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- Maurizio Ferrarotti
MAURIZIO FERRAROTTI
MEXIA
L’ULTIMA BIRRA E ANDIAMO A CASA
(forse)
La birra e la sua storia secondo un affezionato consumatore
2
…in una distorta stratosfera.
3
Per Guido ‘Straker’ Pautasso, che ha
avuto l’idea in una deprimente serata
di fine agosto.
E per tutti quelli che non ci sono più:
Daniela, Piero, Sergino, Ferruccio,
Gianni, Ron, Bon, Phil… Bruno...
4
L’orzo e il luppolo fra crescere, oh Signore
in abbondanza e della qualità migliore.
D’estate a lungo il tempo sia clemente
in modo che assetata sia la gente;
riesca bene sempre la fermentazione
della birra che si trova in produzione.
Fa che il birraio, per la sua sostanza
non abbia grane con la Guardia di Finanza.
La tua benedizione sul di lui fervore
e un poco di fortuna concedigli, Signore
e in fine fa che i clienti siano pronti
a pagare birra senza sconti.
Schranka
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UNA BIRRA NON BASTA
Una volta non basta di Jacqueline Susann: lessi questo libro a quindici
anni, poco prima di bere la prima birrozza della mia vita. Fu mia sorella
Danii a ordinarlo all’Euroclub. In quel tempo io ero un gracile capelluto
timidissimo famelico consumatore di fantascienza, principalmente d’autori
classici quali Isaac Asimov, Jack Williamson e Ray Bradbury, ma avevo
appena scoperto Philip K. Dick. Sdraiato sul letto a gambe incrociate, i
piedi nudi stracotti da interminabili partite a pallone giocate nelle strade
del quartiere ispirandomi agli idoli del momento (Zico, D’Amico, Keegan,
Woodcock), leggevo e rileggevo senza requie Millemondinverno 1975,
supplemento a Urania n. 684 che includeva ben tre sconvolgenti romanzi
completi dell’immenso scrittore americano: Cronache del dopobomba, La
città sostituita e L’uomo dei giochi a premi, quest’ultimo recentemente
ristampato da Fanucci Editore col titolo Tempo fuori squadra – traduzione
pressoché fedele dell’originale Time out of joint.
C’era già stato un libro di Jackie Susann in casa nostra: La macchina
dell’amore, in edizione tascabile della Garzanti. Ma io l’avevo soltanto
intravisto. Di tanto in tanto mio padre alleggeriva le librerie risparmiando,
è ovvio, i classici a detrimento della “spazzatura battuta a macchina” –
capirai, per ogni libro epurato n’acquistava due! Così mi era rimasta una
fortissima curiosità per questa scrittrice di storie definite “a tinte forti”. Mi
premeva sapere se vi fosse in questo mondo qualcuno capace di comporre
un’opera più sporcacciona di Emmanuelle, di cui papà possedeva una
rarissima copia fuorilegge: la risposta, naturalmente, è sì. Dopotutto io non
conoscevo ancora Terry Southern, né Anaïs Nin… neppure Jackie Collins
e Harold Robbins (due fangosissimi imbrattacarte ingrassati da immeritato
successo, e al diavolo l’invidia), se è per quello. Candy (Candy) per me
era uno smanceroso cartoon giapponese; come quasi tutti gli ultrà in erba,
io sballavo per Lupin III.
In ogni modo, non tutti i volumi in eccedenza finivano nei cassonetti della
nettezza urbana: alcuni, diciamo le vaccate de luxe, scendevano giù in
cantina a ingiallire tra scarti di maioliche e portabagagli risalenti all’epoca
del boom economico. Passato circa un lustro che l’ebbi letto (per ben due
volte, sarà stata la tempesta ormonale puberale), Una volta non basta fu
infilato da papà in un sacchetto di plastica del PAM insieme con altri
libracci e io non m’interessai minimamente al suo destino – intrippato
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com’ero da un’antologia di tre romanzi del prodigioso maestro di stile
Roger Zelazny. Il Signore dei Sogni…
Gli occhi di Eileen Shallot, velati e amorfi come quelli di una statua, lo cercarono
ancora.
“La vostra è una situazione davvero unica” commentò Render. “non c’è mai stato
un neuropartecipazionista affetto da cecità congenita, per evidenti ragioni. Dovrei
considerare tutti gli aspetti della situazione prima di potervi consigliare. Ora
mangiamo, però. Muoio di fame.”
“Benissimo. Ma il fatto che sia cieca non significa che non abbia mai visto.”
Render non le chiese cosa voleva dire con queste parole, perché ora davanti a lui
stavano delle costolette di prima scelta e una bottiglia di Chambertin. Tuttavia,
quando Eileen alzò da sotto il tavolo la mano sinistra, trovò il tempo di notare
che non portava anelli.
Una decina d’anni fa, sceso in apnea nelle profondità del condominio per
riportare alla superficie due pintoni di Nebbiolo, fui preso dall’impulso di
aprire una vecchia credenza: ooh la la! L’ultimo best seller di Jacqueline
Susann – morta di cancro poco tempo dopo averlo scritto – era lì dentro, in
discrete condizioni, compartendo la sua salnitrosa prigione con venerandi
Oscar settimanali della Mondadori e raccolte di fumetti horror dello Zio
Tibia. Decisi di concedergli un momento di luce solare e aria fresca; e,
fatalmente, finii per rileggerlo.
Modernariato, [mo-der-na-rià-to] s.m. Insieme di oggetti di produzione
artigianale o industriale, di un certo valore estetico, prodotti nel sec. XX;
commercio e collezionismo di tali oggetti.
Venerdì 22 agosto 20**, h 04.00 p.m., Central European Time. A dire
la verità l’oggetto in questione, Una volta non basta, è piuttosto bruttino a
vedersi. Svanitane in un buco nero quantico la sovraccoperta, si presenta
ora al mio sguardo arrossato (ieri sera ho fatto bisboccia in un locale del
Quadrilatero, maledetti compleanni!) in tutta la sua discinta insignificanza
color mattone da case popolari in periferia, titolo e cognome dell’autrice
impressi in carminio sul dorso, “finito di stampare il 12 gennaio 1979
dalla Aldo Garzanti Editore s.p.a. Milano”.
Quanto al valore letterario, giudicato col classicissimo senno di poi… Be’,
al giorno d’oggi vengono date alle stampe e sbolognate alle masse cose
infinitamente peggiori: i libri di Emilio Fede e Bruno Vespa e Giampiero
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Mughini, per esempio; Federico Moccia; le biografie da supermercato dei
cosiddetti tronisti di Maria “la Sanguinaria” De Filippi; e soprattutto tutte
quelle sciroccate pestilenziali nonché sponsorizzatissime autrici (autrici?)
di chick-lit. Messa a confronto con Melissa P., tanto per fare un nome a
caso, Jacqueline Susann pare Edith Warthon. Forse un giorno Melissa ci
beneficherà (ehm) di un romanzo intitolato La valle delle spazzole; ma per
allora io sarò già scappato su Titano a pescare trote etanizzate dal lago
Ontario bevendo birra criovulcanica.
Il personaggio centrale di Once is not enough (questo il titolo originale
dell’opera), è January Wayne, bellissima e ricca fanciulla americana col
complesso di Elettra. Non è il luogo, qui, per entrare nei dettagli della
scabrosa trama: se v’interessa, andate a cercarvi il corrispondente articolo
su Wikipedia. Io, per me, voglio soltanto farvi leggere questo passaggio,
per me fondamentale:
“Ma so bene cosa brucia veramente a Keith (il suo fidanzato hippy fotografo,
N.d.A.): il fatto che io guadagno trentacinquemila dollari l’anno più la gratifica
natalizia mentre lui ne incassa tremilacinquecento compresa l’indennità di
disoccupazione. Per lui io sono il tipico esemplare del Sistema. Sono talmente
confusa. Vedi, ho cercato di adeguarmi. Ho frequentato i suoi amici. Ho bevuto
birra invece dei martini. Mi sono messa i blue jeans invece di normali pantaloni.
Ma non c’è una legge che mi imponga di fare una vita da barboni. Io tiro fuori
quattrocento dollari al mese per il mio appartamento. È in un bel quartiere, in un
bel palazzo, con custode e addetti all’ascensore. Tutte le mattine arrivo in ufficio
prima delle otto e a volte ci resto fino a mezzanotte. Mi sono guadagnata il diritto
ad avere una casa piacevole a cui tornare. Perché dovrei rinunciarvi e lavorare
per qualche giornalucolo underground e farmi pagare cinquanta dollari a pezzo?”
Chi parla è la migliore amica di January, Linda Riggs, caporedattrice
rampante dell’immaginaria rivista Gloss, ex bruttina prodigio della scuola
di Miss Haddon trasformata in levigata strafica da ferrei regimi e chirurgia
plastica. Qualche capitolo più in là costei si autodefinisce orgogliosamente
“la miglior bocchinara di New York”, e racconta alla stupenda bamboccia
di usare lo sperma dei suoi numerosi amanti come maschera di bellezza,
arrivando perfino a servire loro un lavoretto di mano (in inglese, handjob,
ma molti/molte di voi lo sanno già) “e prima che arrivino all’esplosione io
sono pronta lì con un bicchiere, poi lo verso in una bottiglia e piazzo il
tutto in frigorifero”. Veramente un personaggio edificante questa Linda,
ancorché abbastanza credibile…
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Ma sto divagando. Torniamo alle lamentazioni sul fidanzato fricchettone.
Una frase in particolare mi colpì in mezzo alla fronte alla prima lettura:
Ho bevuto birra invece dei martini. Mumble. Ne dedussi che nelle classi
alte dell’America pre-Watergate la birra fosse considerata una bevanda da
beatnik cenciosi e da operai; da questa sponda del grande oceano, invece,
era celebrata da meravigliose fanciulle vichinghe ammiccanti dal tubo
catodico o dai cartelloni pubblicitari. Neanche la forma più perniciosa di
Alzheimer potrà cancellarmi dalla memoria l’immagine quasi iconica in
bianco e nero di Solvi Stubing con la tenuta da marinaretto: “Chiamami
Peroni, sarò la tua birra.”
Alla salute! Ma io ero ancora vergine: sia dal punto di vista sessuale, sia
da quello etilico. Le bevande alcoliche in toto m’incutevano un timore
arcano, primordiale; a quindici anni io mi sbronzavo di cedrata, orzata e
appiccicoso sciroppo d’amarena diluito in acqua del rubinetto. Quanto alle
ragazze, le odiavo a morte (non tutte, però, come racconterò più avanti) e
per contrappasso la maggior parte di loro mi considerava, senza mezzi
termini, una tazza del cesso su due gambe vaccine. Per di più non mi ero
mai neanche fatto una sega. Ero neutrosexual.
Finalmente, nella torrida estate del 1981, mi risolsi a perdere entrambe le
virtù.
Guarda la troietta tedesca come si struscia contro quel tamarro bolognese
con l’orecchino da pirata e la permanente. Ieri sera da me non ha voluto
neanche farsi baciare sulle guanciotte. Zio fanale, ma faccio così ribrezzo?
Cos’è, ho i denti marci? L’alito cattivo? Il nasone alla Bob Rock?
’Fanculo. Mo’ me ne scappo da questa purulenta discoteca all’aperto. Non
sopporto più ’sto lento del cazzo, Please don’t go. Almeno mi mettessero
Shandi qualche dannata volta: certo non sarà la più bella canzone dei Kiss,
ma è diecimila molte meglio di ’sta lagna per cani morti. K.C. & The
Sunshine Pizz.
Stasera ho ben duemila lire in tasca, wow! È la volta buona che mi bevo
una birra. ’Fanculo all’Emilia Romagna.
Mi addentro in questo buco di paese e varco un’altra volta la soglia del bar
tabacchi dove solitamente do inizio a ogni mia inutile serata vacanziera
sparandomi quattro-cinque partite di fila al bigliardino spacciandomela da
pinball wizard; chiedo e ottengo senza storie (ho sedici anni e rotti ma ne
dimostro almeno due di più, e poi sono cliente ormai, anche per le cicche)
una Peroni in bottiglia, “no grazie non ho bisogno del bicchiere”, e ne
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ingollo una prima, cauta sorsata.
Bleah. E questa sarebbe la bevanda alcolica più antica del mondo? Cristo,
che brutti gusti abbiamo noi umani!
Seconda sorsata, ancor più guardinga della prima. Be’, insomma, sembra
di bere Orzoro frammisto a ghiaccio estratto dai poli di Marte brulicante di
microbi con le antenne e le pistole a raggi, ma non è poi così male… bella
fresca. Mi sa che appena finita questa me ne faccio un’altra.
Così è questa l’ubriachezza. Ogni cosa deformata come nel tunnel degli
specchi al luna-park, compresi i pensieri. Che spasso. Averlo fatto prima,
cazzarola! Sempre a farmi paranoie su paranoie per qualsiasi scoreggia. A
proposito, adesso ne tiro una bella. Prrrr. Tu che cazzo c’hai da guardare?
Problemi, perplessità? Ah, sei crucco. Non capire, nein? Mo’ te ne becchi
un’altra più forte. Prrrrrrrrrr. E col saluto romano se vedemo, Rommel.
Approdo in campeggio alla tenda famigliare neanche io so come. I miei
non ci sono, torneranno tardi da Ravenna con tutta la banda. La testa mi
gira come un frullatore Girmi. “Porca puttana troia, sono proprio ubriaco”
biascico, tentando di accendermi una sigaretta, malfermo sulle zampette di
pollo. “Sbronzo in questa maledetta pineta marittima infestata di zanzare.”
“Se vuoi ti faccio un caffè” bisbiglia qualcuno dalla semioscurità della
veranda di fronte, la tenda di quei bresciani che non riescono mai, dico
mai a pronunciare una frase senza includervi un vocabolo sconcio o una
bestemmia. Dei villani di prima categoria…
“Un bel caffè forte.”
“Come?”
“Sssh, non urlare, diocristo, che è tardi.” Dev’essere la figlia di quegli
ignoranti, Marcella mi sembra che si chiami. È tracagnotta, ma ben dotata
e sempre tutta sculettante nel suo bikini color carta da zucchero; ora però
avrei bisogno di un paio d’occhiali ai raggi infrarossi per apprezzarne le
tette. “Lo vuoi questo caffè o no? Sei ridotto uno straccio. Se i tuoi ti
vedono così ti scomunicano.”
Senti chi parla: la figlia di Belzebù. O di Rasputin, dato l’accento. “Sì…
va bene. Grazie.” Getto la sigaretta a terra senza neppure averla accesa. Se
la fumeranno le formiche sottoterra. Eh eh, ne avranno per un anno intero.
Qualche minuto o secolo dopo mi ritrovo disteso su un materasso ad aria;
Marcella, o per meglio dire la sua formosa silhouette (probabilmente era
destino che il mio sverginamento dovesse avvenire in condizione precarie
di visibilità e stato mentale) incombe su di me. Ho l’inguine allo scoperto.
“Ehi, ma…” protesto debolmente. E il caffè? Non ne sento il gusto in
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bocca. “Ma sei nuda?”
Una mano pienotta mi piomba sulla bocca. “Zitto.” L’altra, sottrattami alla
visione precaria dalla schiena inarcata della squinzia, me lo afferra; in un
istante, mi accorgo di averlo duro come mai è stato. “E stai giù tranquillo.
Anche i miei torneranno tardi, mooolto tardi. Penso a tutto io.”
Effettivamente. Poco prima di abbandonarmi alla prima scopata della mia
vita, non posso fare a meno di chiedermi: “Sarà mica che anche questa qui
lo usa come cera di cupra?”
Per i posteri morbosi, come collutorio…
Com’è naturale, negli anni immediatamente successivi al mio farraginoso
ingresso nella “società degli uomini” mi si aprirono nuovissimi frizzanti
orizzonti. Divenni giovane ancorché saltuario cliente di diverse birrerie
torinesi (una su tutte, la Rosselli, situata nell’omonimo corso e tuttora
funzionante) e assaggiai altre bevande, tra le quali:
–
–
–
Moretti. Birra artigianale rinomata in tutto il mondo fatta con acqua
pura e grano mietuto nei dintorni di Udine, dove Luigi Moretti fondò
la sua fabbrica nel 1859. Luminosa, rinfrescante e, soprattutto, molto
economica. E io ai tempi non è che navigassi nel grano… pardon,
nell’oro.
Budweiser. È una lager 100% naturale prodotta con una mistura di
riso e orzo che ha un contenuto alcolico del 5%. Negli Stati Uniti è
un’istituzione, nettamente la marca più popolare. La lager beer è un
beveraggio leggero e spumeggiante che prende il suo nome dal tedesco
lagern, che significa “immagazzinare”. Nel 600 i monaci scoprirono
che la loro birra d’estate si manteneva meglio se conservata in fresche
grotte di montagna, e che si addolciva rimanendovi per un tempo. La
pratica di invecchiare la birra si sviluppò da quella scoperta. E bravi i
nostri Fratelli birraioli.
Abbaye Bonne Espérance. I belgi sono grandi produttori di birra,
tanto per la qualità quanto per la varietà e quantità di bevande che
elaborano. Quantunque a volte si dedichino a produrre birre ad alta
gradazione e con un carattere corposo, quasi vicino al vino. Come la
Abbaye Bonne Esperance, una ale (definizione generica per le birre a
fermentazione alta) di abbazia dal piacevole aroma di miele, colore
ambrato e gusto luppolato con sfumature agrumate e di lievito. Una
birra da intenditori, ma certe mazzate mi dava!
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–
Kwak. Altra birra belga, è una doppio malto ad alta gradazione, 8%.
Viene servita in un bicchiere detto “del cocchiere”, sottile e slanciato,
posto in un apposito supporto di legno, la cui impugnatura evita di
scaldare la birra con le manacce. Questa qui invece mi cagionava certe
sbronze piene d’energia cinetica, e se eravamo tutti sulla stessa onda
alcolica ne scaturivano dei partitoni notturni da fare invidia alla stessa
Coppa dei Campioni. Altro che epo.
Educazione etilica e rock’n’roll procedevano di pari passo. Quella sessuale
zoppicava vistosamente, ma perlomeno (finalmente…) stavo smettendo di
provare avversione verso le rappresentanti del sesso femminile; tanto che
su una fiancata dell’armadietto ove riponevo i libri di scuola e gli arnesi
per la scrittura avevo appiccicato gli adesivi di Ciao 2001 dei Van Halen e
di Sade Adu fianco a fianco. Yin e Yang. Sade era indiscutibilmente uno
schianto di femmina, stracolma di classe, ma dopo che ebbi visto Valerie
Kaprisky in Breathless (All’ultimo respiro) iniziarono a filarmi le brunette
caucasiche con gli occhi neri profondi e i labbroni. In sostanza, sebbene
siano passati tre decenni da allora, non ho cambiato gusti.
Musicalmente, oltre alla pirotecnica band californiana che aveva ormai
soppiantato i Kiss in cima alle mie preferenze heavy, mi ero innamorato
dei Faces, il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood prima che quest’ultimo si
unisse ai Rolling Stones e Rod “The Mod” si consegnasse anima e ciuffo a
un sound smaccatamente più commerciale. Il loro ruspante, essenziale,
rock rhythm’n’blues aveva avuto una considerevole influenza sul punkrock (Steve Jones dei Sex Pistols era un loro fervido fan) nonché sul glam
& alternative rock americano degli anni Ottanta. Se ne percepisce un’eco
perfino nelle ballate melodrammatiche dei Pearl Jam. Nemmeno l’ultima
generazione di rockettari anglosassoni e scandinavi è rimasta immune al
fascino emanato da quei suoni ruvidi e spontanei: i giovani australiani Jet
sono pratica un affezionatissimo clone delle Facce, con nuances di Who
Rolling Stones e Sweet.
Oltre a ciò, Rod Steward & The Faces erano passati alla storia per la loro
alcohol camaraderie, lo smodato consumo collettivo di beveraggi alcolici
prima durante e dopo i concerti – un critico musicale chiamò il loro genere
booze rock, baldoria rock. I puristi non li volevano ascoltare neppure coi
tappi da Reparto Presse della Fiat Mirafiori ben ficcati nelle orecchie, li
consideravano un gruppaccio trasandato. E di recente navigando nel mare
magnum internettiano mi sono imbattuto nella scheda a essi dedicata da
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uno stimato musicologo italiano in cui il loro rock è definito “populista”.
“Considera tutti i critici d’arte come inutili e pericolosi” è scritto nel
Manifesto dei Futuristi. Diciamo un buon 90%. Nel restante 10% vi sono
dei personaggi che senza ombra di dubbio mettono passione e competenza
nel proprio lavoro, ma si tirano il moccio da far spavento, più che scrivere
sfoggiano lessico. Come un altro recensore assai stimato che, a proposito
dell’esordio dei Radiohead, scrive in una delle tante enciclopedie dedicate
al rock: “Creep è uno psicodramma in amniocentesi grunge che macera
l’alternanza tra strofe lente e arpeggiate e il ritornello a forte combustione
introdotto con un indovinato effetto di chitarra.” E ancora, passando a
commentare The Bends: “I Radiohead sanno fare della catarsi rock un
umanesimo da stadio, dalle risonanze elettrolitiche di High and Dry e
Fake Plastic Trees allo stato pre-embolia di The Bends fino alle modalità
saltanti e antistatiche di Just che proiettano l’intersezione sfalsata delle
chitarre in una distorta stratosfera.” The Bends mi piace molto: è un disco
metafonetico, ormonatico, positronico. Suona come A nod is as good as a
wink… to a blind horse dei Faces triturato e messo in un frullatore con due
blister di Prozac.
Nell’epoca in cui buona parte dei miei coetanei tentava disperatamente
d’assomigliare a Robert Smith (un altro considerevole segmento a Nino
D’Angelo, il resto si spartiva fra Tony Hadley, Nikki Sixx e Carmelo
Zappulla) io mi ero fatto perfino acconciare i capelli in un facsimile della
chioma a carciofo radioattivo di Ron Wood. Ma ogni santo pomeriggio e
sera dovevo combattere una dura battaglia con Danii e suoi Duran Duran
per il possesso del giradischi Falkland-Malvinas. E non sempre ne uscivo
vincitore. Meno male che i miei m’avevano comprato il walkman, così
potevo spararmi nelle orecchie tutto A nod is as good as a wink… sul 56 la
mattina presto andando a scuola, e nei giorni in cui avevamo lezione al
pomeriggio andare a zonzo per il centro all’ora di pranzo canticchiando
Maybe I’m Amazed con una bottiglia di Heineken in mano, gelida come
una notte sulla Luna. E scolarmene felicemente un’altra all’uscita da un
tediosissimo sermone sui diodi Zener mimando i raspanti accordi iniziali
di Borstal Boys.
Una birra non basta.
Le vele erano bianche sotto un sole che era un pulsante rosso che il servitore
raggiunse velocemente e sfiorò.
Cadde la notte.
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Figura 1. Una birra non basta...
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DIECIMILA ANNI DI SBRONZE
La birra è quasi certamente la più vecchia bevanda alcolica del mondo. I
Babilonesi e gli Egizi la fabbricavano più di 6000 anni fa. Gli Egei presero
la ricetta dagli Egizi. La fabbricazione della birra si diffuse poi in tutto il
Mediterraneo. Anche i Britanni, come no, facevano birra e ale: il 5000
a.C. è la data cui risalgono i reperti di birra “fossile” ritrovati nelle isole
Orcadi e quelli a Stonehenge. Nell’antica Cina, la birra era importante nei
culti religiosi, funerali e altri rituali delle dinastie Xia, Shang e Zhou
(2100-256 a.C.), ma dopo la dinastia Han essa perse la sua prominenza a
vantaggio del huangjiu, il “vino giallo”: la produzione della birra non fu
reintrodotta in Cina fino alla fine del XIX secolo, quando la Russia costruì
una fabbrica ad Harbin, nel sud-est del paese.
In Giappone, fatto culturalmente singolare, la birra era sconosciuta fino a
due secoli fa: furono gli Olandesi ad aprirvi le prime birrerie per i marinai
che sfacchinavano sulla rotta mercantile fra la Terra del Sol Levante e
l’Impero Olandese. Ora i giapponesi trincano birra a torrenti, la fabbricano
e la esportano in tutto il globo. Ne ho assaggiate alcune marche e non sono
malvage: la Asahi, per citarne una. Fermo restando che c’è chi ritiene il
sakè una birra.
Il festino, o la festina, come dicono certi miei amici vicentini (specialisti
nell’organizzazione di baccanali memorabili: le loro Feste del Recioto
sono storia consacrata del Triveneto), è innato nella razza umana. Molto
prima dell’invenzione delle bevande fermentate, che secondo uno studio
condotto da un team di brillanti archeologi dell’Università di Manchester
risalirebbe al 9000 a.C., l’uomo utilizzava le piante allucinogene per
provocare una sorta d’ebbrezza conviviale; alcune pitture del Paleolitico
superiore rappresenterebbero, a parere d’alcuni interpreti, delle visioni
provocate dall’uso di queste piante. Un giorno o l’altro qualche esuberante
archeologo britannico ritroverà in Siberia una bottiglia di birra pressoché
intatta con l’etichetta stampata in una lingua sconosciuta incastonata in
uno strato geologico risalente a duecentomila e rotti anni fa, testimonianza
dell’esistenza di una remota civiltà altamente sviluppata, cancellata forse
da un terribile conflitto nucleare. Mi hanno sempre affascinato le storie
post-atomiche; il secondo romanzo dell’antologia di Zelazny, La pista
dell’orrore, è una delle più belle mai scritte. Hell Tanner, ex membro di
una gang motociclistica, parte da Los Angeles per Boston per portarvi una
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cassa di siero contro le malattie da radiazioni. Lungo la strada affronterà i
pericoli di un mondo sconvolto dai postumi della Terza Guerra Mondiale:
venti turbinosi che rendono problematico qualsiasi spostamento, tempeste,
crateri radioattivi, animali mutati dalle esplosioni in mostri terrificanti,
esseri umani regrediti alla barbarie. E da biker violento e sprezzante si
trasformerà in indomito salvatore dell’umanità.
Hell ricordò la sua iniziazione. Aveva sedici anni. Avevano fatto passare il
secchio, e lui era rimasto in piedi, eretto e fiero, vestito del suo giubbotto nuovo
coperto di borchie, e per quanto un po’ ubriaco non aveva barcollato. A uno a
uno, tutti avevano pisciato nel secchio. Poi glielo avevano rovesciato in testa.
Quello era stato il battesimo, e lui era diventato un Angel. Aveva tenuto addosso
gli stessi vestiti per un anno intero, e dopo altri due anni, quando lui ne aveva
diciannove, era diventato il numero uno, il capo. Li aveva guidati nelle scorrerie,
e tutti conoscevano il suo nome, e si scansavano quando lo vedevano arrivare.
Lui era Hell, e la sua banda era padrona della Costa dei Barbari. Andavano dove
volevano e facevano quello che volevano. Poi lui era finito nei guai, e i giorni
neri erano scesi sulla Costa. La città era perpetuamente iniziata, come lui, dagli
escrementi del cielo.
Dal futuro ipotetico al passato remoto. Nell’antica Mesopotamia vi era già
una diversificazione in tipologie di birra prodotte: esistevano birre chiare,
scure, rosse, dolci, aromatiche. A Babilonia se ne producevano addirittura
venti qualità, ma le più apprezzate erano quattro, e dai nomi decisamente
klingoniani: bi-se-bar, una birra d’orzo, bi-gig, una birra scura normale,
bi-gig-dug-ga, una birra scura di eccelsa qualità, e bi-kal, la migliore.
Secondo i popoli mesopotamici e non solo, la società divina riproduceva
alcune prerogative di quella umana. Nel poema babilonese della creazione
(Enûma elish), allorquando gli dèi cercano un campione coraggioso da
mandare a combattere contro la dea Tiamat che intende annientarli, il dio
Anshar si incarica di riunirli in un convito:
Davanti ad Anshar essi penetrarono, furono riempiti di gioia, si abbracciarono fra
di loro, si assisero in consiglio, presero la parola, si sedettero al festino,
mangiarono cereali, si dissetarono con birra forte, e di dolce cervogia riempirono
le loro coppe. A furia di bere birra avevano il corpo sazio, si sentivano fiacchi, il
loro cuore era colmo di gioia; allora di Marduk, il loro vendicatore, fissarono il
destino.
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Nell’Egitto antico la birra si preparava mettendo a fermentare al caldo, in
acqua e grano schiacciato, pagnotte d’orzo o di grano mal cotte per salvare
gli enzimi della fermentazione; il liquido denso veniva filtrato e in seguito
lasciato depositare entro giare di terracotta. Gli Egizi fabbricavano birra
chiara, zythum, rossa, curmy, e la mistica sà; inoltre consumavano birra
“siriana”, anche se non è ancora ben chiaro se importata o fabbricata. Le
anfore per la birra erano decorate con ghirlande.
Spostiamoci in avanti con la nostra ebbra macchina del tempo fino all’alto
Medioevo europeo. In quest’epoca assistiamo all’affermazione del vino
come bevanda quotidiana oltre che di pregio. La birra, ancora ignara del
luppolo (il primo atto ufficiale in cui si menziona questa sostanza amara
estratta dai fiori di una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle
Cannabacee, un’ordinanza emanata dal prevosto di Parigi per disciplinare
la vendita di birra, risale al 1435), era la bevanda dei germani, “barbara e
pagana”, in contrasto con la sacralità cristiana del vino. Figuratevi: così,
tanto per contenere la sovrappopolazione, i Germani talvolta si sfidavano a
colpi di spada in un rituale dedicato al dio Thyr, la Wappentanz, al termine
della quale i sopravvissuti si storcevano come dei fegatelli! Eppure, com’è
universalmente risaputo, i monaci non la disdegnavano, tanto da produrne
in abbondanti quantità a uso proprio e delle migliaia di pellegrini che essi
ospitavano nei monasteri. Il celeberrimo monastero di San Gallo aveva
nientemeno che tre diverse fabbriche di birra: una per la birra più leggera
destinata ai pellegrini (sic), una per quella di media gradazione, chiara e
scura, che consumavano i monaci e i famigli del monastero, e una, infine,
per le birre de luxe, da offrire agli ospiti di riguardo.
L’intero periodo medievale è contrassegnato da una profonda diffidenza
nei confronti dell’acqua come bevanda, poiché possibile portatrice di
malattie anche mortali. Qui, siate indulgenti, ma mi scappa da ridere… c’è
una coppia spagnola di mia conoscenza la cui peraltro ospitale dimora è
off-limits per l’acqua minerale: lui trinca solo vino, birra e superalcolici,
lei Coca Cola light e limonata (consuma alcolici solamente quando esce a
spettegolare con le amiche del cuore: scotch con un cubetto di ghiaccio).
Cosicché quand’ero loro ospite e mi offrivo per andare a fare la spesa al
supermercato compravo l’acqua solo per me; naturale per di più, poiché in
Spagna le acque minerali frizzanti sono imbevibili. In particolar modo la
Vichy Catalan: è come bersi uno sgorgo imbottigliato di Old Faithful, il
famoso geyser di Yellowstone. Tuttavia gli spagnoli prediligono un’altra
robetta niente male quanto a contenuto gassoso: la Casera. E la utilizzano
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addirittura per allungare il vin ordinaire – certi Rioja scuri e spessi come
inchiostro di china serviti nei menù del giorno a 10 €. Paese che vai,
costumanze barbare che trovi.
In medias res. Nell’Europa continentale del XVI secolo, la birra di luppolo
era già un prodotto semi-industriale, preparato in fabbrica da artigiani
forniti di titoli. Nelle isole britanniche la birra di fabbricazione domestica
sopravvisse fino al XVIII secolo: bastian cuntrari inveterati, gli inglesi. In
certe regioni come l’Alsazia, nonostante il suo status culturale d’inferiorità
nei confronti del vino, era la bevanda popolare delle città e delle osterie.
Ciononostante nella seconda metà del XVIII secolo l’alto prezzo del vino
permise alla birra di irrigare finanche le gole assetate dei contadini. E i
consumi pro capite, quantunque in maniera disomogenea secondo le aree
geografiche e le congiunture economiche, crebbero vertiginosamente sino
a oggi.
Vinum est donatio Dei, cervisia traditio humana. In passato i contadini
della Norvegia producevano, nei loro casolari, due tipi di birra: una più
leggera, da consumare durante i lavori nei mesi estivi, e una più forte, per
le feste natalizie, i matrimoni, le nascite e addirittura i funerali. Era molto
diffusa la credenza che le figlie d’Eva, specialmente durante alcuni giorni
del mese, esercitassero un’influenza negativa sul lievito. Esso inoltre era
ritenuto particolarmente “suscettibile” allo sbattimento delle porte e alle
vibrazioni del pavimento.
Sempre nel buon tempo passato europeo, se un giovanotto aveva deciso di
conquistare i favori di una pulzella, doveva dar prova al di colei padre di
poter montare un cavallo in stato d’ebbrezza. Con la birra s’irroravano i
campi all’inizio prima dell’aratura dopo il gelo invernale; lo stesso rituale
era ripetuto al momento del raccolto, della trebbiatura e infine della nuova
semina.
“Una birra forte, un tabacco profumato e una femmina, questo è piacere.”
Goethe dixit. Dal suo epistolario si apprende che la birra prodotta a Lipsia
(“la piccola Parigi”) era di povera qualità: perciò la si acquistava da fuori e
la si beveva allungata con acqua. Da buon alemanno, Goethe era un
birraiolo: dapprima aficionado alle equilibrate birre di Francoforte, poi si
assuefece a quelle amare di Merseburgo, apprezzò la Gose – una birra a
fermentazione spontanea che ancor oggi viene prodotta in Belgio con il
nome di “Gueuze”, bevuta anche questa – cui si aggiungeva una fettina di
limone, e assaggiò perfino la Bavaroise, una sciccheria che era servita
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calda (sic!) in tazzine al caffè Beyer.
E come tacere sui sovrani, le roi le vent! A quart of ale is a dish for a king,
sosteneva Shakespeare. Un litro di birra è degno di un re. Infatti, una
leggenda teutonica attribuisce a Gambrinus, mitico re germanico, proprio
l’invenzione della bevanda nazionale intorno all’anno 750, benché è
provato che in quella regione essa fosse già ben conosciuta e consumata
abbondantemente. Re Alfredo d’Inghilterra, passato alla storia per aver
definitivamente sconfitto i Danesi nell’anno 814 dopo secoli di battaglie,
fu un famoso collezionista nonché provetto produttore di birra. Alla corte
di Carlo VI non mancava mai la birra a tavola. Federico II il Grande fu un
grande sostenitore dell’arte birraia. Riccardo d’Inghilterra usava donare
agli altri re fusti di birra. A Bismarck regalavano barili come se piovesse –
cosa che a lui faceva immenso piacere, essendo tutt’altro che astemio;
certamente la birra stimolava le sue capacità creative in ambito politico
internazionale, come lo stratagemma adottato con il Telegramma di Ems
ebbe a dimostrare.
E con un ultimo colpo al motore tachionico veniamo finalmente all’Italia.
Nell’anno 83 d.C. Agricola, governatore della Britannia, tornò a Roma
portandosi dietro tre mastri birrai da Glevum (l’odierna Gloucester) e aprì
ciò che potremmo definire il primo pub della Penisola. Le prime fabbriche
di birra risalgono a un momento storico notevolmente posteriore, gli inizi
dell’Ottocento; si può affermare che la birra nel nostro paese nacque al
Nord, in Piemonte e in Lombardia ma anche nel Veneto. Nel 1789 tal
Baldassarre Setter ottenne un privilegio per produrre birra in quel di Nizza
Monferrato. Nel 1828 Franz Saverio Wührer aprì una fabbrica di birra a
Brescia, e nel 1846 a Biella nacque la Menabrea.
Un considerevole incremento della produzione si ebbe con l’avvento della
conservazione a bassa temperatura. Ma la vera esplosione dell’industria
birraia avvenne durante il primo decennio del Novecento: si affermarono
nomi ancora oggi in auge come il sopraccennato Wührer, Forst, Poretti,
Peroni, Wunster, Dreher, Moretti. Pure, le aziende italiane si ritrovarono
poi fare i conti con le pesanti imposizioni fiscali durante il fascismo e il
secondo conflitto mondiale; finita la guerra, l’industria birraia italiana
dovette ricominciare da capo. Le fabbriche italiane impiegarono due
decenni abbondanti per raggiungere il livello tecnologico delle concorrenti
europee.
Dal 1976 a oggi il consumo di birra in Italia è più che raddoppiato. È in
corso una vera e propria rivoluzione culturale birraiola. In certo modo,
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tutti i bevitori che come me sono nati negli anni Sessanta sono figli delle
birrerie che proliferarono come funghi al principio degli Ottanta. Oggi a
Torino la “bionda” si spilla perfino nella più oscura bettola di periferia.
Nondimeno, sotto il profilo qualitativo e culturale, c’è ancora parecchio
cammino da percorrere. Abbiamo surrogati di pub irlandesi che non sanno
spillare la Guinness, locali per fighetti nei quali la birra è spillata da fusti
aperti da troppi giorni e quindi ossidata ma tanto non importa, il posto è
trendy!, birra servita in bicchieri di plastica (per motivi d’ordine pubblico,
d’accordo, ma è una bestialità) o nei bicchieri sbagliati. Ciononostante il
consumatore medio italiano va raffinandosi, sa quello che vuole, e sempre
più di frequente sceglie i locali per bere basandosi su criteri qualitativi
piuttosto che seguire bovinamente la moda del momento. Coerentemente
l’industria italiana si è dovuta adeguare agli standard mondiali. In questi
ultimi tempi il livello dei prodotti è aumentato in modo ragguardevole, con
riscontri più che lusinghieri. Nel 2008 Evan Rail del New York Times,
uno dei più noti autori di guide specializzate d’America, dopo aver vagato
a lungo per le birrerie del Nord Italia ha incoronato la birra artigianale
italiana come la migliore del mondo. Nella sua spumosa pagella spiccano
ben tre birre piemontesi: la Elixir del Birrificio Baladin di Piozzo, demisec contraddistinta dall’uso di lievito di whisky in rifermentazione, la Daü
del Troll di Vernante (ambo le località si trovano in provincia di Cuneo) e
la Sticher del Grado Plato di Chieri, ispirata alla rara Sticke di Düsseldorf.
Ah oh ehi, i suma sempre i mej!
Era il 15 agosto 1995 quando nella birreria della famiglia Khoury a
Taybeh, Cisgiordania, il solo villaggio palestinese interamente cristiano,
venne spillata la prima omografa Taybeh, unica birra prodotta in Palestina.
I Khoury sono originari dello stesso villaggio ma, come molti cristiani,
emigrarono perché il processo di pace non decollava andando a stabilirsi a
Boston, dove avviarono un fiorente commercio di vini e alcolici. Quando,
nel 1993, furono firmati gli accordi di Oslo, credendo che sarebbe iniziata
una nuova era, essi liquidarono i beni statunitensi incassando 1,2 milioni
di dollari, tornarono a casa e li reinvestirono nella “fabbricazione di una
birra palestinese”, con la benedizione di Arafat. David Khoury, al presente
primo cittadino di Taybeh, tirò su la fabbrica acquistando i tini d’acciaio
negli Stati Uniti e i malti in Francia e Belgio. La Taybeh produce 600 mila
litri l’anno e gode di un quasi-monopolio a Ramallah. Per contro, dopo la
costruzione della barriera israeliana, vendere alla vicina Gerusalemme è
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diventato impossibile. Gli israeliani obbligano i distributori palestinesi a
passare da un unico posto di blocco; per passarlo occorrono più di tre ore e
spesso essi devono tornare indietro. Intanto gli israeliani distribuiscono le
loro Maccabee e Goldstar dappertutto, passando da tutti i varchi. L’eterna
questione mediorientale arreca danno finanche ai piaceri della birra.
