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e le mamme chi le aiuta - istitutoreferendario.it
Alba Marcoli
E LE MAMME CHI LE AIUTA?
Come la psicologia può venire in soccorso dei genitori (e dei loro figli)
E le mamme chi le aiuta? Essere genitori è una grandissima gioia ma comporta anche difficoltà,
ansie, incertezze sul proprio ruolo educativo perché tanti sono i momenti in cui le tappe evolutive
dei figli e i loro cambiamenti possono presentare dei problemi. Spesso si tratta di problemi non
gravi, tipici delle diverse fasi di crescita, altre volte, invece, di malesseri più seri, che giungono a
compromettere la serenità e l'equilibrio dell'intera famiglia.
Quante orecchie
deve avere un uomo
prima di poter sentire
la gente piangere?
Parte prima L'ALLEANZA CON I GENITORI
La scarpa che va bene a una persona fa male a un'altra; non esiste una ricetta per vivere che vada
bene per tutti i casi.
Vivere non è per niente semplice, è anzi complesso e difficile, come ognuno di noi ben sa, ed è il
mestiere che a poco a poco impareranno crescendo prima i bambini e poi gli adulti che loro stessi
saranno diventati. Sempre per tentativi ed errori, come è successo dagli inizi della storia
dell'umanità: è stato cadendo e rialzandoci che abbiamo imparato a camminare e a mantenere la
conquista della posizione eretta. Tutta la cosiddetta età evolutiva, dalla nascita al diventare adulti, è
dunque il percorso dell'acquisizione dell'arte del vivere, mai data per scontata e mai conquistata
definitivamente, perché per l'intera vita dovrà adattarsi alle diverse età e circostanze.
Non sempre le soluzioni che avevamo trovato in passato potranno servire per i nuovi problemi e
dovremo adattarle о cercarne altre che ci possano aiutare di fronte alle situazioni che ci si
presenteranno.
L'arte del vivere è fatta dunque di tante piccole e grandi strategie che ciascuno di noi ha elaborato
nel corso del tempo per affrontare gli ostacoli, rettificare il tiro e trovare i propri adattamenti, sia
quelli personali sia quelli familiari, alle varie circostanze della vita. Ognuno ha cercato i propri,
possibili per lui in quel particolare momento e in quella particolare situazione.
In tale ricerca si attinge in genere a due patrimoni contemporaneamente: quello personale,
individuale (genetico, storico ecc.) e quello culturale del gruppo in cui siamo cresciuti, a partire da
quello familiare.
Insieme alla vita, infatti, da una generazione all'altra passa anche l'arte del vivere così come è stata
elaborata da quel particolare gruppo e dalla cultura di appartenenza nel corso degli anni e nel
succedersi degli eventi, le caratteristiche fondamentali dei funzionamenti mentali, i tipi di
meccanismi di difesa usati, la prospettiva da cui si guardano le cose, le strategie che si utilizzano
inconsapevolmente per automatismo e così via.
Questo passaggio avviene il più delle volte senza che noi ne abbiamo la consapevolezza perché è
diventato a poco a poco il nostro stesso modo di pensare e di funzionare mentalmente, seppure
all'interno della nostra specifica individualità. Se siamo cresciuti per esempio in un gruppo con la
tendenza a funzionare con un pensiero di tipo assoluto (o bianco nero, tutto о niente) tenderemo a
usarlo inconsapevolmente anche con contenuti opposti a quelli in cui siamo cresciuti, pensando
invece di comportarci in modo diverso о addirittura contrario (niente regole al posto di troppe
regole, solo «sì» al posto di solo «no» ecc).
In entrambi questi patrimoni cui ognuno di noi attinge ci sono punti di forza e punti di fragilità,
come per tutto ciò che riguarda la vita. Quando i punti di fragilità diventano più importanti e
numerosi dei punti di forza, vivere diventa più faticoso e difficile del solito, soprattutto nei momenti
già per loro natura problematici e impegnativi dell'esistenza dal punto di vista psicologico:
cambiamenti, passaggi di crescita, perdite e così via. È solitamente proprio in queste situazioni di
maggiore fragilità che possono emergere in una famiglia dei sintomi psicologici, sia in noi adulti sia
nei bambini: sono delle sane segnalazioni che il nostro inconscio ci invia perché in quel momento
possiamo fare qualcosa per rinforzare il nostro patrimonio davanti alle difficoltà, individuando i
comportamenti e le difese che ci si ritorcono contro per cercare di evitarli о attenuarli.
Un aiuto psicologico può allora diventare estremamente utile e importante, ma è altrettanto utile e
importante individuare precocemente le situazioni e i momenti più difficili e più a rischio di sbocchi
involutivi per poter incanalare le risorse di un bambino e di una famiglia verso uno sbocco
evolutivo di maggiore benessere psicologico per tutti, piuttosto che verso una sofferenza patologica.
Lo spirito di questo volume è perciò quello di riunire le riflessioni su una serie di interventi
compiuti soprattutto da colleghe e caratterizzati da una finalità preventiva nei confronti del futuro
possibile disagio giovanile che, in ultima istanza, riguarda sempre un intero nucleo familiare. Si
tratta di interventi rivolti in genere ai genitori, nei momenti difficili ma anche in normali situazioni
della vita, con caratteristiche molto diverse da una psicoterapia vera e propria ma con una valenza
terapeutica. Sono infatti più brevi, più diluiti nel tempo, mirati a particolari momenti, attuabili
spesso in contesti di gruppo più ampi rispetto alla psicoterapia (dal gruppo familiare a quello
allargato) per cui hanno una ricaduta benefica su un maggior numero di famiglie con un minore
dispendio di risorse (non di competenze, però, perché richiedono di solito una lunga esperienza di
tipo psicoterapico da parte dell'operatore). Sono spesso apparentemente semplici e quasi banali, ma
preziosi dal punto di vista collettivo, sociale e da quello di un maggior benessere psichico sia dei
piccoli che delle loro famiglie.
Il lavoro con i genitori e la loro collaborazione sono fondamentali nella prevenzione del disagio
giovanile. È difficile infatti che altre figure, se non in casi eccezionali, abbiano la stessa influenza e
lo stesso ruolo di primi attori delle figure interiorizzate dei genitori sul palcoscenico interno di un
bambino. Sono loro, di solito, le figure più importanti del suo mondo interno perché non solo gli
hanno dato la vita, ma si sono presi e si prendono cura di lui e dei suoi bisogni di cucciolo giorno
dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno per ventiquattro ore su ventiquattro.
Non esiste altra relazione fra esseri umani (anzi, viventi, perché la si ritrova in genere anche fra gli
animali e i loro cuccioli) dove vengano fatte altrettante azioni di accudimento e di cura come in
quella con i propri piccoli. Questo fa sì che un intervento d'aiuto per un bambino compiuto
attraverso i suoi genitori о con la loro collaborazione abbia molte più probabilità di riuscita rispetto
a un intervento con il solo bambino, anche perché quest'ultimo è spesso soltanto il portatore di una
situazione familiare complessiva. Entrano in gioco molte più risorse e i genitori stessi possono
sentirsi giustamente valorizzati invece che in colpa per non essere riusciti a evitare una sofferenza al
proprio bambino, come spesso succede. Nessun genitore è così onnipotente da poter proteggere i
propri figli dalle difficoltà della vita; li può però attrezzare meglio perché siano più forti e quindi in
grado di non esserne travolti quando le incontreranno.
I genitori che possono sentirsi attivi nel percorso di aiuto, anche psicologico, ai loro figli
percepiranno di aver fatto del loro meglio per accompagnarli e attrezzarli nei momenti difficili.
Saranno poi proprio le caratteristiche di questo «meglio possibile» l'oggetto di un percorso e di una
riflessione psicologica che può anche non sfociare in attivismi di alcun genere, bensì in un lavoro
interno di leggera modifica di atteggiamenti mentali e dell'ottica con cui si guardano le cose.
Spesso infatti sarà proprio il riuscire a essere presenti ma a non intervenire davanti alle difficoltà di
un figlio (senza per questo abbandonarlo emotivamente) ciò che potrà permettere a lui penando e
faticando di scoprire, educare e rinforzare le sue stesse risorse per gli altri periodi di difficoltà che la
vita gli farà inevitabilmente incontrare.
Questo, per esempio, è di solito un punto di vista molto difficile da assumere per un genitore,
perché così facendo può avere l'impressione di tradire il suo ruolo protettivo di adulto, sentendosi
ancora più in crisi di prima. Quello che avviene nella realtà sul piano psichico con un atteggiamento
del genere, se il genitore ci riesce, è invece la trasmissione intergenerazionale di una capacità
mentale fondamentale per la vita: quella di saper tollerare l'incertezza, la frustrazione, l'impotenza
che si devono provare e attraversare in tutti i momenti di attesa conseguenti ai passaggi, alle
trasformazioni e ai cambiamenti del vivere. E questa è una capacità che accompagna molto bene
davanti agli ostacoli.
Quali sono allora alcune delle maggiori difficoltà che incontrano oggi i genitori nell'accompagnare i
loro figli verso il futuro?
A detta di tutti coloro che operano con i bambini la più vistosa sembra essere quella di dare delle
regole e dei limiti ben certi, come se venissero ritenuti qualcosa che li potrà danneggiare e li farà
soffrire, anziché qualcosa che li attrezzerà meglio per la vita e li farà penare quindi di meno in
futuro, come in genere succede. L'avere dei limiti che lo contengano è un bisogno fondamentale e
irrinunciabile per un bambino, non è un optional. Lo aiuta a costruire i contenitori mentali.
Bisognerebbe forse ricordare la saggezza dell'antico proverbio popolare ormai dimenticato: «Chi ti
vuol bene ti fa piangere!».
Un'altra difficoltà con cui si scontrano spesso i genitori di oggi è quella di riuscire a calibrare le
aspettative sui figli in modo che non finiscano per danneggiare entrambi. Questa non è per niente
un'impresa facile in un mondo tutto proiettato sul mito dell'efficienza e del successo a ogni costo,
come è quello in cui viviamo. Succede così che spesso, per paura di non dare loro abbastanza
opportunità perché possano riuscire in un mondo molto competitivo, i genitori li carichino
inconsapevolmente di aspettative eccessive, che prima о poi potranno finire per ritorcerglisi contro.
Il rovescio della medaglia del «figlio meraviglioso», quello caricato di aspettative di successo e di
riuscita a tutti i costi nella vita, finisce allora per essere invece proprio il «figlio fallito», come ben
teorizzava Paul-Claude Racamier. Fallito non per incapacità о mancanza di risorse, ma perché
queste purtroppo gli verranno con facilità bloccate da un'ansia da prestazione paralizzante, che si
ritorcerà contro di lui e i suoi genitori rendendolo profondamente infelice. Sarà così con ogni
probabilità incapace di godere delle piccole conquiste del vivere perché non le riterrà mai all'altezza
delle sue aspettative e sentirà di conseguenza le proprie prestazioni sempre inadeguate.
Non sarà stato cioè attrezzato a sufficienza per affrontare la vita e accadrà esattamente l'opposto di
quello che i genitori in buona fede credevano, quando pensavano di dargli più opportunità. Eppure
nessun figlio è mai così meraviglioso, ma neanche così fallito. In questo caso un lavoro psicologico
può aiutare a modificare l'ottica con cui si guardano i fatti, ad andare oltre l'apparenza, a rendersi
conto di qualcosa di cui prima si era inconsapevoli, aiutando così indirettamente il figlio a utilizzare
meglio le proprie risorse.
«Mamma, tu devi essere felice» aveva detto una bambina a sua madre tanti anni fa «perché dopo
sono felice anch'io!»
Come sempre, sono i bambini che insegnano, quando ci fermiamo ad ascoltarli.
Gli interventi preventivi cui si fa riferimento in questo libro hanno perciò tutti la caratteristica di
migliorare non solo la qualità di vita dei bambini, ma anche quella dei genitori e delle famiglie,
agendo indirettamente da fattore protettivo nei loro confronti. Sono interventi che mirano a
sostenere i genitori nel difficile compito di fare gli adulti per permettere ai figli di fare i bambini,
senza doversi sostituire a loro.
Altrimenti, come dice un proverbio africano: «Quando gli elefanti combattono sono i fili d'erba a
soffrirne».
Come si può affrontare un problema psicologico? Quale aiuto possono dare i genitori
Dovreste innaffiare i vostri bambini come innaffiate un albero.
obiettivi anche quello di aiutarli a tollerare di non essere onnipotenti, di non avere le soluzioni
magiche per tutti i problemi del vivere, ma di avere le risorse per affrontarli, pur all'interno dei
limiti di ciascuno (e affrontare un problema è diverso dal fuggirne). Di essere cioè, nella bellissima
espressione di Donald Winnicott, un genitore «sufficientemente buono», né meraviglioso ma
neanche fallito, con i propri punti di forza ma anche le proprie aree di fragilità e di debolezza.
L'acquisizione di questa consapevolezza (fatta, ripetiamo, con il cuore, non con la testa) sarà da una
parte un buon antidoto rispetto al sentirsi falliti e dall'altra una buona trasmissione
intergenerazionale sull'arte di vivere. Che consiste spesso, in ultima istanza, nell'accettare che
ognuno di noi davanti alle difficoltà faccia non quel che vorrebbe, ma ciò che può, con i propri
limiti, in ogni circostanza e situazione.
Ma perché il lavoro con i genitori è così prezioso e indispensabile nell'aiutare un bambino dal punto
di vista psicologico? Perché i suoi genitori sono in assoluto le persone più importanti per lui e
quindi quelle che possono fare di più nella quotidianità anche rispetto alla trasmissione e
all'acquisizione emotiva della consapevolezza dei propri limiti, che è un percorso lungo da fare,
tanto più lungo quanto più si è piccoli.
Un bambino parte infatti da un pensiero di tipo onnipotente, in cui tutto è magicamente possibile,
per cui l'interiorizzazione dei limiti è sempre un processo difficile e lento nel tempo. Impara inoltre
non da ciò che gli si dice, ma da ciò che vede fare intorno a sé: a parlare, ad ascoltare, a camminare,
a Interiorizzare о meno i limiti e così via.
Attraverso la relazione, da una generazione all'altra passa anche tutto ciò che accompagna la vita: la
lingua che si parlerà, gli atteggiamenti che si assumeranno, il tipo di difese che si useranno davanti
agli inevitabili ostacoli che si incontreranno e così via. Il tutto nell'unicità e irripetibilità
dell'incontro che avverrà con quello specifico bambino: il suo singolo patrimonio genetico, la sua
singola storia, le sue singole esperienze di vita ecc.
Ogni relazione con un figlio è infatti specifica e unica: nessun bambino è uguale a un altro e nessun
fratello nasce mai nella stessa famiglia. Ognuno nasce in un preciso momento storico diverso nella
vita di quella famiglia e di quei genitori, per cui ogni incontro sarà unico e diverso e di conseguenza
lo sarà anche la relazione. Un conto è nascere primogeniti in uno specifico contesto, e un conto è
nascere secondogeniti, terzogeniti in altri.
L'ansia dell'imprevedibilità delle situazioni, del non sapere come comportarsi davanti ai bisogni di
un neonato che solitamente accompagna il primogenito è molto diversa con il secondogenito
quando, bene о male, si è già imparato a fare il genitore. Ecco quindi perché ogni relazione è non
solo diversa, ma ha una sua diversa storia, specifica e irripetibile. Un bimbo nato in un momento
sereno della vita familiare ha una storia diversa dal fratellino о dalla sorellina nati in un momento
triste della stessa famiglia.
L'intervento che segue ora è la descrizione di un tipo di consultazione che una famiglia può fare per
il proprio figlio in un momento di difficoltà. Non è magica, non è un toccasana, non promette di
risolvere i problemi ma aiuta semplicemente ad affrontarli. È solo uno dei tanti percorsi, altrettanto
utili, che si possono intraprendere in una situazione di difficoltà, dal punto di vista psicologico.
Una consultazione a valenza psicoterapica con i genitori
di Alba Marcoli
Guardate i vostri figli e le vostre figlie essi sono il vostro futuro.
Tradizione orale Oneida
Un importante aiuto per una famiglia nei momenti di difficoltà può essere il ricorso a una
consultazione psicologica о a un counseling, come viene oggi spesso definito. Ci sono vari tipi e
varie scuole di counseling, a volte non necessariamente fatti da psicologi о psicoterapeuti e destinati
a normali momenti difficili della vita di una famiglia.
Quello che cercherò invece di illustrare è un tipo di consultazione a valenza psicoterapica che, pur
non essendo una psicoterapia vera e propria ma un intervento breve come numero di sedute (anche
se distribuite nel tempo), implica una competenza e un'esperienza clinica che solo uno
psicoterapeuta a indirizzo analitico può solitamente avere, dopo anni di attività. Si differenzia,
infatti, sia come obiettivi sia come metodologia e profondità di livello, dai vari tipi di counseling ad
altro indirizzo e ugualmente utili oggi esistenti a disposizione delle famiglie. Proverò quindi a
descrivere quello che io, personalmente, ho messo a punto in anni di lavoro, adattandolo alle varie
situazioni, in base al mio modo di operare (ognuno di noi ha il proprio, ugualmente valido) e di
sentire.
Quali sono le caratteristiche principali di questo tipo d'intervento?
Innanzitutto non vuole dare risposte già preconfezionate, ma aiutare a cercarle piano piano dentro di
sé, nell'incontro fra l'umanità, la storia, le aree forti e quelle fragili, il funzionamento mentale non
solo delle famiglie, ma anche di noi terapeuti. È evidente che così c'è il rischio di suscitare agli inizi
una forte frustrazione, sia nei genitori che in noi operatori. Sarebbe molto più semplice per loro
porre una domanda precisa e ottenere una risposta precisa, esattamente come sarebbe più facile per
noi dare risposte e consigli invece che vivere la loro stessa frustrazione, iniziando insieme un
percorso di ricerca e di riflessione, partendo entrambi dalla capacità di tollerare di «non sapere»
(che, lungi dall'essere una dichiarazione d'impotenza, è invece un altro tipo di «sapere», solitamente
più fertile nel tempo perché stimola la ricerca e aiuta a scoprire le risorse). Non è per niente facile
tollerare di «non sapere», ma se si è accompagnati da qualcuno che ne condivida il peso e che abbia
una formazione e un'esperienza specialistiche, forse il cammino diventa un po' meno faticoso e può
essere intrapreso. Perciò ai genitori che vengono con domande ben precise per avere risposte
altrettanto precise agli inizi dico semplicemente che io non ho le risposte esattamente come non le
hanno loro, ma che posso accompagnarli a cercare insieme le strade percorribili. E una delle strade
più utili è quella di accantonare l'aspettativa di una soluzione magica e immediata del problema per
provare a riformulare in modo diverso le stesse domande.
Chiedersi, infatti, rispetto al comportamento di un bambino: «Perché mio figlio mi dice sempre di
no?» può diventare una domanda sterile che porta spesso a un vicolo cieco. Chiedersi, invece,
rispetto allo stesso comportamento: «Perché mio figlio fa così fatica a staccarsi da me? Che cosa
posso fare per aiutarlo?», oppure «Che limiti posso dargli per tranquillizzarlo e
contemporaneamente insegnargli che esistono i limiti?», о porsi altre domande ancora apre di solito
la strada verso la ricerca delle soluzioni possibili per noi in quella situazione, in quella circostanza,
in quel preciso momento della vita familiare (non è la stessa di prima una famiglia che attraversa,
per esempio, un momento di difficoltà, un lutto, una malattia importante, una depressione, la perdita
del posto di lavoro, un latente о manifesto conflitto di coppia e così via e tenerne conto è di
fondamentale importanza per capire il mondo interno di un bambino).
Una volta trovato il modo di cominciare a riformulare la domanda ponendocene insieme delle altre,
per evitare di far sentire i genitori oggetto passivo dell'intervento, chiedo la loro collaborazione e
spiego in che cosa consisterà la consultazione: un ciclo di sedute (in genere, ma non rigidamente, tra
le otto e le dieci) a cui potranno seguire nel tempo alcuni incontri di verifica (a distanza di qualche
mese) per valutare l'evoluzione e monitorare la situazione. Spiego quindi perché è fondamentale la
collaborazione dei genitori e cerco di valorizzare anche ai loro occhi l'importanza della relazione
come terreno privilegiato su cui è possibile operare piccole modifiche che possano a loro volta
indirettamente aiutare un bambino a cambiare in modo evolutivo.
Quando avverto che potrebbe essere utile, racconto una breve esperienza clinica in cui la
consapevolezza emotiva (quella razionale non basta) di ciò che avveniva nella relazione ha
permesso a dei genitori di cambiare atteggiamento (per esempio smettere di intervenire sempre al
posto del figlio sostituendosi a lui nell'illusione di aiutarlo) e ha di conseguenza permesso a un
bambino di mettere a punto le proprie strategie davanti alle difficoltà e di rinforzarsi. Gli ha
consentito cioè l'esperienza della «resilienza»: la maggiore forza che viene a ognuno di noi, grandi e
piccoli, da una difficoltà affrontata e superata, per tentativi ed errori. Una volta ottenuta una prima
alleanza dei genitori (senza la quale non si può davvero aiutare un bambino) spiego a che cosa
saranno dedicate le singole sedute: una о due per raccogliere la storia del bambino, una о due
(possibilmente doppie, come durata) per la storia della mamma e della famiglia materna (con
particolare attenzione a quella della nonna materna), una о due (anche queste possibilmente doppie)
per la storia del papà e della famiglia paterna e le altre per la sintesi della storia psicologica della
nuova famiglia e la ricerca di nuove strade. Questo ci permetterà di avere una maggiore
consapevolezza delle risorse e delle difficoltà, delle aree forti e di quelle fragili per poterle
rinforzare e arricchire così il funzionamento mentale familiare di nuove possibilità davanti agli
ostacoli.
Se per esempio nella storia dei genitori ritroviamo dei lutti non elaborati, sarà quella l'area a cui
dedicheremo particolare attenzione per permetterne col tempo l'elaborazione e liberare così energie
psichiche trattenute da eventi passati che possano diventare disponibili per progetti futuri. Il che non
significa affatto, come molte volte si teme, dimenticare le persone care che si sono perse, tutt'altro:
significa, al contrario, aiutarle a poter diventare dei buoni ricordi interiorizzati e vivi che
accompagneranno la vita verso il futuro, come un buon serbatoio affettivo, invece di tenere attaccati
a un passato perduto, irrecuperabile e irreparabile, legato solo al gelo della morte e alla negazione
dell'aggressività che si è inevitabilmente manifestata in certi momenti nella relazione.
Sono spesso infatti proprio le valenze aggressive che si sono provate e si provano nella relazione
con un oggetto d'amore quelle che tengono imprigionati, finché non si riusciranno a sciogliere e a
non farci più sentire trattenuti dai sensi di colpa.
«Nessuno è indenne da ferite psichiche» diceva Racamier. «E le ferite, si sa, guariscono. A una
condizione però: che vengano prima aperte.»
Ma anche i poeti l'hanno sempre cantato. «Alcuni dolori servono come cura» diceva Shakespeare e
l'elaborazione di un lutto, sia esso recente о antico, è uno dei terreni dolorosi più fertili.
C'è sempre uno scarto di crescita, a volte stupefacente, sia nei genitori sia nei bambini quando tale
elaborazione comincia ad avvenire. Ricordo ancora con commozione il caso di una bimba che
apriva sempre le sue sedute con la terapista disegnando una tomba e una croce e che ha smesso di
farlo e ha iniziato invece ad aprirle disegnando principesse sorridenti quando la sua mamma è
riuscita finalmente (attraverso la consultazione e una successiva terapia di sostegno durata un anno
e mezzo) a elaborare il lutto della perdita della propria madre, avvenuta tanti anni prima che la
bambina nascesse. Le energie che erano state liberate attraverso questa elaborazione hanno potuto
essere così utilizzate per i progetti futuri, trasformandosi da energie mortifere in energie vitali.
Cambiano così piano piano il modo con cui si guardano gli eventi e, anche leggermente, i
meccanismi di difesa usati. Cominciano a diventare pensabili e quindi contenibili nella mente
dispiaceri e dolori dai quali prima si scappava, perpetuandoli all'infinito in modo fisso, ripetitivo e
sterile. Il contenerli nella mente e il renderli pensabili aiuterà invece ad attraversarli, seppure molto
dolorosamente, ma anche col tempo a uscirne, facendo in modo che le cose non ci si ritorcano più
contro.
Lo stesso può succedere per i segreti familiari: ogni famiglia ne ha sempre qualcuno. Il bambino a
cui i genitori avevano per esempio tenuta nascosta la malattia terminale del nonno pensando così di
proteggerlo, è stato solo dopo lo svelamento che ha potuto affrontare e piangere a calde lacrime un
dolore prima negato e piano piano non soltanto superarlo, ma anche uscirne cresciuto e con più
risorse.
Oppure i genitori che inconsapevolmente mandavano prima al figlio un messaggio di completa
diffidenza verso il mondo esterno alla famiglia, il quale non solo non favoriva la sua socializzazione
ma gliela rendeva più difficile, hanno avuto il piacere di vedere che il figlio cominciava a sbloccarsi
e a essere perciò meno isolato dagli altri quando gliene hanno mandato uno leggermente diverso,
non a parole, ma nei comportamenti. Un messaggio del tipo: «II mondo è pericoloso e degli altri
non ci si può fidare», infatti, non solo non aiuta un bambino ma gli impedisce di sperimentare e di
imparare a capire di chi ci si può fidare e di chi è meglio non fidarsi. Il messaggio: «Nel mondo ci
sono dei pericoli, ma si può stare attenti e capire a chi si può chiedere aiuto e di chi ci si può fidare
nelle difficoltà» aiuta invece a mettere a punto le proprie risorse e a individuare le persone a cui
chiedere aiuto nei momenti difficili. Il bambino andrà così più attrezzato e più protetto verso la vita
e avrà un bagaglio personale interno a cui potrà sempre attingere.
La mamma che aveva chiesto dei colloqui per sé per cercare di gestire l'ansia eccessiva che le
davano la casa, il lavoro e due figli piccoli si è potuta rendere conto che dietro al ritardo linguistico
per cui il suo bambino di 4 anni era in terapia, stava anche il suo desiderio inconscio che lui restasse
piccolo.
Io desidererei moltissimo un terzo bambino perché ho compiuto quarant'anni e mi rendo conto che
si avvicina la scadenza biologica della maternità. Ho sempre sognato di avere tre bambini ma mio
marito è contrario, dice che non ce lo possiamo proprio permettere e che io fatico già troppo con
due. Allora mi rendo conto che, con il piccolo, è come se mi fosse scattato un forte desiderio che lui
non cresca, per potermelo godere il più a lungo possibile così piccolo!
È stato il rendersi conto che questo desiderio la faceva automaticamente comportare con il secondo
figlio come se lui fosse stato molto più piccolo, quello che le ha permesso, anche se con gran
dispiacere, di modificare la relazione con lui e di trattarlo come un bambino della sua età per
permettergli di crescere. E infatti, quando nella relazione è avvenuto questo cambiamento, il
bambino ha cominciato a fare dei progressi nel linguaggio molto più rapidi che in precedenza, fino
ad arrivare col tempo a poter comunicare con gli altri in un modo perfettamente adeguato alla sua
età e non più con l'intermediazione della mamma (come succede di solito con un neonato о un
bimbo piccolissimo e come succedeva prima tra di loro).
Il bambino aveva evidentemente sentito benissimo che la sua mamma gli aveva dato nella sua
mente il permesso di crescere, senza che lui dovesse continuare a fare il piccolo per paura di darle
un dispiacere. I bambini hanno infatti bisogno di avvertire sensitivamente (non a parole, quelle non
servono!) che i genitori sono contenti che loro crescano, altrimenti tenderanno in tanti modi
(linguaggio, sviluppo psicomotorio ecc.) a fare i piccoli con atteggiamenti regressivi per non dar
loro un dispiacere. Questo concetto è teorizzato da Racamier con il termine «bambino anticipato
nella mente dei genitori», fondamentale per comportarsi con un bambino adeguandosi alla sua
crescita, senza spingerlo troppo in avanti, ma anche senza trattenerlo indietro.
Questi sono solo alcuni esempi dei piccoli interventi d'aiuto di un simile tipo di consultazione che
arricchiscono la relazione genitori-figli di nuove possibilità, con un'evidente ricaduta benefica sui
bambini. La relazione diventa così il terreno privilegiato su cui poter fare affidamento per aiutare un
bambino a cambiare in modo evolutivo, per il semplice motivo che è l'unico terreno importante
influenzabile da noi, a differenza di altri eventi decisi e determinati invece dalla vita così come si dà
e si è data in quell'occasione (il patrimonio genetico di un bambino, la sua storia personale e
familiare, le esperienze e gli incontri che potrà fare ecc, tutti più о meno al di fuori della nostra
possibilità di determinazione, di controllo e di influenza).
«Sa che adesso vedo delle cose che prima non vedevo?», oppure «Sa che non avevo mai pensato di
fare quel collegamento?», о ancora «Mi rendo conto per la prima volta che ci sono delle analogie
fra la mia storia e quella di mio figlio!» о altre affermazioni del genere diventano spesso frequenti
man mano che la consultazione procede e che si iniziano a mettere a fuoco eventi cui prima non si
dava alcuna importanza. Si cominciano ad avere delle nuove consapevolezze e degli insight emotivi
che col tempo potranno spesso diventare trasformativi e modificare così le caratteristiche di una
relazione in senso evolutivo sia per i genitori che per i bambini.
«Adesso capisco perché a mio figlio viene sempre la febbre e fa un sacco di capricci proprio il
giorno prima che io vada in ospedale!» mi ha detto commossa una mamma che soffriva di una
malattia importante tanti anni fa. E questo ha permesso alla relazione fra di loro di cambiare. Perché
un conto è se io penso che mio figlio faccia tanti capricci о si faccia venire la febbre perché ce l'ha
con me e mi odia, e un altro è se penso che lui è così dispiaciuto e disperato per il fatto che io debba
andare in ospedale che si ammala anche lui e fa tanti «capricci» perché sta male.
Mentre prima risuonava dentro solo la corda della rabbia, del non capire e dell'impotenza, adesso
potrà risuonare anche la tenerezza, il sentirlo dalla propria parte e non contro di sé, la commozione
per un amore che per manifestarsi deve travestirsi in odio ecc. Si crea così di nuovo un ponte là
dove prima vi era un percorso interrotto. «Certe volte sembra che io e il mio bambino ci corriamo
incontro a braccia tese, ma quando stiamo per incontrarci ci areniamo sempre!» aveva detto la
stessa mamma agli inizi della consultazione. Il riuscire a leggere in modo diverso lo stesso
comportamento del bambino è stato ciò che invece ha permesso loro un incontro che prima
sembrava impossibile e che ha fatto stare meglio entrambi.
Quello che avviene nella consultazione, attraverso una diversa riappropriazione della storia di
ciascuno, genitori e figli, è infatti la ricerca della costruzione di un nuovo tipo di rapporto fra di loro
e di un nuovo equilibrio che permetta ai bambini di sentirsi più capiti, interiorizzando così delle
figure genitoriali più protettive, e ai genitori di sentirsi più contenti e in sintonia con se stessi, tra di
loro e con i loro figli.
Questo tipo di counseling si può fare nel caso, sempre auspicabile, che si possa contare sulla piena
collaborazione di entrambi i genitori, soprattutto i papà, che in passato erano meno presenti delle
mamme, per tanti motivi, non sempre oggettivi.
I padri di oggi sono, in genere, molto più presenti e partecipi che in passato e la loro collaborazione
è sempre preziosa, soprattutto quando si tratta di aiutare una coppia mamma-bambino ancora troppo
chiusa a poter evolvere e aprirsi per permettere al bambino di crescere. Anche questo tipo di
intervento è tuttavia adattabile alle singole situazioni e a quello che emerge come bisogno
prioritario e come possibilità oggettiva del momento. Quando non è possibile contare sulla
collaborazione di entrambi i genitori, si può lavorare con quello che esprime la domanda perché si
sente più in difficoltà. Sono spesso le madri a farlo (anche se ci sono varie eccezioni).
D'altra parte Winnicott stesso raccontava di non avere mai incontrato un bambino, nella sua
lunghissima esperienza di pediatra e psicoanalista, ma di aver sempre incontrato una coppia
mamma-bambino. La relazione madre-bambino, infatti, pur avendo lo stesso valore e la stessa
importanza della relazione padre-bambino, ha tuttavia una sua precisa specificità derivante dal fatto
che la gravidanza è avvenuta all'interno del corpo materno e non di quello paterno, così come è
stato successivamente per l'allattamento al seno. È diversa l'intimità del contatto madre-bambino
così come l'interazione fra di loro ed è diversa l'intensità e la durata dell'esposizione del bambino al
funzionamento mentale materno, sia in gravidanza che nei primi tempi di vita. E questo dà un
diverso imprinting alla relazione stessa.
Il compito del padre è importantissimo proprio per prendersi cura agli inizi della coppia mammabambino (una neomamma ha bisogno lei stessa di molte cure perché, per potersi sintonizzare
meglio con i bisogni di un neonato, subisce una forte regressione naturale che la fa ritornare fragile
come una bambina). Successivamente sarà altrettanto importante l'inserirsi fra di loro come terzo,
permettendo al piccolo di uscire dalla coppia chiusa mamma-bambino per intraprendere col tempo
il suo percorso di crescita come individuo, chiamato, non a caso, processo di separazione,
differenziazione, individuazione di sé.
Un'ultima cosa che vorrei aggiungere su questo percorso di consultazione psicoterapica che qui ho
solo brevemente schematizzato riguarda l'attenzione da dare all'alleanza con i genitori e al tipo di
linguaggio usato. L'alleanza è fondamentale perché si possa creare un ponte. Non c'è come il
sentirsi capiti che aiuti a stare meglio e di conseguenza a capire di più l'altro, perché non si è più
intrappolati solo dal proprio malessere e dalla propria sofferenza. Se come operatori riusciamo a
guardare le cose attraverso gli occhi dei genitori e a capire il loro punto di vista è più facile che essi
lo facciano con i propri bambini, facendoli stare meglio e creando un nuovo ponte con loro.
Tuttavia è importante riconoscere anche che ci sono delle situazioni familiari (per fortuna in larga
minoranza) in cui non è sempre possibile attuare questo tipo di consultazione. Si tratta in genere,
nella mia esperienza, di due situazioni in apparenza opposte ma ugualmente molto resistenti a
qualsiasi cambiamento psichico: quella dei gruppi familiari funzionanti esclusivamente su un
registro intellettuale di forti razionalizzazioni e quella dei gruppi familiari funzionanti su un registro
in prevalenza pratico e concreto, oppure solo persecutorio, entrambi lontani da qualsiasi possibilità
simbolica di contatto emotivo con il mondo interno. In questo caso è preferibile optare per un
intervento più di tipo pedagogico о di altro genere, lasciando intatto un assetto psichico che
potrebbe non farcela a tollerare un contatto emozionale diverso.
Un altro punto interessante di questo tipo di consultazione è che può anche servire a individuare e a
preparare gli ulteriori possibili sbocchi cui si può ricorrere per quella specifica famiglia a seconda
delle sue eventuali necessità, dal punto di vista psicologico. In linea di massima elenco i principali a
cui solitamente ricorro là dove valutiamo con i genitori che la consultazione stessa abbia bisogno di
essere rinforzata anche da qualche altro intervento, per il quale consiglio l'invio a colleghe con cui
collaboro abitualmente da lungo tempo (in campo psicologico è sempre prezioso anche il contributo
di altri punti di vista!). Ognuna di noi ha delle specifiche competenze ed esperienze professionali.
Per la fascia 0-4 anni soprattutto per quanto riguarda i problemi di alimentazione, sonno, controllo
sfinterico, contenimento attraverso le regole ecc. solitamente privilegio l'invio dell'intero gruppo
familiare (genitori e bambini) ad alcune sedute di terapia breve genitori-bambini, per cercare di
modificare qualche atteggiamento nel quotidiano che aiuti a gestire meglio il problema. Questo è
utilissimo in particolare con i bimbi a cui viene concesso di essere dei piccoli tiranni, perché
possano rientrare nel loro ruolo di «bambini» e sentirsi così più tranquillizzati, in quanto sono
contenuti e quindi più protetti da adulti che fanno gli adulti e non i piccoli, tenendo in pugno loro la
situazione e proteggendo di più.
Per la fascia 4-6 anni, se valutiamo insieme che al bambino potrebbe essere d'aiuto operare anche su
di sé, suggerisco spesso un'osservazione psicomotoria per un eventuale ciclo di sedute di
psicomotricità relazionale (e di logopedia se il sintomo è veicolato dal linguaggio) fatte da
professionisti con una lunga esperienza specifica nel campo (si tratta di un'esperienza un po' diversa
dalla psicomotricità che viene offerta, per esempio, nelle scuole, pur essendo utilissima anche
questa). Ho visto tanti piccoli migliorare molto nel tempo attraverso questi interventi.
Dopo i 6 anni, se i bambini presentano ormai dei sintomi strutturati, suggerisco spesso un invio da
qualche collega specializzata in psicoterapia infantile, per un'osservazione diagnostica che possa
valutare anche la necessità о meno di una psicoterapia infantile, о singola о di gruppo.
Il contributo che segue questo mio scritto sarà proprio una riflessione sull'osservazione
psicodiagnostica con i bambini di Velia Bianchi Ranci, una collega con cui collaboro da moltissimi
anni e che lavora con psicoterapie sia individuali che di gruppo con i bambini.
Non necessariamente l'osservazione psicodiagnostica termina con l'indicazione di una psicoterapia
per il bambino. Può anche terminare quando i genitori riescono a mettere a fuoco il funzionamento
mentale e le difese del bambino per cercare di aiutarlo attraverso la relazione e rinforzare le sue aree
fragili per favorirne l'evoluzione. Non dimentichiamo che il bambino ha enormi potenzialità.
Si valuterà nel tempo, attraverso un monitoraggio della situazione, se questo intervento è stato
esaustivo о se sarà opportuno aggiungere anche una psicoterapia.
Quando invece l'osservazione porta a valutare necessario un percorso psicoterapico è preferibile che
questo avvenga senza rimandarlo troppo, perché prima avviene e più il bambino ha la possibilità di
arricchire in modo evolutivo le sue difese e il suo funzionamento mentale che sono ancora in
formazione, andando così più attrezzato e protetto verso il futuro (ne vedremo un esempio
nell'intervento di Paolo Arru).
Naturalmente, in tutti i casi, è importante che continui il lavoro sulla relazione da parte dei genitori.
Nei casi di seri problemi coniugali, può essere utile anche l'indicazione di una terapia familiare о di
coppia.
L'altro terreno su cui mi sembra fondamentale soffermarsi in questo genere di consultazione è il tipo
di linguaggio usato. Credo che quello più utile sia il linguaggio normale della quotidianità, lontano
da qualsiasi termine specialistico e connotato affettivamente.
I sentimenti e le emozioni non hanno bisogno di essere descritti о prescritti ma di essere vissuti e
sperimentati nella pratica di una relazione calda e vitale fra esseri umani impegnati nello stesso
percorso di crescita. È questo ciò che aiuta le relazioni a trasformarsi. È quando si commuovono per
i sentimenti dei loro bambini che i genitori riescono a trovare più facilmente nuove strade e nuovi
modi per affrontare i problemi. Ed è più facile che si commuovano se anche noi lo facciamo con
loro in una autentica relazione umana, calda e vitale. Nessuna teoria, nessun intervento tecnico, per
quanto raffinato, potrà davvero riuscire, a mio parere, senza questa premessa fondamentale. La
devozione alle persone che accompagniamo, alle gioie e alle sofferenze della loro vicenda umana
che toccano sempre anche le gioie e le sofferenze della nostra stessa vicenda umana non solo di
terapeuti, ma anche di persone è essenziale per questo tipo di consultazione.
Senza tale devozione, che è in ultima istanza la devozione alla vita stessa così come si presenta in
ogni singola vicenda umana, e senza un atteggiamento mentale umile, rispettoso e di paziente
attesa, è difficile per noi terapeuti intraprendere questo percorso ed essere veramente d'aiuto: alle
famiglie con cui lavoriamo e ai loro bambini, ma anche a noi stessi come persone perché questo è
un cammino che arricchisce il mondo interno di entrambi.
Non ho ancora lavorato con nessuna famiglia da cui non abbia imparato qualcosa, anche nei nostri
reciproci errori. Anzi, in genere è proprio l'errore quello che ci ha sempre aiutato a rettificare il tiro
per cercare altre strade e arricchire la nostra reciproca umanità.
In sintesi potremmo dire che l'oggetto di questo tipo di consultazione sia un po' l'arte del vivere e
del costruire i ponti, così come è stata tramandata ed elaborata in noi terapeuti e in quella specifica
famiglia nel corso del tempo e come deve essere modificata e adattata alle esigenze precise di quel
bambino e di quei genitori in un diverso momento storico, perché li possa far incontrare e aiutare
maggiormente davanti agli inevitabili ostacoli e difficoltà che ogni percorso di vita porta con sé.
Alla domanda se c'era stato almeno un pensiero nuovo emerso durante un mio laboratorio per
genitori, uno di loro ha risposto, sul questionario finale: «Sì. Ho capito che il genitore nella
relazione con i figli ha un'opportunità per rimettersi in gioco come persona. Il bambino è una risorsa
e non un problema».
Dice un altro vecchio proverbio africano: «Nella foresta, quando i rami litigano, le radici si
abbracciano».
Valutazione psicodiagnostica di un bambino
di Velia Bianchi Ranci
Mamma: «Perché mi fai arrabbiare, Fabio, dovresti cercare di capirmi!». Fabio: «Sì, ma anche tu
dovresti cercare di capire me!».
FABIO, 6 anni (rimasto orfano di papà a 4)
Il piccolo dell'uomo cambia a vista d'occhio, sotto lo sguardo stupito, compiaciuto, ammirato, ma
spesso anche trepidante, perplesso, preoccupato, disorientato, о addirittura disperato, dei genitori о
degli adulti di riferimento.
Quando la loro perplessità diventa disorientamento e disagio, essi possono rivolgersi allo psicologo
per un aiuto attraverso una valutazione psicodiagnostica del bambino.
Lo psicologo è dunque chiamato a inserirsi in una relazione dinamica con il piccolo e con gli adulti
che hanno la responsabilità della sua crescita e, dall'interno di queste molteplici relazioni, a dare il
suo contributo, partendo da un primo incontro con i genitori.
Ascolta i genitori, prima di tutto, perché è con l'aiuto della loro conoscenza del figlio e della sua
storia, della loro sensibilità, che può incominciare a vedere, insieme, le aree di difficoltà importanti
per la famiglia, pensando al modo di affrontarle, e alle risorse su cui il bambino può contare.
Durante il colloquio parla anche degli incontri che avrà con il piccolo, del loro scopo e delle
modalità con cui si svolgeranno, in modo che dubbi, speranze, aspettative acquistino una
dimensione realistica e il più possibile condivisa. Inoltre questa prima esplorazione comune del
problema aiuta i genitori a spiegare al figlio perché desiderano per lui tali incontri.
Per una prima valutazione diagnostica di un bambino dai 6-7 anni in su, in genere si effettuano tre о
quattro incontri di tre quarti d'ora, о un po' più lunghi se si ritiene opportuno utilizzare dei test. Per i
bambini, si sa, sono importanti molti canali di comunicazione oltre alla parola: loro si esprimono
attraverso il disegno, il gioco, il movimento, il corpo.
Lo psicologo, dunque, che ha una specifica formazione all'utilizzo e all'interpretazione di questi
mezzi espressivi, metterà a disposizione quelli più adatti a ogni bambino, quelli che lo mettono più
a suo agio e gli offrano sia l'esperienza di essere capito sia l'opportunità di capire qualcosa di sé.
Dopo aver visto il bambino lo psicologo riprende il discorso con i genitori, mettendo in comune la
sua comprensione delle difficoltà, così da poter riflettere insieme su come sia meglio aiutarlo. Lo
psicologo cerca di accogliere e soddisfare come può la richiesta dei genitori, che è, nei suoi termini
più generali: perché nostro figlio si comporta così? Che cosa possiamo fare per aiutarlo?
Anche, e forse soprattutto, deve accogliere e soddisfare la richiesta del bambino. Ma egli spesso non
viene con richieste esplicite. Vuole essere più contento, о non essere appesantito da compiti
inadeguati per lui. Una volta però un bimbo, a una mia domanda se e che cosa avrebbe voluto che
cambiasse nella sua vita mi ha risposto: «Mi piacerebbe essere rispettato».
Questa risposta mi è sembrata l'espressione di una esigenza profonda, universale e forse poco
accolta dei bambini. Il vocabolario dice che il rispetto è «un sentimento che nasce da stima e
considerazione». L'etimologia (re-spicere) dice che questo sentimento nasce da un modo di
«guardare» l'altro, di considerarlo.
Penso che abbiamo fatto molti progressi nella qualità delle cure all'infanzia nell'ultimo secolo, negli
ultimi decenni ne conosciamo meglio i bisogni e la proteggiamo da strumentalizzazioni e abusi.
Forse però ci sono aspetti che dobbiamo mettere più a fuoco. Forse alla base di tante
incomprensioni, difficoltà, rallentamenti e disarmonie nella crescita c'è ancora nella nostra cultura
un'insufficiente attenzione dell'adulto nei confronti del bambino come individuo diverso da sé,
unico, che ha un suo specifico progetto di vita. Da capire e aiutare, certo, ma anche da rispettare nei
suoi modi di essere e di comunicare, negli aspetti di sé che vuole coltivare e magari difendere dalle
intrusioni.
In questa luce l'incontro con lo psicologo può testimoniare al bambino l'attenzione da parte degli
adulti dei genitori che gliene danno la possibilità e dello psicologo che gli offre uno spazio per lui,
nel suo studio, nel suo sguardo, nel suo ascolto, nella sua mente. Allora il bambino potrà muoversi
in questo spazio, farsi vedere, esprimere le sue speranze, i suoi timori, le sue fragilità, ma anche le
sue risorse, quelle su cui può contare oggi, quelle che vorrà sviluppare domani. Psicologo e
bambino provano insieme a riflettere sul momento difficile che sta attraversando e a dargli un
significato in relazione al suo percorso di crescita. Poi lo psicologo si mette a fianco dei genitori e li
aiuta a guardare e ascoltare il figlio, a dare un senso alle sue comunicazioni, rispettando le loro
difficoltà a uscire da posizioni consolidate, a far fronte a rinunce dolorose, a venire a patti con
desideri inattuabili.
Se dalla valutazione risulta che le possibilità del bambino di esprimere le sue richieste evolutive
sono buone, e le capacità dei genitori di comprenderle ed esaudirle sono sufficienti, gli incontri di
consultazione diagnostica possono essere lo strumento per mettere in maggiore sintonia genitori e
figlio, che continueranno da soli il cammino. In altri casi sarà invece necessario offrire anche un
aiuto specifico al piccolo о ai genitori, a seconda di dove è la maggiore disponibilità, in modo che
l'ascolto reciproco possa aver luogo, e il cammino della crescita riprendere, più sereno e
soddisfacente.
Un percorso psicoterapico individuale con un bambino richiede un certo impegno e regolarità nel
tempo, perché si tratta di accompagnare la sua crescita per un certo periodo, riflettendo insieme sui
suoi pensieri, sentimenti, desideri, delusioni, per aiutarlo a capire e capirsi e quindi a utilizzare al
meglio le sue risorse interiori. Potranno essere sedute settimanali, per mesi, talvolta anni, durante i
quali incontri periodici con i genitori serviranno a valutare il percorso, a riflettere sul significato dei
cambiamenti, ad aiutare a prendere le decisioni più opportune.
Un'altra scelta possibile è una psicoterapia che si svolge in gruppo con altri bimbi (cinque о sei)
pressappoco coetanei. Nelle sedute di gruppo i bambini interagiscono spontaneamente, tra loro e
con il terapeuta, utilizzando parole, disegno, gioco, in maniere diverse a seconda dell'età.
Esprimono le loro difficoltà, ma anche le sperimentano direttamente durante l'incontro, e possono
ricevere immediato riscontro e spesso aiuto dagli altri, dal loro modo di affrontare le sue stesse, о
altre simili difficoltà. Gli interventi del terapeuta facilitano la comunicazione tra i bambini, la
comprensione di ciò che avviene nel gruppo, e l'utilizzo di questa comprensione nella vita di tutti i
giorni. Il gruppo permette a bambini e terapeuta di vivere i problemi di relazione dei singoli in presa
diretta, e di sperimentare l'efficacia di un aiuto da parte di un pari.
Questo dà fiducia e sicurezza. Anche e forse più che per una terapia individuale, nel caso di una
terapia di gruppo è fondamentale la collaborazione dei genitori, che sono corresponsabili con il
terapeuta non solo della terapia del loro figlio, ma anche della vita e della continuità del gruppo
terapeutico stesso, indispensabile per la sua efficacia. Perciò saranno sempre effettuati anche
incontri con i genitori, collettivi о singoli, durante il periodo della terapia. Le sedute hanno
frequenza settimanale e la permanenza può essere mediamente di uno о due anni.
III
Mi è nato un bambino: perché piango? L'osservazione del neonato e le difficoltà del post partum
Quando avete un figlio, non è soltanto vostro figlio, ma quello della comunità.
Fin dalla nascita la madre non ne è l'unica responsabile.
Tutti possono nutrirlo e occuparsene.
Se una donna ha un bimbo, può dare il seno a qualunque bimbo.
Tradizione orale africana
Il secondo intervento che mi è sembrato utile inserire riguarda il delicatissimo periodo che copre i
mesi dopo il parto e i primi due anni di vita del piccolo. Sono le fondamenta su cui ogni bambino
costruirà la sua casa: più queste sono solide e più la sua casa potrà resistere alle tempeste e ai
terremoti della vita.
A partire dagli studi di Bowlby, oggi è risaputo che un attaccamento sicuro nei primi anni di vita fa
partire un bambino molto più attrezzato per affrontare tutto il suo cammino. Come favorire quindi
un attaccamento sicuro tra genitori e figlio quando il dopo parto stesso è un periodo che fa emergere
proprio i lati più fragili e insicuri nei genitori e in particolare nella mamma?
Tutti gli interventi che riusciranno a sostenere una famiglia nella difficoltà di questa situazione a
partire dai sostegni personali per arrivare al preziosissimo Tempo per le famiglie saranno delle
buone sicurezze che noi adulti potremo mettere nel bagaglio di un bambino che lo accompagnerà a
vita. L'infant observation, descritta qui da Marina Bianchi nella sua veste di formatrice, si colloca
fra gli interventi più preziosi rispetto alla solitudine delle mamme. Si tratta di una metodologia che
richiede la presenza settimanale di un osservatore presso la famiglia di un bambino dalla nascita ai
due anni.
E una situazione di presenza accanto alla coppia mamma-bambino nella loro quotidianità e nel loro
nucleo familiare, da parte di una psicologa con formazione psicoterapica e supervisionata da una
formatrice esperta nel campo. Chi fa l'osservazione, all'interno della famiglia, di un bimbo che
cresce non dà consigli, non fa interpretazioni, non formula giudizi, non propone modelli о regole:
rappresenta semplicemente una presenza silenziosa, empatica, rassicurante e non intrusiva nei
confronti del caregiver, di chi fornisce le cure al piccolo.
Infatti, come dice Bowlby, chi dà le cure deve a sua volta ricevere molte cure. Da questo intervento
i genitori escono solitamente più attrezzati emotivamente, più capaci di tollerare le incertezze, più
sicuri di sé e fiduciosi nei loro bambini, quali che possano essere le ferite che hanno incontrato nella
loro storia personale e familiare, interrompendo spesso una catena intergenerazionale di
trasmissione di sofferenza.
Accompagnare alla crescita: l'osservazione come sostegno alla famiglia in difficoltà
di Marina Bianchi
Le cose più importanti della nostra vita non sono né straordinarie né grandiose. Sono i momenti in
cui ci sentiamo toccati gli uni dagli altri.
J. KORNFIELD, A Path with Heart2
Nella mia esperienza personale come docente di osservazione del neonato ho potuto spesso
verificare quanto questa metodologia, oltre a essere un prezioso strumento di formazione personale
e professionale, possa essere utile veicolo di pensiero in situazioni problematiche non raggiungibili
attraverso l'intervento terapeutico. L'effetto positivo della presenza di un osservatore è dato dal suo
sguardo capace di riconoscere, pur nella difficoltà, le spinte evolutive presenti nel campo, dalla
consapevolezza di portare con sé le proprie emozioni, i propri sentimenti e le proprie esperienze
senza scaricarle sulle situazioni osservate ma accettando di sostare nel dubbio e nell'attesa
astenendosi dall'agire e dal consigliare. È una presenza affettuosa e fiduciosa che attiva nella madre
uno sguardo nuovo verso il proprio bambino, più attento ai suoi progressi ma anche a sé come fonte
di cura. Una presenza che stimola il pensiero e l'attenzione alla relazione favorendo il superamento
di momenti di difficoltà senza riferirsi a modelli rigidi e idealizzati ma accompagnando genitori e
bambino nell'esperienza della reciproca conoscenza.
Il mio lavoro con le educatrici di nido e scuola materna e con mamme e bambini in un Tempo per le
famiglie di Milano mi aveva confermato la necessità di progetti di supporto che aiutassero gli adulti
non tanto a risolvere un particolare problema, ma a imparare a prendere decisioni accogliendo le
proprie incertezze e i propri interrogativi come parte inevitabile della funzione genitoriale.
Si è andato così a delineare nel tempo il progetto di un utilizzo dell'esperienza di osservazione come
prevenzione о aiuto in situazioni di difficoltà, intendendo con essa offrire una presenza che potesse
portare delicatamente a contatto con la relazione e i movimenti emotivi e affettivi che la animano,
senza spaventare о far sentire direttamente ingaggiati in un lavoro terapeutico. L'intento non è
quello di «curare» a ogni costo, ma piuttosto di attivare о riattivare, attraverso la condivisione dello
sguardo e una vicinanza rispettosa, delle competenze impensate о che si credevano perdute. Certo la
realizzazione di un tale progetto richiede l'impegno di persone con una formazione solida e una
lunga esperienza di lavoro su di sé e con gli altri per garantire quella capacità di accoglienza e
sospensione del giudizio che sole garantiscono la possibilità di un'autentica vicinanza senza
intrusività.
L'occasione si è presentata con l'osservazione della piccola Laura in un gruppo che ho tenuto per
colleghi già specializzati in psicoterapia infantile e nel lavoro di supporto ai genitori. Questa
esperienza ci ha permesso di condividere il faticoso percorso di una famiglia alla ricerca di un
nuovo equilibrio dopo la nascita del secondo figlio, Laura appunto, che ha attivato aspettative,
ricordi, rancori e frustrazioni, ma ha anche aperto alla possibilità del cambiamento e della
trasformazione, muovendo pensieri e affetti che hanno trovato riconoscimento e portato gioia e
speranza.
La formazione, lo spessore umano e la sensibilità dell'osservatrice hanno reso questo lavoro
particolarmente appassionante.
Laura è una bimba molto graziosa, ha un fratellino, Jacopo, che alla sua nascita ha 3 anni e mezzo.
Entrambi i genitori hanno vissuto esperienze traumatiche nella loro infanzia. La mamma, Carla, è
straniera, venuta in Italia da molto lontano quando era bambina con la sua numerosa famiglia in una
situazione di emigrazione assai difficile, probabilmente di profughi. Il papà, Roberto, è italiano e ha
vissuto sempre nel luogo dove è nato. Nella sua storia sono iscritti due gravi lutti: un handicap
invalidante del fratello primogenito e la morte improvvisa, quando era bambino, dell'altro fratello in
un incidente stradale.
Nel primo incontro mostrano di possedere una certa consapevolezza delle proprie difficoltà.
Accennano alla loro infanzia e alle loro origini con tristezza. L'osservatrice la dottoressa Ines
Poggiani, psicologa psicoterapeuta, di cui si riportano le riflessioni nota una sovrapposizione dei
bambini nei loro vissuti. Inoltre, la nuova maternità (una figlia femmina) sembra sollecitare la
mamma rispetto alla situazione vissuta nella famiglia d'origine nel rapporto con i suoi genitori.
Sono curiosi rispetto all'osservazione ma parlano esplicitamente del timore che l'osservatrice osservi
«senza dire nulla per due anni».
«Stare a casa vostra per due anni sempre senza aprire bocca... immagino che non potrei resistere, lì
in silenzio, e nemmeno voi potreste sopportarlo.»
Sono sollevati e il marito ammette di averlo chiesto alla moglie e di aver concluso insieme che
speravano non fosse così.
«Vedremo insieme nel tempo come fare, ci abitueremo a stare insieme. Di più non so dire, perché
anche per me è la prima esperienza di osservazione del neonato e sarà anche l'unica.» Dopo qualche
attimo di silenzio, la signora commenta che ci metteremo d'accordo come abbiamo fatto quel
giorno. Anch'io ho la sensazione che troverò i modi per capirmi con loro, per superare le difficoltà
che sorgeranno.
L'osservatrice si mostra elastica e comprensiva, capace di attendere che l'esperienza abbia luogo
senza spaventarsi. Offre così un modo di stare e di pensare che Carla può fare proprio e infatti si
rassicura riportando il suo sguardo al presente e al suo fluire.
Da subito si notano le difficoltà di relazione fra la mamma e Laura. Dalla seconda osservazione
(Laura ha 24 giorni):
Laura inizia a piangere, scuotendo braccia e gambe, tanto da trovarsi quasi stesa sulla schiena,
oscillando. Muove il capo e lo spinge all'indietro. Provo una stretta al cuore quando sento il suo
pianto afono: la immagino piangere a lungo, anche da sola, con la madre in difficoltà di fronte al
pianto della figlia (Carla dice che cerca di tenerla nella sua stanza con il walkie-talkie sempre
acceso, per potersi occupare anche di Jacopo, perché il bambino è più tranquillo a non averla lì). Mi
sembra che anche il padre ne sia toccato: arriva in quel momento da fuori e subito si avvicina alla
bambina e la guarda serio, in silenzio. ... Poi la mamma mi racconta i problemi che ha nel darle da
mangiare (a cominciare dal fatto che ha perso quasi subito il latte)... Carla decide che le darà da
mangiare in anticipo, la prende in braccio, il ciuccio le cade e io lo raccolgo da terra: mi chiede, ma
senza aspettare la mia risposta, di tenergliela un momento e me la mette in braccio. Sono presa alla
sprovvista, molto emozionata.
Nella mia mente sono presenti molti pensieri che riguardano i motivi per cui la madre è in difficoltà
a tenere in braccio la piccola, ad affrontare il suo pianto; forse Laura rappresenta per lei una parte di
sé bambina e il peso delle esperienze traumatiche familiari. Successivamente affronterò il suo darmi
in braccio la bimba: senza rifiutarmi di prenderla, ma rispondendo a Carla che sono sicura che
Laura voglia stare con la sua mamma e non sia lo stesso con me.
L'osservatrice tiene i suoi pensieri per sé, ricerca significati ma non li restituisce in forma di
interpretazioni. Quello che viene detto riguarda il riconoscimento delle competenze materne e dei
primi bisogni del bambino. Dalla terza osservazione (Laura ha 1 mese):
Mi trovo seduta molto vicina a mamma e bambina. La mamma appoggia bene a sé la piccola che
prende subito il biberon in bocca e comincia a succhiare. Lo fa in modo regolare, ma non forte, mi
sembra, rispetto a come l'avevo sentita succhiare il ciuccio. Tiene gli occhi fissi sul viso della
mamma che la guarda. Comincia a muovere braccia e gambe. La madre le dice di non agitarsi, che
non va bene fare così. Le toglie il biberon. La bimba perde un po' di latte dalla bocca. Non sembra
avere altre reazioni evidenti, se non il rimanere ferma, dopo aver tentato brevemente con movimenti
delle labbra quella che forse è una ricerca della tettarella. Socchiude gli occhi. La mamma la tiene
seduta con il capo più alto. Mi dice che fa sempre così quando le dà il latte. Dopo un po' la madre le
tocca le labbra più volte con la tettarella, le parla raccomandandole di non dormire. Laura non
riprende più a succhiare. La mamma commenta che mangia poco, rigurgita, poi si addormenta.
Dalla nona osservazione (Laura ha 3 mesi e 24 giorni):
Carla mette Laura nella carrozzina e le dà la medicina, che non ha un buon sapore, infatti Laura fa
delle smorfie. Si mette a piangere, allora la mamma la prende, cercando di tenerle compagnia
perché passi il tempo obbligatorio prima della poppata. Laura si è consolata e Carla mi chiede che
differenza ci sia tra lo stare seduta in carrozzina e lo stare sulle sue ginocchia. Le rispondo che non
c'è paragone: Laura preferisce stare in braccio alla sua mamma.
Per un certo periodo si presenterà con diversa intensità, in modo alternante, la condizione penosa di
Laura, che mangia in modo frammentato e piange molto, e della mamma in difficoltà nel dare
adeguato contenimento alla figlia a causa delle sofferte esperienze vissute nella propria infanzia.
Capita pure che l'osservatrice si trovi spesso a osservare da sola la bimba mentre dorme nella sua
stanza. Il sottrarsi di Carla ci racconta della difficoltà da parte di quest'ultima di sostenere la
presenza dell'osservatore in una situazione di disagio, il timore di un giudizio e insieme di un
maggiore coinvolgimento. Lavoro con il gruppo sulla possibilità, in questi casi, di porsi come
«ponte» tra mamma e bambina. Mi sembra che qui si presenti la necessità di narrare quello che lo
sguardo di Carla potrebbe vedere se non fosse offuscato da timori. Carla sembra poter guardare
Laura solo dopo che l'osservatrice ha saputo descriverle la sua bambina, l'ha resa meno estranea,
meno pericolosa, l'ha liberata delle proiezioni di rabbia e delusione della madre.
Viene dato più spazio ad alcune iniziative ben accolte da Carla: per esempio, quando viene lasciata
sola con Laura che dorme, l'osservatrice si reca spesso dalla mamma nell'altra stanza, chiede come
va e le racconta che cosa ha fatto sua figlia. Cerca di trasmetterle il suo interesse per tutto quello che
riguarda la bimba. Successivamente accade che Carla la raggiunga mentre Laura dorme, e si fermi a
guardarla con lei e a farsi raccontare che cosa ha fatto mentre lei non c'era.
Sono attenta a come sta la mamma. La signora non ha ancora superato la sua depressione post
partum; ne è consapevole ed è sorpresa di non riprendersi presto come era avvenuto con il primo
figlio. Anche se non è una depressione grave, certo non la favorisce riguardo agli accudimenti della
figlia. Rispetto le sue modalità probabilmente legate anche alla sua cultura familiare di combatterla,
lavorando tantissimo, anche se suscita in me pena vederla sommersa da montagne di panni da
stirare о mentre fa ricami su abiti da boutique in cambio di cifre irrisorie, affaticata, sfruttata. Penso
alle sue antiche mortificazioni. Le parlo partecipando a quanto lavoro dà a una mamma una famiglia
con un bambino piccolo e una neonata e lei è una mamma che tiene molto anche alla casa e alla
cucina.
Le parole lavorano
e sono lavorate.
Creano pensiero,
sogno.
La poesia
è fatta a mano.
Come il pane.
Adriana Pagnoni
Le parole dell'osservatrice restituiscono a Carla la comprensione e il rispetto per la fatica che sta
facendo, ma anche l'importanza del suo ruolo, l'apprezzamento per la sua cura della casa e della
cucina. Sono parole di affetto e di rispetto, parole che sembra non le siano mai state dette prima.
Come spesso capita il lavoro di una mamma in casa con i suoi bambini è dato per scontato,
raramente ci si sofferma ad apprezzarne gli sforzi. La funzione dell'osservatore, nel nostro caso, è
anche quella di testimoniare questi aspetti trascurati e di ridare valore e dignità ai gesti quotidiani,
agli infiniti movimenti e pensieri di cura che costellano una giornata.
Carla rallenta i ritmi, i momenti di dialogo si fanno sempre più frequenti, e la sua presenza
all'osservazione più costante. A un certo punto diventerà consapevole del piacere di condividere
questa esperienza e dirà che le ha fatto piacere interrompere il lavoro, о che «è stata contenta di
sedersi vicino all'osservatrice mentre guarda i suoi bambini». Anche il rapporto con sua figlia
diventa più sereno. Si aprono spazi per pensare.
Dalla diciannovesima osservazione (Laura ha 6 mesi e 3 giorni):
Mentre mi sto vestendo per andare via, Jacopo mi chiede: «Perché vieni?». Gli rispondo che vengo
per vedere Laura che cresce nella sua famiglia, con il suo fratellino e i suoi genitori. Carla dice che
Laura starà pensando se la prendo in braccio. Le domando se verrebbe con me, ma solo a fare un
giretto per poi tornare dalla sua mamma, se le piacerebbe. Carla risponde di sì. Jacopo chiede con
una voce tenera di poter venire anche lui, sono solo due! Gli dico che lo ringrazio, è farmi un
complimento, non si va in giro con chiunque; con un braccio potrei tenere Laura e l'altro sarebbe
libero per prenderlo per mano. Jacopo con un tono interessato mi chiede se ho la carrozzina.
Commento che se mi interessano i bambini si immagina che abbia tutto quello che serve per loro.
Carla mi sorride e mi accompagna con i figli alla porta.
L'osservatrice sa accogliere il desiderio e dargli parola. La sua capacità di narrare la possibilità apre
uno spazio immaginario dove la condivisione dell'esperienza emotiva appaga senza che sia
necessaria la sua realizzazione concreta.
Sogno ... un pensiero diurno che sia sognante, non sognatore ma sognante.
Jean-B. Pontalis4
Dalla cinquantunesima osservazione (Laura ha 17 mesi e 10 giorni):
Jacopo si mette dietro la tendina della finestra e corre con le braccia in avanti dicendo: «Uuu!».
Laura fa lo stesso sull'altro lato della finestra: Jacopo torna a farlo e Laura anche. Ridono. Noto
come si divertono a fare insieme il gioco dei fantasmi.
Jacopo mi porta l'invito a una festa di un compagno di scuola per le otto della sera del giorno
seguente. Roberto storce la bocca, tutte quelle feste...; Carla trova strano l'orario. Osservo che è una
festa da grandi, forse è la festa di Halloween, quella dove ci si veste da fantasmi... о ci si trucca da
morti. «O da diavoli» aggiunge lui. Gli chiedo se sia contento d'essere stato invitato e lui dice di sì.
Roberto si esprime in modo negativo sulle feste di compleanno. Non è favorevole. Le ridicolizza.
Dice che il giorno seguente Jacopo ci andrà da solo. Osservo che Jacopo è molto apprezzato, piace
come amico, se riceve così tanti inviti: non succede a tutti i bambini.
Anche qui l'osservatrice dà una lettura diversa, in positivo, che non si contrappone ai genitori ma li
sollecita a pensare alla complessità e alla ricchezza delle situazioni della vita. Spesso il nostro
sguardo non riesce a spaziare, lo ancoriamo a una visione per il timore di affrontare questa
complessità ma non ci accorgiamo che così ci sottraiamo anche la bellezza di altri scenari. Uno
sguardo nuovo, parole affettuose che accompagnano il pensiero là dove può andare a scoprire nuove
possibilità portano aria fresca, aggiungono significati, aiutano a costruire progetti.
Roberto dice che c'è da comprare il regalo ... Gli dico che è vero, è un impegno.
L'osservatrice mostra di saper accogliere anche la preoccupazione di Roberto, aiuta a mettere
insieme e a tenere presente tanti aspetti di realtà, senza rifiutarne alcuno, ma contribuendo a
integrarli per prendere la decisione meno conflittuale per tutti. Intanto Jacopo si è messo a pancia in
giù, ha strappato a pezzetti il biglietto d'invito e li ha infilati sotto il divano. Gli chiedo se ha
pensato che il papà lo lasciasse da solo e ha deciso di non andare alla festa. Fa segno di sì con la
testa. Gli dico che scherzava, non lo lasciava di sicuro al buio da solo la notte della festa della
paura! Chiedo se ci andrebbe e lui dice di sì. Lo invito a prendere i pezzetti del biglietto: prima
esitante, poi veloce me li porta. La mamma telefona a una amica per chiederle se ha intenzione di
mandare la figlia a quella festa; si mettono d'accordo per il regalo che andranno ad acquistare
insieme il giorno seguente. Intanto la nostra ricostruzione dell'invito procede con difficoltà, perché
un pezzetto importante manca. Jacopo è preoccupato di non poter andare. Riprende speranza
quando gli dico che si può cercare l'indirizzo guardando sull'elenco telefonico. Il papà completa il
nome della via dal frammento che ho letto e
il
lodo quanto è stato bravo.
Laura ha passato il tempo gironzolando senza una scarpa, mangiando qualche biscottino e
interessandosi alla ricerca e alla ricostruzione dell'invito.
Il
percorso è stato insegnato dall'osservatrice e, ancora una volta, Carla lo fa proprio. Anche
Roberto riesce a recuperare il suo ruolo. È stata offerta un'altra lettura, una lettura fiduciosa che le
cose si possono affrontare. Si può non essere sopraffatti dagli eventi della vita, ci si può pensare. E
si può essere un po' più contenti, tutti.
Cercasi casa cercasi casa con sole con sole fin dal mattino casa con dentro un bambino con madre
con padre secondo te a chi assomiglia cercasi casa con dentro famiglia.
