( 66 ).
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( 58 ) Sale and Supply of Goods Act 1994 to give effect to Law Commission recommendations from its Report 160: The sale and supply of goods, London, 1987.
( 59 ) Sale of Goods (Amendment) Act 1995 to introduce SS. 20A and 20B on property in
unascertained goods from an identified bulk source; Sale and Supply of Goods to Consumers Regulations 2002 (s.i. n. 2002/3045) which implement the Consumer Sales Directive.
( 60 ) S.1 3(1) SoGA.
( 61 ) S.1 4(2) SoGA. Section 14(2A) states that “goods are of satisfactory quality if they
meet the standard that a reasonable person would regard as satisfactory, taking account of
any description of the goods, the price (if relevant) and all the other relevant circumstances”, and S. 14(2B) contains an indicative list of “relevant circumstances” (fitness for
all the purposes for which goods of the kind in question are commonly supplied; appearance and finish; freedom from minor defects; safety; and durability.
( 62 ) S. 14(3) SoGA.
( 63 ) S. 35 SoGA.
( 64 ) See e.g., Twigg-Flesner and Bradgate, The E.C. Directive On Certain Aspects
of the Sale of Consumer Goods and Associated Guarantees - All Talk and No Do?, Web Journal of Current Legal Issues, 2000, available at http://www.bailii.org/uk/other/journals/
WebJCLI/2000/issue2/flesner2.html [accessed 19 March 2015].
( 65 ) For a full analysis of the implementation of the Directive, see Bradgate and
Twigg-Flesner, Blackstone’s Guide to Consumer Sales and Associated Guarantees, London, 2003.
( 66 ) Art. 6 on “commercial” guarantees was transposed as a free-standing provision in
the Sale and Supply of Goods to Consumers Regulations 2002 (s.i. n. 2002/3045); this provision is now S. 30 of the Consumer Rights Act 2015.
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Art. 2 on conformity was “implemented” largely by relying on the existing implied terms, although provisions were added ( 67 ) to the definition of
the “satisfactory quality” criterion to include express references to “public statements” ( 68 ). This is a rare instance where, rather than copying out
the text of a directive more or less verbatim, English law is worded differently. Substantively, there is no difference and English law essentially
complies with the requirements of Art. 2; however, the retention of existing provisions means that courts interpreting these sections in the SoGA
need to take care to ensure that they adopt an interpretation which is in
line with the Directive and any relevant case-law from the CJEU. This obligation is easier for the courts to follow where legislation is clearly
adopted to implement a directive, but in this particular instance, provisions which had been in force for just over 8 years before the Directive
was transposed now have to be read in light of the Consumer Sales Directive.
The situation was rather different with regard to the remedies in Art.
3. These were transposed through the insertion of a new Part 5A into
the SoGA, where 6 new sections give effect to Art. 3. Here, too, the government did not pursue a copy-out approach but significantly re-worded
the provisions of the Directive. Some of this was necessary to reflect the
differences in terminology – for example, S. 48F SoGA provided a definition of “conformity with the contract” (as used in Art. 2) to encompass
the implied terms. More significantly, S. 48D SoGA combined the consumer-specific remedies with the existing right to reject and terminate by
requiring a consumer who has asked for repair or replacement in the
first instance to give the seller a reasonable time to do so before exercising the right to terminate. This attempt at retaining existing levels of
consumer protection whilst introducing the new remedies required by
the Consumer Sales Directive resulted in a very complex set of remedies.
It was so complex that it was highlighted in the so-called Davidson Review ( 69 ) as one area requiring reform ( 70 ). This matter was duly referred
to the Law Commission, which reported in 2009 ( 71 ). It recommended a
simplified regime in cases where consumers had bought faulty goods: the
initial right would be to reject the goods combined with a choice between repair, replacement, or termination (although the right to terminate would only be available for 30 days after purchase). Price reduction
and rescission would be available as second-tier remedies as before. The
Consumer Rights Act gives effect to these recommendations, albeit not
quite in the same way as envisaged by the Law Commission by keeping
the right to reject and terminate separate from the rights to repair and
replacement.
The enactment of the Consumer Rights Act 2015 brings with it significant changes. Prior to the CRA 2015, there were three separate Acts of
( 67 )
( 68 )
( 69 )
( 70 )
( 71 )
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In SS. 14(2D)-(2F) SoGA.
Art. 2, par. 2, d and par. 4 of the Consumer Sales Directive.
Davidson Review, Implementation of EU Legislation – Final Report, London, 2006.
Ibidem, par. 3.10-3.23.
Commission, Report 317 - Consumer Remedies for Faulty Goods, London, 2009.