Da qualche anno, ogni primo fine settimana di ottobre, si celebra a Taybeh
una sorta di Oktoberfest. Danze, musiche, prodotti dell’artigianato locale,
spiedini e falafel, innaffiati di cervogia e di qualche insulto politico per
rammentare l’obiettivo di “liberare la Palestina”. Con migliaia di cristiani
e arabi – provenienti da Gerusalemme, Ramallah e dai Territori occupati –
che si mescolano allegramente. Salute e insciallah.
Venerdì 12 settembre 20**, h 02.10 p.m., CET. Biblioteca Ermenegildo
“Gigin” Bernaulo. Fra qualche minuto, per staccare un po’ dalla tastiera,
riprenderò in mano Please Kill Me – il punk americano nelle parole dei
suoi protagonisti. Prima però voglio raccontarvi la storia di uno dei più
smoderati bevitori – di birra e in generale di ogni beveraggio alcolico –
mai esistiti su questa terra: Oliver Reed.
Nato a Wimbledon, Londra, nel 1938, Robert Oliver Reed cominciò a far
notare la sua corpulenta presenza in svariate produzioni cinematografiche
inglesi dei tardi anni Cinquanta, senza avere alle gagliarde spalle alcun
tirocinio d’attore, neanche teatrale: era un talento naturale. Nel 1969 i
produttori di “007”Albert R. Broccoli e Harry Saltzman presero in esame
la candidatura di Oliver Reed come possibile sostituto di Sean Connery,
ma Reed non ottenne mai quella parte, probabilmente per la sua fisicità
troppo rugbistica. Ciononostante le sue quotazioni crebbero ulteriormente;
nella prima metà degli anni Settanta Oliver Reed fu un memorabile Athos
in I Tre Moschettieri, recitò in Tommy, film basato sull’omonima rockopera degli Who (Reed era un grande amico di Keith Moon, il geniale e
lunatico batterista della storica band inglese) e nel 1979 apparve in The
Brood (La covata) di David Cronenberg, nel ruolo di un anticonformista
psicoterapeuta inventore della “psicoplasmica”. Dai primi anni Ottanta la
stella di Reed cominciò ad affievolirsi nonostante egli seguitasse a offrire
pregevoli prove d’attore, come nell’immaginifico remake di Terry Gilliam
Il barone di Munchausen. Il suo ultimo ruolo fu l’anziano rivenditore di
schiavi Proximo ne Il Gladiatore, contrapposto all’astro in ascesa Russel
Crowe: un ideale passaggio del testimone attoriale fra due personalità
fortissime, per certi aspetti piuttosto simili. Oliver Reed morì a 61 anni di
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un improvviso attacco di cuore durante una pausa nelle riprese del film a
La Valletta, capitale dell’isola di Malta. Il Gladiatore uscì nel 2000
riscotendo enorme successo in tutto il pianeta e Reed ricevette diverse
nomination postume per l’ennesima eccellente performance.
Dire che Oliver Reed beveva come una spugna è un pallido eufemismo.
Oltrepassare i propri limiti in materia di consumo d’alcol rientrava nelle
abitudini sociali di molte squadre di rugby negli anni Sessanta e Settanta, e
al riguardo esistono svariati aneddoti sull’attore inglese e i suoi amici; il
più celebre racconta che Reed bevve ben 106 pinte di birra durante l’addio
al celibato previo al suo secondo matrimonio. Steve McQueen, un altro
che non scherzava quanto a eccessi d’ogni genere, raccontò che nel 1973
dovette volare in Inghilterra per discutere un progetto con Reed. I due,
entrati subito in sintonia non solamente artistica, si spazzolarono tutti i pub
di Londra, ma un certo punto Reed era talmente pieno che vomitò addosso
a McQueen! Che la raccontò così: “Lo staff si precipitò attorno e mi trovò
dei vestiti nuovi, ma non poterono darmi altre scarpe, così passai il resto
della notte puzzando del vomito di Oliver Reed.”
Nell’ultimo scorcio della sua vita la sua passione per le bevande alcoliche
assunse tinte recisamente meno epiche. Reed era invitato in certi spettacoli
televisivi specificamente per bere; quelli del programma The Word si
spinsero addirittura a mettere delle bottiglie nel suo camerino affinché egli
potesse essere filmato di nascosto mentre si ubriacava. Ciò la dice davvero
lunga sulla moderna “etica” dei media.
Al tempo della sua morte Oliver Reed era ormai gravemente intossicato.
La sua ultima sbronza su questa terra fu colossale: tre bottiglie di rum
Captain Morgan, otto bottiglie di birra e innumerevoli doppi di whisky
Famous Grove. Oltre a questo batté a braccio di ferro cinque marinai della
Royal Navy molto più giovani in un locale che da allora in suo onore si
chiama Ollie’s Last Pub: tipico di lui, real-life macho fino alla fine.
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Figura 2. Miller Lite per lei, Moretti per me da Zeke’s, Miami.
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NAUSEA, OCCHI INIETTATI DI SANGUE
Non abbiamo niente di meglio da fare / che guardare la tivù e farci un paio di
birre.
Black Flag, TV Party.
Primavera 1988. Io freschissimo di congedo dal servizio militare, bramoso
di denaro, di ragazze, d’alcol. Torino non era più grigia e scorbutica come
l’avevo lasciata. Buck Rogers Macario si stava risvegliando dal suo lungo
sonno metalmeccanico. Nuovi modi di dire comportarsi e vestire, nuova
musica, nuovi ritrovi, nuovi cocktail da bere. E nuove droghe.
“Ho sentito che nei pressi della Mole Antonelliana hanno aperto un nuovo
disco bar” mi comunicò al telefono un pomeriggio Alex, colui che ritengo
responsabile di avermi iniziato alla fede granata.
“Ah sì? E come si chiama?”
“Protex Blue. Sembra che al venerdì sera sia stracolmo di gnocca.”
“Allora fisso che venerdì ci andiamo.”
Con il cuore in mano, quello non era il vero nome del locale. Fra poco
comprenderete perché ho ritenuto necessario cambiarlo. Il mio approccio
col Protex Blue fu pessimo. Baldanzoso, suonai il campanello; la porta si
spalancò con un cigolio di cardini bisognosi d’olio lubrificante e nell’uscio
comparve un personaggio minuto dai tratti vagamente orientaleggianti: la
sua faccina di tolla mi era tutt’altro che nuova. Era una classica figura di
figlio di papà impegnato politicamente (o per meglio dire, impegnato a
trarre vantaggio personale dalle proprie esperienze in ambito politico,
come tutti quanti al porco mondo) che al liceo scientifico mi era sempre
stato sulle scatole, più che altro per essere il miglior amico di Stefania B.,
una biondina carinissima fanatica di Bruce “The Boss” Springsteen (di cui
a me piaceva solo una canzone, Born to run, poiché dannatamente simile a
X Offender dei Blondie) che al secondo anno mi aveva rifilato un due di
picche silenzioso: ossia, aveva olimpicamente ignorato una lettera in cui io
le dichiaravo tutto il mio amore: “Stanotte ti ho sognata” e puttanate del
genere. E poi le donne stanno ancora a domandarsi, fra una puntata di Sex
& The City e l’altra, perché gli uomini si siano ficcati il romanticismo nel
buco del culo.
“Teffera?” chiese costui, con quel suo peculiare difetto di pronuncia sulle
esse. O non mi aveva riconosciuto o faceva finta.
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“Tessera? Quale tessera?” replicai, con occhi da agnellino.
“AICS. Per entrare qui ci vuole la teffera AICS.”
“Io ce l’ho” disse Alex, spalleggiandomi.
Io allargai le braccia al tempo che ammisi: “A me invece è scaduta. Posso
rinnovarla qui, no?”
“Ma certamente. Prego.” Okudera si fece da parte per lasciarci passare.
Repressi a dura pena lo sgurz di chiedergli notizie della biondina, essendo
comunque già ampiamente a conoscenza che si era sposata col campione
di pallavolo del liceo.“Eccolo qui, sempre col quel fetusissimo pullover
grigiastro infeltrito”, pensai guardandolo in tralice mentre compilavo il
modulo apposito coi miei dati personali. “Per di più padrone, o perlomeno
socio di un circolo. Certo che il mondo è proprio uno scherzo!”
Dal banco delle tessere mediante una doppia rampa di scale si scendeva al
locale vero e proprio: pareti lattescenti, luci soffuse, tavolini ovunque. La
musica era prevalentemente negroide, ma il posto non sembrava fatto per
ballare. Tuttavia quando il DJ mise su Dance Little Sister di Terence Trent
D’Arby la stragrande maggioranza degli avventori si scosse dall’atavico
bogianenismo e discostando bruscamente tavoli e sedie improvvisò una
piccola pista da ballo dove scatenarsi. Il tutto sotto lo sguardo recisamente
contrariato di Mr. Pullover Grigio. Tié.
I miei gusti musicali si stavano evolvendo. Sotto naja mi ero rimpinzato di
Stooges, Metallica, Aerosmith, Zodiac Mindwarp & The Love Reaction,
Cult, New York Dolls, Joy Division, Alice Cooper, Celibate Rifles e Died
Pretty – Free Dirt era il disco che ascoltavo più volentieri quand’ero
stonato di qualsiasi cosa, apprezzavo moltissimo la disinibizione con cui
quel gruppo australiano passava da tenebrosi ammodernamenti dei Doors
a canzoni nettamente più ottimistiche effondenti una stupenda sensazione
d’immensità solatia. Ora mi sorprendevo a battere il piedino ascoltando
Terence Trent D’Arby, Sly & The Family Stone e Prince. Portavo i capelli
più corti in un facsimile del taglio di Gigi Lentini ai suoi scintillanti esordi
nel Torino FC, pantaloni attillati di velluto, stivali di finto pitone, pullover
a girocollo e giubbotti di pelle. Bevevo sempre più birra e superalcolici.
Al Protex Blue spillavano la Tennent’s Super. Prodotta a Edimburgo dalla
Tennent Caledonian, questa bevanda di color giallo intenso con riflessi
ramati può essere considerata come l’antesignana di tutte le strong lager
scozzesi. Dolciastra all’inizio in bocca, poi fa sentire tutta la sua forza
alcolica. E come. Uscivamo dal locale sempre storti, ridendo come degli
imbecilli per la recidiva dabbenaggine dei baristi.
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Eh sì. Già dal nostro primo ingresso avevamo percepito con la nostra
sensibilità stradaiola come costoro, un folletto dagli occhi perennemente
arrossati e una tizia tutta riccioli e spigoli, non fossero ciò che si dice dei
prodigi d’attenzione: cosa piuttosto penalizzante, dovendo essi occuparsi
altresì della cassa. D’altro canto noi eravamo basilarmente regolari: vale a
dire, pagavamo ogni nostro giro alla consegna dei boccali. Una sera però
quegli alternativi erano talmente stressati dalla ressa che già alla primera
ronda non ci diedero retta e neppure alla seconda, come dicendo “non ora,
siamo troppo indaffarati, pagateci dopo.” Allora Alex saltò su: “Cazzarola,
ma se gli fanno tanto cagare i miei sudatissimi deca, gli pago soltanto una
birra e basta. Che ne dite, eroi?”
Bravi ragazzi o no, fummo tutti d’accordo. La manovra uscì così liscia che
stentavamo a crederci. Quei due avevano veramente la testa nella nebulosa
di Andromeda. Finimmo per approfittarne. Sarò bastardo, ma la spassavo
un mondo alle spalle da passero di Mr. Pullover Grigio. In tre arrivammo a
stabilire il record di quattro spumeggianti birre medie scolate pro capite
senza sganciare una lira, appiccicandoci una ronda di tequila sunrise, che
però pagammo – a mo’ di copertura, non fosse la volta buona che quei
babbei trendisti se la intagliavano. Poi sghignazzanti, irriverenti, sbronzi,
uscimmo dal Protex Blue per andare alla conquista di una notte ancora
giovane.
Forse può suonare come un’esagerazione da scrittore affermare che la mia
città cambiò nel tempo che io stetti via per “servire la patria”; alcuni bei
locali esistevano già prima – il Big, il Dottor Sax, il Metro, lo Studio 2.
Nondimeno fu dal 1987 in avanti che a Torino avvenne l’esplosione del
nightclubbing, finanche per il consistente incremento dell’offerta. Oggi la
chiamano movida e nelle serate di fine settimana è un’impresa attraccare
al molo di qualsiasi bar del centro per ordinare da bere, ma nei primi anni
Ottanta la gente usciva di sera assai meno che adesso e i ritrovi per giovani
si contavano a dura pena sulle dita di due mani. Discoteche per tamarri
comprese.
Il locale che tutti i quarantenni e ultra torinesi ricordano con più piacere è
senz’altro lo Studio 2. Non voglio dilungarmi in una commossa ricordanza
di un posto in cui ho passato alcuni tra i momenti più divertenti della mia
vita: ci ha già pensato alcuni anni fa un altro concittadino novelliere, per
quanto da un punto di vista esistenziale alquanto differente dal mio. (Lui
vi organizzava serate per rampolli di buona famiglia, io li detestavo ma vi
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andavo lo stesso e una sera me lo ritrovai lì piantato nell’uscio a dirmi con
fare strafottente che non potevo entrare: al che io lo affrontai a muso duro
ma un buttafuori si mise in mezzo. Più tardi mi procurai l’invito ed entrai.
Non gli serbo neppure una briciola rafferma di rancore: eravamo giovani
stupidi e pieni di sperma, com’è usanza dire dall’altra parte dell’oceano.)
Preferibilmente desidero concentrarmi sulle conseguenze psicofisiche che
la frequentazione di quella gloriosa discoteca causava su di me. Una su
tutte: gli armageddonici doposbronza del sabato e della domenica mattina
– talvolta di metà settimana, allorquando mi veniva la malsana fregola di
imbucarmi alla soirée degli studenti Isef. E il mattino dopo al lavoro tutti a
guardarmi di storto. Soprattutto il capoufficio.
Allo Studio si spillava una birra chiara di pessima qualità. In alternativa
potevi intossicarti con i “solventi” (squisiti cocktail preparati con liquori
stappati dal Neolitico inferiore) o la Ceres Strong Ale. In realtà una lager,
questa birra danese dai toni amarognoli pronunciati dichiara in etichetta il
7,7% d’alcol, ma in base allo stato in cui ti riduceva (larvale) avresti detto
che ne contenesse almeno il doppio. È anche vero che se ne ingollava a
fiumi e che spesso si entrava in discoteca già carburati (magari dopo aver
fatto tappa all’attiguo Charisma Pub, altro locale leggendario che non c’è
più), ma se il giorno seguente uno stimato neurochirurgo ebreo mi avesse
scoperchiato la scatola cranica avrebbe trovato Dalla biblioteca entropica
di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen in luogo del cervello. Chiunque
conosca quest’opera d’arte si farà un’idea, nonché quattro risate.
La mia serata tipo allo Studio 2 era la seguente: svariate mosse strategiche
per entrare senza pagare il biglietto; salita al bar del piano di sopra e prima
Ceres sorseggiata aspettando l’ascesa al tempio di Roberto, un pazzoide
scatenato di Avigliana con cui ne avrei bevute altre sette; discesa all’altro
bar per bere qualche giro di brodaglia alla spina con la brigata e magari, se
c’era il mood giusto, quattro salti in pista; di nuovo su e di nuovo giù, per
altre tre-quattro volte; chiusura del locale coi buttafuori a ripetere come un
mantra l’invito a guadagnare l’uscita e i parrocchiani a fare orecchie da
mercante; summit fra ubriachi bolliti sul marciapiede circa l’eventualità di
mettere qualcosa sotto i denti o persino di darsi la botta finale in qualche
after-hours. Baccaglio di ragazze? Un optional. Almeno per me.
E il giorno dopo... nausea, testa in frantumi, occhi iniettati di sangue, naso
otturato, gola secca, polmoni in fiamme, estremità di piombo, epitelio
mummificato come Ötzi, l’Uomo di Similaun.
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Maybe I’m Amazed. Il fato, fottuta canaglia, mi fece rincontrare Stefania
B. al campo di concentramento nazi-metallurgico poco prima della grande
fuga per “mettermi in proprio”: un giorno, sopraffatto dalla noia, aprii un
bollettino aziendale e me la trovai fotografata in tailleur pantalone grigio e
boccoli sciolti sulle spalle. Lavorava alla Divisione della Gioia di C.so
Vercelli. Coincidenza, sincronicità, il mondo è piccolo, pensatela un po’
come vi pare.
Fattasi ormai donna e in carriera, un po’ segnata in viso ma forse per
questo più bella che mai, Stefania si era separata dal suo biondissimo e
gagliardo pallavolista e si era messa insieme con un nostro ex compagno
di classe nuotatore (è fissata con gli sportivi, la ragazza) che ai tempi del
liceo in una normale conversazione spiccicava monosillabi ma quando era
chiamato alla lavagna per essere interrogato mitragliava date, cognizioni e
logaritmi come un kalashnikov antropomorfo. Stefania organizzò una
rimpatriata in una pizzeria cui da masochista patentato quale sono volli
partecipare. Al dolce, alticcio come un meteorite, confessai a quei postsecchioni tutta la mia smodata passione per Iggy Pop. Mr. Monosillabo,
Domenico “Mecu” Spitz della Piscina Comunale, commentò con una
punta di sarcasmo: “Ci credo che ti piaccia, ha il tuo stesso fisico.” La
locuzione più lunga che lo stronzetto malcagato aveva mai pronunciato,
cui reagii mandandogli un bacio in punta di dita canzonatorio. Ma non so
cosa mi trattenne dal volargli al collo.
Le insondabili regole dell’attrazione e gli squassanti tormenti dell’amore
non corrisposto: c’è chi ci ha scritto su fior di libri. E di canzoni. Come
Pere Pubill Calaf, 74 anni, gitano di Mataró, Barcellona, conosciuto in
tutto il mondo (meno che da noi, i soliti sciovinisti ignoranti) come Peret,
l’inventore della “rumba catalana”. Dopo una lunga e dura gavetta nei club
per turisti della Costa Brava e nei tablaos madrileni, la sua carriera spiccò
il volo nel 1963 con La noche del hawaiano, e non si fermò più. Nel 1968
vinse il Midem di Cannes con una versione adrenalinica di un valzer del
maestro Monreal, Una lágrima, poi disco dell’anno in Spagna; nello stesso
periodo fu invitato dal leggendario Tom Jones al suo programma per la
televisione britannica. Nondimeno il suo più grande smash fu Borriquito
(asinello), due anni più tardi: “Borriquito como tú, tururú, que no sabes ni
la u, tururú.” Walk On The Wild Side ante litteram.
I continentali immuni ai sovvertimenti sociali e sonori degli anni Sessanta
andavano in sollucchero per codesto zingaro che, in giacca di leopardo e
pantaloni scampanati di lino, muoveva i fianchi come Elvis e cantava
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come James Brown suonando la sua chitarra con la tecnica del ventilador,
quella che per intenderci caratterizza uno dei più indigeribili tormentoni
mai sentiti su questo squinternato corpo celeste: Volare dei Gipsy Kings.
In quel momento il Peret aveva veramente il mondo in mano: gli mancava
soltanto di registrare un concept album su una stella della rumba catalana
rapita dagli alieni e restituita alla Terra in forma di tzigano telecinetico coi
capelli platinati e la chitarra neutronica. Oppure prendere carta e penna (o
più opportunamente ingaggiare un ghost writer) e buttar giù un deviante
resoconto delle proprie esperienze cinematografiche – un titolo su tutti, Si
Fulano fuese Mengano, Anno Domini 1971: traduzione, se Tizio fosse
Caio!
Diversamente, all’alba degli anni Ottanta Peret soffrì una profonda crisi
mistico-religiosa al volante della propria auto (☺) e in un plis plas si fece
pastore della Chiesa Evangelica di Filadelfia abbandonando la canzone,
l’alcol, il tabacco, il gazpacho e quant’altro.
Pressappoco nello stesso momento si scioglievano gli Only Ones di Peter
Perrett, in una burrasca di droghe violenti disaccordi e incidenti stradali.
Gli Only Ones furono una band inglese settantasettina con una distintiva
influenza velvettiana. Un’anomalia, perché in un’epoca di incitamenti alla
ribellione e anfetaminiche celebrazioni della sboccata lo sfuggente Perrett,
lui sì perossidato e impellicciato come una zoccola, rantolava di tremendi
doposbornia, compulsioni croniche e infatuazioni senza speranza annegate
in spremute di barbiturici ed eroina mentre la chitarra solista di John Perry
volava alta come un falco pellegrino. Vaticinio di angst pop. Ebbero un
moderato hit con la rutilante Another Girl, Another Planet, ma avrebbero
meritato maggior fortuna. Classico gruppo rivalutato col tempo.
Torniamo a Peret. Nel 1991 il chitarrista zingaro dalle basette impossibili
annunciò il suo ritorno alla musica e l’anno dopo partecipò alla cerimonia
di chiusura delle Olimpiadi di Barcellona. Nel 2000 pubblicò El rey de la
rumba, dove canta insieme a David Byrne (nientemeno!), Jarabe de Palo,
Amparanoia, Manu Chao… Non sarebbe stato male dare una voce anche a
Peter Perrett, magari per rifare la sua canzone più bella in stile ventilatore:
La chavala del planeta rumbero. Non suona fenomenale?
Maybe avrei potuto ritentarci con Stefania. Niente lettere stavolta: l’avrei
invitata a un caffè e le avrei cantato una bellissima cibernetica canzone dei
Cars dal loro album più ostico, Panorama: Don’t tell me no. Non dirmi di
no. “È la mia festa, puoi venire. È la mia festa, divertiti. È il mio sogno,
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fatti una risata. È la mia vita, prendine metà. Non dirmi di no, non dirmi di
no, no, no.”
Ma quando non ce n’è, non ce n’è e basta. Bisogna farsene una ragione. E
non è un cazzo facile.
Nel 1992 la Danimarca vinse a sorpresa i campionati europei di calcio.
Poco dopo centinaia di italiani si catapultarono a Copenaghen per piantare
il piccone giocandosela con la solidarietà calcistica. Ci andai anch’io con
la mia nuova banda, anche se non vi passammo più di tre giorni: pareva di
stare ad Alassio. Prendemmo un traghetto per la penisola dello Jutland che
poi attraversammo a quattro ruote fino ad Ålborg, una cittadina parecchio
ospitale e piena di vita. Nessuno di noi fece l’amore. Quanto lirismo… Le
occasioni non mancarono, ma in vacanza bisogna essere un po’ burini per
far sesso e noi facevamo parte della Lega dei Gentiluomini (dei Babbioni
per qualcuno, ma me lo venga a dire in faccia che poi gli spacco la sua). In
compenso, sbevazzammo come dei soldati dell’Armata Rossa in licenza:
soprattutto Carlsberg corretta con un centellino di Gammel Dansk, un
bitter fabbricato con un numero spropositato d’erbe e spezie tra le quali il
cinnamomo, l’anice, la noce moscata, la genziana, il lauro e l’angelica. In
ogni modo le danesi sono di una bellezza che non appartiene a questo
mondo.
La Carlsberg, intesa come fabbrica, è uno dei colossi mondiali della birra.
Fu proprio nei suoi laboratori che fu isolato e coltivato un ceppo puro di
Saccharomyces carlsbergensis. La leggenda narra che nel 1875 tal Emil
Christian Hansen, di ritorno dalla Germania, trasportò il fermento delle
birre lager versandovi di tanto in tanto dell’acqua per mantenerlo in vita
fino a Copenaghen. Oggi del florido gruppo Carlsberg fanno parte anche
la Tuborg di Copenaghen e, in parte, la Ceres di Århus. Al presente bevo
Carlsberg di rado, benché volentieri: per quanto sia leggera, è sempre più
gustosa di certe idrolitine spillate nei locali di tendenza o della famigerata
Beck’s, “la birra tedesca più venduta in Italia”, un fenomeno frutto sia di
un’ammirevole quanto perniciosa campagna di marketing sia dell’atavica
predisposizione italica alla sudditanza culturale. (Mi ci metto anch’io nel
mucchio, ne ho bevuta e continuo a berne a casse! La Ceres Strong Ale,
all’opposto, non la voglio più vedere neanche dipinta.)
Occhi iniettati di sangue…
Gli X, storici portabandiera del beach-punk di Los Angeles, parteciparono
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alla colonna sonora di Breathless con il brano omonimo, scritto e portato
al successo dal grandissimo Jerry Lee Lewis nel 1958. Lo potete ascoltare
mentre scorrono i titoli di coda. Questo gruppo straordinario, formatosi nel
1978, esordì a 33 giri due anni dopo con Los Angeles, prodotto dall’ex
tastierista dei Doors Ray Manzarek. Molti giudicano L.A. il capolavoro del
punk californiano, benché sia arduo tranciare giudizi con antagonisti quali
Damaged dei Black Flag, Fresh Fruit For Rotten Vegetables dei Dead
Kennedys, Group Sex dei Circle Jerks, G.I. dei Germs e Adolescents.
Nondimeno L.A. stravince, non fosse per altro motivo che contiene la più
bella canzone sul doposbronza mai scritta da una rock band: Nausea.
Musicalmente Nausea suona come Soul Kitchen dei Doors funestata dai
Black Sabbath e dagli Stooges. Fu vagamente ispirata da una bettola punk
conosciuta come il Plunger Pit che era situata dietro una libreria per adulti
nel Santa Monica Boulevard. Il beverone della casa era gin con soda alla
fragola – un miscuglio criminale che provocava dei postumi apocalittici.
La camaleontica front-woman Exene Cervenka ce li racconta così:
Oggi starai male, oh così male. Sorreggerai la tua fronte sul lavandino dicendo oh
Cristo oh Gesù Cristo la mia testa sta facendo crack come una banca. Stasera ti
addormenterai nei tuoi panni frusti come una barretta di cioccolato incartocciata
per pranzo. Questo è tutto ciò che hai da gustare… miseria e saliva. Miseria e
saliva.
Parli disarmonicamente. Non riesci a ricordare quello che dici. Dacci un taglio.
Ti senti ritardata. Prendi le forbici e taglia via la testa.
Nausea, occhi iniettati di sangue vai con la nausea, occhi arrossati vai con la
nausea, occhi infiammati vai a dormire.
Difficile non riconoscervisi. Io mi ci riconosco al 100%. La cosa certa è
che se il mio lavandino e la tazza guadagnassero per miracolo il dono della
favella, mi vomiterebbero addosso una quantità d’insulti diecimila volte
superiore alla quantità di succhi gastrici che ho vomitato dentro ambo gli
impianti igienici nel corso degli ultimi venticinque anni. Eppure non mi
considero uno di stomaco debole. È che molto spesso ho passato il limite.
E continuo a farlo, seppure con un quanto di coscienza in più. Oliver Reed
da lassù farebbe uno sciocco sorriso consapevole: “Yes, man, sai il fatto
tuo. Ma non sei più un giovanotto. Forse è meglio che ti dia una regolata,
se non vuoi venire quassù a farmi compagnia prima del tempo.”
In una di quelle disastrose mattinate post-Studio 2, aprii gli occhi e gemei
oh Cristo o Gesù Cristo almeno sette volte. Rivolsi uno sguardo di polpo
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alla sveglia: le nove e venticinque. Ero rientrato da quattro ore scarse, ma
d’altronde l’eccesso d’alcol mi ha sempre fatto dormire poco. Poco dopo
giunse la prima nausea. Guizzai via dal letto e, tappandomi la bocca con
una mano, corsi verso il bagno. Era occupato, cristiddio. Retrocedetti in
camera soffocando un’imprecazione e il secondo conato. «Dove diamine
sbocco adesso? Porca troia, farò la fine di Jimi Hendrix!»
La terza nonché decisiva nausea scatenò una fuoriuscita torrenziale di
succhi gastrici misti a birra chiara e scura – Guinness del Charisma Pub! –
e residui della cena che fu accolta provvidenzialmente da uno shopper di
Rock’n’Folk, il mio negozio di dischi preferito. Dopodiché m’infilai di
nuovo sotto le coperte e caddi istantaneamente in un coma profondo fino
all’ora di pranzo, rimovendo totalmente dalla mia memoria il ricordo del
sacchetto.
Passati due giorni, di ritorno da un’altra giornata allucinogena nel campo
di concentramento di Viale Puglia 35, trovai mia madre piantata al centro
della cameretta. “Maurizio, cosa accidenti è quello?” mi chiese in tono
inquisitorio neanche n’ebbi oltrepassata la soglia, puntando l’indice verso
lo shopper R’n’F appeso a un appendiabiti da muro, mezzo pieno del mio
rigurgito che cinquantasette ore di giacenza avevano fermentato in una
nuova innovativa marca di lager stout.
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Figura 3. Tasso alcolico 3.5.
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MALCOM O’MOLONEY
Intorno alla monumentale fonte di Murrieta, sita nella strada recante il medesimo
nome, in realtà appellativo nobiliario di un illustre marchese e bottegaio riojano
del secolo XIX, aveva proliferato recentemente un buon numero di birrerie
decorate a imitazione d’idealizzate taverne irlandesi. In poco tempo si era
conformata tutta una zona di stabilimenti omogenei che permetteva di scegliere
tra un ampio ventaglio di possibilità itineranti, o lunghi e sedentari giri di bevute,
per degustare alcune pinte o mezze pinte di molteplici birre d’importazione. In
alcuni posti vi era addirittura uno spillatore di Guinness, in luogo della marca
succedanea di turno. Sfortunatamente, in nessuno esisteva una cannella della
varietà Draught Guinness, dotata di un corpo particolarmente intenso e una
spuma tanto densa da poter disegnarci sopra il tradizionale trifoglio irlandese, lo
shamrock, mediante il preciso movimento del bicchiere da 0,568 litri sotto il
sottile e opaco getto di birra.
Javier Alonso, Sueños y cadáveres.
La zona descritta dall’Autore si trova a Logroño, capoluogo della regione
spagnola della Rioja, dov’egli è nato e cresciuto ed esercita la professione
di “scrittore provinciale” (parole sue). Pronunciando la parola “Rioja” mi
scatta subito l’associazione cerebro-palatale con alcuni dei migliori vini
rossi prodotti nella piel del toro, molti dei quali ho avuto il privilegio di
assaggiare. Tuttavia qui si sta dissertando di birra e affini, e riguardo alla
Guinness il buon Javier non potrebbe aver dipinto meglio il quadro…
scuro della situazione. Finanche a Torino le “birrerie decorate a imitazione
d’idealizzate taverne irlandesi” si sono moltiplicate a dismisura, sull’onda
dell’accresciuto interesse turistico per quell’amabile isola celtica: ma non
sempre vi trovi la Guinness, e meno ancora la Draught. Se va di lusso ti
propinano la Beamish, che non è proprio la stessa cosa, altrimenti qualche
intruglio imbevibile fabbricato da cinesi ridotti in schiavitù nei sottoscala
di Porta Palazzo.
Di aver scoperto la Guinness e le meraviglie della verde Irlanda devo
ringraziare i Pogues, specialmente il loro alcolizzato (ex) leader Shane
McGowan. Sempre in quella memorabile primavera del 1988, un bel
pomeriggio montai su un Intercity e me ne andai da solo a Milano per
assistere a un triplice concerto della madonna: Steve Ray Vaughan,
Pogues e Los Lobos!
La kermesse ebbe luogo al Palatrussardi. Io mi andai a piazzare in una
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delle due tribune laterali. Il compianto Steve Ray Vaughan sfoggiò tutta la
sua titanica tecnica strumentale – se qualcuno non lo sapesse, quelle fluide
parti solistiche di chitarra in China Girl di David Bowie sono opera sua. A
prescindere che di quella canzone io preferisco di gran lunga la versione
tragica che ne offre Iggy Pop in The Idiot. Comunque sia Steve Ray lasciò
il palco tra gli applausi del non foltissimo pubblico e vi salirono i Pogues
recando tutto il loro composito strumentario. Per allora io mi ero già
scolato due belle medie nere e mi accingevo ad attaccare la terza. “Figa,
Pogues deriva da pogue mahone, che in gaelico significa baciami il culo”
si sentì in dovere di chiosare una rossa occhialuta e mingherlina seduta
alla mia destra. Shane McGowan non era ancora quell’ubriacone lacero e
gracchiante che avrei compatito sedici anni dopo al Torino Traffic Festival
e il concerto fu molto divertente. Fiesta, l’epitome del loro stile scomposto
e festaiolo, scatenò le danze in tutto il palazzetto. Dei Los Lobos ascoltai
soltanto due canzoni, poi volai come l’Enterprise a prendere l’ultima corsa
della metropolitana per la stazione ferroviaria di Milano Centrale. Ero già
appagato così.
Rividi i Pogues altre due volte, sempre a Milano ma al Rolling Stone e a
Torino in Piazza D’Armi sotto un tendone. In quest’ultima occasione io i
miei amici e vari altri spettatori ebbri ci lanciammo in un “trenino” come
neanche in quelle feste di Capodanno con la compilation di Jorge Ben
suonata a volume spaccatimpani che fanno la prosperità dei rivenditori
d’armi automatiche. Poche settimane dopo c’imbarcammo in quattro a Le
Havre per la terra di San Patrizio.
Thousand are sailing across the Western Ocean. In quel viaggio io diedi il
meglio (o il peggio) di me stesso. Cominciammo a bere Guinness e Jack
Daniel’s nel bar ristorante del ferry-boat fin dal tardo pomeriggio. Verso le
nove di sera salì in pedana un tipico gruppo da pub e noi eravamo già
ciucchi come delle biglie. Come se non bastasse stringemmo amicizia con
un fulminato d’irlandese segaligno (Liam, mi sembra si chiamasse: un
classico) e dopo innumerevoli rondas d’ogni bevanda esistente su questa
terra e perfino un brindisi all’I.R.A. e a Bobby Sands finimmo a cantare
tutti in coro House of the Rising Sun come dei coyote con la raucedine. Poi
ci disperdemmo partendo ognuno per la propria tangente etilica. Io andai
fuori a tentare di ripigliarmi con l’aria salmastra e qualche sigaretta, ma il
beccheggio del naviglio peggiorò repentinamente la condizione. Allora
rientrai andandomi a raggomitolare su una poltroncina in ultima fila nel
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salone di poppa, fornito di schermo gigante, togliendomi le scarpe. Passati
cinque minuti ebbi il primo, violentissimo conato. Mi alzai di scatto e
corsi verso i servizi. Ormai a un nanosecondo dallo sbocco, mi cacciai nel
bagno delle donne, traumatizzando probabilmente a vita quelle due povere
ragazze francesi che andavano passandosi uno zampirone. Ricordo come
fosse ora il loro grido simultaneo di terrore allorché, scalzo e con il volto
alterato dal disgusto, sfrecciai tra loro come Oscar Pistorius per andare a
depositare fra una tazza e le bianche mattonelle circostanti. Poi biascicai
delle scuse in idioma gallico che le due fattone controbatterono con insulti
irriferibili e tossendo carcinomatosamente riparai nel bagno dei maschi per
sciacquarmi la bocca e la faccia.
Ritornato alla poltroncina provai a dormire, ma il mio stomaco era ancora
irritato. Di lì a poco il secondo round di chimo, assai meno impetuoso del
primo ma non meno corrosivo, andò a concimare un lotto in penombra in
fondo al salone. Doppio rintocco e finalmente sprofondai in un sonno
senza sogni.
Intorno alle dieci del mattino fui destato da un sonoro Scheiße! (“Merda!”)
emesso alle mie spalle, seguito da altre presumibili parolacce in tedesco.
Circospetto, infilai lo sguardo arrossato e il naso intasato di muco nello
spazio tra i sedili. Un accampamento di punkabbestia stava bestemmiando
all’indirizzo nel mio vomito rappreso tra moquette, parete e il lato piedi di
un sacco a pelo color verde militare.
Accanto a me Enrico ridacchiò e disse sottovoce: “Cazzarola, Mauri, gli
hai palumato addosso mentre dormivano!”
Io, in un moto di cinismo reazionario senza pari, mi strinsi nelle spalle.
“Embé? Tanto ci sono abituati.”
Ancora adesso non so se veramente vomitai addosso ai quei punk estremi
teutonici o piuttosto essi per colpa del buio e/o della bomba che avevano
addosso non distinsero la mia opera d’arte ready-made stendendovi sopra
le loro membra ossute. La prima versione è ormai leggenda consolidata tra
i miei amici più cari. E così sia.
Secondo la mitologia irlandese, le genti dell’isola verde guadagnarono per
sempre il diritto a consumare e produrre birra sconfiggendo i Fomoriani
nella seconda battaglia di Magh Tuireadh. I Fomoriani, Fomorii Fo-Moir o
Fomorach in gaelico, erano un popolo violento e deforme la cui sede era
Tory Island. Frequentemente figurati con una sola mano, piede od occhio,
erano gli dei malvagi del mito irlandese, benché il nome sembra significhi
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“cavernicoli sottomarini”. Una definizione calzante per come mi sentivo io
quando toccammo terra celtica: col viso dal pallore cadaverico, lo sguardo
stralunato e la tremarella alle gambe, parevo proprio un discendente dei
Fomoriani.
Sembra che nel 1610 nella sola città di Dublino, abitata allora da 4000
famiglie, esistessero quasi 1200 birrerie. Non so dirvi quanti pub fossero
censiti nel 1991; certo è che ne visitammo in abbondanza, specialmente
nella zona di Temple Bar. Cominciavamo a sbevazzare già a colazione e
finivamo giusto un attimo prima della pedante scampanata che annunciava
agli avventori la chiusura del pub. Il rituale di versamento della Guinness
mi rapiva, e mi rapisce, ogni volta. Il barista mantiene il boccale inclinato
a 45°, sotto la spina, che si spinge in avanti in modo che lo spesso liquido
scuro vada a innaffiare il retro del boccale. Una volta riempito per tre
quarti, il bicchiere è lasciato decantare affinché il liquido più pesante vada
a depositarsi sul fondo, lasciando in superficie la schiuma cremosa e più
leggera. Passati due minuti circa si completa il riempimento, ma questa
volta il rubinetto è spinto all’indietro, di modo che the pint of plain si
colmi solo d’inchiostro. E dopo è tutta vita.
Da buoni animali notturni, non potevamo accontentarci di un turbinio di
birre e doppi, un juke-box coi vecchi pezzi dei Thin Lizzy e l’immancabile
concerto di sean nos (motivi tradizionali irlandesi). Ma quando una sera
provammo a entrare in un locale storico di Dublino, McGonagles, la cui
programmazione musicale da noi letta nel tardo pomeriggio su un flyer
prometteva scintille (sound del 1977 e derivati), fummo rimbalzati come
palline da squash per “non avere il look adatto”. Figuratevi: due skinhead,
un modernista e uno sbirro infiltrato nella mala irlandese di Hell’s Kitchen
(il sottoscritto, che prima di partire si era sparato Stato di grazia in Vhs
fino alla nausea. Adoro Sean Penn, Ed Harris e Gary Oldman. Ma anche
Robin Wright…). Più adatti di così! Ciò nondimeno i due buttafuori dallo
spiccato accento brogue ebbero il cavalleresco dettaglio d’informarci che
la soirée sucessiva sarebbe stata più appropriata alle nostre tendenze:
baggy e shoegazer… ah ah ah ah. In qualunque modo ci ripresentammo e
fu divertente, per me un’autentica epifania musicale. Divenni un fan di
quella roba psico-rock-danzereccia edonistica: EMF, Carter USM, Jesus
Jones, Soup Dragons, Ride, My Bloody Valentine, The Wonder Stuff,
Curve, Stone Roses, Happy Mondays… e Black Grape.