V. Lamarque5
I genitori sono stremati dalla stanchezza. Hanno trovato una nuova casa, più comoda per loro, più
adatta alla loro famiglia. La fatica del trasloco, il disagio della situazione di passaggio portano
tensione e caos. L'osservatrice vive direttamente un momento di grande confusione, di
disorientamento. Ma lo sguardo e il pensiero rimangono attenti e affettuosi.
Dalla cinquantasettesima osservazione (Laura ha 19 mesi e 19 giorni):
Carla è visibilmente affaticata. Apre l'antina del mobile e guarda all'interno. Si siede in terra e
comincia a tirare fuori il contenuto con fare pensoso. Laura comincia a gironzolarle attorno. Mi dice
che fa effetto vedere la casa mezza vuota e mezza ancora da imballare. Commento che quando si
trasloca c'è tanto lavoro da fare e quante cose saltano fuori! Mi risponde, come se parlasse a se
stessa, che quello le piace: saltano fuori dei pezzi che sono importanti perché erano parti della vita
che non si ricordavano. C'è un breve silenzio, ma molto intenso... Penso a quanto è cambiata.
Anche nella confusione si crea una possibilità di gioco importante per i bambini che può svilupparsi
sotto lo sguardo tenero dell'osservatrice. Si muove però anche una sorta di gelosia del padre che
richiama a un'infanzia deprivata. L'osservatrice riesce a leggere questo movimento in termini di
sofferenza e sollecita la sua capacità paterna attraverso il riconoscimento della preziosità di suo
figlio. Lo sguardo tenero c'è per tutti.
Dalla cinquantottesima osservazione (Laura ha 19 mesi e 26 giorni):
Laura viene a sedersi di fianco a me e inizia a mangiarsi volentieri la merendina. Sento il calore
della sua vicinanza. Il profumo della merendina mi fa partecipare con maggiore intensità al suo
mangiare di gusto. Intanto Jacopo si è messo dentro al suo scatolone, che è riuscito a conquistarsi.
Mi chiede di chiuderglielo sopra la sua testa in modo molto garbato e simpatico. Il suo tono ha una
vena di complicità ed è come se ci capissimo al volo. È felicissimo quando lo faccio. Chiedo:
«Dov'è Jacopo? Forse è già sul camion del trasloco, è andato prima di tutti...». Ride. Il papà solleva
il cartone e lo inclina su un lato. Con un fare molto brusco come se lo buttasse via, dice che è da
mettere via, fuori, sul balcone. (È una fredda e buia sera di gennaio). Gli dico che è lo scatolone più
prezioso e gli raccomando di stare attento.
Dalla cinquantacinquesima osservazione (Laura ha 18 mesi e 9 giorni):
Carla inizia a travasare in un grande contenitore trasparente caramelle, poi cioccolatini, torroncini.
Laura è lì con la mano tesa e gli occhi che brillano. Carla dice di no, niente caramella. Mette in
fondo al ripiano il contenitore. Laura protesta, torna a guardare tutto quel ben di Dio luccicante e
invitante e inizia a piangere. Comincio ad avvertire per empatia i primi segni della sindrome della
piccola fiammiferaia. Carla ha per fortuna un ripensamento rispetto al tono inflessibile di prima e
dice a Laura che ne può scegliere uno. Prende il vaso e lo apre. Laura infila la mano,
concentratissima e sceglie un cioccolatino rotondo rosso. Carla dice che quello è il più grande,
glielo fa lasciare e le allunga un soldino di cioccolata.
Laura lo lascia cadere e si mette a piangere tutta rossa in volto, si sbilancia e cade per terra seduta,
scivolando contro un pensile. Carla la sgrida e allontana il contenitore come per metterlo via.
Questo e il fatto che la mamma non la prenda la fanno piangere più forte. Commento che era
proprio una grande tentazione quel vaso pieno di tutte quelle cose buone... era difficile resistere al
più bello.
L'osservatrice dà parola a Laura. Rappresenta le istanze della bambina in un dialogo che altrimenti
sembra non potrebbe aver luogo. La capacità empatica della mamma è ancora fragile, la tenerezza
ancora un po' difficile da esprimere. È l'osservatore che deve saper dare parola, prima di tutto dentro
di sé, tanto al bambino quanto ai genitori.
Carla prende il vaso e dice a Laura, brontolando, che può scegliere un cioccolatino. Laura in un
balzo è in piedi, la mano dentro al contenitore e quando ha riconquistato il suo cioccolatino è
raggiante. Carla le sorride: «Sei contenta adesso!». Commento che ci teneva proprio a quello che
aveva scelto.
Laura accetta l'aiuto della mamma che le dice che non va bene che lo metta in bocca tutto in una
volta, rompe un pezzetto e glielo mette in bocca; il resto lo riavvolge nella carta e glielo dà in mano.
Che fatica essere genitore quando nella nostra storia ci sono vuoti da riempire! È difficile nutrire se
non si è fatta esperienza del nutrimento. Adesso Carla si nutre dell'affetto dell'osservatrice, del suo
sguardo accogliente che le restituisce un'immagine di sé positiva, adeguata pur nel conflitto. Sembra
iniziare un movimento di pacificazione con la sua infanzia deprivata: può anche permettersi di
pensare a un viaggio per rivedere il suo paese. Col passare del tempo Carla mostra di aver fatto
sempre più propria la capacità narrativa ed empatica dell'osservatrice.
Dalla sessantaduesima osservazione (Laura ha 21 mesi e 13 giorni):
Laura ha il viso seminascosto dalla coperta e dalla sua pezzuolina; è stesa sul divano... La mamma
si chiede se ha febbre, dice che deve darle la Novalgina e che è anche l'ora dell'antibiotico di
Jacopo. Laura socchiude un po' gli occhi, la mamma le fa una carezza, la saluta. Si siede sul divano
di fronte a lei all'orientale. Le parla, chiedendole come sta, raccontando che la notte aveva la febbre
tanto alta. Racconta che il giorno prima aveva pianto tanto, chissà perché. Immagina che stesse già
male e manifestasse così quello che provava senza poterlo spiegare perché è ancora piccolina.
In questa, come in altre esperienze, si è verificato un vero e proprio processo trasformativo: i
cambiamenti non sono formali, nessuna regola è stata insegnata, nessun modello di genitore è stato
proposto. La relazione si è costruita lungo il percorso, ognuno portava quello che di volta in volta
era capace di portare. Il nostro lavoro si è rivelato utile. L'osservatrice ha mostrato sempre di essere
capace di stare dentro la relazione ascoltando, accogliendo senza giudicare, offrendosi con il suo
pensiero e la sua disponibilità. Carla è stata sempre più in grado di identificarsi con la figlia e di
riconoscere dentro di sé quelle risorse che questa relazione affettuosa ha attivato. Tutti, adulti e
bambini, hanno trovato spazio nella mente dell'osservatrice, tutti hanno ricevuto attenzione, ascolto,
rispetto.
Gli adulti hanno cominciato a prendersi un po' più cura di sé, ad ascoltare i propri desideri, a
permettersi di sognare e questo ha fatto sì che anche i desideri e i sogni dei bambini trovassero
maggiore spazio e ascolto. La vita sembra scorrere più fluida e piacevole. Dopo circa un anno e
mezzo dalla conclusione dell'osservazione Carla e Roberto si sono rivolti all'osservatrice perché
Jacopo manifestava problemi di comportamento a scuola. La grande fiducia instauratasi
nell'esperienza comune ha permesso di riallacciare un dialogo sui bisogni emotivi dei bambini e di
riattivare, attraverso un intervento breve con i genitori e con Jacopo stesso, la capacità di
riconoscere il disagio senza sentirsi sopraffatti. Questo ci è sembrato un successo.
IV
Quali problemi incontrerò adottando un bambino? L'adozione: qualche pensiero di
accompagnamento
È importante avere una cerchia di parenti in cui si ha fiducia per ricevere un senso di appartenenza e
di comunità.
Tradizione orale africana
Pietro: «Papà mi racconti la mia storia?».
Papà: «Certo, ma prima ti racconto la mia!».
PIETRO, 4 anni (figlio adottivo, al padre, anche lui figlio adottivo)
Un'altra situazione in cui è di fondamentale importanza riuscire a favorire in un bambino un
attaccamento sicuro con il suo ambiente è quella dell'adozione, proprio perché si tratta di un
bambino che parte già con uno strappo dalle sue radici. Ben lungi dalla retorica di una volta,
l'adozione è oggi riconosciuto che può rappresentare per un bambino contemporaneamente due
fattori opposti, uno di protezione e uno di rischio. Il fattore protettivo è dato dalla possibilità di
avere un ambiente sia fisico che relazionale sicuro in cui crescere e vedere così soddisfatti i
fondamentali bisogni di calore, accudimento e sopravvivenza. Il fattore di rischio è dato invece
dalle caratteristiche del funzionamento mentale dell'ambiente che lo riceve e dal fatto che esse
riescano о meno a entrare in sintonia con i bisogni psicologici fondamentali di un bambino che
cresce (come succede peraltro anche ai genitori biologici, per la verità, ma in quel caso non c'è stato
lo strappo iniziale).
Crescere è un processo complesso, fatto di conquiste ma anche di continue perdite, con tutta la
fatica che il perdere, cioè il separarsi, comporta dal punto di vista psicologico.
«Dottoressa, non avremmo mai pensato prima che allevare un bambino fosse una tale fatica!» si è
sentita ripetere negli anni una ginecologa con una lunga esperienza nel campo della sterilità, da
coppie che erano riuscite finalmente ad avere un bambino dopo anni di tentativi.
Il desiderio d'avere un figlio e il desiderio di fare i genitori sono due cose ben distinte, non sono
assolutamente la stessa cosa. Non necessariamente viaggiano insieme, ci può essere l'una senza che
ci sia l'altra e viceversa. È importante esserne emotivamente consapevoli per evitare di confonderli,
soprattutto nel caso dell'adozione.
«Quali sono i problemi fondamentali che un'adozione solitamente comporta nella tua esperienza?»
ho domandato a Donatella Guidi, psicologa e psicoterapeuta, che ha alle spalle più di trent'anni di
appassionato lavoro nel settore, quando le ho chiesto un intervento per questo libro. Mi ha risposto:
Certe cose sono fondamentali nell'adozione. Alcune delle principali direi che siano queste:
1.
Un bambino ha bisogno di riuscire ad avere un attaccamento certo e sicuro alla mamma e al
suo nucleo familiare. A mio parere e secondo la mia esperienza condivido la tesi che non si possono
che avere una sola mamma e un solo papà: sono quel li che hanno scelto di essere i suoi genitori e
di aver cura di lui giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno, nella quotidianità della
vita. Sono loro gli unici e i veri genitori di un bambino, quelli che esercitano il ruolo. I termini di
«mamma» e «papà» (così come per i fratelli, se ci sono) devono essere usati solo per la famiglia
adottiva, per non creare confusione.
2.
Per avere un attaccamento sicuro all'ambiente è necessario sentirsi appartenenti e non
estranei. La ferita del sentirsi estraneo può essere curata attraverso una comunicazione che
restituisca un senso e una storia. Dire per esempio: «Tu non sei nato dalla mia pancia» non è
solitamente sufficiente a curare la paura di un bambino di essere un estraneo. Dire invece: «La mia
pancia non funzionava, ma tu sei nato nel nostro cuore, quello della mamma e del papà» può aiutare
maggiormente a curare la ferita dell'estraneità e a sentirsi appartenente. Nel caso il bambino ricordi
lo strappo dal suo ambiente d'origine, la comunicazione mira a dare un significato alla doppia
appartenenza per permettere un'appartenenza unica («X ti ha fatto, ma la tua mamma e il tuo papà
siamo noi!»).
3.
È preferibile chiamare la madre biologica con il suo nome di battesimo, se è conosciuto,
oppure darle un nome convenzionale (Carmen, Olga ecc), riservando così l'appellativo «mamma»
solo a quella adottiva, quella che ha scelto il ruolo di genitore, che è di chi fornisce le cure.
4.
Evitare di parlare di «abbandono» e preferire termini come «rinuncia» о
«impossibilità/incapacità». L'abbandono è mentalmente intollerabile per un bambino; l'idea di una
rinuncia о la consapevolezza di non potersi occupare di un bambino sono dolorose ma mentalmente
tollerabili e gli renderanno più accettabile il riappropriarsi della sua storia.
Sintetizzando, direi che alcuni dei prerequisiti che sembrano essere fondamentali per un'adozione
«sufficientemente buona» nel senso positivo che Winnicott dava a questo termine potrebbero quindi
essere:
1.
La costruzione di un forte senso di appartenenza reciproca al sistema familiare fra bambino,
genitori ed eventuali fratelli.
L'appartenenza può essere costruita attraverso la condivisione dello stesso significato dell'intera
vicenda fra bambino e
genitore, che è il terreno d'oro da cui nasce il sentirsi legittimamente appartenente.
2.
L'appartenenza sia fondata su un forte e autentico desiderio degli adulti di fare i genitori e
non semplicemente sul «bisogno di figlio» о sulla scelta di realizzare una «buona» azione
socialmente riconosciuta (adotto un bambino perché ci sono tanti bambini che soffrono). Si tratta
perciò di cercare di avvicinare due immagini agli inizi spesso molto distanti fra di loro («Ci sono
tanti bambini che soffrono» e «Voglio un bambino piccolo, sano, biondo con gli occhi azzurri»).
3.
La vicenda delle origini sia costruita insieme tra genitori e figlio in un racconto narrabile
della storia che tenga conto dei punti fondamentali della disgiunzione e dell'appartenenza. La scelta
delle parole è importante: devono essere parole che curano e non che feriscono. Per «narrabile»
intendo rispettare un bambino non imbrogliandolo ma dicendogli la verità in termini che tengano
conto della sua età (per esempio a un bambino di 5 anni non è il caso di specificare che la madre
biologica faceva la prostituta, cosa che invece gli potrà essere detta a 20 anni). Questa è la scelta
che io preferisco, anche se non condivisa da tutti.
«Quali atteggiamenti degli adulti potrebbero essere più dannosi in questa comunicazione, secondo
la tua lunga esperienza?» le ho chiesto successivamente, per cercare di individuare i comportamenti
più a rischio.
Sono tre le aree più a rischio che si potrebbero segnalare per cercare di evitarle:
1.
L'uso del silenzio comunicazionale, il non parlare «per proteggere». Questo si verifica in
particolare per la figura della madre biologica о della famiglia d'origine, che possono essere
considerati elementi pericolosi о addirittura persecutori per la famiglia adottiva.
2.
La copertura effettuata dai genitori sulle ragioni della scelta adottiva («Sono fatti nostri»)
come se la connessione fra l'eventuale sterilità e la perdita dei genitori naturali del bambino non
fossero all'origine della adozione.
3.
L'evitare di affrontare tutto ciò che riguardi la diversità fisica (colore diverso, lineamenti
diversi) fra bambino e genitore come se il parlarne volesse dire sottolineare la non reciproca
appartenenza.
«Avresti qualche storia di adozione che potrebbe aiutare a mettere a fuoco questi punti?» le ho
chiesto infine. Ed ecco il suo contributo, elaborato con due collaboratrici, una delle quali è a sua
volta mamma e nonna adottiva.
Quattro storie adottive
di Donatella Guidi, Silvana Bosi e Nadia Tosi
I vostri figli non sono figli vostri:
sono i figli e le figlie
della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi,
e tuttavia non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore
ma non le vostre idee,
perché essi hanno le loro idee.
Potete dare una casa al loro corpo
ma non alla loro anima,
perché la loro anima
abita la casa dell'avvenire
che voi non potete visitare
nemmeno nei vostri sogni.
Potete cercare di educarli
ma non pretendete
di renderli simili a voi,
perché la vita non torna indietro
né può fermarsi a ieri.
Voi siete l'arco dal quale, come frecce vive,
i vostri figli sono
lanciati lontano. ...
K. GIBRAN, Il profeta1
Un famoso autore inglese, Gregory Bateson, dice che non sono i fatti a far soffrire, ma le
attribuzioni di significato che a essi diamo. Mai come nelle vicende adottive questa intuizione
risulta condivisibile. Le brevi storie che raccontiamo, tratte dall'esperienza di anni di lavoro delle
autrici, sono esempi di come le parole possano curare il dolore cambiando l'attribuzione di
significato dei fatti.
Prima storia. Chi è la mia mamma?
Andrea era stato portato a 18 mesi in un istituto per bimbi soli, in Russia. A 3 anni è stato adottato
da una coppia italiana. Dopo un anno e mezzo di inserimento del tutto positivo in famiglia,
comincia ad andare alla scuola materna. Un pomeriggio torna a casa più sporco del solito (ha
giocato molto in giardino) e cupo. Racconta che i compagni gli hanno detto: «Quella che ti viene a
prendere non è la tua mamma. La tua mamma vera è in Russia».
La madre gli risponde: «Andrea, sono io la tua mamma. Tatiana (è questo il nome dato in famiglia
alla madre biologica del bambino) ti ha fatto, e ti ha fatto bellissimo, ma non poteva essere la tua
mamma. Io non potevo fare un bambino, ma potevo e volevo essere mamma: con il papà avevamo
già preparato il lettino per un bebé, cioè il lettino dove dormi tu». Andrea incalza: «E se Tatiana
viene qui?».
«Tatiana non può venire, perché la tua mamma sono io. Così come il papà è il tuo papà.»
Andrea rimane un poco pensieroso. La mamma lo prende in braccio, lo sbaciucchia e conclude:
«Adesso vieni a fare il bagnetto, con la tua mamma e con le tue papere. Così sarai pulito e tutto
profumato quando arriva il papà».
Chi guida la relazione fra un adulto e un bambino è sempre l'adulto. Spesso però gli adulti spostano
sul bambino la propria paura di non essere amati oppure attendono che sia lui a formulare domande
sugli argomenti che essi non sanno affrontare. È invece loro degli adulti la responsabilità di farsi
amare e la responsabilità di trovare il modo, non invasivo, di rispondere alle ovvie e naturali
curiosità del bambino, intervenendo prima che l'ansia di avere una risposta provochi in lui la
chiusura della comunicazione. La «legittimazione genitoriale», cioè la consapevolezza e la
sicurezza di sentirsi genitori e di agire come tali, è prima negli adulti e poi, di riflesso, nel bambino,
che solo così può riconoscersi figlio di quei genitori.
Seconda storia. Come mai sono diversa da te?
Anita è una bimba arrivata in famiglia dall'Etiopia, quando aveva 2 anni. Ora ne ha 5, è serena e ben
inserita anche nella scuola materna. Un giorno la mamma la trova che si lava con molta energia e
molto sapone e le chiede come mai, proprio lei che di solito non ama l'acqua. La bambina non ha
esitazioni: «Voglio diventare bianca come te».
«Ma lo sai che a me piacciono i bambini color cioccolato» commenta la mamma. «Lo vedi che,
d'estate, anche io e il papà cerchiamo di diventare scuri prendendo tanto sole? E la mia bambola
preferita, quella che mi aveva regalato la mia nonna e che io ho dato a te, ha proprio il tuo colore.»
E Anita: «Ma io non lo volevo questo colore. Le principesse hanno tutte i capelli biondi».
La mamma si sente per un momento all'angolo: purtroppo è vero, tutte le principesse, di cui al
momento Anita è entusiasta, sono bionde e bianche. Occorre dare alla bambina una spiegazione più
convincente e osserva: «Ma io ti ho fatta con il cuore, non con la pancia. E lì, nel mio cuore, c'era il
color cioccolato».
«Però io non sono uguale a te e al papà» insiste Anita, ma ormai con meno determinazione.
«Noi ti volevamo diversa da noi e, appena ti abbiamo vista, ci siamo innamorati di te: il tuo colore è
bellissimo e una famiglia colorata è più allegra.»
Al di là di tutti i problemi che l'ambiente sociale può procurare a una persona di etnia diversa da
quella dominante nel territorio, il cruccio del bambino adottato è quello di non avere le stesse
caratteristiche somatiche dei suoi genitori. Trovare il modo per dare un senso e un valore a tale
diversità è comunque compito dei genitori. Occorre ribadire che è il desiderio dei genitori a
legittimare l'appartenenza del bambino a quella famiglia: vale a dire che il bambino è stato dentro al
cuore della mamma, anziché nella sua pancia.
Il cuore non dà al bambino le caratteristiche somatiche dei genitori, ma contiene quelle che i
genitori desiderano e amano per il loro bambino. Parlando, per esempio, del diverso colore della
pelle, possiamo dire che il cuore non colora, ma tiene dentro il colore desiderato. Ovviamente il
desiderio di un figlio di altra etnia deve essere chiaro e condiviso nei genitori.
Terza storia. Perché non mi ha voluta?
Azzurra ha 8 anni ed è arrivata dalle Filippine quando ne aveva 4. «Azzurra» è la traduzione italiana
del suo nome filippino. Della madre biologica della bambina non si sa nulla, ma i genitori hanno
deciso, d'accordo con lei, di chiamarla Lao Chi.
Un giorno, dopo aver visto il film di Mulan, l'eroina che combatte con grande coraggio e libera il
suo popolo, Azzurra dichiara che Lao Chi è Mulan. La mamma è dispiaciuta e anche gelosa.
Evidentemente, Azzurra idealizza la madre biologica e, così facendo, la vede molto migliore della
mamma che ora si ritrova. Come potrà lei, casalinga a metà e impiegata a metà, sempre alle prese
con le mille banalità della giornata sostenere il confronto con l'eroina Mulan? Le cose rischiano di
mettersi male. Ha quasi voglia di piangere, ma decide di affrontare la questione: «Perché dobbiamo
chiamare così la nostra Lao Chi?».
Azzurra spiega: «Perché quando ho visto il film ho capito che Lao Chi non poteva fare la mamma
perché, come Mulan, aveva troppe cose nella testa e non c'era spazio per me. Tu però non sei come
Mulan, tu sei la mia mamma». La mamma capisce allora che Azzurra l'ha scelta come mamma
proprio perché non è come l'eroina del film, e quindi c'è posto per Azzurra, nella sua testa e nel suo
cuore.
I motivi che hanno portato al distacco e al taglio dei legami con la famiglia d'origine sono un
«tormentone» sia per l'adottato sia per la sua nuova famiglia, che si trova a dover dare risposte che
non sa о non vuole dare per paura che facciano soffrire il bambino.
L'unica risposta che si può costruire senza imbrogliare è riconoscere «Io non lo so». Ciò sia nel caso
che davvero non si sappia nulla, sia nel caso che i documenti parlino di motivazioni rilevate da
giudici о assistenti sociali, che però nessuno saprà mai se sono state effettivamente quelle che hanno
portato il genitore biologico a rinunciare al figlio. Per un bambino piccolo, che non ha ricordi ma ha
comunque bisogno di dare un senso alla propria storia, potrà essere utile trasformare il «non so» in
un «aveva la testa piena di altre cose».
Quarta storia. Il posto dei ricordi tristi
Marco ha 8 anni e solo da poco vive in famiglia. La dichiarazione di adottabilità è stata pronunciata
dal Tribunale di M., due anni fa, per maltrattamento e abbandono. Nella storia di Marco non
compare il padre. Il bambino è stato ricoverato in comunità per quattro anni, dopo essere stato
prelevato dalla forza pubblica in casa della madre, dove era legato al letto. Aveva segni di percosse
ripetute, era denutrito e sotto peso. In ospedale furono riscontrate fratture non curate. Nei due anni
di permanenza in comunità, nonostante le ripetute prescrizioni, la madre andò a trovarlo solo una
volta, all'inizio. Sei mesi fa Marco ha trovato la sua nuova famiglia in cui, oltre ai genitori, ci sono
due fratelli grandi, di 15 e 18 anni. Sembra inserito bene come «cucciolo di casa». I genitori
accettano le sue difficoltà scolastiche, per cui si è ritenuto opportuno fargli ripetere la seconda
elementare. La richiesta, da parte dell'insegnante, di raccontare la propria storia è l'occasione per far
riemergere tanti ricordi dolorosi: «La mamma usciva sempre e mi lasciava solo» dice una sera
all'ora di andare a letto. Poi si porta le mani alla testa, quasi a ripararsi, e urla: «Botte, botte, botte».
La nuova mamma non sa che cosa fare. I fratelli cercano di distrarlo. Niente da fare. Il papà decide
di intervenire, prende da parte Marco e gli racconta che, durante la guerra, il nonno era stato fatto
prigioniero e torturato. Anche dopo tanti anni, qualche volta si svegliava la notte urlando. Lui, da
ragazzo aveva più volte ascoltato il nonno raccontare, con ancora la paura dentro e le lacrime agli
occhi. «Vedi,» spiega a Marco «anche nella nostra famiglia sono successe cose brutte, che hanno
fatto tanto male al cuore e al corpo. Ma, insieme, le abbiamo superate. Adesso che tu ci hai
raccontato le tue paure e le botte che hai ricevuto, quelle paure e quelle botte fanno parte della
nostra storia, come ciò che è capitato al nonno. Fanno male anche a noi, credi, ma possiamo
raccontarcele e le parole rendono il dolore meno bruciante. Quando eri da solo, nessuno ti poteva
ascoltare e consolare. Ora possiamo piangere insieme e consolarci. Per le botte che ti ha dato e
perché ti ha lasciato solo al buio, il giudice ha deciso che Carla non era più la tua mamma. E ha
cercato per te un'altra mamma, un altro papà e due fratelli.»
Condividere il dolore, fare in modo che il bambino abbia spazi in cui parlare, accogliere senza
giudicare quello che racconta è fondamentale perché i ricordi anche i più dolorosi vengano a galla.
Ed è importante che la nuova famiglia offra un contenitore entro il quale questi ricordi possano
entrare. Questo contenitore è il «libro della storia familiare» che, con l'adozione, si arricchisce di un
nuovo capitolo: la storia che è alle spalle del nuovo arrivato.
Parte terza AIUTARE I BAMBINI A VIVERE LE PROPRIE EMOZIONI
Ho il cuore pesante
per tante cose che conosco,
è come se portassi pietre
smisurate in un sacco,
о la pioggia fosse caduta,
senza sosta, sulla mia memoria.
P. NERUDA, Non mi chiedete
v
Perché si fatica così tanto con i bambini piccoli? I gruppi genitori-bambini da zero a tre anni
Nessuno di noi si è alzato con la sola forza del
proprio polso.
Ce l'abbiamo fatta perché qualcuno si è chinato
ad aiutarci. .
Tradizione orale africana
Fra gli interventi apparentemente così semplici da apparire a una lettura superficiale quasi banali, e
che hanno invece una buona ricaduta di aiuto sul futuro di un bambino e della sua famiglia, si
possono anche considerare i gruppi genitori-bambini condotti da uno/due psicoterapeuti nella fascia
0-3 anni (o 0-6 anni).
Le situazioni e i temi che emergono in questi gruppi sono i normali problemi del vivere, che ognuno
di noi incontra e che impara ad affrontare sin da piccolo (passaggi, cambiamenti, trasformazioni
dello scorrere del tempo ecc).
Non si tratta quindi di rilevare problemi о traumi particolari come comunemente si potrebbe
credere, ma di aiutare ad arricchire gli strumenti che i genitori e il bambino hanno costruito fino ad
allora, in situazioni normali, intervenendo su qualcuna delle aree che appaiono ancora fragili.
La formazione e l'esperienza psicoterapiche in questi gruppi sono fondamentali non solo per gli
interventi fatti dagli operatori, ma anche e soprattutto per l'osservazione che necessariamente
precede gli interventi stessi. Sono infatti proprio solo la formazione e l'esperienza psicoterapiche
(intendendo per formazione innanzitutto il lavoro su di sé e conseguentemente la formazione
clinica) quelle che permettono di selezionare e individuare le interazioni genitori-bambini che
possono già presentare un margine di sofferenza evolutiva per entrambi, così come quelle che
appaiono maggiormente a rischio di svilupparle in futuro.
Si tratta spesso, soprattutto nei luoghi istituzionali (asili nido, consultori pediatrici, spazi gioco per
mamme e bambini da 0 a 3 anni ecc), di una seconda osservazione, che è stata preceduta nel tempo
da una prima, fatta dagli operatori dei servizi stessi. Chi lavora direttamente con bambini e genitori
(puericultrici, pediatri, operatori della prima infanzia...) quando è attento, formato, fortemente
motivato e appassionato al proprio lavoro, è spesso già in grado di rilevare i primi segnali di disagio
in un gruppo di bambini (difficoltà di distacco, di relazione, rifiuto della separazione, isolamento
ecc.) che possono lasciar prevedere о ipotizzare un maggior disagio in futuro (l'evoluzione del
disagio infantile può essere a forbice e allargarsi con l'andare del tempo).
Ecco perché un intervento precoce, che implica l'osservazione di più persone, può rivelarsi
estremamente prezioso e importante per evitare о attenuare un possibile sbocco involutivo nel
futuro di un bambino e, di conseguenza, in quello dei suoi genitori. Non esistono bacchette magiche
per nessuno, né per i genitori né tanto meno per gli operatori; tuttavia se si riesce a far evolvere la
situazione di una coppia genitori-bambino in modo che si ritorca loro meno contro nel futuro, si
sono già poste le premesse perché l'eventuale disagio possa essere contenuto nel tempo.
I due casi che seguono riguardano un breve ciclo di tre incontri tenuti da due psicoterapeute con un
gruppo di genitori e bambini da 0 a 3 anni.
I temi affrontati sono quelli dei bambini che crescono senza che siano posti loro dei limiti e la
difficoltà di separazione nella coppia mamma-bambino nel caso in cui la madre debba ancora
elaborare un importante lutto. Entrambi hanno bisogno di essere aiutati a evolvere, ciascuno nel
rispetto dei propri tempi (quelli del lutto sono necessariamente più lunghi), perché dei genitori e dei
bambini possano andare con meno «carichi sospesi» verso la loro strada di vita.
I gruppi genitori-bambini nei primi tre anni
di Giovanna Bronzini e Wally Capuzzo
Siamo piccoli fiori in un prato immenso. Se osservi bene con gli occhi dell'anima ci ritroverai tutti
quelli che conosci, ognuno con il suo colore e la sua forma. Da ciascuno puoi prendere qualcosa di
buono e usarlo per diventare più saggio e più forte.
E. CASTELLINI La parte fresca del cuscino1
Restare coppia anche da genitori: i no e il lettone
Gilberto è impegnato a salire e scendere da una costruzione composta da cubi. L'impresa non è
facile per i suoi 2 anni e mezzo. Giunge davanti a un tunnel nel quale vorrebbe entrare, ma è un po'
lungo e forse si sta chiedendo se ce la farà a raggiungere l'uscita.
Una delle psicoterapeute lo incoraggia, facendogli «cucù» dall'altra parte del tunnel. Dopo alcune
esitazioni, vi si infila, poi torna indietro, riprova e alla fine la raggiunge con un'esplosione di
felicità. Vuole ripetere l'impresa: si dirige di nuovo verso l'ingresso del tunnel, ma a metà strada
improvvisamente si blocca, cambia direzione e veloce raggiunge la sua mamma. Questa sta
spiegando al gruppo quanto il piccolo sia determinato nelle sue richieste e quale fatica sia per lei
contenerlo. Gilberto prende la borsa che la mamma ha collocato sotto la propria sedia, la apre, ne
estrae un tubo di caramelle e ne mette una in bocca. Sta per mangiare una seconda caramella, ma la
mamma glielo impedisce e quindi richiude la borsa, riponendola sotto la sedia.
Il piccolo però non demorde e riprende la borsa; la mamma, interrompendo la sua esposizione al
gruppo, gli dice: «No, basta», e lo scoraggia a prenderne ancora. A quel «no» della mamma
Gilberto resta sordo e prosegue nella sua intenzione. Al terzo «no» imbarazzato e non abbastanza
deciso della madre il bimbo risponde con uno scoppio di collera e, tra urla e strattoni alla borsa,
colpisce la mamma con rabbia.
Il papà cerca di intervenire, ma con poca convinzione e il piccolo non smette di urlare e lottare con
la mamma per contenderle la borsa.
La conduttrice interviene con tono pacato e autorevole: «Gilberto, la mamma ha detto no!». Il
bambino ammutolisce, guarda la mamma che riconferma il suo «no», si rivolge al padre che
sostiene il «no» della mamma. Il bambino in silenzio lascia la presa, si guarda intorno spaesato,
forse cercando negli adulti del gruppo qualche sguardo complice e, non trovandolo, si allontana
deciso.
Il gruppo dei genitori è stupito, ma ancora più meravigliati sono la mamma e il papà: «Perché
questa volta non insiste? Non gli capita mai di abbandonare il campo!». Gli adulti non fanno in
tempo a riprendersi dallo stupore che il bambino arriva reggendo in mano le sue scarpette che aveva
depositato nell'apposito scaffale prima di iniziare i giochi, le pone in grembo alla madre e con voce
decisa le dice: «Mamma, andiamo!».
La scena si svolge in uno spazio adeguatamente strutturato per accogliere il gruppo di genitori
accompagnati dai loro bambini di età da 0 a 3 anni.
Il lavoro è stato pensato su tre incontri a tema: rimanere coppia anche quando nasce un bambino;
essere padre ed essere madre oggi; il bambino e il mondo esterno.
Il gruppo è costituito da 11 madri e 4 padri, condotto da 2 psicoterapeute, una dedicata interamente
all'ascolto dei genitori disposti in cerchio, l'altra intenta a occuparsi dei bambini e preposta a
svolgere insieme un ruolo di osservatore e di confine-collegamento tra grandi e piccoli.
I bambini presenti sono 11 con un'età compresa tra i 3 mesi e i 2 anni e mezzo.
L'episodio descritto si svolge durante il primo incontro. Il tema che i genitori stanno dibattendo è
legato alla difficoltà di rimanere coppia salvando spazi di intimità anche dopo la nascita di un figlio.
«Gilberto dagli otto mesi in poi si è installato nel nostro letto» dicono accorati i genitori. «Non
siamo mai riusciti a farlo dormire nel suo lettino. Continua a svegliarsi, a piangere, a urlare in modo
straziante sino a farsi mancare il fiato. Negli ultimi tempi ci urla che non ci vuole più, che vuole
un'altra mamma e un altro papà, ci aggredisce fisicamente con botte, pugni e calci.»
La situazione descritta è molto frequente oggi. Se un bambino aggredisce mamma e papà a calci e a
pugni corre il rischio di sentirsi più forte di loro che sono due adulti. Da chi allora potrà sentirsi
protetto lui, che ha solo 2 anni e mezzo? Paradossalmente, per evitargli la frustrazione di un «no», i
genitori corrono inconsapevolmente il rischio di non soddisfare uno dei bisogni irrinunciabili di un
bambino: quello di essere protetto dagli adulti. Gilberto ha bisogno di limiti e papà e mamma nel
gruppo vengono sostenuti nel darglieli, per evitare di essere travolti dalle forti tensioni aggressive e
libidiche che un figlio è in grado di provocare quando non è adeguatamente contenuto.
I genitori sono aiutati a comprendere come incubi notturni, paure e oppositività eccessiva siano
spesso espressione dell'angoscia che i bambini si portano dentro quando mancano loro dei limiti. Le
regole e i «no» chiari e precisi servono quindi a dare consapevolezza che c'è chi, più «grande» di
loro, è in grado di contenerli e proteggerli. Mantenere distinti gli spazi fisici e mentali degli adulti
da quelli dei bambini è essenziale per una buona crescita. Saper tornare «piccoli» serve a giocare
meglio insieme e a cogliere empaticamente le loro necessità e richieste, ma è necessario da parte del
genitore restare «grande» per non confondere se stesso e i propri bisogni regressivi con quelli dei
figli.
Man mano che il lavoro del gruppo procede, i genitori di Gilberto iniziano a prendere
consapevolezza che gli agiti del figlio sono frutto non tanto e non solo del suo «carattere forte», ma
anche della legittimazione a invadere il loro spazio che essi stessi, inconsapevolmente, gli hanno
dato.
Al termine dell'incontro sentono il bisogno di avere dalle conduttrici un sostegno più concreto e
specifico per affrontare la situazione. Constatato che ambedue i membri della coppia sono decisi a
riprendersi il «loro letto», le terapeute suggeriscono di comunicare al bambino, insieme, in modo
fermo e autorevole, che il suo spazio per il riposo è nel suo lettino e nella sua cameretta.
Raccomandano ai genitori di mantenersi affettuosamente fermi su questa decisione una volta presa,
al di là delle risposte che il bambino metterà in atto. Inoltre li mettono in guardia circa le strategie
seduttive che Gilberto di sicuro adopererà, da cui però è possibile difendersi con reciproci sostegno
e intesa.
Al secondo incontro, due settimane dopo, partecipa solo la mamma di Gilberto, in quanto il
bambino è a casa ammalato e ad accudirlo è rimasto il papà. Comunica che lei e il marito stanno
sostenendo una dura battaglia con il figlio che ha sì cominciato a dormire nella sua cameretta ma sta
mettendo in atto tutte le strategie possibili per sfinire i genitori. Papà e mamma, forti delle
indicazioni date e della fiducia nei messaggi ricevuti, reggono questo difficile passaggio aiutandosi
a vicenda e alternandosi nella funzione di contenimento del bambino che, non ancora «domato», li
mette a dura prova con pianti, risvegli notturni e ricatti affettivi.
La difficoltà dei distacchi nei momenti di lutto
Giulio, 18 mesi, arriva addormentato in braccio alla mamma che lo affida al papà mentre si toglie il
cappotto; lo riprende poi immediatamente con molta cura e attenzione per non svegliarlo. La
famigliola è arrivata in anticipo di 15 minuti e c'è tempo per intrattenersi con loro. Raccontano che
il figlioletto ha riposato malissimo durante la notte, si è svegliato più volte piangendo angosciato e
si è addormentato in auto. La mamma, attentissima a non turbare il sonno del piccolo, aggiunge che
dorme male già da qualche tempo. È il secondo incontro. Al primo la signora si era presentata da
sola adducendo un malessere del bambino. Forse, in realtà, ciò nascondeva il suo bisogno di capire
se di noi si potesse fidare. «Sono state le puericultrici del nido a invitarmi a venire in questo
gruppo» aveva raccontato. «Giulio non riesce a separarsi da me. E dire che l'avevo portato al nido
proprio su consiglio della pediatra perché si era accorta che lui non ce la faceva a staccarsi dalla
mamma!»
Al mattino il distacco è sempre difficile: il bambino piange disperato, le si aggrappa e rifiuta
l'educatrice. Si calma pressoché immediatamente quando lei, angosciata, esce dalla sua vista; la
tranquillizza però il fatto che, quando lo va a prendere, regolarmente si sente dire che è stato
«buono» e ha dormito molto. Le poche volte che l'ha accompagnato il papà, la separazione è stata
meno straziante. «È sempre e solo con me che fa questa fatica» dice la mamma. «Quando siamo a
casa mi resta sempre appiccicato nonostante io continui a incitarlo a giocare da solo. Ce l'ho sempre
addosso!»
È molto importante questa osservazione della mamma. A Giulio manca al momento la possibilità di
imparare a giocare da solo «alla presenza della mamma impegnata in altro» come dice Winnicott. È
questa esperienza quella sulla quale i bambini costruiscono la loro capacità di saper stare da soli in
una «solitudine buona», fondamentale per il futuro benessere psichico. Giulio e la sua mamma
hanno bisogno di essere aiutati in questo cammino. Ma che cosa nella loro storia ha stretto così la
coppia mamma-bambino trasformando il legame in un vincolo e rendendo il distacco troppo
doloroso per entrambi? Quale altro distacco troppo doloroso è intervenuto nella loro vicenda? È
stata la mamma stessa a svelarlo.
Al termine del primo incontro aveva raccontato quanto fosse stata male durante la gravidanza
funestata dalla malattia e dalla morte della propria madre cui era molto legata. «Come mi
piacerebbe averla ancora vicina a occuparsi di me e del mio bambino!» aveva detto con grande
nostalgia. «Povero Giulio, chissà quanto ha sofferto anche lui insieme a me!»
Al secondo incontro, quando arriva con il marito e il figlio addormentato, appare meno tesa. Mentre
parla con noi il bambino apre un occhio, poi lo richiude, accoccolandosi ancora di più nel suo
grembo. Lei lo cinge teneramente tra le braccia e denota chiaramente come sia «innamorata» del
suo cucciolo. Una di noi comincia a interagire con Giulio giocando a «cucù»; lui, prima diffidente,
risponde con un mezzo sorriso.
La mamma è in difficoltà nel togliergli le scarpette, la terapeuta la aiuta catturando l'attenzione del
bambino con una filastrocca; poi prosegue il gioco sfiorandogli e solleticandogli leggermente i
piedini sotto lo sguardo partecipe della madre.
Giulio sorride divertito. Sguscia via dal corpo della mamma che, favorevolmente stupita, asseconda
il suo movimento. Il bambino, incoraggiato dalla conduttrice, raggiunge un cesto pieno di giochi
posto poco più in là. Incuriosito ne esplora il contenuto, la terapeuta inizia con lui un gioco
inviandogli una macchinina, al secondo rilancio l'auto però si allontana un po' troppo per lui che,
quasi spaventato, si gira a cercare la madre e torna velocemente tra le sue braccia.
Facciamo notare ai genitori come sia molto positivo il fatto che il figlioletto sia stato in grado di
interagire con una persona nuova in modo ludico. Successivamente, Giulio osserverà con interesse
gli altri bambini, e tornerà all'angolo dei giochi rimanendo per qualche minuto distante dalla madre.
Al terzo incontro la famigliola si ripresenta, questa volta in ritardo, il bambino è piagnucolante e si
addormenta in braccio alla madre che lo stende su un divano poco lontano da lei.
Alla fine del lavoro di gruppo, la coppia attende con pazienza l'uscita degli altri genitori per poter
parlare privatamente con noi. Durante il colloquio, è possibile spostare in modo graduale
l'attenzione dalle difficoltà del bambino alla sofferenza della signora. La mamma a quel punto
racconta che già il medico curante, avendo capito quanto stesse male, le aveva consigliato una visita
specialistica. La invitiamo a seguire tale indicazione con molta comprensione, sollevandola dai
sensi di colpa. Il marito, sempre piuttosto silenzioso, è però attento e comprensivo nei confronti
della moglie e si dimostra d'accordo con quanto detto dal medico e dalle terapeute. La signora, che
non ha ancora superato la sofferenza per la morte della propria madre, manifesta tutti i classici segni
di una situazione di lutto. Il dolore che la accompagna le impedisce di essere serena nella relazione
affettiva con il bambino, mentre è molto attenta e adeguata nell'accudimento fisico. La coppia,
avendo instaurato una buona relazione con le terapeute, chiede esplicitamente qualche indicazione
operativa. La signora tende a non stare troppo con il bambino pensando che ciò possa nuocergli e
creargli maggiore fatica nel distacco. Le spieghiamo che lo stare con lui giocando e coccolandolo
piacevolmente può solo consolidare in modo positivo il loro legame e creare la condizione
necessaria perché lui possa fidarsi anche a stare con persone esterne alla famiglia.
La invitiamo a prendersi più spazio per sé, a lasciare il bambino meno tempo al nido e più con il
papà, considerando ciò non solo un aiuto per lei, ma un'opportunità di crescita per il figlio.
Valorizziamo la figura del padre sottolineando quanto sia importante la sua presenza per creare un
rapporto più adeguato e meno simbiotico. L'inserimento all'asilo nido, opportunamente valutato,
può essere una delle varie possibilità di aiuto nella crescita di un bambino. In questo caso, la
frequenza a tempo pieno sarebbe emotivamente troppo intensa e stressante sia per la mamma sia per
il figlio. Giulio infatti, dopo il doloroso distacco, trova nel lungo sonno diurno il rifugio da una
sofferenza sproporzionata alle sue possibilità. Di notte invece si sveglia continuamente per
controllare che la madre sia sempre accanto a lui.
Pensare che la soluzione a un attaccamento eccessivo e protratto nel tempo possa essere unicamente
la separazione fisica è un modo semplicistico di affrontare il problema e può complicare
ulteriormente la situazione. Il messaggio che si è cercato di trasmettere è quello dell'essere genitori
non solo come dovere ma come conquista del piacere di stare con il proprio bambino, godendo delle
sue scoperte e conquiste in un percorso comune di crescita.
Comunque si svilupperanno le cose, riteniamo che il gruppo, per questo nucleo familiare, possa
essere stato un'occasione per cogliere uno stimolo di uscita da una situazione di eccessiva chiusura e
sofferenza. Ci auguriamo che tale intervento abbia offerto alla famiglia la possibilità di un pensiero
nuovo che incida favorevolmente sulla loro futura evoluzione.
Lo sperimentare con altri genitori, in un gruppo contenitivo la possibilità di parlare e condividere i
vissuti, esprimendo le ansie, dichiarando i propri dubbi senza sentirsi giudicati e valutati, può essere
un'esperienza che, alleggerendo le tensioni, permette di sentirsi «normali» e meno soli perché
confortati dalle esperienze degli altri partecipanti. Il gruppo dà inoltre la possibilità di elaborare
quanto succede nel «qui e ora», dando parole alle emozioni, significato ai comportamenti partendo
da angolazioni diverse. Ciò consente di arricchire il proprio spazio interiore anche con le esperienze
altrui, cogliendo da ciascuna situazione ciò che per il singolo ha maggiore significato e pregnanza.
Un requisito essenziale affinché possa crearsi un clima di fiducia e di confidenza tra i partecipanti è
la condizione posta all'inizio di ogni gruppo dai conduttori sulla necessità della riservatezza di cui
ciascun membro si deve fare responsabile.
Queste esperienze si rivelano utili e costruttive a condizione che siano condotte da psicoterapeuti
esperti e competenti in interventi sia individuali sia di gruppo. Si configurano infatti come interventi
che apparentemente possono sembrare semplici e qualche volta, a un osservatore superficiale, anche
banali. In realtà richiedono una pratica e una competenza che solo chi è esperto di psicoterapie
intensive può avere. Lo psicoterapeuta, infatti, deve essere in grado di formulare un pensiero e una
riflessione interna sintetica e veloce sul reale livello di bisogno sul quale è possibile intervenire in
quel momento e in quella situazione, contenendo empaticamente la sofferenza attuale del singolo e
del gruppo. È necessaria inoltre la capacità di dare spazio alla speranza e alla possibilità di superare
il disagio anche in tempi successivi. Non è raro, infatti, che dopo un intervento breve che ha dato
come effetto un sollievo immediato, maturino in tempi diversi richieste più elaborate e adeguate.
L'intervento breve richiede una professionalità dello psicoterapeuta che sia stata costruita non solo
attraverso una profonda competenza teorica, ma anche e soprattutto attraverso un lavoro personale
che abbia sviluppato e consolidato la capacità di trattenere dentro di sé contenuti о dubbi spesso
molto intensi che a volte possono risultare angosciosi anche per lui stesso. Lo psicoterapeuta deve
essere in grado di rinunciare alla sua onnipotenza e all'interventismo tollerando la frustrazione
dell'attesa dei tempi altrui.
Si dà a ciascuno soltanto ciò che è in grado di recepire in quel determinato momento. Ognuno ha i
suoi tempi che vanno rispettati.
«Lasciate le persone dove sono» diceva Jung.
Questi interventi hanno l'obiettivo di raggiungere i genitori sul «loro terreno», quello reale da cui
partono, non quello ideale che sia loro che noi terapeuti potremmo avere in mente. Ma da qualsiasi
terreno, se non si è soli, è sempre possibile cominciare a muovere qualche passo verso un viaggio.
Come dice un detto africano: «Introdurre lo spirito d'altre persone nella nostra vita ci dà più occhi
per vedere e ci consente di superare i nostri limiti».
VI
Come accompagnare e preparare i distacchi del crescere?
Preparare al distacco per la scuola materna
L'anima non avrebbe l'arcobaleno se gli occhi non avessero lacrime.
Tradizione orale dei nativi americani
Gli interventi che abbiamo visto finora erano tutti destinati a rinforzare le aree fragili dei genitori
per sostenerli nei momenti difficili e permettere loro di costruire un legame più solido e sicuro con i
figli
Più è solido il legame e più un bambino andrà attrezzato verso la vita e riuscirà a tollerare anche la
fatica delle separazioni che il crescere inevitabilmente comporta.
Meno è solido e sicuro il legame (o l'attaccamento) e meno un bambino potrà tollerare il dolore
della separazione: il bene che gli si vuole non c'entra, è solo un problema di funzionamenti mentali.
L'immagine che usa Bowlby quando paragona la famiglia alla «base sicura» di un esploratore è
estremamente significativa a questo riguardo. Più la base è sicura e più l'esploratore potrà
permettersi nel tempo di allontanarsi per esplorare, ben certo e tranquillo di ritrovarla lì al suo posto
ad accoglierlo, calda, pronta e attrezzata ogni volta che avrà bisogno di tornarci. Il bambino che non
riesce assolutamente a tollerare la fatica del distacco, oppure quello che si stacca senza problemi,
andando con chiunque anche se non lo
conosce, sono entrambi bambini che, per motivi diversi, non sono ancora in grado di affrontare il
distacco in un modo naturale, soffrendo ma trovando a poco a poco le strategie per tollerarlo.
Il bambino che affronta bene il distacco è quello che lo patisce ma col tempo impara a tollerarlo,
quello che studia la situazione, si accerta bene che ci siano a portata di mano la mamma il papà che
sono le sue sicurezze maggiori poi, piano piano, comincia a esplorare per tentativi ed errori,
allontanandosi prima e poi tornando dai genitori per riceverne incoraggiamento e conforto,
costruendo così a poco a poco un legame con i percorsi e le persone nuove, imparando a capire di
chi può fidarsi e di chi no.
Il crescere comporta quindi continue conquiste, ma anche continui distacchi e separazioni, che sono
mentalmente una delle cose più dolorose da tollerare per tutti, che ne siamo о no consapevoli, e
questi distacchi riguardano non solo i bambini, ma anche i genitori, papà compresi. Aveva
raccontato un papà tanti anni fa in un mio gruppo:
Quando accompagnavo mia figlia alla scuola materna non ce la facevo ad andare via subito. Allora
mi fermavo ogni giorno a guardarla dalla finestra e, quando la vedevo là in un angolo che piangeva
per il distacco, provavo anch'io lo stesso strazio. Se non fossi dovuto andare al lavoro sarei entrato a
riprendermela e a consolarla, la mia bambina!
Attraversare il dolore della separazione sperimentando che lo si può mentalmente contenere e
tollerare e che poi di solito vengono anche le conquiste che rendono più forti è perciò di importanza
fondamentale nella crescita di un bambino.
Ecco un'interessante esperienza in proposito, per la preparazione all'inserimento in scuola materna,
vissuta e descritta da una collega che ha fatto un lungo percorso all'interno di un mio gruppo di
genitori, per tanti anni.
Per una cultura della separazione
di Elena Pezzoli
Due cose possono regalare i genitori ai figli:
le radici e le ali.
Proverbio canadese
La separazione dentro la relazione
L'esperienza del separarsi è una delle costanti nella vita di ogni persona; in particolare, noi che ci
occupiamo di relazioni tra genitori e figli ci troviamo spesso a dover porre una cura particolare a
certi passaggi e agli effetti che producono. Nella storia personale e familiare di ogni genitore, il
termine «separazione» può evocare esperienze di lutto, di perdita, di abbandono, ma anche di
nascita, di novità, di libertà.
L'approfondimento etimologico dei termini «separazione» e «separare» ribadisce la doppia
connotazione di lutto e di nascita:
separazione-distacco, abbandono, assegnazione di un limite, cernita;
separare-distinguere, dividere, riferito a elementi tra loro contigui о legati da rapporti. A
volte implica l'interruzione о la fine di un'unione, di un legame, talora una semplice distinzione,
altre volte presuppone una volontà precisa. Dal latino separare composto dalla preposizione
separativa se e dal verbo parare;
parare-proteggere costituendo о fornendo un riparo, riparare, difendere.
Se da un lato è confortante e rassicurante abbracciare del termine «separare» il senso di
«proteggere, riparare, difendere il sé», dall'altro è disorientante e faticoso vivere la separazione per i
sentimenti di dolore, disperazione, annullamento che essa provoca.
Il figlio cerotto
I genitori, nel prendersi cura dei propri cuccioli, attingono costantemente ai ricordi infantili e
modulano la propria sollecitudine anche tenendo conto degli eventi particolarmente dolorosi che
hanno segnato la loro storia; talvolta sono strenuamente impegnati nell'evitare al figlio esperienze
che in loro hanno lasciato ferite ancora dolorose. Soprattutto nei momenti di passaggio e di
cambiamento e il distacco è uno dei più vitali e delicati si fanno carico di proteggere il figlio da
fatiche e sofferenze: mettendosi tra lui e la realtà, ingombrano spesso eccessivamente la relazione
con il bambino, cui attribuiscono la magica funzione di «cerotto» a ferite non ancora curate e
cicatrizzate.
«Non voglio che mio figlio soffra come ho sofferto io» è l'affermazione che talvolta fanno per
motivare alcune scelte di accudimento. Interagire con un «figlio cerotto» può costituire
un'importante opportunità evolutiva, a condizione che questi sia capace di affermare i propri bisogni
autentici anche quando non coincidono con quelli dei genitori; l'altra condizione è che i genitori
siano capaci di distinguere il figlio reale dal «figlio cerotto» e sappiano prendersi cura del «bambino
nascosto» per potersi dedicare in modo più adeguato al figlio reale.
I gruppi di formazione con genitori
Il gruppo di genitori può rappresentare un'ulteriore risorsa evolutiva poiché favorisce esperienze di:
condivisione di disagi e fatiche che accompagnano l'essere genitori e l'essere stati figli;
appoggio empatico tra i genitori per affinare la capacità di un reciproco ascolto e di un
autoascolto;
legittimazione e autolegittimazione degli stati d'animo interiori;
maggiore consapevolezza delle dinamiche relazionali interne e familiari;
individuazione di risorse utili per affrontare il futuro, avendo saldato alcuni conti col
passato.
Nei gruppi di formazione per genitori spesso si viene a creare un'atmosfera facilitante la progressiva
e sana integrazione tra l'adulto che si è diventati e il bambino nascosto, о arrabbiato, о ferito, о
perduto che si è stati. Il lavoro di cura di sé che i genitori in gruppo portano avanti consente loro di
essere meno bisognosi di relazionarsi con il «figlio cerotto» e più liberi di relazionarsi con il «figlio
reale»; la relazione risulta meno ingombrata da «inconsapevoli carichi sospesi» e più leggera,
libera, autentica, creativa.
Un gruppo di mamme si prepara a separarsi
Siamo all'inizio della primavera e all'interno del servizio Spazio gioco-incontro frequentato da
bambini da 0 a 3 anni e dai loro genitori, il gruppo di mamme con figli che a settembre andranno
alla scuola dell'infanzia comincia a chiedersi e a chiedere alla coordinatrice come potranno vivere i
loro piccoli questo passaggio.
L'attenzione e la cura, come talvolta succede, è soprattutto indirizzata al proprio bambino ed è
fortemente ingombrata da fantasie di disperazione e dolore. Queste mamme hanno vissuto finora a
stretto contatto con il loro figlio, non l'hanno ancora «lasciato», per esempio per motivi di lavoro:
sono insomma mamme a tempo pieno.
L'idea che mi viene allora, sollecitata in questo dalla coordinatrice dello Spazio e da quella della
scuola dell'infanzia, è di prenderci cura delle mamme preparandole, per così dire, sul campo, a tale
distacco, sostenendole nel gruppo mentre cominciano a viverlo.
Questo viaggio viene strutturato in quattro incontri di un'ora ciascuno, a intervalli settimanali: il
gruppo di mamme consegnerà ogni volta il proprio bambino alle educatrici nello spazio-gioco e si
«trasferirà» in uno spazio attiguo, separato da una parete e da due porte, dove lavorerà sul tema «Il
passaggio alla scuola dell'infanzia: paure e piaceri legati a questo distacco».
Quando la coordinatrice dello Spazio informa le mamme su tema, tempi e modalità del percorso, la
loro prima reazione quasi corale è: «E se piange...». Ed è proprio questa risposta corale e così carica
di ansia riferitami dalla coordinatrice che darà il titolo al primo incontro.
Cronaca di un viaggio
«E SE PIANGE?»
Le mamme consegnano i propri bambini alle educatrici nello spazio-gioco e arrivano alla
spicciolata nella saletta attigua, dove ad accoglierle ci siamo io (la dottoressa), la coordinatrice dello
Spazio gioco-incontro, persona a loro familiare, e la coordinatrice della scuola dell'infanzia, figura
con la quale interagiranno nei prossimi tre armi.
Qualche mamma giunge puntuale, qualche altra si attarda con il proprio bambino; ogni nuovo arrivo
è salutato con curiosità ed empatia dal gruppo che si sta formando; qualcuna ha gli occhi lucidi,
qualcun'altra è sorridente; l'ultima, la più ritardataria, che ha lasciato le sue due bambine, entra
piangendo e scusandosi, ma è subito accolta dalle altre che la rassicurano e confortano.
Mentre inizio a illustrare gli obiettivi e i temi di questi quattro incontri, dall'altra saletta cominciano
ad arrivare i primi pianti e contemporaneamente comincia a salire la preoccupazione tra le mamme
che si interrogano a vicenda: «È il mio bambino che sta piangendo?». Qualche mamma esprime la
tentazione di andare a rassicurare e confortare il proprio piccolo: «altrimenti» dice una «poi lui
vomita», qualche altra sollecita a rimanere di qua.
A questo punto propongo a tutte di provare a esercitarsi nel tollerare il pianto dei figli, verificando
ogni cinque minuti, insieme, se sia opportuno tornare dal proprio bambino о restare in questo
gruppo per il tempo concordato. Sottolineo inoltre che siamo consapevoli, tutte, che i bambini sono
stati affidati a persone competenti (le educatrici, che i piccoli già conoscono avendo frequentato lo
Spazio) e che di solito un bimbo «non muore per il troppo pianto»; al contrario, forse, spesso, sono
le mamme a «morirne».
Nei successivi quaranta minuti, a intervalli regolari, chiederò loro se vogliono tornare di là e ogni
volta mi verrà risposto, sempre con minore fatica: «Andiamo avanti». In questo tempo proporrò di
provare a dire quali siano le loro fantasie su ciò che sta succedendo nell'altra saletta, dando loro
questa precisa consegna: Immaginate di poter vedere attraverso un forellino nella parete il vostro
bambino che in questo momento è di là con gli altri bambini e con le educatrici. Com'è? Cosa sta
facendo? Come sta? Trasformate ciò che vedete, come se fosse una fotografia che potete scattare
attraverso il forellino, in un disegno che farete su lucido e che titolerete.
Dopo che su lucidi ciascuna mamma ha disegnato ciò che ha immaginato, vengono proiettati con la
lavagna luminosa e letti insieme i disegni e i titoli. Alle mamme viene chiesto: «Cosa vedete?»,
mentre l'autrice del disegno ascolta, talvolta preoccupata, oppure divertita, infine liberata.
L'aver «messo fuori di sé», attraverso un'immagine e pochissime parole, ciò che non si vede ma c'è,
per il momento, solo come fantasia dentro di sé, consente al gruppo di condividere il sentire di
ciascuno, indipendentemente da ciò che «davvero» di là sta succedendo e consente a tutte di
differenziare tra il proprio mondo interno e quello esterno, che sta al di là della parete e che di lì a
poco si potrà verificare.
Le immagini e i titoli prodotti dalle mamme possono essere raggruppati in tre sommarie categorie di
emozioni:
La disperazione: «È disperata», «Elisa piange», «Il pianto di Fulvio», «È disperato, è sulla
via di casa», «Dov'è la mia mamma?»;
la perplessità: «Osserva gli altri un po' impaurito davanti alla farina», «Non è facile
immaginare cosa stai facendo, spero ti stia divertendo!», «Gioco e osservo gli altri bambini», «La
prima esperienza», «Piera gioca con la farina attenta a quello che succede intorno a lei. La
mamma...», «Il giocattolo è mio», «La prima esperienza senza guida», «Cosa succede agli altri
bimbi?»;
la serenità: «Rosanna che sbriga le faccende domestiche nella piccola cucina», «Che bella
montagna», «Gioca come le altre volte», «Evviva la farina».
Nel concludere questo primo incontro, al fine di provare a condividere il pianto anche come risorsa
che ogni essere umano possiede per esprimere emozioni faticose e per liberarsene, leggo una breve
storia sul tema.
«DOV'È FINITA QUELLA MAMMA?»
Al secondo incontro le mamme arrivano più puntuali e rilassate.
Già da subito le sollecito a raccontare come hanno vissuto sia loro che il loro bambino il
rincontrarsi. Si scopre insieme che non tutto ciò che avevano fantasticato la volta precedente ha
trovato riscontro nella realtà: qualcuna che aveva «riconosciuto» il pianto del figlio ha poi verificato
con le educatrici che il bambino non aveva affatto pianto, о non così tanto; qualcun'altra che l'aveva
immaginato di là sereno e occupato a giocare ha poi constatato che non era andata proprio così. La
condivisione di queste scoperte consente di ribadire che esiste in ciascuno un mondo interno fatto di
ciò che si immagina e che questo, più frequentemente di quanto non si pensi, è molto diverso da
quello esterno, reale.
Per queste mamme rincontrare il loro bambino e confrontarsi con l'educatrice cui l'avevano affidato
ha favorito un esame di realtà attraverso il quale hanno potuto rimarcare il confine tra il loro sé e il
sé del figlio. Propongo di continuare a dar forma e contorni al proprio immaginario chiedendo alle
mamme di dividersi in sottogruppi per portare a termine questa seconda consegna:
Siete a settembre, è il primo giorno di scuola, avete appena lasciato il vostro bambino alle
insegnanti e state uscendo dalla scuola materna. Dove vi vedete? Dove andate? Come state?
Prendetevi qualche minuto per mettere a fuoco la situazione immaginata. Successivamente ciascuna
prova a raccontarla alle altre. Quindi provate a scegliere, tra quelle raccontate, la situazione più...
(speciale о divertente о coinvolgente o...). Trasformate la situazione scelta dal gruppo in un disegno
al quale darete anche un titolo.
In questo secondo esercizio l'obiettivo viene puntato non sul bambino e su quello che gli sta
succedendo una volta affidato alla scuola per l'infanzia, ma sulla mamma: su «che fine fa» una volta
separata dal figlio, in quale luogo si rappresenta, da quali sentimenti è pervasa, forse in solitudine
oppure in compagnia.
Giocando in gruppo a immaginare quel momento di distacco, le mamme hanno l'occasione di
prendersi cura di sé familiarizzando sia con i propri aspetti più fragili sia con quelli più vitali.
Mentre procede il lavoro in gruppo sembra che i bambini, di là, piangano di meno, о non piangano
affatto, ma sembra anche che le mamme li ascoltino di meno о non li ascoltino affatto.
Dopo che i piccoli gruppi hanno portato a termine la consegna, insieme si leggono i disegni
rispondendo alla domanda «Cosa vediamo?» e successivamente si scoprono i titoli.
Finalmente una spesa tranquilla! Confrontandosi su quanto sia faticoso, a volte, andare al
supermercato con i figli e godendo anticipatamente del piacere di fare, appunto «finalmente una
spesa tranquilla», si cominciano a scoprire e condividere i vantaggi che possono venire da quel
distacco tanto temuto.
È tutto sotto controllo! Ci si confronta su quanto faccia star bene ogni tanto prendersi cura di sé,
pensare a sé e soddisfare qualche piccolo desiderio.
Coraggio! Ancora un anno e poi sarò libera! Nel confronto emerge il desiderio di recuperare un po'
di tempo e spazio per se stesse, anche se al contempo si vorrebbe essere delle buone mamme e «non
far mancare niente» al proprio figlio.
Come sarà il tuo dolore senza la mamma? Nel confronto tra mamme si inserisce la coordinatrice
della scuola dell'infanzia che risulta essere una presenza molto preziosa perché sa dare rimandi
rassicuranti e soprattutto di realtà, come a dire: «State tranquille, ci siamo noi che ci prendiamo cura
dei vostri bambini; ci stanno a cuore, siamo attente ai loro bisogni, non sono abbandonati a loro
stessi ecc».
A questo proposito ritengo utile introdurre il concetto di oggetto transizionale: è l'angolo di una
copertina, oppure l'orsacchiotto, oppure una canzoncina che il bambino utilizza, per esempio prima
di andare a dormire, e che costituisce un ponte per superare l'angoscia derivante dalla separazione.
Essendo una risorsa importante anche nel passaggio alla scuola dell'infanzia, consideriamo insieme
l'opportunità che nei primi tempi i bambini si portino «un po' di casa» a scuola; «Successivamente»
come riferisce la coordinatrice della scuola dell'infanzia «accadrà anche che i vostri figli portino "un
po' di scuola" a casa, attraverso un disegno, о una filastrocca, о un gioco». Poiché per i bambini
sono oggetti preziosi per favorire il senso di continuità tra casa e scuola, sarà opportuno che la
mamma li accolga dando loro lo spazio e il valore che per il bambino rappresentano.
A volte tuttavia sembra sia la mamma ad aver bisogno dell'oggetto transizionale che faccia da ponte
tra lei e il suo bambino. Una mamma aveva attrezzato la figlia di 3 anni attraverso questo rito:
prima di accompagnarla a scuola spruzzava un po' del proprio profumo sul fazzolettino che la
piccola teneva nella tasca del grembiulino e le diceva: «Così quando mi penserai e ti mancherò
potrai sentire il mio profumo». Un giorno però la bambina con tono preoccupato chiese alla
mamma: «E se poi mi dimentico di pensarti?». Con questa frase la bambina aveva permesso che la
mamma si accorgesse di avere lei bisogno di qualcosa che facesse da ponte tra sé e la sua piccola,
per sopportarne la separazione e per ridimensionare il proprio desiderio onnipotente di essere
sempre nei suoi pensieri.
Con la lettura di una favola sul tema si conclude l'incontro.
L'INSEGNANTE DESIDERATA PER IL PROPRIO BAMBINO
Il rito di lasciarsi il bambino di là, la mamma di qua diventa ormai più facile e celere; i bambini
piangono sempre meno, forse anche perché hanno vissuto l'esperienza della mamma che se ne va
ma poi torna; le mamme sono meno ansiose, forse anche perché hanno ritrovato i loro bambini
interi e loro stesse si sentono più intere.
Volendo evidenziare come spesso i genitori inconsapevolmente proiettino sui bambini bisogni
propri, ma anche per riuscire a riderne insieme, leggo, da Così giovane e già ebreo di Ouaknin e
Rotnemer, a cura di Moni Ovadia, quest'indovinello: «Qual è la definizione di pullover?». «La cosa
che indossa il bambino quando la mamma ha freddo.» Quindi propongo di portare a termine,
sempre in sottogruppi, questa nuova consegna:
Come vi piacerebbe fosse l'insegnante che incontrerà il vostro bambino? Che caratteristiche
vorreste lei avesse? Raccontatelo alle altre mamme del gruppo. Poi scegliete uno solo dei desideri,
trasformatelo in disegno e titolatelo. Questa proposta dà alle mamme l'occasione per cominciare ad
aprire la scatola dei propri desideri, dopo che si è dedicata grande cura alle paure; mentre la
presenza della coordinatrice della scuola dell'infanzia favorisce l'opportunità di dare voce alle
proprie aspettative sapendo che verranno non solo ascoltate ma anche raccolte. La partecipazione
della coordinatrice dello Spazio gioco-incontro, con cui le mamme hanno condiviso ormai da tempo
momenti insieme al loro bambino, costituisce un prezioso anello di congiunzione tra passato e
futuro.
Anche questa volta si leggono e commentano insieme i disegni e i titoli.
La maestra come punto di riferimento. L'insegnante al centro dell'aula tiene per mano, alla sua
destra, due bambini che chiedono di giocare e alla sua sinistra due bambini che chiedono tenerezza.
Si evidenzia il ruolo centrale dell'insegnante che, non solo sa legarsi con i piccoli (è in contatto,
attraverso il tenersi per mano) ascoltandone bisogni e desideri talvolta molto diversi («giochiamo»,
«facciamo le coccole?»), ma è pure capace di facilitare il legarsi dei bimbi tra loro: è un punto di
riferimento e un modello di relazione che può favorire esperienze piacevoli ed evolutive.
La maestra nostra complice di giochi. Mentre nella parte destra del disegno c'è l'edificio scolastico
con tante finestrelle su ciascuna delle quali è scritto il nome di un bambino, nella parte sinistra c'è
un parco e tanti personaggi che fanno un girotondo. In un contesto molto strutturato (il dentro,
«asilo»), ogni bambino ha un suo spazio definito e nominato, mentre in uno spazio aperto (il fuori)
ci sono gioco e girotondo che coinvolgono tutti. La maestra complice sa intrecciare, costruire
piacevoli reti di relazioni, essendo un po' anche lei bambina che gioca con altri bambini. In tutte le
rappresentazioni l'aspettativa più ricorrente ed evidente è che il bambino abbia l'opportunità di
vivere relazioni nuove e affettive che lo arricchiscano e gli procurino benessere.