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Parliament dealing with the supply of goods under different types of
contracts (sale ( 72 ), work and materials, hire ( 73 ), and hire-purchase ( 74 )).
The CRA significantly changes this position by consolidating many of
these provisions in Part 1 of the Act. This part includes chapters which
cover contracts which involve the supply of goods, services and digital
content. So whenever a contract involves the supply of goods, chapter 2
of Part 1 sets out the conformity requirements for goods, followed by
the remedies when these requirements are not met. This section includes
the Law Commission’s recommendations for combining the right to reject the goods and terminate the contract with the remedies from Art. 3
of the Consumer Sales Directive, with the added clarification that the
right to reject and terminate is of a short-term nature and generally fixed
at 30 days.
Crucially, the CRA does not copy-out any relevant provisions of the
Consumer Sales Directive; rather, its substantive requirements are fully
integrated into these provisions, which also consolidate other relevant legal provisions. Chapter 3 deals with Digital Content and imposes similar
conformity requirements and remedies, although there is no short-term
right to terminate the contract. Chapter 4 deals with the supply of services. In addition, the provisions on time of delivery and passing of risk,
which had already been implemented in the Consumer Contracts (Information, Cancellation and Additional Charges) Regulations 2013, re-appear in SS. 28 and 29 of the Consumer Rights Act.
The effect of these changes is that similar rules will now be applicable to
all supply transactions, as well as services and digital content, with there
being no need to classify the transactions. Consumers will now know that
whenever they receive goods (or services, or digital content, or a combination of these), the same rules will apply. The Consumer Rights Act therefore achieves a degree of simplification in this respect, although the substance of these provisions could have been drafted more clearly.
However, as already noted, whilst the Consumer Rights Act 2015 brings
together the existing rules regarding the sale and supply of goods to consumers in a new measure, and thereby effectively creates the skeleton for a
consumer sales law, the Act falls some way short of a proper consolidation
of the key measures in the field of consumer law.
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6. The Expected impact of CESL on the national regulations of consumer
sales.
In light of the changes made by the Consumer Rights Act 2015 to the
field of consumer sales, the question of what the expected impact of
CESL, should it still emerge ( 75 ). The initial proposal received a fairly
( 72 ) Sale of Goods Act 1979.
( 73 ) For both, the Supply of Goods and Services Act 1982.
( 74 ) Supply of Goods (Implied Terms) Act 1973.
( 75 ) The future for CESL is now rather unclear, following the publication of the European Commission’s Work Programme 2015 (COM(2014) 910 final). The list of proposals
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luke-warm reception, with the UK’s Parliament raising concerns over
whether the proposal complied with the subsidiarity principle ( 76 ). Instead, the UK’s position aligns with advice given by the Law Commission
that the focus of CESL should be on supporting internet sales only ( 77 ),
possibly even limited to the cross-border context ( 78 ).
With considerable effort having gone into the Consumer Rights Act
2015, it seems unlikely that there would be much appetite for further revising national consumer sales legislation in the light of whatever CESL
might emerge. Indeed, the area of consumer sales is perhaps the one key
example where the impact of EU law has been more obscure – although
English law is in line with the requirements of the Consumer Sales Directive, the government did not pursue the usual copy-out approach nor are
the provisions giving effect to the Consumer Sales Directive found in
separate regulations. So the field of consumer sales law seems to be quite
robust in resisting being too heavily influenced by European developments.
There are, of course, obvious variations between CESL and domestic
sales law. To take but one example: under the Consumer Rights Act 2015,
a consumer can terminate the contract for a non-conformity of the goods
within 30 days ( 79 ). In contrast, under CESL in its most recent version,
this right is available for two months ( 80 ).
Another area (especially in light of the likely future of CESL in focusing on on-line purchases) might be in respect of the provisions on digital
content. Here, the Consumer Rights Act 2015 introduces a set of new
provisions on conformity and remedies for the supply of digital content ( 81 ). As well as provisions on description ( 82 ), satisfactory quality ( 83 )
and fitness for a particular purpose ( 84 ) which mirror those already in existence in respect of goods, the Consumer Rights Act deals with circumstances where digital content is supplied “subject to modification” (i.e.,
updates) ( 85 ), the transmission of digital content to the consumer and access on a continuous basis (e.g., via cloud computing) ( 86 ), and the liabil-
to be withdrawn or modified in Annex II at item 60, indicates that there would be a
“modified proposal in order to fully unleash the potential of ecommerce in the Digital
Single Market”.
( 76 ) See House of Commons European Scrutiny Committee, Twenty-fifth report
of Session 2012-13 HC 86-xxv, London, 2013, p. 51 seq.