Gli Happy Mondays non furono soltanto esponenti celeberrimi del “Madchester”
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che scosse la Gran Bretagna negli anni Novanta, ma furono anche rappresentativi
delle sue origini sociali. Formati nel 1981 dal delinquente e tossicodipendente
Shaun Ryder, gli Happy Mondays rappresentavano l’alienazione dei giovani
sottoproletari delle zone industriali (come appunto Manchester) durante il
periodo conservatore di Lady Margaret Thatcher. Man mano che le discoteche
rimpiazzavano i pub come luogo di perdizione per i giovani, il techno di Detroit
soppiantava il vecchio rhythm and blues dei pub, e parallelamente l’ecstasy
detronizzava l’alcol. (…) Ryder tornera` a galla alla testa dei Black Grape nel
1995, formazione con due rapper (Ryder e Paul Leveridge), la chitarra bruciante
di Paul Wagstaff e un’orchestrina di fiati e tastiere. Il ballabile poliedrico (funk,
hip-hop, jungle, house, reggae e heavy metal) di It’s Great When You’re Straight
(Radioactive, 1995) sfodera l’impeto scanzonato dei Red Hot Chili Peppers e la
coralità epica dei Clash, dallo shuffle indiavolato di Reverend Black Grape alla
giostra raga-psichedelica di In The Name Of The Father, dalla filastrocca
decadente e spaziale di Kelly’s Heroes al rap con organo soul di Little Bob.
Album senza pretese, che continua semplicemente la vena “folle” di Madchester,
ma che segna anche un ritorno alla grande per Ryder.
Piero Scaruffi, Storia della musica rock.
Andavo avanti a birra, whisky e tramezzini al salmone. Secondo un mito
irlandese, il salmone Fintan mangiò le Nocciole della Conoscenza prima
di nuotare fino a una pozza nel fiume Boyne. Là fu pescato dal druido
Finegas e dato a Fionn Mac Cumhail da cucinare. Fionn, uno dei più
celebrati eroi della mitologia irlandese, si scottò il pollice con la carne del
pesce girando lo spiedo, se lo succhiò e in quel modo acquisì la saggezza.
Non per niente, dopo tutto quel salmone al mio ritorno a Torino cominciai
a scrivere racconti.
Al terzo o quarto giorno di bed & breakfast mi si produsse una fobia per i
chambermaids, che alle dieci inesorabili venivano a battere alla porta per
rassettare la camera. “No, thanks, I want to sleep”, mugolavo sempre in
risposta, rumore bianco nella testa rintanata sotto il cuscino. Una mattina
l’amico Steve si spacciò per uno di loro imitandone la tiritera in maniera
maccheronica e al mio ormai cronicizzato lamento ribatté in piemontese:
“Sun mi, gadan! Bogia, ch’a l’è tard!” (“Sono io, fessacchiotto! Muoviti,
che è tardi!”) Che simpatico. Se invece di un aspirante scrittore di finzione
speculativa fossi stato un chitarrista dissoluto come Larry Wallis dei Pink
Fairies, avrei colto le possibilità fottitorie della situazione piuttosto che
lagnarmi – nel 1973 quest’ingiustamente trascurato gruppo proto-punk
londinese scrisse un brano travolgente proprio sulle cameriere d’albergo,
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Chambermaid per l’appunto: “Non m’importa se sembra un cane / purché
faccia un ottimo lavoro/job/blowjob/bocchino.” Della serie, siamo in tour
ragazzi, basta che respirino! Ma del senno di poi sono stracolmi gli otri.
Oltre a questo le cameriere irlandesi sono in prevalenza delle cinghialotte
rubiconde. Perlomeno lo erano tutte coloro che venivano a scassarmi i
marroni glassati. D’altronde non tutti i giorni ci è concesso di giacere con
Nicole Kidman. E ogni scopata lasciata è persa.
Decidemmo la tappa susseguente a Dublino puntando un dito a caso sulla
costa occidentale dell’Irlanda: Limerick. La National 7 ci condusse laggiù
attraverso meravigliosi panorami di smeraldo. Limerick è una tranquilla
cittadina situata alla foce del fiume Shannon. Forse troppo tranquilla per i
nostri gusti vitaioli, ma n’approfittammo per smaltire le rimanenti tossine
sabaude in circolo. Fu certamente una delle vacanze più rigeneranti che io
abbia mai fatto. Un giorno ce ne andammo in gita al King John’s Castle,
intitolato a John Lackland (Giovanni Senzaterra), re d’Inghilterra dal 1199
al 1216, noto soprattutto per aver concesso la Magna Charta – il primo
documento fondamentale per la concessione dei diritti ai cittadini – e per i
terribili sbalzi d’umore. Ehm, in verità nel castello neanche vi entrammo:
ci fermammo in un pub nei pressi a macinare qualcosa e sbevazzare. Notai
che di fronte allo stesso era parcheggiato un autobus turistico. Ci sedemmo
a un tavolo e ordinammo le usuali quattro pinte. Accanto, un tizio sulla
cinquantina abbondante, secco come un lupo, coi capelli neri ancora folti e
lunghi fino alle spalle e i basettoni, stava spiegando a una signora:
“Sì, sono io il conducente di quel pullman là fuori. Mi chiamo Malcom.
Malcom O’Moloney.” Ne aveva addosso una da cinegiornale. “Sissignore,
O’Moloney. Tipico cognome di Limerick. O’Moloney.”
Conducente d’autobus turistici. Davvero? Per la miseria, era più sbronzo
di un soldato mongolo dell’Orda d’Oro nel corso di una gozzoviglia per
l’ennesima conquista!
Noi ce la ridevamo sotto i baffi sorseggiando le nostre Guinness, ma nel
momento in cui la signora riuscì a sganciarsene gli occhi azzurro slavato
di Mr. O’Moloney cercarono e trovarono un altro soggetto cui attaccare
bottone: me.
Io all’epoca ero piuttosto sospettoso e suscettibile. Il tempo e le traversie
mi hanno blandito alquanto. Fosse ora, stringerei la mano a Malcom, gli
offrirei un Tullamore Dew – poiché tale era il suo scopo, farsi offrire da
bere, forse aveva finito i soldi –, starei a sentire pazientemente per un po’ i
suoi vaniloqui onomastici e come dicono gli spagnoli, aquí paz y después
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gloria. Per contro allora quand’egli mi mise sorridendo una mano sulla
spalla io gli restituii un’occhiataccia che lo respinse quasi all’istante nel
suo cantuccio. Eppure non nutro alcun senso di colpa postumo per il mio
comportamento scostante, dacché con ogni probabilità salvai la pelle ai
passeggeri di quel torpedone. E allo stesso Malcom O’Moloney.
La nostra breve vacanza si spense nobilmente a Wexford, un’altra ridente
piccola città incastonata nella costa sud-ovest dell’isola pochi chilometri a
nord di Rosslare, l’approdo-imbarco per il continente europeo. Wexford,
che in norvegese significa “la baia delle basse maree”, fu fondata dai
Vikinghi al principio del IX secolo d.C. Per aver rifiutato la capitolazione,
Oliver Cromwell nel 1649 fece mettere a sacco la città e passare l’intera
popolazione per le armi, inclusi i Frati Francescani. Nel 1963 JFK vi
venne in visita e fu fatto Freeman, Uomo Libero, la più alta onorificenza
che la città poteva conferire. Pochi mesi dopo veniva assassinato a Dallas.
A Wexford assistemmo a un concerto della band irlandese del momento, i
Saw Doctors. Il loro album d’esordio, di cui ancora posseggo il nastro,
s’intitola If this is Rock and Roll, I want my old job back. Se questo è
rock’n’roll, rivoglio indietro il mio vecchio lavoro. Semplicemente il più
bel titolo d’album della storia del rock. Più mainstream dei Pogues ma non
meno frizzanti, i Doctors ci piacquero parecchio. Durante uno dei brani
più folk una carampana scalza e florida mi coinvolse in una danza sfrenata
per mezza sala. Io mi prestai di buon grado. Steve, Ricu e Daffy ridevano
come matti, ma di lì a pochi minuti toccò a me smascellarmi. Una ragazza
piuttosto carina si affiancò a Steve e gli chiese: “Do you enjoy the band?”
Stefano, amico mio non me ne volere ma non sei mai stato un’aquila reale
in inglese, rispose: “No, thank. I don’t smoke.” Aveva inteso che la tizia
gli avesse proposto di farsi un joint (una canna) insieme. E i Saw Doctors,
vecchi marpioni loro, suonarono That’s what she said last night.
Giovedì 25 settembre 20**, h 09.29 a.m., CET. Potenza di Internet. Nel
cognome Molony o Moloney, O Maoldhomhnaigh in gaelico irlandese,
oggi raramente è riscontrabile il prefisso originale “O”, nonostante sia
totalmente gaelico e per questo virtualmente irrintracciabile in Inghilterra.
Moloney è un interessante esempio delle stravaganze della nomenclatura
irlandese. Alcune famiglie del North Tipperary chiamate Molony non sono
O Maoldhomhnaigh, ma O Maolfhachtna, il quale, comunque, è altresì in
rari casi anglicizzato in Maloughney e MacLoughney. (“Mi chiamo
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Malcom O’Moloney.” Il George Best di Limerick compitava il proprio
cognome con spiritica devozione. “O’Mo-lo-ney.”)
Il buon Malcom può vantare alcuni illustri predecessori nel suo albero
genealogico. John O’Moloney (1617-1702) fu straordinario sia per i suoi
conseguimenti intellettuali come professore universitario a Parigi sia per la
sua forte resistenza alla persecuzione dei cattolici in Irlanda. Il colonnello
Sir James Stacpoole Moloney fu uno degli intrepidi soldati che presero
parte al disperato attacco a Montreal nel 1786, in cui novantatré dei cento
partecipanti furono uccisi. Martin Molony (1847-1929) fu un milionario
che si fece da sé negli Stati Uniti.
Quanto a Malcom O’Moloney, credo che passerà alla storia come il più
alcolizzato conducente d’autobus granturismo mai vissuto in Irlanda.
Figura 4. Dublino, 1991. Io sono quello con la T-shirt di Iggy Pop.
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GARAGARDO KATXI BAT
Di recente il professor Stephen Oppenheimer dell’Università di Oxford ha
pubblicato un libro, The origin of the British, in cui dimostra che i popoli
britannici discendono… dai baschi. È la diramazione più singolare di
un’ipotesi già portata avanti da altri accademici europei: in una zona
comprendente gli attuali Paesi Baschi, la Cantabria e L’Aquitania esistette
uno dei più importanti rifugi durante l’ultima glaciazione. Per ripararsi dal
freddo intenso, un gruppo di uomini di Cro-magnon si stabilì in questo
Eden. Quando il clima tornò a essere benigno, a partire da 15 mila anni fa,
le tribù vasconiche si dispersero per i territori che i loro antenati avevano
abbandonato a causa del cambiamento climatico. Anche se non furono le
uniche a raggiungere e colonizzare le isole britanniche.
Il metodo della ricerca dello scienziato oxfordiano consiste nel confermare
tale ipotesi mediante l’analisi dei dati ereditari raccolti dagli scienziati nel
corso delle ultime decadi, che sono liberamente accessibili. In particolare,
l’analisi dei marcatori genetici presenti nel Dna mitocondriale delle donne
dell’Europa Occidentale rivela la loro discendenza da “Vera”, l’Eva basca,
proveniente dal rifugio del Cantabrico. Di modo che saremmo tutti un po’
baschi. Ciò spiegherebbe, da un punto di vista squisitamente junghiano,
come il sottoscritto sia fatalmente ossessionato da Euskadi.
Basandosi su quanto anzidetto si sarebbe portati a considerare che i Paesi
Baschi, e di riflesso tutta la penisola iberica, abbiano una tradizione birraia
radicata nei secoli, come i loro possibili discendenti d’Albione. Invece non
è così. Malgrado ciò, la Spagna è l’unico paese a tradizione vinicola a non
avere bassi consumi di birra (poco meno di 70 litri pro capite all’anno!).
Non per niente è il paese dove ho sentito, anzi letto per la prima volta – in
un’intervista a Lucía Etxebarria, l’autrice di Beatrice e i corpi celesti –
l’espressione beber como un cosaco: nella fattispecie, come una cosaca.
Lo stile più diffuso al nord come al sud della “pelle del toro” è quello delle
pils moderatamente amare, come nel caso dell’arcinota San Miguel, che in
realtà è originaria delle Filippine. Se mettessi in fila tutte le San Miguel
Especial che ho bevuto in vent’anni di vacanze al di là dei Pirenei (e anche
nei Pirenei stessi) arriverei a sfiorare i bastioni di Orione. Ma a me piace
un po’ troppo anche la Voll-Damm. Si tratta di una pilsner fabbricata dalla
S.A. Damm di Barcellona; gagliarda e piena di corpo, questa birra similteutonica contiene il 7,2% d’alcol per volume. Se non ci stai attento ti sega
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le gambe. Nella sua prima novella El chico del la bomba José María Sanz
detto “Loquillo”, personaggio chiave del rock spagnolo, scrive a proposito
dell’intellettuale catalano Antonio Rabinad: “Tortilla de patatas e VollDamm per colazione non sono male per uno che ha passato la barriera dei
settanta.” È una colazione da campioni anche per un quarantenne.
Euskadi mi ha cambiato l’esistenza. La prima volta che vi ho messo piede,
vent’anni e qualche mesetto fa, non avevo idea di che cosa mi aspettasse.
A parte l’esistenza di un’organizzazione terroristica separatista chiamata
E.T.A. e di due squadre di calcio mietenti successi in Spagna a cavallo fra
gli anni Settanta e gli Ottanta, Athletic Bilbao e Real Sociedad, non
sapevo un fico seccato al sole della Sicilia di quei territori. Ancora meno
che il concetto di “popolo basco” si estendesse alla Navarra, alla Rioja
alavesa e oltre i confini spagnoli in tre province francesi sotto un unico
lemma: Euskal Herria. Per non parlare della lingua ivi parlata.
Poi successe che un amico mi portò a Donostia-San Sebastián e io, dopo
essermi sciroppato dal 1986, anno della mia prima vacanza in Spagna, una
sfilza di prescindibili località balneari quali Gandia, Peñiscola, Tossa e
Lloret de Mar e aver storto la canappia bighellonando per le Ramblas preOlimpiadi del 1992 – piagate di tossici italiani, spacciatori africani,
mignotte col sarcoma di Kaposi e travestiti – scoprii infine il mio Paese
Celtibero dei Balocchi: cerveza e vino tinto a torrenti, vecchio e nuovo
rock’n’roll sparato a volumi inenarrabili in ogni taverna (Kortatu, Fugazi,
Ramones… Pogues!), architettura guascone, e certe femmine ciarliere dai
lineamenti particolari, quasi estoni. Soltanto che i Lucignoli si chiamavano
Gorka, Patxi, Andoni e Julio e il giorno dopo – alle tre del pomeriggio –
non mi risvegliai con le orecchie d’asino ma scuoiato come una volpe.
(Azeria larrutu, letteralmente “scuoiare la volpe”, è uno dei ben cinque
sinonimi coi quali l’euskera denomina i postumi della sbornia.)
Gernika, 16 agosto 1994, festa di San Roque. Il ragazzo italiano dai capelli
infeltriti con la T-shirt degli Smashing Pumpkins e le Adidas da calcetto,
pericolosamente rassomigliante al sottoscritto, prende l’ennesimo sorso di
calimocho dalla tinozza plastificata. C’è chi fra la sua comitiva aborrisce
con tutta l’anima quella mistura di Coca Cola e vinaccia del paese dietro la
collina, ma lui ne va pazzo e che importa se a forza di mandarne giù a litri
la lingua gli si è fatta bluastra come se avesse contratto la tremenda febbre
catarrale degli ovini causata dall’urbi et orbivirus, tanto alle sette passate
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del mattino il pesce è già bell’è che venduto e chi ha caricato (in vacanza
come a casa propria bisogna tassativamente darsi da fare tra mezzanotte e
le tre del mattino, dopodiché è tutto tempo sprecato ammenoché non siate
uno spacciatore di cocaina) sarà già alla seconda o terza mano, o forse sarà
crollato sulle tettone Danone di Begoña Taldeitali già dopo la prima per
eccesso di libagioni; quindi sarà per un’altra notte, Mauri, dài, la festa è
appena incominciata e non farti troppe seghe mentali, che quelle fisiche
sotto la doccia quando i tuoi compari stanno ancora dormendo la piomba
della notte prima bastano e avanzano. Dico, hai ventinove anni!
I giovani beoni di Gernika-Lumo, cioè Ibon Ackerman e la sua banda di
contrabbandieri – uomini vigorosi dai nasi aquilini e donne indurite con lo
schioppo sotto la gonna – non ne vogliono sapere di andare a coricarsi.
Baldoria per ogni dove anche se sta sorgendo il sole. Col suo spagnolo
zoppicante, Maurizio chiede a un tizio strutturato come un’immane bocca
da fuoco del sedicesimo secolo se esista da qualche parte un locale afterhours: costui, paonazzo e ridanciano, gli traccia rapidamente con un dito
nell’aria fresca una mappa olografica per giungere a un posto battezzato
Metropolis. Non è molto lontano.
Eccoci. Il Metropolis è una specie di magazzino saturo di fumo d’erba con
uno schermo fissato alla parete opposta al bancone sul quale, non appena
ci accingiamo a brindare per la centesima volta, appare quella sciamannata
di Lene Lovich cantando Lucky Number, Anno di Grazia 1979. My Lucky
Number’s One…Uh-oo-Uh-oo!
Mi lascia basito. L’ultima volta che ho ascoltato questa canzone risale al
tempo del nostro trionfo al Mundial di calcio spagnolo, e ’sti buontemponi
ne possiedono perfino il video… Gora Euskadi!
Gora Euskadi. Viva Euskadi. Il basco, euskera o euskara, è uno degli
idiomi più ostici e misteriosi al mondo. Le stesse origini del popolo basco
sono tuttora oscure. Se è pur vero che i britannici discendono dai baschi,
da chi discendono questi ultimi? Quantunque in gioventù abbia divorato
quantità di fantarcheologia, non ho mai preso per oro colato tutte quelle
congetture su Atlantide, Mu, i dischi volanti e i disegni di Nazca. Ciò
nonostante certe affinità fanno riflettere, e parecchio.
Nell’entroterra basco non è infrequente incontrare donne i cui lineamenti
somigliano al tipo di una scultura aurignaziana ritrovata a Unterwisternitz,
in Moravia: fronte bassa, arco sopraccigliare marcato, naso lungo, bocca
piccola, mento sporgente, testa allungata e sottile. La cultura aurignaziana
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dell’Alto Paleolitico (32.000-21.000 anni a.C.) è considerata da alcuni
archeologi la matrice dell’uomo moderno in Europa: sono attribuiti a essa
i primi esempi tangibili di arte astratta nella storia dell’umanità – il nome
deriva dall’importante sito archeologico di Aurignac, nel distretto francese
dell’Alta Garonna. Sta di fatto che i caratteri di quella scultura somigliano
in modo sorprendente anche al tipo delle strane “teste degli avi”, o Moai,
di Rapa Nui.
Oltre a questo la paleolinguistica riconosce un programma uniforme nel
quale affluiscono non solo tutte le lingue parlate di oggi, ma anche quelle
ormai estinte; il giapponese è affine all’idioma parlato in Georgia che a
sua volta comprende molte radici linguistiche e perfino alcune parole che
corrispondono all’euskera (nonostante in tempi recenti alcuni linguisti
abbiano confutato la tesi di un’origine caucasica della lingua basca), dal
canto suo straordinariamente simile all’idioma dei Lakandoni, una tribù di
Indiani che vive nel nord del Guatemala, a tal punto che un missionario di
origine basca vi predicava nella propria lingua con grande successo.
In ogni modo, l’euskera è una brutta bestia. La cosa divertente è che
spesso i baschi non si comprendono da un monte all’altro, essendo la loro
lingua divisa in una varietà di dialetti. In tal caso tocca loro ricorrere al
batua, l’euskera unificato. Comunque il viaggiatore che mastichi un po’ lo
spagnolo castigliano va sul sicuro. Se poi ci tenete a suscitare un’inarcata
di sopracciglio, epater le basque, ecco alcune frasi d’uso quotidiano:
agur, aio, arrivederci!
agur, arrivederci
aizan!, aizak!, cameriera! cameriere!
arraina, pesce
arratsalde on, buonasera
azkenean, in fondo
ba al da hotelik hemen inguruan?, ci sono degli alberghi qui intorno?
ba al dakizu ingeleraz hitz egiten?, parli inglese?
badakizu euskaraz?, parli basco?
bagarela!, ci siamo, stiamo arrivando
bai ote?, veramente?
bai, egun on, risposta a egun on, letteralmente buongiorno anche a te
bai, sì
barazkiak, verdura
barkatu, scusami
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berdin, hala zuri ere, ugualmente, anche a te
bizi gara!, siamo vivi!
botila ardo bat, una bottiglia di vino
egun on denoi, buongiorno a tutti
egun on, buongiorno
emak bakia!, lasciami solo! (espressione usata anche dal mitico Man Ray
come titolo del suo film e della sua scultura)
eskerrik asko, grazie molte!
eskuinetara, a destra
eup!, ciao, anche apa o aupa o iep!
ez dakit euskaraz hitz egiten, io non parlo basco
ez dut nahi, non lo voglio
ez dut ulertzen, non ho capito
ez, no
ezkerretara, a sinistra
gabon, buonanotte (scuoiare il bufalo invece che la volpe…)
garagardo katxi bat, un katxi di birra
geldi!, fermati!
gero arte, ci vediamo dopo
ikusi arte, ci vediamo!
jakina!, noski!, sicuro! va bene!
kafe ebakia nahi nuke, vorrei un caffè macchiato
kafe hutsa nahi nuke, vorrei un caffé espresso
kafesnea nahi nuke, vorrei un caffelatte
kaixo aspaldiko!, ciao, quanto tempo!
kaixo!, ciao!
komuna, bagno
lasai, tranquillo
laster arte, ci vediamo presto
mesedez, per favore
metalura, acqua minerale (non suona anche a voi come il nome di una
squadra di calcio polacca?)
neska ederra, bella ragazza
nire izena Maurizio da, mi chiamo Maurizio
non dago autobus-geltokia?, dov’è la stazione degli autobus?
non dago komunak?, dove sono i bagni?
non dago tren-geltokia?, dov’è la stazione (ferroviaria)?
nongoa zara, da dove vieni?, dove abiti?
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ogi piska bat, un po’ di pane
pozten nau zu ezagutzeak, felice di conoscerti
topa!, sono felice! (questa mi fa sbellicare dalle risa, insieme col nome di
un paese in provincia di Bilbao: Fika.)
ura, acqua
xerra patata frji tuekin, bistecca con patate fritte
zein da zure izena?, nola duzu izena?, come ti chiami?
zer moduz?, come va?
zorionak, buone feste!
zuzen-zuzenian, sempre dritto
La pronuncia non dovrebbe presentare grossi patemi. L’accento grafico
non esiste e quello tonico è piuttosto flessibile. Vocali e consonanti si
pronunciano come in italiano tranne che nelle seguenti eccezioni:
g è sempre dura come in “gatto”.
h muta in Euskadi, mentre è aspirata nel territorio basco-francese
tx/ts come la “c” di “cena”
tz “z” sorda, come in “zezè”, come la “c” di “cena” in Bizkaia
z come la “s” di “sole”.
Il katxi è un bicchiere di plastica da un litro in cui vengono mesciti birra,
calimocho o kalimotxo (50% vino ordinario e 50% Coca Cola, inventato
trentasei anni fa a Getxo, in provincia di Bilbao) e qualsivoglia altra
pozione alcolica. Considerando lo spirito transumante che anima le feste e
le festività basche, il katxi è piuttosto funzionale. Essendo in quattro, la
classica cuadrilla da bisboccia, potete prenderne uno a testa e andare a
zonzo sereni per un bel pezzo. Salvo che qualcuno – ogni allusione a una
certa ragazza che conosco a Bilbao è fortemente voluta – non se ne esca
con la malsana idea del Katxi Ketama: si pratica un foro nell’orlo inferiore
del katxi e si beve a garganella, come fosse un porrón. Così finirete fradici
in ambo i sensi. E se è kalimotxo, pure appiccicosi.
S’intende che in Euskadi ogni occasione è buona per tracannare alcolici in
quantità industriali. Ma è nelle feste patronali e simili che i vascones ci
danno veramente dentro, come il resto della nazione. Nell’immaginario
collettivo globale la Spagna è e rimarrà sempre associata al concetto di
movida. Poco tempo fa Pedro Almodóvar si è espresso al riguardo: “Per
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molta gente la movida continua a essere sinonimo di orgia perpetua. E non
era esattamente ciò. L’esplosione ufficiale della movida madrilena fu nel
1985, ma per me fu ciò che iniziò nel ’78 e si disfò all’inizio degli Ottanta.
Oggi questo termine è usato largamente a sproposito.”
Sia come sia, la movida basca è estroversa, colorita, inebriante. Le feste
(jaiak) si succedono per tutto l’anno, da primavera a inverno. Perfino il
pueblo più insipido dell’entroterra può trasformarsi in un pandemonio per
tre-quattro giorni di fila: io e i miei amici amiamo spesso rimembrare una
notte di balli e katxis a profusione spesa in un angolo recondito di Bizkaia
che risponde al nome ostrogoto di Larrabetzu. Ma qui mi toccherà essere
selettivo e parlare delle feste a mio modesto giudizio più importanti, da
Carnevale a Ferragosto.
È tradizione che si celebri il Carnevale (in basco, Iñauteriak o Iñotek) in
alcune località di Euskal Herria durante i giorni anteriori alla Quaresima.
Queste celebrazioni che esistono in tutti i paesi europei adottano nei Paesi
Baschi diverse forme e personaggi: come i caldereros della Gipuzkoa,
strane zingaresche comparse “che vengono dall’Ungheria”. A Zalduondo
(Araba) il protagonista della festa è un pupazzo, Markitos, che ogni anno è
giudicato, condannato e bruciato. Un altro fantoccio, Cachi (!), provvisto
di una bandiera e vestito di verde e arancione, anima la festa di OyónOion, sempre in Araba. Yoaldunak e Mozorros sono invece i pressoché
inesprimibili nomi delle maschere che danno vita all’altrettanto indicibile
Zanpanzar, il Carnevale della località navarra di Iturren-Zubieta, situata a
una trentina di chilometri a nord-ovest di Pamplona-Iruñea lungo la
N121A che porta a Irun. Ma il premio per il Carnevale più chiassoso e
popolare lo vince la cittadina di Tolosa, in Gipuzkoa.
La Navarra, Nafarroa o Nabara in euskera, è un intrigante crocicchio di
molteplici Spagne. Gli abitanti della Comunidad Foral de Navarra, com’è
ufficialmente conosciuta questa regione in ossequio agli storici diritti di
autonomia (i cosiddetti fueros) per lungo tempo esercitati dai navarri e
oggi tornati in auge, sentono fortemente gli aspetti simbolici: il colore
rosso domina lo stemma regionale e le varie sfaccettature del quotidiano,
come le automobili, le motociclette e le uniformi in dotazione alla Policia
Foral, ma soprattutto le fantasmagoriche fiestas della regione, quando gran
parte degli abitanti indossa i tradizionali calzoni e giubba, con le sciarpe e
i pañuelos rossi. Navarra al rosso vivo, alfine. Paesaggi e vini memorabili.
E birra a strafottere.
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Le origini della celebre festa di San Fermín, o Sanfermines, risalgono al
Medioevo. Fermín era il figlio di un governatore di Pamplona convertitosi
al Cristianesimo; egli partì per diffondere la parola di Cristo in Gallia, ma
ad Amiens fu imprigionato e poi decapitato. A partire dal 1591 il 7 luglio
gli è stato dedicato. Nello stesso giorno, alle dieci del mattino, una statua
lignea del XV secolo raffigurante il santo patrono della Nafarroa e di
Pamplona-Iruñea viene portata in processione attraverso la città.
Se qualcuno sulla terra nutrisse ancora qualche dubbio, San Fermín è una
festa chiassosa e ad altissimo tasso alcolico. I combattimenti dei tori si
svolgono ogni giorno alle 18.30, dal 7 al 14 luglio. Ogni mattina, i tori
sono lasciati liberi dai Coralillos de Santo Domingo e da lì si scatenano
caricando attraverso l’omonima piazza. Il percorso che li conduce fino
all’arena comprende Calle de los Mercaderes e Calle de la Estafeta, ed è
proprio qui che generalmente si concentrano tutti coloro che intendono
correre con essi cercando di avvicinarli il più possibile; taluni arrivano
perfino a colpirli in testa con dei giornali arrotolati!
Una festa che ha parecchio in comune con San Fermín, poiché anch’essa
prevede la liberazione di bovini cornuti per le strade della città, è la Fête
de Bayonne, l’affascinante capoluogo della provincia basco-francese di
Labour (Lapurdi o Laburdi). Essa inizia il primo mercoledì sera del mese
di agosto e dura cinque giorni. È il Re Léon, alle ore 22 dal balcone del
Municipio, a dare inizio ai bagordi.
Il 4 agosto a Vitoria-Gasteiz, alle sei del pomeriggio, il sindaco spara il
chupinazo (grosso petardo il cui scoppio annuncia l’inizio ufficiale della
cagnara) e un fantoccio nominato Celedón, vestito come i contadini che un
tempo scendevano giù in città per far festa, viene fatto discendere da una
torre della chiesa di San Miguel fin giù nella piazza della Virgen Blanca,
stracolma di festanti… dopodiché è tutto uno spruzzarsi reciprocamente di
spumante. La prima volta che andai a Vitoria-Gasteiz per la festa della
Virgen Blanca fu nel 1994. Era un classico pomeriggio basco estivo senza
sole col cielo color ricotta e io volevo scattare un paio di rullini con la mia
nuova Minolta Dynax. Avevo appena parcheggiato la mia Tipo in una
kalea vicino al centro quando fui circondato da una masnada di zingarelli
assillanti. Il più alto mi arrivava a malapena al mento, ma erano in molti,
se ricordo bene una decina, tutti stracciati e maldisposti. Quando trent’anni
fa percorrevi in solitudine una strada di periferia e all’improvviso ti si
paravano davanti quattro ceffi col caschetto alla Ramones – a prescindere
che adorassi quella band – e le magliette sdrucite, già sapevi che di lì a
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poco la faccia più di merda del gruppo, il capetto, ti avrebbe chiesto di
dargli il portafoglio o gli stivali, o tutt’e due. Allora potevi giocartela in
qualche maniera. Ma con pischelli di dieci anni, massimo dodici... che
cazzo vuoi prevedere? Cadono tutte le regole. Magari di punto in bianco ti
spruzzano in faccia del narcotico e ti risvegli in un lurido sottoscala del
Casco Viejo senza un rene. O con un palo ficcato nel sedere. Comunque
sia riuscii a liberarmi di quei piccoli bastardi a colpi di pseudo kung fu e
ceffoni.
Ah, la Semana Grande Donostiarra: il mio battesimo del fuoco alcolico in
Vasconia. Ero rimasto alla volpe scuoiata. Al terzo giorno di bagordi ne
indossavo la pelle con disinvoltura, come una bagasciona d’alto bordo. Di
tanto in tanto io e l’amico Vito ci perdevamo di vista. Il nostro punto di
riferimento era comunque la taverna Arrai-Txiki, un posto che oggi non
esiste più e che allora era gestito da Julio, un fenomeno d’essere umano di
cui perfino i conoscenti più intimi disconoscevano le origini (“È un po’
basco-navarro, un po’ andaluso, un po’ nonsoché!”). Da lì ripartivamo a
spolverarci tutti i bar della Parte Vieja. Qualche volta ci ricordavamo di
mangiare (in una città la cui cucina è tra le migliori di tutta la Spagna) e di
stimolare la sintesi di vitamina D nei nostri corpicini pallidi prendendo il
sole, quando e se si degnava di apparire tra un piovasco e l’altro, sulle
bellissime spiagge donostiarras.
Il quarto giorno conobbi la questione politica basca. Io e Vito stavamo
bevendo la milionesima birra al Bar Bulevar, presso l’Ayuntamiento. Ero
già stato edotto che quello era il Día de la Bandiera – momento critico
delle più importanti feste basche in cui gli abertzales (“patrioti”) assaltano
l’edificio del Comune, ne strappano la bandiera spagnola, la bruciano e la
sostituiscono con l’ikurriña, la bandiera basca. Ma quella sera la polizia
autonoma basca, l’Ertzaintza, era schierata in forze e ricacciò indietro i
manifestanti separatisti sparando palle di gomma. Noi finimmo presi in
mezzo al parapiglia e una pelota saettò fischiando a poco più di un palmo
dalla mia testolina allora zazzeruta. Mentre cercavamo scampo dietro a
un’automobile parcheggiata, due paninari inglesi, che fino allo scoppio del
putiferio stavano facendo classico people watching nel dehors del Bulevar,
s’incazzarono di brutto. “You bloody bobbies!” esclamò uno dei due, un
biondino pettinato alla Rick Astley. L’altro, sorta di Nick Kamen dell’East
End, afferrò una sedia e la scagliò addosso agli sbirri: pochissimo dopo,
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unendo le rispettive forze, essi lanciarono il tavolino. Nel bene e nel male,
gli inglesi sono unici.
Il grosso “problema” è che appena finisce la Semana Grande/Aste Nagusia
Donostiarra (12-19 agosto) si parte in tromba con quella di Bilbao/Bilbo.
Il primo venerdì dopo Ferragosto, dal balcone del Comune, il pregonero
(“banditore”) e la chupinera, colei che fa deflagrare il petardo indossando
un’uniforme dai toni rossi che rammenta quella delle truppe carliste che
assediarono e bombardarono Bilbao nel 1835, danno il via ufficiale a un
vero tour de force alcolico, musicale e gastronomico che si concluderà due
domeniche dopo con la despedida di Marijaia, il simbolo della festa: una
signora grassottella con le braccia levate al cielo in segno di giubilo.
Come un Johnny Mnemonico nato e cresciuto in riva al Po, ho centinaia di
gigabyte di ricordi bilbaini nella memoria: dovessi scaricarli tutti su queste
pagine vi manderei il cervello in crash. Per questo mi limiterò alle mie (e
non solo) esperienze con la bevanda più psichedelica che esista al mondo:
il patxaran.
Il patxaran o pacharán, dal basco baso aran (“prugna selvatica”) è un
liquore dal sapore di prugnole d’origini navarre ma comunemente bevuto
in tutta la Spagna. Si fa mettendo a bagno le prugnole in anisetta con una
piccola quantità di chicchi di caffè e un baccello di vaniglia per diversi
mesi. Il risultato è un liquore dolce color rossastro-marrone trasparente,
intorno ai 25-30% d’alcol per volume. In Navarra si dice che mangiare le
prugnole dopo la macerazione può portare alla pazzia.
Io ci credo ciecamente. Ho sperimentato di persona gli effetti psicotropi di
questo liquore. Una sera di tanti anni fa che in un locale di Portugalete, un
sobborgo di Bilbao, eccedetti nel berlo, mi scatenai in un’imitazione del
Gabibbo davanti alla postazione del DJ. Niente, in confronto a ciò che è
successo a certi miei seguaci. Uno perse realmente il senno per alcune ore.
Ululava le proprie frustrazioni alla luna e alle galassie e sulla strada per il
ritorno all’agriturismo di Lezama dov’eravamo alloggiati tutt’a un tratto
spalancò la portiera della mia auto e si lanciò fuori. Per fortuna io andavo
piano e lui atterrò su un’aiuola. Lì vi rimase a braccia spalancate, come un
crocifisso a faccia in giù. Accostò un Ford Transit tutto rappezzato e gli
occupanti ne smontarono domandandoci se avessimo bisogno di sostegno
e che diavolo fosse successo al nostro collega. Io li tranquillizzai: “Nada,
ha solo bevuto troppo patxaran.”
Josetxo o Garikoitz, dimensioni e accento da orso dei Pirenei, lapidario:
“Vaya, se non è navarro non lo beva!”
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Scoppiammo a ridere. Ma le escandescenze paciaranesche dell’individuo
non finivano lì. Stufatici, lo lasciammo a rantolare chiuso in macchina nel
parcheggio dell’agriturismo e salimmo in camera a dormire la sbronza. Il
mattino dopo, pallide ombre di noi stessi in una splendida giornata di sole,
le verdi colline della Bizkaia tutt’intorno, fummo messi in riga e cazziati
da Don Iñaki Bilbao, proprietario dello stabilimento turistico nonché capo
della sezione locale della Policia Municipal: “Tenemos que hablar” esordì,
freddo come l’inverno russo, cipiglio da Aguirre furore di Dio. Porca troia.
Neanche dodici ore che avevamo disfatto le valigie e già ci eravamo fatti
riconoscere piantando casino di notte. Purtuttavia io feci un tale sfoggio di
diplomazia, lanciando simultaneamente occhiate al curaro in direzione di
my friend delirium – ridotto una merda, è ovvio – che alla fine Iñaki si
convinse che eravamo delle paste di ragazzi e a poco a poco ci prese in
simpatia… anche se per un paio di giorni ci toccò la deportazione in un
altro agriturismo di gran lunga meno confortevole del suo.
Raquel Menéndez Goyenolea, che mi buttò giù dal letto alle 23.15 di un
classico lunedì da sclero per dirmi che mi lasciava, mi fece conoscere un
altro beveraggio demoniaco, il licor de manzana. Le sere che uscivamo
insieme a Bilbao riuscivamo a berne anche cinque a testa, rigorosamente
con ghiaccio perché puro è da coma epatico: le meravigliose scopate che
ci facevamo quand’eravamo bombati di quel veleno alla mela verde! Ma il
primo amore (ad alta gradazione) non si scorda mai. Così una notte stappai
la buta di Etxeko che tenevo sul comodino e cosparsi di liquore i seni della
mia amante per poi leccarmelo goccia a goccia. Rico… suave… Throwing
Copper dei Live in sottofondo. Lacrimuccia.
La sera del 21 agosto 1993 occupammo un bar di Santutxu, il Blues, per
assistere alla finale di Supercoppa Italiana Torino-Milan che si giocava a
Washington a mo’ di spot promozionale per gli imminenti Mondiali di
calcio U.S.A. Cioncammo cerveza e patxaran a secchiate sotto lo sguardo
mezzo divertito e mezzo perplesso del gestore e degli habitué, che peraltro
conoscevano già le nostre inclinazioni dipsomaniache. Il Toro perse 0-1
ma noi non smettemmo di sbevazzare. Quando il Blues chiuse i battenti
rotolammo giù ad Aste Nagusia – Santutxu, uno dei quartieri a più alta
densità di popolazione d’Europa, ha la sua origine in un eremo – e tra la
borrachera che avevamo addosso e la spaventosa concentrazione d’anime
lesse come noi e anche più ci separammo come cosmonavi in fuga da un
pianeta il cui sole fosse sul punto di esplodere. Giovanni, detto Giuà
l’Attaccapanni, fu ritrovato il mattino dopo riverso in un’aiuola sofferente
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d’alopecia aerata dinanzi alla saracinesca abbassata del bar: non ricordava
nulla della notte scorsa. Certi amabili mattacchioni del quartiere invece
ricordavano bene un personaggio rasato a zero e allampanato arrancare tra
i chioschi come un predicatore battista in acido strepitando ogni dieci
secondi: “Skinhead is no fascist! Vaffanculo!” Quanto a me, no comment.