È curioso che non sia posta alcuna attenzione a quella che viene definita dimensione cognitiva, sulla
quale vengono invece spesi molto tempo e parole da chi opera all'interno dell'istituzione scolastica;
quando, all'inizio dell'anno, la scuola incontra le famiglie per presentare la programmazione, capita
spesso di avvertire che, mentre le mamme sono molto preoccupate di come si troverà il loro
bambino (dimensione affettiva), le insegnanti siano altrettanto preoccupate, ma di elencare cosa
faranno i bambini (dimensione cognitiva).3
IMPARARE A SALUTARSI
È l'ultimo incontro: lo ricordo alle mamme esplicitando il mio desiderio di dedicare l'attenzione, per
una parte dell'ora che ci resta, alle aspettative presenti nella relazione con il proprio figlio e che in
modo particolarmente efficace e ironico sono descritte in questa simpatica storiella tratta dal già
citato Così giovane e già ebreo:
Una yiddishe marne porta a passeggio i suoi due bambini. «Ma che bei bambini! Complimenti alla
mamma! Ma quanti anni hanno?» «Grazie» risponde sorridendo la mamma. «Il dottore ha 4 anni e
l'avvocato 2!»4
È importante che ogni buon genitore, per evitare di caricare di troppe aspettative о desideri
inappropriati la relazione con il proprio bambino, impari ad aver cura di sé; a tale proposito risulta
stimolante leggere insieme queste semplici prescrizioni tratte da Progetto genitori di Paola Milani,
per la quale «aver cura di sé» significa:
Ristrutturare il proprio tempo (pianificarlo in modo da avere sempre tempo per sé, per
conservare le proprie energie e non deteriorare il proprio umore);
saper chiedere sostegno e aiuto;
riconoscere le proprie competenze e risorse;
avere una buona autostima;
saper chiedere confronti e conferme al proprio agire;
individuare altri genitori con cui condividere esperienze;
mantenere e seguire i propri interessi;
prendersi degli spazi di coppia;
coltivare amicizie e relazioni «dense» dal punto di vista affettivo.
Una mamma, che esprime il desiderio di avere una copia di questo testo per «averlo sotto gli occhi
ingrandito e attaccato bene in vista sul frigorifero», riceve subito l'appoggio corale delle altre alla
sua richiesta. Considerando che il tempo di questo viaggio sta per finire, sottolineo quanto sia
importante imparare a salutarsi e suggerisco di utilizzare la seguente modalità:
Ripercorrendo con la mente questi quattro incontri, ciascuna cerca un'emozione, un'immagine, un
pensiero che trasforma in un messaggio; quindi lo scrive su carta lasciandolo anonimo. Io leggerò
tutti i messaggi e questo sarà il vostro modo di salutare.
In un clima di grande attenzione e ascolto do lettura dei saluti:
«Dopo dieci minuti di lacrime, quando finisco è tutto passato. E in questo ha proprio ragione...»
«La condivisione di dubbi e paure con altre persone ci aiuta a superarle.»
«So che alla scuola materna la mia bambina starà bene. Grazie per aver pensato alle mie tante
insicurezze.»
«La voglia di apprendere di noi mamme, di cogliere ogni suggerimento.»
«I vari incontri mi hanno aiutato molto non solo per la mia bambina ma anche per me
personalmente.»
«I miei desideri spesso con i tuoi.»
«Grazie per il vostro aiuto.»
«Incontri importanti che mi hanno aiutato molto a capire cose che magari non consideravo
importanti.»
«Mi ha fatto bene staccarmi. Grazie!»
«Insieme allo Spazio gioco-incontro e insieme in questo nuovo cammino...»
«Il cordino continua.»
Con questo bellissimo proverbio canadese anche io e le due coordinatrici salutiamo le mamme:
«Due cose possono regalare i genitori ai figli: le radici e le ali».
Da soli non si cambia
Tra gli elementi strutturati presenti sul territorio che hanno facilitato l'esperienza di questo breve,
eppure intenso, percorso formativo i più fertili sono stati:
l'esistenza di uno Spazio gioco-incontro entro il quale queste mamme avevano familiarizzato
tra loro, avevano saputo raccontarsi mentre crescevano con il loro bambino, avevano
potuto essere accolte e ascoltate dalle operatrici del servizio; con queste ultime avevano costruito
una richiesta precisa proprio quando si stava avvicinando per il loro bambino il momento del
passaggio alla scuola dell'infanzia e per loro il momento di consegnarlo/affidarlo ad altri;
la presenza di figure (tra cui le due coordinatrici e la dottoressa) che, pur avendo ambiti di
competenza e ruoli differenti, sono state capaci di lavorare insieme per strutturare un intervento
molto integrato e mirato al tema della separazione;
l'appoggio incondizionato degli amministratori locali che hanno mostrato grande attenzione
all'infanzia e alla funzione genitoriale;
le mamme, così capaci di cercare relazioni e chiedere esperienze che fossero loro d'aiuto.
Dentro la cronaca di questo viaggio si possono facilmente ritrovare numerosi elementi che rendono
fertili le esperienze d'aiuto:
la possibilità di confrontarsi su un'esperienza che si sta simultaneamente vivendo («Insieme
allo Spazio gioco-incontro e insieme in questo nuovo cammino...»);
la capacità di rischiare fidandosi di persone (le altre mamme, le coordinatrici, la dottoressa)
alle quali chiedere e dalle quali essere ascoltate («La condivisione di dubbi e paure con altre
persone ci aiuta a superarle»);
la sperimentazione del distacco, con la possibilità di poterlo modulare /regolare (soprattutto
durante il primo incontro la possibilità di scegliere se tornare di là о andare avanti);
lo sforzo di mettere fuori, attraverso immagini e parole, ciò che si ha dentro, in modo
latente, о confuso, о ingombrante, per definirlo e ridefinirlo attraverso l'ascolto dell'altro («Incontri
importanti che mi hanno aiutato molto a capire cose che magari non consideravo importanti»);
la curiosità di conoscere e sperimentare invece di accontentarsi delle proprie certezze («La
voglia di apprendere di noi mamme, di cogliere ogni suggerimento»);
la disponibilità a cambiare il proprio modo di guardare («Dopo dieci minuti di lacrime,
quando finisco è tutto passato. E in questo ha proprio ragione...»);
il desiderio di continuare a nutrire relazioni che nutrono («Il cordino continua»).
Così come per fare del buon pane ci vogliono ingredienti buoni, nella giusta dose, amalgamati tra
loro nella giusta successione da mani calde, delicate e decise, ma ci vuole anche un clima costante
per favorire la lievitazione, e infine un forno con la temperatura giusta per accogliere quell'impasto,
nonché un tempo preciso di cottura, anche per sfornare esperienze di cambiamento e crescita ci
vogliono persone e relazioni, proprio perché da soli non si cambia...
Genitori e figli: una reciprocità educativa
Nel considerare il rapporto tra un genitore e il proprio cucciolo la visione più diffusa condivisa dal
mondo adulto è che i compiti di cura e educazione siano di competenza dei genitori, mentre
l'oggetto dell'accudimento siano appunto i figli; dimentichiamo così invece quanto noi genitori
impariamo dai nostri figli, non solo quando sono piccoli, ma per tutta la vita. Dice a questo
proposito Jeanne Van den Brouck nell'introduzione al suo libro Manuale a uso dei bambini che
hanno genitori difficili:
non dimentichiamo che, mentre l'educazione di un figlio richiede in media da quindici a diciotto
anni, l'educazione dei genitori può durare mezzo secolo e qualche volta di più.
Se ci si sforza di accettare, anche solo per poco, questo punto di vista così divergente ed estremo, si
possono trarre alcune considerazioni molto vitali e rassicuranti per un genitore impegnato nella cura
del proprio bambino:
il genitore non è solo, al contrario ha un alleato molto vitale e creativo nel proprio figlio, che
attivamente vuole star bene e far star bene il proprio genitore;
il genitore non sa ormai tutto, al contrario può imparare ancora molto su di sé dal proprio
figlio; attraverso di lui ha l’occasione di riscoprire il proprio sé bambino, di recuperare quelle parti
del sé che erano state malmesse, proprio nel senso di messe via in qualche modo e che, ricollocate,
gli consentono di continuare a crescere;
il genitore viene sollecitato a essere più flessibile rispetto a se stesso, proprio perché,
partecipando alla cura di quell'essere così vitale e imprevedibile che è il figlio, ha un nuovo modello
cui fare riferimento;
il genitore è costantemente sollecitato a essere creativo, poi
ché si trova a dover affrontare una costante e considerevole quantità di imprevisti (che riguardano il
figlio ma anche se stesso);
il genitore e il figlio sono reciprocamente impegnati in un continuo processo di adattamento
dell'uno all'altro ed entrambi allo scorrere della vita.
Tuttavia noi madri e padri non sempre ci rendiamo conto di quanto siano flessibili, e creativi, e
vitali i figli nei nostri confronti: «Devi darle un sacco di grattacapi e preoccupazioni per mantenere
così giovane la tua mamma» dichiarò con notevole ironia e altrettanto acume un giovane sacerdote
rivolgendosi a un'adolescente ma guardando contemporaneamente la mamma della ragazza.
Educare alla separazione
Alcuni anni fa il gruppo docente di una scuola elementare mi chiese di costruire un progetto
formativo che rispondesse a questo loro bisogno molto sentito e urgente: «Come possiamo lavorare
con alunni depressi». Poiché questa richiesta mi apparve alquanto singolare chiesi loro con un po' di
stupore: «Ma quanti sono questi bambini depressi?». «Tanti!» mi fu risposto senza incertezze.
L'incertezza assalì me che, come in altre situazioni, scelsi di andare oltre la domanda dichiarata in
questo caso «Cosa posso fare per l'altro sofferente?» che riformulai in: «Cosa posso fare per me
quando incontro la sofferenza?».
Fu così che con questi insegnanti mi avventurai in un percorso formativo che ebbe come titolo «I
sentimenti nell'esperienza scolastica» e che ci portò prima a esplorare «I momenti tristi
nell'esperienza professionale», successivamente «I momenti felici...» e infine a chiederci «Quali
sentimenti si è capaci di condividere?».
Fu un viaggio che ricordo come molto intenso e affascinante per la ricchezza di esperienze sul cui
racconto lavorammo con grande impegno, che richiese una sorta di prima alfabetizzazione degli
affetti, tutti accatastati dentro la parola-valigia «depressione» che aprimmo e svuotammo.
Trovammo il sentirsi degli insegnanti «delusi, amareggiati, spaventati, addolorati, affaticati,
arrabbiati, soli, confusi, impotenti» e altro ancora, ma di alunni depressi non ne trovammo... о forse
ci dimenticammo di cercarli. Fu anche grazie a questa esperienza formativa che mi resi conto di
quanta attenzione e tempo ed energia venissero dedicati nella scuola alla «continuità» e alla
«accoglienza», e di quanto venissero invece ignorate le esperienze di «partenza» e «conclusione»;
di fatto ogni «accoglienza» presupponeva una separazione, che spesso rimaneva implicita, taciuta,
elaborata in solitudine. Se si analizza un normale percorso scolastico ci si accorge che:
gli alunni vivono il passaggio da un ordine di scuola a un altro (almeno tre volte), il
passaggio a una classe successiva (almeno undici volte), esperienze di perdita e sostituzione di
insegnanti, esperienze di perdita dei compagni;
gli insegnanti vivono ciclicamente il passaggio alla classe successiva, il passaggio alla classe
inferiore, e alcuni passaggi ad altre scuole о ad altre realtà organizzative;
le famiglie vivono indirettamente le esperienze vissute dai figli in quanto alunni.
Appare evidente quanto ricorra spesso, per tutte le persone coinvolte nel processo educativo,
l'esperienza di separazione: a essa si potrebbero dedicare maggiore spazio e tempo per far emergere
elaborazioni significative e condivise che la possano rendere un'ulteriore occasione di crescita
culturale e affettiva per tutti. Infatti un luogo educativo pieno e protetto, quale è appunto la scuola,
può favorire il dar voce ai sentimenti, anche a quelli più scomodi e indigeribili, attraverso itinerari
formativi non solo attenti all'accoglienza ma anche al commiato. Accanto alla «pizzata» di fine
anno scolastico о al classico tema d'esame Ricordi piacevoli e spiacevoli di questi cinque/tre anni si
potrebbero costruire proposte nelle quali dare parole ai sentimenti che accompagnano l'esperienza
del lasciarsi perché, dopo che si è dedicata tanta cura alla cultura dell'accoglienza, forse sarebbe
evolutivo dedicarne altrettanta alla cultura della separazione.
VII
Come aiutare a pensare anche con il cuore Uno spazio per imparare a pensare con la mente e con il
cuore
È il mio cuore il paese più straziato.
G. UNGARETTI, San Martino del Carso
«Sai per che cosa è questo "guardiano"? Per le emozioni che fanno male dentro!» aveva detto tanti
anni fa un bambino di 7 anni durante un Atelier. Il guardiano era una «pattumiera spaziale»: un
contenitore dove buttiamo via gli scarti per disfarcene. Quando però un bambino di 7 anni butta le
sue emozioni in una pattumiera per lanciarle nello spazio, getta via anche le sue parti più vitali e
preziose, testimoni fondamentali della sua stessa esistenza. E infatti, non a caso, il guardiano
successivo per lo stesso bambino era diventato quello per la paura di «non esistere».
I due guardiani avevano dato così forma e parole a quello che stava avvenendo sul piano psichico
all'interno del bambino: la strutturazione di un possibile futuro falso sé, di una profonda scissione
fra una parte estremamente logica e razionale che era stata sviluppata e coltivata per riconoscersi e
sentirsi riconosciuto, e una emotiva che era stata repressa, negata e allontanata per cui, non avendo
potuto stare al passo con la crescita, era rimasta molto più piccola della sua età.
Un bambino di 7 anni che ragionava quasi come un adulto ed era sul piano emotivo spaventato e
fragile come un neonato, il che non è per niente un buon accompagnamento nella vita, anzi può
essere la premessa di una possibile importante sofferenza futura.
«Allora io il mio guardiano lo metto vicino a questa pattumiera spaziale perché secondo me si deve
sentire un po' sola a vagare così nello spazio» aveva esclamato il conduttore dell'Atelier.
«È vero!» era stata la risposta, un po' sorpresa, del bambino. Almeno un'emozione faticosa e
difficile, il sentirsi soli, era in quel momento tornata ad abitare dentro di lui: è ben diverso soffrire
perché ci si sente soli, dall'avere paura di non esistere affatto perché si ha soltanto il vuoto dentro.
L'Atelier dove questo è successo si ispirava a quelli di Maud Marinoni a Bonneuil, uno spazio
protetto e strutturato con un ben preciso rituale di inizio, di svolgimento e di fine e destinato
all'ascolto attento e rispettoso dei sintomi dei bambini per aiutarli a evolvere. Non sono delle
psicoterapie, ma uno spazio terapeutico, dove le emozioni caotiche e disordinate che fanno paura e
che possono sfociare in comportamenti a rischio possono piano piano trasformarsi, prendere forma
nel disegno ed essere contenute e rese pensabili dai «guardiani» invece di essere agite nei
comportamenti.
«Il mio guardiano è per la paura di morire... Anzi, no, non di morire, ma per la paura di essere
morta!» aveva detto un'altra bambina di 7 anni a due mesi di distanza dall'inizio di un Atelier
settimanale, quando era riuscita finalmente a sedersi e a disegnare il suo spazio, dopo aver fino a
quel momento sempre e solo girato ossessivamente intorno al tavolo dove gli altri disegnavano. La
sua unica altra partecipazione attiva al gruppo era stata fino ad allora il cerchio fatto insieme con le
mani all'inizio e alla fine della seduta.
Ma quei due mesi passati a girare ininterrottamente intorno agli altri, lungi dall'essere inutili, erano
stati il tempo necessario per un importante movimento del suo mondo interno. È molto diverso
infatti girare continuamente senza fermarsi mai per paura di essere morti dal fermarsi a dare forma e
colori a questa paura nel proprio spazio, a darle voce con le parole e a proteggerla con dei guardiani.
Nel primo caso era un'emozione «selvatica», che poteva esprimersi solo con un comportamento
sempre uguale, ripetitivo, sterile; nel secondo caso era diventata un'emozione elaborata, che si
poteva contenere nella mente, dandole una forma e dei colori nel proprio spazio delimitato da
confini ben certi e sicuri e protetto da buoni guardiani, i propri e quelli degli altri. E questa diventa
così un'esperienza psichica che lentamente accompagnerà meglio nella costruzione del proprio
mondo interiore nella vita, nonché di contenitori mentali per le emozioni dolorose.
Ecco dunque la terapeuticità di questo tipo di Atelier: i piccoli movimenti che avvengono piano
piano nel mondo interno di un bambino e che lo attrezzano maggiormente per la vita. I guardiani
simbolicamente messi a protezione finale dei propri disegni diventeranno col tempo delle presenze
interiorizzate che faranno compagnia soprattutto nei momenti difficili, dando delle risorse diverse a
cui attingere rispetto agli agiti che inevitabilmente ci si ritorcono contro.
Come per Federico che, verso i 9 anni, non sapendo dove collocare le tempeste emotive che si
sentiva dentro un giorno e che lo rendevano profondamente infelice, angosciato e arrabbiato, ha
deciso di farsi un Atelier tutto da solo. Ha preso un foglio bianco, ha segnato bene il suo spazio e
all'interno ha disegnato il suo antico dramma che in quel momento gli era diventato intollerabile:
una tomba con accanto una pistola e cinque morti stesi per terra (un papà, una mamma, un bambino
con un fratellino gravemente malato e persino il cagnolino di casa). Tutti, tutti, tutti morti. Un
dolore a cui non si poteva sopravvivere. E sopra, il titolo: «Atelier: tomba familiare!».
Ma tutto questo marasma di tempeste emotive era contenuto fermamente e solidamente, all'interno
del proprio spazio: era protetto da guardiani e aveva un interlocutore. Sul foglio, piegato, era infatti
scritto: «Per X» (il nome del conduttore dell'Atelier).
Federico, abituato da quando aveva 7 anni a partecipare a un Atelier settimanale, è riuscito così in
un momento di grande malessere ad aiutarsi da solo anche in una situazione esterna all'Atelier,
attingendo alla sua esperienza e alle sue stesse risorse. Ha potuto cioè dare una forma, delle parole,
dei con fini ben precisi con dei guardiani, alle tempeste emotive del suo mondo interno che in quel
periodo, come in tanti altri, lo travolgevano per la rabbia dell'avere la mamma forzatamente lontana
per lunghi periodi in ospedale, con il fratellino piccolo affetto da una grave patologia neurologica
che influiva pesantemente sulla vita di tutta la famiglia. E, guarda caso, il momento in cui è
avvenuto questo episodio è stato proprio quando i suoi stessi genitori attraversavano una fase di così
profonda disperazione e scoraggiamento che erano arrivati a pensare loro stessi che forse solo la
morte potesse porre fine a tanto dolore.
È stato quando la mamma ha trovato il disegno di Federico nella sua camera e si è commossa per lui
che anche lei è riuscita a superare il suo stesso malessere di quei giorni e questo ha riportato
un'atmosfera più serena in casa per tutti, anche se la situazione era sempre la stessa. Quello che era
cambiato era però il modo con cui lo stesso dolore veniva vissuto, un modo che non si ritorceva più
contro di loro facendoli stare ancora peggio.
Nessun intervento psicologico potrà infatti mai risolvere i problemi oggettivi che la vita ci fa
incontrare: ci può però aiutare a guardarli in maniera diversa e a trovare altre modalità per
affrontarli. E questo è un piccolo, ma contemporaneamente grande aiuto.
Le tre storie che ho riassunto qui, e che hanno ispirato in passato alcune mie favole sul tema, sono
solo alcuni esempi di un tipo di intervento preventivo con i bambini e i ragazzi. Quella che segue
ora è una descrizione fatta da una giovane collega psicoterapeuta come conclusione della sua
partecipazione per tre anni come co-conduttrice insieme a me di un Atelier di questo tipo per il suo
tirocinio formativo della Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica di Milano (SPP).
Quelle che ha sintetizzato sono le sue impressioni e la sua esperienza professionale ed emotiva: per
mettere insieme la mente e il cuore anche di noi terapeuti.
Atelier sulle emozioni: i riti che preparano il cuore
di Margherita Elli
«... Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore... ci vogliono i
riti.» «Che cos'è un rito?» ... «Anche questa è una cosa da tempo dimenticata. ... È quello che fa un
giorno diverso dagli altri giorni.»
A. DE SAINT-EXUPÉRY, Il piccolo principe
«E ora prendiamoci per mano, chiudiamo gli occhi e ascoltiamo il silenzio. .. » Così ha inizio ogni
seduta dell'Atelier sulle emozioni, uno spazio creativo e terapeutico insieme, che si rinnova ogni
settimana alla stessa ora, nello stesso luogo.
Quarantacinque minuti di sicuro ascolto ed espressione del mondo interno in cui, chiusa la porta di
quel reale spesso invadente, rumoroso e frettoloso, ci si apre alle sensazioni, ai desideri, alle
emozioni e alle fantasie.
Protagonisti sono bambini tra gli 8 e i 12 anni circa (ma l'età può variare) con disturbi emotivocomportamentali a cui talvolta si uniscono sintomi psicosomatici о tic о difficoltà
dell'apprendimento.
Sono spesso, ma non necessariamente (perché è uno strumento utile a tutti i bambini in generale), i
cosiddetti «casi difficili», impegnativi per i genitori, quasi impossibili per gli insegnanti, difficoltosi
per i compagni, perché troppo agitati о troppo inibiti, e da essi resi facile mira di scherno.
Un piccolo gruppo (non più di sei bambini) condotto da due terapeuti che lo accompagna
nell'esplorazione del mondo interno attraverso poche regole, ma chiare e salde per tutti, e nessuna
aspettativa se non quella di esserci, lì, presenti, ciascuno con la propria individualità e con la
ritualità del gruppo.
Sono come tanti piccoli principi: piccoli principi di oggi, ricchi di giochi, vestiti, merendine d'ogni
tipo ma che sanno essere ugualmente vaganti in cerca di attenzione e significati, come il magico
protagonista della fiaba di Saint-Exupéry, con i suoi dubbi, i suoi timori e lo stesso smarrimento che
può cogliere anche noi adulti maturi e cresciuti, che apparentemente conosciamo le nostre mete, tesi
al trovare la nostra casa, gli amici, gli amori, le passioni con l'eterna paura di rimanere soli, di
sentire soltanto l'eco delle nostre parole, dei nostri discorsi e degli insistenti richiami.
E noi, un po' come la volpe nel Piccolo principe, ci facciamo addomesticare, trasmettiamo il
significato di un rito e che cosa vuol dire creare legami e, proprio attraverso il rito, prepariamo il
cuore dei nostri bambini, li prepariamo a sentire e a sentirsi, a creare legami autentici che li
accompagnino nella vita.
«E insieme inizia il nostro viaggio nel paese dei pittori che ci insegnano che con il bianco del
foglio, con i colori, possiamo dare voce a tutte le nostre emozioni: la felicità quando siamo felici, la
rabbia quando siamo arrabbiati, la tristezza quando siamo tristi, la gelosia, l'invidia. .. e tutte le
emozioni che ci possono venire in mente.»
È questa l'introduzione d'ogni seduta che indica quali sono le vere protagoniste del nostro spazio: le
emozioni.
Sono le emozioni che sentiamo sotto pelle, quelle che proviamo nel cuore e infine quelle che
possiamo pensare, belle e brutte ma sempre parte di ciascuno di noi e mattoni tanto preziosi dei
nostri bambini. Ma se tante sono le emozioni che creano i nostri viaggi, la paura, in tutte le sue
forme, è l'eletta a trovare ascolto e riparo nell'Atelier, protetta dai fedeli guardiani. C'è un grande
foglio bianco sul tavolo intorno al quale intrecciamo il nostro cerchio di mani strette, a volte in
modo timido, a volte in modo più intenso.
«Ora ciascuno di noi disegna il proprio spazio e all'interno del suo spazio può fare tutto ciò che
vuole e tutto ciò che fa va bene.»
Lo spazio entro il quale il bambino è libero di esprimersi diviene il primo contenitore dei desideri e
delle paure, rappresentati per immagini, colori e forme, guardando lo spazio dell'altro о isolandosi
nel proprio. Ecco il primo invito, la prima «regola non regola» dell'Atelier, la prima scelta che dice
di ciascuno in modo unico e soggettivo.
Si creano così sul foglio spazi piccoli e tondi, spazi stretti e allungati, spazi che vorrebbero occupare
tutto lo spazio degli altri о spazi che stentano a prendere forma oppure a chiudersi con dei confini
certi e sicuri. Che siano i pennelli, i pennarelli о la creta gli strumenti utilizzati, per una ventina di
minuti circa si lavora in silenzio, un silenzio che, come il bianco del foglio, lascia liberi i bambini di
farne ciò che sentono e che più li rassicura. Ma quanta preoccupazione affiora da quel silenzio e da
quel foglio bianco! Quanto smarrimento e agitazione nel non capire cosa ci si aspetta da sé, come
adeguarsi о anche come opporsi. Però non sono soli in questo difficile compito, c'è il gruppo e c'è il
tempo a scandire e rassicurare.
Quella dell'Atelier è una creatività che può essere tale perché non è caos: ci sono semplici regole
ferree, non si invade lo spazio degli altri, non ci si fa male, e poi ci sono il tempo e lo spazio a
contenere e a scandire la ritualità. Ogni nuova fase è infatti annunciata con un giusto preavviso:
«Tra cinque minuti finisce il tempo dei disegni e inizia il tempo dei guardiani».
Dopo aver aperto al mondo interno di ciascuno tramite il disegno о la creta, arriva il tempo di
proteggere quel prezioso bagaglio di fantasia, desideri, ma anche preoccupazioni e conflitti, che ha
preso forma e che, come parte di ciascuno, resterà «da solo» nella settimana che separa una seduta
dall'altra. E sì, perché chiediamo molto ai nostri bambini: chiediamo di mostrare e mostrarsi, ma
vogliamo anche proteggere ciò che di loro hanno donato, ed è questo il senso dei guardiani «che
proteggeranno i nostri disegni dalle paure che potranno avere quando noi non saremo qui ad
accudirli», piccoli simboli disegnati accanto agli spazi per proteggerli. A uno a uno, senza un ordine
che non sia quello del cuore, i bambini possono posizionare i guardiani del loro disegno о di quello
degli altri per tutte le paure che vengono in mente.
Nei guardiani ognuno mette in gioco se stesso, la sua storia, ciò che accade nel gruppo in quel
momento e ciò che è accaduto prima о accadrà dopo, si gestiscono le separazioni e i nuovi incontri,
le guerre e i kamikaze. Attraverso i guardiani vediamo schiudersi un piccolo mondo fatto di mille
paure, quella del buio, della notte e di non piacere agli altri, di addormentarsi da solo о di essere soli
al risveglio, о di non essere accettati dai compagni, di non divertirsi о di perdere gli amici o i
genitori, di morire, dei brutti sogni, di crescere, di essere soli di notte e così via: prima simbolo, poi
parola. I guardiani diventano anche piccoli veicoli di desideri, momenti riparatori individuali о
collettivi. Ci sono guardiani per sé e la propria famiglia, ma anche guardiani per i componenti del
gruppo, sempre presenti attraverso la parola anche se non ci sono fisicamente, e infine il
rassicurante guardiano «per tutte le paure che non ci sono venute in mente in questo momento, ma
che ci potranno venire» che introduce la progettualità vitale, elemento di speranza ed evoluzione.
Dopo il tempo dei guardiani, punto cruciale di ogni incontro, arriva il tempo di chiudere l'Atelier e
separarsi, anch'esso annunciato con un preparatorio anticipo che crea uno spazio transizionale,
accompagnando i bambini nel passaggio da dentro a fuori.
Ricomposto il cerchio di mani intrecciate, «che vuol dire che questo viaggio l'abbiamo fatto insieme
e insieme siamo andati nel paese dei pittori... e abbiamo messo dei guardiani per le paure che i
nostri disegni potranno avere durante la settimana», il conduttore ripercorre i passaggi chiave
toccati attraverso i guardiani.
«Ora siamo pronti ad andare da soli, ciascuno accompagnato dal proprio nome...»: ciascuno scioglie
il cerchio dicendo il proprio nome che lo accompagna dalla nascita e lo accompagnerà a vita. La
nostra continuità più sicura davanti ai cambiamenti e alle trasformazioni dell'esistenza.
La terapeuticità dell'Atelier
L'Atelier non è una vera e propria psicoterapia di gruppo, ma la terapeuticità sta nella sua capacità
di tradurre le sensazioni e le emozioni in immagini, e le immagini in parola.
Promuovere il passaggio dal registro non verbale a quello verbale dà ai bambini uno strumento per
non agire il disagio, come di solito accade, sotto forma di sintomo, sia esso somatico о
comportamentale, rendendo le emozioni pensabili, anche quelle spiacevoli.
Significare le emozioni e distinguerle è la chiave per rendere un sé coeso e differenziato, per dare ai
nostri bambini gli strumenti per sentire se stessi in mezzo agli altri, alimentare il loro essere
individui unici in relazione. Il ruolo del terapeuta in questo caso non è di interprete né di educatore:
è quello di regista e di costruttore di significati insieme ai bambini e a partire da essi; l'attivazione e
la significazione da parte della mente del terapeuta facilita il processo trasformativo
SENSAZIONE-IMMAGINE-PAROLA, un'elaborazione mentale trasformativa anche se non
interpretativa.
Tutto è dialogato e co-costruito, non è nella mente del terapeuta a priori. Ciò permette l'incontro. Il
vantaggio? Lo sviluppo della capacità simbolica permette di rappresentare qualcosa senza
necessariamente agirla. Maturare un apparato per pensare, impedire che le emozioni falcino i
pensieri portando all'azione e nel caso dei nostri bambini a sintomi, comportamenti, che sembrano
«magicamente» allentarsi о addirittura scomparire in qualche caso, ma sempre attenuarsi.
È la loro funzione a essere meno necessaria quando nel cuore e nella mente di un individuo si
creano i contenitori per le emozioni. Lo spazio, il tempo, la libera creazione, il guardiano, quando
cominciano a essere interiorizzati diventano un nuovo modo di relazionarsi con se stesso e il
mondo.
Il gruppo
Il gruppo svolge le tre funzioni essenziali per i nostri bambini: l'esser, ovvero l'essere collocato
spaziotemporalmente che rimanda al senso di appartenenza, il dare significato e il dare valore.
La ritualità e il gruppo permettono di distogliere lo sguardo dalle proprie paure. Riconoscere sé
nell'altro è un primo passo rassicurante e così il bambino è tranquillizzato rispetto alle proprie paure
о ai problemi adulti.
Mostrare inoltre che non solo il terapeuta ma tutto il gruppo può reggere l'irrompere delle emozioni
più spiacevoli, come la rabbia e l'aggressività, senza esserne distrutto è un'importante premessa al
lavoro trasformativo.
Il gruppo è poi aperto e deve gestire nuovi inserimenti e separazioni: un'altra competenza preziosa
per la vita, perché il benessere che vogliamo trasmettere non abbia inizio e fine in questi
quarantacinque minuti, ma sia propedeutico alla vita che si svolge al di fuori dell'Atelier.
Il lavoro con i genitori
Il lavoro con i genitori è una cornice importante e una parte integrante del percorso dell'Atelier, in
quanto ogni bambino è il prodotto anche delle relazioni dei genitori con lui e tra di loro ed esprime
pertanto i limiti della relazione ma contemporaneamente anche tutta la sua potenzialità.
Attraverso un lavoro di monitoraggio, a cadenza più о meno mensile, si crea un «trait d'union» tra il
lavoro dell'Atelier, le trasformazioni che avvengono in seduta e ciò che si riflette nel mondo dei
bambini; questa alleanza preziosa favorisce un movimento rispettoso e un alleggerimento delle
proiezioni che più о meno consciamente ciascuno fa sui propri figli.
Non è facile né per i bambini, né per gli operatori realizzare questo meccanismo terapeutico, perché
è un modo di lavorare «insaturo», ovvero aperto alla possibilità di crescita nella mente di ciascuno e
proprio il suo essere dinamico e continuamente in evoluzione apre all'irrompere di un reale concreto
e talvolta disturbante. Ma la vita è fatta anche di questo, e l'Atelier piano piano, col tempo, aiuterà
maggiormente ad affrontarlo.
Parte quarta
AFFRONTARE I PROBLEMI DI NORMALE E STRAORDINARIA QUOTIDIANITÀ
Ma perché chiedo silenzio non crediate che io muoia: mi accade tutto il contrario: accade che sto
per vivere.
P. NERUDA, Chiedo silenzio
VIII
Qual è la fatica del passaggio all'adolescenza dei figli?
Accompagnare l'adolescenza
Niente ha una maggiore influenza psicologica sull'ambiente, e soprattutto sui figli, che la vita non
vissuta dei genitori.
C.G. JUNG, Paracelsus1
Uno dei momenti di crisi maggiore che si attraversano nella vita è l'adolescenza, sia per le nuove
generazioni che ci arrivano che per noi adulti che li accompagniamo in questo difficile passaggio e
spesso non sappiamo come intervenire per aiutarli. Dice Giovanna Ranchetti, psicologa e
psicoterapeuta, in un suo interessante e recente studio sulla presenza nascosta del genitore nella
mente dell'adolescente, come possibile ostacolo alla crescita:
Viene da domandarsi perché l'adolescente metta così in cri. si l'adulto nelle sue funzioni di genitore,
di educatore о di specialista deputato a occuparsi del disagio di questa età, come se l'adulto, a
differenza di altre fasi evolutive in cui sente maggiormente riconosciuto il suo ruolo, entri a sua
volta in crisi e non abbia più il controllo della situazione, risultando inadeguate le modalità
relazionali precedenti.
Per l'adulto sembra difficile situarsi nell'«età di mezzo» tra la preadolescenza e l'adolescenza, non
avendo più a che fare con dei bambini che accettano l'autorità dei genitori, né con degli adulti in
grado di essere autonomi; l'incertezza di un'età che sfugge dal controllo degli adulti crea confusione
e va a toccare
gli aspetti ancora irrisolti dell'adulto stesso, relativi alle difficoltà di separazione dai propri fantasmi
onnipotenti....
La crisi di passaggio adolescenziale contiene nella sua definizione i concetti di «crisi» e di
«passaggio» che rispecchiano le caratteristiche intrinseche di questa particolare fase della vita, in
cui, più che in altri momenti dello sviluppo, si evidenzia il potenziale evolutivo e trasformativo
della crisi in quanto manifestazione di rottura dell'equilibrio precedentemente raggiunto e ricerca di
una nuova organizzazione psichica....
Si può dire che il «genitore nascosto» diventa un impedimento alla crescita per ogni figlio perché
rappresenta le aspettative familiari irrisolte dei propri genitori, ma anche le aspettative di ogni
adulto che non accetta il bisogno adolescenziale di differenziarsi per crescere, о di una società che
tende a manipolare gli individui per rincorrere miti di successo illusori che legano a un'eterna
dipendenza, invece di sostenere il processo di emancipazione e di conquista di una reale autonomia,
insito in ogni ricambio generazionale.2
«È stato lui/lei a insistere per fare questi studi, noi l'abbiamo assolutamente lasciato libero di
scegliere!» si sente dire frequentemente da genitori di ragazzi che faticano negli studi scelti, spesso
più per problemi emotivi che cognitivi. È qui che invece è entrato probabilmente in gioco il
«genitore nascosto» nella mente del ragazzo: è con lui che deve fare i conti dentro di sé,
indipendentemente da quello che gli dicono i genitori reali fuori.
Se un ragazzo ha un «genitore nascosto» dentro che secondo lui ha delle aspettative ben precise
anche senza comunicarle direttamente, la sua non è più una scelta libera, ma del tutto condizionata,
indipendentemente da quello che a parole gli dicono i genitori reali. Deve assolutamente fare quella
scelta per non tradire il «genitore nascosto», anche se gli/le si potrà ritorcere contro nel futuro e
potrà essere о non essere adatta a lui/lei. Oppure deve assolutamente opporsi, anche se la cosa lo
danneggerà.
D'altra parte un genitore deve pur avere delle aspettative nei confronti del figlio: deve avere in
mente un progetto che lo sostenga nella fatica quotidiana dei mille atti di cura che un figlio richiede.
Come conciliare quindi questi due apparenti opposti che si presentano contemporaneamente,
entrambi reali e veri?
Come dice un saggio detto africano Dogon, non esiste maestro in questa difficile arte: si è
contemporaneamente entrambi maestri e discepoli, l'adulto impara dall'adolescente e l'adolescente
impara dall'esperienza e dall'adulto.
Se l'adolescenza è perciò sempre stata nel corso del tempo l'età per eccellenza di una delle tre crisi
fondamentali di passaggio della vita (le altre sono il diventare genitori e il passaggio alla terza età)
oggi lo è forse ancora di più proprio per la complessità e la rapidità delle trasformazioni che sono
intervenute e intervengono nella nostra società, mettendo in crisi i vecchi modelli che si avevano a
disposizione.
Non è facile regolarsi, così come non è facile capire quale atteggiamento assumere, che cosa è
meglio fare о evitare di fare, che cosa in realtà si può effettivamente fare e che cosa invece no.
Quello che è utile evitare è di chiedere a un figlio di riuscire proprio là dove noi adulti abbiamo
fallito, altrimenti la cosa gli si ritorcerà inevitabilmente contro.
L'intervento che segue, a cura di due preziose colleghe con cui lavoro da anni presso un'istituzione
(loro soprattutto con i bambini e gli adolescenti, io soprattutto con i genitori, in un lavoro
coordinato) vuole offrire delle riflessioni e degli spunti di pensiero su questo difficile percorso di
accompagnamento.
Il viaggio dell'adolescenza: la paura, l'attesa, la speranza
di Cristina Colombo e Francesca Cornell
La primavera è venuta. Nessuno sa com'è stato.
A. MACHADO3
Ci sembra che l'adolescenza, per la novità e la complessità dei sentimenti e delle proiezioni che si
intrecciano fra persone che «si conoscono da una vita», sia un campo di osservazione
particolarmente significativo per riflettere sulle modalità che aiutano о ostacolano nelle relazioni. È
una bella sfida, una fase critica per tutti, anche per noi professionisti delle relazioni d'aiuto, quando
ci confrontiamo con i suoi problemi nella nostra vita personale.
L'adolescenza è un passaggio cruciale per i figli, ma anche per i genitori: non è un'avventura che
vede il ragazzo come eroe solitario affrontare il proprio viaggio verso l'età adulta, ma è un compito
evolutivo e una risorsa per la famiglia nella sua globalità. E una trasformazione che coinvolge
genitori e adolescenti, le relazioni e i legami reciproci: l'impegno di entrambe le generazioni è
quello della separazione e del distacco in senso psicologico, un processo di crescita che non è
certamente indolore per entrambe le parti.
Finita l'armonia dell'infanzia, inizia l'età dei conflitti in cui le sensazioni nuove, legate alla
sessualità e alla propositività/ aggressività turbano e provocano nei ragazzi emozioni prima
sconosciute. L'identificazione con i genitori, che era alla base del senso del sé e della sua stabilità, si
allenta e l'identità diventa più fragile: l'adolescente sente che non basta più la loro presenza per far
superare le paure о per affrontare le scelte; mentre i genitori si trovano a confrontarsi con sentimenti
quali l'impotenza, la rabbia, la preoccupazione, la delusione come mai avevano sperimentato prima.
È una condizione in un certo senso paradossale: dover favorire un processo di svincolo che avrà
come esito l'abbandono di una relazione privilegiata e totalizzante con loro.
Ancora una volta si ripresenta il tempo di affrontare la quota di dolore legata ai «rischi e alle perdite
connesse all'amore».
Le fatiche, i doni, i valori dati al figlio negli anni dell'infanzia, anche se al momento sembrano
annullati dall'atteggiamento dell'adolescente, in realtà possono col tempo essere un seme che cresce
sotto terra e che poi darà frutto e permetterà un incontro fra il «nuovo» ragazzo e i «nuovi» genitori
usciti dalla crisi. Come dice Ammaniti sulla parabola del «figliol prodigo»,5 è proprio il ricordo
rimasto nella mente del giovane della buona relazione, della vita serena nella casa del padre, che gli
permette di lasciare lo stato di lontananza, di sofferenza, di solitudine e fare ritorno con la fiducia di
essere accolto.
Quando c'è sfida e ribellione per la ricerca di sé e della propria strada, non c'è spazio per pensieri
teneri e affettuosi perché questi sospingerebbero indietro. La disillusione e la critica dei figli ai
genitori serve a ridimensionare e a «raffreddare» la loro immagine, precedentemente idealizzata, e il
conflitto è tanto più radicale quanto più essi si sentono ancora attratti da una posizione regressiva.
Saperlo e capirlo non toglie la fatica di viverlo.
Solo più tardi si potranno provare sentimenti come la gratitudine e la nostalgia per i giorni
dell'infanzia. Incomincia per i genitori il tempo molto faticoso dell'attesa, dell'incertezza,
dell'alternarsi di momenti di speranza e altri di sconforto. Racconta una giovane mamma:
È strano quanto mi sia sentita sorpresa come da qualcosa di inaspettato, spaventata come se ci
fossero in attesa minacciose e oscure conseguenze, quasi offesa come se mi fosse fatto un torto
immeritato, quando mia figlia di 12 anni mi ha chiesto, con tono di pretesa, di uscire con le amiche
a passeggio per il paese senza dirmi la loro meta precisa. Pensare che mi ricordo benissimo di aver
fatto le stesse cose, e mica così tanti anni fa! Riflettendo sulla mia esperienza ho potuto meglio
capire il senso di avventura che c'era nella sua nuova richiesta, il timore che si mascherava nel tono
pretenzioso... Insomma ho superato il blocco iniziale e ho cominciato a familiarizzare con la mia
«nuova ragazza». Mi sono detta: a ognuno il suo mestiere, a me tocca di valutare e dare stabilità, a
lei di buttarsi e sperimentare.
Un papà ricorda:
Nonostante che, come molti padri, non mi sia molto dedicato ai figli nei loro primi anni di vita, per
un periodo, che nella mia percezione è molto lungo, i miei due gemelli mi sono sembrati cristallini e
da me completamente conosciuti. Poi, in un lasso di tempo brevissimo, ho avuto la sensazione che
fossero diventati due estranei, per i quali mi facevo domande come: qual è il loro carattere? Come
sono considerati dai loro amici? Cosa provano per i loro genitori? Ho percepito l'entità del mio
disorientamento il giorno che sono arrivato a chiedermi seriamente: ma insomma quanti anni
hanno?
Da una parte sappiamo bene che la fiducia dei genitori ha un ruolo determinante sul processo di
individuazione del figlio, influenzato dall'idea che gli adulti gli trasmettono riguardo alla sua
capacità di affrontare le prove della vita: «sarà in grado di sbrigarsela» oppure «è debole, immaturo,
facile preda degli altri». Dall'altra parte, però, questa visione è strettamente dipendente dalle
modalità che noi stessi abbiamo elaborato, secondo la nostra storia, di vivere la separazione, cioè
dal grado di speranza che riusciamo a proiettare sul figlio, dal tipo di dolore che il suo
allontanamento, anche solo emotivo, suscita in noi: un insieme contraddittorio di desideri e paure
che può essere comunque affrontato, oppure un motivo di profonda afflizione difficilmente
superabile, oppure addirittura la causa di un'angoscia insopportabile, di un senso di pericolo
incombente, catastrofico come quello di una vita finita.
Entrano in gioco il nostro grado di tolleranza per gli inevitabili momenti regressivi che lo sviluppo
comporta e la capacità di sopportare il dolore mentale che l'evoluzione determina nel ragazzo,
lasciando un intervallo di spazio e di tempo prima di intervenire con il nostro aiuto, rinunciando al
nostro progetto su di lui per permettere lo sviluppo di uno nuovo e originale, che sia veramente
«suo». Il desiderio di dare aiuto può portarci a cercare di rendere la realtà troppo favorevole, senza
accorgerci di quanto ciò possa creare un punto di debolezza nei ragazzi: quello che troveranno fuori,
senza la nostra mediazione, risulterà poi troppo duro e difficile. Una madre ricorda:
Quando il mio figlio minore ottenne il «foglio rosa», ebbi l'occasione di fare un viaggio piuttosto
lungo in autostrada. Allora gli chiesi se volesse esser lui l'autista. Notai in lui un moto di orgoglio
per la proposta. La notte precedente alla partenza gli venne una gran febbre, che ritenni non avesse
altra causa che l'ansia per la prova che l'aspettava. Subito pensai di «sollevarlo dall'incarico» che,
mi sembrò evidente, era per lui troppo gravoso e di rassicurarlo che avrei guidato io. Ma mi
trattenni e pensai che dovevo lasciarlo confrontare con questa impresa. Rinunciare о affrontare:
spettava a lui decidere. La mattina successiva era fresco e allegro, e quel viaggio lo ricorda ancora...
Così invece racconta una ventenne in un questionario su ciò che aiuta о ostacola nelle relazioni con
gli adulti:
Qual è la fatica del passaggio all'adolescenza dei figli?
Mi ha sempre aiutato molto sapere che, per qualsiasi cosa mi mettesse in difficoltà, mia madre era
sempre disponibile a risolvere in prima persona i miei problemi, piccoli о grandi che fossero.
Attenta, premurosa, fin troppo presente nella mia vita, era lei, per esempio, che si preoccupava di
telefonare al parrucchiere (ho sempre avuto un pessimo rapporto con il telefono). Sicuramente ho
avuto un'adolescenza per così dire assai «comoda»! Anche adesso che sono un po' più sicura di me
stessa, lei istintivamente tende ad agire al mio posto. In ogni caso la sua disponibilità al dialogo, la
sua attenzione e la sua premura nei miei riguardi hanno sempre costituito un punto fermo, di
riferimento, nelle mie giornate. Per esprimere ciò che ostacola, posso prendere per esempio i
comportamenti sopra elencati e guardarli da un altro punto di vista: la premura, l'attenzione, la
fiducia incondizionata, la tendenza a sostituirsi nel tentativo di proteggere, il «troppo amore»
insomma, nel mio caso si sono trasformati in una sorta di gabbia dorata da cui è molto difficile
uscire. Se da una parte ci sono la stima, la fiducia, dall'altro c'è il timore di non essere all'altezza
delle aspettative, di non essere adeguati. Può sembrare assurdo, ma spesso ho avuto l'impressione
che se i miei genitori, la mia famiglia in generale, fossero stati un po' meno «buoni», il mio naturale
distacco da loro sarebbe stato più semplice e soprattutto «tranquillo» ... о perlomeno non avrebbe
comportato quel senso di colpa con cui a volte devo fare i conti.
All'opposto di questa modalità di eccessivo coinvolgimento, c'è il rischio dell'evitamento che noi
genitori possiamo adottare nel tentativo di sfuggire ai conflitti interiori о esterni, che ci appaiono
irrisolvibili in quel momento. Racconta una madre:
Quando i miei figli hanno iniziato a essere conflittuali con me, ho intrapreso un nuovo lavoro che
mi portava spesso fuori casa. Sul lavoro mi sentivo importante, apprezzata, coinvolta in una sfida di
cui capivo chiaramente i termini, invece in casa mi trovavo davanti musi lunghi, silenzi о critiche
radicali e il mio stato d'animo era d'impotenza e confusione.
Se a ogni età è solo la speranza che consente di aprire una finestra sul futuro, ciò è particolarmente
importante nella relazione con gli adolescenti che spesso, come sottolinea Vittorino Andreoli,
tendono a vivere e collocarsi unicamente nel presente, «come se il mondo finisse tra un minuto».
Ciò rende difficile coltivare progetti, perché senza futuro non c'è desiderio e nemmeno speranza di
cambiamento e, soprattutto, implica spesso che alcuni eventi о aspetti vengano drammatizzati e
ingigantiti, perché senza la dimensione del tempo anche un brufolo non guarisce più e può diventare
una tragedia.
Uno dei classici ostacoli che sempre incontriamo di fronte all'adolescente è la difficoltà di non
sapere se trattarlo come un bambino о come un adulto. Spesso infatti i ragazzi ci lasciano
sconcertati, alternando atteggiamenti di dipendenza con caratteristiche infantili a reazioni di
ribellione; momenti di passività, che ce li fanno riconoscere come bambini, a momenti di
determinazione, che ci svelano il loro aspetto adulto. E del resto tale ambivalenza è proprio una
delle caratteristiche dell'adolescente: il bisogno di dipendenza e all'opposto di autonomia, il
desiderio contraddittorio di mantenere un legame con i genitori e insieme di superarlo, di essere
protetti di fronte agli impegni dell'esistenza e di affrontarli in una condizione di responsabilità. Il
nostro compito di genitori diventa ancora più complesso, nel tentativo di dare una protezione
flessibile che aiuti a combinare queste contrapposte esigenze.
È finito il tempo «delle tenere sollecitudini, di protettive vigilanze о di autoritarie imposizioni;
viene il tempo dell'ascolto attento, della paziente attesa, della proposta discreta, della fermezza
decisa, ma priva di arroganza»,7 ricordando che, come nel gioco dell'oca, i passi avanti e indietro
fanno entrambi parte del cammino che conduce alla meta.
Questa protezione flessibile appare ancora più significativa alla luce della funzione di mediazione
con il sociale che la famiglia oggi si trova a svolgere. Nella società del passato, indubbiamente più
uniforme come punti di riferimento, valori, stili di comportamento, i percorsi di transizione all'età
adulta erano rigidi e prefissati, le tappe da seguire chiare e gli effetti prevedibili. La situazione
attuale è molto più incerta, il contesto più instabile; allo stesso tempo le aspettative sono in genere
elevate e le opportunità più ricche. In questo contesto il processo di conquista di una propria identità
è una rischiosa scommessa che può essere facilitata se si può contare su una famiglia che sia un
ambito di dialogo e di orientamento alle scelte. In un mondo che propone mille opzioni, il rischio è
di smarrirsi in realizzazioni di breve respiro, consumate senza un progetto. Il compito arduo e la
sfida per i genitori è cercare di creare un dialogo, uno scambio che avrà momenti di scontro e altri
di incontro, ma che comunque allena tutti alla difficile arte della negoziazione.
Sicuramente relazioni troppo intrusive spaventano l'adolescente che sente l'esigenza di stabilire dei
confini tra i suoi pensieri e quelli degli adulti e perciò teme di essere guardato dentro e influenzato
nelle sue opinioni e nelle sue scelte. Allo stesso modo anche un'eccessiva libertà può non fornire né
una «base sicura» da cui esplorare né il senso del limite.
Su questo terreno anche noi adulti ci sperimentiamo per prove ed errori esattamente come i nostri
ragazzi, nel tentativo di costruire un nuovo equilibrio. A volte abbiamo paura di mostrare le nostre
incertezze: da una parte temiamo le nuove capacità di critica dei ragazzi, dall'altra di deludere il loro
bisogno di sostegno.
La nostra più lunga esperienza può però consentirci a volte una maggior «leggerezza», un minor
attaccamento al nostro stesso punto di vista come fosse esclusivo. Come dice dolcemente il poeta
persiano Rumi: «Al di là delle idee di giusto e sbagliato / c'è un prato. / Ci incontreremo là».
E del resto è ineludibile il ruolo di esempio che, nel bene e nel male, rappresentiamo per i figli.
Commenta James Marc Baldwin: «I giovani non sono mai stati molto bravi nell'ascoltare gli adulti,
ma non hanno mai mancato di imitarli».
In queste difficoltà anche il senso dell'umorismo a volte può aiutare. Il ridere insieme, ma talvolta
anche l'uno dell'altro, tra genitore e figlio, può avere molteplici funzioni. Permette di
sdrammatizzare alcune difficoltà о conflitti, cogliendone anche gli aspetti paradossali о comici.
Mantiene in circolo sentimenti affettivi che più difficilmente in questa fase possono essere
manifestati come tenerezza. Concede di esprimere rabbie e risentimenti che, se comunicati
diversamente, potrebbero risultare distruttivi. Saper usare l'umorismo (ma non l'ironia né tanto
meno il sarcasmo) rientra tra gli apprendimenti che resteranno validi per tutta la vita, come nel
famoso apologo di De Mello:8 «Qual è il compito di un maestro?» domandò un visitatore dall'aria
solenne. «Insegnare alla gente a ridere» rispose il maestro con espressione grave.
Altro aspetto nuovo sia per i genitori sia per i figli è la nascita dei primi rapporti sentimentali che
hanno spesso un carattere narcisistico, cioè hanno più una valenza di conferma di sé, del valore del
proprio modo di essere e delle proprie capacità, che un connotato di relazione fra due personalità
distinte. Questo porta a una temporanea perdita dell'identità individuale e a vivere una forma di
simbiosi con il partner, accompagnata dalla sua idealizzazione. Per i genitori sorge lo sgomento di
sentirsi improvvisamente messi da parte, di passare in secondo piano.
Queste esperienze, spesso frustranti e che pare possano limitare le capacità di realizzarsi dei figli
per la modalità esclusiva e totalizzante con cui sono vissute, in realtà hanno anche la funzione di
permettere l'esplorazione delle tante fantasie connesse con i passaggi che portano a una relazione
affettiva più matura: la competizione con gli altri pretendenti, il rischio di esser rifiutati, la
condivisione della parte più intima di sé con una nuova persona, la possibilità di essere separati dal
gruppo dei coetanei, l'esposizione della propria fisicità al giudizio del partner.
Un altro aspetto caratteristico dell'adolescenza è la necessità di differenziarsi attraverso il proprio
corpo, che fino a poco prima era sotto la tutela e la responsabilità dei genitori. Anche in questo caso
la fatica dei genitori è cercare di non drammatizzare atteggiamenti (pettinature, accessori о abiti
stravaganti) che servono momentaneamente a tale scopo, per evitare il rischio di dare a tali
comportamenti un valore molto maggiore di quello che avrebbero avuto e una più lunga durata.
Racconta una mamma:
Quando mio figlio, a 17 anni, volle farsi crescere il codino, mi sentii a disagio. Soprattutto nelle
visite ai miei suoceri, mi imbarazzava il confronto con i cugini così «ordinati». Se avessi saputo che
già a 22 anni sarebbe stato afflitto dalla calvizie che caratterizza tutti i maschi della mia famiglia, gli
avrei lasciato godere più serenamente quei pochi anni da «capellone»!
Anche nella vita dei genitori il periodo equivalente all'adolescenza del figlio ha caratteristiche
particolari: di solito corrisponde alla mezza età. Essi rivivono così attraverso il figlio l'età in cui
tutto era possibile, mentre per loro si apre l'epoca dei primi bilanci, in cui si prende atto che molti
sogni sono rimasti irrealizzati e alcune opportunità sono ormai precluse. Questo può generare dei
normali e naturali sentimenti di invidia, che però risultano particolarmente dolorosi e inconfessabili
anche a loro stessi: possono inconsciamente assumere atteggiamenti di competizione sul piano della
femminilità о virilità, oppure possono mostrare l'aspetto depresso che blocca la vitalità del figlio.
Come dice Gustavo Pietropolli Charmet: «la madre si ammala, il padre è molto stanco».
Anche i nuovi interessi e autonomie dei figli fanno confrontare i genitori con esperienze inedite: la
casa si svuota della compagnia dei ragazzi e la coppia si ritrova faccia a faccia, e soprattutto le
madri restano disoccupate rispetto al grande impegno dedicato in passato alla cura dei bambini.
Allora, come quei neopensionati che, dopo aver sognato per anni il tempo libero, si accorgono che
può essere un tempo «vuoto», anche i genitori devono a volte reinventarsi interessi e relazioni
sociali: non negare il disagio, ma condividerlo con altri può aiutare a ripartire per una nuova fase
della vita personale e di coppia.
Che cosa li può sostenere, in sintesi, come genitori, nell'aiutare i figli adolescenti, e quindi anche
loro stessi, a navigare nell'incertezza, nella precarietà, nella turbolenza, nell'incandescenza di
quest'epoca della vita? Innanzitutto ricordare che, come dice Julien Green: «Finché si è inquieti si
può stare tranquilli».
Saper aspettare, dare fiducia, capire quando vale veramente la pena di creare un conflitto, cercare di
separare i sentimenti legati alle vicende personali da quelli suscitati dalle azioni del figlio
sembrerebbero essere delle strade possibili da intraprendere, ognuno con il proprio «stile» e i propri
tempi, secondo la propria storia di figli. Non sono compiti facili, tutt'altro, e a volte l'unica
consolazione è sapere che i figli che non danno problemi sono adolescenti che non vogliono pagare
lo scotto della crescita e, per evitarne le angosce, restano bambini о «fuggono» troppo presto
nell'età adulta.
Come ci ricorda Winnicott, l'adolescenza è una malattia che dura qualche anno e poi guarisce, per
cui bisogna far fronte senza lasciarsi travolgere da un senso di permanenza, reggere le posizioni
sapendo che lo sforzo avrà un termine, curare il dolore nella consapevolezza che non viverlo
sarebbe un male peggiore.
Recita un aforisma di Rudolf Steiner: «Le gioie sono doni del destino che mostrano il loro valore
nel presente. Le sofferenze sono invece sorgenti di conoscenza il cui significato si mostra nel
futuro».
IX
Come posso aiutare il mio bambino disabile? Interventi d'aiuto per genitori di bambini disabili
Non è sufficiente aiutare chi è in difficoltà, bisogna sostenerlo dopo.
W. SHAKESPEARE, Timone d'Atene1
Nella relazione genitori-figli, come e ancora più che nelle altre relazioni, si possono provare
contemporaneamente tutti i sentimenti, a partire dall'amore e dall'odio. Si può amare un figlio al
limite del sacrificio di sé e in certi momenti lo si può odiare fino a provare il desiderio di
distruggerlo (nessun desiderio ha mai distrutto realmente un bambino: per farlo ci vuole un agito,
non un pensiero, il pensiero non è magico!). La relazione con i figli coinvolge infatti visceralmente
sin nel profondo e tocca tutti i temi del nostro mondo interno, compresa l'aggressività, per cui non
c'è niente di più dannoso a mio parere della retorica sulla maternità e la paternità che nega anche
questa dimensione all'interno della relazione. È la sua negazione, specialmente se proiettata sugli
altri, che aggiunge sofferenza a sofferenza.
Già Winnicott sosteneva, proprio in tale direzione, che una delle componenti di certi sbocchi
gravemente patologici nella relazione con un bambino poteva essere l'aggressività negata dei
genitori.
Riconoscere quindi l'aggressività che in certi momenti un bambino può suscitare aiuta a dare una
forma a questo impulso, a trasformarlo in parole per pensarlo e contenerlo mentalmente invece di
agirlo sul bambino, per cui lo protegge molto di più del negarlo.
Questo vale per tutti i genitori, compresi quelli dei bambini disabili, i quali da una parte possono
amare il proprio figlio al limite del continuo sacrificio di sé di giorno e di notte, ma dall'altra vivono
una condizione di vita terribile legata alla patologia del bambino che in certi momenti possono
odiare per disperazione. E chi non lo farebbe? Lo faremmo anche noi, con delle gran buone ragioni,
se fossimo nei loro panni. Nessun genitore normalmente sano di mente vorrebbe infatti vedere il
proprio bambino partire verso la vita con una disabilità: lo vorrebbe vedere, giustamente, con le
stesse possibilità degli altri bambini. La vera difficoltà sarà perciò fare i conti con questa disabilità
che, anche se giustamente non voluta, purtroppo c'è e non può essere cancellata magicamente.
Quella sarà la vera, grande spina nel cuore per il resto dei propri giorni.
Lungi quindi dal condividere la retorica fortemente idealizzata sul ruolo genitoriale, credo che però
sia altrettanto giusto riconoscere l'enorme fatica che i genitori dei bambini disabili fanno oggi, in
una società che tende all'omologazione e all'efficienza a tutti i costi, e l'incredibile quantità di
energie che dedicano ai loro figli. Viene da chiedersi dove e come riescano ad attingere una così
grande energia vitale, quasi a riparare e a compensare quella mancante ai propri bambini, anche nei
momenti più bui di tempeste emotive laceranti.
«Genitori eroi» li chiama Vassiliki Papadopoulou in uno degli interventi che seguiranno. È il
piccolo, grande eroismo quotidiano non ricercato né voluto («Vorrei essere un genitore come gli
altri» dicono giustamente tutti!) che permette la sopravvivenza di bambini in grande difficoltà,
spesso in solitudine e in silenzio. I veri, piccoli, banali ma contemporaneamente grandi atti eroici
del quotidiano di cui nessun giornale о nessuna televisione parlerà mai e che scorrono in silenzio,
senza essere visti, sotto i nostri occhi distratti, sin dai primi giorni di vita del bambino.
Ecco le riflessioni di Lucia Aite, una giovane e sensibile psicologa che ha raccontato in Culla di
parole la sua esperienza con i genitori presso il Dipartimento di neonatologia medica e chirurgica
dell'ospedale Bambino Gesù di Roma: Dal momento che il compito materno è quello di generare
figli vivi e in salute, la malattia del bambino è talvolta sentita come un atto di accusa alla propria
capacità di essere una buona madre, dispensatrice di vita. Questo vissuto genera intensi sentimenti
di inadeguatezza, tanto che le madri possono perdere fiducia nella loro capacità di accudimento ...
Ecco le parole di una mamma: «Mi sentivo in colpa e diversa da tutte le altre madri che stavano
nella stanza con me, ero l'unica che non aveva saputo generare un figlio sano, normale e dubitavo di
poter essere una buona madre».
La neo-mamma, specie se non è riuscita a vedere suo figlio neanche per poco tempo, per non restare
in contatto con il vuoto generato dall'assenza del bambino, cerca con tutta se stessa di non pensare.
Il dolore altrimenti diventerebbe intollerabile. «Era strano, quasi irreale, ma quel pomeriggio,
mentre mia figlia veniva operata, mi comportavo come se nulla fosse, come se niente di ciò che
stava capitando fosse reale, vero.»
Questa è naturalmente una fase molto delicata per la madre, a cui ancora oggi viene rivolta poca
attenzione all'interno dell'ospedale. In alcuni casi, per esempio, invece di offrirle il sostegno umano
necessario, le vengono somministrati tranquillanti e sonniferi senza che ne faccia espressa richiesta.
Quest'abitudine da un lato impedisce alla madre di esprimere il suo dolore e dall'altro non fa che
rendere ancora più irreale quanto sta vivendo. Dandole il tranquillante è come se indirettamente le si
dicesse che non è possibile parlare di quello che sta accadendo a lei, a suo marito e al figlio.
Manca nella maggior parte dei casi la disponibilità a comunicare e a entrare in relazione con la neomamma: non c'è un operatore che si sieda accanto a lei per raccontarle come sta il suo bambino, per
ascoltare le sue domande e accogliere i suoi vissuti di preoccupazione e di angoscia ...
I tre interventi che seguono raccontano tre esperienze di lavoro fatte proprio con i genitori di
bambini disabili.
Il primo riguarda i gruppi che Maria Teresa Carecci, psicoterapeuta di Roma, ha tenuto per vari anni
utilizzando come punto per la discussione alcune favole dei miei libri.
Il secondo riguarda l'accoglienza e la presa in carico dei problemi di bambini e genitori fatte da
un'equipe di varie professionalità, che in questo caso è quella di Vassiliki Papadopoulou, una
neuropsichiatra infantile che opera in un ospedale di Salonicco.
Il terzo illustra l'attività che l'Associazione Mons. Giovanni Marcoli, fondata da Marisa Bonomi,
svolge a Brescia nel campo degli interventi di sostegno alla genitorialità, in particolare quella di
persone audiolese.
«Quando avevo 11 anni è nato il mio ultimo fratello che è down» mi ha raccontato una volta in
seduta una mamma. «Io ci sono rimasta malissimo e, parlando con mio padre, gli ho detto: "Ma
perché è nato proprio nella nostra famiglia?". Ricorderò sempre la risposta di mio padre: è stata una
grande lezione di vita per me. Mi ha guardato con grande tenerezza e poi mi ha risposto
semplicemente: "Si vede che in casa nostra c'era posto anche per lui!"»
Storie di straordinaria quotidianità: i gruppi per genitori di bambini disabili
di Maria Teresa Carecci
Siano nati ...
ad infrangere vetri
a sfiorare farfalle.
G. GALLO, Di fossato infossato3
31 dicembre 2005
Da quando Alba Marcoli mi ha chiesto di scrivere qualcosa circa l'esperienza maturata negli ultimi
anni di lavoro come psicologa con i genitori in gruppo, utilizzando le sue favole, alla gioia per la
proposta ha fatto seguito un lungo periodo di riflessione, di preoccupazione, di dubbi relativi a un
interrogativo centrale che mi ruotava nella testa: da dove comincio? È sempre difficile trasmettere
agli altri quella mole di emozioni, percorsi, sofferenze e tutto il coraggio che si nasconde dietro
l'esperienza apparentemente così normale di essere genitori; comunicare tutto quell'universo di
«straordinaria quotidianità» che il più delle volte è nascosto in gesti semplici, di una prosaicità quasi
scontata.
Allora, dopo aver messo mano al materiale fitto di annotazioni, frasi, parole di tanti padri e madri
incontrati nei gruppi in tutti questi anni, ho pensato che trovare un filo conduttore esterno alla mia
esperienza sarebbe stata una impresa ardua, così ho deciso di trovarlo dentro di me. In quella parte
di me che negli anni ha dovuto, da «psicoterapeuta», accogliere, mettere dentro e restituire ai
genitori, attraverso la forza delle parole, quanto veniva espresso dal profondo dell'esperienza
genitoriale, fornire attraverso una professionalità faticosa, che affonda radici antiche dentro di noi,
una risposta cresciuta e maturata nell'ascolto regalandoci, a volte, momenti di una bellezza e
intensità «indescrivibile». Perciò ho deciso di ricavarmi uno spazio per un racconto che questa volta
sarebbe partito da me, in rapporto a tutto quello che questo lavoro mi ha dato negli anni.
Ciò che uno scrive spesso nasce da quello che ha imparato dagli altri, oltre che dalla propria
esperienza di vita; io sento di aver ricevuto da così tante persone che sarebbe impossibile nominarle
e descriverle singolarmente; posso però esprimere la mia gratitudine a tutti i genitori che hanno
partecipato ai miei gruppi e alle persone che negli anni mi hanno incoraggiato e sostenuto in questo
tipo di lavoro, bello ma difficile.
Ripercorrerò a titolo esemplificativo la storia di una mamma e di un papà che hanno partecipato per
quattro anni ai miei gruppi, cercando di evidenziare (attraverso le immagini e i contenuti) il loro
percorso, dall'ingresso fino al termine del «nostro dialogo».
Matilde: la montagna e le briciole
Matilde arriva per la prima volta in un gruppo costituito già da altre mamme, una fredda mattina di
febbraio. Arriva con il suo faccione aperto, esuberante, e con quel suo tono di voce sempre un po'
sopra le righe, con un sorriso che accoglie, che sembra dirti: «Alt! Ferme ragazze, ci sono anch'io».
Le mamme del gruppo si erano viste qualche altra volta, erano prevalentemente giovani con figli
piccoli, per lo più con diagnosi di malattie genetiche. Quando entra nel gruppo, da subito, porta il
problema di Stefano, che ha 6 anni circa, ma ancora non si sa con chiarezza da quale patologia sia
affetto; nel dirlo racconta il dramma di vedere il proprio bambino con dei problemi e di «non essere
creduta», di essere considerata la pazza e la visionaria della situazione. Da una parte esprime la
convinzione che ci sia qualcosa che non va nel suo bambino (terzogenito), dall'altra emerge il
desiderio di sbagliarsi nel vedere le cose.
È madre di quattro figli, il più piccolo nato nello stesso tempo in cui cominciavano a evidenziarsi i
problemi di Stefano. Lei, madre giovane, che più volte aveva espresso la sua convinzione di volere i
figli presto perché così non avrebbe rischiato di mettere al mondo dei figli handicappati.
Pian piano Matilde nel gruppo diviene la persona che, pur manifestando una grossa sofferenza, a
tratti disperazione, traina in molti momenti tutti, fornendo attraverso le immagini significative
evocate dalla lettura delle favole un contributo importante evidenziabile dal percorso all'interno del
gruppo e dal percorso espresso da tutto il gruppo. Cercherò di dare parole a questo percorso
riportando alcuni passaggi che vengono espressi volta per volta dopo la lettura di alcune favole.
Dopo aver ascoltato Il leprotto che cadeva sempre (sull'alleanza segreta del bambino con i genitori)
le prime parole di Matilde sono: «Mi viene da pensare a Francesca, la mia primogenita: sembra che
tutto le scivoli addosso, a casa non fa niente con i fratelli, mentre a scuola è generosa; poi penso a
me che avevo tanti interessi e adesso sono rimasta chiusa a casa a occuparmi dei miei cuccioli. Mi
sento come i nuotatori sempre con la testa dentro l'acqua, non riesco a prendere una boccata d'aria;
un giorno passerà e potrò intraprendere la strada che esisto anch'io».
Rispetto alla sofferenza espressa profondamente da un membro del gruppo, le altre mamme
formano come una ciambella di salvataggio, forniscono consigli, sostengono, parlano delle proprie
esperienze.
Un'altra mamma fa riferimento alla propria esperienza con una delle sue tre figlie con una storia
pesante di anoressia; testuali le sue parole: «Io mi sono sempre massacrata da sola per farli crescere
al meglio senza chiedere niente a nessuno». Negli interventi legati al percorso di questo gruppo, la
solidarietà e l'alleanza che si costituiscono in alcuni momenti sono molto forti: sembra quasi che a
un certo punto l'esperienza espressa da una si allacci strettamente a quanto viene espresso dalle
altre. Dopo Il cucciolo che non sapeva dire di no (sul tema del bambino «troppo» buono): «La
difficoltà di accettare i cicli della vita l'abbiamo ancora di più noi che abbiamo ricevuto un trauma,
una differenza tra un prima e un dopo con la nascita del figlio: sembra che il nostro tempo sia legato
a un battito di ciglio, la difficoltà di accettare i cicli, il tempo che fugge fa paura, il valore da dare al
tempo che passa dentro di me. Il mio è un cucciolo che non sa quando poter dire di no e non so se lo
scoprirà mai... alla fine mi sono vista come il cucciolo che è arrivato al mare, ce l'ha fatta, non gli è
piaciuto per niente ma è così».