( 77 ) Cf. Law Commissions, An Optional Common European Sales Law: Advantages and
Problems – Advice to the UK Government, London, 2011.
( 78 ) For an academic perspective on this, see Twigg-Flesner, A Cross-Border-Only
Regulation for Consumer Transactions in the EU – A New Approach to EU Consumer Law,
New York, 2012.
( 79 ) S. 22(3) Consumer Rights Act 2015.
( 80 ) CESL, Art. XX.
( 81 ) Chapter 3 of the Consumer Rights Act.
( 82 ) S. 37 Consumer Rights Act 2015.
( 83 ) S. 35 Consumer Rights Act 2015.
( 84 ) S. 36 Consumer Rights Act 2015.
( 85 ) S. 41 Consumer Rights Act 2015.
( 86 ) S. 40 Consumer Rights Act 2015.
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ity of a trader when content caused damage to a device or to other digital content ( 87 ).
If something like CESL is adopted eventually, there will inevitably be
questions as to whether to disapply the Consumer Rights Act 2015 from
transactions falling within CESL – e.g., if CESL becomes a measure for
online cross-border transactions, it might be necessary to consider
whether CESL should be extended into the domestic sphere. However,
the lengthy process leading up to the Consumer Rights Act 2015 would
probably mean that there would be a high degree of reluctance to make
further changes unless there is evidence that the law does not work in
practice.
Consumer Rights
Directive, Consumer
Sales and English Law
7. Conclusions.
It will be apparent from the foregoing discussion that the process of
implementing the Consumer Rights Directive and the simultaneous process of significant reform of domestic consumer law has not been altogether successful, at least insofar as there is still a significant level of fragmentation in the consumer law landscape. Although the Consumer Rights
Act 2015 will bring about a welcome simplification and consolidation of
the law relating to the supply of goods, services and digital content as well
as the control over unfair terms in consumer contracts, it is regrettable
that the Act does not include within the ambit of its consolidation the
Consumer Contracts (Information, Cancellation and Additional Charges)
Regulation 2013, the Consumer Rights (Payment Surcharges) Regulations
2012 ( 88 ), the Consumer Protection from Unfair Trading Regulations
2008 as amended in 2014, as well as perhaps the provisions on Product
Liability from the Consumer Protection Act 1987 and the enforcement
powers under the Enterprise Act 2002. All of these measures combined
constitute the core of UK consumer law, and whilst there are others which
could also be added, these measures are all crucial for providing consumers with strong protection in their dealings with traders. Unfortunately, all
of these remain separate, which is surprising in view of the commitment to
simplification and consolidation which was at the heart of the reform process. Whilst some of this could be explained on the basis of the stated UK
Government policy with regard to the implementation of directives, this
would be a weak justification indeed. Thus, whilst at a technical level, the
implementation of Consumer Rights Directive into UK Law is complete
and correct, the fact that it is split across two pieces of secondary legislation combined with some duplication of provisions in the Consumer
Rights Act is regrettable. Unfortunately, as the end of a lengthy reform
process has now been reached, it seems unlikely that there will be any attempts in the immediate future to pursue further consolidation of these
key areas of consumer law.
( 87 ) S. 47 Consumer Rights Act 2015.
( 88 ) Both of which implement the Consumer Rights Directive.
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Consumer Rights
Directive, Consumer
Sales and English Law
NLCC 6-2015
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This does leave a number of challenges: first, the fragmentation of the
law in this area will make it more difficult for anybody who is not a specialist to identify all the various measures relevant to consumer law, and
could result in fragmentation not just in the legal framework but also in its
practical application. Secondly, with consumers rarely seeking advice
from practising lawyers about their legal rights, the challenge will be for
those offering advice to consumers (which will often be voluntary services
or charities such as the UK’s Citizen Advice Bureaux) to be aware of the
complete picture of domestic consumer law and to be able to piece together what continues to be a fairly complicated jigsaw of various measures. So after all this time and effort spent on reforming UK consumer
law, it seems that something else is needed to ensure that the law is sufficiently accessible to all its users. The Government has promised detailed
guidance, which should offer some support. However, it remains to be
seen whether that guidance will succeed in producing a complete overview of consumer law which shows clearly how different elements fit together (and overlap, in some instances) rather than simply being guidance
on discrete piece of legislation.
The overall conclusion, unfortunately, has to be that the UK’s activities
over the last decade have produced what is, on balance, a rather disappointing result, and it is regrettable that the opportunity for a rigorous
consolidation of consumer law has been missed.