Tempo dopo a Bilbao incontrai un signore barbuto che aveva presenziato
alla fase calcistica della nostra baldoria. Disse: “Voi italiani siete dei pazzi
scatenati. Il patxaran è un digestivo! Non si beve così, un bicchiere dietro
l’altro, come fosse una birra!”
Forse noi torinesi discendiamo dai tartari della Mongolia occidentale.
Figura 5. Jai Alai, la birra del pelotari (prodotta in India).
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LE INVASIONI BARBARICHE
No, non è giusto che quei cazzoni si prendano tutto il divertimento – con le loro
voci rauche e dodici scopate settimanali… bocche cavernose, urla, rutti, imbevuti
di Guinness.
Steven Berkoff, East: Sylv’s Longing Speech.
Come ho già scritto, prediligo le brunette con le labbra turgide. Ma le altre
figure di donna disponibili sul terzo pianeta del Sistema non mi lasciano
certo indifferente: per esempio, le palliducce con gli occhi blu. Come
Robin Tunney. Americana, attrice di grande talento. È la migliore amica di
Liz Phair, la più scollacciata cantautrice rock statunitense degli ultimi anni
(“Voglio essere la tua regina bocchinara”, canta costei in un brano del suo
acclamato esordio discografico, Exile In Guyville). Qualche anno fa Robin
ha vinto una Coppa Volpi a Venezia quale migliore attrice protagonista
per la splendida interpretazione di una ragazza tourettica nel film Niagara
Niagara. In tempi più vicini ha recitato nella serie Prison Break, ma è
apparsa anche nell’episodio pilota di Dr. House – Medical Division nel
ruolo di Rebecca Adler, una maestrina ebrea affetta da neurocisticercosi:
un’infezione caratterizzata dalla presenza nell’encefalo di cisti formate
dalla fase larvale (immatura) della buona vecchia immonda Taenia solium,
il verme solitario. Roba da non mangiare più salumi e carne cruda a vita.
E Marie-Josée Croze. Di questa deliziosa attrice franco-canadese avevo
ammirato… il bel culo nudo e le iridi gattesche in una puntata del serialcult The Hunger ben prima che lei vincesse, a buon diritto, la Palma d’Oro
a Cannes per la caratterizzazione di Nathalie, la “correttrice di bozze”
eroinomane che nel bellissimo Le invasioni barbariche aiuta lo scapestrato
ma profondamente umano professor Rémy, “socialista edonista”, a morire
con dignità. Bella e brava, insomma, la Croze ha confermato il suo
versatile talento in un altro bel film tratto da un libro indimenticabile, Lo
scafandro e la farfalla. Rispetto al racconto autobiografico di JeanDominique Bauby, il pittore-regista Julian Schnabel si è preso più di una
libertà in sede d’adattamento, ma non importa, il nucleo struggente della
storia è rimasto intatto. In una delle scene aggiunte dal proteiforme artista
statunitense, Jean-Dominique riapre l’unico occhio funzionante dopo il
devastante attacco che ha imprigionato il suo corpo in uno “scafandro da
palombaro” e, attraverso una percezione sfumata e irregolare, distingue gli
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splendidi lineamenti di due donne in camice bianco chine sul suo volto a
rinfrancarlo: l’ortofonista Sandrine (Croze) e la fisiatra Brigitte (Olatz
Lopez Garmendia, la meravigliosa moglie basca di Schnabel). “Sono in
Paradiso”, mormora Jean-Do tra sé.
Io sono agnostico. Ma qualora vi fosse qualcosa al di là della vita terrena,
un momento da rivivere all’infinito, e io ne fossi giudicato meritevole –
ma esiste la meritocrazia nell’universo? –, e per di più mi fosse data la
possibilità di scegliere, allora vorrei vivere la mia sempiterna beatitudine
in una taverna donostiarra con Marie-Josée, Olatz e Valerie, e mettiamoci
anche Vera Farmiga, altra adorabile attrice dal volto di neve artica, e
Barbara Goenaga, futura star del cinema iberico nata dalle acque del fiume
Urumea, tutte dietro il banco a spillare Draught Guinness e Menabrea per
me. Per sempre.
Ma non ci starebbe male neppure un fusto perpetuo di Pilsner Urquell o di
Heineken. O una bella dunkel weisse tedesca, la Herrnbräu per esempio.
Chiedo troppo?
I Barbari, da tempo immemorabile presenti intorno ai confini dell’Impero
romano, iniziarono a penetrare massicciamente nel suo territorio tra il IV e
il V secolo d.C. I Germani passarono il confine del Reno e devastarono a
più riprese la Gallia, compiendo talvolta azioni di razzia anche in Spagna e
nell’Italia settentrionale e spingendosi finanche in Britannia.
Sette secoli dopo, essi continuavano a spingersi oltre le proprie frontiere,
ma le loro navi anziché guerrieri affamati di carne e assetati di sangue ora
trasportavano birra in tutta Europa salpando dal porto di Amburgo, città
che nel 1100 era sede di un importante mercato del luppolo. Nel 1516 la
Bavaria promulgò il Reinheitsgebot, un editto nel quale si prescriveva che
la birra poteva essere fatta esclusivamente con malto d’orzo, luppolo e
acqua. In una delle stesure successive venne inserito anche il lievito, così
come le birre di grano ottennero una speciale dispensa.
Oggi la Germania, a tutti nota per l’Oktoberfest e una gamma sterminata
di stili di birra (altbier, kolsch, weizen, bock, dunkel, monaco…), è in testa
alle classifiche mondiali come paese consumatore ed è seconda soltanto
agli Stati Uniti come paese produttore.
Mercoledì 1 ottobre 20**, h 09.49 a.m., CET. Ho sotto gli occhi cisposi
la scheda della leggendaria EKU 28, o Kulminator Urtyp Hell (un nome
da band metal core!). Questa doppelbock è una delle birre più forti del
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mondo (11,6% alc.). La ricordo con simpatia come integratore al malto di
quei lunghissimi e atletici prepartita negli anni Ottanta fuori dello Stadio
Comunale, ora Olimpico, anche se alla Rai di Roma, per somma ignoranza
o affinché non sia confuso col loro Stadio Olimpico caput mundi, spesso
lo chiamano Stadio delle Alpi. Un’altra bevanda classica “da stadio” era il
vino portoghese Mateus, consumato in quantità da cosacchi anche dai
Faces sul palcoscenico per tonificarsi fra una canzone e l’altra. Johnny
Rotten li detestava per questo: “Fingevano di essere ubriachi sul palco.”
Già. John Lydon detto Rotten. Un giorno qualcuno mi avvertì: “Mauri, ma
lo sai che a luglio i Sex Pistols vengono a suonare a Torino al Traffic?” E
io mi posi una domanda del menga: “Fantastico, meraviglioso, ma che
senso può avere un concerto dei Sex Pistols nel 2008?” Rispondendomi
all’istante: “Porcaccia eva se ha senso!!! Basta scrollarsi di dosso ogni
forma di preconcetto.” Primo fra tutti, il timore di assistere al definitivo
raglio del cigno di quel gruppo rock’n’roll che, benché avendo pubblicato
un unico maledetto corrosivo tonitruante devastante contagioso pernicioso
sguaiato stonato irriverente in definitiva fottutamente fantastico disco, ha
cambiato/rovinato (eh eh eh, è proprio così!) per sempre la tua vita. E non
solo la tua, accidenti a loro…
“Chi sono i Sex Pistols?” si chiedeva la rivista.
Fine anni settanta, ero andato a trovare mia madre e stavo leggendo il giornale.
Scorrendo un supplemento domenicale per il popolino, la mia attenzione fu
catturata, e la mia vita cambiata, da queste parole insolite in caratteri di scatola
“CHI SONO I SEX PISTOLS?”. Volevo saperlo subito anch’io. L’articolo li
bistrattava, li denigrava: questo “sedicente gruppo musicale” britannico di
mocciosi “punk rocker” che si scagliavano con rabbia contro tutto, vomitavano
oscenità e sputavano a loro piacimento, vestivano di stracci, catene, spuntoni e
stivali orrendi, facevano cose indicibili ai capelli (e alle loro ragazze) e
producevano un frastuono rivoltante scambiandolo… alcune loro canzoni erano
state bandite dalle radio…
Be’ ne avevo sentito abbastanza. Ero già innamorato cotto. (Il lato ironico,
ovviamente, è che la rivista cercava di mettere in guardia la gente dai Pistols e
loro simili, e invece finì forse col convertire migliaia di adolescenti al punk.)
Andai immediatamente al negozio di dischi d’importazione ed entrai di corsa,
domandando col fiatone: “Avete i Sex Pistols?”
“Ehi, Joe!” gridò il ragazzo, ridendo. “Un altro che vuole i Sex Pistols!”
Li avevano finiti.
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Anch’io come John Shirley, scrittore di fantascienza punk autore del brano
precedente, me ne innamorai appena ne sentii parlare. Altri, per la maggior
parte pallosissimi radicali con barbe cespugliose e pantaloni di velluto a
coste, li odiarono subito a morte. Erano quei tizi che picchettavano una
mattina su dieci gli ingressi dei licei e degli istituti tecnici, “rimarremo
piantati qua davanti fino a mezzogiorno, compagno”, ti dicevano, cosicché
tu te n’andavi al centro a bighellonare felice e incosciente, ma il giorno
dopo venivi a scoprire con raccapriccio che il picchetto era durato soltanto
un’ora e mezza e i sedicenti contestatori si erano presentati puntualissimi e
splendidamente preparati per l’interrogazione di algebra… morale della
brutta favola, alla fine dell’anno scolastico loro promossi a pieni voti e tu
bocciato come un fesso da corsa. Pure, ammettiamo che tra te e lo studio
vi era la stessa distanza che fra la Terra e la Stella Polare… però…
Per questi futuri parlamentari del PD (o gestori di locali alternativi, come
Okudera) il punk era un rigurgito nichilista del fascismo. Ricordo bene un
servizio trasmesso da una nota tv privata torinese che stigmatizzava “gli
idioti degenerati del nazi-punk-rock”, mostrandoci le fotografie in bianco
e nero di un grottesco ersatz piemontese dei Kiss (ma che c’entravano?),
capelli alla Franco Causio e smorfie da adolescenti costipati sotto il trucco
razziato ai beauty-case delle loro mammine. Il giornalismo disinformato e
dozzinale è una piaga vecchia quanto l’umanità.
Nessuno spiegò lo spirito di quel tempo meglio di Rat Scabies, vulcanico
batterista dei Damned, in un’intervista del 1976: “Oggi il pubblico vuole i
suoi propri eroi, non vecchi uomini noiosi. Doveva accadere; la scena
musicale era diventata talmente stagnante che doveva cambiare.” E io,
post-bambino coi capelli informi e il naso a patata piemu-siculo scimmiato
per Doctor Who, mi bevevo quel mutamento come acqua sorgiva corretta
con solfato di anfetamina seduto a gambe incrociate di fronte al nostro
nuovissimo televisore a colori, i libri di scuola dimenticati sulla scrivania
della mia cameretta: Anarchy in the U.K., London Calling, Plan 9 Channel
7, Happy House…
E ora, trent’anni e trenta chili dopo, i Sex Pistols venivano a suonare per la
prima volta nella mia città. Wow.
Trout Mask Replica, Song Cycle, Anthem of The Sun e Sgt. Pepper sono stati tutti
nette ridefinizioni della musica popolare, ma White Light/White Heat dei Velvet
Underground fa parte di una categoria tutta sua. Anziché infiltrare altri generi
(blues acido, arrangiamenti classicheggianti, bluegrass, music hall) nella forma
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rock i Velvet la espansero riducendola alla sua ossatura: il beat, l’elettrico pulsare
dell’anima del rock’n’roll. White Light/White Heat è il paradigma di questa
musica. Solamente gli Stooges, i primi Modern Lovers, i Sex Pistols e i Clash gli
si sono avvicinati, e nessuno di questi gruppi possedeva quella che si potrebbe
definire l’elevata intelligenza spirituale dei Velvet – la loro consapevolezza, da
apprendisti presso la bottega dell’arte con la A maiuscola, di quel che stavano
facendo.
Richard Mortifoglio, What Goes On n. 3, 1982.
Forse il bravo Richard M. avrebbe dovuto ascoltarsi con molta attenzione
Sandinista prima di buttar giù queste parole. La sua disamina è comunque
rilevante poiché rende giustizia alle qualità musicali di Johnny Rotten e C.
Noterete che non ho fatto ricorso al corsivo. Ci mancherebbe; quelle dei
Sex Pistols sono canzoni!!! Ruvide sgraziate e iconoclaste finché si vuole,
ma pur sempre pezzi rock, con un’articolazione e un impatto sonoro che
nessun altro su questo sferoide è mai più riuscito a eguagliare – anche per
merito della produzione “stratificata” di Chris Thomas e Bill Price, va
detto. Nei brani di Never Mind The Bollocks le intro, i break e i middle
eight sono assolutamente stupefacenti per una band di cosiddetti teppisti
illetterati musicali. Ed è un disco all killer no filler, dodici colpi di frusta e
nemmeno una sola caduta di tono. Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma che
diamine, hanno registrato soltanto quello!” Be’, per quanto mi riguarda,
hanno detto più i Pistols in un solo album che i Pink Floyd in quattordici.
Fermo restando che mi piace The Piper at the Gates of Dawn: del resto,
piace pure a Captain Sensible.
Torino, 12 luglio 2008, Parco della Pellerina, h 00.10 a.m. I Sex Pistols,
autori di una performance micidiale, ritornano sul palco per un secondo
inatteso encore. Johnny Rotten ha annunciato una vecchia canzone: Silver
Machine. Io e Vito – my friend delirium! – con la quinta o sesta lattina di
birra in mano, incrociamo gli sguardi. “Porca miseria, non sarà mica
quella Silver Machine?” Il più grande hit punkadelico degli Hawkwind, la
folle ciurma cosmica di Dave Brock.
Steve Jones parte a tutto gas con un classico eight-bar rock’n’roll boogie
riff, poi si apre una breccia nel tessuto spazio-temporale del palco e ne
scaturisce un loop elettronico da vecchio film di fantascienza sovietico…
ebbene sì, è proprio Silver Machine degli Hawkwind. Pensa tu che diavolo
mi stanno suonando questi! In verità non sono poi così stupefatto: John
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Lydon ha sempre nominato I Falchi del Vento e i Pink Fairies tra le sue
principali influenze. Ergo… che sballo, ragazzi.
Ma le sorprese non sono finite… Roadrunner! Suonata esattamente come
in The Great Rock’n’roll Swindle; vale a dire, sono passati trentadue anni
e Johnny continua a disconoscerne le liriche! Ma questa volta a metà
canzone non si è lamentato per questo, l’accento cockney più tagliente del
coltello di un teppista dell’East End: “Stop it, it’s fucking awful!” Però alla
fine si è incacchiato come un aspide con il solito cretino lancia-bottiglie.
Come diceva il saggio Eros Drusiani: “I coglioni sono molto più di due.”
Definitivamente: “Chi sono i Sex Pistols?”
I Sex Pistols sono e saranno sempre una trascinante, devastante, ruggente,
tonante, travolgente, fantastica rock’n’roll band. E mi hanno nuovamente
cambiato la vita. Thank you, vecchi satanassi.
Se qualcuno pronuncia la parola Gallia a me viene subito in testa Obelix
che tracanna otri su otri di birra. E a ruota un fottio di marche storiche
francesi: 1664 de Kronenbourg, Adelscott, Amadeus e la Bière du Demon.
Quand’ero adolescente quest’ultima birra m’incuteva timore: cosa mai mi
sarebbe capitato se l’avessi bevuta? Sarei disceso e rimasto agli inferi per
tutto il tempo che il mio organismo avesse impiegato a smaltirla? Mi sarei
ritrovato a strillare Sabbath Bloody Sabbath su un palco al posto di Ozzy
Osbourne, col baffuto Tony Iommi a spararsela a mancina? Oppure sarei
diventato il bambino di Rosemary?
In realtà la moda delle “birre diaboliche” si deve a una fabbrica belga, la
Moortgart, che in un mare di birre che offrivano in etichetta richiami ad
abbazie, santi et similia, scelse con fine ironia di differenziarsi chiamando
una sua nuova ale Duvel, ossia “il diavolo”. Oggigiorno l’elenco di birre
demoniache è piuttosto nutrito e i grafici pubblicitari non lesinano fantasia
nelle etichette: per esempio quella della canadese Maudite (il cui nome è
già tutto un programma) mostra il solito diavolo alato in primo piano, ma
altresì un’inquietante barca di dannati sullo sfondo della luna piena. Io, per
me, la berrei soltanto in compagnia di uno stimato esorcista.
Andiamo alla fiera dell’est. I primi abitanti della Boemia, regione storica
che con la Moravia forma la Repubblica Ceca, furono i Boi. A essi nel I
secolo d.C. si sostituirono i Marcomanni, sottomessi dopo dure battaglie
dai Romani. Nei secoli V-VI vi penetrarono tribù slave. Alla fine del VIII
l’Impero d’Occidente assorbì e cristianizzò Boemi e Moravi. Dopo alterne
vicende nel 1114 i duchi di Boemia divennero coppieri ed elettori del
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Sacro Romano Impero. Divenuta provincia degli Asburgo al termine della
guerra dei Trent’anni (1618-1648) la Boemia riuscì a emanciparsi solo con
il crollo dell’Impero, nel 1918: da quel momento e fino al 1922, la sua
storia si fuse con quella della Cecoslovacchia e, dopo la scissione da
quest’ultima del gennaio 1993, con le vicende della Repubblica Ceca.
Torniamo indietro al 1840. In quell’anno Anton Dreher, mettendo a frutto
i risultati di alcuni esperimenti condotti in Baviera sui meccanismi della
bassa fermentazione, concepì una birra lager che in seguito fu battezzata
proprio col nome della città nella quale fu realizzata, Vienna. Due anni più
tardi nella città di Pilsen, in Boemia, un tal Josef Grolle cercò di produrre
su larga scala una birra simile a quella di Dreher: la prima cottura avvenne
nella birreria Prazdroj. Tuttavia il risultato fu differente: la sua birra era
leggera, piacevole, amarognola ma soprattutto chiara, come nessun’altra
al mondo. Subito battezzata pilsner, riscosse un successo stratosferico che
dalla natia Boemia si espanse a macchia d’olio – di birra, si potrebbe dire
– per tutto il globo terracqueo.
La Pilsner Urquell è l’epitome dello stile pils. Piuttosto secca e altamente
digestiva, almeno a Torino soffre la concorrenza della già menzionata e
ormai onnipresente Beck’s e della Heineken. Ma è una signora birra e
perciò meriterebbe d’essere rilanciata. Da poco ho incluso nel mio periplo
notturno un locale gradevole e discreto situato nelle vicinanze della storica
Piazza Vittorio che la mesce alla spina: in confronto a certe risciacquature
di stoviglie propinate in altri posti, sembra quasi una ale! Una curiosità:
San Adalberto, vescovo di Praga e apostolo d’Ungheria, Polonia e Prussia,
nel 993 proibì la cottura della birra. È che i preti hanno certe idee…
Nel mio cervello l’Olanda è un photo show sinaptico in cui si alternano
immagini dai toni oranje di Johan Cruyff, Marco Van Basten, Ruud Gullit,
Rutger Hauer, Rebecca Romijn, Sylvie Van der Vaart e una bottiglia da 33
cl. di Heineken. Se faccio clic sulla foto mentale di Cruyff ne erompono a
spirale altre cento: la moglie Danny nel 1974 con la camicia legata in vita
e i pantaloni a zampa d’elefante, “il gol impossibile” segnato all’Atlético
Madrid, un suo classico spunto sull’out sinistro controllando la palla con
l’esterno del piede destro, la famosa frase detta ai suoi giocatori prima di
vincere la Coppa dei Campioni a Wembley col FC Barcellona: uscite e
divertitevi… Johan Cruyff gestaltizza la mia idea di football. Condivido
pienamente tutto quanto egli afferma in Mi piace il calcio (ma non quello
di oggi), un libretto alla cui lettura coarterei certi allenatori, presidenti e
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dirigenti italiani (ma non solo) pieni di zuppa irrancidita, nonché centinaia
di migliaia di cosiddetti tifosi. ’Fanculo al business teratocapitalistico, il
calcio deve tornare a essere un divertimento, i trequartisti devono puntare
l’uomo in verticale e le ali volare sulle fasce e crossare in area dal fondo!
Ricordo una piacevole serata passata a Casa Olanda durante le Olimpiadi
Invernali del 2006, bevendo un boccale dietro l’altro e rimpinzandomi di
patatine fritte insaporite con gustose mostarde locali. Sotto il padiglione
principale c’era una pista di pattinaggio su cui, bevuto, presi un bel paio di
culate prima di assestarmi in uno stile alquanto mediocre ma sicuro. Gli
inservienti erano tutti sorridenti e affabili. Alfine, malgrado la Endemol e
l’Ajax della stagione 1991-1992 (chi come me tifa Toro proverà una fitta
al cuore), gli olandesi mi stanno simpatici. Forse ai più non importerà una
beata fava, ma nel lontano 1968 Starstruck, canzone tratta dall’album che
io considero il meisterwerk dei Kinks, The Kinks Are the Village Green
Preservation Society, non riuscì a entrare nelle classifiche in alcun paese
tranne che l’Olanda: con tutto che è una canzone sublime, purissimo genio
melodico britannico. Questa è soltanto una tra le numerose dimostrazioni
d’apertura mentale degli abitanti delle Nederlands. Oltretutto furono loro
ad aprire la prima fabbrica di birra in America, nel lontano 1632: le prime
birre americane erano state commercializzate in modo ufficiale nel sud di
Manhattan venti anni prima. New York è sempre avanti.
La Heineken, commercializzata come pilsener ma in realtà una lager, è la
birra più importata in tutto il mondo, la prima a sbarcare negli Stati Uniti
dopo il Proibizionismo. È la mia seconda scelta in bottiglia, essendo la
Menabrea la prima. Soprattutto in Spagna ne assumo in buone dosi, come
fresca e leggera alternativa “serale” a San Miguel e Voll-Damm; benché
perlopiù al banco mi tocchi pronunciarla alla castigliana, enequen, poiché
in diverse occasioni i camareros mi hanno restituito un inarcamento di
sopracciglio.
Tempo fa in una discoteca di Suances, una cittadina della costa cantabrica
esteriormente ordinaria ma dalla nightlife estiva sorprendente (soprattutto i
mercoledì sera) e con una spiaggia, Los Locos, assai rinomata per il surf,
chiesi una Heineken alla maniera sassone. Il barista, faccia da indio, gilet
di pelle nera e foulard al collo, mi guardò strano e chiese: “Ma da dove
vieni?”
Io sorrisi. “Sono italiano. E tu?”
“Io? Honduras.”
Una mutua sensazione di sradicamento… 2000 anni luce da casa.
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Sorrisi di nuovo. “Muy bien. Allora siamo due stranieri in terra straniera.”
Lui si fece una bella risata e mi offrì la birra. Proost!
Equivoci sulle pronunce birraie a parte, anche la Cantabria è un bel posto
di sbevazzoni. C’è un forte campanilismo con i vicini baschi, ma non entro
in merito. I Romani raccontavano di aver incontrato difficoltà a trattare coi
Cantabrici. Infine, pochi anni prima della nascita di Cristo, riuscirono a
sottometterli, ma dal IV secolo d.C. il territorio, come tutta l’Hispania
imperiale, fu invaso a più riprese da varie popolazioni barbariche. Soltanto
nel 1978 la Costituzione creò la regione della Cantabria, che fino ad allora
era stata considerata un’estensione costiera della Vecchia Castiglia.
Santander, il capoluogo, vanta un’intensa vita notturna. D’estate pullula di
compatrioti. Una sera davanti a un locale a El Sardinero, la zona chic della
città, inquadrammo tre mozas: avevano l’aria un po’ smarrita. Magari sono
di Soria ed è la prima volta che vengono qua in vacanza, commentammo.
Si approssimarono al bar con prudenza; noi lì in agguato, maschi caproni,
coi nostri tintinnanti cubatas de ron. Tutt’a un tratto la più attraente del
terzetto disse: “Allora, ragazze mie, entriamo a prenderci da bere?”, con
un marcato accento delle Langhe. Mancò un pelo che esplodessimo loro in
faccia.
La Cantabria costiera è ricca di attrattive naturali e mondane, ma faccio
prima a consigliarvi l’acquisto della guida Lonely Planet per la Spagna
settentrionale. Ciò che non potete proprio perdervi è il leggiadro Parco
Nazionale dei Picos de Europa, che si estende su tre regioni – Cantabria,
Asturie, Vecchia Castiglia. È il luogo ideale per ritemprare il corpo, la
mente e… il palato, coi suoi squisiti formaggi e le varietà cantabriche di
orujo, un liquore che si ottiene dalla distillazione della sansa dell’uva. Per
di più il mare non è lontano. Un bel posticino da usare come base per le
escursioni nei Picos è Potes: questa cittadina, piuttosto animata in alta
stagione, conserva un certo fascino nel centro storico. I bar e le enoteche
non mancano, ma essendo a un passo dalle Asturie vi si mescono fiumi di
sidro. Ogni sidrería ha installato accanto all’ingresso un marchingegno a
pulsante per spillare il sidro nel bicchiere come si deve, ossia tenendo la
bottiglia il più alto possibile, risparmiandovi in tal modo le figuracce che
si rimediano tentando di imitare il virtuosismo manuale asturiano nella
mescita: di lato generalmente è montata una panca di legno, così potete
accomodarvi e sorbire il succo di mele fermentato osservando la gente che
passa. Magari beccate.
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I messicani potrebbero essere considerati bárbaros soltanto in un romanzo
di fantascienza ucronica in cui gli ellenici fossero approdati in America
Centrale diciassette secoli prima di Colombo. Eppure la moda delle birre
lager leggere messicane, letteralmente esplosa in Europa al principio degli
anni Novanta, possiede tutte le connotazioni di un’invasione barbarica:
fulminea, spiazzante, devastante.
Nel momento in cui un tale Saddam Hussein saliva prepotentemente alla
ribalta delle cronache mondiali minacciando e infine invadendo il Kuwait,
Torino conosceva un’improvvisa fioritura di luoghi all’aperto dove bere e
sbocconcellare qualcosa. Il più trendy (parola maledetta ma efficiente) era
l’Ippopotamo, che si stendeva sull’area dell’ex giardino zoologico. Nelle
serate più calde ci si stava da favola. Serbo un’infinità di ricordi di quella
stagione. Ecco la Top Three:
1. “L’Ippopotamo sta per chiudendo”. Frase pronunciata da una certa
Esther. Eravamo in un altro locale all’aperto, Le Terrazze sul Po, e
qualcuno aveva proposto di spostarci all’ex zoo.
2. Il treno di Corona’s che trincai in una sera senza pagarne neanche una
fottuta bottiglia, complice un barista malato di rock’n’roll originario di
Imperia che era entrato a far parte della nostra eterogenea combriccola.
3. Il sottoscritto, ebbro di spirito e di allegria, sventolando una bandiera
granata per tutto il giardino: il Toro aveva appena vinto la Coppa Italia
1993 in una finale agonica.
Soltanto all’Ippopotamo la Corona Extra andava via ad autobotti. Esagero,
ma mica tanto. Ora il consumo è sensibilmente calato. Fashion, turn to the
left, fashion, turn to the right. In ogni caso è una birra leggera, fresca,
dissetante: niente più, niente meno. Il rituale della fettina di limone nel
catacretico collo della bottiglia fa arricciare il naso ai puristi birraioli, ma
per quanto mi riguarda una Corona in particolari occasioni ci sta bene, “fa
fine e non impegna”, soprattutto in riva a un oceano sotto la canicola.
Un’altra birra messicana di gran fama è la Dos Equis, originariamente
fabbricata dal birraio tedesco Wilhelm Hasse nel 1897. Io mi riferisco
sempre a essa come la cerveza del restaurante, poiché mi capita di berne,
e tanta, soltanto quando mangio messicano. Nella seconda metà degli anni
Novanta m’innamorai di un locale, il Centenario, dall’ottima cucina texmex e cocktail preparati con amorevolezza – se desiderate incollarmi al
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vostro bancone fino alla fine del mondo, fatemi un’ottima tequila sunrise.
Non tutti i barman ne sono capaci, purtroppo.
In Spagna, fino a una decina d’anni fa, ero assiduo cliente della Cantina
Mariachi. Vado pazzo per il mole poblano, le patatas charras e il dulce de
caramelo. Al Mariachi di Calle Simon Bolivar, Bilbao, devono avere
tuttora le nostre foto segnaletiche attaccate con le puntine dietro la cassa:
là dentro ci riducevamo sempre come delle pezze d’alcol. Una volta ero
così ben combinato che uscendo battei una capocciata tremenda contro la
serranda semiabbassata. Un’altra scolammo un’intera bottiglia di mescal
dando spettacolo per il locale come i Muppets: toccandone a me l’ultimo
sorso, avrei dovuto ingoiare il gusanito, ma mi rifiutai categoricamente.
“Non sai cosa ti perdi”, mi biasimò Luca, il nostro compare piemontese
trapiantato in Euskadi, dopodiché lo mandò giù proprio come facevano
quei veterani del Vietnam in sedia a rotelle nel film Nato il 4 di luglio.
Una leggenda azteca racconta che una dea si era innamorata di un mortale
ma non poteva fare l’amore con lui proprio perché non era come lei, allora
ella creò un liquore dalle foglie della pianta più arida e sterile, l’agave, lo
fece bere al suo innamorato e lui divenne un dio. Pazienza, sto bene anche
solo con la saggezza del salmone irlandese.
Foto segnaletiche, ho scritto. Qualche tempo dopo la serata del mescal ci
ripresentammo alla Cantina Mariachi per un’altra strippata, ma appena
entrati fummo stoppati dalla gestrice, espressione severa e pugni serrati:
“Chicos, io vi faccio entrare a mangiare, però pretendo che non ripetiate il
casino della volta scorsa. Questo è un ristorante, non un bar de barrio.”
A sus ordenes, Doña Carmen.
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Figura 6. Una bella birra da tifosi di calcio in trasferta.
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MARS STOUT BEER
Poche storie, la birra fa bene: e come potrebbe essere altrimenti, essendo
essa derivata da infusione e decozione d’orzo, grano e cereali. Una recente
ricerca effettuata dal CNR su marche italiane ha dimostrato che la birra
contiene microcomponenti con azione antiossidante, ovverosia i nostri
ardimentosi soldatini anti-arteriosclerosi e infarto.
La scoperta delle virtù terapeutiche della nostra amatissima bevanda non è
roba d’oggi. Nel XVII secolo il predicatore tedesco Colerus nel suo libro
Oeconomia ruralis et domestica riconosceva alla birra di Zerbst notevoli
virtù curative, quale per esempio la capacità di espellere i calcoli renali.
Nel 1743 una dissertazione a cura di tal Paolo G. Homeyer s’interessava
della qualità della birra da somministrare agli ammalati, spiegando come
certe birre siano più adatte di altre. Alla fine, noi siamo ciò che beviamo.
Di conseguenza meglio si beve meglio è.
Disgraziatamente ci troviamo a vivere in una brutta epoca. Una delle sue
maledizioni è il pompaggio mediatico. La nuova tendenza dei mass media
italiani è deplorare indiscriminatamente il consumo d’alcol. Da forte ma
coscienzioso bevitore dai passati eccessi, mi rendo perfettamente conto
delle problematiche legate all’abuso di bevande alcoliche; ma non si può
fare di tutta l’erba un fascio, zoomando su boccali di birra e cocktail con
commento moraleggiante in off manco tutti i birraioli fossero potenziali
investitori di bambini e pensionati sulle strisce pedonali. Magari qualche
servizio dopo lo stesso tiggì ti esalta squadriglie di smandrappate mezze
nude e strafatte di cocaina che ballano sui tavoli al Billionaire, ma quella è
“bella vita”, e allora… allora, vaffanculo.
Noi bevitori consapevoli scontiamo le grullerie delle marmaglie ineducate
al buon bere e in generale al buon vivere non solamente con tonnellate
d’ipocrisia catodica, ma anche con la proliferazione neoplasica di zone a
traffico limitato, telecamere, autovelox, blitz anti-movida, e trombonate
come le tabelle per il calcolo del tasso alcolico in base al peso, al sesso, al
cibo e all’alcol ingeriti, nate già approssimative e invise a buona parte dei
gestori. In questa maniera le Amministrazioni cittadine si puliscono la
coscienza e nel contempo fanno cassa. Ma il proibizionismo non ha mai
pagato, specialmente coi giovani, perché quando si è giovani si fa tutto ciò
che i grandi ti dicono di non fare. I ragazzi tazzeranno di meno, forse, ma
prenderanno più droghe, pressoché certo: i pusher sono tutti lì a fregarsi le
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mani sporche di mannitolo. Urge educazione preventiva, non repressione.
Ma per i nostri prezzolati e pluririfatti gerontocrati l’empatia è un malanno
ai legamenti.
Bere birra tutti i giorni fa bene. Ma è anche opportuno conoscere il parere
anche di chi la pensa in modo difforme, più di tutto se è autorevole. Scrive
il prof. Giuseppe Remuzzi:
Che succede al cervello di uno che beve? Tante cose diverse, secondo quanto si
beve e quanto celermente. L’alcol agisce a livello della trasmissione dell’impulso
nervoso tra un neurone e l’altro (i medici definiscono “sinapsi” le giunzioni di
collegamento attraverso cui passano i segnali elettrici) e delle sostanze che
regolano la trasmissione di questi impulsi come la dopamina, le catecolamine, la
serotonina. E’ la liberazione di dopamina nel sistema limbico – la parte del
cervello coinvolta nel comportamento e nelle emozioni – che dà euforia e
loquacità. L’alcol rende più facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti,
si arriva a provare un senso di onnipotenza, ma se le concentrazioni di alcol nel
cervello aumentano c’è un effetto sedativo. Inoltre succede che la pressione del
sangue scenda, si perde la capacità di controllare la temperatura del corpo, c’è
difficoltà di respiro e si arriva al coma.
Misurando i livelli di alcol nel sangue di chi ha quei sintomi si può constatare
come essi superino i 300 milligrammi in 100 millilitri di sangue: per livelli di
alcol ancora più alti, più di 400 milligrammi per 100 millilitri di sangue, si può
morire. Basta poco alcol, se uno ne assume tutti i giorni, perché nel fegato si
accumulino grassi (“steatosi”, verificabile con l’ecografia). Una volta gli si dava
poca importanza. Ora si è visto che l’accumulo di grasso nel fegato predispone ad
altre malattie, primariamente una forma di infiammazione somigliante all’epatite
che poi talvolta evolve in cirrosi e cancro. Non si sa bene perché in alcune
persone si passi rapidamente dal fegato grasso alle malattie più gravi, anche per
modiche quantità di alcol, e perché in altre questa evoluzione sia più lenta o non
si verifichi affatto. L’obesità è un fattore di rischio che potenzia di molto gli
effetti dell’alcol.
Perché è proprio il fegato a risentire maggiormente dei nostri eccessi? Birra, vino
e liquori contengono etanolo, e l’etanolo si trasforma nel nostro organismo grazie
a enzimi che risiedono e agiscono soprattutto nel fegato: alcol deidrogenasi e
citocromo P450. Durante il processo di trasformazione dell’etanolo si verificano
nel fegato una serie di reazioni chimiche che portano alla sintesi di grassi. Il
modo migliore per difendersi dall’accumulo di grassi sarebbe quello di ossidarli e
il fegato certamente ne è in grado, ma l’etanolo riduce il processo di ossidazione
degli acidi grassi e così priva l’organo del sistema più efficace per difendersi
dalla steatosi. Più di 40-80 grammi di alcol al giorno per gli uomini e 20-40 per
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le donne nel giro di 10-12 anni portano sicuramente a una malattia del fegato.
Nondimeno qualcuno arriverà alla cirrosi pur bevendo molto meno e altri non vi
arriveranno affatto benché bevano di 50 grammi al giorno. Questa soggettività
dipende da fattori genetici – nella fattispecie, dai geni che governano la sintesi
degli enzimi preposti a metabolizzare etanolo e acetaldeide –, flogistici e
immunitari.
In generale sono gli uomini a patire le conseguenze dell’abuso d’alcolici, perché
bevono di più. Ma alle donne l’alcol fa ancora più male. A uguaglianza di
quantità d’alcol ingerita, si riscontra più etanolo nel sangue delle donne che in
quello degli uomini. Come mai? In primo luogo, la stessa quantità d’alcol si
distribuisce in un volume più piccolo, dato che la donna possiede meno acqua
corporea che l’uomo; in secondo, lo stomaco della donna non è così attivo come
quello dell’uomo nel trasformare l’etanolo; infine, gli ormoni femminili rendono
il fegato più vulnerabile agli effetti dell’alcol. Non basta: chi beve parecchio –
donne e uomini – di solito si nutre male, e assume meno sostanze antiossidanti
(glutatione, Vitamina A e C, per esempio). In questo modo, progressivamente, il
nostro organismo perde quel naturale patrimonio che lo difende dai tumori e
dall’invecchiamento. Per questo chi beve invecchia precocemente.
In conclusione, il bere danneggia il fegato, sempre. Si va da una condizione
relativamente benigna, l’accumulo di grassi, a patologie potenzialmente mortali
come la cirrosi e il cancro. Ma l’abuso di sostanze alcoliche è pernicioso per
l’organismo in svariati altri modi; vi sono ancora molte questioni insolute. Nel
momento in cui ne sapremo di più forse comprenderemo altresì perché certuni
col bere rischiano di più e altri invece possono permettersi un po’ più di vino e un
superalcolico di quando in quando senza che ciò arrechi loro troppo danno.
O.K. Allora tocchiamoci gli zebedei ogni santa volta che sorseggiamo una
birra, simbolicamente per le amiche donne. Io, per me, sto benissimo, a
parte il forzato cambiamento d’itinerario per il ritorno a casa dalle serate
di fiesta impostomi dai posti di blocco antisbronza. La scorsa primavera
ho rischiato grosso. Di rientro da un compleanno con una Budweiser e un
paio di vodka sour in circolo – cosa diavolo pretendono che si beva in
codeste occasioni, cedrata Tassoni? – ma totalmente lucido, ho imboccato
il percorso minato con leggerezza d’animo. «Tanto stasera gli avvoltoi non
ci sono.»