Ancora una volta il tema predominante all'interno di questo gruppo di mamme è l'esperienza della
«maternità ferita». La favola contribuisce allora ad attivare aspetti proiettivi comuni. In questo
momento del gruppo è anche significativo il passaggio quasi automatico fra ciò che riguarda se
stesse come figlie e i propri figli come cuccioli.
Come se bisognasse passare da una indifferenziazione legata al tener dentro un figlio e poi il
doverlo riconoscere fuori con la propria individualità, con le sue caratteristiche, anche quelle che
fanno più paura legate all'handicap, ma questo passaggio sembra poter avvenire solo dopo aver
visto quello che più profondamente si è attivato con l'esperienza della maternità.
Nel procedere del gruppo, il riferimento al nucleo evocato dalle favole proposte si snocciola
naturalmente attraverso i diversi interventi. Dopo Il principino che non sapeva perdere (sul tema dei
distacchi che il crescere comporta) ancora le parole di Matilde: «È il tema dell'altra volta, la fatica
di riconoscere le conquiste del proprio bambino e le sue difficoltà, il legame del bambino con la
mamma, il suo suscitare tenerezza, così le cose gli vengono fatte da tutti più facilmente. Stefano ha
sviluppato una grande capacità di comunicazione non verbale».
La preoccupazione della madre si esprime con la paura che Stefano capisca di avere delle difficoltà
nel parlare: «Lui si rende conto che gli altri bambini crescono e lui rimane piccino, forse sente
qualcosa che gli altri dicono di lui». Cita un episodio avvenuto qualche giorno prima al parco: una
sua amichetta, per favorirlo nel gioco dell'altalena, ha detto agli altri bambini: «Scusate, potete
mandare lui sull'altalena perché è piccolo e handicappato?».
«Io sono stata male, per questo ho pianto, ma mi chiedo se lui se ne sia reso conto.» La risposta alle
parole di Matilde viene da un'altra mamma: «Non si accetta la sofferenza che ci ha colpito rispetto
ai figli».
La favola ancora una volta, creando un'area di transizione fra l'essere figli e l'essere genitori,
agevola un percorso verso la consapevolezza che riguarda se stesse e i propri figli «diversi». Il
confronto di esperienze attivato dalla lettura della favola permette di tracciare un cammino, ha un
ruolo di sbocco, non risolve il problema ma aiuta a rimetterlo nella giusta collocazione.
Ancora Matilde, una volta conosciuta la diagnosi del bambino, dopo aver sentito Il gabbiano che
giocava col vento (sul tema del sentirsi traditi nella fiducia): «Ho pensato al gabbiano Jonathan
Livingston, quando il vento ha fatto cadere il gabbiano ho pensato a me e a Stefano, il mio sentirmi
colpevole per quanto gli accadeva. Adesso che si è fatta chiarezza sulla diagnosi di mio figlio, ho
trovato pace e serenità, riesco a vedere i suoi progressi; prima c'era solo il buio. In tutti questi anni
mi sono sentita in colpa, per quello che dovevo fare per lui, lo proteggevo, una gran confusione ...
rabbia, stanchezza, il chiudersi in se stessi». Il mondo prima e dopo: «Mi sono chiusa per non
soffrire, ora la verità sulla diagnosi mi ha aiutato ad affrontare la realtà».
Si potrebbe esprimere il cammino effettuato attraverso quanto Matilde afferma a conclusione di un
ciclo di incontri prima della pausa estiva. Dopo l'ascolto dei Cuccioli che si ammalavano spesso
(sulla valenza psicosomatica delle malattie infantili): «Se i suoni rimangono isolati risultano
stridenti, se invece si mettono insieme, nasce un coro, un'armonia, una musica collettiva, così come
le briciole dentro sembrano delle montagne, se le metti fuori possono formare una pagnotta. La
nostra pagnotta è quella che è lievitata qui nei nostri incontri per portarcene alla fine un pezzo come
nutrimento che ci accompagnerà nella vita. Il cammino della vita spesso è tortuoso, oscuro e
difficilissimo da percorrere se non trovi una "scialuppa" che ti salvi mentre stai naufragando e le
"onde anomale" prendono il sopravvento. Noi l'abbiamo trovata».
Francesco: la chiave magica
Francesco inizia la sua esperienza nel gruppo subito dopo aver affrontato le conseguenze di una
malattia pesante e perniciosa che ha determinato un grande cambiamento all'interno della sua
famiglia e del sua lavoro. Partecipa da solo in quanto la moglie, per l'attività che svolge, è spesso
fuori città.
La sua bambina, nata quando lui era molto giovane, ha un disturbo generalizzato dello sviluppo con
un ritardo importante. Francesco ha un viso aperto e comunica una profonda disponibilità verso gli
altri. All'interno di questo gruppo si crea quasi subito un clima emotivo molto forte e la lettura delle
favole apre spazi intensi di dialogo. Il contributo di questo papà è indicativo di un percorso che
potrebbe appartenere simbolicamente a tutti i partecipanti.
In uno degli incontri iniziali, nel quale si legge la favola Il principino che diceva sempre di no
(sull'uso dell'opposizione come difesa), Francesco entra subito nel vivo del proprio vissuto: «Spesso
i problemi non sono legati alla colpa di qualcuno, sarebbe bello se ci fosse una montagna da scalare;
a volte penso che la nostra montagna la stiamo scalando tutti i giorni, mi vedo con questo cordone
lungo e stretto, sempre con la paura di sbagliare qualcosa».
La favola aiuta a rappresentare l'iter per la ricerca della risoluzione possibile delle difficoltà. Una
ricerca difficile, non magica, ma per tentativi ed errori, attraverso la fatica, il pianto, come nucleo
per arrivare, mediante una sofferta consapevolezza, ad affrontare i problemi. L'immagine
predominante è quella evocata dal cordone ombelicale che rappresenta la difficile separazione dei
genitori nei confronti di figli percepiti nella loro profonda vulnerabilità.
Le lacrime, simbolicamente, contribuiscono a sciogliere un nodo di sofferenza e aprono la strada
per la ricerca di una soluzione non magica, ma fatta di piccole conquiste giornaliere, di piccoli
passi, di storie di straordinaria quotidianità.
Dopo aver ascoltato Il fenicottero malato di nostalgia (sulla difficoltà dei distacchi): «La favola è
bella ottimistica ma, per noi, quello che vorremmo sapere è se abbiamo speranza di poter riprendere
la vita di prima; quanto potrà essere risanata la nostra ferita; si potrà con l'aiuto trovare il modo di
recuperare e forse guarire?».
Ancora una volta i pensieri più profondi vengono espressi per immagini: «Il fenicottero è guarito,
ma aveva fatto un'esperienza in più: la malinconia, l'essere bloccato per un'ala. Noi genitori non ci
chiediamo più se possiamo partire. Cos'è il viaggio? Per noi potrebbe essere la normalità: io mi
sento come il fenicottero con la mia esperienza di padre, sono un padre speciale, vivo una situazione
speciale, ma comunque si vola».
Dopo L'uovo di ferro e il martello d'oro (sul cercare la chiave per aiutare un bambino): «La luce per
far aprire il guscio nel nostro caso deve arrivare dal bambino; i nostri figli ci arrivano piano piano e
poi sono conquiste. Per noi qui ed è il ruolo del corso, del cantare tutti insieme c'è sempre un mezzo
che aiuta a trovare la soluzione, c'è sempre un mezzo!».
Dopo Il principino che non sapeva perdere (sui distacchi del crescere): «È importante il poter
parlare per alleggerire tanti nodi; quando ti fai delle domande ti aspetti certe risposte, se poi quelle
che ricevi non sono quelle che ti aspettavi sono delle batoste terribili».
Ancora una volta emerge la consapevolezza del dare e del ricevere nella esperienza genitoriale, la
consapevolezza che la crescita, la capacità di scegliere, riguardano tutta la vita: «I semi comunque
vengono seminati, il raccolto ci sarà anche se forse il percorso sarà più lento».
Dopo Il paese delle pagine ferme (sulla difficoltà di voltare pagina): «Anche se ho un libro che
cerco di sfogliare, ma sembra che abbia l'elastico e torna indietro, stiamo cercando di voltare
pagina. Qualche ostacolo è stato superato, ma il procedere, nell'insieme, è molto lento».
Il gruppo riesce a produrre, nei passaggi più delicati, contenuti velati di una forte autoironia: «Che
faranno quando noi non ci saremo più?». La risposta arriva da un altro papà: «Non ci penso proprio
a non esserci... Ma come sarebbe stato bello se fossero stati sani, ne avrei fatto volentieri a meno di
questi problemi. Io sono sempre più sorpreso e contento di vedere come i genitori riescano ad
appropriarsi di uno spazio che li aiuta a riscoprire le loro stesse risorse!».
Il percorso di questo gruppo è durato alcuni anni e ha accompagnato Francesco, gli altri genitori e i
loro figli alle soglie dell'adolescenza.
Ecco il resoconto degli ultimi incontri. Dopo Il cucciolo cresciuto troppo in fretta (sul cambiamento
fisico dell'adolescente) il gruppo fatica ad avviarsi; prima dell'inizio il riferimento a una festa alla
quale ha partecipato Francesco sembra sconvolgere il normale dialogo. Poi Francesco afferma:
«Giulia e il suo corpo che cambia, sta assumendo un corpo da donna, ma ne è inconsapevole, lei
non può dire ciò che di bello possiede dentro. Noi una cosa bella ce l'abbiamo e sono i nostri
incontri, l'incontrarci in maniera diversa, il trovare delle risposte che vengono da noi, anche noi con
il cesto delle cose che fanno compagnia nella vita».
Un'altra mamma aggiunge: «Anche noi qui siamo cresciuti, la nostra paura di affrontare la crescita
dei nostri figli è stata affrontata e superata in maniera diversa per ciascuno di noi, ora riusciamo a
vedere i piccoli grandi cambiamenti dei nostri figli. La cosa buona è aver visto che si sta muovendo
qualcosa nella direzione giusta».
Francesco risponde risoluto: «La chiave magica è costituita semplicemente dalla consapevolezza
del problema, SIAMO NOI CHE ABBIAMO LA SOLUZIONE DEL PROBLEMA; è questa la
nostra chiave magica, vivere riuscendo a maturare questa consapevolezza a vari livelli».
Ancora un altro papà: «Nel gruppo, con le cose dette insieme, imparo ad ascoltare e a ragionarci
sopra». La riflessione comune aiuta a condividere il problema, a integrare normalità e diversità, a
trovare un denominatore comune, a riconoscere nell'esperienza come genitori la capacità di voler
bene ai figli riuscendo ad apprezzarli per quello che sanno dare... Chi è il normale? Chi è il diverso?
Aumenta la capacità come genitori di trovare delle risorse dentro di sé per poter vivere e accettare la
realtà della vita.
Ogni favola è come una porta, una porta che ogni volta si apre su scenari di cui si entra a far parte.
È un gioco, un gioco metaforico che si fa sempre e comunque. La metafora sembra aprire un varco
diverso nella realtà, anche quella più inavvicinabile, quella più profonda. La metafora, evocando un
tipo di conoscenza non razionale ma intuitiva, predispone al nuovo, sospinge alla rinuncia della
sicurezza data dal noto a favore di qualcosa che lo superi.
Questa è la magia che ho notato spesso all'interno dei gruppi; la realtà emotiva diventa oggetto di
continue ristrutturazioni, supera l'ambito ristretto del linguaggio imponendo una rappresentazione e
una percezione alternativa della realtà «significata».
I genitori e l'équipe di cura
di Vassiliki Papadopoulou
Non posso piangere, ma il mio cuore sanguina.
W. SHAKESPEARE, Racconto d'inverno4
Quando rifletto sul mio lavoro di psichiatra infantile, prima nella libera professione e poi nel
pubblico in un ambulatorio esterno di pediatria annesso all'ospedale, sono molti i pensieri che mi
vengono in mente e che riguardano il nostro ruolo, il nostro modo di lavorare, le difficoltà e le
delusioni, ma anche certi momenti di soddisfazione che viviamo con bambini e genitori sofferenti.
È importante infatti ricordare che dietro a un bambino sofferente c'è sempre un genitore sofferente
che spesso non può neanche permettersi di riconoscere la propria sofferenza. Genitori-eroi mi
verrebbe da chiamarli, costanti, instancabili, infaticabili nonostante tutte le avversità e le difficoltà
che incontrano quotidianamente, nonostante le cadute e i momenti bui e di disperazione che si
ripropongono di continuo, e che farebbero venire voglia di abbandonare il campo. Lavoro presso un
centro di psichiatria dell'infanzia e dell'adolescenza di un ospedale generale di Salonicco che
costituisce l'unica struttura nel settore regionale sufficientemente organizzata per prestare un
servizio di questo genere. Il centro dispone di:
un reparto residenziale per ragazzi dai 7 ai 18 anni affetti da gravi problemi psichici che non
si possono affrontare diversamente;
un ambulatorio esterno dove vengono seguiti tutti i casi di bambini e adolescenti fino ai 18
anni;
una «liaison» che consente l'aiuto a bambini e adolescenti ricoverati in altri reparti
dell'ospedale;
una collaborazione stretta con la Clinica pediatrica universitaria per la copertura dei casi del
suo ambulatorio esterno.
È soprattutto l'esperienza in quest'ultimo settore quella che consente a noi di lavorare in équipe con
riunioni settimanali e ai genitori di essere ricevuti da un team che li prenderà in carico insieme ai
loro figli permettendo un'accoglienza e un'appartenenza a un progetto comune. Dell'èquipe, oltre a
me, fanno parte due neuropediatri, un pediatra dell'età evolutiva, uno psicologo e varie
professionalità della riabilitazione (fisioterapista, logopedista, ergoterapista ecc).
La mia presenza è stata richiesta dalla Clinica pediatrica universitaria e ha permesso al gruppo di
specialisti già esistenti di operare in un modo più completo nella diagnosi e nel trattamento dei casi.
Uno strumento prezioso di aiuto, sia per noi sia, indirettamente, per il lavoro con i pazienti, sono
sempre stati gli incontri settimanali con tutti gli operatori, che ci hanno permesso di avere uno
spazio per fermarci a riflettere sui problemi che ci si presentavano e sul nostro modo di affrontarli.
Il pediatra mi sottopone i casi in cui è necessaria una valutazione psichica del bambino (dietro a una
generica osservazione «Non parla» dei genitori, per esempio, ci sono spesso sindromi autistiche) e
io cerco di sintonizzare una serie di interventi per un'osservazione psicodiagnostica del bambino e
un successivo eventuale trattamento. L'osservazione viene fatta da me insieme al logopedista e
all'ergoterapista in sedute di gioco per osservare il comportamento e le difficoltà nei vari settori
(relazionale, comunicativo, di attività, di interessi, di gioco ecc). Contemporaneamente si inizia la
consultazione dei genitori, molto importante per la ricostruzione dettagliata della storia e per il
follow up che seguirà.
È evidente che per tutti questi bambini la diagnosi precoce tempestiva è significativa e decisiva per
poter iniziare il prima possibile un trattamento terapeutico. Poiché il nostro centro non è in grado di
fornire un trattamento specifico intensivo per tutti i casi diagnosticati, di solito diamo la precedenza
ai bambini che hanno problemi socioeconomici, oppure a quelli per i quali si valuta importante
seguire l'evoluzione da vicino. Tutti gli altri vengono inviati a un trattamento privato (coperto
solitamente dalla mutua del bambino) ma viene comunque loro proposto un controllo dell'èquipe
ogni sei mesi, insieme a una consultazione dei genitori.
I genitori, nella stragrande maggioranza, sono molto favorevoli a questi incontri e visite di controllo
semestrali che li fanno sentire accompagnati e non lasciati soli. Hanno inoltre la possibilità di
chiedere di anticipare l'incontro per motivi legati a loro о al bambino. Si possono anche concordare
altri incontri, con gli insegnanti, con l'eventuale persona che si occupa del bambino ecc.
Naturalmente lo sviluppo del bambino non è sempre soddisfacente, soprattutto nei casi gravi, per
cui i genitori avranno più bisogno di essere sostenuti per poter continuare a reggere una situazione
difficile da tutti i punti di vista, che condiziona pesantemente la vita di tutta la famiglia. In questi
casi si svolgeranno incontri più frequenti, uniti alla possibilità di colloqui telefonici e all'intervento
dello psichiatra infantile di guardia per le emergenze, specie quando è richiesto l'intervento
farmacologico.
La collaborazione équipe curante e famiglia è fondamentale in tutti i casi, dai più leggeri ai più
gravi. Tanti bambini seguiti dall'età di 2-3 anni sono riusciti col tempo a recuperare una gran parte
delle loro difficoltà e questo ci dà grande soddisfazione e gioia.
Per altri la situazione è più grave e l'evoluzione più incerta, per cui è ancora più importante il
sostegno ai genitori per aiutarli a tollerare la fatica, la precarietà, l'incertezza sul futuro.
Tutti i genitori con bambini gravi hanno questa spina nel cuore: che cosa ne sarà dei figli quando
cresceranno e loro non ci saranno più?
Non si può prendere in carico un bambino senza fare parallelamente un lavoro di consultazione e
supporto ai suoi genitori, che rappresentano il pilastro centrale della sua sicurezza e i suoi maggiori
alleati naturali. È importante però che anche noi come équipe riusciamo a creare una buona alleanza
terapeutica con loro: sarà questa alleanza il nostro punto di forza comune, per cercare di fare il
meglio possibile, pur nelle difficoltà, per il loro bambino. Perché non dimentichiamo mai che anche
nelle situazioni più sofferte, un bambino ha sempre delle potenzialità.
Recita un haiku giapponese di Kobayashi Issa:5
A1d ogni cancello
la primavera comincia
dal fango sui sandali.
Nel giardino del silenzio
di Marisa Bonomi
Le parole non pronunciate sono fiori
del silenzio. Proverbio cinese
...
Proverbio giapponese
L'Associazione Mons. Giovanni Marcoli costituita nel 2001 nel nome di una figura di grande rilievo
del cattolicesimo bresciano,6 in campo religioso, sociale e politico, dei primi del Novecento, fra
l'altro attivissimo promotore di iniziative a favore dei sordomuti, è stata creata per fornire relazioni
d'aiuto e sostenere la genitorialità, in un'ottica di prevenzione del disagio, all'interno di famiglie in
cui siano presenti adulti о bambini sordi.
Sappiamo che il processo di crescita dei bambini comporta sempre momenti di crisi evolutive:
ancor più, l'esistenza di un deficit in un nucleo familiare richiede la mobilitazione di molte risorse e
interferisce nella relazione tra genitori e figli, rendendola più complessa e difficile. Le difficoltà
possono anche sopraffare le risorse genitoriali: è necessario perciò attivare interventi di sostegno
alle famiglie, dalla gravidanza ai primi anni di vita dei bambini, nel tentativo di prevenire disturbi e
funzionamenti devianti.
In questa prospettiva l'Associazione tenta, con molteplici iniziative, di fornire un aiuto in situazioni
a rischio, in quella fascia d'età la prima infanzia in cui il rapporto genitori-figli è costitutivo della
futura identità del bambino. Gli operatori dell'Associazione in questi anni hanno aiutato famiglie in
difficoltà sia per crisi evolutive, sia per la presenza della sordità.
L'intervento è stato effettuato in un rapporto diretto con le famiglie о anche in forma mediata,
attivando corsi di formazione per professionisti impegnati in situazioni a rischio e organizzando
convegni su tematiche legate al mondo affettivo e relazionale del bambino sordo.
Un esempio di intervento diretto è dato dall'esperienza maturata con visite domiciliari presso due
famiglie altamente problematiche per la presenza di deficit sensoriali nei genitori (sordità) e nei
figli, entrambi nati con gravi limitazioni visive, in un caso associate alla sordità.
Per accostarci a queste realtà estremamente complesse e delicate abbiamo utilizzato quale «ponte»
l'intermediazione di una suora, insegnante nella scuola per sordi frequentata dalle mamme dei
piccoli. È stato indispensabile ricorrere a questa figura affettivamente significativa per poter offrire
alle famiglie la nostra presenza, la possibilità di un accompagnamento nel difficile percorso di
sostegno ai bisogni dei bambini. Non c'è stata richiesta esplicita di consulenza, ma piuttosto il
nostro intervento è stato realizzato per l'espandersi di un legame di stima e affetto preesistenti. La
terapeuta, che si è fatta carico di un'esperienza così particolare, ha vissuto momenti di grande
trepidazione e commozione nell'incontro con queste famiglie, così segnate dalle difficoltà, e con
queste giovani mamme, dolorosamente consapevoli dei propri limiti e dei problemi dei loro
bambini, ma anche in grado di trovare con i piccoli momenti di grande tenerezza. La terapeuta ha
vissuto intensamente il timore di essere inadeguata, di non trovare vie comunicative sufficienti: ha
sperimentato la fatica e le paure che accompagnano la lenta costruzione di un rapporto di fiducia in
situazioni difficili, in cui bisogna porsi a fianco dei genitori in un atteggiamento di totale rispetto,
abbandonando facili critiche, pregiudizi, ricette preconfezionate; ha provato accanto alle madri il
dolore impotente, ha ascoltato le loro angosce e fantasie di morte.
Nel primo anno di vita dei bambini c'erano da affrontare visite specialistiche, ricoveri, interventi
chirurgici: le decisioni dovevano essere rapide, mentre gli esiti rimanevano sempre incerti.
La terapeuta doveva affrontare e contenere le ansie genitoriali, rafforzare positivamente il rapporto
mamma-bambino, evidenziare le conquiste evolutive dei piccoli, aiutare la famiglia a passare da
un'immagine deficitaria dei bimbi alla focalizzazione delle risorse pur presenti. Tutto questo
avveniva in un clima emotivo molto intenso e carico di dolore, cui non si sottraeva neppure lei: non
si può rimanere neutrali di fronte al processo di crescita di un bambino e, ancor più, davanti alle
sofferenze che a volte la vita infligge a piccoli innocenti, senza spiegazione.
Durante una visita domiciliare, quando il piccolo Matteo aveva 3 mesi, la psicologa vede la mamma
(Maria) particolarmente stanca e preoccupata: a breve dovrà ancora una volta portare il bambino in
una clinica specializzata per un probabile intervento chirurgico sulle cataratte congenite. Maria ha
un aspetto pallido e dolente; con la sua vocina un po' acuta, il lessico limitato ma affettivamente
intenso, quasi inconsapevole della complessità del mondo che la circonda, evoca nella terapeuta
l'immagine di una bambina fragile che va protetta e le suscita un sentimento di profonda
commozione. Matteo è irrequieto, sembra rifiutare il seno, piagnucola. La mamma lo adagia sul
seggiolino, gli mostra una pallina colorata e un piccolo peluche, agitandoli davanti ai suoi occhi, ma
il bimbo non segue gli oggetti con lo sguardo. Dagli appunti della psicologa:
Mentre siamo lì a guardare il bambino (la mamma lo sollecita molto), Maria mi chiede se ho sentito
la notizia delle gemelline siamesi morte, di cui la televisione ha parlato in questi giorni. Con il viso
costernato mi chiede: «Perché?». Io eludo la domanda, pur sapendo che si sta interrogando su suo
figlio e rispondo superficialmente, come fosse solo una questione medica. La mamma incalza: un
collega del marito ha un bambino di 2 anni e mezzo con la leucemia, adesso non mangia più, è
magro... «Perché?» torna a chiedermi. Mi sento anch'io, come lei, angosciata e vivo la sua domanda
come una richiesta di dare un senso alle sofferenze dei piccoli; mi sembra la domanda di un
bambino innocente di fronte al dolore, cui non riesco a dare risposta.
Queste nostre esperienze di accompagnamento regolare e continuativo a famiglie esposte a rischio
psicopatologico ci sembra abbiano avuto una ricaduta positiva sull'evoluzione dei bambini e dei
loro genitori. È aumentata la capacità degli adulti di accudire il bambino, di avere fiducia nell'altro,
di saper chiedere aiuto, di mostrare riconoscenza; sono state prevenute potenziali rotture della
comunicazione e del legame. La relazione di aiuto con queste famiglie non è mai stata a senso
unico, ma ha anche arricchito le competenze professionali e la sensibilità umana dell'operatore. La
terapeuta infatti ha cambiato il suo modo di rapportarsi alle persone sorde, perché è riuscita a
calarsi, almeno in parte, nel loro mondo. Ha vissuto dal di dentro stili di vita e difficoltà molto
lontani dalla sua esperienza: ha appreso come si possano affrontare con forza e dignità, mantenendo
la fiducia in se stessi e nel bambino, gli ostacoli che la vita distribuisce, non sempre equamente.
Nel corso degli interventi di questo tipo abbiamo constatato come le relazioni di aiuto dirette, per
essere più efficaci, debbano essere integrate con un lavoro di coinvolgimento del contesto familiare
e sociale allargato: l'operatore perciò si è occupato anche di come possa costituirsi intorno alla
famiglia una rete di sostegno. Queste famiglie in difficoltà hanno potuto contare sull'aiuto di nonni,
fratelli e zii che sono stati un ponte nel rapporto con le istituzioni e con le strutture sanitarie; i
genitori hanno usufruito di interventi medici e terapeutici che, grazie alla mediazione e
all'elaborazione con l'operatore domiciliare, hanno tutti contribuito al benessere del bambino.
Si possono aiutare le famiglie anche curando la preparazione di quanti entrano in contatto con
queste realtà. L'Associazione
Come posso aiutare il mio bambino disabile?
139
Mons. Giovanni Marcoli ha realizzato corsi per operatori della prima infanzia, provenienti dal
settore sanitario, educativo, clinico. Nei gruppi così formati si è dato spazio alle esperienze
istituzionali, ai vissuti emozionali e personali dei vari partecipanti, che hanno potuto di volta in
volta portare il loro materiale esponendosi in un percorso individuale e di gruppo comune; è stato
elaborato il modo di porsi di ciascuno rispetto al bambino e alla sua famiglia. Si è seguito il filone
del bambino nascosto, della parte infantile che continua a esistere in ciascuno di noi e che va colta e
ascoltata. Si è lavorato sulla comprensione e sulla non colpevolizzazione della famiglia, sul
ridimensionamento delle proprie attese e sull'accettazione della realtà.
«L'esperienza è stata molto utile e mi ha dato ottimi spunti di riflessione, offrendomi anche la
possibilità di vedere come certi argomenti, se osservati in modo differente, acquistino un significato
nuovo, non migliore о peggiore, ma più inserito in un'ottica di crescita come persona singola e in
relazione»; «È utile parlare delle emozioni e avere uno spazio e un tempo da dedicare
all'osservazione e all'ascolto.» Così hanno scritto nel questionario di fine corso due educatrici e
queste riflessioni sembrano ben riassumere il senso degli interventi di formazione
dell'Associazione.
In questi ultimi anni la presenza, sempre più numerosa nel nostro paese, di immigrati, ci ha messo
di fronte al grave problema dei bambini sordi stranieri. Questi piccoli si trovano doppiamente
penalizzati: dal loro essere stranieri e dalla presenza di un handicap che, riducendo le loro capacità
di capire e comunicare con l'ambiente che li circonda, rende molto più difficile il processo di
integrazione delle esperienze migratorie. Sono piccoli resi orfani, perché sordi, della possibilità di
godere la lingua materna e costretti all'uso, in quanto migranti, di una lingua che per loro non ha
risonanze affettive. In certi casi, quando il bambino sordo arriva in Italia dopo aver vissuto qualche
anno nel suo paese d'origine, l'unica modalità comunicativa possibile rimane quella gestuale.
Per l'Associazione ho iniziato un lavoro di sostegno con le famiglie di questi bambini dalla nascita
ai 6 anni che comporta, in forma variabile, a seconda dei bisogni e della disponibilità delle persone,
un lavoro di rete fatto di incontri domiciliari, rapporti con gli educatori dei bambini, contatti con le
strutture sanitarie e assistenziali che si occupano di loro.
I rapporti delle famiglie straniere con le strutture sanitarie sono di solito difficili in quanto, senza la
presenza di un mediatore, la comprensione del discorso del personale medico è parziale e
insufficiente; per questi genitori, inoltre, le nostre spiegazioni della malattia e i nostri metodi di cura
sono difficili da capire e da utilizzare. Bisogna perciò elaborare un approccio che tenga conto delle
loro rappresentazioni culturali della malattia, per riuscire a costruire insieme un sapere condiviso e
dunque più efficace: non dobbiamo trasformare le differenze in patologia. Il nostro intervento con le
famiglie straniere vuole lasciare spazio ai significati degli altri, senza tentare di imporre i nostri
modi di fare e le nostre ipotesi: è importante rispettare i riferimenti culturali della famiglia e non
stabilire gerarchie tra diversi sistemi di rappresentazione.
Il padre di User (2 anni e 5 mesi), piccolo pakistano sordo, mi descrive come, dopo l'utilizzo delle
protesi, il bambino sia molto più reattivo ai rumori dell'ambiente e presti attenzione alla voce
quando viene chiamato; in seguito afferma comunque che da quando User porta le protesi si
ammala sempre... Come se questo strumento avesse una grande valenza positiva, quasi magica, ma
potesse pure avere conseguenze negative. C'è anche un'altra spiegazione al malessere del bambino,
dice il padre: il malocchio. Le educatrici hanno elogiato troppo le prime conquiste sociali del
piccolo, inserito al nido, ed ecco la conseguenza dell'invidia.
Harpret (7 anni), figlia di genitori indiani, mi guarda con occhi intelligenti e pensosi. È sorda
profonda e, anche se da qualche tempo usa le protesi, percepisce ben poco dall'ambiente circostante.
È arrivata in Italia da qualche mese e non è stato possibile ancora organizzare una terapia del
linguaggio per lei. Poco si è capito della storia della bambina, che non usa la voce né a scuola né a
casa, ma si esprime solo con gesti spontanei. Mentre parlo con i genitori e cerco di accordarmi con
loro per incontrarci e ricostruire la loro storia, penso al disorientamento della piccola, prima con la
madre e con i nonni, ora in un paese completamente nuovo, con un padre poco conosciuto e senza le
figure di riferimento della famiglia tradizionale... Tutto ciò senza avere la possibilità né di ricevere
spiegazioni né di tradurre in parole о gesti il trauma di un viaggio deciso dagli adulti.
Il signor Α., pakistano, fin dal primo colloquio mi coinvolge nel problema per lui più grave: la
ricerca di una casa adeguata alle esigenze della sua numerosa prole. Solo successivamente riesce a
focalizzare l'attenzione sulla sua piccola Kajnat. La mamma di Kajnat, come tutte le mamme di
bambini sordi, è in difficoltà con la figlia: per comunicare con lei non parla, bensì le indica oggetti,
persone, direzioni... Finalmente con l'aiuto della mediatrice culturale, sempre presente in tutti i
nostri incontri, riusciamo a farle capire che per comunicare con la sua piccola occorre innanzitutto
avere con lei un contatto visivo, parlarle e stimolare la bambina a un'attenzione particolare
all'articolazione della bocca.... Entrambi i genitori sono molto preoccupati del futuro della bimba:
come farà Kajnat a trovare marito? Le loro attese sulla bimba erano alte, le è stato dato un nome
molto importante, che significa «il mondo». La bimba deve imparare a parlare presto. Le speranze
sono centrate sulle ultime conquiste della medicina occidentale in fatto di sordità: l'impianto
cocleare, come soluzione magica del problema. Le raccomandazioni della logopedista non vengono
comprese: la mamma, analfabeta, non parla l'italiano e il padre è impegnato nel lavoro fino a tardi.
La mamma di Lovejeat è in ansia pensando a quando tornerà, a breve, in Pakistan e dovrà mostrare
ai vicini la sua bimba che ancora non parla, nonostante il viaggio in Occidente intrapreso per lei,
l'intervento chirurgico, le cure prestate e i sacrifici sostenuti. La piccola porta un nome, scelto dal
nonno paterno, che richiama l'amore, in una commistione di lingua inglese e hindi.
Tali erano i sentimenti che la bellissima bambina aveva suscitato intorno a sé al momento della
nascita. Lovejeat è un regalo di Dio e come tale va accettata, ma bisogna fare tutto il possibile per
lei, per farle «recuperare» l'udito; la mamma parla della medicina occidentale come di uno
strumento magico per cancellare il deficit della figlia. Grande è ora la sua delusione verso un sapere
che sperava più potente della medicina tradizionale. Le protesi, da strumenti di aiuto, sono vissute
ora come causa di dolore fisico che tortura la bimba: appena la mamma gliele applica, Lovejeat
scoppia in un pianto disperato perché «le fanno male», dice la mamma, confusa e depressa, che così
esprime il suo dolore: «Il mio cuore non sta bene».
La sofferenza dei genitori per la sordità del loro bambino è identica per tutti, ma viene modulata in
contesti culturali differenti, in cui la malattia trova cause e comprensione diverse rispetto alle nostre
rappresentazioni. L'intervento che viene realizzato per queste famiglie mira a dare spazio e dignità
al loro essere e al loro sapere; solo così possiamo, insieme, costruire la loro storia e da lì partire per
trovare la strada per aiutare i piccoli. La grande complessità dei fattori presenti in simili situazioni
ci fa constatare la lentezza degli interventi delle istituzioni, ma anche i limiti oggettivi di qualsiasi
intervento: la vita ci appare nel suo intreccio infinito di fatiche, gioie, dolori e problemi non sempre
risolvibili e governabili.
La zia di uno dei bambini italiani seguiti a domicilio, un giorno, in un periodo di grossa crisi
familiare nell'imminenza di un intervento chirurgico importante sul piccolo, disse alla terapeuta:
«Nella nostra famiglia ci sono stati tanti problemi, ma ce la siamo sempre cavata. Io ho fiducia
nell'angelo custode del bambino...».
Questa tenera immagine popolare di speranza nella vita «nonostante tutto» può rappresentare la
filosofia degli interventi dell'Associazione e il sentimento di coloro che vi lavorano: ci conferma
nella convinzione che il nostro agire si inserisce in un disegno più grande al quale possiamo
collaborare solo in parte.
Occuparsi anche dei fratelli di bambini disabili La spina nel cuore dei fratelli
Quando ho avuto una forte depressione stavo malissimo, ero proprio disperata e nessuno riusciva a
confortarmi. L'unico che è riuscito a farlo è stato un mio nipotino con la sindrome di Down che mi
stava vicino in silenzio mentre piangevo e mi accarezzava il viso con dolcezza. È stata la mia
salvezza.
Dalle risposte anonime
di un questionario sulle relazioni d'aiuto
Il mondo della diversità è estremamente complesso, poco conosciuto, poco indagato se non negli
aspetti più tecnici, comunemente poco visto e osservato come tutto quello che mette in discussione
le nostre solide certezze e sicurezze rispetto a ciò che è omologato, noto, rassicurante, prevedibile e
controllabile.
Lo conosciamo poco о non lo conosciamo per niente e lo evitiamo con cura perché ci pone delle
domande impegnative che spesso non hanno risposte e sono scomode.
Oppure, al contrario, ci può stimolare una relazione up-down, di chi ha solo da dare (cosa peraltro
anche vera ma non esaustiva) rispetto a chi ha solo da ricevere (cosa peraltro altrettanto vera, ma
altrettanto non esaustiva).
Ma il mondo della diversità non è solo questo: può rappresentare anche qualcos'altro, un'esperienza
da cui possiamo ricevere più di quanto non diamo, un'occasione per imparare, per interrogarci, per
stupirci, per allargare i nostri confini, per mettere in crisi il nostro modo ristretto di vedere le cose, i
nostri abituali schemi e abiti mentali, per arricchire la nostra esperienza di vita, unica e irripetibile,
perché la vita sfugge a qualsiasi criterio di omologazione.
Un'occasione, dolorosa, di crescita e di apprendimento continuo che le altre esperienze di vita
conosciute, note, familiari e prevedibili non possono dare nello stesso modo.
Se è vero che si è contemporaneamente gli stessi ma anche non più gli stessi quando si entra о si
esce da qualsiasi esperienza umana, questo vale ancora di più nel campo della diversità. Non si è
più gli stessi quando la si incontra e la si sperimenta quotidianamente nel proprio operare: si
imparano tante cose che prima non si sapevano, cadono molti stereotipi e pregiudizi, si ribaltano
spesso le priorità.
Cose ritenute prima essenziali diventano superflue, mentre diventano essenziali e prioritarie altre
cose prima ritenute banali, ovvie e date per scontate.
«Tre sono per noi le cose fondamentali della vita» era stata la conclusione di un'appassionante
discussione avvenuta in un mio gruppo di genitori anni fa. «La prima è il fatto che siamo vivi, lo
diamo per scontato ma non lo è. La seconda è il fatto che godiamo di buona salute, la diamo per
scontata ma non lo è. La terza è la qualità delle nostre relazioni con noi stessi, con gli altri, con il
mondo in generale.»
Nel campo della diversità manca spesso il secondo requisito la buona salute, fisica oppure mentale
ma restano gli altri due che assumono un'importanza ancora maggiore.
Detto questo, che credo sia essenziale, penso sia altrettanto importante riconoscere l'enorme carico
di dolore, di tempeste emotive, di rifiuto e profondo senso di ingiustizia, rabbia e impotenza che la
diversità indotta dalla disabilità di un bambino comporta non solo per i suoi genitori ma per tutta la
famiglia, in particolare i fratelli e le sorelle. Legittimare il sacrosanto diritto di provare anche
emozioni naturali di rifiuto non del bambino, ma di un carico così pesante aiuta perciò a rendere la
situazione più vivibile e la fatica meno gravosa, mentre lo scacciarle e il negarle non possono che
appesantirle ulteriormente di «carichi sospesi».
Ecco la bella, profondamente autentica e sofferta testimonianza di una ragazza americana, tratta
proprio da un libro dedicato ai fratelli e alle sorelle dei ragazzi disabili.
Mia sorella, Bonnie Marie, ha due anni più di me e ha la sindrome di Down. Lei ha influenzato la
mia vita più di quanto non l'abbia fatto e probabilmente farà nessun altro....
Io ora penso che la mia esperienza con Bonnie mi ha reso una persona più tollerante e comprensiva,
una che non giudica le persone dalle apparenze esterne ma che riesce a vedere la bellezza di
ognuno. Tuttavia, temo di pensare che lei non sia stata una benedizione per la mia vita.
Il mio maggior problema nell'avere a che fare con Bonnie è stato il senso di colpa ... Forse mi sarei
sentita meglio se Bonnie avesse potuto ribellarsi non mi ha mai detto una cattiveria, non mi ha mai
aggredito. Quel che è peggio è che quando io le facevo qualcosa lei se ne stava lì piangente e mi
diceva: «Io ti voglio bene lo stesso». Era senza difese e io la trattavo male. Adesso, ad anni di
distanza, io non posso andare da lei a chiederle perdono lei non saprebbe di che cosa sto parlando
così io devo convivere con la mia colpa.
Io ora so che c'è una rivalità fraterna in ogni famiglia, che i sentimenti di ostilità non sono strani.
Ma da bambina mi veniva detto che era male avere quei sentimenti.
Parte del mio problema rispetto a Bonnie era il bisogno della mia identità, diversa da lei. Quando
eravamo piccole mamma soleva vestirci uguali. Forse lei tentava di far apparire Bonnie normale. Da
quei primi anni io sono stata legata a una persona ritardata. ... Io non volevo essere associata a
Bonnie....
I miei amici venivano a casa mia a giocare, le davano un'occhiata e alcuni si voltavano e se ne
andavano. Avevo la sensazione che, qualsiasi cosa io facessi, la dovesse fare anche Bonnie. Non
riuscivo a liberarmene. Se io prendevo lezioni di piano, lei doveva prendere lezioni di piano.
Quando entrai nelle Girl Scouts, lei entrò nelle Girl Scouts. ... Lei voleva essere come me e tuttavia
mi chiedo che genere di modello io fossi....
Volevo disperatamente essere accettata dagli altri bambini e invece nessuno giocava con me per via
della mia ombra: il mio malessere sociale che non poteva sparire. I bambini a scuola la prendevano
in giro, ne approfittavano, facevano scherzi a lei e agli altri «bambini speciali» della mensa. Ricordo
che sull'autobus nessuno voleva che Bonnie gli si sedesse vicino ... e io e lei stavamo in piedi.... Io
dovevo essere una buona cristiana e amare e accettare mia sorella mentre dentro di me non lo
facevo. Conclusi che ero io che avevo qualcosa di sbagliato....
Nella mia famiglia non era permesso discutere dei nostri sentimenti verso Bonnie. Dopo tutto, lei
era ritardata e se dicevamo qualcosa di negativo potevamo ferire i suoi sentimenti. Va bene, ma i
miei sentimenti? Chi si preoccupava di come mi sentivo io?
Io odiavo mia sorella per avere rovinato la mia vita. Lei mi feriva e io sentivo dolore....
Mi ricordo di aver provato delle grandi rabbie verso di lei e dopo mi sentivo in colpa. Lei era senza
difese. Non poteva farci niente se era ritardata. Come potevo arrabbiarmi con lei? Me ne stavo
sveglia di notte a pregare il Signore di perdonarmi per quei pensieri verso mia sorella. La rabbia e
l'intensità delle emozioni erano troppo per me da sopportare.
I miei genitori non si fermavano mai a dire: «C'è questo problema. E questo che è malato in lei.
Capisci? Hai delle domande?».
I miei sforzi per comunicare con i miei genitori erano tutti vani. Ricordo di aver tentato varie volte
di dire a mia madre come mi sentivo, ma lei mi rispondeva: «I tuoi sentimenti sono sbagliati, faresti
meglio a cambiarli». Era devastante sentirmi sempre dire che i miei sentimenti erano sbagliati e
tuttavia non riuscire a disfarmene. Oltre a sentirmi in colpa per i miei sentimenti di rabbia,
cominciai a pensare di aver qualcosa di sicuramente sbagliato dentro di me....
Ventun anni di rabbia non espressa si erano accumulati dentro di me e cominciavano a uscire in
modo distruttivo. Volevo disperatamente dirlo a qualcuno per liberarmene ma non avevo nessuno.
Senza dirlo ai miei genitori andai da uno psicologo. Continuai a piangere e parlai ininterrottamente
per un'ora, pagai sessanta dollari e uscii. Lui non mi disse nulla per tutto il tempo e io ebbi la
sensazione che non mi avesse capita veramente, ma l'avevo tirato fuori. Mentre tornavo a casa,
cominciai a pensare tra di me: «Hai appena pagato sessanta dollari a qualcuno che non ha detto
molto. Avresti potuto raccontare tutto a un'amica e ti sarebbe costato di meno». E poi mi dissi: «No,
Julia, tu non hai un'amica a cui potresti raccontarlo. Di fatto i muri probabilmente non
ascolterebbero». Piansi di nuovo. ...
Studiavo scienze sociali ed ero al terzo anno di università. Sapevo che non avrei potuto mai aiutare
nessuno professionalmente se non avessi fatto i conti con i miei sentimenti. A quell'epoca sapevo
che non potevo farlo da sola. Con l'aiuto di un eccellente psicoterapeuta cominciai un processo di
cura che fu molto doloroso ma molto necessario.
Frequentai un gruppo di sostegno per fratelli di ritardati, e per la prima volta nel corso dei miei
ventidue anni, parlai con altri che avevano un fratello ritardato. Il sollievo e la gioia che ne provai
furono indescrivibili e saranno per sempre scolpiti nella mia memoria.
Ora io sto imparando a fare i conti con i sentimenti negativi e sono in cammino per imparare a
comunicare meglio. ...
Questa storia è dedicata a Bonnie. Con questo mi sforzo di fare del mio meglio per aiutare altri
fratelli a capire l'importanza dei sentimenti e della comunicazione familiare, perché nessun altro
fratello debba soffrire in silenzio. Bonnie potrà non leggere mai queste parole, ma un giorno io so
che saranno scolpite nel suo cuore e che lei capirà.
Non lasciare che un bambino debba fare i conti da solo con sensazioni, emozioni, sentimenti
dolorosi più grandi di lui: ecco l'aiuto che forse possiamo cercare di dare anche in una situazione
così difficile.
L'intervento che segue, sullo stesso argomento, è a opera di Sabrina Brondolo, una giovane
neuropsichiatra infantile con cui ho lavorato per alcuni anni e che ha anche, in aggiunta a quella
medica, una competenza e una formazione psicoterapica a indirizzo analitico.
Fratelli di bambini con malattie neurologiche croniche
di Sabrina Brondolo
... Io ero un albatro grande e volteggiavo sui mari. Qualcuno ha fermato il mio viaggio, senza
nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra io canto ora per te le mie canzoni d'amore.
A. MERINI, L'albatro2
La nascita di un figlio portatore di disabilità comporta, per dirla con Wilfred Bion, un
«cambiamento catastrofico»3 nell'equilibrio emotivo della famiglia. Fino a poco tempo fa la
maggior parte delle ricerche sulle famiglie con bambini disabili ha focalizzato l'attenzione quasi
esclusivamente sui problemi del bambino con handicap e su quelli dei suoi genitori, ma credo sia
innegabile il coinvolgimento emotivo dei fratelli e delle sorelle «sani».
Quali le loro reazioni, i loro sentimenti, le loro fantasie, le loro angosce, considerando il particolare
clima in cui si trovano a vivere dopo l'arrivo in famiglia non solo di un nuovo fratellino, ma di un
nuovo fratellino estremamente bisognoso di cure e attenzioni in quanto malato?
Ultimamente ho prestato servizio in un Centro di riabilitazione occupandomi prevalentemente di
bambini nella fascia d'età 0-3 anni; mi sono trovata dunque molto spesso nella condizione di dover
comunicare alla famiglia la diagnosi, spesso terribile, del loro nuovo bambino e di sostenere i
genitori nei primi passi di un trattamento riabilitativo fondamentale, ma certo non risolutore. Ho
così avuto modo di entrare in contatto con i vissuti e le angosce di ogni membro della famiglia,
grazie anche alla importante funzione di tramite svolta dalle fisioterapiste, tecniche della
riabilitazione ma anche depositarie di paure, insicurezze e disagio dei genitori. Gradualmente ho
ampliato la mia ottica e la mia attenzione, includendo sempre più anche i bambini della famiglia, gli
altri figli, i fratelli sani. Raramente i genitori me ne parlavano, ero sempre io a dover domandare, a
chiedere come stessero vivendo la situazione, cosa sapessero di tutto ciò che stava accadendo.
La maggior parte delle volte la reazione dei genitori alle mie domande era di perplessità, come se
fosse una domanda fuori luogo, come se non sapessero rispondere, come se non vi avessero pensato
prima. E io pensavo a quei bambini che non venivano pensati dai loro genitori.
Proviamo a metterci nei loro panni, a vedere la situazione con gli occhi di un bambino di pochi
anni: durante la gravidanza della madre condivide l'attesa, la gioia e l'eccitazione per l'arrivo di un
fratellino, fantastica sui giochi che faranno insieme, pensa al nome da dargli, prepara la stanza о la
culla; certo teme che i genitori gli vorranno meno bene, soffre per la gelosia (che anche i genitori
più attenti non potranno evitare!), ha fantasie aggressive nei confronti del nascituro che, non ancora
arrivato, già cattura tante attenzioni. Non è infatti solo nella mente della madre che si sviluppa,
parallelamente allo sviluppo nell'utero, il «bambino immaginario», «il bambino della fantasia».
L'ansia e la gelosia dopo la nascita, in situazioni di normalità, possono essere affrontate e superate
dal bambino che, imitando i genitori, mostrerà di essere felice e tenero nei confronti del neonato.
Arriva il momento del parto, il bimbo viene rassicurato che dopo poche ore potrà rivedere i genitori
e conoscere il nuovo membro della famiglia; ma qualcosa non va come previsto e scoppia il caos. E
il bambino viene come dimenticato, affidato a parenti о conoscenti in un'atmosfera di crescente
angoscia. Le sue domande, se affiorano, trovano solo il silenzio, non vengono ascoltate veramente о
annaspano nella vaghezza di qualche risposta.
Gli adulti spesso ritengono che un bimbo piccolo non sia in grado di capire e quindi non forniscono
alcuna spiegazione; ma anche il bambino più piccolo può capire che il nuovo nato ha portato
scompiglio e magari manifesterà il suo disagio con cambiamenti nel ritmo sonno-veglia, nelle
abitudini alimentari, con una insolita irritabilità, con paure nuove e immotivate.
In un elevato numero di casi, anche quando si tratta di bambini più grandi, i genitori o i nonni
pensano di proteggerli tenendoli all'oscuro о dicendo bugie e rischiano invece di creare un'ansia
maggiore. Ancora più spesso la nascita di un figlio con handicap consegue a un parto prematuro,
improvviso, non previsto, carico di angosce di morte e con conseguenze anche per la madre. Un
vero shock. Cosa può passare per la testa di un bambino di fronte a tutto questo?
Lavorando con questi bambini in un contesto di psicoterapia ho notato che essi, anche a distanza di
molti anni, ricordano perfettamente ogni istante di quelle giornate, ogni frase che veniva loro detta
(o che, più spesso, origliavano di nascosto!) e tutti mi hanno detto più volte di essersi sentiti
«tagliati fuori», così soli e spaventati da non riuscire nemmeno a formulare una domanda. Ma con la
sensazione netta che qualcosa di terribile fosse accaduto, qualcosa che fosse magari colpa loro. Già,
perché la caratteristica principale del funzionamento mentale di un bambino è il pensiero magicoonnipotente: e quanti pensieri aggressivi, quanta rabbia nei confronti del nascituro! Questo potrebbe
far pensare al bambino di aver colpito nel segno, di essere stato lui o, meglio, la sua aggressività, a
far stare così male il fratellino.
Le lunghe ospedalizzazioni, le frequenti visite e i controlli, così come le terapie riabilitative о gli
interventi chirurgici portano di fatto lontano i genitori, e più spesso la madre, dal resto della
famiglia; innegabilmente la nascita di un fratello disabile mette questi bambini nella condizione di
dover affrontare ed elaborare l'allontanamento, sia concreto che emotivo e affettivo, dei genitori,
almeno per un certo periodo di tempo. Il processo psicologico caratterizzato da preoccupazioni,
paure e pensieri quasi esclusivamente incentrati sul figlio malato può far sì che i genitori riducano
molto la propria attenzione al resto della famiglia e alle relazioni affettive che stanno al di fuori
della diade genitore-bambino malato.
Valentina, 8 anni e mezzo, ha una sorellina di 6 anni affetta da mielomeningocele che alla nascita
viene ricoverata per due mesi e sottoposta a numerosi interventi chirurgici. Valentina, che all'epoca
aveva solo 2 anni e mezzo, sembra aver risolto il problema del bisogno e della dipendenza dalle
figure adulte di riferimento eliminandole. Durante una seduta di gioco inventa una favola e vuole
che io la scriva per lei: «Il coniglietto Piripicchio è un po' monellino. Abita nel bosco e ha una
sorella molto piccola, appena nata, cui un giorno qualcuno ha fatto del male: le ha dato un calcio
forte... Il papà e la mamma del coniglio sono morti e lui cura molto bene la sua sorellina. La
mamma è morta di una grave malattia, la coniglite, mentre al padre hanno sparato al cuore. La tana
della sua sorellina è vicina alla sua, così se lei chiede aiuto lui arriva subito».
La sensazione però più frequente è, a mio parere, quella di non sentirsi capiti, di essere esclusi,
tagliati fuori.
Agnese, una ragazzina di 11 anni, sorella di due gemelli maschi di cui uno sano (Giacomo) e uno
gravemente disabile (Paolo), ha effettuato una psicoterapia con me fino all'età di 17 anni; dopo circa
un anno e mezzo dall'inizio della terapia, in una seduta successiva a una saltata a causa di una mia
assenza, Agnese parla per la prima volta dei suoi vissuti legati alla nascita dei fratelli; in precedenza
infatti ne aveva parlato raramente e sempre limitandosi a una esposizione dei fatti, al limite con una
serie di insulti ai medici che, a suo dire, erano stati responsabili dei problemi attuali di Paolo.
Arriva in seduta in anticipo e appare molto agitata e arrabbiata: racconta di un tema eseguito a
scuola dal titolo Un'esperienza che non dimenticherò mai, me lo legge concitatamente (parla
appunto della nascita dei gemelli e del periodo successivo) e verbalizza la sua rabbia a causa del
voto solo sufficiente attribuitole. Mi domanda di darle un voto. Effettivamente nel tema ci sono
alcuni errori di grammatica e di sintassi, ma Agnese è furiosa perché non si è sentita capita in
questo suo raccontare un grande dolore e vive il voto come una profonda ingiustizia, tanto che ha
sfogato la sua rabbia verbalmente contro l'insegnante di lettere, divenuta «madre cattiva» in
contrasto con la terapeuta «madre buona» idealizzata.
Agnese piange a lungo durante la seduta e solo nel momento in cui si sente empaticamente capita da
me dice: «Nessuno si rende conto della vita di merda che faccio, con un fratello che non sarà mai un
bambino normale e un padre e una madre che gli dicono che è un deficiente e un handicappato... Io
non li sopporto! Poi litigano tra loro e non capiscono quanto io possa star male per tutto questo.
Nemmeno mia madre mi ha capito... la ritiene una cosa che ha vissuto solo lei... E i miei compagni
sanno che quello lì è mio fratello e ridono. Solo tu mi capisci davvero».
Chiedendomi di attribuire un voto al suo tema, vuole che in realtà le dica che è vero, che quella è
stata l'esperienza più brutta della sua vita; darle un voto positivo significa aiutarla a elaborare quel
dolore e quella furia omicida.
I vincoli superegoici, oltre che le richieste dell'ambiente, le impongono di occuparsi dei due fratelli;
nel corso della terapia, essendo pervenuta a un livello più evoluto di elaborazione dei propri vissuti,
è stata in grado di prendersene cura in modo affettuoso e responsabile, non negando che «a volte
non li sopporto... non c'ho proprio voglia di averli intorno!».
Non è frequente che nelle dinamiche psichiche di questi bambini si renda evidente una forte e
spontanea empatia nei confronti del fratello о della sorella disabile; emergono ambivalenze dettate
dalla competizione con un fratello «impegnativo» e bisognoso per avere le attenzioni e l'amore della
madre. La coppia genitoriale deve essere in grado di aiutare il figlio a confrontarsi con questi vissuti
attraverso la loro stessa capacità di affrontare ed elaborare il dolore mentale. Certamente i bambini
con genitori con serie problematiche di coppia, magari accentuate della nascita del fratello о della
sorella con handicap, sono quelli che risentono maggiormente a livello emotivo della situazione e
che possono arrivare a presentare un quadro francamente psicopatologico.
Daniele è un ragazzo di quasi 14 anni, con un fratello gemello, Luca, affetto da gravissima disabilità
neuropsichica e motoria in seguito a parto prematuro e anossia cerebrale; la madre ha sempre
gestito da sola il piccolo Luca, subendo anche accuse e colpevolizzazioni da parte del marito e dei
suoceri; il rapporto di coppia è entrato in crisi, tuttora non risolta. «Daniele è cresciuto da solo,»
dice la signora «io ero impegnatissima con Luca... Non mi rassegnavo. Non avevo mai tempo e l'ho
messo al nido già a 10 mesi.» Il marito ha riversato su Daniele tutte le sue aspettative di padre,
pretendendo da lui sempre il meglio, come se dovesse rendere il doppio, valere per due. Nulla di
quello che Daniele faceva, a scuola о nello sport, era mai abbastanza per suo padre; a scuola ha
iniziato ad andare sempre peggio e ha abbandonato ogni sport. Di lui il padre dice: «Ho perso le
speranze con lui: è condannato a essere un perdente, non sa nemmeno cosa vuole fare da grande...
ma se l'è voluta lui, non ci posso fare niente».
Daniele si sente isolato, è spesso da solo in casa (nel frattempo la madre è diventata membro attivo
di una associazione per genitori di bambini disabili), dove compie atti di danneggiamento nei
confronti di mobili e suppellettili, lamentandosi poi con la madre «che è tutto rotto e fa schifo».
Daniele si dichiara figlio unico. Non ha mai parlato di suo fratello a scuola, con gli amici о con le
insegnanti, nega la sua esistenza, dice di vergognarsi di lui, non ha mai invitato nessuno a casa; in
un paio di occasioni ha detto alla madre: «Non sarà facile che mi trovi una fidanzata... dovrà
piacerle Luca, se no...». Questa è un'altra grossa preoccupazione per i bambini: il pensiero che
dovranno essere loro a occuparsi dei fratelli una volta che i genitori non ci saranno più.
Francesco, un ragazzino di 11 anni con una sorellina gravemente disabile di 5, chiede fra le lacrime
alla madre: «Ma come farò? E se non sarò capace? Ogni tanto anche tu e papà non ce la fate con
lei... dovrò metterla in un istituto? E potrò sposarmi lo stesso?». Che pensieri pesanti per una mente
così giovane, insopportabili in solitudine! Questi pensieri carichi di angosce e di incertezze, di
vissuti di inadeguatezza e di colpa vanno necessariamente condivisi con mamma e papà.
Mamma e papà dovrebbero a loro volta condividere tutto questo con qualcuno che possa aiutarli
non certo a trovare risposte a domande così difficili, né a trovare parole о momenti più adatti,
perché questo è implicito nell'essere genitori e non credo possa essere insegnato; ma la condivisione
di questi aspetti può aiutarli a non trascurarli, a non rimandare spiegazioni о comunicazioni, a non
interrompere l'ascolto «perché fa troppo male sentire queste domande», può aiutarli a sentirsi meno
in colpa se ogni tanto li trascurano e, in definitiva, a far sentire meno soli questi bambini. Bambini
che credo abbiano il diritto di sapere cosa sta succedendo e cosa è successo, bambini che hanno il
diritto di essere ascoltati quando si chiedono che cosa succederà.
Martina, 6 anni, giocando con i pupazzetti della famiglia a un certo punto, quasi distrattamente,
bisbigliando, dice: «La mia mamma quando non ci sono io rimane con Simone. Quando ci sono io
invece c'è... per tutto il tempo della vita».
«Lascia questa campana di vetro, non la voglio più.» «Ma il vento...»
«Non sono così raffreddato. L'aria fresca della notte mi farà bene. Sono un fiore.» A. De SaintExupèry, Il piccolo principe
Parte quinta AFFRONTARE I PROBLEMI LEGATI AI CONFLITTI
E nasce nuovamente il giorno.
P. NERUDA, Diurno con chiave notturna
XI
Quando l'aiuto serve in tribunale Un'esperienza d'aiuto nelle aule giudiziarie
Come puoi tu sperare nella misericordia, se non ne hai nessuna?
W. SHAKESPEARE, Il Mercante di Venezia1
Quello che seguirà su queste pagine è un intervento un po' particolare e insolito sul tema della
relazione d'aiuto, che generalmente pensiamo riguardi più il campo sanitario о socio-assistenziale
che altri campi. Si tratta dell'aiuto di empatia e di comprensione umana (abbiamo visto finora che
sentirci capiti è in assoluto una delle maggiori forme d'aiuto che possiamo ricevere nei momenti
difficili) che si può avere all'interno dei tribunali da parte di chi esercita la funzione di giudice
tutelare, cioè della difesa dei diritti di una persona debole che non lo può fare da sé (minorenni,
malati, invalidi ecc).
La persona a cui ho chiesto di scrivere una riflessione della sua lunga esperienza in campo presso il
Tribunale di Milano è Marmetta Guida, che ha riunito in sé in questo esercizio due competenze
abbastanza distanti nella normale pratica: quella di una solida formazione giuridica e di una
altrettanto solida formazione psicologica e relazionale che difficilmente si trovano insieme.
Avere una competenza psicologica e relazionale in una professione d'aiuto, in qualsiasi campo
avvenga (scolastico, sanitario, di volontariato, socioassistenziale, giuridico ecc.) significa partire
dalla consapevolezza emotiva (quella razionale non basta) che in una relazione si gioca sempre in
due, con tutto il bagaglio che ognuno di noi si porta dentro, compresi i dolori, le ferite e i sospesi da
cui nessuna storia è indenne. Scegliere una professione d'aiuto corrisponde anche al tentativo più о
meno inconscio di aiutarci a riparare le nostre ferite aiutando gli altri: è importante esserne
consapevoli perché la relazione sia corretta nei confronti nostri e dell'altro.
Essere emotivamente consapevoli significa riuscire a osservare l'umanità dell'altro attraverso la
nostra, osservando anche ciò che avviene dentro di noi e tra di noi, sapendo per esempio che uno dei
meccanismi di difesa che inevitabilmente usiamo о possiamo usare nell'osservare l'altro che ne
siamo о no consapevoli è la proiezione, l'attribuzione al «fuori» delle nostre caratteristiche interne.
Questa deliziosa storiella zen rende bene l'interferenza dell'uso della proiezione nelle nostre
relazioni.
Un monaco zen viveva con suo fratello, cieco d'un occhio e idiota. Un giorno, proprio quando un
famoso teologo era venuto da lontano per parlargli, egli era stato costretto ad assentarsi. Disse allora
a suo fratello: «Ricevi e tratta bene questo erudito! Soprattutto non aprire bocca e tutto andrà
bene!». Il monaco abbandonò il monastero. Al suo ritorno andò di corsa dal suo ospite: «Ti ha
ricevuto bene mio fratello?» gli chiese. Pieno di entusiasmo il teologo esclamò: «Tuo fratello è una
persona notevole. È un grande teologo». Il monaco, sorpreso, farfugliò: «Come? Mio fratello, un...
teologo?».
«Abbiamo avuto una conversazione appassionante» continuò l'erudito «esprimendoci solo a gesti.
Io gli ho mostrato un dito, lui ha replicato mostrandomene due. Allora gli ho risposto, logicamente,
mostrandogli tre dita, e lui mi ha lasciato sbigottito mostrandomi un pugno chiuso che metteva fine
al dibattito... Con un dito io gli ho indicato l'unità di Buddha. Con due dita lui ha allargato il mio
punto di vista ricordandomi che Buddha era inseparabile dalla sua dottrina. Soddisfatto della
replica, con tre dita, gli ho dato a intendere: Buddha e la sua dottrina nel mondo. E allora lui mi ha
dato una risposta sublime mostrandomi il pugno: Buddha, la sua dottrina, il mondo, formano un
tutto. Questo vuol dire davvero superare se stessi.» Poco dopo il monaco andò da suo fratello:
«Raccontami com'è andata con il teologo!».
«È semplice» disse il fratello. «Lui mi ha provocato mostrandomi un dito per farmi notare che io
avevo un occhio solo. Non volendo cedere alla provocazione, ho risposto che lui era fortunato ad
averne due. Lui ha insistito, sarcastico: "Comunque, sommando quelli di entrambi, fanno tre occhi".
È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Mostrandogli il pugno chiuso l'ho minacciato di
stenderlo all'istante se non la smetteva con le sue malevole insinuazioni.»
Credo che questa storiella possa rendere bene il rischio dell'interferenza della proiezione nelle
nostre relazioni! Quello che noi diciamo о pensiamo degli altri in realtà infatti non sappiamo quanto
riguardi loro: è certo però che dice molto su di noi.
Un altro fattore importante, accanto alla consapevolezza di questo rischio, in una formazione
psicologica e relazionale (che parte sempre da un lavoro su di sé e il proprio funzionamento
mentale) è la qualità dell'ascolto e la nostra capacità о meno di metterci nei panni dell'altro,
partendo dal presupposto che, come dice Marmetta Guida, nella nostra vicenda umana siamo tutti
nella stessa barca e quello che oggi capita a un altro potrebbe in un domani capitare a noi. Perché
come diceva Shakespeare: «La misericordia è la virtù della legge».
Intorno a un'esperienza di lavoro e di vita
di Marinetta Guida
Ma tu lavori con i numeri о con le parole? GIACOMO, 8 anni
Per un lungo periodo della mia vita sono stata giudice tutelare. È un mestiere, nell'area giudiziaria,
diverso rispetto a quello del giudice: non si tratta di accertare se una persona abbia о non abbia
commesso un reato e quindi di pronunciare una sentenza di condanna о di assoluzione; né di
decidere, in una lite tra due parti che agiscono in giudizio per far valere i propri diritti, chi abbia
ragione e chi abbia torto, ma di assicurare, nei casi e nelle forme che la legge prevede, la tutela dei
soggetti deboli. Molte delle persone che si rivolgono al giudice tutelare sono in un momento
difficile della loro vita, sentono di aver bisogno di aiuto per sé о per gli altri di cui hanno la
responsabilità e, in varie forme, chiedono aiuto. Ed è questa l'area che illuminerò con un cono di
luce ora che, passato molto tempo, posso permettermi con la selettività così apparentemente
arbitraria del ricordo di ritrovare solo alcuni frammenti di quella che è stata per me un'esperienza
umana e professionale intensa, faticosa e bellissima. Restano nell'ombra tutte le altre aree di
competenza del giudice tutelare, gli aspetti tecnico-giuridici, quelli gestionali e decisionali, in
relazione alla persona e al patrimonio.
Emerge qui ora solo il versante della relazione d'aiuto e alcuni corollari.
Ho sempre sentito come le persone avessero bisogno, prima che di ogni altra cosa, di un certo tipo
di ascolto partecipe. E mi è stato congeniale rispondere a tono. Ma la connotazione importante che
qualifica in modo particolare tale tipo di rapporto d'aiuto è che esso si svolge in un edificio
giudiziario il tribunale e avviene tra le persone in difficoltà e il giudice.
Già entrare in un Palazzo di giustizia e andare davanti al giudice è un accadimento che suscita
risonanze emotive forti e che mobilita la persona a vari livelli, da quelli più consapevoli a quelli che
sprofondano in una parte sconosciuta di sé. È una situazione che in sé contiene un paradosso.
Proprio al giudice, che nel profondo è vissuto come una figura normativa e rigida, la persona chiede
l'ascolto. E proprio in tribunale può incontrare un «giudice-persona» che si mette in gioco
nell'ascolto, che entra in risonanza con la parte dolente senza collusione ma con empatia
contenitiva. E se cerco di mettere in parole la qualità di ascolto che intendo, innanzitutto penso
all'attenzione: un'attenzione protesa a cogliere tutto ciò che in quel momento accade, un momento
unico e irripetibile, come tutti i momenti dell'esistenza carichi di significato. Le parole usate, il
modo di parlare, l'attitudine, la postura, i gesti sono tutte modalità di comunicazione che esprimono
molto più delle cose dette.
Ma penso anche alla capacità di esercitare il ruolo uscendone: che non vi sia uno steccato tra
l'ascoltatore autorevole e la persona che ha bisogno, ma un fluire di empatia, pur nel rispetto dei
ruoli, per la consapevolezza che siamo tutti sulla stessa barca e, nell'imprevedibilità della vita,
potrei essere io, che ora faccio il giudice, a trovarmi domani su una sedia come quella dove ora sei
tu, e ad aver bisogno dell'ascolto attento e partecipe di un giudice tutelare. La qualità dell'ascolto è
importante sempre, anche nelle questioni patrimoniali di piccola entità che potrebbero apparire di
scarso rilievo. Dietro alla richiesta di autorizzazione per la vendita di un'autovettura, in tutto о in
parte di proprietà di un minore, per esempio, c'è in genere l'evento della morte di uno dei genitori
con tutta la sofferenza che ne deriva.
La signora ha i capelli bianchi ben acconciati, è vestita come chi da sempre è abituato al buon gusto
e all'agio. Parla con scioltezza sobria e spiega i motivi per i quali il ricorso per la perdita dell'auto di
un defunto si conclude con una richiesta insolita. Si esprime con proprietà e concisione e dà ragione
con distacco razionale dei motivi della richiesta.
Si tratta di sua nuora, che lei vuole aiutare ed è la prima connotazione sul piano dell'affettività a
sbrigare tutte le pratiche necessarie prima che ella ritorni in Svezia, suo paese d'origine, con il
figlioletto. Spiega che in Svezia la giovane vedova ha la sua famiglia d'origine e che le leggi svedesi
le daranno diritto a delle provvidenze per sé e per il bambino.
Così capisco che la donna che ho di fronte ha perso il figlio e sta con naturalezza e apparente
distacco aiutando la nuora a tornare in Svezia portando con sé il suo nipotino. La guardo negli occhi
con intensità, stupore, ammirazione. Solo a questo punto e in modo molto contenuto manifesta una
lieve commozione e mi dice: «Grazie per avermi capita».
Ma vi sono anche altre richieste che sono rivolte al giudice tutelare. Penso ai conflitti tra genitori
separati che hanno figli minori nella fase successiva a quella della separazione, che è già avvenuta
davanti al tribunale. Sono situazioni, quelle a cui mi riferisco, che non richiedono la modifica di
provvedimenti già presi dal tribunale. A volte non è necessaria l'emissione di un provvedimento da
parte del giudice tutelare: quando l'intervento ha un esito positivo sono gli stessi genitori a
riprendere in mano le fila dei loro rapporti. La persona chiede: «Tu che sei un giudice di' finalmente
che il ho ragione e lei ha torto, che tutto il male e il danno di questa situazione dipendono da lei e io
non ne ho "colpa", che se il bambino va male a scuola è colpa sua, che è lei che continua a essere
"cattiva". Io voglio che finalmente qualcuno un giudice, non uno qualsiasi ma un giudice queste
cose le veda e le dica e la dichiari "colpevole" (= esenti me dalla colpa, mi faccia senti re sgravato
dal peso della mia rabbia, mi renda "giustizia")».