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LE NUOVE LEGGI CIVILI COMMENTATE
INDICI ANNUALI 2015
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INDICE ANALITICO-ALFABETICO
Arbitrato
– Sul c.d. arbitrato forense (art. 1 d.l. n. 132/14, convertito in l. n. 162/14), p. 205.
Assicurazioni (contratto di)
– Il contratto di assicurazione professionale tra mercato e recenti normative (d.m. 14
luglio 2009; bozza di d.p.r. del 7 febbraio 2014 predisposta in attuazione dell’art. 3,
comma 2o, del d.l. n. 158/12, convertito in l. n. 189/12), p. 256.
Banca, credito e risparmio
– Gli sconfinamenti bancari: presupposti e finalità della commissione di istruttoria veloce (art. 117 bis t.u.b.), p. 121.
– Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013: alcune rilevanti novità nella disciplina dei
gruppi bancari e delle partecipazioni detenibili dalle banche, p. 278.
– L’evoluzione del sistema dei controlli interni nell’impresa bancaria (Disposizioni di
vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle banche 4 marzo
2008; Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per le banche 27 dicembre 2006,
n. 263; Disposizioni di vigilanza per le banche 17 dicembre 2013, n. 285), p. 304.
– L’anatocismo bancario alla luce dei mutamenti normativi dell’estate 2014 (art. 120,
comma 2o, t.u.b. come modificato dalla l. 27 dicembre 2013, n. 147), p. 327.
– Il nuovo governo societario delle banche, p. 525.
– Il trasferimento dei servizi di pagamento (d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito dalla
l. 24 marzo 2015, n. 33), p. 1031.
Concorrenza (disciplina)
– Il rating di legalità come premio per le imprese virtuose (d.m. n. 57/14), p. 134.
Conciliazione in genere
– « Degiurisdizionalizzazione », negoziazione assistita e trascrizione (d.l. n. 132/14,
conv. in l. n. 162/14), p. 18.
– La negoziazione assistita (artt. 6 e 12 d.l. n. 132/14), p. 649.
Contratto in genere
– L’accesso « graduale » alla proprietà immobiliare (ovvero, sui contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili) (art. 23 d.l. n. 133/14, conv.
in l. n. 164/14), p. 32.
– L’irrinunciabilità delle tutele dell’acquirente di immobili da costruire, la garanzia fiNLCC 6-2015
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Indice analitico-alfabetico
deiussoria e la polizza assicurativa (art. 10 quater d.l. n. 47/14, conv. in l. n. 80/14),
p. 32.
– Controllo giudiziale del contratto ed effettività delle tutele. Una premessa, p. 151.
– Il diritto contrattuale antidiscriminatoria nelle indagini dottrinali recenti, p. 161.
Consumatore (tutela del)
– The Consumer Rights Directive, Consumer Sales and English Law – the fear of coherence?, p. 1185.
Diritto d’autore
– La nuova disciplina delle opere orfane (artt. 69 bis-69 septies l. 22 aprile 1941, n.
633, introdotti dal d.lgs. 10 novembre 2014, n. 163, attuativo dir. 2012/28/UE), p.
893.
– L’attuazione della dir. 2011/77/UE sull’estensione della durata di protezione dei diritti connessi del produttore di fonogrammi e degli artisti interpreti ed esecutori
(d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 22), p. 912.
Esecuzione in genere
– Brevi note sulla modifica dell’art. 480 c.p.c.: obbligo di inserire nel precetto l’informativa al debitore sulla possibilità di fare ricorso alle procedure di composizione
delle crisi da sovraindebitamento, p. 961.
Esecuzione per obbligazioni pecuniarie
– La nuova disciplina in materia di espropriazione del credito (d.l. n. 132/14, conv. in
l. n. 162/14), p. 1.
– La nuova disciplina del pignoramento e della custodia degli autoveicoli (art. 521 bis
c.p.c. introdotto dall’art. 19, comma 1o, lett. d ter, d.l. n. 132/14, conv. in l. 10 novembre 2014, n. 162), p. 436.
– Le nuove limitazioni poste alla pignorabilità delle somme di denaro depositate presso i conti correnti bancari o postali delle rappresentanze diplomatiche e consolari
straniere (art. 19 bis d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10 novembre 2014,
n. 162), p. 469.
– L’iscrizione a ruolo nel processo esecutivo e l’inefficacia del pignoramento effettuato in violazione della relativa disciplina: le novità introdotte nel c.p.c. e nelle disposizioni di attuazione (art. 18 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162), p. 481.
– La nuova disciplina dei provvedimenti concernenti i beni mobili estranei all’esecuzione che si trovino all’interno del bene immobile sottoposto a procedimento esecutivo per rilascio contenuta nell’art. 609 c.p.c. (art. 19, comma 1o, lett. i, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162), p. 489.