Invece c’erano, accidenti a loro. Piantati nel bel mezzo del solito crocevia
prospiciente la facoltà di Architettura. Stavano già facendo il controllo a
un tale, ma io ero il prossimo. Un carabiniere era già lì pronto ad alzare la
paletta; tra me e lui c’era l’auto del malcapitato e un semaforo rosso. “Col
cazzo che mi prendi” ho ringhiato a denti serrati sul ritmo funky-wave
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degli LCD Soundsystem. La mia sola via di fuga era il controviale a destra
del corso trasversale e non appena è scattato il verde vi ho svoltato con
noncuranza sfangando alla grande il check point. Fiuu!
In conseguenza di quest’episodio, qualche luna dopo in locale del centro
ho voluto farmi il test. Le istruzioni stampate sull’arnese spacciato per
etilometro erano piuttosto risibili, poiché ti si consigliava di soffiare nella
cannuccia passati dieci minuti dal tuo ultimo drink o paglia. Ve li figurate
i tutori della legge a un controllo? “Scusi, signore, quand’è che ha bevuto
il suo ultimo beverone bruciastomaco? Soltanto quattro minuti fa? Ah be’,
allora aspettiamo!”
See, che l’uovo si frigga in padella col burro. A ogni buon conto, avendo
assunto pressoché la stessa quantità e qualità d’alcolici del compleanno,
ho soffiato in quella scatoletta gialla di latta per la modica cifra di un euro
– il controllo del tasso alcolico è diventato un business, ça va sans dire. Il
responso è stato scioccante: 2.35!!! Vale a dire, ubriaco duro, da lasciare
la macchina dov’è e tornare a casa in taxi. E io, con tutta l’obiettività del
multiverso, non mi sentivo per nulla tale. Porcaccia la miseria. Così si
rischia la patente ogni volta che esci fuori a cena o semplicemente per un
aperitivo.
Giovedì 9 ottobre 20**, h 02.19 p.m., CET. È una splendida giornata di
sole. Alla mia sinistra, oltre la vetrata e la siepe già rossiccia d’autunno
che cinge la biblioteca, si stende il mio succedaneo di frontón: un’andana
pietrosa che termina in un muro sbrecciato alto poco più di due metri e
ricoperto di graffiti.
Quattordici anni fa, in un grossolano tentativo per sembrare integrato nella
realtà basca, entrai fischiettando in un fornito negozio d’articoli sportivi di
Santutxu e ne uscii con un set di palas da consumato professionista della
pelota, quando piuttosto avrei potuto contentarmi di una normale versione
da spiaggia. Passate diverse estati a grondare tossine su qualche battigia
atlantica col patema costante di accecare o decapitare qualcuno, mi stufai e
confinai le palas in un armadio sotto una catasta d’attaccapanni.
Torniamo un attimo all’articolo del professor Remuzzi. «L’alcol rende più
facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti.» Verissimo. Ma in
quantità non eccessive facilita anche il funzionamento del circuito neurale
delle idee. A inizio 2007, stufo del jogging e della cyclette, mi scervellavo
per trovarvi un’alternativa valida. Una sera uscii per bere un paio di birre
scure, ne bevvi quattro, e il mattino dopo appena sveglio mi si accese la
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Osram: “Recupera le palas dai bassifondi del guardaroba e vai a cercarti
un muro abbastanza alto.”
Inaugurai il frontón in una giornata piacevolmente tiepida e lucente come
questa. Al quarto d’ora di timorosi diritti e rovesci fui avvicinato da una
signora piuttosto anziana; vestita come Anna Magnani nella scena madre
di Roma città aperta, incedeva con le spalle curve, stringendo al petto una
rivista di moda. Non sembrava molto in sé, ma le apparenze ingannano. Si
fermò e mi chiese: “Sta giocando a pelota, neh?”
“Sì, signora” le risposi, seguitando a colpire la pallina da tennis. “È una
variante particolare.” Pallamuro alla piemontese.
“Mi pareva. Ma perché gioca qui da solo? Dov’è la sua vicina di camera?”
Mi venne da sorridere, ma anche da esalare un sospiro di tristezza. “Non
ne ho…” Stoppando la palla sulla punta della racchetta.
“Che peccato. Comunque sia, è una bella giornata oggi per fare queste
cose al parco: nessuno che ti disturba.” Detto ciò, si allontanò borbottando
qualcosa tra sé.
Tac, bunch, put, tac, bunch, put, tac… swishhhh. Mi era scappata la mano.
La piccola sfera gialla spelacchiata sorvolò beffarda la muraglia andando
ad atterrare nella strada adiacente. Provai a scavalcare. Quand’ero piccolo
zompavo su quei muri come un grillo bionico. Già, venti chili fa. Trenta.
Issarmi quasi mi costò una clavicola. Fortuna volle che di lì passasse una
gentil madama con cagnuflo riottoso al seguito. Tendendo il braccio per
ridarmi la pallina costei volle avvertirmi: “Stia attento lassù, che c’è da
farsi male.”
“Lo so, signora. Forse non ho più l’età per fare certe cose.”
Vecchio rottame o no, da allora i miei colpi sono molto migliorati ed è
molto raro ormai che io spedisca la pallina oltre il muro. Ho scritto perfino
un blog su questo mio particolare svago e tutto ciò che comporta nel bene
e nel male: Pelota basca e teratologia. Coloro che fossero interessati a
leggerlo e farsi quattro sane ghignate lo troveranno sul mio sito personale,
www.maurizioferrarotti.com. Un po’ di sana autopromozione.
Ho cominciato ad apprezzare davvero i piaceri della tavola alla soglia dei
trent’anni. Prima passavo la lingua sui piatti o mi rimpinzavo di salame
crudo e parmigiano reggiano appena tornato dalle scorribande serotine. Il
risultato di siffatto mutamento nelle mie abitudini alimentari è che in
sedici anni ho messo su venti chili. Più che ingrassato, mi sono riempito.
Gli amici, è ovvio, mi scherzano per questo: “Diamine, Ma’, una volta eri
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anoressico e ora sembri un cinghiale di Giaveno!” Che esagerati. Però
m’altererei molto di più se mi dicessero: “Ehi, Ma’, una volta eri il nipote
sabaudo di Iggy Pop e ora sembri il fratello gemello di Vasco Rossi.” O
peggio ancora, Antonio Albanese a.k.a. Alex Drastico, un altro cui vengo
frequentemente raffrontato anche se, per dirla come Johnny Stecchino,
nun me somiglia pe’ nniente. Puntualmente il giorno dopo che qualcuno –
in genere è una lei, porcaccia l’oca, ma cos’hanno le donne al posto delle
cornee? – mi ha rovinato il drink con ’ste similitudini del kaiser Franz,
scendo giù al parco e meno mazzate basche al muro come un forsennato
per un’ora. Jakina!
Tra il 1993 e il 1995 ci nominammo Avanguardia Gastrica. In autunno e
inverno ogni sabato o domenica salpavamo per vere e proprie spedizioni
enogastronomiche nelle Langhe o nel Monferrato. Il nostro santuario era il
ristorante Vigin Mudest di Alba, dove ci stroncavamo d’antipasti alla
piemontese, agnolotti e/o tajarin con grattatina di tartufo bianco, sorbetto,
costolette di agnello o brasato e dolci prelibati (il bunet è paradisiaco…), il
tutto generosamente annaffiato di Barbera. Ora ci siamo acquietati, ma di
quando in quando, direi una volta ogni due mesi, la mangiata festiva ci
scappa ancora. E le mandibole tornano a macinare come il Pac-Man.
Per quanto concerne Torino e i suoi luoghi di ristoro, prendo a prestito da
un giornale questa dichiarazione: “Restano le eccellenze, stentano i locali
medi.” Sono tempi duri per la ristorazione di qualità, sia per la crisi, sia
perché i tempi e i costumi sono cambiati. È in voga “l’apericena” e io
invero non lo osteggio purché l’offerta sia variegata e genuina: in tal senso
il Fluido, situato al Parco del Valentino in riva al Po, è il miglior locale di
Torino. Prosciutto crudo, insalata di riso e Budweiser come se piovesse è
il mio aperitivo lungo del sabato sera col vista sul ponte della Gran Madre.
Se poi mi resta fame vado al Retrò, il ristorante di Steve. Markette.
Tornando a bomba, cioè alla sacra birra, il Birrificio Torino la produce
artigianalmente in moderate quantità nel laboratorio annesso al ristorantebirreria dallo stesso nome. Non è uno dei locali che batto di frequente ma
mi garba andarci. Là potete gustare alcune ricette sfiziose, come il maiale
cucinato con la Birra Torino, chiara doppio malto a bassa fermentazione,
le frittelle di baccalà alla Clara (così il Birrificio Torino denomina la sua
birra chiara) e le coscette di pollo marinate in un intingolo di bacche di
ginepro, foglie d’alloro spezzettate, sale, pepe e birra Rufus, specialità
artigianale di birra rossa a doppio malto. Un altro birrificio d’ottima fama
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è il Brew Pub BEFed di Settimo Torinese, dove si tracanna birra d’acqua e
malto d’orzo e si mangia il galletto al forno. Gnam gnam.
Chiunque almeno una volta nella propria vita ha idoleggiato un divo/a del
piccolo o grande schermo. O si è fortemente immedesimato in un ruolo da
lui/lei interpretato. In quest’ultimo rispetto, potrei citarvi minimo trenta
personaggi che mi hanno preso nel cervello: Charlie Crews, protagonista
del serial Life, è l’ultimo arrivato.
Anch’io come Charlie, un detective che si è fatto dodici anni in galera per
un crimine che non ha commesso, ho dovuto combattere a lungo per non
perdere il senno; soltanto che la mia prigione era mentale, non fisica. Gli
scarabocchi sulle pareti della mia cella rivelavano mancanza d’autostima,
difficoltà di comunicazione col prossimo, sensi di colpa generati dalla
morte di mia sorella Danii per quel male bastardo figlio di puttana sifilitica
il cui nome i media sono ancora riluttanti a pronunciare: cancro, cancro,
cancro, CANCROOO!
Charlie Crews, al secolo Damian Lewis, si è aggrappato a un libercolo zen
trovato in cella per sopravvivere; tornato in libertà n’applica i precetti alla
sua nuova vita, sia pure sui generis. Io, Maurizio Ferrarotti, bevo birra
gustandone ogni singolo sorso, gioco a pelota, compro e scarico musica a
tonnellate, corteggio femmine giovani e mature: poi, c’è Stop allo stress.
Ho rinvenuto questo libretto nel bidone cartesiano per la raccolta di carta e
cartone del mio palazzo; in origine era allegato a un numero della rivista
Viversani & belli. Quest’ultima è uno di quei mensili salutisti nei quali per
recuperare la linea dopo i bagordi natalizi ti si consiglia una dieta a base di
melone e acqua minerale naturale per dieci giorni e prima di partire per le
vacanze estive frullati di guaranà e scolopendra indiana, la quale per di più
si dice possieda virtù anti-ictus.
In ogni modo, Stop allo stress si è rivelato tutt’altro che una boiata. Scritto
con la consulenza di una nota neuropsichiatra bergamasca, è prodigo di
suggerimenti su come affrontare gli stressor (così vengono genericamente
chiamate tutte le situazioni di stress). Io, per me, prediligo l’auto-shiatsu.
Lo shiatsu (parola composta di shi = dito e atsu = pressione), è una tecnica
giapponese risalente al VI secolo, quando i monaci buddisti importarono
nel paese del Sol Levante i principi della medicina tradizionale cinese che
ne costituiscono il fondamento teorico. Consiste nell’esercitare con le dita
una moderata pressione in alcuni punti strategici del corpo, risvegliandone
la forza di autoguarigione. Nonostante ora nel nostro paese sia molto in
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voga (recentemente ho visto affissa alla pensilina di una fermata d’autobus
una locandina reclamizzante un “salone rumeno di massaggi shiatsu e Tai
Chi”!), nessuna istituzione universitaria si è ancora impegnata a studiarne
gli effettivi benefici. Italica normalità.
Lunedì 13 ottobre 20**, h 11.02 p.m., CET. Metto il pigiama e mi siedo
sulla sponda del letto. Fra un attimo proverò a potenziare i benefici dello
shiatsu con la visualizzazione: immaginerò di scrivere una recensione di
Radio Ethiopia, uno dei miei dischi preferiti.
Appoggiare gli indici di entrambe le mani sulla sommità del capo,
esattamente al centro della testa.
Nel cruciale 1976 Patti Smith cambia produttore discografico, preferendo
al colto e raffinato John Cale il più spregiudicato Jack Douglas, l’abile
artigiano del suono Aerosmith. Il prodotto di questa collaborazione sarà
Radio Ethiopia, uscito alla fine di quell’anno.
Le punte dei due indici devono toccarsi.
I critici più intransigenti scriveranno che “il Patti Smith Group ha venduto
la propria anima sediziosa al rock duro da classifica”, ma in verità Radio
Ethiopia rappresenta esattamente il lavoro di gruppo successivo alle prime
fasi di Horses. Il Patti Smith Group come entità musicale nasce solo ora
con questo disco.
Sovrapporre il dito medio al rispettivo dito indice, poi premere con una
certa forza, mantenendo la pressione per due-tre secondi.
Ain’t it Strange e Poppies sono i brani in cui musica e testo raggiungono
una completa unità nel suono. Ask The Angels, Pumping (My Heart) e
Pissing in a River riciclano i riff taglienti e metallici dei Blue Öyster Cult
per i new wavers. Distant Fingers, per me il pezzo più bello del disco,
evoca una meravigliosa sensazione di spazio cosmico grazie all’abilità di
Douglas in materia di arrangiamenti – le chitarre suonano come comete
dalle code cangianti.
Allentare la pressione (dita distanti!) per altri tre secondi, poi premere
nuovamente per due-tre secondi.
Radio Ethiopia/Abyssinia, il “brano” che suggella il disco, è una tregenda
allucinata che ha come precedente più indicativo nel rock un disco doppio
malfamato di Lou Reed, Metal Machine Music. Dieci minuti di musica
violentemente distorta e dissonante, dedicata alla mente sconvolta di chi
ascolta: “Nel cuore del tuo cervello c’è una leva, nel cuore del tuo cervello
c’è un interruttore.”
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Ripetere quattro volte e spalmarsi sul lettuccio come burro d’arachidi. Ci
vediamo venerdì prossimo, Charlie.
La sonda Phoenix ha scoperto che dalle nubi di Marte cade neve. Uno
strumento laser progettato per raccogliere indizi su come l’atmosfera e la
superficie marziana interagiscono ha “visto” cadere la fiòca dalle nuvole a
circa due chilometri e mezzo d’altezza sopra il luogo d’atterraggio della
nave spaziale. I dati mostrano che la neve vaporizza prima di raggiungere
il suolo, ma gli scienziati stanno cercando di capire se in talune condizioni
essa possa raggiungere il terreno. Ve li immaginate gli astronauti della
NASA nelle loro immacolate tute spaziali plasmare un pupazzo di neve,
ficcandoci a mo’ di naso una carota modificata geneticamente, sotto quel
cielo brunastro?
Ho un’altra fantasia futurista. Grazie alla birra che ho bevuto durante tutta
la vita e un trattamento anti-apoptosi che ho potuto permettermi con le
royalties intascate per il successo eccezionale nonché durevole ottenuto da
questo libro (saranno fallaci sogni, ma lasciatemeli), ho visto l’alba del
ventiduesimo secolo e, quantunque vizzo e incanutito, m’incammino verso
mezzogiorno. Percival I, la prima riuscita spedizione umana sul Pianeta
Rosso, ha scoperto in una oscura caverna di Cydonia un lievito che è stato
subito battezzato Saccharomyces martianensis. Per somma grazia astrale,
una volta portata sulla Terra la sostanza non si è scatenata a solidificare il
sangue nelle vene agli americani né a copulare con ogni essere vivente su
questo pianeta – eccetto gli scarafaggi – come la “cosa disgustosa”
protagonista del racconto di Harlan Ellison Com’è la vita notturna su
Sissalda? Se n’è stata lì tranquilla, grigiastra e silente, a farsi esaminare in
qualsiasi modo concepito dalla scienza del 2100, risultando quasi del tutto
simile a un lievito terrestre. Come prima epocale prova dell’esistenza di
vita al di là del nostro pianeta, era alquanto deludente.
Poi quel genialoide di scienziato irlandese, Liam O’Moloney, ha avuto la
pazzesca pensata di affogare qualche cellula di quella roba in un tino pieno
di mosto: diamine, poteva scaturirne qualsiasi cosa, una melma onnivora,
una lacerazione nel continuum spaziotemporale, una rockstar impegnata in
nobili cause ma allergica alle tasse. Sono pazzi questi figli di San Patrizio.
Invece…
Ne è scaturito ciò che sto gustando ora, seduto sulla mia sedia a dondolo
davanti all’olovisione: Mars Stout, la birra scura del Pianeta Rosso. Nera
come lo spazio profondo, è sormontata dall’inconfondibile nebulosa di
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spuma marrone-rossastro, densa e brillante. Al naso offre aroma intenso di
permafrost Utopia, che lascia spazio anche a sentori troiani. In bocca ha un
impatto intensamente amaro ma cremoso, con gusto di caffè idroponico e
cioccolato amaro europano arricchito da note d’idrogeno metallico. Finale
secco, mercuriano, con retrogusto piacevolmente ultravioletto. Da provare
a costo della vita è l’abbinamento con le ostriche crude allevate nel vivaio
lunare di Oceanus Procellarum.
Lassù nello spazio, nel punto d’equilibrio fra la gravità terrestre e quella
lunare, un team congiunto di cervelloni statunitensi, europei e indiani sta
completando i test su Xanadu, l’astronave a motore positronico che, salvo
imprevisti, dovrebbe partire per Titano entro la fine del 2139.
Bevo un altro sorso di birra aliena. Mars Stout e jamón pata negra per
colazione non sono male per uno che ha appena compiuto la veneranda età
di centosettantaquattro anni. Sarò anche un matusa, come si usava dire
nella seconda metà del ventesimo secolo, ma me la cavo ancora bene; al
2141, anno previsto per l’arrivo di Xanadu nell’orbita di Titano, ci arrivo
di sicuro. E anche oltre. Sempre che lassù qualcuno non decida altrimenti.
L’uomo su Titano. Una gozada. Che cosa porterà indietro quella missione
dai mari idrocarburici del satellite arancione di Saturno? Io sono già qui
che mi lecco i baffi…
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CHERCHEZ LA BIÈRE
La signora O’Dowd rispose che “sua cognata Glorvina non aveva paura di
nessuno, tanto meno di un francese”, poi vuotò un bicchiere di birra con un
sorriso che dimostrava tutta la sua simpatia per quella bevanda.
W.M. Thackeray, La fiera delle vanità.
Nel momento in cui l’uomo primitivo uscì dai boschi e conquistò gli ampi
spazi delle praterie, si portò appresso tutto un bagaglio di credenze su ogni
fatto della natura; come cominciò a coltivare la terra, la sua protocultura
religiosa si trasferì sui prodotti del suolo. Essendo fin da allora il concetto
di fertilità associato alla donna, è coerente che le prime divinità agricole
avessero fattezze femminili: la dea Nidaba dei Sumeri (una civiltà davvero
straordinaria: furono loro a confezionare il primo indumento “topless” per
donna!) la vacca Hanub degli egiziani le cui mammelle spargevano latte e
birra sulle rive del Nilo, e la dea romana del raccolto, Cerere.
La birra primordiale, quale essenza vitale del frumento estratta per mezzo
dell’acqua, divenne la bevanda degli dei. E delle dee. Ishtar, dea assirobabilonese della fertilità, traeva la sua forza dalla birra. Nell’antico Egitto,
le donne incinte offrivano birra alla dea Erneunet affinché fornisse latte in
abbondanza alle nutrici. In Grecia, durante le feste in onore di Demetra,
divinità femminile delle messi, si trincava birra di cereali in abbondanza:
in particolare le donne s’inebriavano per poi lasciarsi andare a riti che
qualche registucolo della San Fernando Valley sarebbe ben lieto di tornare
indietro nel tempo a riprendere.
Flussi mammari di birra dalla terra al cielo e viceversa, insomma. Con più
di un risvolto malinconico o finanche funesto, soprattutto per le femmine
mortali. Cleopatra, profondamente depressa, decise di uccidersi facendosi
mordere il seno da un aspide, ma come ultimo piacere su questa terra volle
concedersi una bevuta di sà, la birra forte riservata al Faraone e per le
cerimonie religiose. Nabucodonosor una volta stancatosene si sbarazzava
delle sue amanti annegandole in una grande piscina colma di birra d’orzo;
mentre le povere creature, furbescamente sovraccaricate dei suoi gioielli,
annaspavano nella bevanda, egli ai bordi ne glorificava le virtù amatorie.
Che gran figlio di puttana. Un migliaio d’anni più tardi Rosmunda subì
l’affronto di sorbire birra dal cranio del padre Cunimondo, assassinato da
Alboino re dei Longobardi. Qué barbaridad. Tuttavia lo sfrontato sovrano
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fu ucciso da Elmichi, suo scudiero, poco dopo il proprio insediamento a
Verona nel palazzo di Teodorico, non senza la complicità di Rosmunda.
“La vendetta è meglio dell’orgasmo”, sosteneva la strega chiamata Elvira
facendo ballonzolare le tette gonfiate al silicone.
Tra eros e thanatos, Teodolinda scelse la terza via: la virtù. Birraia. Infatti,
la figlia di Gariboldo di Baviera sapeva preparare una birra spettacolare,
che gli invitati ai lauti pranzi tenuti nella corte di Monza ingurgitavano a
chilolitri. La cattolicissima Teodolinda l’inviava in grandi quantità anche a
Papa Gregorio Magno. Finalmente comprendo perché il locale più famoso
di Zarautz si chiamava Taberna Batikano.
Venerdì 24 ottobre 20**, h 05.16 p.m., CET. Non molto tempo fa ho
regalato all’AMIAT un ghetto blaster con lettore CD incorporato e un
registratore-riproduttore stereo per impianti ad alta fedeltà, ambedue giunti
al canto del cigno e macchiatisi più volte in tarda età del reato d’ingestione
a tradimento di nastro magnetico. Fatto sta che ora non posso più ascoltare
le cinquanta cassette superstiti della mia collezione.
Una di queste è Ritual de lo habitual dei Jane’s Addiction, un gruppo per
cui ebbi una fugace ma ardente passione a cavallo tra gli anni Ottanta e i
Novanta. Decesso dei miei macchinari di riproduzione magnetofonica a
parte, saranno tredici anni che non l’ascolto. Oltre a ciò non ne ho mai
scorso per intero il libretto, intitolato in modo piuttosto bizzarro Noven A.
Tra crediti vari e liriche Perry Farrell ha inserito un lungo scritto dedicato
alle “zanzare intellettuali”. Il paragrafo centrale è una sorta di Sylv’s
Longing Speech al maschile:
Qualche volta ho desiderato di essere una donna. Una donna è la più attraente
creatura che la natura ha da offrire all’uomo. Perché allora è una vergogna
vederla svestita? Io provo molta più vergogna come uomo a vedere un grande
magazzino in costruzione. Com’è complementare la donna all’uomo! Il loro dare
amore è senza paura. La natura ha fatto la cosa giusta nel legare l’infante alla
femmina. Però esse si portano anche appresso un senso di tristezza. Quasi come
celassero una premonizione di pericolo che non possono scrollarsi di dosso. Io
comprendo perché vogliano proteggere i loro bambini, ma per il loro stesso bene,
lasciatemi notare che sebbene voi possiate avere da spiegare ai vostri pargoli cose
che voi percepite come sbagliate, è meglio avere la libertà di spiegare ciò con
parole vostre piuttosto che essere ridotti al silenzio da un governo che ha il potere
di schiacciare chiunque si opponga alle loro vedute. Questo potrebbe far sì che un
giorno il vostro bambino stia all’opposizione. Chi contrasta il debole ronzio che
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ci suggerisce che tutte quelle donne sono sottomesse all’uomo. Le donne hanno
motivo di vivere e ragioni per morire con dignità. Ma non sempre le cose sono
andate così.
Mi sento in perfetta concordanza con questi concetti, benché Perry sia un
soggetto piuttosto controverso: non lo siamo un po’ tutti? L’uomo è duale
per natura. Si può, nello stesso tempo, essere “fuori” e avere ragione. Si
può essere inappuntabili executive di giorno e serial killer di notte. Che
due marroni mi fa tutto quel frasifattume da telegiornale mediasettiano,
“era un ragazzo così ammodo ma ha ammazzato la fidanzata a sprangate e
poi con un bisturi le ha resecato la vagina e l’ha messa nel congelatore
accanto alle granite al limone”!
Ora però avrei proprio voglia di riascoltare ’sto dannato nastro, sentire di
nuovo l’intro supersonica di Stop! scartavetrarmi le orecchie e ondeggiare
allo strampalato ritmo funky di Been Caught Stealing come ai bei tempi
dello Studio 2, quei forsennati venerdì rock di Mixo, bring the noise!
Che fare? Mi scapicollo fin giù al negozio d’elettrodomestici all’angolo
che sta svendendo tutto? Ni hablar. Coi tempi che corrono, è meglio che
mi tenga stretti quei quattro euro che serbo in banca. Orbene, ripiegherò su
Kings of Oblivion dei parimenti eccessivi e drogatissimi Pink Fairies: la
seconda canzone, stellare, s’intitola I Wish Y Was A Girl: vorrei essere una
ragazza…
Nel 1620 i Padri Pellegrini approdarono alla sponda rocciosa occidentale
della baia di Cape Cod, nel Massachusetts sud-orientale; quella regione
apparentemente inospitale era stata battezzata Plimouth in una mappa del
New England disegnata da John Smith nel 1614: i coloni ne cambiarono il
nome in Plymouth. “Non potremmo reggere per molto tempo un’ulteriore
ricerca, avendo quasi finito i nostri viveri, specialmente la birra” scrisse
William Bradford, secondo governatore di Plymouth, nel suo resoconto di
prima mano History of Plimouth Plantation.
Non che fossero dei beoni inveterati. In verità la birra ricopriva un ruolo
fondamentale per la sopravvivenza, poiché l’acqua nella stiva delle navi
diveniva presto rancida. Non molto tempo dopo il loro arrivo nella nuova
terra, i Pellegrini introdussero i loro nuovi amici, gli indiani della tribù dei
Wampanoag, alle gioie della birra. I Wampanoag ricambiarono facendo
loro conoscere ciò che sarebbe diventato un ingrediente comune della birra
negli Stati Uniti: il grano.
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Dopo essere sopravvissuti a una critica mancanza di birra durante i primi
mesi seguenti il loro arrivo, i Pellegrini designarono l’edificazione di un
birrificio quale priorità basilare. Come fu stabilita la colonia, le cucine
casalinghe divennero fabbriche di birra e, in conformità alla tradizione, la
mansione del brewing fu assegnata alle donne. Mi pare di vederle, quelle
creature timorate di Dio e infaticabili, con le loro cuffie bianche inamidate
e le gonne lunghe fino ai piedi, tenere d’occhio la fermentazione nei tini:
B, La Lettera Dorata.
Lo scorso gennaio, io e la mia fidanzata americana stavamo attaccando la
prima di una lunga serie di Miller Lite da O’Leary Tiki Bar & Grill,
Sarasota, Florida, quando due personaggi, sui 55-60 anni a occhio e croce,
sopraggiunsero a impadronirsi dell’unico pezzo di bancone rimasto libero
al momento, proprio di fianco a noi. I loro indumenti, camice hawaiane
pantaloni corti e ciabatte infradito, erano un pelino leggeri perfino per un
inverno clemente qual è quello della costa ovest della Florida, dov’è raro
che la temperatura notturna scenda sotto i 12 gradi centigradi.
Un’altra splendida giornata volgeva al termine. Era il mio primo viaggio
in assoluto nei mitici (e mitizzati) Stati Uniti d’America e i sentimenti che
provavo per Miss Jane Ann Thomas, sublime prodotto di Dna toscano – da
parte di madre –, gallese e olandese, crescevano di giorno in giorno,
totalmente ricambiati. Wow, stavo proprio una favola. La Miller Lite
scendeva giù che era un piacere, fresca e corroborante. Lo stereo del bar
all’aperto suonava Can’t Hardly Wait dei Replacements. La mia donna
profumava di Pink Sugar. Don’t pinch me, I’m dreaming.
L’accento dei due uomini mi suonava cinese. “Di dove sono?” domandai a
Jane sottovoce. “Di Boston” sorrise lei. Dopodiché chiese loro conferma:
“Ehi, ragazzi, siete di Boston, vero?” Creatura esuberante, la mia Jane.
Il più anziano dei due almeno all’apparenza, barba bianca da capitano di
lungo corso ed eritema etilico, partì subito in quarta a fare lo splendido; il
suo compare, più austero e occhialuto, rimase seduto sul suo sgabello. Io
dosavo sorrisetti di circostanza sforzandomi nel contempo di comprendere
ciò che il Capitano Nemo andava dicendo. Chiamasi accento non-rotico:
ossia, che omette e/o sostituisce la pronuncia della erre quando seguita da
consonante o a fine parola. Se voi ordinaste un’aragosta nel Massachussets
o nell’attiguo Maine come lobster, il cameriere potrebbe riprendervi con
puntiglio: “It’s lobstah, sir, not lobster.” Colà lo schiaccianoci, nutcracker,
si pronuncia nutcrackah.
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Per deficit d’attenzione o mancanza d’interesse, non capii che accidenti ci
facessero quei due a Sarasota; vacanze, lavoro sugli yacht, contrabbando
di cocaina o di microchip militari da vendere ai cinesi, fate voi che sapete.
Dopo un po’ anche il quattrocchi e due stanghette, anch’egli con lanugine
canuta ma più alto e dinoccolato, venne a offrire il proprio contributo alla
chiacchierata: hey, ma sei italiano?, mia nonna materna era italiana, che ci
fai in Florida, sei uno chef? (un classico. Negli Stati Uniti me lo chiedono
tutti; e, manco a dirlo, ogniqualvolta rispondo che faccio il copy bla bla
bla mi guardano con gli occhi a palla) e così via.
Tempo di bere un’altra birra leggera e i due soggetti levarono le ancore; io
e Jane proseguimmo a sbronzarci, mentre l’aria rinfrescava sensibilmente
e la notte calava sulle bianche spiagge della costa. Joe Perry, storica ascia
solista degli Aerosmith, possiede una villa a Longboat Key, pochi minuti
d’auto da Sarasota; pare sia un’emerita testa di minchia repubblicana, ma
invero non ho mai nutrito dubbi al riguardo. Lo era anche Johnny Ramone,
ciò nondimeno non ho smesso di amare i Ramones per quello. E neppure
gli Aerosmith. Let the music do the talking.
Il giorno seguente, in preda a un discreto mal di capoccia da doposbronza,
stavo sorseggiando la mia seconda tazza di tè della mattinata, quando Miss
Thomas, scalza, scarmigliata, stratosfericamente desiderabile, venne a me
brandendo un pezzetto di carta quadrettata: “Ma tu guarda che ho trovato
nella mia borsetta... ” Aggrottai la fronte e lessi; c’era su scritto un nome,
Frederick, cioè Captain Nemo, seguito da un numero di telefono. Quello
spudorato d’un bostoniano glielo aveva infilato nella borsetta a sua/nostra
insaputa.
“...e vuoi saperne un’altra? Mentre tu eri in bagno quello con gli occhiali
gli ha bisbigliato nell’orecchio, convinto che non avrei sentito: hey Fred,
cerca di non baccagliarti troppo ’sta donna ok?, che il suo uomo potrebbe
anche essere della mafia.”
Come no. Maury Soprano. Dissi: “Veramente? Ma vaffanculo loro e tutta
la Citta' Fagiolo!” Jane rise con me, poi appallottolò il biglietto e lo gettò
nel cestino dei rifiuti.
Comunque sia, killer di Cosa Nostra o meno, se ribecco quel cascamorto a
Sarasota gli faccio un didietro a capanna: anzi, a capannah.
Se c’è almeno una cosa che ho appreso in quel biennio di servizio prestato
all’ente Advertising & Promotion del gulag Basse di Stura, è che il mondo
è ormai irrimediabilmente in mano agli esperti di marketing. La loro arma
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di persuasione-vessazione preferita? Foeminae, ora più che mai. Meglio se
svestita, allusiva, provocante. Il sedere muliebre è la vera icona di questo
primo decennio del ventunesimo secolo.
L’associazione mercantesca “birra e fascino venereo” ha più di due secoli
di vita. Nella cruciale transizione tra l’Ottocento e il Novecento, i birrai si
trovarono a fronteggiare l’esigenza di far conoscere i propri prodotti a una
popolazione di consumatori ogni giorno più ampia. Bando agli eufemismi:
essendo che il maggior fruitore di birra era, e rimane tuttora, l’uomo, si
doveva prenderlo per le palle. Ecco allora gli intrepidi grafici pubblicitari
dell’epoca sbizzarrirsi a illustrare le reclame con donzelle abbigliate come
nel film Amore e ginnastica che porgevano, alzavano al cielo o servivano
boccali traboccanti spuma. Il massimo del sexy lo offriva la reclame del
birrificio americano Ringler & C., con una tizia ignuda dalla vita in su (e
tutt’altro che anoressica) avvolta in un drappo a stelle e strisce.
Lo stereotipo che abbina la birra chiara a una ragazza bionda dalle forme
sensuali, possibilmente scandinava perché, si sa, gli uomini preferiscono le
bionde boreali e i maschi mediterranei più di tutti, nasce con l’inizio dei
turbolenti anni Settanta. La Stubing col vestitino di cui ho già accennato,
oppure legata a una bottiglia di Peroni con un Nastro Azzurro: sottilmente
fetish con una spruzzatina di bondage, molto prima che questi due termini
ci sfruculiassero quotidianamente l’esistenza. Dopo la deliziosa omonima
kartoffel dello scarsocrinito capitano di Love Boat, un diluvio di sventole
d’ognidove di cui ho perso la contabilità, sempre meno vestite, sempre più
ammiccanti. Sempre più bone, diciamocelo pure. Come la creatura dai
meravigliosi occhi blu cobalto che, vestita più o meno di nulla, ci invita a
bere la Viru, Premium Estonian Beer.
E le birre scure? Le mie predilette brune? Le rosse? Vogliamo ostracizzare
tutte quelle bellezze dai capelli tizianeschi solo per quella maldicenza da
caserma circa il lezzo delle loro parti intime? Mi sono tuffato nella rete per
cercare fotografie, poster, spot, “gnomi e cognomi”, come direbbe il Mago
Gabriel. Ho scovato due mirabolanti ancorché antitetici ads della Guinness
e una fotografia che ti scioglie il cuore come fosse una noce di burro.
Vai col primo spot. Una ragazza bruna con tutta la passione del mondo
racchiusa in una splendida bocca siede da sola in un pub, gli occhi bassi,
tamburellando con le dita sul bancone. Tutt’a un tratto una mano introduce
un gettone nel juke-box: ne scaturisce una bellissima canzone d’amore. Un
sorriso radioso come una stella appena nata illumina il volto della ragazza:
è arrivato il suo partner! Anche lui è un pivello mica male. S’abbracciano
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con trasporto. Il barista serve loro due gagliarde pinte di Draught. Lei beve
un sorso e le rimane un pizzico di schiuma sul nasino: lui gliela toglie via
con un bacio. Lei allora beve un altro sorso e, a bella posta, ammiccando,
si lascia le labbra bagnate di schiuma cremosa affinché lui le dia un altro
bacio: che teneroni! Tutto questo avviene sotto lo sguardo trasognato di
una nerd dai capelli biondo-ramati seduta più in là: a onor del vero se si
togliesse gli occhiali e il maglione all’uncinetto sarebbe un bel fighino, ma
si sa, l’iperrealismo è il sale e pepe della pubblicità. Il bonario bartender
le allunga una pinta con una strizzata d’occhio, come dicendo: “Anche tu
ce la puoi fare, ragazza.” Così, con un sorriso svenevole la bruttina fittizia
si volge a sinistra laddove siede un magnifico esemplare di provola irish
che, secondo copione, ricambia l’attenzione con visibile imbarazzo; quindi
lei, colta da travolgente mimesi, ghermisce il boccale e vi sciaborda dentro
il viso tornando a sorridergli tutta impiastricciata di schiuma. Il secchione
peldicarota, dopo un momento d’esitanza, si catapulta a baciarla. I due
finiscono abbracciati al suolo trascinandosi dietro bicchieri a campana e
sgabelli: Guinness, a stout with love. Fantastico.
Secondo spot. Il dorso nudo e lucido di sudore di una signorina appecorata
con una bottiglia di Guinness poggiante in precario equilibrio sulla zona
lombo-sacrale. Sullo sfondo, una tappezzeria da hotel d’infimo ordine.
Motivetto imbecille da film porno vintage. Dall’oscillazione sincronica di
bottiglia e corpo appare immantinente palese che qualcuno sta penetrando
sessualmente la donna da dietro. Quel qualcuno dopo un po’ allunga una
zampa, agguanta la bottiglia e ingolla un sorso fuori campo senza smettere
di pompare, poi emettendo un “Ahh!” di piacere la riappoggia esattamente
dov’era. Tempo due-tre buoni colpi di fianco e un’altra mano, dal lato
sinistro dello schermo, entra in campo e tira su il vetro: multitasking, la
ragazzotta! Ma non finisce lì… Nel momento in cui compare la scritta
SHARE ONE WITH A FRIEND, una terza manaccia spunta all’orizzonte
e prende la bottiglia. E il suggerimento si completa: OR TWO. O meglio:
OR THREE. Alquanto spinto, ma divertente.
La fotografia. Una bella ragazza dal look retromoderno, Randi Ingerman
del Connemara, seduta a gambe distese e accavallate dietro la vetrina di un
locale elegantemente arredato, il dorso appoggiato allo stipite, una mano
sul davanzale nascosta dalla cornice, l’altra avvolta intorno a un boccale di
Guinness – dita distanti, affusolate –, la testa riccioluta da una parte. Chi o
cosa stai guardando, Randi Connemara? Il tuo ragazzo, o la tua migliore
amica, è in ritardo? Provi interesse erotico per quel malpelo nerboruto che
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sta scaricando fusti di birra dal bilico sul marciapiede di fronte? Magari ti
piacciono le donne, e quella spilungona con l’impermeabile bianco sotto la
pensilina dell’autobus somiglia davvero molto a Samantha Morton, la tua
icona platonica: ti confesso che, sebbene non sia proprio il mio tipo, mi va
parecchio a genio, anche come attrice. Oppure stai soltanto gustando la tua
meritata pint of plain dopo una stressante giornata di lavoro, scrutando
finalmente rilassata e libera d’ogni pensiero il calar della sera sul termitaio
umano. Mi piacerebbe tantissimo offrirtene un’altra.
Nell’antica Roma il consumo di vino era vietato alle donne: secondo i
Romani, esso metteva in serio pericolo la condotta sessuale della donna,
col rischio di condurla all’adulterio, ad inconcessam venerem. Col tempo
le fu concesso di bere il vino passito e in genere i vini dolci, cioè tagliati
con acqua o profumi.