Quali che siano le funzioni che il giudice ha in una situazione, quali che siano i suoi messaggi
verbali, egli comunque viene percepito come colui che deve «giudicare» (ius dicere), stabilire chi ha
ragione e chi ha torto rispetto a un riferimento superiore (ius, ma qui nel senso di giustizia).
Tuttavia la persona vuole una giustizia dei sentimenti che mai quale che possa essere il giudice
potrà trovare in un palazzo di giustizia perché essa passa attraverso l'elaborazione della propria
aggressività.
Il giudice potrà comunque aiutarla.
A volte ci vorrà un lungo lavoro per degiurisdizionalizzare il conflitto e farlo uscire dal binomio
delle richieste di giustizia, azionate in un modo о nell'altro in sede giudiziaria, e farlo defluire verso
l'area della elaborazione degli affetti (che le persone potranno affrontare da sole о con un aiuto
adeguato in sede terapeutica). A volte potrà essere efficace il solo intervento del giudice tutelare.
Sono i casi in cui la persona vuole innanzitutto e forse più di tutto essere capita. Vuole che il
giudice la segua giù giù sino al nucleo più dolente e inesplorato del suo soffrire, che non la lasci
sola con questo dolore, in gran parte indecifrato, che non si può esprimere. E poi risalendo, insieme,
sino al piano dell'operatività vuole essere aiutata a risolvere il problema che la affatica.
Nel rispondere ho cercato di dare il massimo con la tensione di cogliere l'unicità del momento e
l'effetto potenziante del ruolo, con la fiducia che la comunicazione arrivasse ma con la
consapevolezza che poteva anche non arrivare. Spendersi senza aspettative ma sapendo che l'essere
giudice ha una funzione di amplificazione e che l'attitudine di comprensione empatica da parte del
giudice ha effetti paradossali. Il paradosso può essere fecondo. È proprio l'inatteso che, con il suo
effetto di stupore per l'imprevedibilità, agisce come un terremoto sugli assetti sempre ripetuti e può
far sì che le persone «si vedano» mentre «agiscono» tra loro giochi ripetitivi e malsani. Può iniziare
così un processo di cambiamento.
Ma l'altro, in questo caso il giudice, mette nel crogiuolo di una comunicazione, che per la
coesistenza di tante circostanze può essere così pregnante, il proprio bagaglio di esperienza, di
dolore del vivere e di capacità di speranza. Dà un senso al proprio soffrire che diviene uno
strumento per avvicinare gli altri nella loro parte dolente e soccorrendo gli altri soccorre se stesso. E
siamo così alla motivazione sottesa alla professione di aiuto. Chi aiuta cosa chiede per sé attraverso
il suo «dare»?
Fa una richiesta impossibile: chiede di poter riparare le falle del suo passato e di ricevere dando
all'altro quello che egli stesso non ha ricevuto о ha sentito di non ricevere, ciò di cui egli stesso si è
sentito deprivato. A volte può trattarsi di una persona che solo dando sente di potersi permettere di
ricevere. È infatti incapace di concedere gratificazioni a sé e a suoi cari proprio perché vissuti come
parti di sé.
Può essere anche un modo per soccorrere una parte di sé bisognosa che ha chiesto aiuto e non l'ha
ottenuto о addirittura aveva così bisogno di accoglienza e tanta paura del rifiuto che non è stata
neppure capace di chiederlo. Come nel caso di Maria, 17 anni, e di suo padre.
Erano venute alcuni giorni fa la madre e Maria. Al mio disappunto per la presenza della ragazza, la
madre mi aveva risposto con sincerità che lei non avrebbe voluto portarla, ma Maria a ogni costo
era voluta venire anche lei. Il problema è l'atteggiamento del padre, nel quale Maria legge con
dolore abbandono nei propri confronti. «C'è un'altra» dicono entrambe madre e figlia e lui ha perso
la testa e con la testa pensa Maria l'affetto per lei. Negli ultimi tempi non versa quanto dovrebbe per
il mantenimento della figlia, ma di ciò la madre non fa una questione. Maria legge forse anche in
questo un «non prendersi cura».
La ragazza mi appare capace di affrontare un incontro e fisso una convocazione in cui ci saranno il
padre e lei. Il padre è un uomo di più di 40 anni, con un suo fascino sgualcito e l'aria da
insoddisfatto. All'inizio non capisce. Lei, Maria, è bellissima. Ha i capelli lunghi ondulati, biondi,
gli occhi scuri, un naso diritto e spiritoso e, quando sorride, una fossetta. Soffre le pene dell'amore
tradito. Il padre non capisce. Le chiede come mai ha sentito il bisogno di arrivare dal giudice e non
gli ha detto direttamente le cose. E per soprammercato, a giustificarsi, sempre senza capire, le dice
che lui ha tanti pensieri, tanti guai di lavoro che si dimentica di chiamarla e poi, quando se ne
ricorda, è troppo tardi. E ancora: «Ma perché non mi chiami tu?».
Parlo io per esprimere i sentimenti della ragazza. Dico al padre che quando si soffre troppo per una
cosa non si riesce a parlarne e che evidentemente Maria senza la mia presenza non ce la faceva a
parlargli. Gli dico che proprio quello che lui ha detto ferisce Maria, che vorrebbe sentirsi al centro
della vita affettiva del suo papà e non «dimenticata». Per lei è diverso ricevere le telefonate, che
sono un segno che il papà la cerca, ed essere lei a farle.
Poi parlo solo con il padre che nel frattempo ha cominciato a capire. È sincero, mi sembra, nel suo
dire. Dice che lui e la figlia erano legatissimi (lo aveva detto anche la ragazza quando era venuta
con la madre). Io dentro di me penso a tantissimi casi e, per dirne solo uno, all'amatissimo Ch. di
cui ho vissuto da vicino le traversie.
Il padre dice che lui non ha nessuna, che ha amato due donne ma che è finita sia con la prima che
con la seconda e che la figlia è la cosa più preziosa che ha. Ed è anche l'unica perché, per una scelta
che avevano fatto all'epoca, lui non può avere altri figli. Sento in questo accenno molto rapido il
senso di una castrazione voluta ma anche subita con una stilettata di aggressività nei confronti della
moglie.
Cerco di fargli capire cosa vuole da lui sua figlia, di ricollocarlo nel ruolo di adulto-padre rispetto a
questa creatura che pur così rigogliosa ha ancora dentro delle fragilità di bambina nel rapporto con
il suo papà. Lui capisce, dice che gli è stato molto utile l'incontro, che ha «sopravvalutato Maria». E
poi precisa; non sopravvalutata, perché Maria vale molto, ma non ha tenuto conto della sua parte
«bambina» e del ruolo di padre che spetta a lui. La ragazza ritorna davanti a me con il padre. E
luminosa, contenta, grata. Io valorizzo il loro rapporto. È il padre che vuole il numero di telefono
per potermi dire che tutto va bene. Li saluto entrambi, accompagnandoli alla porta. La ragazza, con
molta naturalezza, mi abbraccia e al mio augurio di stare bene, risponde: «Anche lei, se lo merita».
È capace di ringraziare, di ricevere, di sentire gratitudine: è una bella creatura.
(Mi colpisce la fantasia edipica; madre e figlia pensano a un'altra donna, che, a detta di lui, non ci
sarebbe. Quante volte la fantasia è più pericolosa della realtà!)
Altre volte, la motivazione che spinge a dare aiuto è più «impura!»: quando si provano sensi di
invidia disturbanti, spesso in gran parte inconsapevoli, si cerca sollievo nell'elargire operosamente
aiuto a chi ne ha bisogno. Ma anche in una «zona di penombra» la persona può dirsi: se sono io
quello che dà, ho più di te che ricevi, e posso riposarmi dalla fatica e dalla sofferenza di dover
invidiare. La relazione d'aiuto, pur nell'asimmetria delle posizioni, soprattutto quando avviene nella
maniera più autentica, contiene uno scambio. Non solo dà chi aiuta, ma anche chi chiede aiuto. Nel
raccontare la sua storia si espone fiduciosamente all'altro, gli riconosce capacità di comprensione e
lo arricchisce di un tassello di esperienza.
XII
Come difendere i bambini dalle immagini violente? Immagini di guerra
Lampi
Ieri l'Est, oggi l'Ovest.
T. KIKAKU, Haiku giapponese1
Non ci può essere pace fra i popoli finché non si impara che la vera pace è nel cuore degli uomini.
Tradizione orale Oglala Sioux
Quando camminiamo oggi per Milano, incontriamo sempre più di frequente, come credo avvenga in
tutte le grandi città, persone che chiedono la carità. Si tratta spesso di stranieri, che a volte
espongono le loro dolorose mutilazioni nei luoghi di maggior passaggio, oppure portano con sé dei
bambini per far presa sui passanti e impietosirli. È cambiato in generale il modo di chiedere la
carità. Molto diverso da come, quasi quarant'anni fa, lo faceva la vecchina sul retro dell'Università
statale, fra via Festa del Perdono e via Larga, che io incontravo ogni giorno quando frequentavo la
Scuola di specializzazione.
Quello era un chiedere la carità sommesso, senza ostentazione, dignitosissimo nel dare e ricevere.
Una piccola cifra, ma in cambio di una presina da cucina fatta all'uncinetto oppure, a scelta, un
mazzetto di quattro о cinque margheritine spontanee colte lì vicino sui prati dei giardini della
Guastalla: «È il pensiero che conta, i soldi non hanno valore». Mi veniva spontaneo e naturale darle
qualcosa, non mi creava lacerazioni, ne ho sempre ricevuto molto più di quanto non abbia mai dato.
Nella mia cucina c'è ancora una presina fatta da lei, ho sempre cercato di usarne altre per
conservarla con cura.
Oggi è invece completamente diverso quel che anche a me, come a tanti altri, credo, succede
dentro; certe modalità di esposizione mi lacerano, mi suscitano una gamma di emozioni difficili da
tenere insieme, tutte nello stesso momento, la pietà, la rabbia, il rifiuto, il fastidio, la fatica di
cercare di non dare per non avallare questa forma di sfruttamento dei bambini ma anche delle
proprie mutilazioni, con tutti i sensi di colpa conseguenti. Sono emozioni molto scomode, non è
facile contenerle tutte insieme e contemporaneamente. Quando riesco a farlo mi aiuto pensando che
in ogni caso il mio piccolo contributo lo do in altri modi, ma non è certo un grande aiuto, sono
piccole battaglie con me stessa da cui esco sempre sconfitta. So solo che preferisco uscirne sconfitta
piuttosto che cercare di non vedere e non sentire, di congelare le emozioni.
Spero sempre di trovare qualcuno che suoni davvero uno strumento, e non che faccia finta, per poter
dare in uno scambio reciproco, come mi succedeva con la vecchina della Statale quando ero
giovane.
Ma se anche una banalità quotidiana e normale come questa costa a volte tanta fatica, che cosa dire
invece delle immagini di guerra che imperversano sui nostri giornali e sugli schermi televisivi, in
un'esposizione continua al dolore e alla disperazione dell'altro che sarebbero anche i nostri se
fossimo nei suoi panni? Per sopravvivere non resta che farci l'abitudine, prendendo le distanze dalle
turbolenze di tutte queste emozioni. Tuttavia, prendere le distanze emotive rischia di congelare il
cuore, di mettere a tacere anche la pietas dentro di noi, che è il nostro patrimonio più prezioso. Che
fare, allora?
E i bambini, quelli che sono l'oggetto delle immagini e quelli che le guardano, come possiamo
difenderli? Come possiamo aiutarli ad avere fiducia nel futuro e in un mondo che si presenta così
alla loro esperienza di vita о anche semplicemente ai loro occhi?
«Chi ha visto il mio papà?» era l'appello straziante di un bambino americano di 8 anni sotto la foto
di un giovane uomo, dopo l'attacco alle Torri Gemelle del 2001. Ma la stessa frase potrebbe
scriverla un qualsiasi bambino di 8 anni afghano, iracheno, palestinese, libanese о anche israeliano,
dopo un bombardamento о un attentato. Per non parlare dei bambini che vivono i piccoli о grandi
conflitti in Africa. Che la soffrano sulla propria pelle о che la vedano nelle mille immagini dei
media, i bambini di oggi sono tutti esposti agli orrori della guerra. Attraverso i giornali о la
televisione la sua mano raggiunge anche quelli che non la vivono direttamente, da qualsiasi parte si
trovino, persino all'interno delle loro case e nel tepore dei loro letti.
Come possiamo allora difenderli e attrezzarli davanti a queste immagini che mettono
profondamente in crisi anche noi adulti? Che parole dare per aiutarli a non congelare le emozioni,
ma contemporaneamente per non lasciarli soli in mezzo alle tempeste emotive che inevitabilmente
suscitano? Come spiegare la logica di una mina giocattolo destinata a far saltare in aria о а mutilare
dei bambini, visto che sono loro, e non gli adulti, quelli che giocano con i giocattoli? Come spiegare
che ci sono degli adulti, magari dei padri di famiglia, che le pensano, le progettano, le costruiscono,
le vendono, le comprano e le usano esattamente con questo scopo?
È un terreno dove le domande si possono solo accumulare senza risposte, dove anche noi adulti ci
sentiamo totalmente, inesorabilmente, inermemente impotenti.
L'unica cosa che è nelle nostre mani e che possiamo fare è ascoltare, aiutare a dare parole alle
emozioni (un orrore espresso a parole diventa più tollerabile), stare vicini, non lasciarli soli davanti
a qualcosa più grande di loro.
L'intervento che segue, a cura di Nicole Janigro, psicoterapeuta junghiana con alle spalle
un'esperienza di giornalista esperta di guerra, vuole semplicemente aggiungere domande a
domande, senza risposte, a un tema così doloroso da «violentare la mente».
... vi è solo l'inferno che brucia col sangue di bimbi sgomenti tra case distrutte ed anche il pensiero
violenta la mente carezza l'assurdo un urlo nell'aria la rabbia dei vinti.
L. SOMMA, La rabbia dei vinti1
Le immagini per dirlo
di Nicole Janigro
Se verrà la guerra, Marcondiro'ndera se verrà la guerra, Marcondiro'ndà sul mare e sulla terra,
Marcondiro'ndera sul mare e sulla terra chi ci salverà?
La guerra è già scoppiata, Marcondiro'ndera la guerra è già scoppiata, chi ci aiuterà.
La guerra è dappertutto, Marcondiro'ndera la terra è tutta in lutto, chi la consolerà?
E DE ANDRÈ, Girotondo
La televisione e le immagini di guerra: problema quanto mai attuale, soprattutto se pensiamo ai
bambini. Della televisione si può fare allo stesso tempo un buono e un cattivo uso. Buono: il
prolungamento, durante gli attacchi libanesi dell'estate 2006, delle trasmissioni della televisione
israeliana anche di notte con programmi ad hoc per i bambini che stavano nei rifugi. Cattivo: la
diffusione delle immagini di ragazzine israeliane che scrivono sui proiettili d'artiglieria che saranno
lanciati sul Libano «Per Nasrallah con amore, da Israele». E subito dopo, dal Libano, quella di una
madre che tiene in braccio il figlio appena nato: lo ha chiamato Raad, come i missili degli
Hezbollah.
Apocalypse Now, Platoon, Full Metal Jacket sono stati la scuola di addestramento di chi, con il
walkman e le scarpe da ginnastica, ha imitato i soldati americani che strisciavano nelle risaie del
Vietnam, e nelle guerre interiugoslave di fine Novecento è entrato come in un film.4 Gli spettatori
statunitensi che hanno visto in anteprima le scene di United '93, la pellicola del 2006 di Paul
Greengrass sull'aereo caduto l'11 settembre 2001 in Pennsylvania, hanno protestato: troppo presto
per trasformare in fiction l'attentato alle Torri. Dalla guerra di Crimea le prime foto di un campo
pronto alla battaglia, i soldati in posa a oggi, la storia della guerra è inesorabilmente intrecciata con
le immagini che, a mo' di dispacci, l'hanno trasmessa. Eccessive о asettiche sembrano destinate,
ogni volta e di nuovo, a fallire il bersaglio: la banalità del male non riesce a sfuggire alla banalità
delle immagini.
Della guerra non sentiamo gli odori e gli umori, la puzza dei cadaveri, «la fame, i parassiti, il fango,
e quei rumori pazzeschi» (Otto Dix). Non vediamo mai le pupille di chi sta per morire, ma ogni
giorno in tv file di corpi accatastati in una fossa comune.
Nella nostra epoca l'esibizione della morte e della violenza è incredibilmente amplificata dalla sua
trasmissione «visiva», che pone al centro l'esposizione del corpo: il corpo fotografato, il corpo fonte
e documento. Il corpo del nemico ucciso che serve per umiliare e spaventare il nemico ancora vivo,
chi resta.
Nell'uso delle immagini, il dibattito è aperto fra chi sostiene che, come appunto può accadere anche
per la sessualità, le troppe scene violente possano avere un effetto inibitore e chi invece ritiene che
producono la necessità di aumentare la dose о di passare all'atto o, meglio, rendono quasi
impercettibile il passaggio all'azione.
Per noi, occidentali ed europei, costretti davanti al piccolo schermo, Davanti al dolore degli altri,
vedere la guerra è oggi la modalità prevalente di entrare in contatto con la sua potenza, e l'atto del
guardare costruisce lo status dell'evento visuale, rappresenta il modello visuale del potere nella
cultura globale.
L'attacco alle Torri Gemelle di New York ha confermato il nostro essere soggetti visuali,
condannati ad assorbire le radiazioni emesse da quel «focolare virtuale» che diffonde dappertutto
un'atmosfera e un lessico familiari, come in ogni continente è avvenuto appunto l'11 settembre. Il
contatto con il Male avviene sullo schermo, l'esposizione prolungata ci porta the war inside, gli
effetti collaterali sono in primo luogo psichici, la paura si insinua negli aerei e nei metrò, penetra
nei sogni.
Come difendere i bambini dalle immagini violente?
Il grande occhio del mondo che fissa la parcella del pianeta in quel momento illuminata dai media
tende a trasformare anche la guerra in un fenomeno estetico, fra paesaggi esotici e colori poetici. Lo
spettacolo proposto modifica il sentire che coincide con la visione di una riproduzione senza sonoro
e senza fisicità.
Ogni città sotto assedio si trasforma in un fenomeno estetico. È nella relazione con le immagini,
contemporaneo amalgama di etica ed estetica, che si misura la nostra attrazione/repulsione nei
confronti della guerra e della violenza.
Dalle immagini all'immaginazione: la guerra di Mario
di Nicole Janigro
La fantasia l'invenzione la creatività pensano,
l'immaginazione vede.
B. MUNARI, Fantasia
Il bambino del ghetto di Varsavia, la bambina vietnamita che corre bruciata dal napalm, il ragazzino
di Soweto con l'amico morto fra le braccia, il padre palestinese che non riesce a proteggere il figlio,
i bambini afghani, iracheni, con le flebo e le stampelle... Se scaviamo nella memoria ci accorgiamo
che spesso il ricordo bellico si è fissato intorno a un'istantanea che minaccia il cucciolo dell'uomo.
Nei miei ricordi d'infanzia nella Iugoslavia degli anni Cinquanta, i racconti delle maestre riferivano
di scolaresche fucilate, di bambini infilzati sulle baionette.
La memoria dell'orrore al quale si era sopravvissuti toccava con le parole del racconto, il terrore era
nella voce di chi ricordava, non c'era inquadratura. Nel vuoto di immagine10 ciascuno usava la sua
immaginazione. Per me ogni aereo era un possibile allarme.
Bambini e guerra: un accostamento inaudito, da sussurrare. Riconoscere che tutte le guerre e da
sempre colpiscono anche i bambini appare qualcosa di incommensurabile a chi pretende che la
macchina militare abbia un fine razionale. La carezza di Ratko Mladic sulla testina bionda del
ragazzino di Srebrenica, prima di dare l'avvio al massacro di diverse migliaia di uomini bosniaci,11
vuol significare: guardate, non faccio del male ai bambini e, insieme, se li accarezzo vuol dire che
non posso fare del male. Ma il bottino delle «nuove guerre» è la popolazione civile, e i più piccoli
ne sono la componente più vulnerabile, perché i più colpiti dalla penuria, i più esposti nei confronti
delle mine giocattolo, prede come guerrieri negli eserciti bambini,12 più facilmente raggiungibili da
ogni tipo di arma essendo in perenne movimento.
Quando si parla di Male e di Violenza, in pace come in guerra, i bambini si vorrebbe poterli
dissociare. Eppure, proprio nelle immagini, vanno in coppia: i bambini sono il logotipo della guerra,
però sono anche il simbolo usato da chi la combatte. Sono ritratti per dire basta all'escalation del
conflitto, per scuotere le opinioni, per commuovere, sono sempre loro i marchi delle raccolte fondi.
E là dove il contatto con la guerra avviene per mezzo delle radiazioni del tubo catodico13 «Io ho
visto in televisione che c'era la guerra», «Ho sentito parlare della guerra nel telegiornale», «Io ho
sentito alla tv che facevano la guerra» si vorrebbe che i bambini non avessero visto.
Ed ecco le infinite discussioni sull'uso del mezzo televisivo, intorno a quel qualcosa che non si sa
come si diffonde dentro. Sono immagini che i più piccoli «buttano fuori»: sono i disegni appesi alle
pareti di ogni asilo, alle tende di ogni campo profughi,14 sono le case solide/traballanti/scoppiate, il
contenitore sempre dei sogni e del cuore,15 è la guerra che l'adulto a volte scopre attraverso il
disegno del bambino.
La guerra di Mario il film di Antonio Capuano del 2005 dice bene la difficoltà di creare
un'immagine onirica, la lotta che il bambino deve sostenere con le figure in bianco e nero della sua
immaginazione, e non importa che il mondo fuori sia a colori. Mario fatica a inserire i suoi
fotogrammi psichici in un senso di vita, in una narrazione che per farsi ha bisogno di avere di fronte
un altro. L'inflazione dell'immaginario deriva infatti anche da una profonda sofferenza. In situazioni
individuali (e collettive) insopportabili l'immaginario compensa l'insostenibile della realtà, diventa
una forma di protezione. Come il silenzio, inconscio e inconsciamente negato. Perché le
informazioni visuali, come già notò Walter Benjamin riflettendo sulla Grande Guerra, non
accrescono la nostra capacità di narrazione.
Per elaborare e ricordare ci vuole una storia, la possibilità per l'Io di ritrovare il suo centro nel
mondo, infatti in situazioni estreme si ricorre spesso al diario,16 ci vuole un'epica.
Impossibili da rimuovere e scacciare le immagini ci chiedono ascolto, di passare dalla visione
all'emozione, dall'emozione alla narrazione. Di diventare noi cacciatori di immagini che nutrano,
trasformino, trascendano. Che possano indurci in contemplazione. Alla dissociazione delle parti può
subentrare così un processo d'integrazione simbolica, che l'immagine mette in scena, ristabilendo il
rapporto tra ignoto dell'uomo e ignoto del mondo.
Senza dimenticare quanto ritemprante possa essere la crudeltà di una fiaba.
C'era una volta lo scemo di un villaggio, Yanushka, Yanushka Durachuk, che sua mamma mandava
ogni giorno dall'altra parte del ponte a portare il pranzo ai fratelli maggiori che lavoravano nei
campi. Per Yanushka, che era tonto e fannullone, sua madre metteva solo un pezzo di pane per tutto
il giorno. Una volta si aprì improvvisamente un buco nel ponte, о meglio nella diga, e l'acqua
cominciò a passare minacciando di sommergere tutta la valle. Yanushka, che proprio in quel
momento stava passando, prese l'unica fetta di pane che sua madre gli aveva dato e tappò il buco
nella diga, per salvare la valle intera. Per caso stava passando anche il vecchio re, il quale, vista la
scena se ne meravigliò sommamente e chiese a Yanushka: «Perché l'hai fatto?». Questi gli rispose:
«Che significa, vostra maestà? L'ho fatto perché non si allagasse tutto, altrimenti chissà quanta
gente sarebbe affogata, per carità». «Che cosa mangerai adesso per tutto il giorno?» «Insomma, se
non mangio oggi, vostra maestà, che succede? Mangeranno altri, e io mangerò domani!»
Il vecchio re non aveva figli, e rimase così commosso dal gesto di Yanushka e anche dalla sua
risposta, che decise lì per lì di farne il suo erede al trono un re durka, cioè un re scemo e anche
quando Yanushka ormai sedeva sul suo trono tutti continuavano a ridere di lui, tutto il suo paese
rideva di lui e anche lui rideva di se stesso: stava accomodato tutto il giorno sul trono, facendo
smorfie di ogni sorta. Però pian piano si capì che sotto il governo di re Yanushka lo scemo non
scoppiavano mai guerre, perché lui non conosceva l'aggressività, la vendetta, il rancore! Alla fine,
ovviamente, i generali lo assassinarono e si presero il potere e, ovviamente, si offesero per l'odore di
stalla che arrivava loro da oltre il confine con la nazione vicina, dichiararono guerra e tutti morirono
in battaglia, e anche la diga che re Yanushka durciuk aveva tappato tempo prima con un tozzo di
pane, anche quella fecero saltare, e così tutti affogarono giulivi, in tutti e due i paesi.
XIII
I conflitti con il nostro stesso corpo Costruire un'armonia con il nostro corpo, dimora dell'identità
... ogni viaggio è una nuova vita e la vita intera non è che un viaggio.
WANG YPEI, Il viaggio
Uno dei conflitti che ingaggiamo oggi più frequentemente senza averne spesso la consapevolezza e
pensando invece di averne cura è quello con il nostro stesso corpo, vissuto come sempre inadeguato
alle nostre aspettative. E se questo è del tutto comprensibile in adolescenza lo è un po' meno da
adulti. Anche senza cadere in situazioni estreme e patologiche come l'anoressia, è difficile trovare
un adolescente che non abbia qualcosa da rimproverare al proprio corpo: о il naso troppo lungo о
troppo corto oppure storto, о gli occhi di quel taglio о di quel colore, o i capelli di quel tipo, о la
cellulite su certe zone о l'eccesso di peluria, о l'altezza о il peso e così via.
Si potrebbero riempire volumi interi con l'elenco di ciò che agli adolescenti non piace del proprio
corpo. In realtà in genere il problema non riguarda davvero il corpo, ma semplicemente l'immagine
che l'adolescente ha di sé nella sua mente, carica delle ansie e delle tensioni interne caratteristiche
dell'età e sempre vissuta come inadeguata rispetto a un ideale modello mentale.
Ma questa caratteristica tipica dell'adolescenza oggi sembra essersi estesa ad altre età della vita e in
particolare a quella che segna il passaggio alla terza età e prelude alla vecchiaia. In questo caso in
realtà il vero conflitto sottostante non è con il proprio corpo e la sua immagine, ma con lo scorrere
del tempo e l'invecchiamento che il corpo testimonia con i suoi cambiamenti.
Ed ecco quindi intervenire tutto ciò che illusoriamente può dare l'impressione di riuscire a fermare
questo invecchiamento: i capelli tinti, gli interventi di chirurgia plastica, i rifacimenti di parti del
corpo, il cancellare le rughe e così via. Il tutto nell'illusione che esista il paese dell'eterna giovinezza
e dell'immortalità che nessun viaggiatore nella storia dell'umanità, a partire da Gilgamesh, ha mai
trovato.
Il corpo corre il rischio di trasformarsi così da sede preziosa della nostra stessa vita e identità quasi
in un nemico di cui combattere sempre qualcosa, con cui essere costantemente in conflitto e di cui
non accettiamo mai i limiti, che sono invece strettamente legati alla vita. La vita come è e si
presenta nella realtà, imperfetta per eccellenza e sempre diversa da come noi la vorremmo nella
nostra mente. Eppure noi siamo il nostro corpo, siamo vivi solo ed esclusivamente perché abbiamo
un corpo in cui scorre la vita che ci permette l'esperienza di essere al mondo. È solo quando ci
ammaliamo anche nel corpo che ci rendiamo conto di quanto esso sia prezioso e insostituibile,
qualsiasi aspetto, caratteristiche e peculiarità abbia. È il nostro patrimonio vitale più prezioso,
unico, irripetibile, insostituibile, assolutamente necessario ed essenziale alla vita stessa e
all'esperienza di vivere.
Aiutare un bambino a costruire una relazione armoniosa con se stesso e il proprio corpo può
diventare dunque un patrimonio importante per accompagnarlo nella vita.
«Saper accogliere il nostro corpo in una dimensione affettiva e poter averne cura e attenzione è una
modalità di crescita» dice Lucia Chemello, coreografa e insegnante di danza moderna, nonché
psicologa e psicoterapeuta. Il metodo da lei inventato nei suoi laboratori di Armonia corporea e
danza si colloca fra quelli che hanno come obiettivo l'aiutare i bambini a costruire una relazione
armoniosa con il proprio corpo, a viverlo in una dimensione affettiva e a poterne avere cura per
trasformarsi da brutti anatroccoli in cigni. Ci si può trasformare anche con un corpo affetto da
nanismo, si possono ritrovare un incontro e un'armonia con se stessi anche là dove prima c'era una
lontananza apparentemente incolmabile, si può cominciare a fare qualche passo verso la costruzione
di un legame con l'altro e con il gruppo là dove prima c'era ritiro e isolamento.
Anche qui, come per le precedenti testimonianze raccontate in questo volume, si tratta di
un'esperienza che non è una psicoterapia, ma ciò che vi succede ha tuttavia una valenza terapeutica
e può essere d'aiuto sia in uno sviluppo evolutivo «normale» о «sufficientemente buono» sia in uno
con delle difficoltà particolari. E, soprattutto, è un modo, uno dei tanti possibili, di integrare la
nostra parte più oscura, ma anche più ricca: l'ombra.
Afferma Lucia Chemello in un libro in preparazione sul suo metodo:
Comprendere e prendere confidenza con il nostro «miglior nemico» ombra significa conoscere e
avvicinare quella parte di noi che spesso non amiamo e che preferiamo dare ad altri, su cui
proiettiamo come nel gioco delle ombre cinesi il lato nascosto di noi....
Integrare l'ombra è come allargare la nostra dimora interna, scoprire stanze buie che ci bloccano e
per paura non osiamo aprire: significa rinunciare e quindi far morire quel Narcisismo che ci chiude
prigionieri e impotenti nella vera e unica stanza buia della nostra vita, quella della patita solitudine
dove l'altro non esiste perché noi non possiamo vederlo; è quindi smettere di pensarci solo belli,
buoni, eroi, bravi, giusti... lasciando andare questo aspetto doloroso e pesante della perfezione
onnipotente Narcisistica....
Integrare l'ombra significa fare la pace con una delle due facce di sé.
Quando il sole ci illumina anche l'ombra ci accompagna.
Parole in movimento
di Lucia Chemello
«Quando vado via, maestra, mi porto a casa
i sorrisi delle mie compagne.»
GIULIA, 7 anni
Per raggiungere un bambino nel suo linguaggio emotivo è necessario raggiungere anche il nostro
bambino interiore e farli incontrare. Questo si può fare creando un ponte attraverso cui ci si possa
trovare, tenendo presente che le due sponde del fiume sono rappresentate da un adulto che va verso
un bambino e un bambino che, passo dopo passo, diventerà un adulto.
Il linguaggio emotivo si sposa molto bene con il linguaggio non verbale; il corpo va inteso come
una vera e propria funzione psichica, al pari della memoria, della percezione, dell'apprendimento e
può così considerarsi lo sfondo di ogni evento psichico. Il corpo esprime ciò che si è, prima ancora
di comprendere ciò che si è; guardarlo come un amalgama di organi vitali diventa riduttivo,
ascoltarlo e osservarlo come contenitore di contenuti simbolici e inconsapevoli può essere una
diversa e utile chiave di lettura.
«La trasmissione del vivere non è solo biologica, ma anche psicologica» scrive Alba Marcoli nel
suo libro Il bambino perduto e ritrovato: oserei aggiungere che è anche esperienziale corporea. La
cura di un bambino, come di un adulto, «toccato "con tatto"» nella sua esperienza corporea, lo
trasforma e lo prepara profondamente a un paziente lavoro nella costruzione della propria «dimora»,
della propria identità. In questo senso il corpo è come una casa nella quale abito e vivo la mia
quotidianità e dove posso far entrare umori, odori, sensazioni, profumi, ricordi. In quella casa che è
il mio corpo, suono musiche e danzo per alimentare lo spirito che ci abita.
Sara, per esempio, dopo alcuni anni di esperienza di Armonia corporea un metodo somato-psichico
da me inventato e sperimentato nel tempo comincia a sentirsi, a percepirsi: riesce a esprimere
quotidianamente i suoi bisogni, sentimenti, desideri con un ventaglio di opportunità, sfumature,
passi, parole che non sapeva di trovare dentro di sé nella relazione con gli altri e, soprattutto, non
sapeva dove cercare. Quando arriva, all'età di 9 anni, nel laboratorio di Armonia corporea e danza
mi sembra un piccolo, rotondo anatroccolo: si nasconde, aggredisce chi l'avvicina, non parla, si
muove a scatti, mangia tutto quello che le viene dato e anche di più; man mano che nella forma
occupa spazio, per paradosso diventa sempre più invisibile ai suoi occhi e a quelli degli altri che la
evitano.
A piccoli passi, con uno sguardo di fiducia e di accoglienza, con l'esperienza della danza e di una
nuova forma di sentire che si esprime in termini cinetici come per esempio, la possibilità di
esplodere, crescere, svanire, trascorrere, fluttuare e così via segue delle sequenze di sviluppo del
movimento parallele allo sviluppo emotivo-evolutivo della crescita. E, da «brutto anatroccolo» che
era, a 14 anni ha potuto indossare l'abito del «cigno». Durante un particolare evento coreografico,
ha trovato la capacità di reggere lo sguardo altrui, sentito prima giudicante e persecutorio e oggi
trasformato, in quanto il suo corpo è abitato dal suo spirito emotivo e affettivo e riconosce la
bellezza dello stare con e insieme agli altri in una diversa modalità di approccio corporeo. Saper
accogliere il nostro corpo in una dimensione affettiva e poter averne cura e attenzione è una
modalità di crescita.
Quello che da anni mi accingo a sviluppare e proporre con il mio metodo di Armonia corporea in
gruppi di bambini, adolescenti e adulti è vivere il proprio corpo, in una possibile armonia tra ciò che
lo spirito dentro di noi promuove e ciò che il nostro corpo sente e trasmette alla nostra mente, la
quale, infine, si occupa di tradurre, di interpretare e di dare forma pensata alle nostre emozioni in
relazione al mondo che ci circonda. La testa e la pancia, contenitori di una parte che traduce e di
una parte che si muove, sono molto vicini a un tipo di azione che si può chiamare «tutto о nulla», un
agire, un sentire, un pensare per opposti. Ciò che fa sì che quello che si muove nella pancia dentro il
nostro mare interno che bagna tante sponde del nostro essere possa essere trasformato e acquisire un
senso, diventare un'azione congiunta e non disgiunta, è l'intervento accogliente, affettivo, non
giudicante e controllante bensì riflessivo del cuore che prende ritmo о perde ritmo a seconda di
come il ponte tra le due sponde, tra le due parti, è stato costruito da quando respiriamo e quindi
abbiamo preso vita.
Crescere corporalmente per un bambino è una scoperta e una sorpresa quotidiana. Noi adulti spesso
diamo per scontato ciò che non è assolutamente tale e che invece agli occhi di un bambino, о del
nostro «bambino nascosto», fa paura. Nel gruppo di Letizia (7 anni) c'è una mescolanza voluta di
esperienze cronologiche che va dai 7 agli 11 anni. Attraverso la situazione di spettatore-attore il
bambino nel gruppo assiste e sperimenta allo stesso tempo il proprio e altrui comportamento in fasi
evolutive vicine ma anche diverse.
Abbiamo affrontato lentamente il delicato tema del cambiamento nella crescita trasformandoci in un
grande albero.
Alcune bambine scelgono di essere la fronda dell'albero -e sono le più piccole di età -, altre
preferiscono essere il tronco e altre le radici. In percentuale chi sceglie di essere radice è il piccolo
gruppo delle più grandi (10-11 anni), a parte Letizia. Questa esperienza la vivono tutte insieme
muovendosi a terra, nella rappresentazione del grande albero. Dalla fronda c'è qualche frutto che
cade e ritorna alla terra, una fogliolina vola via. Il tronco crea dei nodi, sale, si allunga, diventa
riparo per qualche animaletto, si piega al vento e così via. Infine le radici mutano forma, diventano
più profonde, sotterranee oppure si espandono in superficie uscendo dal terreno che si rompe alla
loro forza. Tutto insieme il gruppo delle bambine vive la propria dimensione, scelta liberamente.
Dopo il movimento non verbale si passa a una seconda fase dove il gruppo si chiude in un cerchio e
verbalizza la propria esperienza, aggiungendo un tassello a quella precedente. La chioma viene
ricollegata alla testa, alle idee, ai progetti, ai pensieri che mutano nel tempo, il tronco alla struttura
corporea nella sua variabilità di forme e posture, le radici sono l'anima, lo spirito, la storia fatta di
racconti, di ricordi transgenerazionali, di segreti, di percezioni che più о meno consapevolmente
prendono posto nella propria esperienza. Attraverso la corporeità о linguaggio del corpo, si vive la
relazione tra le parti, testa-cuore-pancia, mente-corpo-anima. In un terzo momento, il gruppo
sperimenta la propria unicità come singolo albero fra altri alberi, in una foresta dove ognuno crea la
propria originalità, con le proprie radici, il tronco, i rami e le foglie nel contesto più adatto al
proprio sentire.
Vivere l'esperienza corporea non verbale e arrivare poi alla verbalizzazione è un arricchimento
paziente ma profondo di apprendimento e di accoglienza della possibile e necessaria separazioneindividuazione di sé, non isolandosi ma trovando un proprio spazio e una propria capacità di ascolto
e di espressione autentica di un sentire che passa attraverso il corpo.
Ludovica (10 anni) dopo questa esperienza dice al gruppo: «Io ho danzato come radice dell'albero e
la mia radice mi ha fatto ricordare i nonni, il passato; tutti hanno lasciato qualcosa di importante per
noi, prima di noi». «La mia radice» dice Camilla (8 anni) «è bella grossa in modo tale che si possa
vedere che esiste.» E Alice (8 anni) aggiunge: «La mia chioma è ricca di foglie e sta in compagnia
di tanti amici che si vogliono bene». Diventa a questo punto una danza circolare di parole in
movimento che alimentano il gruppo attraverso un dialogo che si trasforma prima in un passo a due
tra il proprio mondo interno e quello esterno e dopo in una scrittura coreografica corale di
movimenti ascoltati, accolti e ricreati dal gruppo stesso. Nella mia esperienza ho imparato a usare lo
strumento della danza come canale alternativo di un possibile altro linguaggio comunicativo. Nella
vita di un bambino usare uno strumento ponendosi da un altro punto di vista è altamente creativo.
Entrare nella tecnica non per fare ma per scoprire quello che si può essere e quello che si può
inventare e diventare è una delle scoperte più significative e fondanti.
Mettersi accanto a un bambino per me significa entrare in un linguaggio che, attraverso un gioco
condiviso, diventa altro. Non è più il mio linguaggio, né quello del bambino, ma è un altro modo di
guardare il mondo, quindi una relazione nuova che si sta instaurando e allargando in una visione, in
un'esperienza che potenzialmente si può creare dal nulla.
Partendo da un approccio corporeo il mio scopo è quello di arrivare a costruire nella mente e
nell'esperienza emotiva del bambino, dell'adolescente, dell'adulto, un'armonia corporea. Cosa
significa? Attraverso l'esperienza più intima e più personale con il mio sentire corporeo posso
gradualmente giungere a scoprire, partendo da piccole cose, da piccoli passi, quali sono le mie
potenzialità, i miei limiti, le mie ferite nascoste, le mie aspirazioni e predisposizioni e condividerle
con chi mi sta accanto per un breve о lungo periodo di vita.
«Gli incontri non vanno catalogati, ma vanno ricordati e coltivati dentro di sé» mi disse un giorno
un saggio signore dai capelli bianchi, incontrato in treno. Così è anche con i bambini che per caso о
per qualche motivo entrano nello spazio di questo laboratorio di Armonia corporea e danza.
Possono essere periodi più о meno lunghi di esperienza in comune ma profondamente vissuti nella
responsabilità di ciò che può significare questa relazione nel proprio cammino di crescita. Valentina
(9 anni) mi scrive una lettera prima delle vacanze estive:
Cara maestra, a volte accendo la radio, danzo e mi sembra di volare, di essere una farfalla che si
libra nell'aria. Si prova una sensazione bellissima. Niente può descrivere veramente quello che
provo per la danza, che per me è tutto. Grazie perché me lo hai fatto capire. Non pensavo di scoprire
in me questo lato, che per me è una grande qualità. I bambini, come tu sai, hanno degli idoli che
possono essere personaggi dei fumetti, della televisione.. . per me, invece, il mio idolo sei tu. Sappi
che sei nel mio cuore. Per ora non posso darti più di un bacio e un abbraccio ma ti prometto che
quando ritornerò a danza ti darò molto di più.
Questo metodo di approccio alla danza e alla propria espressività permette a volte di vivere un
mondo di significati e di affetti condivisibili in una forza comunicativa che può far crescere senza
confondere i ruoli, le differenze, lo spazio e il tempo che attraversiamo insieme. Far sì che un
bambino riesca a volare dal suo nido e provi piacere nel suo sperimentare se stesso in un panorama
più о meno aperto è un progetto di vita. Per tale motivo, quando un bambino arriva in uno spazio
come un laboratorio di questo genere, impara ad apprezzare i doni principali della sua vita: a
cominciare dai sensi, a godere di essere corpo e non solo di avere un corpo. Lisa, una bellissima
bambina, ha frequentato il laboratorio dai 7 ai 13 anni. La mamma, preoccupata per il suo cucciolo,
sentendo parlare di questo spazio dove i bambini, attraverso il gioco e il piacere della danza
possono trovare anche un certo aiuto e sostegno nei momenti di difficoltà, decide di farla
partecipare ai gruppi. Lisa stava attraversando un periodo particolarmente difficile e confuso: i suoi
genitori si stavano separando e con notevoli disagi affrontavano la situazione. Di fronte a questo
grosso cambiamento Lisa era diventata una bambina «congelata», mutacica, e da un po' di tempo
non esprimeva più alcun sentire, né a livello verbale né a livello corporeo-emotivo.
Rimaneva chiusa nel suo silenzio anche per un'ora intera, senza interagire con alcuna compagna.
Attraverso la pazienza affettuosa e continuativa di uno sguardo non giudicante ma attento e pronto
ad ascoltare il suo silenzio ricco di altre manifestazioni, con l'aiuto del gruppo, risorsa preziosa di
scambio e confronto, Lisa, piano piano, ha cominciato a fidarsi e a sciogliere le catene della sua
prigione, ad aprire alcune porte della sua casa interna. Abbiamo imparato con Lisa a comunicare
oltre le parole: con l'uso e la consapevolezza dei nostri doni naturali a cominciare dallo sguardo,
dall'olfatto, il gusto, il tatto, l'ascolto, più un altro bellissimo dono che è lo scambio vicendevole di
questi preziosi regali.
Per esempio, il gruppo si mette in cerchio e, a una a una, a ruota, ogni bambina parla solo attraverso
il proprio sguardo a ogni altra compagna, le esprime quello che sente, esplora nuove sensazioni e
relazioni. Segue un altro momento durante il quale le bambine, sempre in cerchio, svelano quello
che si sono sentite dire attraverso lo sguardo dell'altra.
«Lisa mi ha detto che mi vuole molto bene e che vuole giocare con me» racconta Elena (8 anni) al
gruppo. E così via accadono le interazioni, le parole non dette vengono espresse spontaneamente
dall'altro che dà voce a chi non ne ha e accoglie con generosa collaborazione il gioco dello scambio
di possibili nuove modalità di comunicazione e relazione.
Questo è solo un esempio tra quelli che Lisa e tanti altri bambini hanno vissuto e vivono insieme
grazie a questa esperienza. Sono piccoli semi che cadono su un terreno protetto, quale è il gruppo,
da cui possono nascere e crescere piccoli fiori, tutti diversi tra loro ma tutti con il proprio particolare
profumo. Fiori che vengono lasciati alla terra e non strappati о recisi prima del tempo per mostrare
о decorare, ma per far sì che abbiano il loro ciclo di vita, le loro fasi, il loro periodo più о meno
lungo in comune.
Il corpo in sé può essere limitato nelle prestazioni ma è un'infinita fonte di emozioni da condividere
e da conoscere.
Angela (9 anni) non sapeva di poter danzare, essendo nata affetta da nanismo. Prigioniera del limite
del pregiudizio, del giudizio degli altri e del sentirsi diversa, si era chiusa sempre più in una sua
gabbia di tristi e sofferte emozioni. Non è possibile che un bambino sia lasciato solo nella sua scelta
di evitare gli altri e isolarsi. Noi adulti, ascoltando e osservando ciò che un bambino fatica a
esprimere, guardando con attenzione le sue peculiarità e le sue difese, possiamo stargli accanto e
fare in modo che la sua paura si possa trasformare senza bloccare una particolare fase di crescita.
Quando Angela, di fronte a un pubblico di persone, ha lasciato andare le sue emozioni attraverso il
movimento, dopo un anno di esperienza corporea in gruppo, ha fatto sì che il suo papà la guardasse
con occhi bagnati di gioia. Alla fine del breve incontro con i genitori, questo papà, lavoratore di
semplici origini ma ricco di cuore, mi è venuto incontro e mi ha detto con gli stessi occhi umidi di
speranza: «Grazie, posso darle 50 euro? Non saprei come farle sentire quanto sono felice per
Angela». Stringendogli la mano nelle mie gli ho risposto: «Ma lei ha già pagato la quota mensile!
Sono felice insieme a lei per la nostra Angela».
Così sono gli incontri che rimangono imperituri nella memoria di un bambino come in quella di un
adulto, ricordi riscaldati e nutriti dalla fiducia di un amore che rimane anche quando l'allievo, il
bambino, il paziente se ne va e vola per la sua strada dopo aver fatto un tratto di cammino insieme.
Con lo sviluppo di questo metodo legato alla danza intesa come armonia corporea si sviluppano in
sinergia anche le proprie capacità cognitive, quali la memoria, l'apprendimento, la coordinazione, il
senso del ritmo e dello spazio; capacità emotive, espressive, legate alla possibilità di comunicare ciò
che si è e ciò che si diventa crescendo; capacità di socializzazione, essere di gruppo e non solo in
gruppo, quindi con la propria specificità e unicità per un bene comune che si ottiene grazie al
rispetto dei valori fondamentali e alla reciproca collaborazione.
La cosa per me importante è non dare nulla per scontato ma gioire di ogni piccolo passaggio di
cambiamento e di scoperta che i bambini, futuri adulti, si accingono a fare. Dare il senso della
conquista nel tempo e non dar tutto e subito è un impegno in una realtà che sempre più si offre
virtuale e fuori dalla concretezza della vita. Il mordi e fuggi è una dimensione comune oggi, la
testardaggine può essere il suo opposto, credo che lo stare accanto a un bambino, prendendo tutto il
tempo che serve, sia fondamentale, cercando di avere uno sguardo affettuoso, attento e non
ambivalente. Nella relazione di cura mi piace percepirmi con un occhio al passato, un occhio al
futuro e il corpo al presente. Questi appunti di viaggio, di vita, sono esempi che hanno valore di
cura, non di psicoterapia. In un percorso simile con i bambini e gli adolescenti è molto importante
collaborare con le famiglie, con la presenza attiva dei genitori.
A tal proposito vorrei concludere la mia testimonianza con le parole di alcuni genitori che
frequentano a loro volta questo spazio.
La mamma di Francesca (7 anni), durante un gruppo di genitori, dice: «Mi piace che qui non
bisogna dimostrare niente, non c'è competizione sfrenata... per me è importante vedere Francesca
tornare a casa entusiasta e raccontarmi ciò che ha fatto». Il papà di Letizia (7 anni) aggiunge: «Mi
colpisce l'importanza che si dà all'anima e al corpo insieme». La mamma di Maria (14 anni):
«Questo spazio ti aiuta ad accettare il tuo corpo per quello che è e per come si dà, è una scuola di
vita oltre che una scuola di danza».
Daniel Stern afferma che il bambino può trovarsi nella situazione di uno spettatore che assiste a un
balletto о di chi ascolta musica, quando osserva un comportamento genitoriale. Il linguaggio del
corpo, quindi, ci invita a fare attenzione e a osservare in profondità i nostri movimenti e
comportamenti, non solo ad ascoltare i movimenti delle parole: ci offre l'occasione di creare una
circolarità coerente e armoniosa tra ciò che facciamo e quello che sentiamo e diciamo.
Attraverso un'empatia cinestesica siamo in grado di percepire un comportamento in un'azione
emotiva dell'altro e immediatamente sperimentarla all'interno del nostro corpo. Il corpo con il suo
linguaggio non verbale ci immette nell'avventura della comunicazione e della ricerca quotidiana,
personale e segreta, del significato del nostro esistere. Noi ci riveliamo al mondo attraverso il nostro
corpo e il mondo si fa sentire da noi «passando» per il nostro corpo. Attraverso il linguaggio
corporeo e attraverso la danza il dialogo tra sé e gli altri può evolversi, dilatarsi, spaziare grazie
soprattutto a quello spirito definito creativo che una bambina ha chiamato: «il Folletto della
creatività».
Elena (9 anni) dopo un'esperienza di gruppo sul tema della creatività dice: «La creatività è come un
Folletto del bosco che bussa alla porta della nostra tana per liberarci dalle nostre paure e, facendoci
compagnia, ci fa affrontare in modo nuovo la strada sconosciuta, ma arricchente di nuove
esperienze». E Alice (14 anni) conclude: «La creatività è una conquista per animi coraggiosi che
vivono la vita senza dare per scontato il respiro di ogni attimo!».
Il profumo di gioia che esala dal sorriso di un bambino riesce a inebriare e a contagiare il mondo.
Nella nostra persona unica, possiamo essere buoni e cattivi,
santi e peccatori,
compiuti e incolti, ma là c'è anche l'Uomo totale.
In questo senso abbiamo tutti la responsabilità di tutto
ciò che avviene sulla terra.
A. DE SOUZENELLE, Il simbolismo del corpo umano2
Parte sesta NON AVER PAURA DELLA PSICOLOGIA
Lasciatemi solo col giorno. Chiedo il permesso di nascere. P. NERUDA, Chiedo silenzio
XIV
Ma chi è la persona a cui mi affido? Come si forma uno psicoterapeuta?
Attraverso la relazione si insegna e si impara
Non esiste un maestro assoluto, si è sempre maestro e allievo insieme. Poiché il maestro insegna
agli altri ma lui stesso impara dagli altri.
Tradizione orale Dogon
Una cosa che non ho mai avuto ben chiara, se non dopo anni di insegnamento, era l'origine del mio
malessere quando insegnavo, davanti all'enorme quantità di carte spesso inutili, di relazioni
burocratiche che bisognava compilare, di documenti che nessuno о quasi avrebbe mai letto e che
venivano richiesti a presidi e a insegnanti in base alle tante circolari ministeriali. Mi rendevo conto
che nel mio malessere c'erano anche il fastidio davanti a proposte che spezzettavano il sapere e
perdevano di vista la globalità delle persone e la rabbia di dover dedicare tanto tempo prezioso a
operazioni che giudicavo inutili e nella maggior parte dei casi sterili, sottraendolo invece a quello
che avrei potuto dedicare in quantità maggiore e molto più proficuamente ai ragazzi, per ascoltarli
davvero e lavorare con loro e non su di loro.
Avevo molto apprezzato, durante un'esperienza di lettorato presso un'università americana,1 quando
ero giovane, le office hours che tutti noi insegnanti dovevamo dedicare agli studenti, per ascoltarli e
lavorare con loro, e che facevano parte integrante dell'orario settimanale di insegnamento di
ciascuno, non solo dei tutor.
Ricordo ancora oggi con molto interesse quello che raccontavano di sé, della loro esperienza, delle
loro certezze, dei loro dubbi, delle loro lacerazioni e angosce i ragazzi che tornavano dalla guerra in
Vietnam (era il lontano 1965-66!) e che riprendevano gli studi. Era un laboratorio per crescere, per
crescere insieme, studenti e insegnanti, per arricchire la propria esperienza con quella dell'altro e
viceversa.
Ma non era solo il dedicare del tempo a operazioni che ritenevo inutili quello che covava nel mio
malessere di insegnante di scuola media superiore davanti all'adempimento delle richieste
burocratiche e che rappresentava la parte noiosa e spiacevole di un lavoro che per il resto mi
piaceva molto. Solo diversi anni più tardi ho cominciato a capire che cosa fosse e sono stata in
grado di poterlo riconoscere e dargli un nome: era il fatto che le richieste riguardavano sempre e
soltanto «il fuori», contenuti, obiettivi, metodi, valutazioni, spezzettamenti del sapere in mille
frammenti dagli altisonanti termini tecnici (come se l'imparare non riguardasse la globalità della
persona!) ma non facevano mai, assolutamente, oggetto di riflessione le caratteristiche e la qualità
della relazione interpersonale usata nell'insegnare e nell'imparare, soprattutto in un'età di turbolenza
come è spesso l'adolescenza.
Perché un ragazzo reagiva imparando, pur con i suoi limiti, con un insegnante e si bloccava in una
forma di stupidità nevrotica con un altro, indipendentemente dalle materie di studio? Nei consigli di
classe a volte sembrava che, discutendo dello stesso ragazzo, emergessero quadri completamente
diversi, spesso opposti. Perché questa diversità? Evidentemente c'era un problema di relazione
interpersonale da entrambe le parti, che poteva aiutare о meno un ragazzo a usare le risorse che
anche lui possedeva, come tutti, seppur diverse tra di loro.
Entrava in gioco, non riconoscibile con un nome, né tantomeno con una valutazione, anche un
problema di relazione tra persone (e bambini e ragazzi sono delle persone) prima ancora che di
contenuti e obiettivi scolastici, solo che nessun programma ministeriale ne poteva parlare.
Innanzitutto perché le caratteristiche e la qualità della relazione non sono neanche lontanamente
pensabili e immaginabili fra gli obiettivi scolastici, e in secondo luogo perché non sono riducibili a
schemi né risolvibili con un'equazione.
La qualità della relazione e la capacità d'ascolto fanno parte del nostro modo di essere al mondo,
della storia che abbiamo avuto, della persona che siamo diventati, del nostro tipo di funzionamento
mentale e ognuno di noi ha il proprio (un saggio proverbio sardo dice: «Cento teste, cento
berretti!»), dei meccanismi di difesa che usiamo davanti alle difficoltà e ai problemi e così via. Non
esiste «la persona che ha problemi»: i problemi li abbiamo tutti (a partire da noi che abbiamo scelto
una professione nell'ambito della psicologia, altrimenti avremmo fatto altro) e li abbiamo per il
semplice fatto di esistere, perché è la vita stessa, nel suo scorrere, che li comporta, per tutti.
Cambiamenti, passaggi, perdite, lutti (sono solo alcuni esempi dei problemi del vivere) non
riguardano una sola persona bensì tutti indistintamente, ognuno con la propria specificità. Ciò che
cambia, semmai, è il bagaglio con cui ognuno di noi è attrezzato per affrontarli e la consapevolezza
emotiva che in qualsiasi relazione, tanto più in quella di insegnamento, ognuno di noi si mette in
gioco in prima persona, con i propri punti di forza e quelli di debolezza, la propria fragilità e le
proprie incertezze, la voglia di dare ma anche quella di ricevere, lo stupore e il piacere dell'imparare
dall'altro e così via, in una crescita continua.
Se questo vale per qualsiasi esperienza di insegnamento/apprendimento, tanto più vale nei gruppi о
nelle sedute di formazione alla pratica clinica psicoterapeutica e di supervisione. È in quella sede
che si impara a essere emotivamente consapevoli di quello che succede nella relazione con l'altro
nella stanza di psicoterapia, lavorando sui propri vissuti e quelli del gruppo, su ciò che succede in
noi e tra noi e gli altri.
Gli interventi che seguono sono proprio dedicati alla descrizione di un iter formativo per
psicoterapeuti, quello della Scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica (SPP) di
Milano, come esempio di iter formativo di tipo psicoanalitico, che è in genere alla base dei
contributi di questo libro.
Il primo intervento è di Egidia Albertini, psichiatra e psicoterapeuta, direttore scientifico della
stessa Scuola per il corso evolutivo, che descrive l'iter formativo quadriennale e il reciproco
percorso di allievi e insegnanti.
Il secondo intervento è di Luisa Mariani, psicologa e psicoterapeuta, docente e didatta della stessa
Scuola, che descrive ciò che avviene in una seduta di supervisione di gruppo.
Pensieri sulla formazione
di Egidia Albertini
Ho appreso inoltre che insegna, se si può esprimere il vero, quegli soltanto che, mentre parlava dal
di fuori, ci ha avvertito che abita nell'interiorità.
AGOSTINO, De magistro
In questo intervento cercherò di rispondere a due domande che mi sono state rivolte da Alba
Marcoli: chi è la persona cui, come paziente, mi affido per una psicoterapia, e quale percorso
formativo viene richiesto per poter svolgere la professione di psicoterapeuta.
Questi interrogativi mi sono stati posti perché svolgo la funzione di direttore scientifico di un corso
di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica dell'età evolutiva, fondato nel 1985 da Lilia
d'Alfonso, e quindi coordino le attività del collegio docenti che sostiene tale corso e che ha
l'obiettivo di riflettere sulle finalità della formazione e sui modi nei quali i contenuti possano essere
trasmessi agli allievi, di stabilire i criteri di ammissione alla scuola e di riflettere sulle prove di
valutazione che consentono il passaggio da un anno accademico all'altro. Scopo importante del mio
ruolo è quello di definire, insieme ai colleghi, gli obiettivi che riteniamo prioritari nella formazione
di uno psicoterapeuta che sappia essere tecnicamente competente e umanamente disponibile a
offrire il proprio intervento adattandosi al «bisogno» dell'utente che lo consulta.
La formazione che proponiamo mira quindi a valorizzare le qualità personali possedute dagli allievi,
come l'empatia, la motivazione ad aiutare e l'interesse per la comprensione psicologica, innestando
su questo patrimonio personale conoscenze scientifiche e strategie tecniche ispirate dal progresso
conoscitivo degli ultimi anni, che si è esteso dalle indagini sullo sviluppo dei bambini, ai modi in
cui essi interagiscono con i genitori e con i coetanei, e alle disarmonie che si possono verificare nel
corso di questo fisiologico sviluppo. Il risultato a cui miriamo è la formazione di un terapeuta
capace di unire spontaneità e autenticità umana al possesso di adeguate e aggiornate conoscenze
scientifiche e capacità tecniche.
Per realizzare la formazione che prediligiamo mettiamo al primo posto l'attenzione valorizzante al
futuro terapeuta come persona. Per noi la «cura» psicoterapica si serve di ciò che il terapeuta «è»,
prima ancora che di ciò che questi «sa» e «fa».
Quando diciamo ciò che il curante «è» ci riferiamo agli aspetti autentici e originalmente soggettivi
che egli possiede ed esprime attraverso il suo modo personale di comprendere, di sintonizzarsi, di
comunicare con le persone a cui offre il suo aiuto. Ciò significa che la nostra idea di formazione
non sfocia semplicemente nell'insegnamento, pur necessario, di tecniche diagnostiche e di
conduzione del processo terapeutico. Noi miriamo a permettere ai nostri allievi di integrare le
nozioni acquisite all'interno di uno stile personale che, usando le parole dello psicoanalista
Christopher Bollas, possiamo definire l'«idioma». Questa nozione esprime il senso di una cifra
personale, cioè di uno stile individuale con il quale ogni terapeuta interpreta il suo ruolo, nello
stesso modo in cui un musicista interpreta un brano rimanendo fedele alla partitura ma dando a
questa, appunto, il proprio stile, il proprio idioma.
Rimanendo sul piano della metafora, la nostra formazione mira alla costruzione di uno stile
personale da unire alla capacità di cogliere in maniera fine, momento per momento, i tratti personali
e individuali del paziente a cui si rivolge l'intervento: lo stile proposto è quello di una «danza» in
cui il futuro terapeuta impara a esprimere se stesso affinando però continuamente la sensibilità
necessaria per comprendere, sintonizzarsi e adeguarsi alla soggettività del paziente con cui
interagisce. Per raggiungere questo scopo la nostra didattica è concretamente organizzata in modo
esperienziale, così che gli allievi possano comprendere interiormente, giungere a sentire e non solo
a capire intellettualmente il funzionamento della mente loro e dei pazienti.
A livello pratico ciò si traduce nell'utilizzo di particolari strumenti didattici. Fra questi il ricorso
all'infant observation (osservazione del neonato) di cui si è già parlato nei primi interventi.
Il lavoro di gruppo focalizza l'attenzione sulla capacità dell'allievo di osservare senza giudicare, di
cogliere gli aspetti più rilevanti di una relazione, di saper trovare la propria collocazione in modo
non intrusivo. Tutto ciò costituisce una esperienza costruttiva dell'identità professionale del futuro
terapeuta; parliamo di identità e non di ruolo, perché viene costruito un modo di essere e di
funzionare psichicamente e non solo di lavorare tecnicamente. Dedichiamo una particolare
attenzione alla dimensione clinica, attenzione che nasce dalla convinzione che la psicoterapia si
basa su un sapere che è «pratico», centrato su ciò che accade in un contesto di lavoro che è una
relazione interpersonale autentica e vera, anche se ovviamente asimmetrica.
Valorizziamo inoltre il lavoro di gruppo: questo permette di imparare ad ascoltare, di conoscersi
meglio attraverso l'interazione con i colleghi, e di operare con altri rispettando la differenza e la
complementarietà in un intervento di rete che comprende anche altre figure. Nella cura di pazienti
in età evolutiva ciò significa saper dialogare non solo con i genitori ma anche con figure educative
come gli insegnanti, о altre terapeutiche come logopedisti, psicomotricisti, pediatri.
Il nostro programma di formazione prevede, oltre al lavoro che si svolge nei gruppi, anche momenti
specifici di crescita individuale. Fra questi l'analisi personale, strumento necessario perché chi si
sforza di capire il funzionamento psichico degli altri deve in primo luogo essere in grado di
comprendere se stesso, conoscere le proprie reazioni emotive che vengono fortemente attivate nella
relazione con i pazienti più impegnativi e con i bambini, per la qualità della relazione che questi
esprimono, coinvolgendo profondamente gli adulti che interagiscono con loro e quindi anche i
terapeuti.
Altro momento di fondamentale significato nella crescita professionale è quello della supervisione
individuale; in questo spazio viene privilegiata la comprensione delle reazioni emotive individuali e
di funzionamento della mente che si attivano nel terapeuta di fronte al coinvolgimento emotivo,
cognitivo e relazionale con il paziente.
Si persegue la finalità di creare le basi per ciò che definiamo «osservazione partecipe»: sapere
«ascoltare» prima di agire, capacità che il terapeuta deve prima di tutto esercitare su se stesso per
poterla suggerire come stile psicologico anche al paziente. Questo per fare emergere una attitudine
riflessiva della mente, che ancora una volta il terapeuta deve esercitare su se stesso prima di poterla
trasmettere, e che è l'unica prevenzione di atteggiamenti impulsivi, coatti e irriflessivi che
costituiscono una componente importante delle disarmonie, dei disturbi e delle problematiche
comportamentali con cui i terapeuti si devono oggi confrontare.
La didattica ha come scopo della formazione, inoltre, la matura comprensione che porti a quelli che
vengono definiti i «fattori terapeutici di cambiamento positivo». Ci riferiamo alla capacità di
pensare psicologicamente, cioè di fare emergere quelle funzioni mentali che permettono di riflettere
sui propri sentimenti, sulle proprie motivazioni e intenzioni, sul modo in cui le persone si
rappresentano se stessi e gli altri.
Ci riferiamo alla possibilità di guardarsi dentro con lo spirito di chi è disposto ad accettare la verità,
comunemente definita come insight, cioè sguardo comprensivo e illuminante rivolto alla propria
interiorità e finalizzato al disvelamento della stessa: una verità possibile e tollerabile, che tenga
conto dei tempi di maturazione di ogni paziente, della sua capacità di elaborazione. Una verità
costruita dalla coppia al lavoro costituita dal terapeuta e da chi si rivolge a lui per ricevere aiuto, che
richiede di saper aspettare il tempo giusto, il quale non sempre coincide con i tempi prefissati del
calendario, e di saper immaginare le reazioni emotive e comportamentali del paziente.
Pensiamo alla possibilità di trasformare emozioni primitive, intense e troppo coinvolgenti spesso
semplicemente subite e scaricate a livello somatico о nei comportamenti in immagini mentali,
metafore e narrazioni che le rendono prima tollerabili, raccontabili e quindi elaborabili. Pensiamo
quindi a emozioni grezze che vengono trasformate in immagini rappresentabili, traducibili in parole
con le quali è possibile infine costruire la propria storia personale, che può essere narrata a se stessi
e agli altri. Questo permette di «alleggerire» emozioni troppo pesanti, come certi tipi di angoscia e
di smarrimento. Nella formazione valorizziamo anche la capacità di «apprendere dall'esperienza» e
in particolare di imparare dagli errori, tollerando la frustrazione necessaria che nasce dalla presa di
coscienza, senza erigere barriere difensive di fronte agli sbagli che noi stessi cogliamo, oppure che i
nostri pazienti e i nostri colleghi ci fanno notare.
Per realizzare una didattica che sia formativa e anche trasformativa dedichiamo una attenzione
accurata alla correttezza e trasparenza dei rapporti interpersonali e istituzionali che si svolgono nella
scuola. Abbiamo cercato nel corso del tempo di creare un atteggiamento etico di fondo che ha come
punti forti di riferimento la trasparenza nelle comunicazioni ai vari livelli di vita della scuola (per
esempio riguardo ai criteri di ammissione e alle prove di valutazione) e inoltre una correttezza in
aspetti formali che hanno un valore sostanziale come la puntualità, la collaborazione fra insegnanti,
la cura per l'organizzazione didattica, in quanto il rigore di fondo nel modo di procedere viene
richiesto ai docenti prima che agli allievi.
La didattica è pensata e costantemente rielaborata tenendo conto di quanto emerge dagli allievi sotto
forma di richieste e suggerimenti, e anche alla luce di un'attenta lettura e valutazione delle domande
che il tessuto sociale pone a chi svolge la professione di psicoterapeuta: ci riferiamo a titolo di
esempio all'emergere di nuove patologie e forme di disagio e alla modificazione di assetti
psicosociali come le nuove forme di genitorialità.
La formazione che proponiamo è centrata sulla dimensione terapeutica ma si apre con particolare
sensibilità e investimento anche verso interventi di natura preventiva a vari livelli: la coppia madreneonato, lo sviluppo infantile dei primi anni con la specifica preparazione alla consultazione per il
periodo 0-5 anni, i mutamenti e le crisi della genitorialità, le problematiche dell'area educativa e
scolastica.
Per lavorare con i bambini e con i loro genitori, per potersi identificare empaticamente con gli uni e
con gli altri, è importante aiutare gli allievi a elaborare interiormente e a sciogliere i nodi emotivi, i
sentimenti complessi legati al passaggio esistenziale dalla condizione di figlio a quella di genitore.
Si tratta di un passaggio esistenziale e maturativo che investe tutta la personalità e costituisce il
fondamento della costruzione di una identità professionale dotata di spessore, in grado di prendersi
cura di bambini e genitori con uno stile veramente terapeutico e quindi libero da aspetti giudicanti e
da pericolosi pregiudizi, evitando di «schierarsi» da una parte о dall'altra con la perdita di equilibrio
e lucidità.
Coltiviamo una particolare cura per una formazione professionale che sia aperta alla cultura in
senso profondo. Siamo attenti alla conoscenza di nozioni di carattere scientifico e tecnico, ma non
trascuriamo il valore di una apertura intellettuale a fenomeni espressivi della cultura in cui i nostri
allievi opereranno come psicoterapeuti, che si esprime anche in ambiti come il cinema e la
letteratura.
L'obiettivo è la conoscenza dell'uomo in una prospettiva complessa e articolata, dove rigore
scientifico e sensibilità umanistica possano dialogare per comprendere la sofferenza umana, la cui
natura non può essere ridotta a un'unica prospettiva di lettura e di comprensione.
E interessante e affascinante lavorare come formatori di allievi che ci chiamano a ridiscutere
costantemente la nostra preparazione, ad aggiornarci di continuo, mantenendo una mobilità creativa
della mente che trova linfa vitale nel confronto stimolante e a volte sanamente provocatorio con
giovani menti in costruzione sia dal punto di vista umano sia da quello professionale. Cerchiamo di
realizzare in questo modo anche uno scambio creativo fra generazioni diverse portatrici di
esperienze differenti che possono divenire reciprocamente feconde.
Ci sentiamo realizzati quando i nostri allievi ci dicono di essersi sentiti sostenuti nelle tappe
attraversate per conquistare un'identità professionale che è profondamente intersecata con la loro
avventura umana.
Anche noi siamo consapevoli che il pensiero non richiede soltanto intelligenza, ma anche coraggio.
H. ARENDT, L'umanità in tempi bui
Il percorso per aiutare a addomesticare i pensieri selvatici
di Luisa Mariani
Si tratta sempre, come è stato detto, di educare un orecchio ad aprirsi sul segreto.