Fallimento
– Intermediazione di società fiduciaria nella prestazione di credito al fiduciante e art.
70, comma 1o, l. fall., p. 1105.
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Famiglia in genere
– Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma, p. 615.
– Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze, p. 971.
– Il disegno di legge sulle « unioni civili » e sulle « convivenze di fatto »: appunti e
proposte sui lavori in corso, p. 1014.
Intermediazione e consulenza finanziaria
– La disciplina sui gestori di fondi di investimento alternativi (d.lgs. 4 marzo 2014, n.
44, attuativo della dir. 2011/61/UE sui gestori di fondi di investimento alternativi),
p. 346.
Locazioni
– La liberalizzazione del mercato delle grandi locazioni ad uso non abitativo (art. 18
d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014, n. 164), p. 429.
Matrimonio
– La nuova normativa sul divorzio breve: analisi della disciplina e aspetti problematici
(l. 6 maggio 2015, n. 55; d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162), p. 1079.
Notaio
– La metamorfosi della funzione notarile nella lente del dovere di informazione, p.
761.
Obbligazioni in genere
– I ritardi di pagamento nel prisma (novellato delle fonti: (nuovi) profili generali, p.
800.
Ordinamento giudiziario
– La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio 2015, n.
18) p. 675.
– Ferie dei magistrati: due interpretazioni per la novella introdotta con l’articolo 16
del d.l. n. 132/14 (art. 16 d.l. n. 132/14, convertito con l. 10 novembre 2014, n.
162), p. 690.
Patto commissorio
– I misteri del patto commissorio, le precomprensioni degli interpreti e il diritto europeo della dir. 2014/17/UE, p. 181.
NLCC 6-2015
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Processo civile
– Le innovazioni apportate alla disciplina della compensazione delle spese di lite (art.
92 c.p.c.) (art. 13 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10 novembre 2014, n.
162), p. 469.
– Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione: il nuovo art. 183 bis
c.p.c. (art. 14, comma 1o, d.l. n. 132/14, convertito con l. 10 novembre 2014, n.
162), p. 737.
– Overruling in materia processuale e principio del giusto processo, p. 1149.
Società
– I c.d. « mini-bond » e le « nuove » obbligazioni subordinate e partecipative ai sensi
del decreto sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla
l. 7 agosto 2012, n. 134), p. 388.
– La reforma de la junta de socios de las sociedades no cotizadas para la mejora del gobierno corporativo en Derecho Español (Ley 31/2014, de 3 de diciembre 2014), p.
845.
– La maggiorazione del voto, il presupposto dell’obbligo di offerta pubblica di acquisto e le altre novità in materia di soglie opa (d.l. 24 giugno 2014, n. 91, convertito
con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 116), p. 863.
– La cancellazione dal registro delle imprese dopo il c.d. decreto « semplificazioni »:
profili societari (art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175), p. 1040.
– La cancellazione della società dopo il c.d. decreto « semplificazioni »: profili tributari (art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175), p. 1050.
Successione ereditaria
– Certificato successorio europeo e autorità di rilascio italiana (art. 32 l. 30 ottobre
2014, n. 161), p. 1099.
Trasporto
– Il rafforzamento della tutela dei diritti dei passeggeri nel trasporto ferroviario: il reg.
CE n. 1371/2007 e l’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 70/14, p. 703.
Unione europea e Consiglio d’Europa
– Una prima lettura del reg. UE n. 910/2014 (c.d. eIDAS): identificazione on line, firme elettroniche e servizi fiduciari (reg. UE n. 910/2014), p. 419.
– L’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari (reg. UE n. 655/
2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014), p. 495.
– V. Successione ereditaria.
Usi civici
– Disciplina dell’esercizio delle funzioni in materia di demanio collettivo civico e diritti di uso civico (l. reg. Toscana 23 maggio 2014, n. 27), p. 235.
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INDICE CRONOLOGICO
Data
2012, 22
7
2013, 27
2014, 21
4
28
17
23
23
24
11
11
12
giugno
agosto
dicembre
febbraio
marzo
marzo
aprile
maggio
maggio
giugno
agosto
settembre
settembre
Leggi, D.l., D.lgs., D.p.r.