Più che due millenni abbondanti, sembra passato un eone da allora. Oggi
le donne sbevazzano che è un piacere, ragazzine o mature che siano, per
quanto preferiscano il vino e i cocktail alla birra, almeno qui nel Belpaese,
per diversi motivi compreso quello meramente fisiologico: laddove a me
ci vogliono tre-quattro birre medie per far scattare l’allarme alla cisterna, a
loro è sufficiente un mojito e mezzo. Guai a essere prima di loro in coda
per soddisfare l’acre necessità, soprattutto quando vi è un bagno solo nel
locale! Talune fanno le caramellose per pungolare il gentiluomo che è in
te, schiacciato sotto strati archeologici di disincanto. Le più screanzate ti
passano davanti e quando escono manco ti chiedono scusa. E se ti tocca il
turno prima di una brigata di ninfette suburbane conciate come le Pussycat
Dolls, aspettati pure che prendano a tempestare di pugni la porta del cesso
neanche quindici secondi dopo il tuo ingresso: vale a dire, appena il tempo
di tirare giù la zip ed estrarre la pompa. Quest’ultimo è un comportamento
che mi fa incazzare come un vaporetto del Mississipi.
La femme! Il futuro potrebbe risolvere la sua atavica incontinenza. Nella
quarta parte del suo grande romanzo Guerra eterna (“Maggiore Mandella,
2458-3143 d.C.”) Joe Haldeman descrive fuggevolmente piccole capsule
da rompere e accostare al naso per fiutarne il contenuto: l’ufficiale medico
dell’astronave comandata da Mandella, la bellissima dottoressa Alsever,
ne fa discreto uso. Fin troppo semplice è spingersi a ipotizzare una capsula
mojito e una screwdriver o finanche una mini-capsula chupito de ron con
zumo de fruta, per eterna pace della vescica femminile. Alsever è lesbica.
Nel XXVI secolo sulla Terra essere gay è la norma: l’eterosessualità è
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considerata una disfunzione emotiva, relativamente facile da correggere.
Ma la birra esiste ancora, tant’è vero che a inizio capitolo prima di partire
per l’ennesima campagna Mandella se ne scola ben otto prima di decidersi
ad assaggiare un drink del momento: “Il rum Antares era un bicchiere alto
e sottile, con un poco di ghiaccio che galleggiava sul liquido color ambra
pallido. Sul fondo c’era un globulo rosso vivo, grosso quanto un’unghia,
circondato da filamenti ondeggianti.” Pure la libido femminile, per quanto
geneticamente “orientata”, conserva le sue caratteristiche salienti: una su
tutte, l’arrapamento conseguente all’assunzione d’alcol. Cosicché durante
la missione succede che la Alsever, dopo essersi inebriata di una robaccia
prodotta nella distilleria improvvisata della Masaryk II, tenta di offrirsi al
maggiore: “tenta”, sì, perché la desuetudine all’etanolo la stende sul più
bello. Comunque beccatevi questo spoiler e zitti: verso la fine del romanzo
Diana Alsever si fa convertire in eterosessuale. Ma non sarà Mandella ad
approfittarne.
Holy Fire (“Fuoco sacro”) è l’unico libro di Bruce Sterling che posseggo.
Il Ventunesimo Secolo volge al termine e una Multinazionale nel campo
della medicina domina il mondo economico grazie alle ultime scoperte nel
campo del prolungamento della vita. Nella migliore tradizione cyberpunk
è un mondo di droghe sintetiche, d’individualisti metropolitani che vivono
di espedienti, di governi paternalistici. Il potere politico è nelle mani di
una gerontocrazia che controlla le più avanzate tecnologie per ringiovanire
e le masse si arrabattano alla bell’e meglio. Mia Ziemann, novantaquattro
anni, californiana di San Francisco, di professione economista sanitaria, ha
deciso di sottoporsi a un trattamento chiamato Disintossicazione Cellulare
Dissipativa Neo-Telomerica, che la farà tornare giovanissima e vivere per
sempre. Ma non vuole sottostare al susseguente programma di ricerca cui
quelli della Multinazionale la sottoporrebbero per averne usufruito. Così,
bellissima e post-umana, se ne scappa in Europa col nome mutato in Maya
per vivere la sua nuova, sempiterna vita. Prima tappa del wanderjahr è
Monaco di Baviera. Lì Maya conosce Ulrich, fascinoso anarcoide: “Vieni
con me, e ti porto alla famosa Hofbrauhaus. Si mangia carne. E si beve
birra!” Più o meno: Maya scopre che nel 2096 i birraioli tracannano grossi
boccali di malto bollente mentre l’alcol lo sniffano soltanto, tirando da
piccoli inalatori con un preparato lipidico. Quella maniera stravagante di
assumere l’alcol riduce il dosaggio, preservando il fegato dal contatto
diretto con le sostanze tossiche. Per soddisfazione dei discendenti del prof.
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Remuzzi. In ogni modo, Maya si rifiuta di provare la post-birra: è il sesso
che desidera, tra le inumerevoli cose. Brava post-ragazza.
Ma come spesso succede la realtà supera la fantasia. Un gruppo di studenti
dell’Helicon Vocational Institute, vicino Amsterdam, ha realizzato l’alcol
in polvere come progetto di fine anno. E le ha affibbiato anche un nome:
Booz2Go. Disponibile in bustine da venti grammi dal costo di un euro e
mezzo, aggiungendovi acqua si ottiene una bevanda al gusto di lime con
tanto di bollicine dal tasso alcolico pari al 3%. Il problema è che, non
essendo Booz2Go alcol in forma liquida, potrebbe essere smerciato anche
ai minori senza infrangere la legge. Staremo a vedere. Io, per me, sto
compiendo già eccessivi sforzi per rimanere al passo coi tempi; mi rifiuto
categoricamente anche soltanto di immaginare che fra trenta-quarant’anni
– anch’io, come il nostro corrente modestissimo Presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi, sono certo di campare centoventi anni, e bene! – potrei
dovermi accostare al bancone di una birreria e chiedere a un androide “una
bustina di Menabrea Booz e una media d’acqua naturale, grazie.” Finché è
lievito marziano va ancora bene.
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Figura 7. Io e Jane in azione da O’Leary.
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GRAZIE CHE HO BEVUTO
In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa
al fine di controllarla, è forse sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto
riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio.
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare.
Mercoledì 5 novembre 20**, h 10.29 a.m., CET. Per uno come me, che
respira e mangia libri dalla nascita, una biblioteca trabocca di tentazioni
fuorvianti dal lavoro quasi come un Midsummer Night’s Dream Party alla
Playboy Mansion per un predicatore evangelico. Oggi, per esempio, ho
qui posato accanto al notebook The Complete Bowie di Nicholas Pegg,
l’enciclopedia definitiva di Mr. David Jones alias Ziggy Stardust alias
Thin White Duke alias David Bowie. Di quest’uomo amo essenzialmente
cinque dischi: Station To Station, Low, Heroes, Lodger e Scary Monsters.
Sono vittima di una vera e propria ossessione uditiva per tutti i chitarristi
che lavorarono con lui durante quella fase abbagliante della sua carriera,
ossia Carlos Alomar, Earl Slick, Ricky Gardiner, Robert Fripp, Chuck
Hammer, Adrian Belew e Stacey Heydon. Fripp e Belew vengono da
Urano. Alomar è uno dei più talentuosi chitarristi ritmici della storia del
rock. Gardiner si presentava sul palco in salopette. Sia Carlos sia Ricky
suonarono con Iggy Pop, in studio e dal vivo. Di Gardiner il produttore
Tony Visconti disse: “Era completamente fuori di testa ed era un autentico
mago degli effetti speciali. Verso di lui nutrivo una sorta di timore
reverenziale” Il suo contributo a Low non è mai stato valutato nella giusta
misura, cioè prezioso, ma il bravo chitarrista scozzese è comunque passato
alla storia per aver ideato il riff di The Passenger “in un amabile mattino
di maggio presso casa mia, guardando i meli in fiore”, com’egli stesso
racconta in un’intervista risalente al 2000.
Che personaggi. Che tempi. Ammassi globulari di richiami nella mia testa.
Iggy e la sua band al Dinah Shore Show nel 1977: Hunt Sales alla batteria,
Tony Sales al basso, Ricky Gardiner e il Duca seduto al pianoforte trattato
con una paglia in bocca. Iggy all’Ippodromo di Parigi parlando in francese
al pubblico. Iggy che al principio degli anni Novanta racconta ridendo a
un giornalista nostrano: “A Berlino andavo avanti a polvere boliviana,
salsicce e birra.” Diavolo d’un Totò Osterberg.
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Fin dall’antichità l’uomo si è trovato a creare ruoli mistici e separati per
l’atto del bere: benché spesso celebrato entro il generico rito di un pasto,
esso rimane sempre appartato in un rituale a sé. Gli antichi Sumeri, ad
esempio, si mantenevano a rispettosa distanza dalle loro bevande mediante
lunghe cannucce di paglia. Il fatto che le cannucce permettessero a coloro
i quali partecipavano al rituale di bere da un unico contenitore consentì
l’affermazione di un evento comunitario. Uno poteva condividere un senso
di profondo cameratismo con gli altri bevitori membri del suo gruppo di
coppa. Quest’antico costume è ancora parte intrinseca dell’attività sociale
di molte tribù africane odierne; in Occidente è stato ripristinato per i nuovi
cerimoniali della sbronza collettiva. La paglia è stata sostituita dalla meno
esotica plastica e i sempre più arzigogolati beveroni non hanno bisogno di
essere passati al setaccio, ma di un fegato in lega di titanio!
Da lì al brindisi il passo è breve. L’atto di offrire simbolicamente una
bevanda a una divinità fu senz’altro una parte indispensabile delle offerte
di preghiera e feste religiose fin dall’alba della storia in ambo le comunità
pagane e giudaico-cristiane. In questo senso il moderno cincin può essere
considerato come una derivazione dell’Eucarestia! In qualsiasi modo vi
sono stati molti misteri associabili al consumo di pane e vino fra tutte le
comunità religiose, inclusi i Nativi Americani. Anche i seguaci del Dalai
Lama in Tibet celebrano in stile eucaristico. Gli Egizi festeggiavano ogni
anno la resurrezione di Osiride consumando pane in forma di torta sacra
od ostia dopo che era stato benedetto da un sacerdote e così divenuto carne
della carne del dio; poi s’inzuppava il pane nel vino e si comunicava al
fedele di aver mangiato il corpo e il sangue di Osiride. La lista potrebbe
continuare per un bel pezzo.
Nell’antica Grecia il brindisi tra due persone era chiamato proposis, “la
bibita prima”. Colui che proponeva il brindisi dapprima sorseggiava, poi
dava il recipiente che conteneva il resto del vino alla persona onorata; in
occasioni di particolare rilevanza la tazza stessa era un regalo permanente
al ricevitore. A uno sposalizio, per citare un caso, una coppa dorata piena
di vino sarebbe passata in questa maniera da suocero a genero. La coppa
diveniva un simbolo della sposa, “accompagnata all’altare” (com’è ancora
in uso dire) da suo padre; i due uomini, le due famiglie erano ora una cosa
sola nel vino condiviso.
Notevolmente più a nord e avanti lungo la linea temporale, nelle notti di
luna piena, i sacerdoti guerrieri di Odino offrivano brindisi al proprio dio
nell’ambito di riti da connotati proto-heavy metal: niente vetro finemente
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lavorato, solo metallo grezzo, cuoio e sangue. Più tardi essi svilupparono
la pratica di usare il teschio di un nemico caduto come coppa d’offerta
sacrificale, e alcuni studiosi sostengono che quest’uso diede origine al ben
noto brindisi scandinavo “Skoal!”. Indubbiamente questa parola e skull
(“teschio”) sono etimologicamente correlate, significando entrambe “una
cosa cava”. È anche interessante notare che mentre il brindisi non è mai
stato una tradizione molto forte nei paesi dell’area mediterranea fin dalla
nascita del Cristianesimo, gli sono stati attribuiti termini germanici in
francese, italiano e spagnolo. La forma teutonica del costume di brindare
sembra essere stata reintrodotta in quei paesi in qualche periodo durante il
sedicesimo secolo. Come risultato in italiano e spagnolo “brindare” si dice
rispettivamente “brindare” e “brindar”, dal tedesco “ich bring dir’s”, un
brindisi che significa “io lo porto a te”. Nella lingua francese la parola
“trinquer” viene dal tedesco “trinken”, ossia “bere”.
In lingua inglese “fare un brindisi” si dice to drink a toast. Questo modo di
dire viene dalla pratica britannica di mettere a galleggiare sulla bevanda
un pezzetto di pane tostato addolcito o aromatizzato. Un’usanza antica,
derivante anch’essa dalla tradizione degli eventi religiosi eucaristici della
storia: dopo che tutti gli ospiti avevano diviso la coppa, si attendeva che il
padrone di casa ne sorbisse le ultime gocce in onore dei commensali e
della devozione alla propria deità.
Neanche a dirlo, la letteratura italiana classica e moderna sovrabbonda di
libagioni. Ulisse brindò a Polifemo dopo che il ciclope ebbe divorato uno
dei suoi compagni, e con un brindisi intriso di speranza si congedò da
Alcinoo, re dei Feaci. Orazio invitò a levare i calici alla transitorietà del
presente, il celeberrimo Carpe Diem dell’Ode a Leuconoe: “Afferra
l’attimo e diffida del dubbio domani.” Tra il XII e la prima metà del XIII
secolo ritroviamo l’atto del brindare con gli amici nelle liriche goliardiche:
“Un brindisi lunghissimo sia per noi saluto: e duri questo uso per secoli
infiniti. Amen.” Nel Rinascimento il brindisi ritorna nel Galateo di Mons e
nella Canzone di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico, una bella
ballata che invita a godersi l’esistenza che scorre via. Nel Settecento esso
compare, a tinte più malinconiche, decisamente classicheggianti, nelle
opere di due immensi letterati italiani: Alfieri e Parini. Nell’Ottocento è il
Manzoni a descrivere ne I promessi sposi tre brindisi: il primo ha come
protagonisti frà Cristoforo e i notabili a pranzo da Don Rodrigo; il secondo
vede Renzo nell’osteria “Alla luna piena”; è ancora Renzo, sul carro dei
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monatti, ad assistere al terzo brindisi. Altresì popolare è la bicchierata
musicata da Verdi ne La Traviata: “Libiam ne’ lieti calici / che la bellezza
infiora / E la fuggevol ora s’inebri a voluttà”, cantata da Alfredo cui
risponde il coro dei commensali.
Mercoledì 12 novembre 20**, h 10.06 a.m., CET. Ribadisco che un
doposbornia moderato, diciamo le tre medie chiare e i due gin tonic che ho
ingollato ieri sera al Lab, contribuisce a far fluire meglio le idee. I miei
denigratori se la ghigneranno. Per quanto io sia uno scrittore enormemente
trascurato, ne ho un discreto numero. Certuni sostengono che ho un lessico
pietoso – tipo un paio di capisaldi della cultura torinese, il divertente è che
entrambi sono straconvinti che io nutra per loro profonda stima. Altri mi
accusano di sparare minchiate come un bazooka e addirittura di traviare le
nuove generazioni con le mie narrazioni sul mondo del tifo organizzato.
L’ex proprietaria veterofemminista di un pub che ero solito frequentare mi
ha tacciato di misoginia: nel 1982 ti avrei dato ragione, bella mia. Io, per
mio carattere, accetto molto volentieri i buoni consigli, ma nel momento in
cui sento puzza di preconcetto prendo a eruttare zolfo fuso e biossido di
zolfo come i vulcani di Io, l’infernale satellite di Saturno; inoltre, come già
espresso all’inizio di questo libro per mezzo di una citazione colta, ho una
pessima opinione dei critici d’arte. A loro e a tutti i miei stimatissimi
nonché munifici editori ho dedicato sul mio sito una libera interpretazione
di Crash Street Kidds, classico proto-punk dei Mott the Hoople:
Guarda i miei pensieri, guarda le mie cicatrici, guarda i miei vestiti, sono vestito
per uccidere
Guarda il mio sangue, e guarda la mia pistola
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
(È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!)
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
(Sei fatto, sei fottuto, sei finito!)
Considera i miei errori e considera la mia maledizione, considera la mia
frustrazione
Non sai proprio un cazzo
Nuova Città un accidente, manda a chiamare il carro funebre
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I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
(È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!)
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
(Solo per divertimento, per sballo, per sciambola!)
Taglieremo i fili, ti bruceremo, sono stanco di resistere
Ti tortureremo le piante dei piedi, ci tratti come dei topi di fogna, poi il resto
Hai detto loro che siamo dei monelli e la repressione contorce i nostri pugni
Fatemi uscire da questa nebbia…
Sentimi imprecare, senti ogni parola, io non sono soltanto un numero
Voglio essere ascoltato, il presentatore televisivo parla con la gentaglia
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
È meglio che corri
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Morditi il pollice
Sono stato tenuto all’oscuro, sono involuto, sono stato annullato
E tu te ne sbatti i coglioni
Tu sei così puro, tu conosci i rimedi, cioè mantenermi povero
Il piccolo delinquente giovanile
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Corri…
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Uno è tuo figlio…
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Nasconditi…
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Fatti una corsa…
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Troppo tardi…
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Dove sono i tuoi amici?
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Sei smascherato
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
91
Ora sei accerchiato…
I Raga Casinari stanno venendo a prenderti
Ora sei morto… sei morto…
SEI MORTO!!!
DUE RAFFICHE DI AK47.WAV PER VOI, PREDATORI DI SOGNI!
La biblioteca Bernaulo è quasi vuota oggi. Le foglie degli alberi intorno
mostrano ormai tutte le malinconiche bellissime colorazioni della season
of wither. Il cielo è un fulgore grigiastro, quasi uniforme. Le mie occhiaie
fanno pendant col panorama: non avrò mica contratto l’epatite? Trascino
nel Windows Media Player Aftermath dei Rolling Stones: nelle cuffiette
rende molto bene, si apprezza soprattutto il fuzz bass di Bill Wyman, una
scelta senz’altro originale quella di distorcere il suo strumento anziché le
chitarre come facevano tutti nel 1966. Probabilmente Keith Richards non
si sentiva ancora abbastanza a proprio agio con le sonorità motoristiche
emesse da quelle portentose scatolette al germanio. Poi vi s’impratichì e
già dal long playing seguente, Between the Buttons, la sua chitarra si fece
più roboante, dura, piccante: e in Their Satanic Majesties Request, perfino
cosmica. Con l’aiutino di una certa sostanza chimica scoperta da Albert
Hoffman il 16 aprile 1943.
Think, think. Porca miseria ladra, ma dov’è finito il video che m’interessa?
Credevo d’averlo importato qui dal precedente computer che ho rottamato.
Macché. Ecco un’altra vittima della sindrome da tabula rasa digitalizzata
che mi affligge da qualche tempo. Dunque mi toccherà scaricarlo un’altra
volta o andare a memoria. Scelgo la prima possibilità, quantunque potrei
recitarne ogni singola battuta come neppure Quei bravi ragazzi di Martin
Scorsese: un capolavoro che ho visto almeno trenta volte, e non mi stanca
mai. Proprio come l’Età dell’Oro delle Pietre Rotolanti.
Due anni e mezzo or sono, in un bel mattino di primavera, aprii l’Outlook
Express e passato qualche minuto mi ritrovai a smadonnare: qualcuno mi
aveva spedito una e-mail con un allegato troppo “pesante”. Io ero, e sono
tuttora, un pitecantropo a 56K che saltuariamente ricorre al warwalking,
cosicché dovetti far buon viso a cattivo gioco e attendere un altro quarto
d’ora abbondante prima che il messaggio fosse scaricato completamente
dal programma.
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Il testo era il seguente: “Ciao Profiu (è uno dei miei due soprannomi da
battaglia, l’altro è Messia N.d.A.), devi assolutamente guardare questo
filmato, è un vero spasso!” Firmato, Daffy.
Detto, fatto. Lanciai ulteriori imprecazioni nell’aria del mio studio poiché
il video necessitava di un codec per essere riprodotto dal Windows Media
Player, ma una volta scaricato quello potei finalmente scoprire di che si
trattava.
Scorsero tre secondi di schermo blue blue electric blue that’s the color of
my room. Al quarto comparve un pannello elettorale: “Giovanni Bivona,
Patto per la Sicilia, Elezioni Provinciali 25-26 maggio 2003, collegi di
Agrigento-Favara/Canicattì. IO PROTESTO, E TU?”
Già mi scappò un risolino dalle narici: il candidato era un faccione siculo
dalla marcata calvizie fronto-occipitale ma con i capelli superstiti lunghi
fino alle spalle a bottiglia e una camicia bianca dal colletto spropositato,
come quelle che indossava il leggendario pornodivo Ron Jeremy nei suoi
filmacci degli anni Settanta. Prometteva esplosioni di raggi gamma e
supernove.
Ancora qualche attimo e cominciò il filmato vero e proprio. Da una strada
alberata di Favara, Agrigento o vai tu a sapere, Giovanni Bivona lanciava
il suo proclama avanzando lentamente verso la telecamera: “La politica, è
triste. Facciamola diventare allegra.” E poi, fermatosi: “Protestate, con
me.” Camicia e volto stropicciati, come si fosse alzato appena tre minuti
prima da una suntuosa siesta estiva profondo-italiana dopo una spanciata
di melanzane alla parmigiana e cannolicchi annaffiata di Nero d’Avola.
Seguì una ripresa al rallentatore del Sicilian Candidate stringendo la mano
ai suoi sostenitori (per chiamarli in qualche modo) e un coro abborracciato
degli stessi: “NOI PROTESTIAMO!!! NOI VOTIAMO GIOVANNI
BIVONA!”
Da lì in avanti, spettacolo! Bivona che sulle note introduttive all’inno di
Mameli esce dal portone di un palazzo agitando scompostamente il pugno
sinistro accompagnato da un doppio squillo di clacson: “Sto arrivando, sto
arrivando!” Bivona che chiuso in una specie di camera anecoica snocciola
il suo programma: “Io sono qui per... dirvi che dobbiamo lottare tutti uniti
e assieme, uno per tutti e tutti per uno, perché non se ne può più di queste
cose che manca il lavoro, manca… ehhh… il turismo, manca l’edilizia,
manca… iiih… la serietà della gente in famiglia, manca la sicurezza del
lavoro…” e tralignando nel dialetto siciliano “’Un si voglie spusare più
nuggu perché manca u trabagghiu” Bivona esortante il popolo siculo alla
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ribellione: “Protestiamo, protestiamo, protestiamo, protestiamo…” manata
collerica al muro “…e protestiamo!” Bivona incazzato perché: “Manca
l’acqua! Ha piovuto da maddina a sera, un inverno che chiuvi… e manca
l’acqua!”
E così via. Alle Provinciali il Patto per la Sicilia è stato polverizzato, ma
Giovanni Bivona, di professione barbiere, ha ottenuto la classica rivincita
del genio incompreso: il successo postumo. Il suo spot elettorale è finito in
rete dove è stato visto e scaricato da migliaia di utenti, anno dopo anno,
passando di forum in forum, fino a diventare un vero e proprio fenomeno
di culto di cui si è interessato addirittura un quotidiano autorevole quale il
Corriere della Sera. Perfino Google gli ha dedicato una recensione:
A Sicilian television “presenter” (or pretending to be, while he’s a barber) in his
promotional ad for a local electoral campaign in Sicily (Agrigento County
elections).
You should be sicilians to better get the meaning of the ad, but it’s funny even if
you don’t understand the meaning: you won’t believe this man pretended to be
elected!
Io invece avrei voluto che l’eleggessero, fosse soltanto per la genuinità che
promana: perché, in definitiva, ha ragione lui. La politica è triste, ogni
giorno che passa lo è di più: eppure, anche se solo per tre minuti e diciotto
secondi, lui ce la rende davvero più allegra. Ma come ci si sentirà Bivona
nei panni del comico involontario? Protesterà? Magari gli sarà venuta la
sarsa per colpa degli scarafaggi cinesi!
Diciamo tutti inzieme…
Ritorniamo al passaggio in cui l’incommensurabile Bivona protesta per la
penuria d’acqua corrente. Subito dopo lo vediamo davanti a una fontana di
marmo in compagnia di due tizi riproporre lo slogan scandendo le parole:
“Protestate-con-me”. E di seguito: “Diciamo tutti inzieme… grazie che ho
bevuto!” Intendendo: poiché manca sempre l’acqua, dobbiamo ringraziare
il cielo ogni santa volta che riusciamo a berne una stilla.
Quell’ultima frase è da due anni il brindisi ufficiale della mia compagnia.
Dovunque noi siamo, allo stadio come al ristorante o al pub all’angolo,
qualunque bevanda si sia tracannando tranne ovviamente l’acqua e i drink
analcolici, brindiamo sempre così. Talvolta qualcuno confondendosi coi
canti ultrà da curva dice: “Diciamo tutti in coro…” Al che io lo riprendo
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aspramente perché la formula va pronunciata esatta, non sono ammesse
bastardizzazioni. Devo ammettere che ho smarrito la contabilità di quanti
brindisi abbiamo fatto in questo modo: mezzo migliaio?
…grazie che ho bevuto! Protestate con me!
Fortunatamente a Torino abbiamo acqua e birra in abbondanza, ma non si
sa mai… Per come si stanno mettendo le cose, in un futuro neanche troppo
remoto potremmo ritrovarci a fronteggiare un rincaro spropositato della
nostra bevanda preferita per l’accresciuto ricorso globale ai biocarburanti:
o peggio ancora, e tutt’altro che improbabile, un nuovo Proibizionismo.
Bisogna prepararsi, creando siti, forum di discussione, social network,
pubblicazioni cartacee ad hoc, perché quando il cielo si adombrerà e gli
spillatori si seccheranno avremo bisogno di memoria storica, nonché fucili
mitragliatori, coraggio e faccia tosta per procurarci orzo, luppolo e lievito.
Mettete in rete i frutti della vostra inventiva alcolica! «Dobbiamo lottare
tutti uniti e assieme, uno per tutti e tutti per uno.»
Allora alziamo in alto i boccali e diciamo tutti insieme...
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Figura 8. ...“GRAZIE CHE HO BEVUTO! ”
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LA BIRRA E IL TAO
Vedi anche: Punto di Gräfenberg.
Vedi anche: Punto della Dea.
Vedi anche: Punto sacro del Tantra.
Vedi anche: Perla nera taoista.
Chuck Palahniuk, Soffocare.
L’illuminazione, secondo il Buddismo, è il completo sviluppo delle
potenzialità e qualità naturali presenti nella vera natura della nostra mente;
in più circoli buddisti essa è descritta come uno stato di “saggezza che
sorge dall’esperienza diretta di ogni fenomeno svuotata dell’esperienza
indipendente”. Quando una persona vede la luce, effettivamente vede o
comprende la realtà a un livello molto più alto del terreno, non più limitata
dalle transenne della ragione. L’illuminato è sagace e saggio riguardo alle
sue relazioni, il proprio ruolo nella società e l’importanza d’ognuno e ogni
cosa con cui egli interagisce. È dalla ricerca umana di questa luce figurata
che tutte le nostre arti, scienze e religioni si sono sviluppate, originalmente
un’unica ricerca di conoscenza e significato poi segmentatasi in distinte
discipline specializzate.
Come ad esempio la fabbricazione e il consumo della birra. Chissà quante
volte avrete pronunciato questa frase: “Ho bisogno di bere un goccio per
schiarirmi le idee”. Sappiate che codesto concetto viene da molto lontano:
dal Tibet, esattamente. La tradizione buddista doha, infatti, contempla
l’antica pratica di preparare e bere la cosiddetta “birra dell’illuminazione”.
I tibetani sorseggiano la bevanda sciorinando nel contempo un repertorio
di canzoni intitolate all’atto del bere. Vorrei raccontare ciò al nostro caro
vecchio barman Nicky, colui per il quale Olivia Newton-John era la più
bella mulatta del mondo, il bellissimo capoluogo delle Baleari è Parma di
Maiorca (difatti è molto rinomato per il suo squisito prosciutto di mare), il
telefono del bar funzionava a gin tonic e le birrerie “ondeggiavano”. Apro
una parentesi per spiegarvi quest’ultima cosa. Una mattina d’estate io e
Vito ci presentammo al locale per fare colazione dopo essere stati in giro
tutta la notte a bere senza ritegno, lessi come polletti amburghesi. Nicky ci
fece due cappuccini al gusto di esaclorofene, che accompagnammo con
croissant e cannolicchi siciliani al solito raffermi, e attaccò a straparlare di
vacanze future e passate. “Sapete, cinque anni fa sono andato in ferie a
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Milano Marittima con mia moglie, e una sera siamo andati a cenare in una
birreria grande e famosa, uno di quei bei posti dove i tedeschi quando sono
belli ubriachi a tavola si prendono tutti a braccetto e si muovono cantando
canzoni a squarciarsi la gola, così la birreria ondeggia.” Dio, gli saremmo
esplosi a ridere in faccia già da sobri, figuratevi con la botta d’alcol che
avevamo in corpo. Sì, vorrei proprio parlare a Nicky della birra illuminata.
Purtroppo sono anni ormai che ha ceduto l’attività ad altri e per di più mi
hanno confidato che negli ultimi tempi non è stato molto bene: tieni duro,
roccia! Chiusa parentesi.
Chhaang, o chang, è il nome della bevanda alcolica tradizionale del Tibet.
Strettamente apparentata con la birra, viene prodotta usando orzo, miglio e
riso. Procedimento e ingredienti variano secondo la zona; nei pressi del
monte Everest, per esempio, la chang è ottenuta facendo passare acqua
calda attraverso l’orzo fermentato, ed è poi servita in una grande pentola e
sorbita mediante una cannuccia di legno. Il contenuto alcolico è piuttosto
basso, ma essa produce un’intensa sensazione di calore e benessere, ideale
per sopportare le temperature che da quelle parti in inverno scendono a
livelli ben più che glaciali. Dicono che sia un toccasana per affezioni quali
raffreddore, febbre e rinite allergica. Dovrò farmene mandare qualche otre
per il prossimo inverno sabaudo, insieme a dieci casse di Lhasa, la superpremium quality all-natural, all-malt lager tibetan beer fatta coi migliori
ingredienti del mondo: acqua di fonte dell’Himalaya, luppolo Saaz, lievito,
e la maggior quantità possibile d’orzo autoctono. Pedantissimi virus e
batteri, avrete pane per i vostri microdenti!
Il tempio buddista Wat Pa Maha Chedi Kaew, situato a circa quattrocento
chilometri a nord-est di Bangkok nella città di Khun Han, è senz’altro il
risultato di una fantastica illuminazione birrifica: i monaci Thai lo hanno
edificato usando oltre un milione di bottiglie di birra usate (Wat Pa Maha
Chedi Kaew significa, per l’appunto, “Tempio del Milione di Bottiglie”).
Certamente non è il solo esempio al mondo di edificio costruito con questi
particolarissimi “mattoni”, ma lo sviluppo intricato della struttura lo rende
unico e inimitabile. Grazie al supporto della comunità prossima a questi
monaci ingegnosi è stato possibile per essi raccogliere abbastanza bottiglie
da realizzare l’idea: non è noto quanto tempo ci abbiano impiegato, ma il
risultato è stupefacente. Un tempio Thai fatto interamente di bottiglie
riciclate di Heineken e Chang Beer, dalle fondamenta al tetto, perfino la
torre dell’acqua e il bagno dei turisti. E grazie a te che hai bevuto e mi hai
donato la bottiglia.
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I Lama sono bodhisattva. Sì, proprio come Patrick Swayze in Point Break.
I bodhisattva sono persone che hanno raggiunto l’illuminazione ma hanno
rifiutato di ascendere al successivo piano spirituale, essendo perciò rinati
fino a che tutta la vita sulla Terra sia stata illuminata. Durante il gelido
inverno del 1985 mi impegnai a teletrasportare le opere più belle di Jack
Kerouac dalla biblioteca Bernaulo allo scaffale inchiodato al muro sopra il
mio letto. Il primo volume che riuscii a fottere fu I vagabondi del Dharma,
dove si parlava di bodhisattva alcolici alla ricerca della Verità per le strade
d’America: il buddismo Zen che i Dharma bums professavano era una
variante giapponese del buddismo indo-tibetano. In verità per tradizione i
Lama erano responsabili del controllo religioso, politico ed economico
(riscuotevano i tributi) delle vite di tutti i tibetani, fossero essi nomadi o
coltivatori. Va da sé che l’anedottica buddista è assai corposa, oserei dire
sterminata. E non mancano le storielle in cui si fa esplicito riferimento alla
birra.
C’era un praticante tantrico, uno di quei Lama che tengono i capelli lunghi
e si fanno una crocchia sulla cima della testa – come Gene Simmons dei
Kiss sul palco – il cui nome era Ngagpa. Costui esortava i suoi discepoli a
non bere la chang, sostenendo che: “Codesta bevanda fa molto male,
perché quando si beve troppo ci si ubriaca e si perde la consapevolezza di
sé, non si riesce a ricordare e si fanno molte cose brutte, perfino cattive.”
Sta di fatto che Ngagpa di birra ne tracannava, e come. Diversamente, i
nomadi non bevono molto e preparano la bevanda soltanto in occasione
dei festeggiamenti per il Capodanno tibetano. Così un giorno un nomade
gli si rivolse in modo molto rispettoso chiedendo: “Ma com’è che tu bevi
la chang?”. Ngagpa rispose con aria sicura: “Io mi visualizzo come una
divinità di meditazione e considero la chang come se fosse del nettare,
sicché quando bevo non sto trasgredendo alcuna regola.” Allora l’uomo
gli rivolse un’altra domanda: “Va bene se gli yak – i simpatici buoi
tibetani – bevono l’acqua? È uno sbaglio, un errore?”. E il Lama: “No, va
bene, se gli yak bevono l’acqua va benissimo.” Così il nomade continuò:
“Ah, grandissima cosa. Allora io posso visualizzarmi come uno yak e la
birra la visualizzo come acqua, dunque sono in regola. In questo modo
posso anch’io bere la chang”. Lama Simmons, preso in castagna, non poté
controbattere quest’argomentazione. Bisogna essere coerenti con quello
che si propone ad altri di fare: ma sopra ogni cosa, non predicare bene e
razzolare male.
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(Ah ah ah. Controllo antialcol in Piazza Vittorio Veneto. I pulotti vi fanno
smontare dalla vettura per sottoporvi al pretest, ma voialtri, rivolgendo
loro il più serafico dei sorrisi, dichiarate: “Io non sono ubriaco.” E quelli:
“Questo lo verificheremo con l’etilometro.” “Oh, non serve, signori tutori
della legge e dell’ordine in questa rifulgente città. Quando bevo birra, io
visualizzo me stesso come un golden retriever e la birra come acqua che
sgorga da una fontana alla quale mi abbevero. Pertanto non posso essere
sbronzo, benché abbia bevuto sei birre, un mojito e un chupito di tequila.
Non mi sottoporrò al test.” E i signori tutori della legge v’ammanettano
senza tante cerimonie, totalmente zen.)
Sukhasiddhi fu una saggia indiana del secolo XI venerata da una stirpe
buddista tibetana come dakini – un essere magico che si dedica ad aiutare
gli altri lungo la via per l’illuminazione. Sukhasiddhi è considerata la
dimostrazione che chiunque può raggiungere l’illuminazione spirituale, a
dispetto d’età, sesso, educazione, condizione sociale, o condizioni di vita.
Ella è vista altresì come un’incarnazione di gentilezza e generosità, poiché
il suo viaggio spirituale impernia su due atti di benevolenza.
Il primo tale atto è il suo allontanamento da casa da parte di suo marito e
sei figli adulti all’età di cinquantanove anni. La famiglia viveva in estrema
indigenza, e un giorno, quando una pentola di riso era tutto quanto era
rimasto loro da mangiare, il marito e i ragazzi si divisero e partirono alla
ricerca di cibo. Mentre erano via, un mendico messo perfino peggio venne
alla porta e chiese del cibo a Sukhasiddhi. Pensando che la sua famiglia
sarebbe ritornata presto con dell’altro, lei diede tutto il riso al pover’uomo.
Quando la famiglia fece ritorno, essi montarono in collera, e l’espulsero.
Miseranda, Sukhasiddhi decise di dirigersi verso un’area conosciuta come
patria di molti grandi santi e maestri, siccome lei era sempre stata devota.
Ella sulla sua strada riuscì a acquistare un sacco di riso, e con esso fece
della birra, smerciandola al suo arrivo. Investendo parte di quanto aveva
ricavato, lei comprò più riso, e presto divenne un mercante di birra locale.
Un giorno, la studentessa spirituale nonché consorte (però!) di un potente
maestro buddista andò da lei per comprare cervogia per conto del marito.
Quando la studentessa disse a Sukhasiddhi per chi era la birra, Sukie
insistette perché lei prendesse la sua birra migliore gratuitamente – il suo
secondo, importantissimo atto di generosità.
La studentessa tornò dal suo insegnante e gli disse ciò che era accaduto.
Egli all’istante percepì che Sukie era un’anima profondamente spirituale, e
disse alla sua studentessa di portargliela per istruirla. Sukhasiddhi arrivò,
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piena di gratitudine e devozione. Il maestro buddista le diede istruzione
sulla meditazione e di seguito compì quattro “autorizzazioni” – iniziazioni
buddiste e benedizioni per accelerare il suo progresso spirituale. Così, sul
momento, senza meditare addirittura, Sukhasiddhi ottenne l’illuminazione
all’età di sessantuno anni. Quel che succede quando si offre una birra a
qualcuno!
Ma della famiglia che l’aveva ripudiata, che ne fu? Sicuramente, morirono
tutti quanti di sete vigliacca.
Giovedì 11 dicembre 20**, h 04.16 p.m., CET. Stavo scrivendo l’ultimo
rigo del capitolo precedente, quando alzando gli occhi per un istante dal
computer ho incontrato il libro de I Ching, l’oracolo della saggezza cinese:
qualche genialoide scansafatiche l’aveva riposto nella scansia dedicata alle
scienze bibliotecarie. Essendo tanto tempo che desideravo consultarlo, per
la precisione da diciannove anni quando lessi per la prima volta La
svastica sul sole del sommo Philip K. Dick (un libro le cui situazioni sono
orchestrate da due libri, I Ching, appunto, e il best-seller del momento, La
cavalletta ci opprime, vietato in tutti i paesi del Reich che, secondo la
visione allucinata di Dick, ha vinto la Seconda Guerra Mondiale grazie
alla bomba atomica e si spartisce l’America con Giappone), ho fatto che
prenderlo in prestito fino a Santo Stefano.
I Ching, il Libro dei Mutamenti, o Chin Chin come lo chiama un amico
mio negato per qualsiasi lingua che non sia il piemontese (peculiarità di
tutti i piemontesi pure laine), è considerato il metodo di divinazione più
antico al mondo. Dagli imperatori dell’antica Cina fino ai tifosi del Torino
FC, molti uomini hanno consultato l’I Ching prima di prendere decisioni
importanti o per trovare una risposta rapida alle loro domande. Da buon
oracolo, i suoi responsi sono tutti da interpretare, ma Roderic e Amy Max
Sorrell, autori di quest’edizione tascabile, hanno fatto veramente un ottimo
lavoro nel rendere accessibile a tutti una materia estremamente ostica.
I Ching opera sulla base di quella che il celeberrimo psicologo e filosofo
svizzero Carl Gustav Jung definì “sincronicità”: nessuna coincidenza è
casuale, tutti gli esseri viventi e coscienti dell’universo sono collegati tra
loro sia materialmente sia spiritualmente. Ne ho avuta l’ennesima riprova
non più tardi di un mese fa. Scrissi un post per El tardato vascofilo (tutto il
mondo è paese) ispirato dal tormentone retrò del momento, Pop porno del
duo pugliese Il Genio. L’incipit traeva spunto da un altro passo di Sueños y
cadáveres il cui il protagonista, il colto e disincantato bidello Lucio del
101
Val, deplora la degenerazione qualitativa della musica nei bar di Logroño.