S. MANFREDI L. NISSIM, Il supervisore al lavoro
La cosa che più mi colpisce di A. è la costante enorme fatica a lasciare la stanza. Quasi ogni volta è
un dramma, urla, strepita, corre fuori e si nasconde nelle altre stanze, si butta a terra gridando e
implorando di restare con me per sempre, si arrampica sugli armadi e niente sembra riuscire a
contenerlo. ...
Seduta del 18/7 Corre dentro come un uragano ... afferra la sua scatola come al solito e la apre con
violenza in cerca del calendario che abbiamo fatto insieme per prepararci alle vacanze ... è
terrorizzato dalla fine ... cerco di calmarlo dicendo che ci sarò ancora dopo l'estate, che lo penserò e
che so che è difficile stare lontani per tanto tempo.
Dopo l'estate trovo A. peggiorato, per molti mesi ogni fine seduta è l'inferno, è agitatissimo, gioca
con fatica, durante le sedute lancia gli oggetti dappertutto, urla e grida, è incontenibile e spesso lo
devo tenere fisicamente. Quando deve andare via spesso non so che fare e mi ritrovo ad afferrarlo
come un sacco e trascinarlo fuori.
Seduta del 9/1 Prima seduta dopo le vacanze ... prende dalla cesta tutto e lo lancia ovunque senza
che nulla riesca a contenerlo. Si arrampica ovunque, sembra rabbioso e disperato, mi si getta
addosso più volte ridendo in modo convulso, le mie parole per calmarlo non servono a nulla. Prende
una pallina di pongo e me la scaglia addosso colpendomi in un occhio con rabbia e facendomi
davvero male.
L'occhio mi lacrima e A. mi guarda terrorizzato, si affloscia di colpo ma non mi si avvicina, io non
riesco a tenere l'occhio aperto e da una parte vorrei dirgli che non ha fatto apposta a farmi male per
non lasciarlo solo nel suo sentirsi colpevole e dall'altra so che non è così e sono arrabbiata ... così
taccio e aspetto che mi venga in mente qualcosa, ma c'è il vuoto. A. comincia a urlare che è uno
stupido e bastardo, si agita e si sposta dappertutto. Cerco di dire qualcosa sul suo sentirsi cattivo e
sul fare delle cose per sentirsi cattivo, che mi ha fatto male, ma che io sono ancora qua, ma sento
che niente di quello che dico ha senso.
Non voglio lasciarlo solo. Gli dico di venire a sedersi dove sono io e che raccontiamo una storia, si
accascia con la testa sulle mie gambe e inizia lui a parlare di un bambino che viveva nella foresta e
che si chiamava A. ... L'ora finisce, A. mi guarda ancora, sembra in attesa di una sfuriata, ora non
mi sento più arrabbiata, ma molto triste. Va via mogio salutando piano.
Questa come le successive citazioni sono riflessioni all'interno di una seduta di supervisione delle
allieve della SPP di Milano: dottoresse Arianna Banfi, Luisella D'Angelo, Simona Demarchi,
Margherita Elli, Silvia Micali.
In un silenzio rispettoso, come chiamato a essere testimone di una sacra rappresentazione, un
gruppo di formazione alla pratica clinica di una scuola di psicoterapia accoglie il racconto di una
collega con un ascolto attento, affettivamente partecipe, identificandosi coll'intensità del dramma
relazionale portato.
Attraversare come docente l'esperienza della formazione di un futuro psicoterapeuta significa
percorrere un lungo cammino condiviso, lasciarsi toccare da emozioni intense, mettersi in gioco
come persona e come didatta in un complesso intreccio di affetti di cui qualsiasi relazione di
insegnamento-apprendimento è formata e, in special modo, quella che riguarda il come prendersi
cura di altri esseri umani.
Si sa che l'apprendimento non è solo l'esito di un'acquisizione proveniente dal mondo esterno, ma è
veicolato dalla relazione che tocca e modifica il mondo interno del soggetto che apprende.
Il bambino, quando impara, entra sì in contatto con le nuove informazioni, ma la percezione e
l'introiezione nella mente di qualsiasi oggetto о esperienza sono mediate dalle sue emozioni, dai
suoi affetti, dalle sue fantasie che si sviluppano sul modello del rapporto primario vissuto con la
madre, in particolare con il corpo materno e con l'esperienza del mangiare. L'apprendimento
autentico, perciò, può nascere solo nell'esperienza e l'esclusione di questa dimensione può portare
solamente alla realizzazione di un sapere astratto, furtivo, fasullo in quanto non assimilato per
diventare nutrimento e quindi non trasformativo di sé.
Alla luce di queste considerazioni si può dedurre che niente come la formazione alla pratica
psicoanalitica sia imprescindibilmente legata a un sapere che nasce e si sviluppa nell'esperienza
relazionale assieme alla consapevolezza di quello che sta accadendo.
Il percorso di un apprendista terapeuta è lungo, articolato, paziente, costoso (non solo in termini
economici, ma anche e forse soprattutto da un punto di vista emotivo), ed è per questo e per
l'attività particolare che il futuro clinico dovrà intraprendere che la trasmissione del conoscere
psichico è una questione così delicata, su cui non si finisce mai di interrogarsi.
Freud, in una sua celebre frase, dice che «governare, educare e analizzare sono mestieri
impossibili»: che dire allora di un lavoro sulla formazione dove tutte queste funzioni sono presenti
ed espletate dalla stessa persona?
Viene spontanea la domanda se sia possibile aiutare giovani psicologi a diventare psicoterapeuti.
Alla stessa stregua ci si può chiedere se sia possibile diventare buoni genitori, e allora forse diventa
più naturale dare una risposta una risposta di fiducia, di speranza che, accettando di essere umani e
perciò limitati, possiamo avventurarci nell'esperienza della vita cercando di fare del nostro meglio,
sapendo di non essere onnipotenti, permettendoci con umiltà di sbagliare, dì poter riconoscere i
nostri errori e di cercare di riparare.
Uno dei pilastri della formazione psicoterapeutica, insieme all'analisi personale e alla supervisione
individuale, è l'esperienza dei cosiddetti «seminari clinici» dove, a turno, un candidato porta una
situazione terapeutica su cui rifletterà e discuterà con i colleghi del proprio gruppo e con la
conduzione di un supervisore. In realtà non è così facile raccontare che cosa avviene in un gruppo di
supervisione clinica all'interno di una scuola di psicoterapia. Non è facile perché è un'esperienza
formativa che riveste, per la sua specificità, un carattere scientifico, ma che è, allo stesso tempo,
un'esperienza fortemente connotata a livello affettivo, proprio perché parlare di una situazione
psicoterapica è raccontare la storia di una relazione con tutti gli aspetti emotivi che la possono
toccare e il gruppo stesso, che accoglie quella storia, è un essere vivente che respira, palpita, si
muove e si commuove attraversato da una marea di emozioni che legano i suoi partecipanti e che
sono riverberate dalle vicende cliniche portate.
È una pratica di apprendimento che parte dall'esperienza e dura anni: anni di lavoro costante, di
fatica paziente e di scoperte emozionanti, di confronto, di grande coinvolgimento emotivo in cui il
gruppo si costituisce, cresce, condivide gli avvenimenti e i cambiamenti professionali e personali di
ogni componente, si può proprio dire che si costituisce un campo magnetico dove ogni accadimento
si irradia e tocca il singolo in maniera diretta e significativa.
In un gruppo di formazione all'attività di psicoterapeuta, come in ogni gruppo di apprendimento, è
inevitabile che vengano mobilitati affetti, fantasie, pensieri a causa della serie di relazioni che
necessariamente vengono attivate: relazioni con il docente, con il gruppo dei pari e con il proprio
mondo interiore. Si instaura un rapporto estremamente ricco, ma anche impegnativo, carico di
aspetti ambivalenti e di emozioni non sempre facili da contenere, con aspettative, idealizzazioni e
identificazioni che si incrociano tra i vari soggetti. Assieme ai sentimenti dolorosi quali la paura di
essere inadeguati, di essere giudicati, la rabbia persecutoria verso una situazione che espone al
disagio, la frustrazione di mostrare insuccessi e incompetenze, emergono anche pensieri illusori e
onnipotenti che riguardano l'idealità nelle aspettative e nelle prestazioni e che, se non visti,
rischiano di inficiare il lavoro di formazione.
Tante sono le fantasie in gioco suscitate da questa esperienza: per esempio può emergere
l'idealizzazione narcisistica del ruolo del docente con l'idea magica che questi abbia pronte tutte le
risposte e le soluzioni e che dall'alto della sua presunta sapienza faccia benevolmente ricadere i
segreti del mestiere sui terapeuti in formazione, oppure possono sorgere sentimenti di delusione, di
mancanza, di vuoto nutritivo con i relativi risvolti depressivi о aggressivi. Fa parte del percorso
stesso riconoscere queste dinamiche, elaborarle nel gruppo con l'aiuto del supervisore e, se
necessario, avvalendosi anche di sedute di tutorship con un docente nonché, certamente, usufruendo
del grande supporto dell'analisi personale.
Un'allieva nella tesi di specializzazione scrive: «Si poteva non sapere senza tuttavia cadere dalla
padella alla brace, ovvero senza passare da richieste onnipotenti a sentimenti svalutanti e
squalificanti».
Predisporre la mente per entrare in un gruppo clinico, sia per il conduttore che per i formandi,
comporta una disponibilità a lasciarsi attraversare da quello che accadrà: ogni volta è una storia
nuova, un'esperienza nuova, un clima emotivo diverso a seconda del «caso» portato, del modo con
cui verrà raccontato, dello stile del terapeuta, del suo coinvolgimento, delle sue difese e, come
magicamente, varieranno di conseguenza gli interventi del gruppo; potranno verificarsi discussioni
animate, piene di creatività, о situazioni di stallo del gruppo, quasi una sonnolenza paralizzante il
funzionamento della mente. Ogni volta, comunque, si è testimoni di qualcosa di speciale che
meraviglia, che incuriosisce, perché tocca nel profondo. E anche quando l'indicibile sembra
ottenebrare qualsiasi comprensione, risucchiando forza e vitalità, è proprio cogliendo quell'aspetto
di offuscamento e dando nome al malessere psicosomatico serpeggiante nel gruppo che
immediatamente si rimette in circolo l'energia e la mente è stimolata a trovare nuove immagini, altri
pensieri, diversi significati. E alla fine ci si sorprende nel constatare che proprio la situazione di
impasse, se riconosciuta ed espressa, diventa fonte di germinazione propulsiva.
Ogni volta è un tuffo nell'ignoto e l'ignoto fa paura a tutti agli allievi e al supervisore perché non si
sa mai cosa si dirà e cosa succederà. Nel gruppo ognuno costituisce una cassa di risonanza, un
universo, un punto di comprensione e/о di non comprensione, e lavorando insieme si costruisce
un'osservazione da molteplici vertici: vista, udito, gusto, tutto l'apparato psicosensoriale è attivato
per affrontare il pensiero sconosciuto che crea un rumore disturbante nella mente.
La storia di ciascun gruppo costituisce davvero un'esperienza molto intima. Essere nel gruppo
comporta vivere l'avventura di un viaggio che presuppone coraggio nel mettersi in gioco,
disponibilità ad affidarsi e a tessere relazioni profonde, fiducia di poter percorrere il cammino
tollerando gli eventuali intoppi che ne intralceranno il percorso.
Ho trovato un luogo dove «sorelle», «genitori» e «zii» adottivi hanno permesso un'esperienza di
crescita che tenesse conto delle differenze e peculiarità di ciascuno.
Il gruppo mi ha anche dato la possibilità di mimetizzarmi. È accaduto che, in giorni in cui non
sentivo di espormi, sia riuscita a godere comunque del contributo degli altri.
Il gruppo di supervisione costituisce, dunque, un incontro speciale tra colleghi dove il mettere a
nudo la storia terapeutica con il proprio paziente forma uno spazio-tempo scientifico e relazionale
connotato da grande affettività. C'è il desiderio e al contempo la vergogna dell'esporsi, dell'esternare
le difficoltà, le angosce, le non comprensioni, il non sapere come muoversi, quali parole dire,
insieme ai turbamenti, ai sentimenti forti che legano un terapeuta a quel paziente, alle rabbie,
all'attaccamento, alla paura di perdere un paziente, al timore di non saper gestire affetti molto
coinvolgenti suscitati dalla relazione terapeutica, al dolore della separazione a fine trattamento. Ma
c'è anche il sollievo della condivisione, dell'essere compresi e aiutati, del non sentirsi soli.
Io intervengo soltanto alcune volte, però so e sento che il gruppo c'è, sia a scuola che a casa.
Talvolta sperimento simpatia nei confronti dei colleghi; altre volte una sorta di invidia, per chi, in
quei momenti, così mi sembra, è più fortunato di me. Tuttavia il gruppo non scompare mai dalla
mia mente, c'è come qualcosa che in qualche modo mi contiene e che sopravvive ai miei movimenti
interni anche aggressivi. So che vado a scuola e ci sono la mia classe, i miei colleghi. Quando mi
sento di capire poco dei miei pazienti о quando non so quale sia la mossa giusta da fare, penso che
altri si interrogano sulle stesse questioni che creano incertezza in me. Non sono sola, insomma.
Compito del supervisore è allora quello del prendersi cura del gruppo che viene «ammalato» della
malattia dei vari pazienti e che porta in sé il suo malessere intrinseco, gruppo come groppo, nodo,
espressione della difficoltà di ogni relazione tra esseri viventi, nodo che ha bisogno di essere aiutato
a «snodarsi» per rendersi dinamico, per poter oscillare senza rompersi, proprio come un albero che,
se ben radicato, può affrontare qualsiasi turbolenza atmosferica ondeggiando, senza spezzarsi.
E le turbolenze emotive che un giovane psicoterapeuta deve affrontare sono davvero tante:
riguardano l'impostare la sua vita da giovane adulto, il tollerare i turbamenti mossi dall'analisi
personale, il reggere la relazione con i pazienti, il sopportare la responsabilità del curare,
l'attraversare le diverse fasi dell'apprendimento, il trovare il suo posto nel gruppo di formazione, il
concedersi la liceità di diventare terapeuta e chissà quali insicurezze e quali altri combattimenti
deve affrontare sia nel proprio mondo interiore che nel mondo esterno.
È indispensabile che il conduttore appronti un buon contenitore, quasi un grembo accogliente,
predisposto a disintossicare i diversi veleni che, inevitabilmente, si riversano nel gruppo e offra una
mente capace di riconoscere, contenere, mostrare e modificare, dove e quando è possibile, le
sofferenze che emergono cammin facendo.
Ho trovato nella formazione lo specchio, forse quello specchio che mi rimandava un'immagine
positiva che mi diceva che io c'ero, esistevo, e mi trasmetteva lo stimolo di continuare a crescere.
La funzione primaria di un docente è quella di fornire aiuto, di assistere l'allievo nel processo di
formazione, tollerando i diversi ritmi di apprendimento, riconoscendo le diverse possibilità e
modalità di coinvolgimento.
Dal punto di vista affettivo estremamente preziosa è stata per me la condivisione dei successi (e
sono vissuti come tali anche la comprensione di un sintomo о gli effetti di una terapia) ma anche, e
forse soprattutto, la condivisione delle frustrazioni. L'accettazione del non sapere diviene, all'interno
del piccolo gruppo, più tollerabile perché condivisa.
Questo comporta anche aiutare i giovani colleghi a lavorare su se stessi, in modo da formare la loro
professionalità attivando le capacità di ascolto, di mettersi in relazione, di gestire le incertezze
insieme al riconoscimento delle loro motivazioni e delle loro aspettative.
La scuola, come madre, è stata paziente con me ed è riuscita, nel tempo, a farmi apprezzare la
mente del gruppo. Una novità, un modo di lavorare ricco, con la possibilità di far nascere nuovi
pensieri attraverso l'incontro, lo scambio, apprezzando la diversità di ognuno di noi. Pertanto la
supervisione di gruppo non più vissuta come un attacco bensì come un arricchimento.
Si lavora con piacere e con fecondità in un gruppo quando l'impostazione non è di tipo superegoico,
ma induce una fiducia nell'affidarsi, nel potersi permettere di depositare la «spazzatura» a cui si può
dare trasformazione per il fatto di poterla pensare insieme о che si può conservare in attesa di
poterla significare.
«Si poteva cercare di giocare e di giocarsi.» Queste parole di un'allieva rendono bene conto di quale
coinvolgimento profondo a livello personale comporti l'iter formativo di uno psicoterapeuta e di
come sia necessario trovarsi in un setting che permetta la piena libertà di esporsi, di misurarsi senza
sentirsi imprigionati da angosce giudicanti che impediscono di vivere appieno l'esperienza
d'apprendimento. «Ho trovato un luogo ... dove si poteva imparare ovvero sbagliare.»
È davvero imprescindibile l'apprendere dall'errare, ma sentirlo dalle parole dei propri allievi assume
un sapore più intenso, più importante: è come una restituzione e un mandato fortemente
significativo per il docente che sente vibrare di partecipazione emotiva il senso del proprio operare.
L'errore può diventare l'humus, il letame fertilizzante il campo terapeutico, se riconosciuto, ma per
essere manifestato e raccolto è necessario che si costituisca una trama di relazioni in cui possa
essere dicibile senza paura, e per essere pensabile occorre che si verifichi un contenimento delle
ansie prodotte dall'errore stesso e, quindi, che sia garantito uno spazio di libertà di essere.
E cosa meglio della psicoterapia e della formazione in psicoterapia è improntata al concedersi il
tempo necessario per errare alla ricerca del significato, all'umiltà del rinunciare all'arroganza
conoscitiva per lasciare posto al dubbio e all'incertezza, riconoscendo che questa umiltà è proprio
l'humus che fonda la possibilità trasformativa per chi soffre e cerca aiuto? E credo sia proprio la
possibilità di fare questa esperienza di accoglimento di sé, di contenimento, di metabolizzazione dei
propri vissuti che struttura l'assetto mentale del futuro psicoterapeuta il quale, a sua volta, riprodurrà
quel modello relazionale con i propri pazienti avendo introiettato il metodo vissuto su di sé in prima
persona.
La scuola di specialità, anch'essa legata a percorsi personali e formativi, mi ha fornito uno spazio in
cui apprendere condividendo dubbi e fatiche. La scuola ha rappresentato un luogo dove cercare di
diventare terapeuti; cercare nel senso di apprendere, ma anche di cercare il proprio modo di esserlo.
Ecco emergere alla fine del percorso il riconoscimento della tendenza interna che conduce
all'autonomia e alla separazione, alla ricerca del sé, in modo da sperimentare la capacità di essere
soli, capacità che caratterizza la vera emancipazione.
Tesi come fine percorso ma anche come inizio, visto che fine significa crescita. Inizio in un mondo
a cui sento di appartenere: il mondo dell'umano, delle relazioni profonde, autentiche, in cui si riesce
a dare dopo aver ricevuto.
Ha raccontato un'allieva:
Ghiaccio e fuoco sono due parole che molto spesso mi viene da associare a S. e alla nostra
relazione. Il fuoco della vitalità di S., il fuoco dei suoi agiti è il fuoco delle emozioni che circolano
nella stanza di psicoterapia; il ghiaccio, il congelamento della capacità di pensare paradossalmente
quando il fuoco diventa troppo caldo, quando le relazioni si fanno troppo strette e si percepisce la
paura della separazione, dell'abbandono, dell'essere feriti dall'altro. S. mi ha donato molto in questi
due anni. Ha riacceso alcune parti di me che si erano spente, mi ha dato la possibilità di esercitare la
pazienza di saper aspettare, non agire, pensare ... Più volte S. mi parla della sua paura a entrare in
intimità emotiva con l'altro ... perché l'altro la potrebbe vedere come realmente è ... È una paura che
a lungo ha accompagnato e ferito anche me, senza che ne fossi consapevole; ora la consapevolezza
non mi solleva dal dolore mentale, ma mi permette piano piano un coinvolgimento emotivo più
profondo e autentico nelle mie relazioni.
L'insegnamento giunge solo a indicare la via e il viaggio, ma la visione sarà solo di colui che avrà
voluto vedere.
PLOTINO, Enneadi
XV
Ma che lavoro fa uno psicoterapeuta infantile? Che aiuto può dare al bambino?
Per quanto alta sia la montagna, un sentiero lo si trova..
Proverbio afghano
A completamento delle riflessioni di Luisa Mariani su un gruppo di supervisione di allievi
psicoterapeuti (che riprende il tema già introdotto da Marina Bianchi con la supervisione in gruppo
dell'osservazione del neonato) ho chiesto a un giovane collega, Paolo Arru, psicologo e
psicoterapeuta che collabora con l'Associazione La nostra famiglia con la quale anch'io lavoro da
tanti anni di mettere per iscritto le sue riflessioni personali e professionali.
Come emerge dalla sua testimonianza, lo strumento maggiore che usiamo nel nostro lavoro siamo
noi stessi: non solo le teorie che stanno alla base della nostra formazione, ma soprattutto ciò che
esse hanno prodotto nel loro incontro unico e specifico con la nostra umanità, la persona che
eravamo, quella che siamo diventati e quella che diventeremo nel corso del tempo, imparando
continuamente dall'esperienza e da chi incontriamo sul nostro cammino.
Non c'è come fare un percorso di questo genere che aiuti a ridimensionare l'onnipotenza e il
narcisismo, ad apprezzare il valore delle piccole cose e l'umiltà, lasciandoci dietro le spalle
l'illusione di essere i portatori di qualche verità rivelata da dispensare agli altri.
Fare questo percorso vuol dire imparare a poco a poco che la vita è complessa, spesso difficile, a
volte calma ma altre volte burrascosa; che non esistono ricette preconfezionate о istruzioni sul
vivere, ma che ognuno di noi trova il proprio modo di affrontare i problemi cadendo e rialzandosi,
per tentativi ed errori, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. È un percorso che
insegna però che anche nelle situazioni più difficili una strada la si può trovare e questo aiuta a
mantenere la speranza e la fiducia nella vita.
Il caso di cui Paolo Arru parlerà nelle prossime pagine è diverso rispetto ai precedenti perché si
tratta di una psicoterapia infantile vera e propria, differente quindi dagli altri interventi che
riguardavano invece l'area della prevenzione. Ho voluto tuttavia inserirlo per vari motivi.
Innanzitutto per aiutare a mettere a fuoco il lavoro paziente, costante, tenace, devoto che una
psicoterapia comporta nel tempo.
Per permettere di avere un'idea, seppure necessariamente vaga, di quanto sia importante per
un bambino accedere a un funzionamento mentale che gli permetta un domani di vivere inserito
nella società invece che restarne ai margini о esserne espulso (lo scarto fra un bimbo in serie
difficoltà e i suoi coetanei solitamente si allarga a forbice nel crescere).
Per aiutare a capire l'importanza dell'accesso a un linguaggio emozionale, connotato
affettivamente, ma anche l'enorme fatica che alcuni bambini devono fare in questo percorso di
ricerca. Se si è accompagnati da una competenza specifica si fa meno fatica e c'è qualche
probabilità evolutiva in più.
Ognuno arriverà al «proprio» traguardo, che non può essere stabilito a priori ma si costruirà nel
tempo.
Per rendere un po' più comprensibile la differenza fra «agito» e «mentalizzato». Un bambino
che riesce a rendere a parole il suo disagio viaggia più protetto verso la vita rispetto a quando lui
stesso non aveva altro modo di esprimerlo se non attraverso dei comportamenti disturbanti e
disturbati.
Per aiutare a mettere a fuoco che quando la psicologia clinica parla di «carenza primaria»
non si riferisce alla mancanza di cure genitoriali che invece possono essere state anche ottime, ma si
riferisce a degli eventi dolorosi che possono essere intervenuti nella relazione genitori-bambini e
che sono indipendenti da loro e dalla loro buona volontà (come un importante lutto familiare, una
malattia, una sindrome malformativa, la scoperta di un'anomalia genetica, una prolungata e
importante depressione post partum e così via). Altrimenti il rischio che si può correre è quello di
colpevolizzare involontariamente dei genitori che già soffrono con il loro bambino e sono in
difficoltà insieme a lui. È per questo che il lavoro psicoterapico о di aiuto in genere a un bambino è
assolutamente imprescindibile da un lavoro analogo di sostegno fatto con i suoi genitori.
Per aiutare i genitori a non aver paura di una psicoterapia quando viene suggerita per un bambino,
con l'obiettivo di aiutarlo a diventare nel tempo un adulto più attrezzato e più forte davanti alle
inevitabili difficoltà che la vita comporta.
La mia storia di psicoterapeuta
di Paolo Arru
Il giardiniere ha modi gentili, paterni, si sente inutile come me, reagisce al dolore con una piccola
attività concreta, meticolosa. Si è inventato un lavoro, sorride spiegandomi la filosofia dell'erba e
del legno: se i ragazzi vedono nascere i tulipani qualcosa rimarrà, se imparano a toccare con amore
le venature del compensato sentiranno lo stesso piacere di sfiorare una mano, un volto, una foglia
d'ortensia.
F. PARRINI, lì giardino dei miracoli
Ho riflettuto su quali contenuti avrebbe dovuto affrontare questo scritto, ho seguito molte ipotesi di
lavoro che ogni volta si perdevano, precipitando inevitabilmente in un mio profondo senso di
inadeguatezza e di impotenza: «Non ce la farò mai, non riesco a essere creativo, non sono capace di
dare forma a qualcosa che riesca a comunicare quello che avviene nella mia stanza di terapia con i
miei giovani pazienti, bambini vivi, tutti diversi».
Ma che lavoro fa uno psicoterapeuta infantile?
I miei sentimenti e le mie fantasie mi hanno poi aiutato ad andare avanti a trovare una traccia. Mi
sono ricordato di alcuni volti, delle loro espressioni talvolta angoscianti, altre sorridenti e gioiose.
Ho riletto alcuni appunti, ripercorso alcune tappe... Forse è di questo che dovevo parlare, partendo
da quella che è stata la mia esperienza personale, del mio modo di stare nella stanza di terapia,
sapendo che è un'esperienza soggettiva senza valore scientifico universale.
Ho cercato così di mettere a fuoco pensieri e vissuti e questo mi ha portato a pensare molto al tempo
trascorso, agli anni che separano le mie prime esperienze lavorative, all'inizio prevalentemente
come insegnante oggi anche come psicologo-psicoterapeuta.
La mia storia personale e la mia storia lavorativa sono cambiate di molto, tra gli inizi e oggi c'è una
parte di vita, quasi vent'anni.
Se mi soffermo a riflettere in particolare sul mio lavoro di terapeuta mi rendo conto dell'importanza
di un proprio percorso formativo, costituito da basi teoriche, da aggiornamento costante, da
supervisione, ma anche dalla possibilità di scambio con colleghi ecc. Il possesso di talune
conoscenze, apprese da un'esperienza svolta contemporaneamente sul campo e acquisite secondo
uno stile dinamico e non passivizzante, in me, credo abbiano affinato lo sviluppo delle mie
attitudini per un lavoro razionale.
Sorrido pensando alla mia iniziale ricerca di sforzarmi a restare il più possibile aderente alla teoria,
a quello che imparavo sui testi о a quello che sentivo spiegato dai miei docenti preferiti. Credevo
che, armato di un metodo e una tecnica, sarei stato più pronto per la professione, forse però
applicavo senza ascoltare ciò che sentivo dentro.
L'aver avuto la fortuna di lavorare per anni nel campo educativo in qualità di insegnante mi ha
facilitato ad accostarmi con spontaneità ai miei giovani pazienti, vivendo con naturalezza il
rapporto. Questo mi ha portato a imparare anche a essere capace di improvvisare, talvolta anche
osando creativamente. Il lavoro terapeutico non si fa a tavolino, soprattutto quando si lavora con
bambini che sono velocissimi nelle loro proposte: occorre essere pronti ad accoglierle.
Sono consapevole che non si possa credere di essere arrivati ed è importante continuare nella
formazione. So di avere ancora tante cose da imparare dagli altri e da me stesso.
L'esperienza mi ha aiutato a sopportare di «vivere nell'incertezza» e a non rifugiarmi nella teoria,
ma soprattutto mi ha portato all'attenzione e al significato di piccoli indizi del comportamento e
segni di emozione che a volte, presi in considerazione, arricchiscono la qualità della relazione in un
rapporto terapeutico.
Mi è servito a evitare interpretazioni e interventi prematuri о dominati dall'ansia. Non forzare i
tempi perché lo sviluppo può essere incoraggiato о protetto, ma non può essere creato о indotto.
Spesso sono rimasto ammutolito e ammirato nel sentir parlare alcuni colleghi che riuscivano con
sicurezza ad applicare sempre una determinata teoria, citando testi, autori, casi ecc. Non nascondo
di aver pensato talvolta di essere una nullità in confronto a loro e che il lavoro terapeutico non
facesse per me. Ancora oggi fatico a distanza di anni a ricordare passi di brani letti e tantomeno
citazioni precise.
Poi però, grazie all'aiuto, allo stimolo e al riconoscimento di chi lavorava con me e di chi mi aiutava
nella supervisione, sono riuscito a continuare e ad andare avanti. Talvolta ho ricevuto sane e severe
osservazioni, che tuttavia lasciavano aperta la porta alla speranza, alla voglia di capire e migliorare.
La passione, il desiderio di imparare mi hanno spinto a non arrendermi. Ho capito che la
consapevolezza dei miei difetti e dei miei limiti, se accolti e riconosciuti, poteva essere sfruttata
anche nel mio lavoro.
Per quanto riguarda l'applicazione delle tecniche credo modestamente che siano varie e io le utilizzo
sempre in sintonia al mio modo di essere. Mi sono reso conto che non posso e non riesco a separare
totalmente la mia personalità da quella terapeutica. Ogni bambino о ragazzo con cui lavoro è
innanzitutto una persona, con la sua singolarità e la sua storia, diverse da chiunque altro, e io devo
cercare di adeguarmi a lui non modificando il suo essere ma entrando in sintonia con la sua parte
più viva alleata a me. Dalla mia esperienza clinica non posso parlare di tecnica valida per tutti, così
come non penso di essermi mai accostato in modo uguale a persone diverse anche se la
sintomatologia о la diagnosi era la stessa.
La stanza dove lavoro con i bambini è una stanza da gioco, dove il bambino può scegliere di
giocare, se ne è capace, о comunque di esplorare i pochi oggetti presenti. Se sono bambini molto
piccoli, lavoro se possibile in presenza dei genitori.
Non interpreto mai (perlomeno nel senso classico); le interpretazioni di tipo psicoanalitico
rimangono nella mia mente a tentare di mappare il campo, la relazione, il mondo interno e si
manifestano al bambino attraverso un personaggio, un gioco, un gesto di maggiore о minore
vicinanza. Nel «viaggio» terapeutico cerco di seguire le vie più vicine ai naturali processi evolutivi,
evitando di «ammaestrare» ma favorendo nel bambino un'interpretazione, per quanto possibile e
secondo i miei limiti, del mondo, aiutandolo a riconoscere e a nominare le sue emozioni.
Il mio modo di rapportarmi con i bambini è tendenzialmente affettuoso. Cerco di propormi al
bambino come funzione di contenimento e di trasformazione. Questo non tanto per sostituirmi a una
figura genitoriale che con arroganza presumo inadeguata, ma perché è da una situazione interattiva
di contenimento e di trasformazione che nascono la propria soggettività, lo spazio mentale, la
capacità di simbolizzare e il pensiero. Sono atteggiamenti che Wilfred Bion chiama rêverie, Donald
Winnicott definisce holding e John Bowlby fissa come base sicura.
Per me è facile giocare con i bambini riuscendo anche a divertirmi. Però talvolta non è possibile
fare ciò, almeno inizialmente. In alcune situazioni, per esempio, è necessario fare attenzione al
coinvolgimento del corpo nel gioco; i bambini autistici, spaventati о molto inibiti, spesso non sono
in grado di accettarlo e questo può essere un obiettivo del mio lavoro, che può durare anche mesi
senza giungere a un risultato.
Alcuni bambini non hanno il senso della regola e tendono perciò a essere irrequieti, agitati. Non
hanno interiorizzato i limiti: talvolta, ho notato, non solo in quanto a regole di comportamento, ma
proprio come limiti corporei. In tali casi utilizzo una parte di me più rigida, delimitando
maggiormente il confine e insistendo molto sui rituali d'inizio e fine seduta о semplicemente
scandendo lo scorrere del tempo. L'io corporeo è la prima struttura, il primo contenitore, che deve
essere abbastanza strutturato e resistente per poter permettere il contenimento e lo sviluppo di un io
psichico forte.
Tuttavia, per il mio modo di essere, cerco sempre di fare interventi diretti a comunicare dei
sentimenti e permettere loro di fare altrettanto nel modo il più possibile sano per loro in quel
momento. Se il bambino riesce a essere contenuto, può esprimere il suo terrore senza nome, lo può
mettere in gioco, formare e riformare nella relazione con l'altro le emozioni più angoscianti che
diventano condivisibili.
Il bambino in terapia spesso ha bisogno di essere aiutato a interpretare il mondo. In situazioni in cui
si evidenziano funzioni essenziali della crescita molto disturbate, la difficoltà maggiore è quella di
trasformare la disperazione dei figli e dei genitori in speranza.
Come sottolinea Dina Vallino, questi bambini, quando utilizzano le parole, lo fanno in modo
concreto e spetta quindi al terapeuta usare il loro idioma aggiungendo qualcosa in più. In questi casi
è importante tessere una trama di parole in cui un malessere informe, acuito da un bombardamento
di sensazioni disordinate e automatiche, viene raccolto e condiviso dal terapeuta.
Non si tratta quindi né di rispecchiare, ma neppure di interpretare (nel senso di dare
un'interpretazione psicoanalitica verbalizzata), bensì di contenere, supplire e trasformare, narrando
loro ciò che fanno senza poterlo narrare, in attesa che nascano storie condivise.
Il terapeuta si pone come voce narrante. E sottolineo voce narrante che non è rispecchiamento, ma
interpretazione, al posto del bambino, dei dati derivanti dal mondo. Cerco inoltre di essere legame,
ordito per una trama che altrimenti si sfilaccerebbe, melodia che dona senso ai suoi ritmi senza fine
e alle sue stesse risposte e azioni nei confronti del mondo. Ciò che cerco di restituire al bambino
non è l'immagine frammentata che lui rispecchia in me, ma un'immagine trasformata perché io ho
cercato di unirla; è comunque qualcosa di nuovo che si sta costruendo lì in quel momento; qualche
cosa che ha un nuovo senso.2 Più avanti, a mano a mano che la terapia procede о quando il
bambino dimostra capacità più evolute, trovo sia importante aiutarlo a «narrarsi». L'identità
narrativa è la conquista che permetterà al bambino di proiettarsi nel mondo e nel futuro. Può
narrarsi in vario modo: se possibile, cerco di portarlo alla costruzione di storie, attraverso le quali si
cerca di trattenere, di non far scivolare via l'esperienza in modo che lui si senta attore del prima,
dell'adesso e del dopo di quell'evento.
Il caso che desidero presentare riguarda il trattamento terapeutico di un bambino di 10 anni affetto
da una rara sindrome organica che ha comportato un ritardo nello sviluppo motorio e linguistico e
malformazioni agli arti. In carico presso un servizio territoriale, ha già effettuato interventi
riabilitativi di tipo logopedico e psicomotorio. I genitori si rivolgono a me per valutare l'opportunità
di una psicoterapia individuale essendosi accentuate in lui difficoltà sia a casa sia a scuola
(atteggiamenti stereotipati, aggressività, iperattività).
La prima volta che vedo Massimiliano, nella sala d'attesa, mi sembra un bambino più piccolo della
sua età. È ben vestito e curato nell'aspetto, ma nonostante ciò non «risalta»: ha il volto cupo, non
sorridente, uno sguardo un po' assente.
Dagli incontri iniziali di consultazione, mostra forte ansietà: lo sguardo è instabile, non verbalizza
desideri, scelte; il linguaggio non sempre ha valenza comunicativa e tende a rivolgere domande
ripetitive, insistenti. Le parole vengono ripetute in modo veloce ed espulsivo. Di fronte a richieste,
mostra reazioni ansiose. Rifiuta di disegnare. Quando c'è della tensione tende a isolarsi e a
manifestare tic motori.
Nel gioco non appare in grado di accedere a una dimensione simbolica: si limita a esplorare alcuni
giocattoli e appare molto interessato al loro funzionamento elettrico e meccanico. Emergono una
scarsa integrazione del sé e un vissuto da parte di Massimiliano di essere un «oggetto rotto» e non
funzionante.
Dai colloqui con i genitori si evidenzia da subito una difficoltà che li fa soffrire nel capire i
comportamenti del figlio e nell'entrare in risonanza condividendone gli stati emotivi, insieme a una
difficoltà a leggerne i segnali e ad andare incontro ai bisogni emotivi profondi che si nascondono
sotto i comportamenti stereotipati che invece li disorientano perché appaiono incomprensibili.
In questo caso penso si possa ipotizzare che si tratti di un rapporto genitore-bambino in cui il danno
organico del figlio ha probabilmente risvegliato e riattivato dolorosamente degli antichi vissuti
depressivi infantili e di inadeguatezza nei genitori, i quali soffrono a loro volta di avere scoperto di
essere loro stessi i portatori sani dell'anomalia genetica alla base della patologia del bambino.
Nonostante Massimiliano abbia sofferto di una carenza affettiva primaria (da non confondersi con
la mancanza di cure, che invece ha sicuramente ricevuto da genitori molto devoti e presenti), sento
che in lui è presente una «persona pensante». La sensazione di trovarmi con un bambino che
potrebbe «accendersi», se accolto da uno sguardo attento e ascoltato con una rêverie silenziosa, mi
permette di iniziare il cammino terapeutico con lui e i suoi genitori, condividendo la fatica e la
sofferenza per sostenere i piccoli passi incerti verso la crescita.
Le prime sedute le ricordo molto spesso ripetitive, a volte mi appaiono prive di senso, ma mi
tengono in uno stato di attenzione e attivazione sia mentale sia fisica. All'inizio, infatti, ho la
sensazione che sia indifferente alla mia presenza, eppure è sempre acutamente sensibile e mi guarda
subito se la mia attenzione scema. Capisco che la comunicazione verbale con Massimiliano non è
significativa per lui; decido allora di adottare una comunicazione preverbale, utilizzando,
intuitivamente, l'imitazione. In questo modo riesco a coinvolgerlo nella relazione.
Massimiliano guarda un po' gli oggetti, non parla e indirizza la sua attenzione verso i legnetti,
toccandoli più volte, annusandoli, osservandoli accuratamente.
Inizia quindi a costruire una torre, prende tutti i legnetti di una stessa dimensione, quelli circolari,
ne mette uno sopra l'altro, poi soffia sempre più forte ma la torre non cade. Con un dito la butta giù.
Ripete la scena più volte, poi decide di cambiare legnetti, di prendere quelli di dimensione più
piccola; forma nuovamente una torre, quindi soffia. Questa volta i legnetti cadono e Massimiliano
ride soddisfatto. Quando ride si contrae, si irrigidisce, chiude i pugni, sobbalza sulla sedia. Il gioco
continua per altri dieci-quindici minuti, io non parlo e mi limito a osservare, a vedere.
Decido quindi di riprodurre lo stesso gioco, costruisco anch'io una torre con i legnetti, quindi soffio
per farla cadere. Massimiliano mi guarda ma non accenna alcuna risposta, continua da solo a
giocare.
Aspetto ancora qualche minuto, poi approfittando di un legnetto caduto che rotola nella mia
direzione, decido di soffiare anch'io e spingerlo verso Massimiliano, in direzione opposta.
Massimiliano risponde, sembra soddisfatto; iniziamo quindi un gioco di reciproco scambio di
«soffi» che prosegue sino alla fine della seduta.
Con il proseguire delle sedute, Massimiliano inizia a raccontarmi alcune esperienze personali, fatti
generalmente accaduti a casa о a scuola. Io, chiedendogli il permesso, li trascrivo su un quaderno.
Arrivano quindi sedute molto impegnative da gestire dove più di una volta devo intervenire e
contenerlo anche fisicamente perché dimostra di perdere il contatto con la realtà e si rifugia in
comportamenti stereotipati, giochi vocalici.
Apriva il rubinetto e lasciava scorrere l'acqua senza fine, metteva le mani sotto il getto per
raccoglierla e la buttava per terra; oppure tappava con della carta о con il tappo lo scarico del
lavandino e faceva traboccare l'acqua per terra.
Nonostante appaiano privi di significato, mi trasmettono un senso di confusione, di non definito.
Penso che Massimiliano senta la mancanza, in se stesso, di uno spazio necessario per contenere le
sue emozioni, le sue angosce, le sue paure primordiali di perdersi, di cadere all'infinito, come se
mancasse il fondo e non ci fosse il suolo. Riesce solo a far emergere questo genere di sensazioni,
ma espellendole perde il contatto con esse e ne rimane impoverito e vuoto: esprime questi vissuti in
particolare nei giochi d'acqua.
Decido, quindi, di limitare queste attività e di preparare la stanza prima del suo arrivo, in modo tale
da garantire una continuità e stabilità nel setting, eliminando tutti gli oggetti che possano attirare e
distogliere la sua attenzione (telefono, oggetti vari esposti). Contengo anche i suoi giochi stereotipi
di chiudere a chiave l'armadio e i cassetti, togliere la manopola del calorifero, stringere con forza il
rubinetto del lavandino e così via.
All'inizio Massimiliano reagisce con il panico, poi con protesta e rabbia. Io mi limito a esserci, a
osservare, rimanendo fermo nella mia decisione, cercando sempre di essere il più recettivo
possibile. Ogni tanto mi ripete delle frasi, delle parole che non sempre hanno significato; a volte
sono neologismi, di cui non riesco a interpretare il senso, se non quello che Massimiliano comincia
a sperimentare l'uso di uno strumento nuovo per lui: il linguaggio, che rappresenta anche l'accesso
al mondo simbolico. Con il simbolo, Massimiliano comincia a stabilire una distanza dalle cose,
iniziando il percorso che lo porterà dall'apprendimento adesivo all'apprendere dall'esperienza.
Ho l'impressione che voglia utilizzare il linguaggio verbale per sperimentare nuove parole. Su mio
invito di scrivere queste parole, inizia a raccontarmi per la prima volta una storia.
Gli uomini mangiano anatre.
Come? Cosa hai detto? Scusi? Molti di noi preferiscono non pensarci ma gli uomini amano
mangiare belle anatre di carne. Oh! Si sbaglia, non il padrone e nemmeno la padrona. Gli uomini
mangiano i gatti. Perché?
Perché sono indispensabili e acchiappano i topi e non mangiano i galli? Perché?
Le galline aiutano a fare le uova! Le galline non mi apprezzano!
Così ho provato a cantare e finalmente ho scoperto il mio dono. Ma, quando sto per diventare
indispensabile, si portano a casa un arnese che mi ruba il posto! Oh, accidenti, un gallo meccanico.
Questa storia mi sembra importante perché testimonia la sensazione, nuova per Massimiliano, di
«essere visto» e giudicato per quello che è: «Le galline non mi apprezzano... così ho provato a
cantare e finalmente ho scoperto il mio dono».
Il bambino prova a sperimentare le nuove parole, la dimensione simbolica, però viene «risucchiato»
dal vecchio mondo, in cui lui deve corrispondere alle aspettative degli altri, che lo imprigionano,
non gli permettono di esprimersi, come se lui fosse un «gallo meccanico». Le sedute sono molto
difficili da gestire per l'agitazione notevole di Massimiliano. Lo ricordo scagliarsi contro oggetti,
aprire gli armadi o i cassetti e svuotare tutto per terra, buttare tutto quello che trova sul tavolo
(matite, quaderni...), aprire il rubinetto dell'acqua spruzzandola fuori, svitare la manopola del
calorifero facendone così uscire l'acqua. Sono proprio questi atti che mi portano a modificare col
tempo il setting. Urla per tutta la seduta con un tono di voce acuto e straziante, accende e spegne in
continuazione l'interruttore della luce, abbassa velocemente le tapparelle...
Durante una seduta faticosa mi aggancio a una frase detta in rima da Massimiliano e scriviamo una
breve storia (di cui riporto in corsivo le parole aggiunte da me).
Uccellino, dove vai con il tuo magico cappello?
Volo sopra un alberello ma mi sento tanto solo.
Qui nessuno mi capisce, la corrente mi spaventa però senza non ho potenza.
Anche l'acqua mi spaventa, però non posso senza!
Io mi accendo poi mi spengo, tiro, stacco, metto, svito, con l'aiuto del mio dito.
L'aver ripreso delle parole, delle frasi di Massimiliano, e averle utilizzate per raccontare la sua
storia dolorosa è stato utile per dare un senso alla sua profonda sofferenza e per condividere tale
malessere. Mi sono reso conto che se non avessi dato un significato alla sua filastrocca priva di
senso, la sua mente avrebbe potuto continuare a vivere nella confusione e nella dispersione. Ha
ripetuto la strofa composta insieme per altre due sedute: l'apprendimento imitativo cominciava a
essere usato per sviluppare un pensiero autonomo.
Dopo due sedute Massimiliano entra nello studio e, trovando sul tavolo il bianchetto, toglie il tappo,
«annusa» l'odore, ne versa un po' sulle sue mani e ci gioca per qualche minuto; quindi inizia a fare
dei segni sul tavolo. Gli suggerisco di provare su un cartoncino colorato in modo che si possano
«vedere» bene. Massimiliano accetta e comincia a fare dei segni. Mi paiono molto interessanti: gli
dico che mi sembra di vedere qualche cosa. Massimiliano è molto incuriosito e mi chiede che cosa
vedo: «Mi sembra di vedere un gatto, posso fare una cosa?» gli chiedo. Avendo il suo permesso
disegno intorno a quei segni una faccia di gatto. Massimiliano è contento e ride. «Come possiamo
chiamarlo?» gli domando. «Frodo» mi risponde, e dopo poco aggiunge: «Ma ha le lacrime!».
Decido quindi di inventare una storia che gli racconto e nella quale il bambino interviene: una storia
a due voci.
Caro gattino Frodo [aggiunge prontamente Massimiliano come se volesse essere partecipe], perché
piangi?
Ho visto due lacrime che ti scendevano dagli occhi.
Io sono molto triste per te.
Ho riso tanto.
Ho riso?
Ho riso ma ridevo per il dolore.
Ridevo?
Ridevo perché non ho più lacrime.
Perché?
Dove sono, ti chiederai, gattino. Le ho finite tutte.
Perché, ti chiederai? Ho pianto, ho gridato, ho toccato, tirato, strappato, tagliato, rotto, acceso,
spento, distrutto, spaccato, aperto, chiuso, alzato, abbassato, telefonato... [Pronunciavo queste azioni
lentamente, lasciando del tempo tra una e l'altra e osservando il volto di Massimiliano.]
Ma... nessuno mi ha «visto». Ho trovato però una persona che mi vede...
[Massimiliano abbassa gli occhi e con tono diverso di voce dice:] «Il Paolo!».
Massimiliano reagisce alle mie attenzioni: le sedute cominciano ad avere una maggior
sequenzialità. Inizia ad acquisire l'idea di uno spazio interno capace di contenere alcune esperienze.
Dopo quasi un anno di terapia Massimiliano inizia a riprodurre una scena a mio avviso molto
importante. Cito dai miei appunti:
Prende un tappetino lo avvolge e mi dice: «Il tunnel! Entro!»; si infila dentro al tappetino e inizia a
muoversi, lo osservo, non dico nulla, aspetto qualche minuto poi sento la voce di Massimiliano,
simile a un lamento, un pianto doloroso.
Questo rievoca nella mia mente l'immagine della sua nascita sofferta. Decido quindi di avvicinarmi
al tunnel: «Cosa c'è? Sento e vedo qualche cosa che si muove... Sento una voce». Il pianto si fa più
intenso, Massimiliano si agita molto, fa uscire una mano, decido quindi di continuare a mettere in
parole quello che sta succedendo: «Una manina! Dai, coraggio, piano, piano, dai! Vedo un ciuffo di
capelli? Vedo la testina! Piano, piano».
Sono di fronte a lui e aspetto la sua uscita. Massimiliano si trascina fuori, ha gli occhi semichiusi,
non parla e non piange più. Lo accolgo dicendo: «Ciao! Ben arrivato! Un bambino! Come lo
chiamiamo?». Massimiliano si avvicina a me, mi sale sulle gambe, lo prendo in braccio e dico:
«Questo bambino ha due manine, una testa, due gambe...». La scena è stata ripetuta molte volte e
per molte sedute Massimiliano entrava nello studio e mi diceva: «Faccio il neonato!».
Massimiliano inizia anche a percepire il suo corpo, la sua fisicità; ritengo importante lavorare sulla
sua storia, sul suo sviluppo. So, tuttavia, che la sua nascita è stata traumatica, forse lo è stato anche
il periodo prenatale; mi immagino il dolore della madre alla vista di Massimiliano, un bambino non
bello, non sorridente, che non piangeva. Con delle malformazioni evidenti. Che dolore
insopportabile per una madre! Che tipo di rispecchiamento, di «dialogo» madre-figlio, si sarà
creato?
Per alcune sedute rimuovo questo evento, forse è anche per me troppo doloroso da affrontare;
preferisco trasmettergli un'immagine positiva della nascita, di felicità, di gioia, di bellezza: questa
scena però non appartiene all'esperienza di Massimiliano. Accolgo la sua sofferenza ma non riesco
a parlargliene per paura di sovraccaricarlo.
È lui stesso ad aiutarmi quando nelle rappresentazioni successive introduco e aggiungo delle
varianti: «Come lo chiamiamo questo bambino?». Inizialmente Massimiliano non risponde e sono
io a ripetere il suo nome; successivamente, riesce; aggiungo quindi anche il cognome: «Come lo
chiameremo questo bambino? Massimiliano B...», ma Massimiliano risponde: «Massimiliano lo
scemo!».
Massimiliano probabilmente inizia a percepirsi, a «vedersi», ma si vede come «lo scemo», non
come «Massimiliano B...». Questo è importante per me perché mi permette di capire che non posso
anch'io limitarmi a vedere l'esterno di Massimiliano, ma devo anche considerare il suo mondo
interno.
Avverto che Massimiliano sta esplorando la mia capacità, come oggetto pensante e capace di
emozioni, di sopportare la sofferenza che è in lui; mi rendo conto però che le mie parti sofferenti
non volevano «vedere», ma ancora una volta è stato Massimiliano ad aiutarmi.
Cito dagli appunti:
Massimiliano esce dal tunnel/ventre e dice: «Questo neonato è morto! È uno scherzo della natura!
Fagli il funerale!»....
«Adesso nasce un altro neonato»: lo guardo, ripeto il rituale di accoglimento, lo prendo in braccio,
lo accarezzo: «Questo neonato non è perfetto, guarda!» mi dice Massimiliano sottolineando la sua
sindrome malformativa. «Non tutte le persone sono uguali, la mia gamba è diversa dalla tua, non ci
sono persone uguali.»
«Vediamo insieme com'è questo neonato?» gli chiedo, e insieme indichiamo e tocchiamo le parti
del corpo di Massimiliano, le mani, gli occhi, la testa, i capelli...
Alla fine della seduta mi dice: «Sono nate tre persone, una è morta, una è nata con un difetto». Mi
sono chiesto perché ha detto tre e non due, chi era il terzo nato?
Ricordo di aver pensato al concetto di «nascita psicologica» come è teorizzato da Margaret Mahler:
La nascita biologica del bambino e la nascita psicologica dell'individuo non coincidono nel tempo
... Chiameremo la nascita psicologica dell'individuo processo di «separazione-individuazione»:
l'instaurarsi di un senso di separazione da, e di rapporto con, un mondo di realtà che riguarda
soprattutto l'esperienza del proprio corpo e il principale rappresentante del mondo di cui il bambino
ha esperienza: l'oggetto d'amore primario ... Separazione e individuazione rappresentano due
sviluppi complementari: la separazione consiste nell'emergenza di un bambino da una fusione
simbiotica con la madre e l'individuazione consiste in quelle conquiste che denotano l'assunzione da
parte del bambino delle proprie caratteristiche individuali.
Forse Massimiliano sta mettendo in atto tale processo. In precedenza avevo avuto la sensazione che
fosse passata nella mente del bambino l'idea che sarebbe stato meglio se non fosse nato, e che lui si
considerasse uno scherzo della natura («un aborto», parola che si usa anche per indicare una
persona о una cosa mal conformata, imperfetta ed è inoltre sinonimo di fallimento).
In una seduta successiva Massimiliano mi dice, dopo aver ripetuto più volte la stessa scena: «Tutto
è successo quest'anno!».
«Che cosa?» chiedo io.
«Se non lo sai, io svelo i segreti!».
«A chi?»
«A te!» mi risponde.
In quella seduta Massimiliano riesce a dire oltre al suo nome anche il suo cognome: «Che nome
accompagnerà questo bambino?» verbalizzo; «Massimiliano Б...» mi dice.
Il percorso terapeutico è proseguito.
Mi pare significativo, a conclusione di questo caso, riportare alcune frasi dette da Massimiliano in
una delle sedute successive: «Ora mi fido!».
«E di chi ti fidi?» gli chiedo.
«Di Massimiliano B... !» risponde in modo sicuro.
«E chi è Massimiliano В.?»
Massimiliano mi guarda per un po', in silenzio, quindi alza la testa di scatto, poi dice: «Un
bambino!».
«Sì!» affermo io, e aggiungo: «Massimiliano B... è un bambino che si può vedere, un bambino che
si può sentire, un bambino che si può ascoltare, un bambino che si può toccare».
Massimiliano sorride e aggiunge: «La fiducia in me! Scrivi!».
Le notizie che ho dopo tre anni dalla fine della terapia sono discrete. Massimiliano sta ultimando un
corso professionale che gli piace, inizia a essere un po' più indipendente e autonomo nelle scelte,
inizia ad avere qualche amico con il quale si vede ogni tanto durante la settimana.
XVI
Ciò che i bambini non dicono: la separazione dei genitori
Il cuore spezzato in due
Ho avuto una convalescenza di quaranta giorni immobile a letto. Prima di questa sera non capivo
perché mia figlia (allora aveva 7 anni) era sempre contraria a tutto, arrabbiata, e per una settimana è
andata a dormire dalla zia senza farsi
sentire telefonicamente.
Un genitore
Un genitore
Non so che cosa, nelle favole, nelle vignette, nelle storie di vita che ho raccontato quella sera in un
mio laboratorio per genitori (è l'ultimo che ho tenuto prima di chiudere questo libro nell'estate 2008)
ha portato questo genitore a capire che cosa era successo a sua figlia tanto tempo prima.
Ho selezionato la sua risposta, insieme ad alcune altre, dagli ultimi questionari che ho ricevuto
compilati, ma ne ho diverse migliaia da cui potrei selezionarne altrettante fra quelle che ho raccolto
in questi anni. Non so neanche che cosa questo insight abbia prodotto in quel genitore, ma
sicuramente la relazione con sua figlia ne ha beneficiato. Cambia l'immagine mentale di una
bambina quando si capisce che dietro a un suo apparente atteggiamento di indifferenza о di ostilità
sta invece l'intollerabile dolore di veder soffrire il papà о la mamma senza poterci fare niente.
Sono diverse le emozioni e le corde che il cambiamento dell'immagine tocca nel genitore: non solo
la rabbia ma anche la tenerezza, non solo il dispiacere di pensare che si tratti di un atteggiamento di
indifferenza ma la commozione e così via... La relazione ne esce arricchita, su un terreno di
incontro più profondo e autentico fra esseri umani e persone diverse, come sono anche genitori e
figli.
È difficile per noi adulti tollerare l'idea che anche i bambini abbiano le loro ansie, angosce,
preoccupazioni. Ci sembra che l'infanzia li debba preservare da queste tempeste emotive che invece
li toccano in profondità, producendo spesso una sofferenza che noi adulti fatichiamo a vedere
perché siamo noi a non tollerarla.
Dice al proposito Francesco Mancuso, in un suo intervento al convegno sui «Fattori di
cambiamento e di continuità nella psicoterapia infantile»:
Nella mente del bambino, molto precocemente, si agitano conflitti, angosce e sentimenti amorosi e
dolorose frustrazioni,3 non solo in risposta a eventi esterni ma anche per quanto avviene nel suo
mondo interno. I conflitti nascono quando il bambino si accorge che i suoi sentimenti aggressivi
sono diretti verso la stessa persona nei confronti della quale prova sentimenti amorosi. Il conflitto
genera la paura di avere danneggiato la persona che si ama, e che questa non sarà più amorevole
come prima. Generalmente la cosa evolve verso una fase in cui il bambino impara a riparare ai
danni che, nella sua fantasia, egli ha provocato e diventa preoccupato: mamma sei arrabbiata?
Altre volte il conflitto interno è talmente dilagante da tracimare le normali «barriere» protettive fino
a fare intervenire la proiezione all'esterno del pericolo. Ciò comporta che il bambino è portato a
evitare il «contatto» con quelle situazioni che gli procurano malessere e a restringere il raggio
d'azione delle sue attività motorie, ma anche a limitare il suo funzionamento mentale come a
limitare le occasioni in cui il suo pensare lo espone a pericolosi incontri nella fantasia. Da qui le
limitazioni intellettive, cioè le inibizioni della capacità di apprendere e il disfunzionamento delle
proprie competenze e soprattutto la capacità di giocare.
Anche i malesseri più legati al funzionamento della psiche (per esempio fobie, rituali ossessivi,
ansie e angosce che esprimono l'esistenza di un conflitto interno) vengono manifestati attraverso il
disfunzionamento delle funzioni corporee: sonno, alimentazione, autonomia personale.
Ma non ci sono solo segnali cosiddetti «positivi», cioè che sono facilmente visibili perché creano un
fastidio e un allarme nelle persone che circondano il bambino.
Infatti, non devono trarre in inganno i bambini troppo docili e apparentemente concilianti о passivi
sul piano della espressione delle loro esigenze, compresa l'apparente disinvoltura con cui si
staccano dai genitori. Il non provare dolore per tutto ciò può non essere un segno di salute, ma un
progressivo manifestarsi di inibizioni e isolamento. Inoltre, questi bambini sembrano orientati a
diventare «bravi» come vorrebbero i genitori, salvo poi esplodere, improvvisamente, con sintomi
che allarmano più per il contrasto con il bambino che si conosceva in precedenza che per la loro
reale gravità clinica.
Va detto però che l'angoscia, il dolore, la sofferenza psichica nel bambino non sono di così facile
individuazione come per l'adulto.4 Di per sé il sintomo è già un sistema antiangoscia e
antimalessere. Sappiamo che la possibilità che l'adulto ha di esprimere la sofferenza è condizione
essenziale per curare tale stato. Il bambino spesso non sa che sta soffrendo, oppure non sa che quel
sintomo è espressione di sofferenza, tale è la sua capacità adattiva alle differenti condizioni.
E, dunque, l'adulto (genitore, educatore...) che deve interpretare certe manifestazioni del bambino
come espressione di disagio psichico, mettendo a disposizione la sua capacità empatica. Abbiamo
visto come questa «interpretazione» del disagio del bambino sia condizionata da molti fattori che
appartengono alla storia personale dei genitori.
Nella fase evolutiva che sto ora prendendo in considerazione è possibile che a rendere attiva la
percezione empatica del malessere del bambino sia una sensazione difficile da tollerare da parte del
genitore: l'impotenza. La propria impotenza di fronte a un malessere che nel bambino insorge
indipendentemente dalle sue cure e forse proprio perché le sue cure sono state sufficientemente
buone. Un bambino insonne, enuretico, che balbetta, che presenta manie о fobie, che è iperattivo
oppure manifesta blocchi e buchi nel funzionamento del pensiero rende impotenti rispetto a un
bambino nei confronti del quale un migliore adattamento alle sue esigenze può risultare terapeutico.
Non è facile, come dice bene questo stralcio di intervento, cogliere che cosa avviene nel mondo
interno di un bambino, i comportamenti che agisce al posto delle parole che non dice.
L'intervento che segue ora, a cura di una psicoterapeuta infantile, Claudia Cavatorta, è stato da lei
pensato all'interno di un convegno sulle separazioni a cura dell'Istituto di psicoterapia del bambino e
dell'adolescente di Milano, tenutosi nel 2008, e vorrebbe aiutare a riflettere proprio su questo tema.
Le frasi sono state selezionate da storie cliniche e dalla numerosa letteratura al riguardo. Sono le
parole che i bambini non possono dire, ma che esprimono con i loro comportamenti.
Le parole silenziose dei bambini
di Claudia Cavatorta
Guardo il mare e non vedo la spiaggia, guardo il prato e non vedo i fiori. Poi però alla mia porta
bussa la solitudine, e le dico: «Anche a te stavo pensando».
ELEONORA (8 anni), La solitudine
Quante volte avevo pensato: ma perché non si separano? Quando litigavano, urlavano, le loro voci
diventavano così strane... e anche i loro volti... mi facevano paura e scappavo nell'altra stanza.
Adesso me l'hanno detto: «Ci separiamo». Be', non mi sento meglio per niente, ho paura lo stesso;
vorrei riavvolgere questo film come faccio con le mie cassette quando devo rivedere una scena che
mi fa paura; ora le liti non mi sembrano più così terribili, in fondo c'erano stati momenti bellissimi
insieme, sì, sono sicuro, li ricordo benissimo... tanti momenti bellissimi... Adesso insieme non li
vedrò più e non mi sento meglio, per niente.
Ho paura... Avevo tutte le mie abitudini, sapevo dove cercare le mie cose, tutto si trovava dove era
sempre stato, dove doveva essere. Ora dicono che cambierà la nostra vita, che non potremo più fare
le cose di prima. Ma ci pensano a me? Chi mi protegge adesso? Loro si lasciano, chi mi dice che
non lasceranno anche me? Ultimamente mi capita di avere una nuova paura: la paura di morire.
Io ho 9 anni, non ho fratelli ma ho tanti amici. Con loro adesso mi vergogno, lo sapranno tutti che
non ho più una famiglia, che a casa mia litigavano, che non sono stato capace di tenerli uniti;
scopriranno che in me c'è qualcosa di sbagliato, che sono cattivo e perderò anche loro. È meglio che
non ne parli a nessuno... non voglio fare brutta figura, deve restare un segreto.
Vi odio. Volevo crescere tranquilla e spensierata e invece adesso la mia vita è complicata. Quando
poi continuate tutti a chiedermi se sono arrabbiata e perché, la rabbia che ho dentro diventa un
fiume in piena e rompo le cose, provo a picchiare, dico un sacco di parolacce: voi allora mi guardate
con quella faccia strana e non dite niente oppure cambiate discorso, mentre prima mi avreste
sgridato per molto meno... Ecco, in questi momenti io sono veramente terrorizzata perché nessuno
mi protegge dalla mia rabbia e dal mio dolore. Voi siete i grandi, voi dovete farlo!
Oggi sono tornato dal fine settimana passato con papà e per vedere cosa mi rispondevi ti ho detto:
«Da papà sto proprio bene, ci divertiamo e mi compra tante cose, è più bravo di te e non mi sgrida».
Tu allora ti sei arrabbiata, mi hai detto che posso stare con lui visto che siamo uguali, che non ti
voglio bene. Proprio non ci arrivi, ma dove hai la testa? Cercavo solo di sapere se ti sono mancato e
quanto bene mi vuoi tu.
Spesso, adesso che papà vive nella sua nuova casa, mamma mi tiene nel lettone a dormire e io sono
veramente contento; peccato che durante la notte c'è sempre nascosto nell'armadio, al buio, quel
mostro terribile che mi vuole divorare e mi sveglio tutto sudato e spaventato.
La mamma è triste, dice che è colpa del papà che se n'è andato, che è sola e che le sono rimasto solo
io che le voglio bene e che sto dalla sua parte. A me piace difenderla come un cavaliere, papà è
cattivo a farla soffrire ma... ma mi manca tanto, io gli voglio bene, vorrei vederlo più spesso. Però
questo non posso dirlo a lei, si sentirebbe tradita anche da me. Un cavaliere è leale, non tradisce e io
ora devo occuparmi della mamma, ma come è difficile!... Non so cosa fare, non riesco a pensare ad
altro e per questo a scuola mi distraggo e non va troppo bene.
Lo vedo che papà è triste, quando dormo da lui a volte viene nella mia stanza, mi abbraccia forte, si
mette a piangere e dice che non mi lascerà mai. Quando fa così io sto male... Altre volte mi chiede
cosa fa mamma о consigli su come si deve comportare con lei; io cerco di aiutarlo, mi fa sentire
importante ma il più delle volte sono stanca e spaventata perché mi sembra che non ci sia nessuno
che può aiutare me.
La mia mamma ha il sorriso più bello del mondo, fa le facce e la voce buffa e le sue carezze sono...
sono... non ci sono parole per descriverle; il mio papà è forte, mi strapazza, mi fa saltare, mi fa il
solletico e poi facciamo la lotta. E allora proprio non capisco perché chiedono a me da chi voglio
stare stasera: come faccio io a scegliere chi dei due lasciare solo e triste?
Ehi, ci sono anch'io, mi sentite? Io sono molto piccola. Anche i miei genitori non stanno più
insieme; da qualche tempo sono spesso stanca, mi fa male la pancia e a volte la gola; mi sveglio
anche di notte e, ma questo non ditelo in giro, mi è successo di fare la pipì a letto. C'è di buono che
ho scoperto che quando mi ammalo, il papà viene da noi a trovarmi e mi coccolano insieme.
Io vado alla materna e ultimamente mi succede una cosa strana: mi sento disperata non se rompo un
giocattolo, ma se non sono più capace di aggiustarlo, di rimettere insieme i pezzi. Allora mi viene
da piangere e urlare e non riesco a calmarmi.
Io vado alle elementari, non combino guai, me ne sto per conto mio e non disturbo le maestre ma i
miei voti sono scarsi, soprattutto in matematica: non ci capisco niente. Le maestre hanno parlato
con mamma e papà e li ho visti insieme dopo tanto tempo.
Io sono più grande e ho fatto un'altra scoperta interessante: mamma e papà si incontrano tutte le
volte che i professori chiamano perché ho combinato qualche guaio; in queste occasioni il papà si
ferma a mangiare da noi, discutiamo e quando vado a letto, loro si siedono in sala a parlare di me, a
volte fino a tardi... mica male!
... e poi un giorno, all'improvviso, mi ha chiesto: «Ti piacerebbe conoscere il mio fidanzato?». Ma
questo da dove spunta, non me ne ha mai parlato! Ho risposto: «No». Allora lei mi ha detto:
«Perché no, lo invitiamo a pranzo e sono sicura che ti piacerà». Ma sicura di che? Cosa me l'ha
chiesto a fare se aveva già deciso tutto!
Invece a me il papà ha presentato una sua amica senza dirmi che è la nuova fidanzata: mi ha fatto
arrabbiare moltissimo perché mi sono sentita tradita; io l'avevo capito subito che era una bugia,
l'avevo capito dai gesti e dai loro sguardi... non sono stupida, io!
Questa io la saluto appena, ha una faccia simpatica e prima, quando ha fatto quella battuta, mi è
scappato da ridere... Speriamo non se ne sia accorto nessuno. Cosa direbbe la mamma se sapesse
che mi fa ridere! Devo stare attenta.
Questo si è montato la testa, come si permette di dirmi cosa devo fare? Non penserà mica che gli
ubbidisca! Mica è mio padre!
Adesso che ci penso tu, dottoressa, assomigli un po' alla mia nonna. La mia nonna non mi chiede
niente; mi sorride, mi accarezza senza parlare e tutte le volte che inizio un discorso non mi mette
fretta, non mi interrompe: si siede, ha gli occhi attenti e in silenzio mi sta ad ascoltare. A lei l'ho
detto che sono triste, che ho paura e che mi sento pieno di rabbia... E lei, sempre in silenzio, mi ha
fatto salire sulle sue ginocchia e mi ha tenuto stretto, al caldo. Che buon profumo ha la mia nonna,
sa... di pulito. Per fortuna che c'è!
Parte settima CRESCERE INSIEME
Non camminare dietro di me; non posso condurre. Non camminare davanti a me; non posso seguire.
Cammina accanto a me in modo che possiamo essere insieme.
Tradizione orale dei nativi americani
XVII
L'esperienza della migrazione L'importanza delle radici
Un popolo senza una storia è come il vento
sulla prateria.
Tradizione orale Sioux
Uno dei molti gruppi che ho tenuto per tanti anni è stato quello di lavoratrici straniere organizzato
dal Gruppo dorme internazionali di Milano. Erano in genere persone che si riunivano il giovedì sera
dalle sei alle nove in quanto libere dal lavoro di colf о di badanti svolto presso famiglie italiane. Ho
sentito all'interno di quel gruppo, nel corso degli anni, le storie più incredibili: da chi proveniva da
zone di guerra africane e aveva viaggiato per mesi con mezzi di fortuna durante la notte,
nascondendosi nelle foreste di giorno per poter raggiungere l'Europa, a chi aveva lasciato al paese
d'origine un lavoro qualificato però mal retribuito per poter provvedere meglio alle esigenze
economiche familiari facendo un lavoro più umile in Italia. Ci siamo interrogate su che cosa avesse
voluto dire per ognuna di loro questo sradicamento e sul senso di spaesamento, incertezza, paura
che aveva caratterizzato il loro inserimento nella nostra società.
Ho solo l'imbarazzo della scelta nel ricordare alcuni spezzoni di storie particolarmente significative.