D.l. n. 83
Legge n. 134
L. n. 147
D.lgs. n. 22
D.lgs. n. 44
D.l. n. 47
D.lgs. n. 70
L. reg. Toscana n. 27
L. n. 80
D.l. n. 91
Legge n. 116
D.l. n. 133
D.l. n. 132
30 ottobre
10 novembre
Legge n. 161
Legge n. 162
10 novembre
11 novembre
21 novembre
2015, 24 gennaio
27 febbraio
24 marzo
6 maggio
27 giugno
6 agosto
D.lgs. n. 163
Legge n. 164
D.lgs. n. 175
D.l. n. 3
Legge n. 18
Legge n. 33
Legge n. 55
D.l. n. 83
Legge n. 132
Data
2013, 17 dicembre
2014, 4 febbraio
20 febbraio
15 maggio
23 luglio
3 de diciembre
Altri provvedimenti
Circolare Banca d’Italia n. 285
Direttiva 2014/17/UE del Parlamento europeo e del Consiglio
D.M. Economia e finanze n. 57
Regolamento UE n. 655 del Parlamento europeo e del Consiglio
Regolamento UE n. 910 del Parlamento europeo e del Consiglio
Ley 31/2014
Pagg.
388
388
327
912
346
66
703
235
66
863
863
32, 429
1, 18, 205, 436,
459, 469, 481,
489, 649, 690,
737, 1079
800, 1099
1, 18, 205, 436,
459, 469, 481,
489, 649, 690,
737, 1079
893
32, 429
1040, 1050
1031
675
1031
1079
961
961
Pagg.
278, 304
181
134
489
419
845
NLCC 6-2015
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INDICE NUMERICO
Numero
83
134
147
22
27
44
47
70
80
91
116
132
Leggi, D.l., D.lgs., D. Pres. Repubblica
2012, D.l. (22 giugno)
Legge (7 agosto)
2013, Legge (27 dicembre)
2014, D.lgs. (21 febbraio)
Legge reg. Toscana (23 maggio)
D.lgs. (4 marzo)
D.l. (28 marzo)
D.lgs. 17 aprile
Legge (23 maggio)
D.l. (24 giugno)
Legge (11 agosto)
D.l. (12 settembre)
133
161
162
D.l. (11 settembre)
Legge (30 ottobre)
Legge (10 novembre)
163
164
175
3
18
33
55
83
132
D.lgs. (10 novembre)
Legge (11 novembre)
D.lgs. (21 novembre)
2015, D.l. (24 gennaio)
Legge (27 febbraio)
Legge (24 marzo)
Legge (6 maggio)
D.l. (27 giugno)
Legge (6 agosto)
Numero
Altri provvedimenti
285
17
2013, Circolare Banca d’Italia (17 dicembre)
2014, Direttiva 2014/17/UE del Parlamento europeo e del Consiglio (4 febbraio)
Ley (3 de diciembre)
D.M. Economia e finanze n. 57 (20 febbraio)
Regolamento UE del Parlamento europeo
e del Consiglio (15 maggio)
Regolamento UE del Parlamento europeo
e del Consiglio (23 luglio)
31
57
655
910
NLCC 6-2015
Pagg.
388
388
327
912
235
346
66
703
66
863
863
1,18, 205, 436,
459, 469, 481,
489, 649, 690,
737, 1079
32, 429
800, 1099
1, 18, 205,
436, 459, 469,
481, 489, 649,
690, 737, 1079
893
32, 429
1040, 1050
1031
675
1031
1079
961
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Pagg.
278, 304
181
845
134
495
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INDICE DEGLI AUTORI
Auletta, Tommaso: p. 615.
Barillà, Stefano: p. 1031.
Boatto, Stefano: p. 1105.
Bosa, Salvatore: p. 256.
Bove, Mauro: pp. 1, 205.
Calandrino, Rosalia: p. 66.
Canalini, Valentina: p. 388.
Cariglia, Chiara: p. 436.
Carmignani, Sonia: p. 235.
Cilento, Antonio: p. 675
De Pra, Alberto: p. 525.
Farina, Marco: p. 495.
Finocchiaro, Giusella: p. 419.
Frezza, Giampaolo: p. 18.
Gioia, Gina: p. 690
Iorio, Giovanni: p. 1014.
Lenzi, Raffaele: p. 761.
Luiso, Francesco P.: p. 649
Maffeis, Daniele: p. 161.
Mancini, Novella: p. 327.
Meruzzi, Giovanni: p. 912.
Morales Barcelò, Judith: p. 845.
Mosca, Chiara: p. 863.
Padovini, Fabio: pp. 429, 1099.
Pagliantini, Stefano: pp. 181, 800.
Pasquariello, Caterina: p. 278.
Pellecchia, Enza: p. 961.
Penasa, Luca: p. 459.
Pepe, Alessandro: p. 703
Pilloni, Monica: pp. 469, 481, 489.
Poletti, Dianora: p. 32.