Pochissimo tempo dopo aver inserito l’articolo ricevetti via e-mail questo
colorito commento firmato: “Cazzarola, Javier Alonso è mio cugino!”
Riconnettendomi prontamente al blog venni a scoprire che n’era autore un
bilbaino, Carlos Benito, anch’egli titolare di un diario su El Correo. Vi
andai su e lasciai due righe per lui e il cugino letterato riojano. Il collega
blogger replicò che, per combinazione, entro sera Javier sarebbe venuto in
visita a Bilbao, sicché gli avrebbe trasmesso di persona i miei complimenti
per il suo impactante esordio letterario. Tempo due giorni lo stesso Javier
m’inviò un messaggio: “Maurizio, ti ringrazio molto per l’apprezzamento
e per essere una delle tre o quattro persone che hanno acquistato Sueños y
cadáveres.” Ecco l’ennesimo talento incompreso in un pianeta infestato di
ributtanti virtuosi dell’autopromozione.
Ho appena ricevuto per posta la sua seconda opera, Síndrome. Javier
Alonso è una persona squisita. Un giorno mi materializzerò a Logroño e lo
sommergerò di Guinness, se corrisponde al vero che in quella birreria da
lui descritta la spillano come si deve.
[El tardato vascofilo (tutto il mondo è paese) è il mio blog in lingua
spagnola cortesemente ospitato dal quotidiano basco on-line El Correo
Digital. Tardato è il nuovo nomignolo coniato dagli spagnoli per noi del
Belpaese: la sua origine risiede nella nostra frequente pessima dizione del
participio passato del verbo tardar, ossia tardado – tardare, impiegare,
metterci. Alzi la mano chi di voi, essendo alle prime armi con l’idioma
della piel del toro, non ha mai pronunciato questa frase al cospetto di una
Paqui, o Encarni, o Maruja, o Amaia: io ho tardato dos (o quince, o vai tu
a sapere) hores.]
Synchronicity è il titolo del quinto e ultimo album dei Police. Pubblicato
nel 1983 all’inizio dell’estate, ci mandò tutti fuori di testa. Io, Alex e suo
fratello Andrea non ascoltammo altra cosa per tre mesi buoni. Ad agosto
partimmo per una vacanza sconclusionata, di quelle che soltanto a diciotto
anni puoi farti, non smettendo mai di canterellare Every Breath You Take.
La nostra meta originale doveva essere Senigallia, ma giunti là dopo soli
tre giorni ci rompemmo le palle e ci risucammo l’Emilia Romagna in treno
per andare a finire a… Diano Marina, laddove ci aspettava Pippo, il sosia
torinese di Ric Ocasek dei Cars. Un viaggio allucinante. Faceva un caldo
becco e delle modalità di trasmissione dell’AIDS non si sapeva ancora un
102
cacchio; così, quando una fricchettona popputa venne a chiederci un sorso
d’acqua minerale noi glielo concedemmo, ma appena quella fu sparita in
fondo al vagone sottoponemmo la bottiglia a un processo di sterilizzazione
poco meno accurato di quello cui veniva sottoposta ogni persona in entrata
a Wildfire, il laboratorio segreto sotterraneo nel Nevada che nel thriller
tecnologico di Michael Crichton Andromeda veniva contaminato da un
microrganismo extraterrestre portato sulla Terra da un satellite militare. A
Diano piantammo le tende in un campeggio dove ora entrerei soltanto se
mi staccassero un assegno da due milioni di euro ed entrammo una buona
volta in clima vacanziero: sole, mare, birre, trombe, baccaglio di donzelle.
Wrapped Around Your Finger, con le sue sonorità diafane, s’insediò al
secondo posto nella mia personale classifica di preferenza delle canzoni di
Synchronicity. Avvenne un cambiamento d’importanza fondamentale: da
“cesso ambulante” fui promosso da una bella squinzia al rango di “strano”.
Una mostrina che ancora oggi porto al bavero della giacca. Meccanica
quantistica.
Ai cinesi ci viene una malattia per ’sti scarafaggi. Naturale: entrambe le
specie fanno parte del Tao, cosicché non possono esimersi dall’interagire.
Che si possa tranquillamente fare a meno di codesta specifica interazione
o che per puro distillato d’ignoranza si confonda l’influenza aviaria con la
peste storpiandone l’acronimo in S.A.R.S.A., è un altro paio di maniche.
Animali, piante, insetti, microrganismi, camicie non stirate, pozzi artesiani
inariditi, pettini, rasoi, pennelli da barba, lozioni per capelli anteguerra,
poltroncine girevoli, materassi Permaflex ed elettrodomestici vari gettati
in una discarica dell’entroterra siciliano, libri spagnoli, bottiglie di vino
rosso della Rioja, fusti di birra scura chiara rossa, luppolo orzo e camere
mortuarie, siamo tutti immersi nell’immensa zuppa cosmica. Insieme nel
tempo.
Fino a questo momento ho interrogato I Ching cinque volte, tre delle quali
per conto di una ragazza che è rimasta sorpresa dalla pressoché perfetta
simmetria delle risposte con la sua vita corrente. Ecco l’ultima domanda in
ordine di tempo:
“Vi è una possibilità che io possa un giorno conoscere Francesca Mazzalai
di persona, portarla a cena fuori e farla innamorare perdutamente di me?”
Eh eh eh. La slanciata, disinvolta, semplicemente meravigliosa Francesca,
nata a Trento il 27 marzo 1976, è attualmente conduttrice del programma
Atlantide-Storie di Uomini e di Mondi su La7. Può anche darsi che cotanta
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spigliatezza nell’introdurci ad argomenti affascinanti quali la battaglia di
Salamina e la Guerra Fredda sia merito di un prompter o di un auricolare
induttivo, ma la dizione, perfetta, è una rigenerante boccata d’aria pura in
uno schermo a cristalli liquidi contaminato di romanità, e la presenza, che
ve lo dico a fare…
Coi Sigur Rós in sottofondo, ho definito con chiarezza la domanda nella
mia mente. L’ho scritta su un foglio di carta. Ho preso le monete, mi sono
rilassato, ho respirato profondamente. Ho agitato le monete nella mano e
le ho lanciate sulla scrivania. Con gesti misurati le ho ordinate in una
colonna verticale e mi sono rivolto alla tabella riprodotta all’interno della
copertina de I Ching per individuare il numero del mio esagramma.
Esagramma 55. Pienezza, Raccolto, Abbondanza. Ogni cosa si svolge
secondo i vostri desideri. E’ il vostro momento di gloria, l’opportunità di
fare centro. Quest’occasione potrebbe non ripresentarsi. Siate decisi.
Provocate gli eventi. Buttatevi.
Linea 1 mobile. Incontrare il vostro compagno, bene per dieci giorni.
Una persona importante vuole aiutarvi. Se usufruirete di questa generosità,
considerate l’eventualità che possa volere qualcosa in cambio.
Be’, carissima Francesca, se mi procurerai un impiego a La7 anche solo
come uomo delle pulizie, io diverrò tuo schiavo per sempre!
Va detto che, carpe diem, ho mandato senza indugio questa divinazione
via posta elettronica alla medesima Mazzalai: sono ancora qui che attendo
un riscontro. L’esistenza umana è tormento e desiderio. Lo yang è attivo:
eccitato, fantasioso e deciso. Ma la donna è mobile.
Eh? Ah, già. La birra.
Potrei rivolgere una gragnola di domande a I Ching in merito alla nostra
bevanda prediletta, ma faremmo notte e forse non è opportuno. Certi miei
amici hanno un sacro terrore della negromanzia. Dopotutto Torino è nota
in tutto il mondo come città magica: Fetonte, figlio di Iside, avrebbe scelto
l’incrocio sacro tra i fiumi Dora e Po per erigere un centro di culto ad Api,
il dio-toro. Una delle due statue esterne al tempio della Gran Madre di Dio
indicherebbe il luogo dove riposa il Graal. Dagli alchimisti Paracelso e
Fulcanelli al mitico Cagliostro, da Cesare Lombroso a Nostradamus, tutti
scelsero di vivere a Torino. E non dimentichiamoci del Mago Gabriel. Ma
I Ching non funziona come le sue strampalate previsioni “nell’antamento
104
maggico o viceversa paranormale di questa supercittà Torino ovviamente
piemontese”; è uno strumento straordinario e accessibile che ci consente di
trovare nel nostro frastagliato territorio interiore quella fiducia necessaria
per prendere una decisione e agire di conseguenza, per “attraversare il
fiume”. Scorra in esso acqua di fonte o cervogia.
E allora…
Giovedì 16 dicembre 20**, h 10.30 a.m. “Quanti bicchieri di birra mi
rimangono da bere su questa terra?”
L’ultima domanda… entropia etilica.
Stavolta metto su Every Picture Tells A Story, unanimemente considerato
il più bel disco solista di Rod Stewart. Mi chiudo a doppia mandata nel
mio studio. Scrivo in corsivo la domanda su un foglio di carta A4 preso
dalla stampante. Prendo in mano le monete, cinque da 5 pesetas e una da
10 franchi francesi. Le soppeso, respiro a fondo, distendo i nervi. Ron
Wood entra nella canzone con la sua magica chitarra elettrica.
Frullo le monete e le lancio sulla scrivania. Non mi è laborioso ordinarle
nella canonica colonna verticale, grosso modo si sono posizionate già così.
Vado a consultare la tabella per individuare l’esagramma corrispondente.
Esagramma 21. Sforzo, determinazione, far funzionare le cose. I cinesi
attribuiscono a questo esagramma il tema di una persona che aggredisce a
morsi con grande determinazione un ostacolo. Le linee descrivono una
persona che mastica qualità diverse di carne secca. Tradotto in termini
concreti, è il momento di affrontare la situazione direttamente senza più
evitarla.
Linea 5 mobile. Mordete la carne secca pregiata, trovate l’oro, state
attenti.
La vostra azione risoluta vi ha procurato una ricompensa di valore. Se vi
attaccherete troppo al premio sarà la vostra rovina. Un tempo si pensava
che ingoiare l’oro potesse essere fatale.
Devo confessarvi che l’esagramma 21 fotografa alla perfezione il mio qui
e ora: gli sforzi erculei che sto compiendo per disincagliarmi dalle secche
del disincanto. Quanto alla linea 5 mobile, credo si riferisca a un futuro
prossimo in cui la mia pertinacia verrà premiata ma non dovrò tirarmela
troppo per quello. Sicché, stimato oracolo, ho afferrato il concetto: “Berrai
ancora molta birra nella tua vita, anzi da un certo momento in avanti potrai
105
addirittura sguazzarci… ma non vanificare tutto il lavoro che hai fatto su e
per te stesso perdendoti in fondo a un barile. Sia esso reale o metaforico.”
Roger, Chin Chin.
106
Figura 9. Wat Pa Maha Chedi Kaew.
107
SCOPRENDO LESTER BANGS: UN TRIP ROCKALCOLICO.
Ordunque… L’intenzione originale che mi aveva sospinto dentro quella
sorta di sesquipedale scatola da calzature post-modernista chiamata Nuova
Biblioteca Pubblica Ermenegildo Bernaulo era abbozzare una fantasia
letteraria schiettamente rock’n’roll sul meraviglioso duo chitarristico degli
Yardbirds Jimmy Page-Jeff Beck, qualcosa sul genere: “Che cosa sarebbe
successo se i tre membri originali della band, cioè Keith Relf Chris Dreja e
Jim McCarthy, non avessero licenziato il loro innovativo nonché psicotico
chitarrista solista coi capelli tagliati a budino nell’ottobre del 1966 a Los
Angeles, dandogli un’ultima chance di redenzione?”
Be’, molto probabilmente il genio del raga-fuzztone avrebbe dato di testa
un’altra volta ancora nel tempo di poche settimane, sicché i suoi esasperati
colleghi l’avrebbero definitivamente mandato a fare là dove non batte il
sole, ma nel mio cervello drogato di birra e vino rosso spagnolo e ginseng
con molecole residue di MDMA (peccati di gioventù!) ancora rombanti fra
un neurone a specchio e l’altro come bestie metalliche a due ruote montate
da canuti e raggrinziti Hell’s Angels californiani si andava plasmando una
linea temporale alternativa nella quale Jimmy e Jeff incidevano insieme
una formidabile sequenza di platter straripanti gemiti chitarristici simili a
sirene della polizia che avrebbero inondato ogni mio antro vitale, partendo
dalla pubertà per arrivare alla cosiddetta età matura che così tanto disilluse
Benjamin Disraeli-Gears, di stravaganti dissonanze e dinamiche sonorità.
In quel differente piano di vibrazione molecolare, come si usava dire per
iscritto molti decenni fa nel continuum di Gernsback, i Led Zeppelin non
nascevano, o sarebbero nati più avanti, magari con Steve Marriott al
microfono in luogo di Robert Riccioli D’Oro Plant. Immaginatevi Whole
Lotta Love cantata con sguaiato accento cockney! Sì, le Harley Davidson
biochimiche dei dissoluti Angeli Neurali dell’Inferno correvano ancora a
tutto gas…
…e le immani nubi grigio-verdastre vorticanti nel cielo pomeridiano di
Nuova Augusta Taurinorum sembravano preludere alla devastante venuta
dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Io flettei la schiena resa scattante da
costanti e solitarie sessioni di pallamuro ed estrassi dalla sezione Cinema
lo spesso blocco di memoria THE HAMMER OF GOD/Stephen Davis:
ScaffHal non protestò. Poi andai a sedermi a un banco stranamente vuoto
– questo posto è sempre pieno da far paura – nelle immediate vicinanze di
108
due giovani studentesse dai capelli biondi platinati, entrambe in jeans a
pinocchietto stracciati e jersey nerofumo a collo di cigno. Studiavano? Col
cavolo, sguazzavano nel pettegolezzo accademico!
Colei che mi dava le spalle, larghe e sottili come quelle di una nuotatrice
provetta, ogni tanto interrompeva il suo bisbiglio sferzante per inferire una
ditata proditoria alla tastiera di un notebook Aspire uguale al mio; l’altra,
fornita di un assai meno tecnologico portablocco, possedeva un simpatico
musetto da porcellina e un accattivante cobalt gaze. Immagina te e lei in
un trendissimo cocktail lounge del centro città…
Writer Maurizio: Conosci Jeff Beck?
Piggy (inarcando un sopracciglio): Che diavolo è, una birra danese? Mai
assaggiata finora.
Ehm.
Fuori, nel centro esatto di una piastrella del marciapiede in macadam che
recingeva la biblioteca, un passerotto infliggeva guardinghe beccate a
un’ape grassoccia le cui zampette lucide vibravano ancora, quantunque
con debolezza; sicuro come il sole che l’industrioso insetto danzante era
precipitato a terra disorientato dall’incipiente inquinamento da microonde
e il volatile ne stava approfittando per sfamare una nidiata di bocche
pipianti spalancate a rombo da qualche parte lassù, sui pioppi scorticati dai
tossici in astinenza sparata. Con un sospiro imbevuto di dolore universale,
attivai il blocco di carta interattiva e richiamai la pag. 26.
Nel 1966 James Patrick Page si esibiva con una Telecaster del 1958 (un
regalo della Birra Danese Coi Capelli a Budino di Malto) dipinta a spirali
psichedeliche fosforescenti ricoperte di perspex che, colpito dalle luci
della ribalta, rifletteva raggi a arcobaleno. Musicalmente gli Yardbirds
erano al loro massimo, ma purtroppo Jeff Beck era di salute (fisica e
psichica) piuttosto cagionevole; oltre a questo, gradualmente emerse la
competizione fra le due primedonne. Quando gli effetti stereo e le duplici
armonie delle chitarre non funzionavano, gli altri incolpavano l’instabile
solista. “Tutto andava bene in teoria e durante le prove ma sul palco Jeff
spesso voleva spaziare in qualcos’altro”, dichiarerà serafico Jimmy Page
qualche anno dopo in un’intervista. Hai capito il magrone? Lui cercava di
far funzionare le cose!
Piggy: Ah, è un chitarrista! Ma di quanti secoli fa?
109
Writer (vorrebbe morire d’infarto lì, in quello stesso istante): Era il
musico personale di Enrico VIII.
Cristiddio. Ragazzo, dammi un’altra Menabrea ambrata, per pietà.
Jeff Beck deflagrò al terzo giorno di tour statunitense con la Carovana
delle star di Dick Clark, una locura tipica degli anni Sessanta. Sbatté giù
la sua colonna di amplificatori, sfasciò la chitarra e se ne scappò a Dead
Loss Angeles dalla sua diletta Mary Hughes. Quando gli altri Yardbirds lo
raggiunsero, Beck fece ammenda, ma la troika Relf-Dreja-McCarthy non
volle sentir ragioni e lo licenziò. Beck si alzò per andarsene e chiese a
Page se fosse intenzionato a seguirlo, ma Page gli rispose che sarebbe
restato. In tal modo, seguendo un canovaccio tipicamente dostoevskyano,
gli Yardbirds divennero il gruppo di Jimmy Page. Amen.
L’uccellino delpieresco si era finalmente portato al nido l’ape moribonda.
Piggy scoprì di nuovo il candore all’ossigeno attivo dei suoi denti: non era
propriamente bella, direi piuttosto stuzzicante, come una tartina al paté
d’olive sul bancone di una vineria del centro città per studenti universitari
tiratardi. Pictures of Piggy made me feel so wonderful. Grufola, piccina
mia, grufola.
Uno dei centauri neurali frenò arrestandosi sul ciglio dell’accidentato e
polveroso assone che conduceva alle Grandi Piane Pituitarie, tirò fuori un
pacchetto stropicciato e sudaticcio di Lucky Strike da una tasca del suo
giubbotto per la pelle, se ne accese una, sputò una nuvola di puro cancro
da vero figaccione vissuto e disse: “Be Here Now.”
“Oddio. Da quando in qua a voialtri piacciono gli Oasis?”, replicai con
una smorfia di scherno.
“Diamine, Maurizio, te la spacci da gran letterato ma sei più ignorante di
una capra con la demenza senile! Be Here Now è il titolo di un libro di
Richard Alpert, il partner lisergico di Timothy Leary. Significa…”
“So perfettamente che cosa significa, scampolo di ferraglia metastatica! Il
vecchio insegnamento vedico riciclato in salsa allucinogena. Soffermarsi
sul passato o sul futuro significa essere morti nel presente. Non è roba un
po’ troppo hippie per te? Che ne direbbe Sonny?” Il 16 ottobre 1965, gli
Hell’s Angels di Sonny Barger attaccarono i diecimila dimostranti che
marciavano da Berkeley a Oakland contro la guerra del Vietnam al grido
di «traditori», «beatnik», e «comunisti»: così per caso, c’era un cugino
californiano di Silvio Berlusconi a smarmittare con loro?
110
Quella ciminiera propilaminica mi guardò torvo. “Ehi, lascia stare Sonny.
Piuttosto, gli Oasis non sono un po’ troppo lagna-lagna per un fanatico dei
grandi chitarristi beat inglesi come te?”
“I giornali dicono che siamo i più grandi, ma io me ne frego… Io vivo
adesso, now, e non importa se il prossimo anno non vendiamo un disco.”
Noel Gallagher, Souhampton, 1994. Sicché, minchione americano, turn
on, tune in, and please bugger off!
L’Uomo dell’Organetto di Barberia arrivò da Donovan County alle prime
gocce di pioggia. “Poiché Jeff Beck non poteva cantare e stentava così
tanto a adattarsi a un gruppo”, canterellò lo straccione scarmigliato sulla
punta del mio naso alla Jean-Paul Belmondo “Mickey Most gli organizzò
una seduta di registrazione ancor prima della sua dipartita dagli Yardbirds.
Ovviamente si trattava di un solo brano, poiché quel testa di minchia di
produttore notoriamente riteneva che gli ellepì non avessero importanza,
che fossero qualcosa da buttar fuori dopo il singolo.”
Reso strabico dalla sua garrula presenza, crollai il capo. “Sì, l’idea era di
registrare una mutazione per chitarra psichedelica del Bolero di Ravel. Ce
l’avevo in una vecchia compilation su nastro della Fratelli Fabbri Editori
ma quel fottutissimo registratore giap me l’ha fagocitato il mese scorso
come un’ameba bulimica. Jimmy Page era l’arrangiatore e suonava la
chitarra ritmica a 12 corde, al pianoforte c’era Nicky Hopkins, e la sezione
ritmica fu composta da Keith Moon e John Paul Jones dopo che John
Entwistle si era tirato indietro all’ultimo momento. Moon the Loon se la
svignò dagli IBC studios travestito da cosacco beat perché per contratto
non poteva registrare con nessuno all’infuori degli Who.” Beck’s Bolero
venne fuori talmente bene che Moon, Jones, Page e Beck presero in seria
considerazione l’idea di fondare un gruppo: ciò nonostante, avevano
bisogno di un cantante.
Il pene-sitar dell’Uomo emise una dolente onda sonora. “Già, già. Furono
contattati Steve Winwood e Steve Marriott degli Small Faces, ma il primo
scelse di fondare i Traffic e il manager del secondo addirittura minacciò
Jimmy Page di rompergli tutt’e dieci le dita. Ciò che avrebbe potuto essere
il prototipo dei Led Zeppelin non prese mai il volo.”
Molto soddisfatto di sé, l’Uomo dell’Organetto decollò dal mio aeroporto
maxillo-facciale per andare a scomparire nel fresco décolleté di Piggy con
un effettaccio da cinema di serie Z. Per un lungo istante lo invidiai. Ora
pioveva della grossa, un temporale tardo-primaverile coi controcazzi.
111
Oh Piggy, Piggy, Piggy!!! She’s a big teaser: lei è una vera scocciatrice.
She’s a prick teaser: è una stuzzicacazzi a tradimento. La parola “hippie”
non fu coniata prima del 1966. La consapevolezza di sé come entità
distinta si dissolve in ciò che Herr Jung definì “coscienza oceanica”: il
senso che tutte le cose siano una cosa sola, e la coscienza consapevole
individuale sia un’illusione.
Se è così, perché accidentaccio sto perdendo tempo a trovare un incipit
incident per la mia futile storiella ucronica? Nel primo rincalzo dei mondi
possibili Page Beck Marriott Moon e Jones durerebbero al massimo fino al
festival pop di Monterey; una bella scazzottata fra Steven M e Moon the
Loon per qualche motivo britannico del kaiser (per esempio, l’essere nati e
cresciuti in zone opposte di Londra) e ciao ciao ai New Yardbirds o Lead
Zeppelin o come vuoi tu, bellezza. Oppure tirerebbero avanti per tutto il
1967 e parte del 1968 proprio come in questo mondo, ma smerciandoci lo
stesso quella porcheria di Little Games, magari parzialmente riscattato da
qualche bell’intreccio chitarristico. O… bah, che montarozzo di stronzate.
Il prototipo farraginoso del mio universo parallelo rockistico si dissolse in
una patetica nuvoletta di elettroni neurali. Forse era meglio mollare tutto e
andare a spararsi un’ipercinetica sessione di pelota, laggiù in fondo contro
il Murale di Einstein…
Pues no. Rimisi al suo posto Il Martello di Dio Zepp e liberai un blocco
adiacente, di assai più ridotte dimensioni: GUIDA RAGIONEVOLE AL
FRASTUONO PIÙ ATROCE/Lester Bangs. ScaffHal sempre silenzioso
come un merluzzo cibernetico in orbita intorno a Giapeto. Piove, piove,
grattati un coglione. Piggy mi omaggiò di una lumata presagante fantastici
pompini fattimi ginocchioni davanti a uno specchio a tutta persona nella
semioscurità del primo mattino augusto, ma era troppo tardi ormai: Leslie
Conway Bangs detto “Lester” (1948-1982), il critico rock più squinternato
e influente di tutti i tempi possibili, mi aveva sequestrato premendomi sul
volto una pezzuola imbevuta di rockoformio. “Aiutoahmmm… Mmmnster
Mmmgnet… mmmm… mmm... m.”
Figlio di troia.
A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio
fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la
rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così,
anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: “Pensi
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che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una
celebrità?”, e lui mi ha risposto: “Non lo so.” Capisci, io me ne sto qui e mi
chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba.
Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime perché, come ho detto prima,
so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in
fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante
altre cose, quindi non dovrei far pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli
che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che
gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono
alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solamente perché non gli viene
offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente
comincerà a dire: “NO! MI RIFIUTO, NON NE VOGLIO PIÙ!”
Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980… 2007? 2070?
Anche John Lennon è morto nel 1982…. O forse nel 2082… Hombre,
no… nel 1980!
Che diamine, ora ero completamente sveglio, neanche sgarrupato per la
narcosi. E… be’, stavo galleggiando in assenza di peso sopra un quadro di
navigazione che rassomigliava in modo allarmante a una pizza ai frutti di
mare preparata da un pizzaiolo lituano strafatto di mescalina. Il modulo di
Lester Bangs, con la sua copertina-mandala rosazzurrobianca, mi orbitava
intorno indolentemente. Potevo essere a 2000 anni luce lontano da casa
come a duemila milioni, satellite di un satellite o viscida bilharzia di un
buco nero, alla fine ciò che conta non è la scorta d’ossigeno puro o i
tubetti di dieta mediterranea da spremersi in bocca, bensì sentirsi a proprio
agio con le proprie scoregge.
Parlez-vous français? Un peu, replicavo ai gendarmi le prime volte che mi
fermavano ai caselli delle autostrade galliche di ritorno dalla penisola
iberica: il che per costoro significava no, non ci capisco una beata mazza.
Allora, esprimendosi qualche volta in un avvilente gramelot anglo-francoitaliano, i falchi della notte passavano a rovistarmi il borsone da viaggio e
il vano portabagagli, o perfino a smembrarmi la vettura come seguendone
la distinta base secondo la disposizione d’animo del momento, solitamente
negativista perché, è naturale, les italiens son tout dopé. In seguito avevo
imparato a dire je comprends quelques mots mais je ne le parle pas, lo
capisco un po’ ma non lo parlo, oltre a qualche altra tiritera da biascicare
negli autogrill o nella scalognatissima eventualità che fossi finito in panne.
Ciononostante il risultato era sempre il medesimo: facce da Clouseau e
113
bocchettoni dell’aria divelti da mani rubate ai campi di tuberose. L’ultima
volta che mi hanno bloccato, due estati fa sulla Languedocienne, mi sono
giocato addirittura l’untuosa carta dell’adulazione: je voudrais apprendre
votre splendide langue. E quelli per tutta risposta, con un riso beffardo
sulle labbra rinsecchite dalla mostarda di Digione, mi hanno smontato
pure il serbatoio della benzina. Bâtards.
Ma di che vado blaterando? Che mi avete somministrato mentre dormivo?
Synthemesc neutronico?
Sample da 2001: Odissea nello Spazio, il libro in edizione tascabile,
Longanesi & C. © 1972, Lire 450, pag. 241: «Ma questo è ridicolo, pensò
David Bowman. Mi sorvegliano quasi certamente, e devo sembrare un
idiota con questa tuta spaziale (per quanto mi concerne, con questi panni
sgualciti da ultraquarantenne giovanilista). Se si tratta di una sorta di test
dell’intelligenza, probabilmente ho già fatto fiasco.»
Cristiddio!, diamoci da fare, allora. Mimiamo il cavaliere errante quantico.
Leggiamo un po’ cosa Lester Gang Bang aveva da dire e stendiamo dei
paralleli fra lui e te su questa sostanza lievemente increspata e biancastra
che senza dubbio non è carta, anche se le somiglia moltissimo. Ma gli
alieni sognano pioppi elettrici? Chi si sbatte Rachel Rosen adesso? Correte
qui, nipotini biondissimi…
Lester e i Count Five. Come c’era da aspettarsi, si parte dagli Yardbirds,
vera Urmutter del rock metallico, e dall’incisione del loro singolo I’m A
Man, una maionese impazzita di Bo Diddley, feedback e corde raschiate in
maniera criminale. Il successo di questa canzone fu enorme. E seminale.
Negli Stati Uniti, centinaia di ragazzini si affrettarono a plagiarne il sound
trascinante con l’ausilio di quelle nuove scatolette elettroniche giapponesi
che stravolgevano il suono della chitarra in un frastuono simil-motoristico.
Lester guardava a quelle band di giovani sballati dei college con un misto
d’ironia e incanto, finendo per innamorarsi perdutamente dei Count Five,
“una combriccola di marmocchi che pestavano sulle chitarre e venivano da
una qualche irrilevante provincia della California”, e della loro personale
rilettura di I’m A Man: Psychotic Reaction.
Psychotic Reaction inizia con un fuzz riff recisamente amatoriale ancorché
più appiccicaticcio della resina che d’estate cola subdolamente dai pini giù
sulla carrozzeria della vostra utilitaria corrodendola, lanciandosi poi in un
testo la cui profondità fa sembrare Eros Ramazzotti un epigono del miglior
Lou Reed: “Mi sento depresso, mi sento male / Perché tu sei la ragazza
114
migliore che abbia avuto / Non riesco ad avere il tuo amore, non riesco ad
avere affetto / Oh, quella ragazzina è una reazione psicotica.” Dopodiché, i
Five partono in quarta con l’imitazione/clonazione di I’m A Man, con
l’unica variante di un effetto di phasing innestato sulle grattate similbeckiane. Woosh-sgratch-sgratch-sgratch-woosh.
Lester ammette che sulle prime odiò questa canzone, ma poi un giorno la
misero alla radio mentre lui scorrazzava in macchina, stravolto come una
mina anticarro, e cominciò a tirarsi sberle sulla testa: “Ma che cazzo mi
ero messo in testa? Quella canzone era fantastica!” Scrive che il disco
aveva una copertina galattica – la fotografia era stata scattata sull’orlo di
una tomba, e i membri del gruppo stavano in piedi sull’orlo, guardando in
basso con occhi sporgenti e malevoli verso gli acquirenti, idealmente in
procinto di essere inumati. Ci recensisce le canzoni del loro primo e unico
LP, comprato nello stesso giorno in cui acquistò Happy Jack degli Who:
“Lo ascoltai spesso, gongolando, per un anno circa, finché dei biker non
me lo trafugarono (accidenti a te, leccapistoni d’un Sonny!), e quando
finalmente lo ritrovai nel 1971 in un negozio di dischi usati, ragazzi, mi
misi a ballare per la gioia. Il tempo non aveva attenuato la grandezza del
disco dei Count Five. Anzi, non l’ha attenuata nemmeno oggi. Suona
ancora sporco e sgangherato come nel 1967.”
Me, me stesso e io. Considera tutti i critici d’arte come inutili e dannosi…
tranne la splendida eccezione che conferma la regola, chiaro. Ho comprato
Nuggets Volume One: The Hits in un pomeriggio adolescenziale di bassa
marea serotoninica, essendo stato incoraggiato all’acquisto dall’ascolto
proprio della splendida canzone in questione a un programma radiofonico
genuinamente rockettaro di Radio Torino Popolare intitolato Provocazioni
e contaminazioni rock.
Per il colto e l’inclita, la suddetta compilation comprende svariati altri
brani killer con lampanti ascendenze Yardbirds, quali Talk Talk dei Music
Machine (cantato nevrastenico, organo tragico e duplice brevissimo assolo
di distorsore che minaccia di frantumarsi in globuli di suono, wow!) e
l’ariosa Open My Eyes dei Nazz, nei quali militava un giovanissimo Todd
Rundgren; c’è altresì I Had Too Much To Dream Last Night degli Electric
Prunes, un safari psichedelico rinnovato in epoca punk da Wayne County
& The Electric Chairs; e A Question Of Temperature dei Balloon Farm, un
brano che più 1967 non si può – gustosissima pozione druidica di fuzz,
feedback, vocals trasognati, theremin deliranti, organo e parti ritmiche da
115
film psichedelico di terz’ordine. Nel 1982 i Lords Of The New Church di
Stiv Bators ne registrarono una versione strabiliante per il loro omonimo
album d’esordio (che adoro), benché con un sound quintessenzialmente
anni Ottanta.
Ciononostante c’è qualcosa che non mi torna. I più quotati annali del rock
sostengono che la prima canzone rock con l’effetto phasing a entrare nella
classifica di Billboard fu Itchycoo Park degli Small Faces. Ma Psychotic
Reaction lo anticipa di una bella sporta di mesi! Come diavolo è questo
fatto? I garage rockers non sono ritenuti meritevoli di essere menzionati
nelle cronache elitarie della musica popolare? I Count Five non furono
sufficientemente “alti”? Andiamo!
Come dite? Devo esprimere una preferenza? Be’, Psychotic Reactions è
realmente micidiale, ma io preferisco A Question Of Temperature, poiché
meno epigonica. E comunque nessuna delle due vale un’oncia di Happy
Jack, anche se Lester Bangs la mise sul piatto del suo giradischi non più di
cinque volte. Gli Who sono gli Who, cari i miei Oscuri Scrutatori.
Lester e gli Stooges. Qui il ragionamento si fa più complesso e polemico.
Lester stigmatizza la cecità ignorante del pubblico hippy, che tratta la band
di Iggy Stooge (al secolo, James Jewel Osterberg) col disprezzo dovuto
all’ennesimo gruppo di volume freaks la cui trovata pubblicitaria, cioè un
front-man pelle e ossa che si scortica il petto disgustosamente spalmato di
burro d’arachidi sbattendosi il microfono sulle mascelle e rantolando testi
esplicitamente nichilisti e antisociali, non basta a farli arrivare all’altezza
di mostri sacri superventas come i Grand Funk Railroad, loro sì un gruppo
al passo coi tempi selvaggi che corrono, capaci di riunire torme di giovani
sballati capelluti sotto il palco in una baraccata simil-politicizzata, Tutti
Insieme Appassionatamente Spaccando Tutto Fumando e Fottendo per il
Movimento, figli di madre ignota! Chi ha bisogno di un gruppo che canta
canzoni che parlano di occhi televisivi, del fatto che uno si sente come
mondezza e che non si diverte proprio per un cazzo a stare da solo? Chi
può idolatrare un adolescente mezzo irlandese mezzo svedese arrapato e
antisociale del Middle West?
Più gente di quanto pensi, cocco di mamma dei fiori.
“Perché c’è molta aria malsana in giro, e dobbiamo spazzare via le banali
tenebre dell’ignoranza e dell’incomprensione se vogliamo che le vere
tenebre degli Stooges risaltino splendenti con tutti i loro prismi caotici,
116
proprio come gli specchi delle case stregate che sono fatti apposta per
confonderti.”
Per Lester, Iggy Stooge è un idiota completo, sul palco e su vinile, ed è
proprio questo uno degli aspetti fondamentali del suo mirabile genio. Iggy
è l’antidoto all’epidemia di supermusicisti altezzosi che sta infettando la
purezza della fonte del rock’n’roll. La “musica” volutamente monotona e
semplicistica degli Stooges, questo caos analfabeta che prende forma per
gradi e diventa uno stile totalmente personale, il giro di chitarra sudicia di
due accordi, ripetuto macchinalmente, per tutta 1969, con rime di
incantevole demenza, “compio ventidue anni tra poco / dico perbacco,
buhu”, ci salveranno dal Nuovo Conformismo dei Piedi Scalzi e Neri di
Sudiciume.
Me, me stesso e io. Diversamente da Lester Bang Bang, non ho mai
considerato Starship degli MC5 un fiasco imbarazzante, anche se mi ci è
voluto un centinaio e passa di ascolti per apprezzarne appieno le nervature
interstellari. E la prima volta che ho ascoltato Fun House degli Stooges,
quand’ero ancora rospa o topo o missile che dirsivoglia per merito di una
testa acidissima dell’hinterland meneghino che ascoltava anche i Joy
Division i Bauhaus e le New York Dolls, sono venuto nei pantaloni kaki.
È uno stupefacente crescendo d’intensità che si apre con Down In The
Street (“Per la strada, dove i visi brillano… vedi una tipa carina / non c’è
nessun muro!”), un riff circolare al plutonio straziato dalle urla lascive
dell’Iguana. Neanche il tempo di riprendersi e sei già invischiato nella
partouze ringhiante di Loose. Ron Asheton parte in distortissimo assolo
suonando pressoché la stessa scala del pezzo precedente ma va benissimo
così, chiamasi coerenza artistica. Poi arriva T.V. Eye, il capolavoro
dell’album: “Guarda quel vitello / Sdraiato / Guarda quella ragazza /
Sdraiata / Mi guarda con occhi da tivù…” La musica è un bordone
sferragliante che ti prende subito per le palle e continua a crescere fino a
che si raggiunge il vertice della tensione, ma non è ancora il momento di
eiaculare… Lancinante schitarrata di chiusura di Ron Asheton, attimo di
silenzio vinilico, rullata indolente di tamburi del fratello Scott ed ecco a
voi Dirt, l’anticlimax alcaloide.
La seconda facciata del disco è un altro esercizio d’eccitabilità, ma grazie
al sassofonista Steve Mackay il suono è più stratificato, lambendo il free
jazz di Coltrane seppure col contrappunto di una chitarra primordiale e
assordante. 1970 è un brano influente in più di un senso: Deniz Tek, un
117
giovane medico militare amico di Ron Asheton, ne prese a prestito una
lirica per battezzare il suo gruppo di scatenati teppisti sonori australiani:
Radio Birdman, up above. Fun House è un sexy-loquio funkeggiante e
monotono, forse il pezzo dell’album che mi sconfinfera di meno, ma le
liriche sono stupende: “Tutte le bambine sanno / cosa voglio dire / Vivere
sul confine, nelle / sabbie mobili / Vi chiamo dalla casa stregata…”
Infine, L.A. Blues. Orgasmo. Satori. Suonare la chitarra come Jackson
Pollock. Esperimento Concettuale alla Yoko Ono. Marciume Sonoro.
Feedback dei Feedback. Tutto ciò che volete. Una sera Lester si strafece di
fenciclidina, lo riascoltò e gli parve un’immensa rete di carrucole dorate
che si sollevavano nel cielo infinito. Per me potrebbe essere la perfetta
rappresentazione in musica (sic) di quel che si prova quando si supera la
velocità della luce. David Bowman proto-punk.
Ora posso avere una birra? Magari una Pilsner?
Lester e i Led Zeppelin. “Verso il 1973, un gruppo di damerini emaciati
di nome Led Zeppelin tenne il suo ultimo concerto, durante il quale il
chitarrista solista fu assassinato con una pistola rudimentale da un fan
inferocito strafatto di stricnina, dopo soli cinquantotto minuti del suo
virtuosistico assolo di due ore e mezzo su un’unica fottuta nota di basso.
Dopodiché il pubblico catturò il cantante (talmente fatto di stramonio,
comunque, che ormai riusciva solo a rigurgitare testi del tipo “Glip glip
gag jargaruna fizzolfuck”) e gli tagliò tutti i riccioloni biondi e gli calpestò
l’armonica, gli diede un cambio d’abito per mettersi in borghese (credo si
trattasse di una versione per taglie forti dei Bodyjeans Lifetime Chainmail)
e lo cacciò via. L’ultima volta che abbiamo sentito parlare di lui, pare che
stesse cercando di cantare Whole Lotta Love a un mucchio di vecchi
cannati sentimentali in un paesino dimenticato da Dio. Stucchevole da
morire, direi.”