Io sono arrivata in Italia a 16 anni, portata da una famiglia che mi aveva promesso di farmi studiare
nel tempo libero se mi fossi occupata della casa e dei bambini. L'ho fatto per alcuni anni ma la
promessa non è stata mantenuta, anzi, sono stata molto male con loro. Non mi lasciavano neanche
uscire di casa la domenica e mi ricattavano per il fatto che ero ancora clandestina, con la minaccia
che mi avrebbero arrestata e rimandata al mio paese. Ma io avevo bisogno di lavorare perché con
quei soldi mantenevo i miei sei fratelli minori che erano rimasti orfani dopo la morte di mia madre.
Una domenica però non ce l'ho fatta più a rimanere chiusa in casa, sono andata in piazza Duomo e
mi sono seduta sugli scalini, vicino a delle ragazze che parlavano una lingua che io capivo perché
assomigliava allo spagnolo. Ho scoperto dopo che erano delle ragazze sarde che facevano le colf a
Milano. Quando mi sono avvicinata e hanno sentito la mia storia mi hanno detto che avrebbero
parlato con le suore che le ospitavano per vedere se potevano ospitare anche me e così abbiamo
fatto. Una sera quando i miei padroni sono tornati io mi sono fatta trovare con la valigia pronta, gli
ho consegnato le chiavi di casa e sono scappata via. Mi hanno persino inseguito in strada urlando
che mi avrebbero arrestato, ma io questa volta ho vinto la paura. Le suore sono state molto
disponibili con me, mi hanno dato un letto e mi hanno trovato una bravissima famiglia dove sono
stata molto bene e ho potuto frequentare le scuole per diventare maestra d'asilo. Quando mi sono
diplomata avrei potuto benissimo continuare a stare da loro perché stavo benissimo ed ero molto
affezionata, ma loro mi hanno detto che era giusto che facessi il mio nuovo lavoro perché era per
questo che ero venuta in Italia. E ora sono ormai trent'anni che sono qui, mi sono perfettamente
inserita e mi occupo anche di aiutare le altre lavoratrici straniere.
Ho imparato tanto da questo gruppo, tantissimo, non solo sulle loro radici, ma anche sullo spaccato
di società italiana che descrivevano dall'interno delle case.
Io lavoro come badante di un'anziana signora, ma sono molto dispiaciuta di vedere come vengono
trattati i vecchi in Italia. La figlia della mia signora abita sopra di lei, ma la mattina non passa
neanche a salutarla prima di uscire, per la fretta che ha di andare al lavoro. Allora è lei che si alza
presto per mettersi dietro alla finestra per vedere sua figlia almeno quando esce dal portone e
attraversa la strada per entrare in macchina. E quando invece scende a trovarla di solito non parla
con lei, parla solo con me per dirmi che cosa devo fare e darmi tutte le istruzioni. A me spiace
molto perché vedo che la signora ne soffre. La trattano come se non capisse più le cose, ma non è
vero, capisce benissimo, solo che finge di non accorgersene. Che cos'altro potrebbe fare?
Io lavoro come badante da una coppia di anziani a cui sono molto affezionata e da cui sto benissimo
perché sono proprio due persone squisite. Sono una coppia senza figli e si occupano del mio
bambino come se fosse un loro nipotino. Gli fanno persino fare i compiti con loro di pomeriggio.
Quando ho fatto il corso per assistente geriatrica mi era stata offerta l'assunzione in un istituto e io
ero molto tentata di andarci perché sarebbe stata una buona opportunità per me, così avrei potuto
fare anche un mutuo per comperarmi un piccolo appartamento. Invece loro mi hanno convinta a
restare e mi hanno addirittura regalato un appartamento per viverci con mio figlio. Me l'hanno
persino fatto scegliere tra vari e io non capivo proprio perché volessero il mio parere a tutti i costi.
Ho capito solo dopo che era per me e mio figlio! Non avrei mai pensato che nella vita mi sarebbe
capitata una tale fortuna!
Al mio paese ci sono molte bellissime ragazze che vengono in Italia e finiscono per fare le
prostitute. Il mio sogno sarebbe quello di fare la mediatrice culturale per liberarle. Sono tutte così
giovani e spesso fanno proprio una brutta fine! Ma le più difficili da convincere sono quelle che si
sono abituate al lusso e al consumismo. Una volta ho parlato con alcune di loro che vivono con
molto agio in una grande villa, in provincia, mantenute da ricchi signori italiani del posto, ma mi
sono scontrata sempre con la stessa risposta: «Anche a noi piacerebbe smettere di fare questa vita,
ma poi chi ce li dà i venti milioni al mese che guadagniamo qui?». [È una riflessione di parecchi
anni fa, quando c'erano ancora le lire.]
Al mio paese si fa una grande festa quando una ragazza compie 16 anni perché diventa adulta. Ce
l'ho ancora in bocca il sapore del brodo di gallina che mia madre mi ha preparato. Era un lusso
eccezionale per noi. Non ho mai più assaggiato un brodo così buono in tutta la mia vita! Mia nonna
ci raccontava delle storie meravigliose sulle erbe con cui ci faceva la minestra. A noi sembrava di
essere dei gran privilegiati a poterla mangiare; in realtà lei lo faceva per consolarci perché non
aveva altro da darci, ma noi eravamo felici e ci sembrava un gran lusso!
Ho sentito descrivere infiniti atti di cura da parte di nonni e genitori verso i bambini anche nelle
situazioni più difficili. Sono diventati il bagaglio affettivo che ognuna di loro si è portata dietro
nella migrazione e che conserva con cura. Ecco il racconto, che ho già riportato in un altro libro, di
una donna colombiana:
Quando sono partita per l'Europa mio padre mi ha regalato il suo oggetto più prezioso. Era un sasso
di quelli che si trovano nelle miniere di smeraldi dove lui aveva lavorato. Se lo smeraldo c'è, è solo
lì dentro che può essere trovato, ma per saperlo bisogna aprire il sasso perché non tutti lo
contengono. Mio padre l'aveva conservato con cura ancora chiuso: era il sogno della sua vita. Però
quando io sono partita se ne è privato e l'ha regalato a me come suo ricordo. Io ormai sono in Italia
da venticinque anni e lo conservo con la sua stessa cura. Neanche io l'ho mai aperto e lo passerò a
mia figlia ancora intatto: spero che anche lei non l'aprirà mai. Quel sasso è il sogno della vita di mio
padre e un sogno vale molto di più dell'eventuale smeraldo che dovesse contenere!
Ha scritto Carlotta, 8 anni:1
Crescere insieme pur essendo diversi, è bello. Un giorno in giardino ho visto una bambina che se ne
stava tutta sola, mentre gli altri giocavano; le sono andata vicino e le ho chiesto: «Perché sei qui
tutta sola?». Lei mi ha risposto: «Nessuno vuole giocare con me». Allora io le ho proposto di unirsi
a me. Abbiamo giocato al gioco che voleva lei e dopo a quello che volevo io. Un giorno le ho
chiesto come mai aveva il velo sulla testa. Lei mi ha risposto: «È la mia tradizione. E tu perché non
lo porti?». «Perché la mia tradizione non lo vuole.» Da allora siamo diventate grandi amiche.
Stando insieme a quella bambina ho imparato che anche se abbiamo tradizioni diverse si può essere
grandi amici e imparare gli uni dagli altri. L'intervento che segue è a cura di Ida Finzi, psicologa e
psicoterapeuta, che ha avuto una lunghissima e appassionata esperienza istituzionale nei servizi
pubblici di Milano, in particolare nei consultori, e che si occupa attualmente di sostegno alla
genitorialità delle famiglie immigrate.
Essere genitori nella migrazione: un compito particolare
di Ida Finzi
Tutti i bambini della Terra saranno i benvenuti ai nostri focolari.
Tradizione orale Seneca (nativi americani)
Khaled è nato in Marocco, in un piccolo paese ai margini del deserto. Suo padre non c'era al
momento della sua nascita, perché già da diversi anni era emigrato in Italia; stava preparando una
casa e il ricongiungimento per la moglie e per il piccolo che stava per arrivare. Quando lui ha
compiuto otto mesi sono partiti, mamma e neonato, per venire a vivere tutti insieme.
Intorno alla nascita di Khaled si sono attivate, come sempre accade al paese, le nonne, le sorelle e le
cognate. Kadija, la mamma, non è stata lasciata sola; ha ricevuto cure e consigli dalla famiglia
allargata. La nonna paterna ha deciso il nome del bambino (il nonno è morto parecchi anni fa),
osservando le regole familiari; Kadija è stata a casa per i quaranta giorni prescritti; il latte è venuto
regolarmente, e ora che il piccolo è un po' cresciuto Kadija è pronta a partire.
L'arrivo in Italia è molto frastornante: è gennaio, fa freddo, è buio e piove sempre, la casa è
piccolissima e uscire è difficile, c'è traffico e la mamma non si sa orientare. Deve aspettare che
Mahmud torni dal lavoro e l'accompagni: lui del resto non è contento che escano da soli.
Kadija indossa l'abito tradizionale e le sembra che tutti per strada la guardino in un modo strano. Ci
sono persone che vanno di fretta, rumore, odori sconosciuti; non sempre si riescono a trovare le
cose giuste per cucinare. Meno male che c'è da occuparsi tutto il giorno di Khaled, altrimenti la
tristezza e la solitudine assalirebbero il cuore di Kadija. Lei è stata educata a essere una buona
moglie e sa che deve seguire il marito, lui sa come muoversi in questo paese perché ci vive da tanto
tempo. Ma lei non si aspettava un posto così brutto, e poi le cose costano molto care e soprattutto è
sempre sola, non c'è nessuno con cui parlare, nessuno capisce la sua lingua e lei non sa leggere che
cosa c'è scritto sui muri e nei negozi.
Questo racconto si potrebbe ripetere, con poche variazioni, per molte donne e molte famiglie che
vengono a vivere da noi per cercare di dare ai loro figli delle opportunità di vita migliori.
Ci sono donne che partono sole, specie dai paesi latinoamericani, lasciando i figli alle madri e alle
sorelle, pensando che presto potranno tornare a prenderli e portarli con sé, e poi magari passano
cinque о sei anni perché le condizioni di vita sono molto più difficili del previsto, i viaggi troppo
costosi e le procedure di ricongiungimento lunghe e complicate.
Altre partoriscono qui e mandano i bambini al paese perché non trovano soluzioni che rendano
compatibili il lavoro e il loro accudimento. Anche con questi bambini la separazione è dolorosa e il
ricongiungimento difficile. Altre infine riescono a vivere con il marito e i figli in Italia, ma devono
sacrificare i legami con le famiglie d'origine rimaste al paese.
La storia dei bambini che crescono da noi non è sempre uguale; alcuni vanno benissimo,
perfettamente bilingui, attenti e curiosi, imparano a transitare fra i due mondi e fanno della loro
esperienza un arricchimento senza conflitti. Per fortuna questa è la maggioranza.
Per Khaled non è andata così.
Quando è entrato alla scuola materna ha sofferto molto della separazione dalla mamma, e anche lei
è stata molto triste. Poi, pian piano, si è isolato e ha smesso di comunicare, persino con la madre. Le
insegnanti di seconda elementare, quando lo segnalano agli psicologi, dicono che il bambino non
parla né italiano, né arabo, né berbero, anzi non capisce quando la mamma gli parla e caso mai sa
un po' di italiano che parla con il padre quando torna a casa la sera. Naturalmente ci sono grosse
difficoltà per imparare e per comunicare con i compagni, anche se tutti hanno l'impressione che si
tratti di un bambino intelligente. Il suo pensiero sembra bloccato, ma gli occhi sono vivissimi. Le
maestre sono consapevoli che questo bambino non rientra nelle valutazioni alle quali sono abituate.
Lavorando con la famiglia, con l'aiuto di una mediatrice linguistico-culturale, possiamo ricostruire
la storia della migrazione, della sofferenza della mamma per la solitudine e la difficoltà di
inserimento in Italia, della sensibilità del bimbo verso gli stati emotivi della madre e della difficoltà
a impegnarsi nel mondo di accoglienza per paura di lasciarla sola. Pian piano, con molto aiuto,
Khaled ha cominciato a imparare a scuola e la mamma ha imparato a uscire qualche volta da sola о
per accompagnarlo.
Se non entriamo in un contatto diretto con le persone che vengono da altri paesi, ma soprattutto se
non riflettiamo con molta attenzione intorno alle emozioni che si attivano nei diversi momenti della
vita dei singoli e delle famiglie, non possiamo identificarci con le loro difficoltà e i loro bisogni.
Prima di tutto occorre un esercizio che nessuno ci ha insegnato: il «decentramento culturale».
Dobbiamo cioè renderci conto che i nostri parametri di riferimento sono culturalmente determinati,
sono cioè all'interno dei valori, delle abitudini, dei giudizi e delle spiegazioni che ci mette a
disposizione la nostra cultura di appartenenza. In altri paesi la cultura di appartenenza è diversa e
fornisce altri parametri. I gruppi sociali si sviluppano all'interno di processi di condivisione
culturale. Quando si emigra si produce una rottura nell'appartenenza culturale e si vive una
situazione di estraneità che spesso è molto più forte e dolorosa di quanto ci si potesse immaginare
prima del viaggio.
La metafora dell'involucro culturale rende bene l'idea di una membrana protettiva che al tempo
stesso costituisce l'ambiente nel quale ci si struttura e si dà senso agli eventi, e il limite all'interno
del quale i significati e le rappresentazioni possono essere condivisi con gli altri che si muovono
all'interno del medesimo ambito.
Tutti facciamo riferimento a un involucro culturale, ma non ne siamo consapevoli perché è al suo
interno che costruiamo la nostra identità e la condivisione con gli altri del nostro mondo di
rappresentazioni. È solo quando l'involucro si lacera, perché cambiamo paese о perché veniamo in
contatto con persone diverse da noi, che ci rendiamo conto della nostra posizione e del sentimento
di alterità che il diverso suscita in noi.
Le persone migranti, in qualsiasi condizione avvenga la loro migrazione, vivono il trauma della
rottura del loro involucro culturale. Come Kadija, si sentono in un luogo freddo perché non
amichevole, non familiare, non accogliente, non rassicurante, nel quale non solo la lingua, ma anche
i gesti e i significati dei comportamenti sono incomprensibili, dove le persone sono estranee e poco
accoglienti, hanno modi di fare diversi e fanno sentire la solitudine e l'anonimato. Ognuno pensa per
sé e gli sguardi sono indifferenti, nessuno capisce quali siano i bisogni о le difficoltà nelle quali ci si
muove; le educatrici vogliono cose incomprensibili e la scuola ancora di più.
A Kadija sembrava che le maestre si facessero rispettare poco dai bambini, che non fossero severe
come al suo paese. Lei peraltro era andata a scuola pochi anni e aveva molto rispetto dei suoi
insegnanti, anzi, ne aveva paura. Quando li incontrava abbassava lo sguardo. Qui è tutto diverso.
Lei non va a parlare con le maestre, tanto non capirebbe nulla. Ci va qualche volta il marito, che
capisce l'italiano molto più di lei, ma anche lui non sa che cosa fare con il bambino, cerca di fargli
svolgere i compiti ma lui non riesce, non ne ha voglia о non è capace.
Anche Marc e Aida non vanno mai a parlare con gli insegnanti dei loro figli perché non capiscono
abbastanza l'italiano e si vergognano di fronte agli altri genitori e agli insegnanti. Sono immigrati
dalle Filippine da parecchi anni, ma non hanno mai imparato l'italiano più di quanto non sia loro
indispensabile per il lavoro; hanno sempre lavorato moltissimo e pensano che per le faccende della
scuola i loro figli si possano gestire da soli. In apparenza infatti i ragazzi, che frequentano le medie,
sono perfettamente bilingui e ben inseriti nel sistema, ma in terza quando il maggiore comincia ad
andar male, a marinare scuola e a frequentare cattive compagnie i genitori sono completamente
spaesati, si sentono incapaci di intervenire; privati degli strumenti che come genitori avrebbero nel
loro paese d'origine, sembrano aver perduto la competenza a svolgere il proprio ruolo.
Occorre accompagnarli e aiutarli a trovare una risorsa per aiutare i figli a studiare e a fare scelte
positive, anziché scegliere il gruppo deviante del quartiere. A questo punto i genitori si rendono
conto che la competenza dei loro ragazzi a muoversi in Italia è solo apparente: capiscono
perfettamente la lingua, ma sono privi di una guida per la scelta di comportamenti adeguati.
Il trauma della migrazione può essere superato in un certo tempo, se le condizioni del mondo di
accoglienza sono abbastanza favorevoli e se le persone riescono a mettere le loro risorse personali,
il loro coraggio e la loro fiducia al servizio della nuova avventura che hanno intrapreso, se
incontrano qualcuno che possa svolgere per loro una funzione di accompagnatore e di guida che li
aiuti a decodificare gli impliciti sociali, a scoprire le somiglianze, a vedere che ce la si può fare e
che il cambiamento non distrugge e non minaccia l'identità. Se i bambini e i ragazzi hanno la
fortuna di incontrare buoni maestri о educatori che li accompagnano a scoprire un mondo del quale
i loro genitori non sono esperti. Se non si sentono di tradire la famiglia quando imparano e
conoscono bene la cultura di qua. Se riescono a tenere insieme gli affetti e la storia familiare e il
paese d'origine con tutto quello che fa parte della conoscenza e della vita dei loro compagni di qua.
Spesso i genitori migranti pensano che sia meglio non trasmettere la propria cultura, sia perché
credono in questo modo di facilitare l'integrazione dei loro figli, sia perché per loro è doloroso
ricordare le persone e le cose lasciate, sia perché i bambini, sospesi fra due mondi, non fanno
domande e sembrano non essere interessati.
In realtà, anche se un po' doloroso, il racconto del mondo di provenienza serve a collocare in un
luogo più reale le proprie radici, a rappresentare le origini e l'appartenenza, a costruire un senso di
identità che altrimenti risulterebbe mancante di una parte. Il senso di quello che accade oggi si trova
nel racconto di una storia che è iniziata altrove, che deve essere narrata per allargare gli orizzonti,
per condividere con i genitori e i nonni, anche se non presenti, il senso delle tradizioni, delle
abitudini, dei significati e dei valori. Se questo non avviene si resta in un mondo sospeso che non ha
radici e non appoggia su una terra solida sulla quale costruire la propria identità.
Molti disegni dei bambini migranti che seguiamo nelle psicoterapie rappresentano case e persone
sospese nell'aria, oppure aerei che trasportano la famiglia о una sua parte da un lato all'altro del
mondo, о carte geografiche, о bandiere di paesi diversi. Riconoscere che si appartiene a più di un
paese, conoscere più di una lingua, saper passare da un mondo all'altro senza vivere questo come
una contraddizione ma assumendolo come una ricchezza in più, incoraggiare a «meticciare» mondi
e culture diverse in una rappresentazione di sé nuova e originale sono le strade che permettono di
risolvere lo stato di conflitto interno e di insicurezza nel mondo esterno.
C'è una difficoltà specifica per molte donne migranti: vengono da culture tradizionali che però sono
in via di trasformazione; si sposano in maniera tradizionale, ma hanno aspettative di una vita
diversa da quella delle loro madri. Spesso hanno studiato e non possono esercitare le professioni per
le quali sono preparate. La migrazione le porta in un mondo che hanno pensato solo in modo
virtuale e che non corrisponde affatto alle loro rappresentazioni; nel nuovo ambiente manca
l'accompagnamento delle altre donne che stanno percorrendo un cammino simile al loro, sia per
quanto riguarda lo svolgimento delle loro funzioni nell'ambito familiare sia per i nuovi compiti
connessi con la condizione di migrazione. Manca la sintonia con una società che da un lato le
spinge in avanti, dall'altro spesso le costringe nuovamente in una posizione di subordinazione.
Alcune di quelle che hanno studiato nel loro paese erano in grado di lavorare come e più dei loro
compagni, mentre nella migrazione svolgono lavori umili о sono casalinghe.
I bambini che nascono, qui come là, sono percepiti a livello profondo come un destino, un
completamento, la realizzazione dell'identità, una compagnia. Ma nel momento in cui il bambino
esce dal grembo, scende dalle ginocchia, si posa su una terra che non è familiare e non rassicura.
Dovrà nutrirsi di cibi sconosciuti, frequentare persone diverse, imparare cose ignote. Diventerà uno
straniero per i suoi genitori e sarà più competente di loro nel muoversi in questo mondo estraneo.
Un bambino che non apparterrà, che non sarà vicino, che dovrà fare scelte diverse dalla famiglia.
I bambini cambiano i genitori e li fanno crescere come persone e come capacità di capire il mondo,
ma bisogna che i genitori siano disponibili a lasciarsi cambiare in modi anche imprevisti, che non
abbiano troppa paura di perdere il contatto e il controllo, che si lascino portare in una direzione che
non può essere del tutto prevista e rappresentata. I bambini sono molto sensibili alle emozioni che
circolano in famiglia, anche a quelle che non sono espresse verbalmente, e a volte con i loro sintomi
parlano a nome proprio e a nome dell'intera famiglia.
Ricordo Fatima, una bambina egiziana di 7 anni, appena arrivata con la mamma e il fratello gemello
Mustafà per ricongiungersi con il papà che viveva a Milano da molti anni. Fatima piange con grosse
lacrime che le rigano le guance, e mi racconta della sua maestra, delle compagne e della famiglia
che ha lasciato al Cairo; sa che non sarà più come prima, anche se tornerà per le vacanze. Sono
venuti in Italia per stare con il papà, senza aver deciso se sarebbe stato per un periodo о per sempre.
Appena arrivati hanno capito che il progetto era di restare, perché il papà aveva comprato una casa
qui e aveva per loro un'idea di stabilizzazione. Nemmeno la mamma lo sapeva con certezza, e se ne
è resa conto arrivando. Lei stessa ha lasciato in sospeso il proprio lavoro di insegnante, è in
aspettativa, e vive con dubbi e difficoltà la scelta che ha di fronte. Fatima, piangendo, disegna le
piramidi, le palme, la frutta e il sole del suo paese mentre la mamma la guarda silenziosa. Ho
l'impressione che la bimba stia piangendo di nostalgia per sé, ma anche per la sua mamma; Mustafà,
più pragmatico e positivo, è già inserito con i nuovi compagni e sembra non avere rimpianti.
Il progetto migratorio incide molto sulla capacità di adattamento. Spesso però si tratta di un progetto
a breve termine, che si modifica nel tempo. Tanti infatti pensano che staranno qui per un certo
periodo e poi torneranno al paese, ma non si rappresentano in anticipo il fatto che i loro figli
probabilmente non vorranno tornare. La partenza è all'inizio provvisoria, anche nell'illusione che la
vita sia più facile e fortunata di quanto non avvenga in realtà. Le difficoltà di lavoro e di
sistemazione sono sempre più gravi del previsto, e diventano via via più complesse.
Improvvisamente ci si trova a dover modificare il progetto perché sono passati anni, i figli sono
cresciuti qui e non si può tornare. Così si vive in una sorta di sospensione, si è qui ma si ha la
nostalgia di un ritorno sempre rimandato. Stanno meglio le persone che riescono a rappresentarsi
come appartenenti ai due mondi, che riescono a sentirsi bene nei due contesti, con la
consapevolezza che tutto cambia, sia loro che gli altri che sono rimasti a casa. Non troveranno le
stesse situazioni, ma potranno osservare come si modificano i mondi, come loro stessi percepiscono
le cose diversamente, con il piacere di tornare sia pur provvisoriamente e la consapevolezza di aver
ampliato il proprio orizzonte e di saper conoscere mondi e persone diverse.
Questo vale anche per noi, che possiamo avvicinarci a chi viene da altri paesi con empatia e
curiosità, possiamo allargare le nostre prospettive e le nostre conoscenze se partiamo dalla
consapevolezza che ciascuno fa riferimento alle proprie rappresentazioni culturali, ma che ne
esistono molte altre che spiegano gli eventi della vita, la nascita, la morte, i rapporti fra le persone e
con la natura in modi diversi dai nostri, che utilizzano rituali propri e tradizioni che vengono da
tempi antichi e da luoghi che non conosciamo. Ma per avvicinarci dobbiamo non aver paura di
essere curiosi e di interessarci a cose che stanno al di fuori di quello che ci è noto, che seguono altre
logiche e altri modelli di riferimento.
Cecilia è partita dall'Ecuador otto anni fa. Ha lasciato il marito e tre bambini perché con il lavoro
che avevano lì non ce la facevano proprio. È stata sua cognata a proporle di venire; tornava al paese
ogni tre anni, mandava denari per la famiglia, le sembrava che se l'avesse seguita avrebbe potuto in
poco tempo cambiare la loro situazione. David, il bambino più grande, aveva 7 anni ed era
legatissimo a lei. Gli ha detto di aver pazienza, che sarebbe tornata presto, al massimo dopo due о
tre anni. C'erano la nonna, le zie e il papà, non era solo. L'arrivo è
L'esperienza della migrazione
stato molto faticoso, il lavoro non si trovava e per oltre un anno il progetto non ha potuto nemmeno
cominciare: Cecilia dice che sarebbe ripartita subito! Ma si era indebitata per il viaggio e non
poteva più rientrare. Sono passati sei anni prima di poter ottenere il ricongiungimento della sua
famiglia; adesso ha una casa e i suoi figli qui, ma David, che ora ha 13 anni, alterna momenti in cui
sembra un bambino piccolo e vuole le coccole della mamma, a momenti di ribellione e opponenza,
nei quali le rimprovera di averlo lasciato per così tanto tempo, facendola soffrire e sentire
inadeguata.
Il ricongiungimento tanto desiderato e atteso, avvenuto fra persone che ormai quasi non si
conoscono più, rischia di essere una delusione per tutti. Il tempo è passato senza che la madre e i
figli potessero vedere i reciproci cambiamenti; Cecilia si è accorta che a David cambiava la voce
per telefono, che dalle foto stava diventando un ragazzone, ma nel suo pensiero era ancora il
bambino che aveva lasciato a 7 anni. David a sua volta pensava di ritrovare la mamma casalinga che
aveva nella memoria di bambino, e nel desiderio di rivederla non si era immaginato nient'altro, non
la casa, la scuola, i ragazzi italiani, la lingua diversa. L'arrivo è stato molto traumatico per lui;
adesso, dopo due anni, alterna momenti nei quali ha voglia di stare con gli altri ragazzi e
comportarsi come loro, e momenti di rabbia per il tempo che è passato senza sua madre e anche per
ciò che ha lasciato al paese, i suoi amici, la nonna, il clima e gli spazi conosciuti.
La storia di Cecilia e di suo figlio David è quella di molti altri ricongiungimenti che avvengono
dopo anni di lavoro e di desiderio, seguendo un progetto intorno al quale si sono concentrate tutte le
forze e le speranze e che quando finalmente si realizza mette in ombra gli aspetti soggettivi e le
difficoltà di ciascuno dei membri della famiglia che hanno vissuto a lungo vite separate. Cecilia
come tutti i genitori vuole che i suoi figli siano bravi a scuola, che studino bene e abbiano un titolo
italiano che consenta loro di trovare lavori meno pesanti del suo. Ma per essere disponibili allo
studio, in adolescenza e dopo una migrazione, occorre aver superato una serie di difficoltà legate
allo spaesamento e al ricongiungimento oltre che ai problemi evolutivi propri dell'età. A David,
come a molti altri ragazzi, si chiede quindi uno sforzo molto grande, che non sempre ha buon esito e
soprattutto non sempre è riconosciuto dai genitori.
Sarebbe importante che genitori e ragazzi fossero accompagnati da un aiuto, magari in un gruppo di
persone che hanno affrontato gli stessi passaggi, per poter condividere i momenti di difficoltà e
scoprire strategie utili a non sprofondare nell'ansia e nella delusione.
Ai genitori migranti manca infatti il legame transgenerazionale, il collegamento con i propri genitori
e con la famiglia allargata che costituisce per tutti una modalità di sostegno al proprio compito
educativo. Dal paese non possono essere consigliati e aiutati, perché chi rimane non può
rappresentarsi il mondo di qua e le sue complessità. Inoltre non possono raccontare i problemi che
incontrano perché, dicono, non vogliono preoccupare chi è lontano e non può comunque
intervenire.
Ma i modelli educativi interiorizzati e appresi durante la loro vita là non si applicano se non molto
parzialmente nel mondo di accoglienza; e quali modelli allora è bene adottare? Come deve essere
un genitore di un altro paese che vive qui, che conserva i propri modelli e i propri valori e al tempo
stesso desidera che i figli si inseriscano a pieno titolo nel mondo italiano?
La soluzione è complessa ed è affidata contemporaneamente alla loro capacità di essere flessibili e
adattabili, alla capacità dei ragazzi di mediare e mescolare i mondi in maniera creativa, e alla nostra
capacità di costruire modalità di accoglienza intelligente e lungimirante, che si basi sul rispetto
reciproco.
XVIII
Un esempio di lavoro psicopedagogico preventivo
L'aiuto delle storie
«Che cosa vorresti se avessi una bacchetta magica?» «Vorrei essere rispettato.»
ANDREA, 6 anni
Quella che segue è la descrizione di un intervento preventivo fatto da una docente ticinese di
sostegno con una formazione specifica nel metodo di «Fare storie che si susseguono» ideato da
Ferruccio Marcoli.1 Si tratta di uno dei vari possibili interventi di aiuto psicologico a un bambino
ed è applicabile sia nel campo della psicoterapia sia in quello scolastico della prevenzione, come in
questo caso. In entrambi è richiesta una formazione specifica, che implica anche un lavoro su di sé.
Il valore terapeutico è dato dall'offrire al bambino la possibilità di modificare il suo funzionamento
mentale e farlo evolvere verso uno sbocco che l'accompagni meglio davanti ai problemi e alle
difficoltà della vita, lo aiuti a costruire i suoi «contenitori mentali» e a integrarsi maggiormente nel
gruppo invece di esserne emarginato per via di comportamenti socialmente inadeguati.
Fanno parte di questo quadro alcune caratteristiche fondamentali un po' a tutti gli interventi
psicologici di aiuto per un bambino che gli possano favorire l'acquisizione delle «sue» sicurezze
lentamente nel tempo, fra cui:
1. La prevedibilità delle situazioni. Il bambino si trova sempre davanti una situazione familiare,
nota, rassicurante (stessi orari, stesse persone, stessi rituali ecc.) e conosciuta, che non lo fa mai
sentire colto «a tradimento» e dove può abbassare le difese nevrotiche perché non si sente in
pericolo. Tutto è prevedibile e tranquillizzante.
2.
La costruzione dei propri confini (essenziali per l'acquisizione dell'identità) attraverso la
conquista della «separazione». Per sapere chi siamo dobbiamo innanzitutto sapere che siamo «noi»
e non «un altro» con cui ci sentiamo attaccati e confusi. Non a caso la crescita psicologica di un
bambino è chiamata processo di «separazione, differenziazione, individuazione». Sono i muri non
solo perimetrali ma anche portanti con cui il bambino costruisce la casa della sua identità.
Non ci può essere casa senza confini. È questo il significato degli spazi separati in questo metodo.
3.
La capacità di tollerare la separazione. È solo se si sono interiorizzate abbastanza sicurezze
che si può reggere l'ansia della separazione (in questo caso è il telefono che permette al bambino nel
«suo» spazio privato di mettersi in contatto con l'adulto fuori quando l'ansia è eccessiva).
4.
L'essere avvertito e informato prima rispetto a ciò che avverrà. Questo permette la
rassicurante sensazione di sentirsi al sicuro, con le spalle protette, e di avere davanti un adulto
affidabile che non colpirà a tradimento (quanti bambini vengono inconsapevolmente feriti su questo
terreno da adulti che nascondono loro delle cose pensando di proteggerli, senza invece rendersi
conto che così li si manda allo sbaraglio nella vita!).
5.
Il rispetto delle regole («Non ci si fa male!», «Non si rompono gli oggetti!» ecc). L'adulto le
rispetta anche quando il bambino le infrange. È rispettandole che insegna a rispettarle. La regola è
regola e vale rigidamente per tutti, ma è più facile da rispettare per i grandi piuttosto che per i
piccoli. L'adulto che le rispetta insegna a diventar grandi, perché il grande è lui, non il bambino! Il
bambino avrà i suoi tempi per impararle e diventar grande attraverso l'esempio dell'adulto che le
rispetta.
6.
Il rispetto della privacy. Il quaderno comune su cui scrivono il bambino e l'adulto, per
esempio, in questo metodo può essere mostrato ai genitori solo se il bambino ne dà il permesso. È
questo che gli rinforza la fiducia in sé e l'autostima, attraverso un contratto reciproco con l'adulto,
che viene rispettato. Il bambino non si trova allora nella situazione di sentirsi un oggetto nelle mani
di adulti che non riescono a considerarlo una persona separata e a sé stante, ferendolo così in uno
dei suoi bisogni fondamentali e irrinunciabili, il rispetto dei suoi confini e della sua individualità.
7.
L'esposizione all'esempio di un modello mentale adulto che abbia acquisito la «capacità
negativa» di reggere i momenti difficili, il vuoto, le emozioni tempestose senza riempirli di parole о
passando agli agiti. Il bambino che impara a poco a poco per imitazione queste capacità andrà più
protetto verso la vita; è più facile che da adolescente cerchi uno sbocco più evoluto per i momenti di
difficoltà, invece di inforcare un motorino e andare a sbattere contro un muro oppure impasticcarsi.
8.
La fermezza sui no e sui limiti, che contengono maggiormente un bambino e lo fanno sentire
a lungo andare più sicuro e protetto invece che confuso, incerto e insicuro. Fermezza e rispetto
viaggiano insieme, non sono opposti.
9.
La capacità dell'adulto di interrogarsi su ciò che succede, fornendo un esempio di
funzionamento mentale. «Grazie per avermi fatto capire che per trovare la risposta devo prima
imparare a farmi la domanda giusta» ha risposto una mamma su un questionario.
Le storie che si susseguono: un modello di intervento preventivo e psicoterapeutico
di Verena Petrocchi
Dare ascolto alle richieste d'aiuto dei nostri figli e ritrovare in loro parte di noi e delle nostre
fragilità è un'occasione unica per riscoprire insieme a loro un nuovo modo di camminare.
Un genitore2 Il modello del «Fare storie che si susseguono» è stato ideato da Ferruccio Marcoli una
ventina di anni fa. Pensato per la prevenzione e la terapia dei disturbi del pensare, partendo da
alcuni concetti di Wilfred Bion, è stato alla base di una ricerca con allievi della scuola dell'obbligo
(dalla materna alle medie) da cui è stato pubblicato il testo Il pensiero affettivo.
L'assunto fondamentale è che il neonato sia in una relazione comunicativa con chi si prende cura di
lui (in genere la madre) sin dalla nascita. Il neonato fa storie: non parla, ma comunica attraverso il
suo corpo e con il pianto i suoi bisogni/desideri. Il bimbo è sopraffatto da ansie quando vive
emozioni e sensazioni che per lui non hanno ancora senso: è in contatto con un mondo interno e uno
esterno, riferito al proprio corpo, a cui non può ancora dare un nome.
Sarà l'accudimento della madre che lo favorirà nello sviluppo del suo apparato per pensare, che gli
permetterà, a poco a poco, di portare dentro ciò che il mondo esterno gli presenta e di espellere ciò
che non gli serve, che lo ingombra. Un po' come avviene per l'apparato digerente: il cibo che entra
deve essere elaborato per poter espellere le scorie che non servono e trattenere invece le sostanze
che sono necessarie e vitali. La mamma gli cambia il pannolino e si preoccupa di quanta cacca ha
fatto il suo piccolo. Lo stesso vale per le emozioni che il bimbo espelle quando, per esempio, piange
perché ha fame: sarà la mamma che accompagna il figlio a sopportare l'attesa del pasto con delle
parole e dei gesti rassicuranti, pensando per lui e trasmettendogli così la capacità di svolgere
autonomamente questa funzione di bonifica in futuro, la capacità di pensare, appunto.
Trattandosi di una relazione comunicativa possono insorgere dei problemi proprio attraverso la
comunicazione a partire dai due poli. I neonati sono onnipotenti: vogliono tutto e subito abituati
com'erano nel grembo materno a non avere tempi d'attesa. Ogni neonato ha una capacità diversa,
anche tra fratelli, di sopportare la frustrazione: l'attesa del cibo, di una risposta gratificante. Anche
le mamme e i papà possono non riuscire ad accogliere le ansie del loro piccolo perché sopraffatti
dalle loro, determinate dalla storia della loro vita passata o contingente. Ne risulta una
comunicazione difettosa che non permette un adeguato sviluppo dell'apparato per pensare.
Il bambino, e non solo il neonato, ha quindi bisogno anche di imparare a convivere con i limiti suoi
ed esterni per affrontare la sua onnipotenza, la frustrazione dei propri desideri, le sue rabbie e le sue
ansie, per confrontarsi con degli adulti che lo sappiano contenere e sappiano contenere le storie che
fa. Spesso si dice a un bambino: «Su, non fare storie» quando ci mostra il suo disappunto, attraverso
il fare capricci о il contestare vivacemente un nostro «No, questo non si può».
Quando il bambino si arrabbia, si sente frustrato nella sua onnipotenza che gli garantisce di poter
esaudire tutti i suoi desideri, agisce questa sua rabbia attraverso un'azione che gli permette di
scaricarla e allora al supermercato si butta per terra urlando e piangendo perché l'adulto non gli
compera ciò che desidera. Ci sembra che tutti stiano guardando la scena, siamo in ansia per paura
del giudizio degli altri, cosa fare? Magari, se l'ansia è molto forte, reagiamo e sculacciamo il piccolo
che diventerà ancora più recalcitrante e noi ci sentiremo dire: «Non si fa così con i bambini!». Ci
sentiremo pieni di colpa e impotenti. Il bambino, con l'espressione del suo desiderio onnipotente, ci
ha resi tali. Se le nostre ansie non ci sovrastano, potremo invece mantenerci fermi nei nostri «no» e
accogliere la rabbia del bambino, senza restituirgliela nello stesso modo. Non sempre è un'impresa
facile!
I bambini/ragazzi con cui intraprendiamo il nostro viaggio sono quelli che hanno qualche difficoltà
nello sviluppare adeguatamente il loro apparato per pensare.
Nella pratica del «Fare storie che si susseguono» accogliamo il bambino in un contenitore regolato.
Le poche regole con le quali il bambino si confronterà sono legate allo spazio, al tempo,
all'esclusione, al rispetto di sé, dell'altro e degli oggetti, al fare storie con cinque personaggi dicendo
tutto quello che vuole.
Lo spazio è costituito da un locale dove ci sono delle separazioni (con tende о paraventi) che
delimitano un'area agibile solo dal bambino, una solo dall'adulto e una comune. La regola per la
loro gestione è la seguente: «Io, adulto, non entro nello spazio riservato per te. Tu non puoi entrare
nel mio. Insieme lavoreremo nello spazio comune». L'adulto che dice «Io non entro» dà al bambino
un segnale di una capacità che egli ha raggiunto, il bambino «non può entrare nella casa riservata
all'adulto», ma magari lo farà per verificare «cosa succede se trasgredisco la regola».
Non succede nulla, al bambino viene solo fatta notare la sua incapacità a rispettarla. Questa regola
mette in evidenza una reciprocità nel rispetto dello spazio altrui e una capacità diversa tra adulto e
bambino. Lo spazio fisico permette di agire le storie, come sulla scena di un teatro.
Vengono però predisposti anche degli spazi dove il segno (parola, disegno) trovano accoglienza:
esistono per questo tre quaderni per cui valgono le stesse regole. Le storie che il bambino racconta,
scrive direttamente e i disegni verranno custoditi nel quaderno comune. Il quaderno solo del
bambino e quello solo dell'adulto sono riservati ai loro segni privati. Queste suddivisioni mettono in
campo anche l'esclusione che talvolta il bambino fatica ad accettare. Tenterà di verificare se l'adulto
riesce a non trasgredire le regole da lui stesso dettate lavorando sul suo quaderno accanto a lui,
aprendolo sotto i suoi occhi.
Gli spazi fisici sono collegati tra di loro da telefoni giocattolo per permettere una comunicazione a
distanza con l'adulto presente ma invisibile quando il bimbo va nella sua casa. Se la separazione è
troppo difficile da mettere in atto, il bambino può raggiungere il terapeuta attraverso la parola.
Spesso i bambini ci chiamano per chiederci cosa stiamo facendo, per verificare la nostra presenza e,
in qualche modo, cercare di tenere la situazione sotto controllo.
Il tempo è scandito dagli incontri settimanali e dalla loro durata, di regola quarantacinque minuti. Il
bambino è informato degli incontri che avverranno in un certo periodo di tempo (per esempio tra
una vacanza scolastica e l'altra) e lo scorrere degli incontri è reso visibile con mezzi diversi a
seconda della sua età. Con i bambini più piccoli potranno essere dei cubetti che il bambino toglie da
una scatola, con i più grandi verranno segnate le date che di volta in volta saranno cancellate.
Il rispetto di sé e degli altri è contenuto nella regola: «Non ci si può far male, far male agli altri e
rompere gli oggetti». Il «Fare storie che si susseguono» è proposto anche a piccoli gruppi di
bambini e questa regola diventa importante per contenere le loro scariche aggressive. Se non viene
rispettata l'adulto può decidere, e i bambini lo sanno, di concludere l'attività destrutturando gli spazi
prestabiliti.
Esiste un'altra regola che è legata alla fiducia di poter davvero dire tutto quello che si vuole
all'interno della stanza: «Il quaderno comune potrà essere mostrato ai genitori solo se adulto e
bambino sono d'accordo». Il quaderno comune potrà così contenere anche ciò che è osceno, che non
si può mettere in scena, rendere pubblico. In genere per il bambino significa potersi permettere delle
scariche aggressive rappresentate da disegni о parolacce, da racconti carichi di aggressività
distruttiva.
Il terapeuta fa parte del contenitore in quanto lo delimita attraverso le regole e il loro rispetto, e
diventa egli stesso contenitore delle ansie che il bambino i bambini porta nella stanza. La sua mente
non dovrebbe essere preoccupata, ma dovrebbe saper mettere a disposizione uno spazio vuoto per
accogliere ciò che il bambino gli porta. È quindi importante che egli eserciti la pazienza nel senso di
non avere aspettative sui contenuti che di volta in volta vengono agiti о raccontati nella relazione a
due, che sappia sopportare il vuoto senza doverlo saturare con un suo sapere, che non si senta
perseguitato dalle sfide che il bambino inevitabilmente metterà in atto.
I cinque personaggi che proponiamo sono: una cuoca, un muratore, un gattino о una gattina, un
poliziotto о una poliziotta e un personaggio che il bambino vorrebbe essere (quest'ultimo non viene
presentato nel lavoro con i gruppetti).
Muratore e cuoca sono riconducibili alle funzioni dell'Io: sono una coppia costruttiva, il/la gattino/a
rappresenta la parte più istintuale (Es), il/la poliziotto/a raffigura le regole (il Super Io), mentre il
personaggio di successo (quello che il bambino vorrebbe essere), scelto dal bambino e che può
essere modificato, porta in scena l'Ideale dell'Io, spesso onnipotente e magico.
Attraverso le storie che il bambino agisce, racconta e in questi casi è l'adulto che le scrive sul
quaderno comune о scrive e disegna, vengono rappresentati il suo modo di vedere il mondo e i suoi
desideri sul funzionamento della relazione con gli adulti (i genitori e il terapeuta che li raffigura). I
personaggi danno facoltà al terapeuta di interpretare, come a teatro, i personaggi della storia
facendo in modo che questa abbia un senso nella relazione attuale con il bambino.
Il susseguirsi delle storie permette di rendere evidenti i cambiamenti che avvengono nella relazione
e nel bambino stesso. Le storie che il bambino ci porta esprimono i suoi desideri. A differenza del
sogno, dove i desideri possono essere esauditi in modo onnipotente e in solitudine, le storie
rappresentano i miti del bambino. Sono dei racconti dei suoi desideri/paure che condivide con
un'altra persona. Quello che viene scritto sul quaderno comune verrà riletto dal terapeuta all'inizio
dell'incontro successivo. La rilettura indica che tutto quello che egli fa e dice è importante e noi ce
ne prendiamo cura.
La mia pratica preventiva con le storie che si susseguono
di Verena Petrocchi
Ora tu pensa: un pianoforte. I tasti iniziano. I tasti finiscono. Tu sai che sono 88, su questo nessuno
può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu sei infinito, e dentro quei tasti, infinita è la
musica che puoi fare ..
A. BARICCO, Novecento 4
Sono una docente di sostegno e lavoro in istituti scolastici comunali nel Cantone Ticino. I bambini
che vengono segnalati al Servizio di sostegno pedagogico,5 dai docenti e talvolta dai genitori,
evidenziano difficoltà di apprendimento e/o di comportamento all'interno dell'istituzione. Il nostro
intervento si differenzia a seconda del disagio che il bambino esprime, attraverso i suoi
comportamenti e i suoi risultati scolastici, nei confronti della conoscenza che la scuola si aspetta.
Alcuni dimostrano questo malessere proprio nella difficoltà, non necessariamente legata a uno
sviluppo intellettivo deficitario, ad affrontare nuove cognizioni. Il loro apparato per elaborare i
pensieri attacca, attraverso comportamenti diversi, le loro capacità di appropriarsi delle nuove
competenze che la scuola propone. È il loro mondo affettivo che sembra invadere il campo della
conoscenza razionale. È con questi bambini che lavoro utilizzando il metodo del «Fare storie che si
susseguono» sia individualmente sia in gruppo.
La segnalazione al Servizio avviene con il consenso dei genitori. Diventa quindi importante, per il
mio lavoro, stabilire delle alleanze di campo con i genitori e con i docenti. Il disagio che il bambino
evidenzia viene espresso, alla ricerca di una condivisione, in un incontro preliminare con gli adulti
che si occupano di lui. Solitamente conosco il bambino perché ho potuto osservarlo nel corso di
alcuni momenti della sua vita a scuola. Durante questo incontro spiego quale e come sarà il lavoro
che verrà svolto in un determinato tempo che io stabilisco. In genere prevedo di incontrarmi con lui
almeno otto volte prima di rivedere i genitori. Questo tempo mi è utile per valutare se l'intervento
pensato è quello più idoneo da mettere in atto e mi permette di incontrare i genitori per parlare del
bambino e non dell'allievo.
Essendo un servizio interno alla scuola dell'obbligo, che come istituzione ha il compito di valutare i
prodotti del lavoro dell'allievo, le difficoltà segnalate dai docenti possono creare nei genitori delle
ansie legate a presunte difficoltà cognitive del figlio. Occorre quindi, anche con i genitori,
predisporre spazi e tempi per permettere loro di raccontarsi e raccontare il proprio bambino.
Andrea e il suo desiderio di «essere grande»
Andrea, un bimbetto biondo, spiritoso e sorridente, è figlio unico e vive con i suoi genitori. La
madre non svolge attività fuori casa mentre il padre rientra spesso tardi a causa del suo lavoro che lo
impegna molto. Il mio intervento è stato richiesto dalla maestra, di seconda elementare, a causa
degli scarsi risultati scolastici ottenuti da Andrea che fatica a seguire le consegne e le regole
stabilite dalla docente; la sua disattenzione alla realtà della scuola è unita a una eccessiva lentezza
nell'esecuzione dei compiti. Dai genitori vengo a sapere che è molto possessivo nei confronti della
mamma. Non ama dormire da solo nella sua cameretta e molto spesso si intrufola nel loro letto. La
sua presenza disturba il sonno dei genitori e allora uno di loro (in modo particolare la madre) lascia
il letto matrimoniale e va a dormire nella camera del bambino.
I genitori mi raccontano questi fatti dopo che io ho narrato l'immagine che mi sono creata del
bambino nei primi incontri. Dal mio punto di vista Andrea è un bambino intelligente che non ama
rispettare le regole e i tempi imposti, che vorrebbe, insomma, «comandare lui» fare tutto da solo
senza l'aiuto di un adulto ma nello stesso tempo sente di aver bisogno di un genitore accanto per
dormire, perché da solo non ci riesce.
Cerchiamo insieme delle strategie per aiutare il bimbo a trova re un suo spazio, la giusta distanza
dai genitori. Il papà sarà di grande aiuto nel sostenere la mamma in questo allontanamento, non
facile neppure per lei.
In questa storia, raccontata dopo parecchi incontri sia con il bambino sia con i genitori, la persona di
successo che Andrea sceglie è il gigante. Questo è il modello del desiderio del bimbo: quello di
«prendere il posto del papà». La mamma, inconsapevolmente, gli permette di esaudire i suoi
desideri perché anche lei fatica nel permettere al figlio di crescere, di non essere più così
intensamente legato a lei.
Andrea disegna la sua storia come se fosse un fumetto e racconta:
Il gigante ricco ha in mano due sacchi; nel più grande ci sono rubini, diamanti, fili d'oro. Quello
piccolo è una persona che cerca di rubare i tesori al gigante. Il gigante abita in un castello dove c'è
la prigione e nella torre è rinchiusa Verena. C'è lotta tra i due giganti: uno solo può vincere. Per
vincere bisogna uccidere l'altro gigante. Il gigante «con i tesori» è quello di destra che vince. Il
gigante che ha perso dice: «Voglio morire». L'altro gli dice: «Prima di morire devi salutare il tuo
castello e il mondo crudele». Il gigante è morto, il castello è in rovina. Verena è stata imprigionata
dal gigante morto nel suo castello.
Il gigante ricco, colui che Andrea vorrebbe essere, possiede dei tesori e tiene imprigionata me. Il
desiderio di Andrea è, quindi, quello di prendere il posto del papà, di essere ricco e grande, di avere
la mamma tutta per sé. Il gigante che vuole rubare i suoi tesori (il papà) diventa ben presto un
nemico da combattere ed eliminare per poter prendere il suo posto.
Verena, imprigionata nella torre, chiede aiuto. Il «gigante ricco» la libera e se ne vanno su e giù
nelle montagne. Il gigante e la principessa si facevano un bagno nel mare. Erano felici. La
principessa era sulla spiaggia, il gigante nel mare. E hanno fatto la pipì e la cacca.
Andrea crea un momento di «intimità» tra lui e la principessa Verena/mamma. Insieme fanno
qualcosa di osceno (che nella sua esperienza consiste nel fare insieme la pipì e la cacca in uno
spazio aperto anche se solitario). Ora possono andare ad abitare insieme nella stessa casa. Il disegno
della coppia viene fatto «in trasparenza». Andrea spiega che «è per far vedere le chiappe e la cacca
che esce dall'ano».
Il gigante e la principessa vedono il loro castello dä lontano. Il gigante diventa re, la principessa
regina. Insieme, abbracciati, tornano nel castello reale. Nasce un bambino, ma bello, bello, bello, e
si innamorarono di lui.
Il gigante vinto, il re detronizzato, resta sospeso come una pesante minaccia. Nel fumetto gli fa dire:
«Tornerò una volta».
Il gigante, così pesante, sulle montagne è caduto dall'altra parte del mondo. È rimasto incastrato tra
le spine ed è morto.
La coppia ha un bambino, che è molto amato dai genitori. Il gigante Andrea può diventare
finalmente il re della casa. Mortifica il padre che, dal suo punto di vista, tiene segregata la madre
nella loro camera da letto, ma la frase «Tornerò una volta» sembra negare la sua totale scomparsa.
In seguito ad altre storie, che sono state praticate da Andrea durante i nostri incontri, abbiamo
scoperto la sua difficoltà nell'accettare l'esclusione «dalla casa solo dei genitori», praticata nei nostri
incontri con la sfida alla regola di non entrare nella «casa solo di Verena».
La fatica della mamma ad accettare l'indipendenza del figlio viene da lei espressa, l'anno scolastico
seguente, quando la classe va per una settimana in montagna per un corso di sci. È la prima volta
che il bambino si allontana dai genitori. La mamma parla delle sue lacrime alla partenza
dell'automezzo che porterà lontano i bambini e del fatto che nell'intera settimana Andrea non ha
telefonato a casa. I genitori, su decisione della docente, non potevano telefonare; i bambini
potevano mettersi in contatto con la famiglia in determinati orari, dopo la cena. Andrea ha
telefonato ai nonni, agli zii ma non ai genitori a cui ha mandato una cartolina. La docente ci
racconta di un Andrea felice della vicinanza dei compagni, di non aver notato, come invece è
successo con altri bambini, dei momenti di nostalgia di casa.
I risultati scolastici di Andrea migliorano, gli incontri con i genitori sono regolari. Quando il
bambino frequenta la quinta elementare decidiamo di modificare l'intervento. Andrea non ha più
problemi dal punto di vista dell'apprendimento scolastico ma le sue relazioni, nel gruppo dei
compagni, a detta della maestra, sembrano essere poco armoniche. È ricercato da loro ma
difficilmente è lui che esprime delle preferenze, che accetta il confronto con i compagni. Con la
docente progettiamo un lavoro con due gruppi di bambini della stessa classe.
La formazione di un gruppo, nel fare storie, è per me importante. Ogni individuo porterà le sue
ansie, i suoi desideri, le sue paure. Per far sì che anche il gruppo diventi esso stesso contenitore, la
scelta degli individui che lo compongono va pensata e organizzata.
Formiamo i due gruppi, una mia collega si occuperà, nello stesso momento in un altro locale, del
gruppetto di quattro allievi. Andrea è nel mio gruppo con un altro bambino, suo amico, e tre
bambine. La triade delle bambine ha uno stretto legame, che però sembra essere più forte tra due di
loro. La terza è accettata e viene talvolta coinvolta, ma spesso è lasciata in disparte ed esclusa dalla
coppia. È un difficile rapporto a tre intriso di gelosie e rivalità. Per noi è importante mettere Andrea
in una situazione tra pari. In effetti il lavoro individuale metteva in scena, comunque, una situazione
privilegiata a due.
Anche in questo caso il progetto è stato accettato dai genitori con i quali sono avvenuti degli
incontri collettivi e individuali.
Entrambe le storie sono state molto agite e il loro racconto è stato discontinuo. Le ragazzine sono
diventate seduttive bagnine di una serie televisiva, la coppia più unita escludeva la terza, Andrea si
dichiarava «fuori» dai loro litigi perché, nonostante cercasse di inventare formule magiche per
riportare la pace, i suoi tentativi erano sempre fallimentari. L'altro ragazzo cercava di mediare i
rapporti in modo più reale ma spesso usciva anch'egli sconfitto. Iniziano poi a rappresentare storie
di viaggi compiuti tutti insieme о separati maschi/femmine che li hanno portati in luoghi pericolosi
dove hanno incontrato dei mostri e dei nemici da cui difendersi. Incontrano anche la morte e la
seconda storia si conclude con una rinascita dove i ragazzi fingono di essere bambini piccoli.
Nei venti incontri successivi emergerà il lavoro umoristico attraverso il racconto di barzellette
sporche usando un linguaggio osceno (fuori scena, non usato comunemente). Le provocazioni nei
miei confronti e le rivolte accennate diventeranno sempre più evidenti. Durante il secondo incontro
verrà preparata una pagina del «libro» con la scritta: «W la libertà senza regole, per questo noi
protestiamo!».
Ci saranno poche storie agite e il mio ruolo sarà diverso: non me ne starò più solamente ai margini
come scrittrice dei loro agiti о racconti ma, se sollecitata e quando mi sembrerà il caso, interverrò
più attivamente. L'aula avrà solamente lo spazio comune. Mentre i ragazzi disegnano le pagine del
libro parlano tra di loro. Io scrivo quanto comunicano e sanno che rileggerò la volta seguente ciò
che hanno detto.
Ecco degli esempi che coinvolgono Andrea e Maura che, molto seduttiva, vorrebbe essere la più
ricercata dai compagni maschi. Andrea le ha sempre espresso indifferenza.
Anna e Maura dicono che Andrea è il più carino della classe. A Maura piace Alex di quarta. Si parla
ancora di Giulio (un loro compagno di classe), Andrea e Sergio affermano che è gay. Chiedo loro
cosa significa: «Che va a letto con gli uomini, si può dire anche omosessuale». Confermo che «gay»
significa proprio quello che hanno detto, ma suggerisco loro che forse non è il caso di Giulio:
probabilmente non ha ancora avuto rapporti sessuali, è vero che si tinge i capelli e si mette il
profumo, ma sembra che metta anche in evidenza delle «grosse palle», per cui possiamo dire che
Giulio è confuso: dimostra di avere degli attributi maschili e nello stesso tempo non si accorge che
sta usando un profumo femminile.
Maura confida ad Andrea che ha invitato a casa sua Alice (una ragazzina che solo Andrea conosce),
le ha mostrato le foto di classe. Lei non sapeva chi era Andrea, quando Maura glielo ha mostrato ha
detto: «È un bel ragazzo!».
Maura si fa ringraziare da Andrea, che nel frattempo è arrossito, inviterà ancora Alice mercoledì
prossimo, le dirà che Andrea la ama, Andrea corregge: «Che mi piace molto». Maura vuole dare
notizie di Alice ad Andrea: è qualcosa di non molto bello. Lui non vuole sapere. Maura continua
ugualmente: «Lei vuole fare questo con te» gli dice mostrandogli il disegno della «coppia che fa
l'amore». Aggiunge che Alice è una zoccola, una puttanella che aspetta i ragazzi alla fermata del
bus e li bacia. Sergio chiede a Andrea: «Tu le credi?». Andrea chiede a Maura a che ora Alice è
andata a casa sua perché lui sa che alle tre era da un'altra parte. Maura risponde: dall'una all'una e
mezzo. Sergio aggiunge: «Per fortuna non sono venuto all'una a portarti la cassetta, se no l'avrei
vista!».
Andrea sembra assoggettarsi ingenuamente alle «manovre» di Maura. Se non avesse detto «alle tre
era da un'altra parte», Maura avrebbe potuto cadere in errore sull'ora e la sua storia venire
smascherata. Sergio sembra invece più attento e ironicamente aggiunge il suo commento. In questa
occasione Sergio si trova tra due fuochi: è molto amico di Maura (innamorato?) ma lo è anche di
Andrea...
Andrea vuol sapere da Maura il nome del maestro di Alice, solo se lei lo sa lui le crederà. Maura
dice di non saperlo. Sergio chiede al gruppo se può disegnare «la ragazza del muratore». Disegnerà
una «bella gnocca» di profilo. Maura racconta delle scene di un film che lei e Sergio hanno visto.
Dice poi che la fidanzata di Andrea le è antipatica: ieri l'ha vista andare in giro con un bikini
(pioveva) sopra aveva un maglione a buchi. Con la complicità di Anna, che afferma di avere visto
anche lei, aggiunge che c'era un ragazzo che le leccava il petto e che l'ha rinchiusa in un gabinetto
pubblico lasciando la porta aperta. Loro li hanno seguiti per poter poi raccontare ad Andrea quello
che vedevano. Il ragazzo le ha abbassato i pantaloni, non aveva le mutande.
Andrea è molto imbarazzato, arrossisce, afferma che non crede a quanto raccontano. Anna e Maura
dicono che sarebbero felici se lui la lasciasse. È Maura il motore di questa «storia», coinvolge Anna
nel suo racconto chiedendole «Ne' che è vero?», oppure incitandola a continuare, con nuove
aggiunte, la «storia». Andrea, sempre imbarazzatissimo, si avvicina a me e tenta di dettarmi la
didascalia del suo disegno.
La ragazza che veniva esclusa facilmente dalle compagne conquista un suo posto, ed è ammirata,
come «disegnatrice porno», è a lei che viene richiesto di rappresentare nei disegni le scene più
«scabrose». Il titolo del libro sarà Un lungo viaggio a cui Andrea aggiungerà attraverso le emozioni.
Per la presentazione pubblica le didascalie verranno lette dagli autori dei diversi disegni. Durante
l'ultimo incontro ci prepariamo:
Andrea disturba la lettura dei compagni, legge le sue didascalie con accenti diversi (imitando un
tedesco, un inglese...). Decidono di registrare la lettura delle didascalie. Ognuno leggerà la propria.
Andrea all'inizio dice che non vuole leggere, Maura si offre per leggere al suo posto. Chiedo ad
Andrea il perché della sua rinuncia, risponde che legge male e che si emoziona. Facciamo qualche
prova, i compagni gli danno dei consigli (per esempio: leggi più lentamente, non mangiare le
parole, lo incoraggiano).
Tutti sono emozionati, si vergognano a leggere le «didascalie porno». Vogliono comunque che il
lavoro venga mostrato a tutta la classe e ai genitori di tutti gli allievi della loro classe. Faccio loro
notare la loro «provocazione»: si vergognano di quanto hanno scritto perché pensano che lo
sentiranno anche gli altri, nello stesso tempo li sfidano perché già i loro genitori probabilmente non
si aspettano che loro usino un certo linguaggio. Lo possono fare perché è un lavoro che hanno fatto
con me. Io però mi riservo di pensarci, di comunicare loro una decisione quando ci vedremo per
incidere la lettura. Maura dice che i genitori entreranno qui (nell'aula riservata alle storie) e quindi
questo è il posto dove le regole sono diverse (non c'erano «limiti» dettati da me alla loro espressione
linguistica о grafica). Rispondo che il «lavoro con le storie» termina oggi, lo si mostrerà nell'aula di
classe, fuori da questo «spazio» (contenitore).
La presentazione del lavoro sarà l'occasione per il gruppo di mettermi alla prova: sono stata io a
proporre di rendere pubblico il lavoro svolto con me! I disegni e i testi della storia sono provocatori:
donne e uomini nudi, una coppia che fa l'amore sull'altare dopo il matrimonio, ci sono tradimenti, la
nascita di un bambino... compaiono le parole «trombare», «figa». La presentazione del loro lavoro
ai compagni e ai genitori in un'unica rappresentazione coinvolgerebbe anche me nella loro sfida. Mi
farebbe diventare, nella provocazione, una loro alleata per vedere se i genitori riescono a contenere
le loro emozioni. Se i genitori avessero delle difficoltà ad accettare la sfida, i ragazzi potrebbero
pensare: «Vedi, avevamo ragione noi, i nostri genitori non sanno capire (contenere)». Se i genitori
dicessero: «Ma che bel lavoro», tutto sarebbe rivolto al contenitore (il prodotto) e non al contenuto
(le ansie e i desideri dei ragazzi).
Decido quindi di incontrare i genitori da soli cercando di fare una lettura riferita proprio al problema
dell'entrata in adolescenza, ai cambiamenti psicofisici che i ragazzi raccontano, con il loro modo di
vedere, in questa storia. Cambiamenti riferiti al corpo (cuoca-serpente, brufoli, l'ingrassare e il
dimagrire, immagini di nudi maschili e femminili), alle loro ansie, paure e desideri. Di fronte alla
catastrofe (rappresentata dall'eruzione imminente di un vulcano) ci sono due possibilità: scappare о
tornare a casa. Loro scelgono subito la prima anche se si avventurano poi in un viaggio nell'età
adulta rappresentando i rapporti sessuali e la nascita di un figlio. I personaggi di Mamma Piovra e
Papà Medusa raffigurano dei genitori tentacolari a cui però loro fanno ritorno, intercalando anche
esempi dalle storie agite precedentemente.
I genitori sono molto partecipi e fanno osservazioni pertinenti proprio riguardo ai ragazzi; poche
sono le osservazioni riferite ai propri figli, emergono ricordi della loro adolescenza. Dico loro che
sarà proprio questo ad aiutarli quando i figli cercheranno di provocarli ancora: il riferimento alle
proprie esperienze potrà aiutarli a contenere le ansie e le paure dei figli che si trovano di fronte al
cambiamento. Cambiamento che è anche legato all'uscita dalla scuola elementare (dove sono i più
grandi) per entrare nella scuola media (dove saranno i più piccoli), in un ambiente nuovo e
sconosciuto come sarà il cambiamento che sanno avverrà nei loro corpi, ma non sanno come e
quando.
I ragazzi esclusi dall'incontro non sapranno quello che è avvenuto nella «casa solo dei grandi» e
pochi giorni dopo sembrano imbarazzati. Ognuno si siede vicino ai propri genitori e a poco a poco
sembrano tranquillizzarsi visto che gli adulti accolgono tranquillamente quanto viene proposto. Alla
fine della rappresentazione i ragazzi si raggrupperanno spontaneamente nella mia aula a fare
merenda mentre i genitori con me in un'altra a bere un caffè.
Questo è un breve riassunto di un lavoro che si è svolto nell'arco di quattro anni di scuola. Ho scelto
questo esempio perché è stato rivolto sia a un bambino sia a un gruppo di ragazzi preadolescenti ed
è stato utile per evidenziare alcuni problemi che «a scuola» difficilmente emergono.
Una delle tre ragazzine del gruppo è stata segnalata e seguita, durante l'anno del nostro lavoro, per
un intervento di psicoterapia individuale. La mamma ha evidenziato, durante gli incontri
individuali, le difficoltà della figlia nell'allontanarsi, anche solo per una notte, dai familiari. Per
questo suo eccessivo limitarsi aveva rinunciato a partecipare a dei concorsi di pattinaggio artistico
pur essendo molto dotata.
La docente, dopo le settimane di scuola fuori sede, ha segnalato a me e alla madre di Anna alcuni
problemi di alimentazione della ragazza. Anna, che durante i nostri incontri diceva di sentirsi
grassa, mangiava pochissimo о rifiutava il cibo durante i pranzi in comune. Da quel momento la
madre è stata più attenta anche durante i pasti in famiglia e ha, in seguito, portato la figlia da una
dietologa per prevenire, attraverso un'educazione alimentare, l'emergere di possibili futuri disturbi
alimentari.
Per Andrea, figlio unico, non è stato facile praticare le sue emozioni in un gruppo di pari e
confrontarsi con loro. Sergio si è dimostrato molto attivo, con le sue affermazioni ironiche e la sua
capacità di mediatore nelle relazioni tra i ragazzi, nel contenimento di alcune ansie dei compagni.
Maura ha faticato ad accettare che le sue arti seduttive non avessero presa su Andrea.
Il gruppo ha creato una coesione nella sfida agli adulti ma ha saputo anche realizzare, attraverso una
condivisione e un riconoscimento delle diverse personalità, un oggetto di comunicazione fuori dalla
stanza dei loro miti.
I personaggi e le regole del fare storie (pretesti per le narrazioni), come i tasti del pianoforte, danno
luogo a combinazioni infinite e alla nascita di storie inaudite personali о collettive.
I bambini diventano così poeti come affermava Freud, nel 1907, in Il poeta e la fantasia:
Forse si può dire che ogni bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta: in quanto si
costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del mondo.
La lingua tedesca ha preservato l'affinità che sussiste tra il gioco dei bambini e la creazione poetica,
indicando con la stessa parola i lavori teatrali (Spiele), ossia quelle produzioni poetiche che
richiedono un appoggio a oggetti tangibili e che sono suscettibili di venir rappresentate, e i giochi
(Spiele).
Curiosità
Nella mia mente nascono dei collegamenti tra i personaggi dei miti inventati dai ragazzi e quelli
dell'antica Grecia. Divento curiosa e così scopro che:
Echidna era per metà una bellissima donna, per metà un serpente dalla pelle maculata. Viveva un
tempo in una grotta profonda tra gli Arimi; mangiava uomini crudi e procreò mostri orrendi a suo
marito Tifone; ma Argo dai cento occhi la uccise nel sonno.
C'erano tre Gorgoni, chiamate Steno, Curiale e Medusa, tutte e tre figlie di due divinità marine,
Forcide e Ceto. Solo l'ultima, Medusa, era mortale, essendo le altre due immortali. Generalmente si
dà il nome di Gorgone a Medusa, considerata come la Gorgone per eccellenza. Questi tre mostri
abitavano nell'estremo Occidente, non lontano dal regno dei Morti, dal paese delle Esperidi, di
Gerione, ecc. La loro testa era circondata da serpenti, avevano grosse zanne simili a quelle dei
cinghiali, mani di bronzo e ali d'oro che permettevano loro di volare. I loro occhi erano scintillanti e
il loro sguardo così penetrante che chiunque le vedeva era mutato in pietra. Erano oggetto d'orrore e
spavento non soltanto per tutti i Mortali, ma anche per gli Immortali...
Inoltre Asclepio, l'Esculapio dei latini, eroe e dio della medicina che dopo la sua morte fu
trasformato nella costellazione del Serpentario:
Non soltanto guariva i malati, ma ricevette in dono da Atena due fiale contenenti il sangue della
Gorgone Medusa; con il sangue estratto dal lato sinistro della Gorgone, egli poteva risuscitare i
morti; con il sangue estratto dal lato destro invece poteva dare morte istantanea.
Un pharmakon (cioè una medicina ma anche un veleno) che contiene in sé due opposti: togliere о
ridare la vita.
Papà Medusa diventa la rappresentazione ammaliatrice di un mostro dallo sguardo pietrificante.
Ambiguo perché papà (maschile) e Medusa (femminile) e ambivalente perché il suo sangue può
donare sia la vita sia la morte.
Il termine «piovra», su un vocabolario, ha la seguente definizione: «Piovra: Eledone. Persona о
istituto che si attacca fortemente ad altra persona, о amministrazione o sim., per cavarne continuo
profitto: succhione».
Mamma Piovra è tentacolare, «succhiona», sembra che difficilmente ci si possa liberare da lei. Con
i suoi tentacoli, con il tatto, esplora tastando, sperimenta, provoca.
Facendo storie i bambini elaborano, vivono, contengono le emozioni forti del loro mondo interno: si
attrezzano meglio per il loro futuro e quello dei loro figli, che cresceranno accompagnati proprio dal
loro funzionamento mentale ed esposti ai loro meccanismi di difesa.