Porcaro, Gianpiero: p. 1050.
Renzulli, Valeria: p. 346.
Riganti, Federico: p. 304.
Robustella, Carmela: p. 121.
Rodriguez Moreno, Sofia: p. 893.
Romeo, Filippo: p. 971.
Sardelli, Simona: p. 278.
Speranzin, Marco: p. 1040.
Tizi, Francesca: p. 1079.
Tomasi, Tania: p. 134.
Turatto, Silvia: pp. 737, 1149.
Twigg-Flesner, Christian: p. 1185.
Venuti, Maria Carmela: p. 971.
Vettori, Giuseppe: p. 151.
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INDICE SOMMARIO
dei provvedimenti commentati
Le nuove leggi
La nuova disciplina in materia di espropriazione del credito (d.l. n. 132/14,
conv. in l. n. 162/14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
1
« Degiurisdizionalizzazione », negoziazione assistita e trascrizione (d.l. n.
132/14, conv. in l. n. 162/14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
18
L’accesso « graduale » alla proprietà immobiliare (ovvero, sui contratti di godimento in funzione della successiva alienazione di immobili) (art. 23 d.l.
n. 133/14, conv. in l. n. 164/14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
32
L’irrinunciabilità delle tutele dell’acquirente di immobili da costruire, la garanzia fideiussoria e la polizza assicurativa (art. 10 quater d.l. n. 47/14,
conv. in l. n. 80/14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
66
Gli sconfinamenti bancari: presupposti e finalità della commissione di istruttoria veloce (art. 117 bis t.u.b.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
121
Il rating di legalità come premio per le imprese virtuose (d.m. n. 57/14) . . . . »
134
Sul c.d. arbitrato forense (art. 1 d.l. n. 132/14, convertito in l. n. 162/14) . . »
205
Disciplina dell’esercizio delle funzioni in materia di demanio collettivo civico
e diritti di uso civico (l. reg. Toscana 23 maggio 2014, n. 27) . . . . . . . . . . . »
235
Il contratto di assicurazione professionale tra mercato e recenti normative
(d.m. 14 luglio 2009; bozza di d.p.r. del 7 febbraio 2014 predisposta in
attuazione dell’art. 3, comma 2o, del d.l. n. 158/12, convertito in l. n.
189/12) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
256
Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013: alcune rilevanti novità nella disciplina dei gruppi bancari e delle partecipazioni detenibili dalle banche . . . . . . »
278
L’evoluzione del sistema dei controlli interni nell’impresa bancaria (Disposizioni di vigilanza in materia di organizzazione e governo societario delle
banche 4 marzo 2008; Nuove disposizioni di vigilanza prudenziale per
le banche 27 dicembre 2006, n. 263; Disposizioni di vigilanza per le
banche 17 dicembre 2013, n. 285) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
304
L’anatocismo bancario alla luce dei mutamenti normativi dell’estate 2014
(art. 120, comma 2o, t.u.b. come modificato dalla l. 27 dicembre 2013,
n. 147) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
327
La disciplina sui gestori di fondi di investimento alternativi (d.lgs. 4 marzo
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Indice sommario
2014, n. 44, attuativo della dir. 2011/61/UE sui gestori di fondi di investimento alternativi) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
1213
346
Una prima lettura del reg. UE n. 910/2014 (c.d. eIDAS): identificazione on
line, firme elettroniche e servizi fiduciari (reg. UE n. 910/2014) . . . . . . . . »
419
La liberalizzazione del mercato delle grandi locazioni ad uso non abitativo
(art. 18 d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. in l. 11 novembre 2014, n.
164) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
429
La nuova disciplina del pignoramento e della custodia degli autoveicoli (art.
521 bis c.p.c. introdotto dall’art. 19, comma 1o, lett. d ter, d.l. n. 132/14,
conv. in l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
436
Le nuove limitazioni poste alla pignorabilità delle somme di denaro depositate presso i conti correnti bancari o postali delle rappresentanze diplomatiche e consolari straniere (art. 19 bis d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv.
dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
459
Le innovazioni apportate alla disciplina della compensazione delle spese di lite (art. 92 c.p.c.) (art. 13 d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10
novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
469
L’iscrizione a ruolo nel processo esecutivo e l’inefficacia del pignoramento effettuato in violazione della relativa disciplina: le novità introdotte nel
c.p.c. e nelle disposizioni di attuazione (art. 18 d.l. 12 settembre 2014, n.