Me, me stesso e io. Datemi pure del qualunquista, ma quand’ero un
pivellino potevo saltabeccare tra Led Zeppelin, Stranglers, Police, Van
Halen, Rolling Stones, Cheap Trick, Missing Persons, Who, Faces e Def
Leppard senza essere afflitto dal benché minimo rimorso di coscienza. Del
Dirigibile Bombato io apprezzavo (e continuo ad apprezzare) soprattutto
Good Times, Bad Times, Comunication Breakdown, Ramble On, Living
Loving Maid, Celebration Day, Tangerine, The Rover, Houses Of The
Holy. Tutti brani abbastanza stringati, direi classicamente rock. I più
118
lunghi e bombastici, tipo per l’appunto Whole Lotta Love, How Many
More Times, Kashmir e In My Time Of Dying, mi mandavano in paranoia.
Un giorno mi feci registrare su due nastri comprati al supermercato il livefilm autocelebrativo The Song Remains The Same, ma non durò più di
quattro mesi: in pratica, ne ascoltavo a ripetizione solamente la title-track,
indubitabilmente una splendida cavalcata elettrica. Però i venticinque
minuti di Dazed & Confused, eh no, quello era davvero troppo; ruotava
finanche il filmato in una tivù libera, ma a un certo punto le sviolinate
megalomani di Jimmy Page venivano provvidenzialmente interrotte dallo
scenario interamente bianco e le pennate impertinenti di Smash It Up dei
Damned, una stravolgente sventagliata di novità.
Ecco che divago ancora. Nel Guantanamo di Torino Nord, prima di essere
trasferito all’ente Strategy & Development, ex Advertising & Promotion
ex Pubblicità & Immagine, il sottoscritto aveva prestato servizio per un
biennio alle Nuove Tecnologie, sotto un “sesto quadro” calabrese che, pur
pagato lautamente, perseverava a guidare una tossicchiante Bianchina e
consumare i pasti nel baracchino: pressoché negato per le lingue straniere,
per tacere sull’italiano. Una volta, indimenticabile, aveva risposto così alla
nazistoide segretaria di un fornitore tedesco: “No, ehm…, Mr. Mayer is not
in ufficio. Is andato end a riunion.” E io a ridere sotto la scrivania come
un matto felice. Ma allo S & D le cose non andavano poi così meglio.
C’era chi comunicava in anglo-piemontese (“We arrive a London a un bot
e mes”) e chi in italo-spagnolo (“Mucho bene, ci vedemos manana al
aeropuorto”). Chiamasi meticciato aziendale. Il mio nuovo capufficio era
una trottola dinoccolata con la faccia da lontra marina. Il suo fottuto
telefono suonava quaranta volte al giorno ma quasi mai lui stava in ufficio,
pertanto la stragrande maggioranza delle volte toccava a me sollevare la
dannatissima cornetta: in pratica, fungevo pure da segretario. Buona parte
delle chiamate proveniva dalla Francia e dal Québec, la belle province:
uguale, anglofobia a palate. Di conseguenza, a casa mia come nei tempi
morti aziendali, io cercavo di apprendere quanto più francese possibile.
«Pour le lancement de ce produit sur notre marché il faudra une intense
campagne pubblicitarie. Dans ce but pourriez-vous me procurer du
matériel de propagande?» Sì. E tu puoi procurarmi un appuntamento con
Emmanuelle Béart, grand-père? Fiche-moi la paix!”
Eh sì. Davvero stucchevole il Dirigibile 1973. Gradirei sapere da Voi
come sto andando. E… vi siete esentati finalmente dalla tirannia della
materia?
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Lester, Metal Machine Music e Kiss Alive!. Punto 14 della Disamina
Lesteriana in 17 punti di Metal Machine Music, doppio disco rumoristico
di Lou Reed: “Quando io e Lisa Robinson siamo stati invitati in Uganda
per intervistare il presidente Idi Amin Dada, per futuri articoli in copertina
su Creem e Hit Parader, gliel’ho fatto ascoltare e a lui è piaciuto un sacco.
Gliene ho regalata una copia e ora lui, con un editto speciale, lo fa
trasmettere dai diffusori di musica di sottofondo in tutti i supermercati
(tutti e trentacinque) e le sale d’aspetto dei medici (tutte e otto) del suo
fantastico paese, in modo che i cittadini possano ricevere ispirazione per
spingersi a vette di patriottismo ancora più alte nei riguardi del suo regime
e di tutto ciò che esso rappresenta.”
Punto 15. “MMM è l’anima di Lou. Se c’è qualcosa che vorrebbe vedere
sepolto in una capsula del tempo, è proprio quello.”
Punto 16: “Quando sono fatto di Romilar è meglio di qualsiasi altro disco
io abbia mai ascoltato.”
Punto 17: “È il disco più fantastico mai realizzato nella storia del timpano
umano. Al secondo posto: Kiss Alive!”
Me, me stesso e io. Il Romilar, o destrometorfano bromidrato, è un
espettorante e sedativo broncopolmonare, prodotto in compresse dalla
Roche, non più in commercio. Negli anni Settanta veniva usato e abusato
come sostitutivo cheap della morfina. Richiedendo dosi piuttosto massicce
per raggiungere l’effetto sballo, solitamente percezioni illusorie e frenesie
sessuali, provoca enormi danni all’organismo, sicché oggigiorno è caduto
in disuso. Lester ci ha lasciato a New York il 30 aprile 1982 per la fatale
interazione di due farmaci, Darvon e Valium, con cui stava curando un
banale raffreddore.
Ho ascoltato Metal Machine Music solo una volta, a casa di un amico.
Cinquanta minuti di detriti sonori; francamente, non mi fece venire alcuna
voglia di comprarlo, anzi ricordo bene che commentai sprezzante: “Questa
è merda per eroinomani allo stato puro!” Però qualche anno dopo, molto
più avvezzo a frastuoni atonali e lancinanti retroazioni sonore grazie a
Starship, L.A. Blues, Radio Ethiopia/Abissinia e 30 Seconds Over Tokyo
dei Pere Ubu, ascoltai un altro album doppio di intrecci sonori magmatici,
Daydream Nation dei Sonic Youth, e ne rimasi elettrizzato. «Hyperstation
e` una jam free form capace di creare, con la sua ingarbugliata trama in
120
crescendo, con le punteggiature metalliche delle chitarre e la pulsazione
frenetica di piatti e tamburelli, quel clima di terrore e d’estasi che incrocia
il degrado psichico di un eroinomane con una soundtrack iper-realista.»
Oh yes. Ciononostante non so se comprerò mai Metal Machine Music.
Kiss Alive!… Ostia, che cocente delusione provai quando venni a sapere
che quest’epocale doppio disco dal vivo, tonante colonna sonora della mia
adolescenza problematica e onanista, era stato largamente ritoccato in
studio! È urgente delucidare questa scabrosa faccenda.
2001. Nella sua vendutissima e acclamata autobiografia Kiss and MakeUp, Gene Simmons scrive: “Sono sempre corse voci che Alive! sia stato
abbondantemente rimaneggiato in studio. Non è vero. Ritoccammo le parti
vocali e sistemammo qualche assolo di chitarra, ma non avevamo né il
tempo né il denaro per modificare completamente le incisioni. Ciò che
volevamo, e che ottenemmo, fu la testimonianza della forza grezza e della
potenza della band.”
(Ouverture dello stesso libro, pag. 4: “In ogni caso, ecco la verità, tutta la
verità, nient’altro che la verità, e che Dio mi aiuti.”)
Secondo il libro di Dale Sherman Black Diamond e la rivista Goldmine,
nei primi anni Novanta Eddie Kramer rese noto che in Alive! egli dovette
ricorrere a un numero limitato di sovraincisioni (overdubs) per correggere
gli errori più ovvi quali rotture di corde, parti vocali mancanti e note fuori
chiave, entrambi piuttosto frequenti in un concerto “movimentato” quale
era quello dei Kiss, che oltre a tutto non erano propriamente dei fenomeni
in fatto di tecnica musicale.
Tuttavia, in tempi più recenti, il celebre produttore/ingegnere del suono
sudafricano ha dichiarato che l’unica registrazione dal vivo originale
nell’album è la chitarra solista di Ace Frehley; successivamente, durante
un’intervista televisiva, ha ulteriormente rettificato il tiro affermando che
le uniche parti originali sono le percussioni di Peter Criss. Forse la
memoria comincia a fargli difetto, o magari pazzeggia, chissà; ho letto che
da giovane durante le sedute di registrazione hendrixiane si dilettava a
deridere Chas Chandler per il suo marcato accento cockney. In qualunque
modo, la controversia ha coinvolto anche il secondo album dal vivo della
band newyorchese, Alive II, che risulterebbe quasi totalmente ricreato alla
consolle, addirittura con due brani, Tomorrow And Tonight e Hard Look
Woman, suonati in studio e in seguito mixati coi rumori della folla! Che
pacchianata! Finalmente, nel recente DVD celebrante la storia dei Kiss,
perfino gli stessi membri del gruppo ammettono sorridenti l’uso estensivo
121
di overdubs nei loro cosiddetti dischi dal vivo. Bella forza, ormai si sono
fatti i miliardi e hanno scopato tutto lo scopabile… Dico, avessero almeno
avuto la dignità di proporsi: “Che importa se siamo una brigata di sacchi
della spazzatura antropomorfi, fissiamoci su vinile così come veniamo e
vaffanculo al mondo intero!”
Mi ci è voluto un giro su Youtube, pochi mesi fa, per tornare ad amarli
come una volta. Là ci sono i veri Kiss, le performance quasi mai perfette
tecnicamente ma scoppiettanti d’energia rock’n’roll. Dal vivo pezzi come
Black Diamond, Detroit Rock City e Cold Gin rendevano cinque volte più
che su disco, realmente non c’era necessità di rappezzarli in studio. E
quando Ace Frehley innestava l’octaver e il phaser e partiva in assolo, era
come se una creatura sonica proveniente dallo spazio profondo erompesse
dagli amplificatori per farti esplodere il cervello. Dal 1973 al 1977 i Kiss
furono davvero la band più calda del mondo.
(Fortissimo nonché scontatissimo dubbio: ma a Lester MMM e Alive!
piacevano davvero, o ci voleva soltanto prendere tutti per i nostri fondelli
tumefatti? Me lo figuro lassù, acciambellato su una nuvoletta di plasma
con trentacinque nanocompresse di Proximax in corpo, sogghignando
sotto il caschetto biondo alla Brian Jones.)
Lester e Station To Station di David Bowie. “È difficile avere degli eroi.
È la cosa più difficile del mondo. È perfino più difficile che essere un
eroe. Di solito dagli eroi ci si aspetta che producano un qualcosa per
riconfermare la presa delle loro dita altolocate sulle belle chiappe di quella
stronza della Musa; e a volte arriva a un pelo dal somigliare a delle
unghiate che scendono lungo il bordo di un precipizio d’argilla fino a
cadere. Al tramonto, addirittura. E non c’è nessun banchetto aziendale,
giovanotto.”
David Bowie non era certamente l’eroe di Lester. Anzi, per dirla tutta non
lo poteva vedere neanche dipinto. Considerava la sua fase Ziggy Stardust e
i Ragni da Marte come una menata colossale, e più ad ampio raggio la sua
musica come un mélange furbastro da professionista dell’industria dello
spettacolo.
Poi però uscì Young Americans e Lester inarcò un sopracciglio, ma fu
Station To Station a fargli scrivere: “È uno dei più bei dischi di chitarra dai
tempi di Rock’n’Roll Animal, ha una disinibizione e una pulsazione
incessanti che calpestano completamente le parole. E quindi, chi se ne
fotte di cosa significa TVC 15: è un gran pezzo rock. (…) È un disco rock
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talmente bello e con una tale potenzialità di durare nel tempo, perfino più
di Young Americans, che mi sbilancio a dire: penso che Bowie abbia
finalmente prodotto il suo (primo) capolavoro.”
Me, me stesso e io. L’uomo che cadde sulla Terra. Ho letto il libro e visto
il film: pregevole il primo, non completamente riuscito ma lo stesso
affascinante il secondo. Nel 1976 un critico cinematografico scrisse al
proposito su Robot che David Bowie non faceva molta fatica a recitare se
stesso: anche se avevo soltanto undici anni, fui sostanzialmente d’accordo
con lui. Mi è rimasta stampata in testa soprattutto questa scena: una donna
e un uomo a letto, nudi bruchi; lei è una giovanissima bruna all-American
sfrontata e opulenta, di quelle che ti scoperesti tutti i giorni dal tramonto
all’alba, che dormono con la lingua fra le tue palle pelose e ingoiano tutto
quello che c’è da ingoiare, sempre; lui è il dottor Nathan Bryce, libidinoso
professore di college con un’inclinazione per le diciottenni e affascinato
morbosamente dalla World Enterprises, la potente compagnia che Thomas
Jerome Newton, l’alieno venuto sulla Terra da un pianeta morente di sete,
ha creato dal nulla; parlano parlano, finché lei vogliosa non gli circonda i
fianchi con quelle cosce sode da cheerleader spronandolo: “Avanti, fammi
sentire quanto sei uomo!” Yummy.
Young Americans mi serve come lassativo quando tralascio di assumere
fibre vegetali. Station To Station ce l’ho in CD. La fotografia in copertina,
di Steve Shapiro, è tratta da L’uomo che cadde sulla Terra. Le foto
all’interno, sempre di Steve Shapiro e Jayne Fincher, dovrebbero essere
mostrate ai giovinetti della plug generation nell’ambito di una campagna
contro l’abuso di cocaina, soprattutto a Roma, laddove ultimamente il Cnr
ha rintracciato la magica polverina perfino nell’aria: eppure, dato che è
sniffata a tutto spiano perfino in Parlamento, non è considerata una vera
emergenza. Ma lo è, diocristo.
Sono d’accordo con Lester: Station To Station è un masterwork. La titletrack riprende brillantemente l’idea alquanto datata della suite, mentre
TVC 15 è in effetti un gran pezzo, rozzo e sgangherato – a quanto pare il
titolo deve molto a una storia raccontata a David da Iggy Pop nel 1975 a
proposito della ragazza di Iggy inghiottita da una set televisivo… ahi,
Sorella Morfina! Sono ottimamente congegnate le dinamiche funky-rock
di Golden Years e Stay. Wild Is The Wind e Word On A Wing eccedono
forse un tantino in pathos ducale, ma la seconda mi piace moltissimo, con
quella vaporosa nota di sintetizzatore all’inizio che richiama realmente
123
l’immagine di una parola in caduta libera dall’ala di un uccello libratosi in
volo. Le chitarre, e qui do pienamente ragione a Lester, sono grandiose:
Carlos Alomar, Earl Slick e Stacey Heydon, quest’ultimo presente nelle
due bonus track registrate dal vivo, fanno veramente i fuochi d’artificio.
Un’altra scena da un’altra pellicola, e un’altra bruna conturbante: Mathilda
May, alias Space Girl (chiamarla semplicemente “aliena” pareva troppo
ordinario?), percorre nudissima gli interminabili corridoi di un laboratorio
governativo col passo vellutato di una mannequin.
Space Vampires è uno di quei film talmente assurdi da divenire oggetto di
culto. Ritengo che in cuor suo il regista Tobe Hooper volesse realizzare
una sintesi modernista e sensuale dei buoni vecchi film di fanta-horror: ma
il risultato, super-produzione effetti ultra-speciali e principesca campagna
pubblicitaria a parte, mi richiama alla memoria piuttosto certe boiate girate
nei primi anni Settanta da Jess Franco con Lina Romay e C. Le quali se
non altro avevano il pregio dell’artigianalità.
In ogni modo, Mathilda May era fantastica (lo è ancor più adesso, a 43
anni compiuti). Esistessero davvero delle creature aliene così voluttuose!
Ehm, nel caso ne conosceste una, magari nella Nube di Magellano dove si
mormora siano tutte ciorgne, me la mandereste qui a bordo? Comincio a
sentirmi un po’ solo…
Drin-drin. Decimo squillo della mattinata. Ed erano soltanto le dieci e
trentacinque!
“Maurizio F.”
“Je suis Nicholas Ercoreca. Est-ce je peux parler à monsieur Rama?”
Santa Madonna del Pilone! “Ehm, oh, uhm... Monsieur Rama il n’est pa
en bureau.”
“D’accorj’appeleraiplustardtartufonjesuicathrindenevue.”
“Sì, okkey, au revoir.” Le palle di fra Giulio che mi trovi qui quando
richiamerai.
Difatti, pochi minuti dopo il termine della pausa per il pranzo, avendo
saputo dalle stressatarie di direzione che più o meno tutti i quadri dell’ente
sarebbero rimasti in riunione dall’amministratore delegato fino alle quattro
del pomeriggio come minimo, mi feci scribacchiare un permesso d’uscita
anticipata dall’unico ravanello che contando quanto una caccola di naso
non era stato convocato su nella fulgida stratosfera dirigenziale (non senza
qualche brontolio da parte del fantozzi) e me la diedi a gambe. Adieu,
maricons.
124
Lester e i Clash. “E così, eccomi qui grazie alla cortesia aziendale della
CBS International per vedere i Clash, per sentire i gruppi new wave alla
radio (una festa per le orecchie di un americano) e trovare l’Impero,
finalmente, di nuovo in preda a fermenti.” Per Lester, il cui pensiero era
che il rock fosse sceso qualitativamente in picchiata dopo il 1968 avendo
raggiunto il suo zenit nell’anno precedente (quando Keith Richards ancora
non si arrampicava sulle palme da cocco e se n’andava a spasso per il
Sistema Solare con gli occhiali da sole a occhio di mosca), il punk-rock
rappresentò un’ipodermica per cavalli di nuova linfa esistenziale. Tant’è
vero che la sua crepitante (al solito) recensione critica del gruppo inglese è
strutturata in tre lunghe parti, che verranno pubblicate sul New Musical
Express il 10, 17 e 24 dicembre 1977. Premettendo che, politicamente
dissertando, non sa niente e non gliene potrebbe fregare di meno della
struttura sociale inglese, il biondo scrive che il gruppo di Joe Strummer,
Mick Jones e Paul Simonon “è giusto perché sotto il loro paesaggio sonoro
teso e aspro si cela un persistente umanitarismo.” In più, gli aggradano
come persone, molto più di ogni altro gruppo che abbia mai incontrato.
Presumibilmente perché la sera che li conobbe essi rintuzzarono ogni sua
provocazione con naturale arguzia britannica, senza mai tirarsela da rocker
arroganti e spocchiosi.
(“Be’, Lester”, disse Mick Jones, “non guardare me. Se ti dà tanto fastidio
il genocidio culturale perché non fai tu qualcosa per cambiare le cose?”
“Sì”, disse una delle fan, una ragazzina punk di colore carinissima, “ci stai
facendo venire la depressione a tutti quanti!”)
Lester B. finisce per montare sul carrozzone della band. Ci racconta di
quando con nonchalance lasciò cadere che si era portato dietro la cassetta
del nuovo album dei Ramones, Rocket To Russia, scatenando il genuino
entusiasmo del gruppo. È molto felice di poter dire che i Clash sono fan
accaniti dei Muppets, nonché gente relativamente sana (relativamente
perché si fanno fior di cannoni, ma in dosi coscienziose il fumo integra il
pensiero). “Non c’è neanche un affumicatore di cucchiai o un fricchettone
malconcio. Oltre a ciò, non divorano groupie adolescenti come caramelle
Zigulì, ammazzano il tempo e la noia sul tour bus leggendo libri impegnati
e s’intrattengono spesso a parlare coi loro fan.” Magnifica il sex appeal
misto di “monellaccio adolescente e primate del Paleolitico” di Paul
Simonon. Trova “patetica e inadeguata” tutta la terminologia critica
utilizzabile per descrivere le loro torrenziali esibizioni. Assiste a diatribe
con titolari di locali pieni di mota e occhiate in cagnesco fra punksters
125
sovraccarichi di spille e spillette e teddy boys perdutamente convinti della
propria unicità. Non sente per nulla la nostalgia di New York, che l’aveva
attanagliato in altre precedenti esperienze in Inghilterra. E di conseguenza
riflette intensamente per la decimillesima volta sul suo controverso paese
natio (“In America non sei tenuto a crescere. Sei tenuto a consumare.”)
Il suo incarico avrebbe dovuto durare tre giorni, ma Lester è talmente
preso bene che prosegue con i Clash fino a Coventry. Durante il concerto
attacca bottone con una punkette “molto vivace, sana, giovane col suo
giubbotto ricoperto di spallette coi nomi dei gruppi”, molto indispettita
perché i Clash avevano chiesto al pubblico di non sputargli addosso.
“Dopotutto, sono stati loro a cominciare”, dice.
“Però suonano meglio quando non lo fate”, le rammenta Lester.
“Non importa! Io voglio solo saltare! E anche i miei alunni!”
Lester rimane basito. “I tuoi alunni? Aspetta un attimo, quanti anni hai?”
“Ventiquattro. Faccio l’insegnante.”
“Ma… allora… che ci fai qui? Cioè, perché ti piacciono i Clash?”
“Perché mi fanno saltare!” E si è allontanata pogando.
Me, me stesso e io. Nel 1983 le pareti della mia stanzetta erano adornate
da un assortimento quanto meno eterogeneo di poster; Kiss, Iron Maiden,
Richard Gere (oh, avrei voluto essere bello come lui!) la formazione del
Torino Calcio 1982-83, Alice (!), Rod Stewart… e i Clash. Il mio primo
loro album era stato Combat Rock, ma in seguito avevo fulmineamente
percorso a ritroso tutta la loro discografia fino a quello juggernaut di suoni
e intenti bellicosi che è The Clash, uno dei capolavori della storia del rock.
Noel Gallagher una volta si è chiesto che diavolo ci trovasse la gente nello
stile musicale del quartetto londinese. Io una miriade e fischia di volte mi
sono chiesto che acciderba ci trovo io, nonché qualche altro milione di
musicomani sparsi su quest’enorme sasso surriscaldato, negli Oasis. Una
spiegazione può essere la loro propinquità al Ritmo Assoluto di Arthur C.
Clarke: una volta che ti è penetrato nella capoccia vi resta per l’eternità,
fagocitando ogni altro pensiero, addirittura i bisogni primari. Piuttosto
inquietante, non trovate?
I Clash invece sono il rock’n’roll ridotto alla propria pulsante ossatura e
rilanciato nella stratosfera in un razzo a propulsione Molotov Cocktail.
“Personalmente, non ricordo neanche di aver registrato il primo album,
talmente ero intontito dagli spini”, rivelò poco prima di andarsene Joe
Strummer a un rampante giornalista. Macché intontito, carissimo Joe: eri
126
in stato di grazia! Flirtavi con la Musa nella Bottega dell’Arte, col Bob
Marley in bocca e una mano fra le sue lunghissime gambe. E Il Capitale di
Marx sul bancone.
Julian Cope ha descritto efficacemente i concerti di questa pattuglia di
uomini veri: “I Clash facevano pensare a un’immensa guerra nucleare.
Avevi bisogno di movimenti che descrivessero le sparatorie sul delta del
Mekong o i bombardamenti al napalm contro i bambini senzatetto.”
He’s in love with rock and roll, woaahh!!! Non c’è una nota fuori posto in
The Clash. L’unità d’intenti musicali e sociali è straordinaria, irripetibile
quanto può esserlo Guernica di Picasso o Il Pensatore di Rodin, e Fun
House. Non ti stanca proprio mai, e quando lo metti sul piatto o nel lettore
laser o vattelappesca non è per enuclearne una canzone o due, exempli
gratia ora mi ascolto London’s Burning e più tardi alla terza canna 48
Hours e nel mentre le Pipettes: te lo spari nelle orecchie ininterrottamente
dal principio alla fine.
Esimi Conflitti, ho un buon amico che come me vi ha venerato e continua
a venerarvi come divinità che hanno preso forma umana, tuttavia è così
rockisticamente pignolo che mi rubatta regolarmente le scatole con la
storia che l’assolo di Police & Thieves gli suona come se fosse stato
eseguito con una moneta da 100 lire anziché un plettro. Sarà, ma proprio
in ciò sta la sua attrattiva! Ascoltatelo a buon volume al volante del vostro
cigolante macinino italiano in un pomeriggio soleggiato di mezza estate
sulla strada per Lekeitio...
Strobe-cut. E mi ritrovai al bar Patxon di Karraspio, col mio culetto sodo
poggiato su uno sgabello davanti al bancone. Manco il tempo d’imprecare
che un’adorabile sirena bionda attraccò al mio molo e cantò: “Kaixo! Ni
Nerea naiz. Eta zu, nor zara zu?” Ciao! Io sono Nerea. E tu chi sei?
Il Babbione Natale, mi veniva da risponderle. Per contro rimasi silenzioso
a fissarla come un bue sedato con una vagonata di thorazina. Era Piggy
versione Lea-Artibai, più alta e slanciata e con quei lineamenti peculiari
dovuti alla progressiva secolare introduzione dell’orifizio occipitale nel
cranio con conseguente ritrazione del volto e ingrossamento delle tempie.
In qualunque modo desossiribonucleico un bel pezzo di legno giovane, coi
suoi pantaloncini di cotone bianco, la blusa rosa confetto e le ciabattine
infradito. L’esame successivo per ottenere il Patentino Intergalattico di
Bambino Rock delle Stelle?
“Nor zara zu?” ripeté sorridendo Nerea Piggistarain.
127
Io parlo il basco, o meglio ne mastico una trentina di frasi utili per stupire
il borghese locale, specialmente il tipico stronzone di buona famiglia che
ritiene che gli italiani siano tutti cretini e cascamorti e berlusconiani come
pure discendenti dei piloti fascisti che bombardarono a tappeto Gernika.
“Ni Maurizio naiz, laztana. Arratsalde on!” L’ultima locuzione significava
“buon pomeriggio”, ma eravamo davvero in quella parte del giorno? Mi
voltai verso le lontane onde spumeggianti: surfisti torciati, lettori solitari,
fette di anguria, cellulite navarra, perizomi castigliani. Sì, dovevano essere
le cinque o giù di lì.
Replica di Nerea: “Ottimo livello di euskera!” Anche lei usava parecchio
le strisce sbiancanti per i fanoni. Dopodiché mi aspettavo una domanda del
solito banale repertorio, tipo che ci fa un italiano a Lekeitio, com’è che
parli così bene la nostra lingua, è nato prima l’uovo bilbaino o la gallina
donostiarra e avanti parei fino al Big Crunch.
Ma la neska mi spiazzò prendendomi delicatamente la mano e frusciando,
in perfetto italiano: “Vieni. Andiamo in spiaggia a parlare un po’.”
Non avendo tra tutt’e due un asciugamano (men che mai io!), ci sedemmo
direttamente sulla sabbia, a metà cammino fra il bar e la battigia. Io mi ero
fornito di una San Miguel Extra: molto diversa dalla Especial, è una strong
lager ambrata con un retrogusto maltato ma molto persistente. Non proprio
una birra da spiaggia, ma è noto che i baschi sono gente spessa che ama le
emozioni forti. Non per niente si spingevano fino a Terranova per cacciare
le balene.
Nerea estrasse dalla sua pochette dorata uno spinello d’erba, se lo accese
con scioltezza e dopo tre o quattro boccate me lo passò. Nessuno ci guardò
di traverso. Karraspio era un contesto di dolce libertà estiva.
L’erba era squisita, si sposava alla grande con la birra. La sera s’inclinava
pigramente sui pescherecci alla fonda. Stavo come una spalmata di miele
con una goccia d’olio d’oliva su una fetta di pane tostato e imburrato. Ora
ci sarebbe stato a meraviglia un bacio tenero come cioccolato bianco sulla
guancia rosea della ragazza, come quando avevo nove anni sul grado del
portone con la mia fidanzatina delle elementari, la capa delle femmine.
Ma mi aspettava ben altro.
Tutt’a un tratto Nerea Piggiberria interruppe la contemplazione di un
surfista particolarmente abile. “Hai portato indietro qualcosa dal Traforo,
Maurizio?”
128
“Quale Traforo?” Poi capii. Era il nomignolo che gli scienziati avevano
appioppato alla Singolarità di Gibson. “Che intendi per qualcosa?”
Le punte dei suoi piedini ben modellati, il più bel sogno per un feticista,
smossero nervosamente la rena. “Intendo qualcosa, Mau. Qualsiasi cosa.”
Guardandola in tralice, roteai l’indice della mano destra. “Tutto questo è
vero, o è solo un dannato set della Nasa?”
“È vero, Mauri.” Un gemito di rassegnazione.
Cancellai la fantasia del bacio. Mi alzai, riducendole il sole a un alone.
“Reale una merda secca. Quel cannone era per blandirmi, vero? Così ti
consegnerei la qualsiasi cosa senza fare troppo i capricci, per il sommo
godimento dei capoccioni incravattati lassù o quaggiù in Sala Controllo.
Tuttavia, io non ho proprio niente da darvi. Nessun ninnolo extraterrestre
o sconvolgente verità cosmica scritta in esperanto galattico su pergamena
plasmatica. Nada. Ci facciamo un bagno?”
Lei mi chiese ancora, questa volta attraverso una lente gravitazionale:
“Cos’è successo dall’altra parte, Mauri?”
“Non voglio sapere cosa fanno i ricchi. Non voglio andare dove vanno i
ricchi. Si credono così furbi, si credono così giusti, ma la verità la sanno
soltanto i poveracci.”
“Zer da hori? Cos’è questo che dici?”
Che accidenti avrei dovuto rispondere a quella megagnocca governativa
cannaiola? “Senti, neska ederra, una razza benedetta mi ha fatto scoprire
Lester Bangs, pirotecnico recensore di frastuoni rock e figura chiave della
controcultura americana. Sono stato sottoposto a un confronto virtuale fra
le sue esperienze e le mie in materia di rock’n’roll che mi ha arricchito
l’esistenza.”
Ma a Nerea e soprattutto ai suoi ingessati responsabili non avrebbe potuto
fregagliene di meno. Essi volevano, anzi pretendevano l’oggetto, il reperto
tangibile da analizzare, sezionare, fotografare, vezzeggiare, sodomizzare;
non si spendono miliardi di soldi dei contribuenti per mandare un tizio
dall’altro lato di un wormhole a dissertare di beat, hard rock e punk con gli
ometti verdi, le piovre senzienti, i globi luminescenti o qualunque aspetto
abbiano i nostri interlocutori.
Fiato sprecato. E io, brillo, avevo una gran voglia di tuffarmi sotto quelle
onde, vere o artificiali che fossero. Allora abbandonai un’interdetta Nerea
sul suo piccolo monticello di sabbia e mi diressi ad ampie falcate verso il
bagnasciuga, con indosso ancora i pantaloni e la camicia di tela. La sentii
129
gridare qualcosa dietro di me, ma spallucciai. L’acqua era tiepida e pulita,
perfetta. Strobe-cut.
Aveva smesso di piovere: dopotutto, non può piovere per sempre. Ero
tornato in sintonia con il mondo che gli uomini definiscono reale. Piggy
Paradigmatica e Notebook Swimmer se n’erano andate.
In loro luogo, un’adolescente molto somigliante a Eva Green, la libertina
palliduccia e lentigginosa di The Dreamers. Eva Succedanea era intenta
nella lettura di La strada del Kama-Sutra di Deepak Chopra. Di lì a
qualche attimo fu raggiunta da un ragazzo alto e sottile coi tratti somatici
inconfondibilmente indiani: il suo Bhagwan.
ScaffHal colse quel momento per pronunciare le sue prime parole blasé
della giornata: “Nel 1967, terminato il tour australiano degli Yardbirds,
Jimmy Page se ne scappò in India: dichiarò che voleva ascoltare musica
carnatica. Magari vi fosse tornato, e rimasto per sempre, al termine delle
sessioni di Physical Graffiti.”
Sorridendo sotto i baffi, calai lo sguardo al blocco di memoria cartaceo.
Un altro cambiamento. Sul mio tavolo non c’era più la Guida Ragionevole
al Frastuono, ma I CLASH/Arcana Editrice. Lo attivai.
“Non stare alle regole / non fanno per te è roba da stupidi / E se non lo sai
lo stupido sei tu / Allora stateci voi alle regole pezzi di idioti.”
Sorrisi di nuovo. Il cielo si spalancò in un immenso lago azzurro. “Grazie,
Lester: sei un grande. Stasera berrò un paio di Bud in tuo onore. Facciamo
anche sei.”
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Figura 10. Keep your riches, gimme a Budweiser!
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EPILOGO
Un martedì sera qualunque. Cementati davanti all’ingresso del Lab, io e la
mia banda sorseggiamo la quarta o quinta birra, dopo un po’ uno perde il
conto. Sotto i portici della piazza è tutto uno sfilare di ragazze mediamente
giovani e attraenti, con frequenti bagliori d’eccellenza. Vito reitera spesso
che quando noi eravamo dei pivellini le ragazze non erano così belle. Io
credo che vi fossero anche meno ragazze a spasso per la città la sera: per
dirla volgarmente, eravamo tutti cazzi e zero, o quasi, gnocche. In fin dei
conti, non tutto il progresso viene per nuocere. Comunque io ora sono in
una seria e felicissima relazione a distanza e, insomma, che ve lo dico a
fare.
Alla consolle DJ Naska, storico (Daffy, suo vecchio compagno di brigata
modernista, correggerebbe in “anziano”) batterista degli Statuto, si lancia
in un brillante mix di successi rock britannici. Ciò dà la stura all’ennesima
discussione musicomaniaca:
Vito: “Secondo te qual è il disco più bello dei Faces?”
Io: “Mah, a me piacciono tutti. Certo che A nod is as good…”
Giorgio Pitone (soprannominato così per i suoi forti appetiti): “Io sono
più per gli Smiths e le band shoegazer. Carina quella biondina laggiù.”
Daffy: “Dio c…, sempre con ’sta musica. Non avete più vent’anni!”
Io: “Se è per questo, neanche trenta. E fra un po’, neanche quaranta.”
Eh già.
Di Soffocare, che per me è il miglior libro scritto da Mr. Chuck Palahniuk,
mi ha colpito soprattutto una frase. Pag. 1, riga 7: “Tanto, ringiovanire non
ringiovanisci.” Spietatissimo, ma vero. Puoi tingerti o trapiantarti i capelli,
riempirti i lineamenti di botoina fino a sembrare uno scimpanzé bonobo,
bere ettolitri di tè verde e passare tre quarti della tua giornata a pisciare nel
cesso, gonfiarti le poppe con l’olio di colza dieci volte l’anno, massacrarti
di step cinque sere su sette, fare Tai Chi ogni mattina presto al parco sotto
casa in mezzo alle deiezioni canine e alle siringhe usate. Ma non smetti di
invecchiare neanche per un fottuto nanosecondo.
Tutto sta nel piantarla di rodercisi il fegato e il cervello. Cambiare canale
ogni qual volta lo psicologo ospitato di turno si mette a pontificare sulla
crisi di mezz’età. Fregarsene altamente di quella data stampata sulla carta
d’identità. Far rottamare l’invidiometro dall’AMIAT. C’è ancora tanta,
tantissima vita oltre il devastante doposbornia della gioventù. I brasiliani,
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che sono molto saggi, fanno del doposbornia una nuova festa. Anche gli
spagnoli sostengono che non c’è niente di meglio che un bel boccale di
birra chiara e fresca per toglierti la resaca. E ricominciare coi baccanali.
Diciamo tutti insieme grazie che ho bevuto. Sempre e comunque.
“Facciamo un altro giro?”
“Ma naturalmente!”
“Io veramente domani mi dovrei alzare presto…”
“Dài. L’ultima birretta e andiamo a casa!”
Forse.
© 2011 Maurizio Ferrarotti. Tutti i diritti riservati.
Figura 11. Già, forse...
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La pratica di una professione richiede disciplina, che per me intendeva
la produzione di duemila parole in bella copia ogni giorno,
fine settimana inclusi.
Scoprii che, qualora cominciassi abbastanza presto,
avrei potuto completare il lavoro quotidiano prima che aprissero i pub.
Diversamente c’era un inebriante periodo della notte
dopo l’orario di chiusura, coi vicini di casa battendo sui muri
per protestare contro l’industrioso ticchettio della macchina da scrivere.
Duemila parole al giorno significa
un totale annuale di settecentotrentamila.
Porta in su la percentuale e, senza indebito sforzo,
puoi raggiungere il milione.
Questo dovrebbe significare dieci romanzi
di centomila parole per ciascuno.
Naturalmente l’approccio quantitativo alla scrittura non è contemplato.
E a causa di doposbornia, dispute coniugali,
citazioni per incontrare funzionari statali, e pura torpida malinconia,
io non fui capace di realizzare più di cinque romanzi e mezzo
di dimensione molto moderata in quell’anno pseudo-terminale.
Nondimeno, ciò era quasi prossimo all’intera produzione letteraria di
E.M. Forster nella sua lunga vita.
Anthony Burgess, celebre scrittore mancuniano, autore
di una cinquantina di libri tra i quali A Clockwork Orange
(“Arancia Meccanica”).
A 43 anni gli fu erroneamente diagnosticato
un tumore inoperabile al cervello con aspettativa di vita di un anno.
Il “mezzo romanzo” era per l’appunto la prima stesura di
A Clockwork Orange.
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FONTI
Biblioteca personale e pubblica
STERLING, Bruce, Fuoco sacro, Fanucci Editore, 1997.
ELLISON, Harlan, Idrogeno e idiozia, Fanucci Editore, 1997.
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Economici, 1995.
ALONSO, Javier, Sueños y cadáveres, Pre-Textos, 2002.
M. SANZ José «Loquillo», El chico de la bomba, Belacqva, 2002.
THACKERAY, William Makepeace, La fiera delle vanità, Rizzoli
Editore, 1954.
HALDEMAN, Joe, Guerra eterna, Editrice Nord, 1996.
SUSANN, Jacqueline, Una volta non basta, Edizione Euroclub Italia su
licenza di Aldo Garzanti Editore, 1979.
BANGS, Lester, Guida ragionevole al frastuono più atroce, Minimum
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PEGG, Nicholas, The complete Bowie, Arcana Libri, Fazi Editore, 2005.
DAVIS, Stephen, Il Martello degli Dei: la saga dei Led Zeppelin, Arcana
Libri, Fazi Editore, 2004.
SPÄTH, Gino, Birra & Birra, Mistral Gruppo Demetra, 1994.
GAMBERO ROSSO, Almanacco del Berebene Birra, Gambero Rosso
Editore, 1999.
MONTANARI & FLANDRIN, Storia dell’alimentazione, Laterza Editori.
MUCK, Otto, I segreti di Atlantide, Edizione Euroclub su licenza di SIAD
Edizioni, 1986.
ELLIS BERRESFORD, Peter, A Dictionary of Irish Mythology, Oxford
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DAPINO, Cesare, Spagna settentrionale, Guide Edt su licenza di Lonely
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BURGESS, Anthony, A Clockwork Orange, Penguin Books, 1996.
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GIBSON, William, La notte che bruciammo Chrome, Oscar Mondadori,
2001.
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CERVERA, Rafa, Alaska y otras historias de la movida, Plaza & Janés
Editores, 2002.
Internet
www.ateneodellabirra.it
www.areabirra.it
www.birraland.it
www.marionegri.it
www.winix.it
www.vinoclub.info
www.calodges.org
www.dinodasandra.com
www.multibirra.com
www.zimbio.com
www.inventorspot.com
www.realbeer.com
www.homebrewtalk.com
www.sallys-place.com
www.scaruffi.com
…e naturalmente, Youtube e Wikipedia!
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