XIX
Un'esperienza ventennale di gruppi per genitori Sentirsi più forti davanti ai problemi
Il gruppo è un luogo dove ci si sente al caldo, ove si aiuta chi si è smarrito e ove si ha la certezza di
un sostegno da parte di tutti quando ce ne sia bisogno più del solito.
È la coperta di Linus che si trasforma in un buon saggio, in un gruppo buono e saggio ove la
condivisione e la comprensione delle nostre storie le rende meno difficili, meno gravose.
Un papa
A conclusione di questo lavoro vorrei ora parlare di uno degli strumenti che amo di più, i gruppi di
genitori. Si tratta di un'esperienza assolutamente preziosa e ricca, che ha una forte valenza
terapeutica d'aiuto, pur non essendo una terapia vera e propria, soprattutto quando sono condotti con
una lunga e solida pratica di ascolto psicoterapico. «A una persona che non mi stancherò mai di
ringraziare» diceva il biglietto d'auguri che ho ricevuto recentemente per Natale da una mamma di
un gruppo. Potrei ricambiare con un biglietto esattamente analogo.
Anch'io non mi stancherò mai di ringraziare i genitori con cui ho lavorato per quanto mi hanno
trasmesso e insegnato nel corso degli anni sulla vita e sull'arte del vivere, che in certi momenti
comprende spesso anche quella di sopravvivere alle tempeste e agli uragani della vita che ognuno di
noi incontra, prima о poi, sul suo cammino.
Ho ormai raccontato tante volte nei miei libri precedenti che cosa mi ha portato a una
sperimentazione ultraventennale di lavoro con i genitori attraverso l'utilizzo di favole. Cercherò
perciò in questa sede di dedicare del tempo alla descrizione dei diversi tipi di esperienze principali
che ho fatto in questi lunghi anni nei gruppi di genitori, come completamento al capitolo
introduttivo di questo libro sulla consulenza psicoterapica con un singolo e specifico gruppo
familiare.
Il primo gruppo di genitori dal quale sono partita nell'ormai lontano 1985 è stato di mamme, che si
sono riunite una volta alla settimana per otto mesi (corrispondente, grosso modo, al periodo
scolastico dei figli), nel corso di tre anni all'interno di un consultorio familiare pubblico
dell'hinterland milanese. Tutte si erano rivolte al Servizio psicologico consultoriale per i problemi
dei loro figli e avevano già fatto una consultazione insieme a questi e ai mariti.
Il fatto che il primo gruppo fosse formato da sole mamme era dovuto alla loro maggiore
disponibilità di tempo durante la mattina per parteciparvi. Alcune di loro erano infatti casalinghe,
per cui si potevano organizzare di conseguenza, mentre altre avevano un lavoro esterno con orari
però flessibili oppure un lavoro domiciliare.
L'idea di riunirle in gruppo mi era venuta da una vecchia pediatra con una lunghissima esperienza
che aveva operato in consultorio e che sosteneva la necessità e il beneficio dei gruppi di genitori, in
particolare delle mamme che accompagnavano i loro bambini, per affrontare i problemi comuni
riguardanti la crescita dei figli anche dal punto di vista sanitario: «Quante volte prima di iniziare le
visite, ho sentito la necessità di uscire in sala d'attesa e di discutere con il piccolo gruppo di mamme
presenti i problemi che avrei poi trattato individualmente durante la visita! È sempre stato molto più
utile che visitare semplicemente i bambini e limitarsi a quello!».
È da questa riflessione che è partita dunque l'esperienza, in un momento storico in cui c'erano
ancora un grande investimento e una grande tensione ideale sui consultori e la loro preziosissima
funzione da parte sia degli operatori sia degli amministratori (cosa che, purtroppo, è diminuita negli
anni).
La capacità di andare oltre l'apparenza e oltre i comportamenti manifesti dei figli per cercare di
cogliere il messaggio che bambini e ragazzi inviavano non a parole ma ad agiti credo sia stata uno
dei primi effetti visibili del lavoro di gruppo.
«Sa che la prima volta che lei ci ha letto una favola io non capivo proprio perché l'avesse fatto, ma
la seconda volta l'ho capito immediatamente e da allora non ho avuto più il bisogno di
spiegazioni?» aveva raccontato una mamma del gruppo agli inizi.
Frasi come: «Adesso finalmente capisco perché mio figlio si comporta così!», oppure «Non avevo
mai pensato prima di poter associare questi avvenimenti della mia vita ai comportamenti di mio
figlio!», oppure anche «È la prima volta che mi rendo proprio conto di questo!» e così via hanno
caratterizzato la storia di tre anni di gruppo, insieme all'inevitabile solidarietà che si prova quando
ci si sente tutti sulla stessa barca.
«Ah, ma allora succede anche a voi, non sono solo io che ho sempre paura di non essere capace, di
non essere mai all'altezza!», oppure «Avevo proprio paura di non essere capace di fare la mamma
prima, ma adesso mi sento un po' più sicura perché vedo che questa paura l'abbiamo un po' tutte,
però riusciamo lo stesso ad affrontare i problemi!», oppure «Com'è diverso poter condividere questi
pensieri nel gruppo invece di ingigantirli sempre più rimuginandoci da sole continuamente!»
Cominciava a nascere così un pensiero più capace di accedere al simbolico (fortemente sollecitato
in questo dalla favola e dalla metafora), si ridimensionava l'eccessiva idealizzazione del ruolo
materno che, puntando allo stereotipo irrealizzabile e mortifero della «mamma perfetta», conduceva
invece spesso nella realtà a sentirsi inevitabilmente fallite, mai all'altezza di niente e tantomeno
delle idealizzazioni narcisistiche sottostanti.
Si cominciavano ad accettare le fragilità e i punti di debolezza sia propri sia dei propri figli о mariti,
ma si cominciavano anche a scoprire per entrambi i punti di forza reali e le risorse nascoste che
prima non si vedevano.
Pian piano, con il passare del tempo, si modificava l'ottica con cui si guardavano e si ascoltavano
non solo i propri figli, ma anche i propri mariti, le persone care, gli amici, i colleghi di lavoro. «Sa
che adesso vedo delle cose che prima non vedevo e sento delle cose che prima non sentivo? Eppure
c'erano anche prima, ma allora non riuscivo ad accorgermene.»
Aumentava con il tempo la comprensione emotiva attraverso degli insight improvvisi, si capivano
di più le difficoltà e i comportamenti dei bambini ma anche le proprie, cresceva la tenerezza con cui
li si guardava e la sintonia con loro ma anche con se stesse, si era sostenute dal gruppo nel sentirsi e
nel fare le adulte («Siamo noi le grandi, loro sono i piccoli!») e nell'insegnare il rispetto reciproco
delle regole.
«Ogni tanto mi chiedo come mai sto meglio ora, sia con me stessa che con gli altri, marito e figli
per primi. Eppure non è cambiato assolutamente nulla nella mia vita fuori: è rimasto esattamente
tutto come prima, con le stesse difficoltà e problemi. Quello che è cambiato è però il mio modo di
viverli. Ora mi sembrano sempre difficili, ma affrontabili, mentre prima mi sembravano
insuperabili.»
Noi tutti abbiamo due mondi, dal punto di vista psicologico: quello esterno della realtà in cui siamo
immersi e quello interno dei nostri funzionamenti mentali e del nostro modo di vivere la realtà
esterna. È il nostro mondo interno quello che ce la fa vedere e vivere in un modo piuttosto che in un
altro. Seguendo la traccia di pensiero della storia zen citata in precedenza (quella del monaco e
dell'idiota), è il nostro mondo interno quello che ci fa interpretare un dito come l'unità di Buddha,
oppure come segno che si è ciechi di un occhio о altro ancora.
Il lavoro di gruppo non può cambiare la realtà esterna ma ha una lenta ricaduta benefica, poco per
volta, sul funzionamento del mondo interno e il suo modo di affrontare la realtà esterna che col
tempo aiuta a compiere i piccoli passi che permettono alle relazioni di trasformarsi e di crescere.
Sempre per piccoli passi, lentamente, giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno («È il
nostro io che lavora nel tempo» teorizzava Racamier).
Mai le rivoluzioni, sempre i piccoli passi.
«Allora forse ce la posso fare anch'io!» è stata la risposta che mi ha commosso in modo particolare
alla domanda del questionario finale dopo un mio laboratorio per genitori che chiedeva se ci fosse
stato almeno un pensiero nuovo durante l'incontro. Non so quale dei tanti temi trattati potesse aver
favorito questo pensiero nuovo, ma sicuramente qualcuna delle tante vicende umane raccontate ha
permesso alla persona che l'ha scritto di sentirsi meno sola davanti alle difficoltà. Un piccolo, ma
contemporaneamente grande aiuto.
È stato questo ciò che, insieme a molte altre cose, mi ha insegnato e mi ha lasciato la prima
esperienza di tre anni di lavoro settimanale di gruppo in consultorio, sempre con l'utilizzo di
qualche favola che potesse favorire la comprensione emotiva dei comportamenti e dei temi trattati.
Una volta chiusa questa prima esperienza triennale, nel corso del tempo ho continuato la
sperimentazione estendendo tale modalità di lavoro anche ad altre situazioni.
La seconda importante esperienza che ho fatto è stata all'interno di un gruppo sperimentale con
genitori volontari che avevo selezionato in quanto fortemente interessati e motivati sia a discutere
con altri genitori della relazione con i figli sia al metodo delle favole.
È stato in questo gruppo di ricerca che ho continuato a sperimentare, man mano che individuavo i
temi, le favole che scrivevo, adattandole, modificandole e accogliendo le riflessioni, gli spunti, i
suggerimenti dei partecipanti. Credo sia stato un laboratorio molto fertile per tutti, sia per me che
per i genitori. I bambini al loro ritorno a casa chiedevano spesso al papà e alla mamma che favola
avessero ascoltato e la volevano sentire anche loro. Quando i genitori la raccontavano, uno dopo
l'altro, scoprivano che ognuno di loro ricordava certi particolari piuttosto che altri. «Sa che a volte
sembra persino che raccontiamo favole diverse?»
Questo permetteva un maggior dialogo all'interno della coppia (diversamente dal primo gruppo
sperimentato in consultorio, qui c'erano sia le madri che i padri, in genere), una presa di
consapevolezza della diversità dei mondi interni, dei propri funzionamenti mentali e della propria
modalità individuale di vedere e di affrontare i problemi e così via. Si mettevano a fuoco le
rispettive differenze come dato di realtà da cui partire, cercando di rispettarle senza cadere nella
trappola delle reciproche svalutazioni о giudizi sul funzionamento del mondo interno di ciascuno.
La lettura della favola inoltre creava uno spazio privilegiato d'ascolto da parte di tutti: con
attenzione veniva letta e ascoltata; con attenzione veniva discussa; con attenzione veniva poi
riraccontata all'esterno e ai bambini che la chiedevano. Anzi, a posteriori ho scoperto che è stato
proprio questo spazio d'ascolto attento l'utero creativo dove a poco a poco sono nati i miei libri.
Prima infatti avevo solo e semplicemente accumulato nel cassetto per almeno nove anni le favole
che scrivevo, man mano che le sperimentavo nei gruppi, senza avere mai, neanche una sola volta,
avuto l'idea che oltre che essere materiale di lavoro potessero trasformarsi in libri.
Quando invece i genitori, proprio di questo gruppo, hanno iniziato a dirmi, anni dopo: «Sa che
quella favola l'abbiamo raccontata anche ai nostri amici e loro ci hanno chiesto in che libro la
possono trovare?», ho cominciato anch'io a pensare che forse questa potesse essere un'idea
interessante (che ho poi seguito e nel tempo sono nati i miei libri). Il gruppo ha rappresentato per
tutti noi un laboratorio ricchissimo di pensieri, di emozioni, di episodi di vita raccontati, di mondi
interni che si sfioravano, si toccavano, si arricchivano a vicenda.
«Non capisco perché queste serate con i genitori lei le chiami laboratori» aveva scritto sul
questionario finale un giovane operatore che partecipava a un incontro pubblico una sera, anni fa. «I
laboratori sono un luogo dove si opera, dove si fa qualcosa, mentre qui non si fa niente!»
Al contrario di quel giovane operatore, io continuo a pensare che i gruppi e gli incontri con i
genitori attraverso l'utilizzo di favole, di vignette, di storie di vita, siano un grande laboratorio dove
avvengono davvero delle cose. Solo che avvengono nel mondo interno, in genere, non in quello
esterno, per cui sono molto più complesse e difficili da vedere.
Così come è altrettanto possibile che in qualche mondo interno (sono una minoranza ristretta, ma ci
sono) non avvenga proprio niente, anzi si provi soltanto fastidio. In quel caso ha ragione il giovane
operatore; evidentemente non è questo lo strumento che può essere utile per quelle specifiche
persone. Nella mia esperienza ormai ultraventennale credo di avere sperimentato che si tratti in
genere di una minoranza di persone che funziona più sul registro logico-razionale, mentre la favola,
attraverso la metafora, punta a un registro diverso, più di tipo emozionale, permettendo l'insight e
l'accedere al cervello col suo stesso funzionamento, secondo la teorizzazione di Edelman.
È per questo che, ormai da anni, chiedo che chi vuole entrare a far parte di un mio gruppo legga
prima i miei libri e le favole per capire se si senta aiutato о solo e semplicemente disturbato. In
questo caso è preferibile trovare altri strumenti e altri tipi di gruppi, che operino più in sintonia con
il proprio funzionamento mentale.
Tornando a questo secondo gruppo sperimentale di ricerca, la riflessione più frequente che abbiamo
fatto insieme è stata che si è trattato di uno spazio di ascolto, di raccolta di temi, di sperimentazione,
di rettifica dei propri percorsi mentali, di confronto veramente unico. «Non esistono altre situazioni
о altri gruppi che conosciamo in cui ci si senta liberi di parlare anche di temi profondi come
facciamo qui.»
È una riflessione che ha attraversato l'esperienza di anni di gruppo e che ho sentito fare spesso
anche in altri gruppi. La frequenza con cui ci si riuniva era agli inizi mensile, per otto mesi, ed è
durata in questa forma per svariati anni. Nel tempo ci sono stati alcuni ingressi e alcune uscite, ma il
nucleo centrale è rimasto stabile continuando via via la sperimentazione sull'evolvere della
relazione non solo con i propri figli che crescevano, ma anche con se stessi in età differenti della
vita. È diventato un gruppo di ricerca sulla relazione che cambia nel tempo, con lo scorrere degli
anni.
È l'unico che continua ancora, come momento in cui ci si ferma a riflettere sui propri percorsi di
vita, sui passaggi e cambiamenti d'età e su come questi modificano la relazione con i figli. Ho una
serie così consistente di quadernoni di miei appunti su questo gruppo che credo che potrei ricavarne
un intero libro (chissà se avrò mai il tempo di farlo! Mi piacerebbe).
La vita ha attraversato la storia di questo gruppo con tutta la sua complessità e ricchezza di
esperienze, di conquiste, di perdite, di gioie, di dolori, dei momenti in cui si smarrisce il cammino e
di quelli in cui a poco a poco lo si ritrova, seppure necessariamente modificato. Ci sono state delle
nascite, ma anche delle morti; si è gioito sulle prime e si è pianto sulle seconde, in particolare
quando è toccato proprio a una mamma del gruppo, morta all'improvviso per una malformazione
cardiaca diagnosticata in ritardo.
Personalmente non riesco a trovare delle frasi che possano sintetizzare in poche parole la ricchezza
di questo lungo percorso insieme. Sono sempre piacevolmente stupita quando leggo le riflessioni
che le persone mi fanno avere: in terapia, nei gruppi, oppure nei laboratori per genitori о anche in
quelli di formazione per gli operatori. Sono un condensato eccezionale di vita, di pensieri, di
emozioni, di storie personali e familiari, di punti di vista diversi, che è molto difficile e forse
impossibile incontrare da altre parti e in altri contesti. Mi ricordano Oscar Wilde quando affermava
che i romanzi più di tanto non possono inventare perché devono essere credibili, mentre la vita lo
può fare perché non ha questo bisogno.
Il terzo gruppo sperimentale di ricerca che ho trovato interessantissimo e prezioso è stato quello
sulla solitudine delle neomamme e la depressione post partum.
Si trattava anche qui di un gruppo che avevo formato in base ai bisogni e alle esigenze di un piccolo
numero di giovani neomamme volontarie, che avevano accettato di fare quest'esperienza di
sperimentazione e di condivisione dei problemi durata per circa tre anni.
Il gruppo è stato lo spazio che ha accolto le paure, le ansie, le incertezze, le difficoltà che la
costruzione della nuova identità di mamme ha comportato per tutte loro, partendo dalla
consapevolezza che mettere al mondo un figlio e diventare mamme non sono due eventi
contemporanei. Prima si mette al mondo un figlio e poi, piano piano, nel tempo, si costruisce
l'identità materna, per tentativi ed errori come per tutte le esperienze di apprendimento. Ho
sintetizzato brevemente i temi su cui si è lavorato con questo gruppo nel capitolo sulla solitudine
delle giovani mamme nel mio libro Il bambino arrabbiato, uscito nel 1996. Da allora ho spesso
incontrato qualche mamma che mi ha detto: «Sa che leggere quel capitolo per me è stato di grande
aiuto? Ringrazi quelle mamme da parte mia: hanno detto tante cose che anch'io ho pensato in
assoluta solitudine e sentendomi una pessima madre, anzi a volte addirittura un mostro!».
Credo che uno degli aiuti maggiori sia stato il pensiero di poter accettare di provare dei sentimenti
ostili verso i bambini in certi momenti di difficoltà particolare, senza per questo sentirsi delle cattive
mamme e tanto meno dei mostri. Il poter condividere il pensiero che a volte si capiscono i genitori
che buttano i figli dalla finestra perché non tollerano il loro pianto diventa un potente fattore
protettivo anche per i bambini, perché aiuta a non farlo e a non trasformare un pensiero ostile in un
agito distruttivo.
Nessun pensiero sarà mai in grado di buttare un bambino dalla finestra: per farlo ci vuole un agito,
non un pensiero. La condivisione, come ho già detto altrove, aiuta a far sì che i pensieri restino
pensieri e non si trasformino in agiti, nei momenti in cui si prova un impulso aggressivo. «Dei miei
otto figli» mi ha raccontato una volta una persona parlando di quello che soleva dire la sua saggia
madre, «non ce n'è uno solo che almeno una volta nella vita non avrei voluto ammazzare!»
È stato così ricco questo gruppo ed è così importante questo tema per la prevenzione о
l'attenuazione del disagio psicologico nei bambini (il quale parte sempre anche dal maggiore о
minore benessere delle loro mamme) che credo cercherò di riprenderlo nel libro che vorrei dedicare
al mio quarto gruppo sperimentale, quello delle «mamme arrabbiate». Nel frattempo l'ho ripreso in
parte dedicandogli un intero capitolo nel mio quinto libro, Il bambino lasciato solo (2007).
Il gruppo sperimentale di ricerca sulle rabbie delle mamme (che chiamiamo tutte scherzosamente
«il gruppo delle mamme arrabbiate») mi è stato ispirato anni fa dall'esserini resa conto che questo è
uno dei temi di sofferenza maggiore nella relazione madri-figli, centrato sui momenti in cui le
mamme, non riuscendo più a contenere la propria angoscia, perdono il controllo con i bambini
aggredendoli verbalmente о fisicamente, trasformandosi così da fate in streghe. I bambini stanno
sicuramente male perché sono completamente confusi e non riconoscono più la loro mamma, ma le
mamme stanno male il doppio, per sé e per loro, come se in quel momento non fosse possibile
trovare nessun'altra possibilità di contatto al di fuori dello scontro, anche fisico.
Ha scritto una di loro al resto del gruppo in un biglietto natalizio:
Care mamme arrabbiate, grazie per essere balsamo sul mio cuore, a volte confuso, grazie per essere
luce, risa, pianto e speranza. Grazie per mostrarmi l'indulgenza, la rabbia, la grazia della nostra
«mammitudine». Sono orgogliosa di far parte di questo gruppo, grazie per tollerare i miei
commenti, le risa e i sospiri fuori luogo. Grazie per avermi accolto. Auguro a tutte voi serenità, di
mente e di cuore.
Anche il percorso di questo gruppo è stato e avviene ancora per piccoli passi, per tentativi ed errori,
con la consapevolezza che non esiste la bacchetta magica per la soluzione dei problemi, anche se
tante volte la vorremmo e ci accaniamo a cercarla. Esiste però sempre la possibilità non tanto di
risolverli quanto di poterli affrontare in ogni caso, e questa consapevolezza aiuta a poco a poco a
tollerare e a ridimensionare l'impotenza che inevitabilmente proviamo davanti a tutto ciò che ci pare
insormontabile. E soprattutto è diventato un gruppo dove, quando ci si riesce, non si combattono
più le battaglie perse in partenza, si danno per perse e basta. Questo è uno spostamento psichico
nella relazione.
Gli episodi di scontro con i figli non sono magicamente spariti, ma la loro frequenza si è diradata
nel tempo, la loro durata è anch'essa diminuita e sono invece aumentati i momenti successivi di
sintonia quando le mamme, una volta superata l'angoscia del momento, sono riuscite a scusarsi con
i bambini, non di aver dato regole e limiti (che sono invece necessari), ma di aver trasceso e fatto
soffrire ingiustamente sia fisicamente che verbalmente. Un bellissimo episodio di sintonia ritrovata
fra mamma e bambino è in questo senso la storia di Augusto che ho riportato nel mio ultimo libro,
Il bambino lasciato solo.
Non mi dilungherò tanto su questo gruppo perché è uno di quelli a cui vorrei dedicare, se potrò, un
intero libro (insieme alle riflessioni di tutti gli altri gruppi, compreso quelli sulla solitudine delle
neomamme e quello dei papà), per la ricchezza eccezionale dei suoi contenuti. È in assoluto uno dei
gruppi dove ho imparato di più e continuo a farlo. Un vero e proprio laboratorio di vita vissuta, di
riflessione e di apprendimento continuo sull'arte del vivere.
Riporto in chiusura la voce di due di loro che ho ricevuto per lettera in questi miei giorni dedicati
alla scrittura e al completamento di queste esperienze.
Prima testimonianza: l'utilità del gruppo delle mamme nella solitudine del ruolo materno
Due, tre, forse più. Non so più quanti sono gli anni che frequento il gruppo delle mamme arrabbiate
e non mi sogno mai di saltare un incontro a meno che non stia male.
E giustamente viene da chiedersi perché. Viene da chiedersi cosa ti dà.
Ebbene, come sempre davanti a domande così dirette faccio fatica a rispondere. Ho cominciato a
frequentare il gruppo dietro invito della dr.ssa Marcoli e subito, nonostante le importanti differenze
tra noi mamme, ho trovato una situazione ricca di contenuti, ricca di solidarietà, ricca di amore e
anche di allegria. Ho scoperto anche che le mie rabbie, i miei pensieri sono simili alle altre rabbie,
agli altri pensieri. Ma questo l'avevo già condiviso con le amiche. Quello che differenzia il gruppo
dallo sfogo con le amiche è che è il luogo dove non mi sento giudicata, non mi danno «consigli»
che spesso mi irritano (un po' perché scontati, un po' perché mi sembra che gli altri siano più saggi о
più bravi о che ne so... sanno risolvere meglio le problematiche), un luogo dove ci si conosce solo
per nome e forse questo ci permette di esprimere più liberamente i nostri pensieri, dove non ci sono
equilibri da salvaguardare, dove non bisogna stare attenti a quello che si dice. È il luogo dove,
attraverso l'elaborazione del vissuto degli altri, del pensiero degli altri e del confronto con gli altri,
riesci a cambiare lentamente, a controllare di più dolori e rabbie. È il luogo dove attingere, dove
buttare nel piatto pensieri belli, brutti, saggi, stupidi.
Ecco, nonostante io non mi possa considerare una donna sola né una mamma sola ma posso contare
sull'appoggio di altre persone, il gruppo è diventato per me un momento importante: è avere
incontrato comunione e solidarietà in un momento di attraversamento di una fase difficile, è avere
uno strumento che ti aiuta a crescere.
Sicuramente ogni cosa ha una fine e arriverà il momento di salutarci.. . Così come saranno cresciuti
i nostri figli, artefici in fondo di questi incontri, vorrà dire che saremo cresciute anche noi con e nel
gruppo, un gruppo che rimarrà dentro di noi... Quando ci incontreremo fuori da questo contesto il
ritrovarsi penso rifletterà quella intimità che ci ha accompagnato e che ci ha fatto arrivare dove
saremo, quindi un legame importante.
Seconda testimonianza: cosa rappresenta per me il gruppo delle mamme, nella solitudine del ruolo
materno
Il gruppo della mamme arrabbiate è stato ed è essenziale per me come persona, non solo come
mamma: il suo ruolo e il posto che ha occupato nella mia vita negli ultimi sette anni, da quando ho
iniziato a frequentarlo, sono cambiati nel tempo...
All'inizio, quando i bambini erano piccoli, è stato:
un'occasione per uscire di casa senza sentirmi in colpa perché li affidavo alle cure di qualcun
altro (dopo tutto, lo facevo per loro...);
un posto dove mi sono sentita: accolta, capita, mai giudicata;
un posto dove ho compreso (subito) che non ero un mostro se a volte non solo avrei voluto
scaraventare i miei adorati bambini giù dal balcone, ma anche passavo ai fatti, scaricando la mia
rabbia e il mio senso di impotenza realmente su di loro con schiaffi, grida, strattonamenti;
un momento in cui raccoglievo anche storie, racconti di altre mamme che erano già passate
dall'esperienza che stavo vivendo e che avevano ognuna una propria vicenda personale specifica e
unica, che mi piaceva conoscere e mi davano spunti di riflessione, un vero insegnamento di vita.
Dopo un po', quando ho conosciuto meglio le persone che partecipavano al gruppo, è diventato:
un momento intimo, di incontro profondo con persone di cui magari non conoscevo neppure
il cognome, ma di cui e con cui condividevo alcune delle emozioni ed esperienze più segrete (mie e
loro);
uno spazio non solo fisico, ma anche mentale: il gruppo era con me (ed io ero con il gruppo)
anche in altri momenti della mia vita, mi ritrovavo a evocare tra me e me persone e storie, a
domandarmi dove fossero e cosa stessero facendo;
uno spazio dove possiamo anche ridere delle nostre difficoltà e delle nostre «tragedie»,
senza che nessuna si senta derisa о sottovalutata.
Ora per me il gruppo è:
un'amicizia forte, sia collettiva che individuale, direi una sorellanza;
una specie di «isola» relazionale, nel senso che sono persone che conosco io sola, e non
hanno alcun contatto con tutte le altre mie relazioni parentali, amicali о di lavoro, è veramente un
ambito assolutamente «assoluto» in se stesso;
un rifugio emotivo protetto;
un punto di riferimento esterno alla mia quotidianità, un'ancora di salvezza: se la mia vita
dovesse frantumarsi, sento che potrei fare affidamento non solo sul gruppo, ma anche su ciascuna
delle persone che lo compongono, anche se continuo a non conoscere i loro cognomi, a non sapere
dove abitino: di loro mi sembra di conoscere l'essenza come persone e non i dettagli esteriori e per
questo le sento così intimamente vicine e mi sento di dire che questo sentimento sia reciproco.
Un altro gruppo sperimentale di ricerca estremamente interessante è quello che da diversi anni
tengo con alcuni papà, anche loro selezionati su base volontaria, per una comune riflessione
sull'identità paterna oggi. È nato in origine dalla richiesta di un papà che per diversi anni mi aveva
inutilmente sollecitato a farlo. Dico inutilmente non perché non ne avessi l'interesse, ma perché
aggiungere un altro gruppo di ricerca a quelli che già avevo (compresi altri due molto interessanti
sulla fatica del ruolo materno oggi, nonché i gruppi istituzionali che ormai facevo annualmente da
tempo in un centro di psicoterapia e in sedi di vario genere) mi sembrava un carico di lavoro
eccessivo per me in quel momento. Però il suggerimento evidentemente «mi ha lavorato dentro» e
mi ha portato a fare qualche taglio ad altri impegni per riuscire a ricavare anche questo spazio.
«Lascare la vela» potrebbe essere una buona metafora per descrivere il lavoro di questo piccolo
gruppo sull'identità paterna nel corso degli anni. È stata suggerita da un papà velista che vi ha
partecipato per due о tre anni. «Sapete, ho capito che nella relazione con i figli noi adulti dobbiamo
sempre trovare il modo di lascare la vela, adattandola ai venti che tirano, se vogliamo evitare che
l'albero si spezzi.»
La metafora «È il momento di lascare la vela» è diventata così un potente aiuto reciproco nelle
situazioni di difficoltà di relazione con i figli, soprattutto adolescenti. Aiuta a rettificare il tiro, a
guardare gli eventi anche da altri punti di vista, a non irrigidirsi e a evitare il braccio di ferro quando
è inutile о dannoso e così via. Rendersi inoltre conto di avere forse per la prima volta nella vita uno
spazio di condivisione profonda fra uomini su temi importanti del vivere è stata un'altra sensazione
molto forte che ha attraversato e attraversa questo gruppo.
Se ci fossimo incontrati in altri contesti (nessuno di loro agli inizi si conosceva) ci rendiamo conto
che non avremmo mai potuto avere una condivisione così profonda come abbiamo avuto in questo
gruppo. Condividere le emozioni della paternità, con le sue gioie e i suoi dolori, dà uno spessore
umano che non si trova facilmente in altre relazioni, soprattutto fra uomini.
È l'ascolto reciproco quello che è prezioso. Le rarissime volte in cui mi capita di parlare delle mie
difficoltà con mio figlio, in altri contesti, non trovo la stessa disponibilità d'ascolto, perché prevale
l'ansia di buttare fuori, mentre l'altro interviene subito per dare consigli.
Rendersi conto anche che il diventare padri implica sempre la grossa fatica di crescere
continuamente è stata nel tempo un'altra condivisione profonda del gruppo.
Tante volte pesa anche l'idea di dover essere il sostegno economico principale della famiglia.
Qualche volta ci viene da pensare: come sarebbe bello poter scendere in cortile a giocare a pallone
come facevamo da ragazzi, invece di dover andare a tutti i costi al lavoro!
Sentirsi capiti anche in questa dimensione, perché condivisa anche dagli altri, aiuta però a guardarsi
con occhio più benevolo e a essere più indulgenti e bonari con se stessi e le proprie fatiche.
Nessuno di noi però tornerebbe mai indietro, nonostante le difficoltà e rinuncerebbe ai propri figli e
alla paternità. È una grandissima gioia quella di fare il papà, anche se tante volte implica anche una
grandissima fatica. Ma è assolutamente fuori discussione che nessuno di noi ci rinuncerebbe!
Uno degli aspetti più gratificanti nella relazione, insieme a quelli inevitabili di fatica, sono i
momenti in cui si avverte una profonda sintonia con i figli perché si sta bene con loro nel proprio
ruolo di adulti.
Quando i miei bambini canticchiano si sente che stanno proprio bene e questo a me dà una profonda
soddisfazione.
Io sento una grande sintonia con il mio bambino quando torno a casa la sera. Si vede proprio che lui
è felicissimo del mio ritorno, gli brillano gli occhi e io sono altrettanto felice di vederlo. È molto
gratificante accorgerti che riesci a renderlo felice semplicemente con la tua presenza.
Io sento una profonda sintonia con i miei figli quando riesco a capirli, soprattutto nei momenti
difficili. Questo è un periodaccio con mio figlio di 9 anni che non riesce a staccarsi. L'altra sera era
triste quando è andato a letto e allora io gli ho raccontato che anche a me alla sua età succedeva di
essere triste la sera e allora cercavo di addormentarmi pensando a delle cose belle e la tristezza
passava. In quel momento l'ho proprio sentito in sintonia con me e anch'io stavo molto bene con lui.
Sono momenti preziosi. E poi sento una grossa sintonia con lui quando facciamo delle cose insieme.
È un importante canale di comunicazione.
Anche quando non solo si gioca con loro ma li si ascolta con interesse sono dei momenti di grossa
sintonia. Ci si sente complici.
In questo periodo mio figlio è molto provocatorio. Continua a dire: «Io ho bisogno di tempo per
crescere, mi dovete dare del tempo, io sono così!». Un giorno dopo averlo detto se ne è andato in
camera sua, io l'ho raggiunto e gli ho raccontato un episodio analogo di quando ero bambino. Lui
allora mi ha chiesto: «Ma tu quanto ci hai messo a crescere?» e io gli ho risposto: «Guarda, non ho
ancora finito, sto ancora crescendo!», «Allora crescerò anch'io!» ha commentato lui.
Certe volte sono più adulti loro di noi. Oggi per esempio stavamo giocando a tennis insieme nella
corsia dei box. A un certo punto la palla ha sbattuto contro un cartello e una donna si è affacciata e
ha gridato: «Ragazzino, vai a giocare altrove!». Io volevo ribattere, ma lui mi ha detto: «Sai, magari
stava riposando!». È stato più adulto lui di me in quel momento.
Però è molto difficile tollerare che in adolescenza loro siano sempre contro per principio. E ancora
più difficile per me perché mi ricorda quando io ero sempre contro mio padre. Ma anche per me i
momenti di sintonia con lui sono stati molto importanti, nonostante il nostro rapporto burrascoso.
Per esempio, quando è morta mia nonna materna a cui ero molto legato, io avevo 12 anni. Nel
momento in cui è morta ero anestetizzato, mi sembrava di non provare assolutamente niente, ma
quando sono andato a darle un bacio sono scoppiato in lacrime e me ne sono andato a piangere da
solo. Mio padre mi ha raggiunto e mi ha abbracciato in silenzio. Qualche mese dopo, in una nottata
di luna bellissima sul Monte Bianco mi ha portato a fare una passeggiata e guardando la luna mi ha
detto: «Sarebbe bello se in una notte così potessimo avere vicino le persone care che abbiamo
perso!».
L'emergere dei ricordi come figli è stato un ulteriore collante per il gruppo, perché ha aiutato a
capire le difficoltà dei propri genitori ma anche i doni che si erano ricevuti, in particolare dai padri,
valorizzando così implicitamente l'identità paterna di ognuno.
Chi mi ha sempre dato dimostrazione di comprensione rispettosa, alla distanza giusta, era mio
padre. Mia madre mi ha insegnato le regole, mio padre a rispettarle ma anche a infrangerle. Era
molto tenero. Ricordo di averlo sorpreso una volta in bicicletta in cima a un ponte mentre si gustava
una sigaretta che non poteva fumare per motivi di salute. A me è rimasta dentro l'immagine della
sua presenza tenera e silenziosa, complice con me. Anche per questi papà, come per gli altri, lo
spazio del gruppo è diventato nel tempo il luogo dove fermarsi a riflettere e a confrontarsi sui temi e
problemi comuni dell'essere genitori. La frequenza iniziale con cui si riuniva era di cinque volte
l'anno, mentre attualmente è di tre о quattro. Una frequenza quindi molto diradata nel tempo, ma
che è diventata un accompagnamento costante in un percorso di ricerca comune, come del resto per
i miei altri gruppi di ricerca.
Anche qui ci sono stati alcuni ingressi e alcune uscite, a seconda dei singoli bisogni, ma con un
nucleo centrale stabile. Come per tutti gli altri gruppi sperimentali di genitori non si tratta di gruppi
terapeutici (non è questo il contratto iniziale né potrebbe esserlo con una frequenza così blanda) ma
semplicemente di gruppi di ricerca, di condivisione e confronto sul tema della relazione con i figli,
partendo da personalità, storie, esperienze, ottiche diverse che si arricchiscono a vicenda in uno
scambio reciproco su temi comuni.
Un'altra esperienza estremamente interessante e ricca vissuta nel corso di questi ultimi vent'anni è
stata in carcere, con un piccolo gruppo di mamme detenute con le quali ho fatto alcuni cicli di
incontri organizzati da un'operatrice sociale regionale che aveva particolarmente a cuore il settore
della maternità legata alla marginalità.
Una delle prime cose che mi ha colpito moltissimo con loro è stata il ritrovare un comune
denominatore nell'infanzia di ciascuna, l'essere cioè state in genere delle bambine molto arrabbiate
perché molto ferite nei loro bisogni affettivi ed emotivi fondamentali, attraverso perdite, abbandoni,
distacchi traumatici, seppure all'interno di storie assai diverse. Mi ha fatto riflettere ancora di più
sull'importanza di un lavoro di prevenzione con i bambini che faciliti l'evolvere della rabbia verso
uno sbocco che li aiuti a integrarsi socialmente invece che danneggiare loro e la società con
l'emarginazione. Perché purtroppo questa catena di rabbia era passata spesso anche ai figli, tutti
molto arrabbiati di avere le mamme rinchiuse in carcere. «Quando sono venuti ad arrestarmi, la mia
bambina di 6 anni che non sapeva niente mi si è messa davanti con le braccia aperte tra me e i
poliziotti per proteggermi!»
Sono trascorsi parecchi anni da allora, ma certe scene che ho sentito descrivere le ho ancora ben
presenti nella memoria. Ricordo che mi ero detta varie volte: se ne avessi la possibilità lancerei una
campagna con lo slogan «Adottate una mamma in carcere e ci saranno meno bambini arrabbiati in
giro!».
Ricordo anche che una delle prime domande del tutto naturali che mi ero posta agli inizi era stata la
stessa di una cara amica con una lunga esperienza di volontariato in carcere: «A me sembra una
persona né più né meno come me. Allora perché è in carcere?».
È stata un'esperienza forte che mi ha insegnato tante cose nel campo delle priorità della vita e della
relazione genitori-figli in particolare. Anche in questo caso l'ho trovata in assoluto la relazione su
cui venivano investite le maggiori quantità di risorse ed energie psichiche. «Non voglio che i miei
figli vengano dati in affido familiare! Loro non sono orfani: la loro famiglia ce l'hanno già!
Preferisco che vengano messi in istituto dalle suore in attesa che io esca dal carcere» ripeteva
costantemente una di loro. Le sarebbe stato intollerabile.
Non c'è come un gruppo di genitori, in qualsiasi sede avvenga, che unifichi e renda paritarie
esperienze di vita completamente diverse fra di loro. Si tratta davvero di un gruppo di pari in
assoluto, dove ognuno è lì solo in quanto genitore, indipendentemente dal suo lavoro, titolo di
studio, appartenenza sociale ecc. È davvero un gruppo democratico, dove ognuno ha lo stesso
diritto di appartenenza degli altri proprio in quanto genitore. E non importa che si tratti di una
mamma giudice о di una ex detenuta, di una plurilaureata о di un'analfabeta, di un papà con un
lavoro prestigioso oppure umile. L'appartenenza al gruppo come genitore unifica tutti: si è lì per
confrontarsi con gli altri sulla comune esperienza di avere dei figli e sui problemi che questo
comporta nella vita di ciascuno.
La relazione genitori-figli credo sia il maggior laboratorio di ricerca esistente al mondo, quello dove
ogni gruppo e ogni individuo (anche quando non si è genitori, si è pur sempre figli) elaborano la
propria arte del vivere, dove si imparano ad affrontare i temi e i problemi della vita in tutti i loro
aspetti, con i momenti in cui si cade e quelli in cui ci si rialza, dove si rettifica il tiro e si impara per
piccoli passi a cambiare, dove si cercano risposte nuove per nuove situazioni e così via. È un
laboratorio di ricerca transculturale, che accomuna culture e società profondamente diverse fra di
loro, pur nella loro specifica individualità.
Nella mia introduzione al contributo di Ida Finzi sull'essere genitore nella migrazione ho riportato a
questo proposito alcune riflessioni sui gruppi di lavoratrici straniere che ho tenuto annualmente per
almeno un decennio a Milano.
Un altro gruppo particolare dove ho imparato moltissimo e che amo tanto è quello che si è creato
presso uno Spazio donna comunale, in un centro sociale a Corsico, nell'hinterland milanese. Siamo
invecchiate insieme, con alcune delle partecipanti «storiche», che hanno rappresentato negli anni la
rete protettiva intorno a un gruppo di mamme che cambiavano sempre nel tempo, in uno spazio
dove potersi confrontare, ascoltare, aiutare nelle reciproche esperienze di relazione con i figli. Uno
spazio dove si sono sfiorate, incontrate, incrociate età e storie di vita assai diverse fra loro, da chi
era già nonna oppure addirittura bisnonna a chi era una giovane mamma alle prese con i bambini
piccoli. Uno spazio dove le partecipanti più anziane mettevano a disposizione delle più giovani la
loro esperienza di mamme e di vita, con umiltà, semplicemente come testimonianza di ciò che
avevano vissuto: le loro fatiche e le loro gioie, senza la pretesa di dare consigli о di indicare la
strada a nessuno, con un ascolto empatico e senza giudizio.
«Sono stata forte о sono stata debole? Non lo saprò mai!» si chiedeva una di loro in chiusura di una
lettera in cui aveva raccontato le vicissitudini della sua lunga vita e la decisione presa tanti anni
prima di non separarsi, pur vivendo una situazione molto difficile.
Un luogo dove si possono fare le domande che non hanno risposta, in un ascolto rispettoso. Mi è
stato raccontato da qualcuno che l'ha per caso seguita, che in una trasmissione radiofonica sui
luoghi e le esperienze che hanno aiutato maggiormente nei momenti di crisi un'ascoltatrice ha
telefonato proprio per citare questa come esempio. L'ascolto e il confronto sono stati sui temi
complessi del vivere, i conflitti, le malattie, le perdite di persone care, i passaggi, i cambiamenti sia
esterni che interni: quelli difficili da accettare, ma anche quelli che aiutano a modificare le
immagini mentali e le relazioni.
«Da quando non penso più a mio figlio come quello che è sempre aggressivo, mi sono accorta che
la relazione con lui è molto migliorata e non mi sento più aggredita.» Si passa con maggior facilità
dal terreno dell'accusare l'altro («Tu mi aggredisci sempre!») a quello del comunicare
semplicemente come ci si sente («Io mi sento aggredita»), cosa che facilita le relazioni perché evita
il terreno delle accuse reciproche, comunicando solo uno stato d'animo. Anche la pena per una
malattia importante dall'esito incerto è più facile da condividere all'interno di un gruppo di questo
genere: «È solo qui che ne posso parlare liberamente. Con i miei cari non posso farlo, devo far finta
di niente perché sarebbe un dolore intollerabile per loro sapere che io ne soffro!».
«A me è successo di trovare delle risorse inaspettate proprio quando ho toccato il fondo, in un
momento di grandissima sofferenza e malessere. Ma è stato proprio il fatto di non avere altre
possibilità di scelta quello che mi ha aiutato. Oggi sto molto meglio di prima.»
La frase «Qui io posso esprimere il mio dolore» ha echeggiato per anni all'interno di questo gruppo,
nell'ascolto rispettoso di tutti. Quando c'è un luogo dove sentire accolto il proprio dolore nei
momenti difficili il carico e la pena del vivere si alleggeriscono.
Chiudo queste riflessioni sulle mie principali esperienze di ricerca con gruppi di genitori con la
testimonianza di una coppia e di una mamma del mio gruppo di ricerca sui cambiamenti che lo
scorrere degli anni comporta nella relazione.
Grazie a tutti loro per il tempo e la cura che vi hanno dedicato. Testimonianza di una coppia di
genitori
Entrambi
La partecipazione ai gruppi di genitori ha rappresentato per me e mio marito un'esperienza di vita
molto importante in quanto ci ha aiutato a crescere come persone e a instaurare una relazione più
sana con i nostri figli. Fin dai primi incontri come genitori ci siamo sentiti meno inadeguati e quindi
più sollevati, perché ci siamo resi conto che tutti avevano dei problemi per cui le nostre ansie sono
diminuite. Ciò può sembrare una cosa banale, ma non lo è affatto perché il sentirsi più adeguati e
meno in ansia fa bene alla relazione con i figli, la migliora. L'esperienza del gruppo ha migliorato
anche il nostro rapporto di coppia perché ci ha aiutato a entrare di più in contatto con le nostre
emozioni. Mio marito è riuscito a capire di più il mondo femminile e ha permesso a me di non
sentirmi schiacciata dalla sua razionalità e di sentirmi più riconosciuta nei miei sentimenti che non
venivano minimizzati. Il gruppo ci ha anche aiutato ad affrontare i cambiamenti inevitabili della
vita in modo più consapevole, vale a dire riuscendo a tollerare la fatica, talvolta la depressione, da
essi generata, perché si perdono delle certezze nei momenti di cambiamento e si va incontro a
qualcosa che non si conosce e quindi che spaventa; nello stesso tempo ci ha spinti a guardare avanti,
a essere gradualmente disponibili ad accogliere le conquiste che essi portano con sé.
Crediamo che questa esperienza ci abbia aiutato molto come genitori perché se si investe sulla
propria persona si investe, di conseguenza, sui figli. Tutte le conquiste che abbiamo fatto come
individui, le cose che abbiamo interiorizzato e che poi elencheremo separatamente ci hanno aiutato:
a non richiedere la perfezione;
a rispettare di più i nostri figli considerandoli delle persone, in crescita, ma delle persone;
ad ascoltarli con più attenzione: crediamo sia in assoluto la cosa più difficile soprattutto se
per qualche motivo non ci si è sentiti ascoltati, ma la strada per imparare a farlo è lunga e difficile;
a tollerare l'ansia che la crescita di un figlio ti chiede di saper sostenere (pensiamo alla loro
adolescenza, alla patente, alla richiesta della moto...). Il gruppo ci ha aiutato a diventare più capaci
di affidarli alla vita, imparando a discernere tra ciò che potevamo fare, ed era giusto che facessimo
per proteggerli, e ciò che non potevamo e non dovevamo fare;
a capire quando le nostre aspettative nei loro confronti avevano a che fare con i nostri desideri non
realizzati.
La mamma
Ascoltare gli altri e parlare a mia volta mi permetteva di distaccarmi momentaneamente dai miei
problemi e di guardarmi come allo specchio, sentendomi così meno coinvolta e riuscendo a
discernere con più lucidità e a vedere cose che altrimenti non sarei riuscita a vedere, a intuire
soluzioni a cui non avrei mai pensato.
Il gruppo mi ha aiutato ad affrontare i momenti bui, che tutti attraversiamo nella vita, senza pensare
che durino per sempre, ma con la consapevolezza che finiranno per lasciare spazio a giorni più
luminosi. Aver infatti imparato che tutto ha un inizio e una fine e che ogni medaglia ha sempre due
facce è di grande sollievo.
Ho anche imparato a dare alcune battaglie per perse e a non intestardirmi su percorsi che non
portano da nessuna parte, a cambiare qualche volta direzione anche se ciò non era previsto.
Il gruppo mi ha anche insegnato ad accettare di più gli altri, così come sono, divenendo
maggiormente consapevole delle loro risorse e delle loro debolezze, e soprattutto consapevole del
fatto che non è possibile cambiare nessuno, nemmeno i più intimi, ma solo noi stessi, e con fatica.
Un'altra cosa che ho imparato e che mi è di grande aiuto è questa: ora sono più capace di darmi dei
limiti; accetto di non arrivare dappertutto. Sentirmi non onnipotente mi fa stare molto meglio.
Infine poter parlare dei propri problemi, delle proprie emozioni sapendo di essere ascoltati e
soprattutto non giudicati, permette gradualmente di imparare ad ascoltare e a non giudicare,
permette di vivere l'esperienza della condivisione e del confronto che fa sentire meno soli.
Il papà
La frase che più mi ha colpito in questi anni, che ancora adesso mi torna in mente con più
frequenza, è stata: «Sì è comportato così perché, in quel momento, non poteva fare di meglio».
All'inizio mi era sembrata una giustificazione buona per tutte le situazioni. Poi, poco alla volta, ho
rielaborato la frase e ora è la prima cosa che penso quando mi trovo in una situazione dove l'altro
tiene un comportamento che io non condivido. Questo non giustifica tutto ma perlomeno mi aiuta a
capire le ragioni degli altri.
Una cosa basilare che il gruppo mi ha dato è il capire che tutto quello che mi è capitato, mi accade,
о mi accadrà non è un problema unico, solo mio о particolare ma che è, sicuramente, condiviso da
altri, da molti altri. Tutti lo sappiamo ma sentire un'altra persona preoccupata per un problema che è
anche nostro ci tranquillizza; non risolve il problema ma ci fa capire che è una cosa normale, non
particolare. Pensare a un problema come a una cosa solo mia mi spaventa.
Il gruppo mi ha anche confermato che nascondere la verità è una cosa che a lungo non paga. Gli
altri intuiscono, soprattutto i bambini, e si corre il rischio che si facciano delle idee sbagliate,
magari più gravi della realtà.
Accettare i cambiamenti, ecco una conquista che mi ha dato il gruppo. Personalmente penso di
essere stato già prima abbastanza consapevole di dover accettare i cambiamenti che la vita ci
impone, ma il gruppo mi ha aiutato ad accogliere in modo più corretto i cambiamenti, inevitabili,
che la vita ci propone. Un esempio. Alcune sere fa, mentre mi accingevo ad andare a letto,
«improvvisamente» un pensiero mi è balenato nella mente: mio figlio maggiore si sposerà e vivrà in
un'altra casa. È una cosa scontata, ma proprio quella sera avevamo discusso a lungo, tutti e quattro,
durante e dopo la cena e la cosa era stata molto piacevole. Questa però poteva essere una delle
ultime volte che ciò accadeva. Dopo il matrimonio sicuramente lui tornerà a casa nostra, a pranzo о
a cena, ma non sarà più come adesso. Sarà di passaggio, con sua moglie о con i figli. Quindi la
situazione attuale finirà, non si potrà ripetere: magari sarà meglio, ma non la stessa, e a me questa
andava bene così. La vita però continua e si evolve, alcune cose terminano, altre cominciano.
Sicuramente ne terminerà una bella, ma io spero che quella che sta iniziando sia anche meglio. Di
certo però non sarà uguale!
Niente come il crescere e la relazione genitori-figli tocca continuamente il tema dei cambiamenti,
dei passaggi, delle perdite, anche quando si tratta di conquiste. Ma, come dice un antico proverbio
Cherokee: «Non lasciate che l'ieri consumi troppo il vostro oggi».
Testimonianza di una mamma
Luglio 2008
Non potrò mai apprezzare appieno l'importanza che il gruppo ha avuto nel mio percorso di crescita:
un percorso iniziato ventiquattro anni fa a seguito di una forte depressione. Nonostante la
psicoterapia mi abbia aiutato a trovare l'equilibrio, il gruppo è stato fondamentale per il mio
cammino quotidiano. Quello che apprezzo tantissimo sono il confronto e l'ascolto a un livello
profondo, quando siamo insieme entri in un'altra dimensione che difficilmente trovi nella vita di
tutti i giorni; lo spazio del gruppo è fondamentale perché finalmente ti fermi ed entri in contatto con
te stessa e ti accorgi che ti rigeneri... sì, proprio così! Quando esci dal gruppo ti senti più leggera,
meno preoccupata dai pensieri che ti assillano; ti senti confortata perché per quelle due ore ti sei
sentita accolta così come sei... senza maschere. Quello che ci alimenta nel gruppo è proprio questo:
la possibilità di essere noi stessi con le nostre paure, fragilità, insicurezze; la ricchezza del gruppo è
proprio quella di crescere anche attraverso l'esperienza degli altri. A poco a poco scopri delle
piccole soluzioni e ti rendi conto che nessuno ti ha dato consigli, ma il confronto e la riflessione
continua ti hanno aiutato a trovare delle modalità di relazione che puoi mettere in atto piano piano
con tutte le persone che ti stanno accanto.
Oltre che te, i beneficiari sono i figli che spesso subiscono conseguenze negative inconsce da parte
dei genitori; l'esperienza del gruppo ti fa scoprire diverse modalità di relazione e spesso ti rendi
conto che ci vuole poco a trovare delle strategie che migliorano la vita, e anche questo è merito di
un confronto e una riflessione che ti permettono di mettere a fuoco qualcosa nella tua vita che non ti
faceva stare bene e non faceva stare bene gli altri.
Attraverso il gruppo ho imparato che chiedere scusa, soprattutto ai miei figli, non è un atto di
debolezza, ma un atto di grande rispetto; ho imparato con molta fatica a non giudicare e a mettermi
nei panni degli altri; ho imparato a mettermi in discussione ... certo è una bella fatica!
Ma è una fatica che poi porta a delle conquiste che ti fanno sentire più coraggiosa nell'affrontare i
problemi. Se penso agli anni che sono passati mi stupisco! In questi anni abbiamo affrontato molti
passaggi di vita ... abbiamo visto crescere i nostri bambini, li abbiamo accompagnati nelle loro
scelte, abbiamo assistito ai nostri cambiamenti e spesso, quando penso al gruppo, la tenerezza di
scoprirci non più giovani prende il posto della malinconia di non essere più giovani; anche questo fa
parte della saggezza conquistata dal gruppo: l'accettare lo scorrere del tempo cogliendo i doni che
ogni età regala a ognuno di noi.
L'aver accolto nel gruppo la fatica e anche il dolore di certi cambiamenti inevitabili avvenuti in
questi anni, ma anche le gioie, i progetti e i sogni di tutti, ha fatto sì che questo gruppo sia diventato
per me «speciale» solo perché tutti, lì dentro, si sentono speciali. Tutto questo non è magia; è il
risultato del cammino di un piccolo gruppo di persone che hanno condiviso per molto tempo la loro
esperienza di vita facendone un tesoro per tutti.
Nel gruppo si impara a camminare per le strade della vita insieme agli altri nel rispetto reciproco.
Dicevano gli indiani Cheyenne: «Non giudicare il tuo vicino finché non avrai camminato per due
lune nei suoi mocassini».
I custodi dei fiori (Fine)
«Come mai il nostro fiore ha reclinato il capo verso terra? Che cosa gli è successo? Allora significa
che anche noi siamo un fallimento e non valiamo proprio niente, se non sappiamo neanche curare il
fiore che amiamo di più!» si dissero spaventati l'uomo e la donna. Decisero così di andare a
consultare la Vita, che era la più importante Custode di tutto, anche dei fiori, per chiederle aiuto.
«Forse l'immagine che voi avete nel quadro del cuore non è quella che corrisponde a lui» rispose lei
dopo averli ascoltati bene. «Siete voi che dovete osservarlo meglio per capire quella che gli
corrisponde di più, perché è sua e solo sua!»
L'uomo e la donna ci pensarono per giorni e giorni e poi presero la gran decisione: spostarono,
anche se con molto dispiacere, dal centro della parete il quadro che era nella loro mente e nel loro
cuore con il fiore alto, forte e giallo come il sole e lo appesero con cura nell'angolo dei ricordi di
famiglia. Poi costruirono con le loro mani un buono specchio, che appesero al suo posto e che ogni
giorno pulivano con attenzione perché riflettesse bene e fedelmente le immagini. E così il nostro
fiore poté a poco a poco iniziare a specchiarsi nella loro mente e nel loro cuore e a vedersi anche
lui.
All'inizio non si piaceva proprio, anzi si faceva quasi pena, così ridotto, con il capo un po' reclinato
verso terra. Poi, piano piano, cominciò a scoprire nella sua immagine riflessa anche la base sicura
dove affondavano le buone radici che lui non sapeva di avere, le nuove foglie tenere che stavano
spuntando, i boccioli che si preparavano a dischiudersi, come lui non si era mai neppure
lontanamente immaginato. Ed ecco che un bel giorno vide infine la sua nuova immagine
risplendente nello specchio: un bel fiore di campo in un bel campo di fiori. Né così alto, né così
forte, né così giallo, ma lui, proprio solo e soltanto lui, con il suo profumo, il suo colore, la sua
altezza, la sua unicità al mondo insieme alla sua gioia di ondeggiare nel vento e di essere vivo, con
le persone che amava di più al mondo.
L'uomo, la donna e il fiore si guardarono commossi e sorrisero felici.
Quante volte
un uomo deve guardare in alto
prima di poter vedere il cielo?
B. DYLAN, Blowing in the Wind
Note
Il perché di questo libro
1
Tutti i testi della tradizione orale africana citati sono tratti da Olivier e Danielle Föllmi,
Origini. 365 pensieri dei saggi dell'Africa, trad, it., Genova, L'Ippocampo, 2005.
2
Alba Marcoli, Il bambino lasciato solo, Milano, Mondadori, 2007.
3Janusz Korczak, Come amare il bambino, trad, it., Trieste, Emme Edizioni, 1979. Korczak, nato a
Varsavia nel 1878 (o 1879), è morto nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942, per non
abbandonare i piccoli orfani ebrei sotto la sua custodia che venivano condotti a morte.
PARTE PRIMA. L'ALLEANZA CON I GENITORI
1 Tutte le poesie di Pablo Neruda citate nel testo sono tratte da Stravagario, trad, it., Milano, Nuova
Accademia, 1963.
2Carl Gustav Jung, Il problema psichico dell'uomo moderno, in Opere complete, trad, it., vol. 10,
Torino, Bollati Boringhieri, 1985.
I. Il lavoro con i genitori
1 Marcel Proust, All'ombra delle fanciulle in fiore, trad, it., Milano, Mondadori, 1996.
PARTE SECONDA. GIOIE E FATICHE DEL DIVENTARE GENITORE
IL Come si può affrontare un problema psicologico?
1
Tutti i testi della tradizione orale dei popoli Nativi americani citati nel testo sono tratti da
Guy A. Zona, The Soul would have no Rainbow if the Eyes had no Tears, New York, Touchstone,
1994.
2
Dai questionari, anonimi, del 6/12/2007 al CEI di Palermo. Grazie a chi l'ha scritto.
III. Mi è nato un bambino: perché piango?
1
Il Tempo per le famiglie è uno spazio solitamente settimanale dedicato ai bambini da 0 a 3
anni e ai loro genitori, per potersi incontrare e sostenere reciprocamente con l'aiuto di qualche
esperto (psicologo, psicomotricista, operatori infantili, ecc.) con cui discutere dei vari problemi. E
una struttura preziosissima per il benessere attuale e futuro delle famiglie e dei loro bambini, per il
sostegno ai genitori, per la prevenzione del disagio mentale infantile e per l'individuazione precoce
delle situazioni a rischio che possono beneficiare di uno specifico aiuto psicologico.
2
Jack Kornfield, A Path with Heart, London, Rider, 2002.
3
Adriana Pagnoni, Mal Sospeso, Milano, Lineacultura, 1992.
4
Jean-Baptiste Pontalis, Finestre, trad, it., Milano, e/o, 2001.
5
Vivian Lamarque, Una quieta polvere, Milano, Mondadori, 1996.
IV.
Quali problemi incontrerò adottando un bambino?
1 Kahlil Gibran, Il profeta, trad, it., Milano, S/E, 1985.
PARTE TERZA. AIUTARE I BAMBINI A VIVERE LE PROPRIE EMOZIONI
V.
Perché si fatica così tanto con i bambini piccoli?
1 Elisa Castellini, La parte fresca del cuscino, Rho, ATìEditore, 2005.
VI.
Come accompagnare e preparare i distacchi del crescere?
1
Si tratta del nome locale dato al Tempo per le famiglie.
2
Marc-Alain Ouaknin e Dory Rotnemer, Così giovane e già ebreo, trad, it., a cura di Moni
Ovadia, Casale Monferrato, Piemme, 2003.
3
È oggi ben noto che è la dimensione affettiva a favorire quella cognitiva e non viceversa,
motivo per il quale dovrebbe essere privilegiata nella crescita di un bambino. Si eviterebbe in
questo modo il dramma di tanti bambini dei nostri giorni che sono spaccati in due, con una parte
cognitiva molto più avanti del la loro età (vedi uso del computer, schede di apprendimento ecc.) e
una emotivo-affettiva rimasta fragile e indifesa come quella di un neonato (vedi l'uso del ciuccio
anche alla scuola materna, l'essere trasportati sul passeggino anche a 4-5 anni, l'uso prolungato del
biberon con le scuse più varie, il non reggere la minima frustrazione ecc).
4
Marc-Alain Ouaknin e Dory Rotnemer, Così giovane e già ebreo, cit.
5
Paola Milani, Progetto genitori, Trento, Erickson, 1993.
6
Jeanne Van den Brouck, Manuale a uso dei bambini che hanno genitori difficili,
trad, it., Milano, Cortina, 1993.
VII. Come aiutare a pensare anche con il cuore
1 Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe, trad, it., Milano, Bompiani, 00.
PARTE QUARTA. AFFRONTARE I PROBLEMI DI NORMALE E STRAORDINARIA
QUOTIDIANITÀ
VIII. Qual è la fatica del passaggio all'adolescenza dei figli?
1
Carl Gustav Jung, Paracelsus. Studi sull'alchimia, trad, it., Torino, Bollati Boringhieri, 1988.
2
Giovanna Ranchetti, Il genitore nascosto. Lo psicologo a scuola e la crisi di passaggio
adolescenziale, Milano, Franco Angeli, 2005 (collana Adolescenza, educazione e affetti).
3
Antonio Machado, Poesie, trad, it., Milano, Lerici, 1961.
4
W. Robert Beavers, Famiglie sane, famiglie intermedie e gravemente disfunzionali, in
Froma Walsh (a cura di), Stili di funzionamento familiare, trad, it., Milano, Franco Angeli, 1986.
5
Massimo e Niccolò Ammaniti, Nel nome del figlio, Milano, Mondadori, 1995.
6
Vittorino Andreoli, Lettera a un adolescente, Milano, Rizzoli, 2004.
7
Rosarita Ghidelli, Percorsi di coppia di fronte al distacco dei figli, in Valeria Longo Carianti
e Rosarita Ghidelli (a cura di), Adolescenza: sfida e risorsa della famiglia, Milano, Vita e Pensiero,
1993.
8
Anthony De Mello, La preghiera della rana, trad, it., Milano, Edizioni Paoline, 1999.
9
Gustavo Pietropolli Charmet, 1 nuovi adolescenti, Milano, Cortina, 2000.
IX.
Come posso aiutare il mio bambino disabile?
1
William Shakespeare, Timone d'Atene, I, i, 107.
2
Lucia Aite, Culla di parole. Come accogliere gli inizi difficili della vita, Torino, Bollati
Boringhieri, 2006.
3
Giuseppe Gallo, Di fossato infossato, Roma, Lo Faro, 1983.
4
William Shakespeare, Racconto d'inverno, III, in, 50.
5
Elena Dal Pra (a cura di), Haiku, Milano, Mondadori, 1998.
6
Michele Busi, Mons. Giovanni Marceli un protagonista del movimento cattolico bresciano,
Brescia, Istituto di cultura G. De Luca, 2002.
X. Occuparsi anche dei fratelli dei bambini disabili
1
Stanley D. Klein, Maxwell J. Schleifer, It Isn't Pair! Siblings of Children With Di
sabilities, Westpoint, Connecticut, Bergin & Garvey, 1993.
2
Alda Merini, La terra santa, Milano, Scheiwiller, 1984.
3
Wilfred R. Bion, Apprendere dall'esperienza, trad, it., Roma, Armando, 1983.
4
Antoine de Saint-Exupéry, II piccolo principe, trad, it., Milano, Bompiani, 2000.
PARTE QUINTA. AFFRONTARE I PROBLEMI LEGATI AI CONFLITTI XI. Quando l'aiuto
serve in tribunale
1
William Shakespeare, II Mercante di Venezia, IV, i, 88.
2
Alejandro Jodorowsky, II dito e la luna, in Racconti zen, haiku, koan, Milano,
Mondadori, 2006.
3
William Shakespeare, Timone d'Atene, III, v, 8.
XII. Come difendere i bambini dalle immagini violente?
1
Elena Dal Pra (a cura di), Haiku, Milano, Mondadori, 1998.
2
Luciano Somma, La rabbia dei vinti, in L'alba di domani, Pellegrino (Me), Noialtri Ed.
3
Davide Frattini, Bimbe che scrivono sui razzi. La rabbia araba corre sul web, in «Corriere
della Sera», 23 luglio 2006.
4
Nicole Janigro, Vietnam-Vukovar, in L'esplosione delle nazioni, Milano, Feltrinelli, 1999.
5
Giovanni De Luna, li corpo del nemico ucciso. Violenza e morte nella guerra con
temporanea, Torino, Einaudi, 2006.
6
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, trad, it., Milano, Mondadori, 2003.
7
Nicholas Mirzoeff, Guardare la guerra, trad, it., Roma, Meltemi, 2004.
8
AA.W., Psiche e guerra. Immagini dall'interno, a cura di A.M. Sassone, pref. di A. De Coro,
Roma, manifestolibri, 2002; AA.W., Il terrore nell'anima, in «Rivista di psicologia analitica», n. 13,
65/2002.
9
Bruno Munari, fantasia, Roma-Bari, Laterza, 2006.
Elie G. Humbert, Il ruolo
dell'immagine nella psicologia analitica, in Parole e immagini strumenti dell'analisi, in «Rivista di
psicologia analitica», n. 20/79.
Nicole Janigro (a cura di), La guerra moderna come malattia
della civiltà, Milano, Bruno Mondadori, 2002.
Lella Ravasi, La crociata dei bambini (stupidi о
innocenti?), in Fondamento, fondamentalismo: uno sguardo dal profondo, in «Rivista di psicologia
analitica», nuova serie n. 15,67/2003.
Anche se sono ancora poche le ricerche sugli effetti
della visione, sia in aree di conflitto sia in aree lontane dalla guerra vera. Far disegnare i bambini è
ormai uno dei modi consueti di proporre attività
tese all'elaborazione del conflitto. Renos К. Papadopoulus, La casa è dove è il cuore? Narrazioni
dì discorsi antagonisti nei racconti delle famiglie di profughi, in Renos К. Papadopulus, John ByngHall (a cura di), Voci multiple. La narrazione nella psicoterapia sistemica familiare, trad, it.,
Milano, Bruno Mondadori, 1999. Nicole Janigro, La difficoltà di dire io: l'uso del diario fra mito
e storia, fra storia e mito, fra storia e letteratura, in «Adultità», n. 24,2006.
Dall'Introduzione
di Paolo Aite a Carl Gustav Jung, L'inconscio, trad, it., Milano, Mondadori, 1992.
Amos Oz,
Una storia di amore e di tenebra, trad, it., Milano, Feltrinelli, 2003.
XIII. Í conflitti con il nostro stesso corpo
1
Wang Ypei, Il viaggio, trad, it., Troina (En), Servitium, 2003.
2
Annick De Souzenelle, Il simbolismo del corpo umano, trad, it., Troina (En), Servitium,
1999.
PARTE SESTA. NON AVER PAURA DELLA PSICOLOGIA
XIV. Ma chi è la persona a cui mi affido? Come si forma uno psicoterapeuta?
1
The University of Michigan, Ann Arbor.
2
La differenza fra psicologo e psicoterapeuta è in genere questa: si diventa psicologo dopo un
corso universitario di laurea e un esame di stato per l'iscrizione all'Albo degli psicologi. Per essere
psicoterapeuti bisogna essere laureati in psicologia о medicina, aver frequentato una ulteriore
Scuola di specializzazione quadriennale specifica (solitamente esterna all'università) ed essere
entrati nell'Albo degli psicoterapeuti.
3
Agostino, De Magistro; trad. it. Il maestro, Roma, Città nuova editrice, 1976.
4
Hannah Arendt, L'umanità in tempi bui, trad, it., Milano, Cortina, 2006.
5
Stefania Manfredi e Luciana Nissim, Il supervisore al lavoro, in «Rivista di psicoanalisi», n.
30, IV, 1984.
6
Piotino, Enneadi, VI, 9,4,15-16.
XV. Ma che lavoro fa uno psicoterapeuta infantile?
1
Fabrizio Parrini, Il giardino dei miracoli, in Un cavallo nel cielo, Milano, Sonzogno, 1997.
2
Antonino Ferro, La tecnica nella psicoanalisi infantile, Milano, Cortina, 1992.
3
Margaret Mahler, Fred Pine, Anni Bergman, La nascita psicologica del bambino,
trad, it., Torino, Bollati Boringhieri, 1978.
XVI. Ciò che i bambini non dicono: la separazione dei genitori
1
Risposta a un questionario, Soave, giugno 2008. Grazie a chi l'ha scritta e ad A.C che ha
avuto la pazienza di raccogliere i questionari nei giorni successivi e di spedirmeli.
2
Francesco Mancuso, Mi sembra che non stia bene..., intervento al convegno Fattori di
cambiamento e di continuità nella psicoterapia infantile, Istituto di psicoterapia del bambino e
dell'adolescente, Milano, 15-16 febbraio 2008.
3
Parafrasando Racamier (1953) solo ciò che può essere concepito come frustrazione può
essere considerato dell'ordine delle nevrosi. Il resto è dell'ordine della mancanza о dei suoi
disastrosi effetti. In queste situazioni più che di frustrazione mi pare si possa parlare di
annichilimento, depressione.
Secondo Anna Freud vi è un solo «fattore la cui menomazione può ritenersi di importanza
sufficiente sotto questo profilo, e cioè la capacità del bambino di progredire per tappe successive
fino al compimento della maturazione dello sviluppo in tutte le zone della personalità e
dell'adattamento alla comunità sociale». Dunque, il gioco, la libertà della vita fantasmatica, il
rendimento scolastico, la stabilità delle relazioni oggettuali, l'adattamento sociale sono tutti
parametri importanti, ma quello che conta è il costante segnale di progresso più che il momentaneo
arresto о la temporanea regressione. Nel complesso, è bene insistere sul fatto che ai bambini di tutte
le età si deve permettere a volte di comportarsi al di sotto del loro livello potenziale, senza per
questo classificarli come «ritardati», «regrediti» о «inibiti» (Normalità e patologia nel bambino,
trad, it., Milano, Feltrinelli, 1965).
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