132, conv. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
481
La nuova disciplina dei provvedimenti concernenti i beni mobili estranei all’esecuzione che si trovino all’interno del bene immobile sottoposto a procedimento esecutivo per rilascio contenuta nell’art. 609 c.p.c. (art. 19,
comma 1o, lett. i, d.l. 12 settembre 2014, n. 132, conv. dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
489
L’ordinanza europea di sequestro conservativo su conti bancari (reg. UE n.
655/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 maggio 2014) . »
495
La negoziazione assistita (artt. 6 e 12 d.l. n. 132/14) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
649
La nuova disciplina della responsabilità civile dei magistrati (l. 27 febbraio
2015, n. 18, in G.U. n. 52 del 4 aprile 2015) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
675
Ferie dei magistrati: due interpretazioni per la novella introdotta con l’articolo 16 del d.l. n. 132/14 (art. 16 d.l. n. 132/14, convertito con l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
690
Il rafforzamento della tutela dei diritti dei passeggeri nel trasporto ferroviario:
il reg. CE n. 1371/2007 e l’apparato sanzionatorio di cui al d.lgs. n. 70/14 »
703
Il passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione: il nuovo art.
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1214
Indice sommario
183 bis c.p.c. (art. 14, comma 1o, d.l. n. 132/14, convertito con l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag.
737
La maggiorazione del voto, il presupposto dell’obbligo di offerta pubblica di
acquisto e le altre novità in materia di soglie opa (d.l. 24 giugno 2014, n.
91, convertito con modificazioni dalla l. 11 agosto 2014, n. 116) . . . . . . . »
863
La nuova disciplina delle opere orfane (artt. 69 bis-69 septies l. 22 aprile
1941, n. 633, introdotti dal d.lgs. 10 novembre 2014, n. 163, attuativo
dir. 2012/28/UE) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
893
L’attuazione della dir. 2011/77/UE sull’estensione della durata di protezione
dei diritti connessi del produttore di fonogrammi e degli artisti interpreti
ed esecutori (d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 22) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
912
Brevi note sulla modifica dell’art. 480 c.p.c.: obbligo di inserire nel precetto
l’informativa al debitore sulla possibilità di fare ricorso alle procedure di
composizione delle crisi da sovraindebitamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
961
Il trasferimento dei servizi di pagamento (d.l. 24 gennaio 2015, n. 3, convertito dalla l. 24 marzo 2015, n. 33) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1031
La cancellazione dal registro delle imprese dopo il c.d. decreto « semplificazioni »: profili societari (art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175) . . . . . . . . . »
1040
La cancellazione della società dopo il c.d. decreto « semplificazioni »: profili
tributari (art. 28 d.lgs. 21 novembre 2014, n. 175) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1050
La nuova normativa sul divorzio breve: analisi della disciplina e aspetti problematici (l. 6 maggio 2015, n. 55; d.l. 12 settembre 2014, n. 132, convertito dalla l. 10 novembre 2014, n. 162) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1079
Certificato successorio europeo e autorità di rilascio italiana (art. 32 l. 30 ottobre 2014, n. 161) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1099
Saggi e approfondimenti
Controllo giudiziale del contratto ed effettività delle tutelez. Una premessa . pag.
151
Il diritto contrattuale antidiscriminatoria nelle indagini dottrinali recenti . . . »
161
I misteri del patto commissorio, le precomprensioni degli interpreti e il diritto
europeo della dir. 2014/17/UE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
181
I c.d. « mini-bond » e le « nuove » obbligazioni subordinate e partecipative ai
sensi del decreto sviluppo (d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla l. 7 agosto 2012, n. 134) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
388
Il nuovo governo societario delle banche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
525
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1215
La metamorfosi della funzione notarile nella lente del dovere di informazione pag.
761
I ritardi di pagamento nel prisma (novellato) delle fonti: (nuovi) profili generali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
800
Intermediazione di società fiduciaria nella prestazione di credito al fiduciante
e art. 70, comma 1o, l. fall. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1105
Overruling in materia processuale e principio del giusto processo . . . . . . . . . . »
1149
Provvedimento in formazione – Legislazione straniera
Modelli familiari, disciplina applicabile e prospettive di riforma . . . . . . . . . . . . pag.
615
La reforma de la junta de socios de las sociedades no cotizadas para la
mejora del gobierno corporativo en Derecho Español (Ley 31/2014, de
3 de diciembre 2014) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
845
Relazioni affettive non matrimoniali: riflessioni a margine del d.d.l. in materia di regolamentazione delle unioni civili e disciplina delle convivenze . . »
971
Il disegno di legge sulle « unioni civili » e sulle « convivenze di fatto »: appunti e proposte sui lavori in corso . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1014
The Consumer Rights Directive, Consumer Sales and English Law – the
fear of coherence? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
1185
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