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DISPENSA DI DIRITTO PENALE Parte I

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DISPENSA DI DIRITTO PENALE Parte I
Corso di preparazione per l’esame forense
www.overlex.com
DOCENTE
Avv. Luigi Viola
1
DISPENSA
DI
DIRITTO PENALE
Parte I
TRACCE E SOLUZIONI
CON GIURISPRUDENZA ALLEGATA
2
INDICE
CONCORSO APPARENTE DI NORME
(INCENDIO E CROLLO DI COSTRUZIONI)……………………………………...pg. 13
CONCORSO ANOMALO
(RISSA ED OMICIDIO)……………………………………………………..………..pg. 14
CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO
(RESPONSABILITA’ DEI SINDACI)………………………………………………..pg. 16
FALSO GROSSOLANO……………………………………………………………….pg. 17
REATO ABERRANTE E TENTATIVO……………………………………………...pg. 18
ABERRATIO E TENTATO OMICIDIO……………………………………………..pg. 19
GETTO DI COSE PERICOLOSE……………………………………………………..pg. 21
DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE………………………………………pg. 23
Cass. 5436/2005:
lancio dei sassi dal cavalcavia.
Cass., sez. unite, 3571/1996:
dolo eventuale.
FAVOREGGIAMENTO DEL FAMILIARE………………………………………….pg. 32
Cass. 29769/2006:
favoreggiamento del familiare.
Cass. 27614 /2006:
falso evitabile.
Cass. 35165/2005:
fotocopia falsa di un documento.
DIFFAMAZIONE E DIRITTO DI CRITICA…………………………………………...pg. 36
Cass. 19509/2006:
diffamazione e diritto di critica.
Cass. 9246/2006:
notizia falsa ed inapplicabilità della scriminante.
Corte Cost. 317/2006:
dichiarazioni extra moenia del parlamentare.
Cass. 30 agosto 2006:
immunità dei parlamentari.
3
Cass. 25875/2006:
diffamazione via web.
TRUFFA E MILLANTATO CREDITO……………………………………………….pg. 59
Cass. 30150/2006:
truffa e millantato credito.
Cass. 30729/2006:
rapporti tra 316 ter e 640 bis.
Cass. 10231/2006:
rapporti tra 316 ter e 640 bis.
Cass. 15271/2005:
truffa e falsità ideologica in atti privati.
RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ E VIOLENZA SESSUALE………………………...pg. 76
Cass. 22049/2006:
violenza sessuale e jeans.
Cass. 6329/2006:
violenza sessuale ed attenuante della minore gravità del fatto.
Cass. 34120/2006:
violenza sessuale con minore e consenso della vittima.
Cass. 19808/2006:
violenza sessuale e bacio sul collo.
Cass. 16287 /2006:
violenza sessuale e separazione.
Cass. 549/2006:
violenza sessuale e tentato bacio sulla bocca.
Cass. 876/2005:
pacca sul sedere e violenza sessuale.
NESSO CAUSALE E FATTORI INTERRUTTIVI…………………………………pg. 91
Cass.20192/2006:
accertamento in concreto del nesso causale.
Cass. 12894/2006:
nesso causale e responsabilità medica.
Cass. 12275/2005:
responsabilità dell'equipe.
ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA……………………………………………….pg. 105
Cass. 33577/2006:
lesioni sportive causate da un'entrata in scivolata.
Cass. 1947372005:
lesioni sportive e gomitata all'addome.
Cass. 1951/2000:
lesioni sportive e rispetto delle regle del gioco.
SCRIMINANTE DI CUI ALL’ART. 384 C.P. ………………………………………pg. 121
4
INDEBITO UTILIZZO DEL BANCOMAT……………………………………..….pg. 122
Cass.. 31.1.2001:
indebito utilizzo di bancomat.
Cass. 4359/2007:
configurabilità del tentativo.
Cass. 7629/2006:
rapporto di consunzione tra norme.
OMISSIONE DI ATTI D'UFFICIO………………………………………………..…pg. 140
Cass. 44734/2003
omissione di atti d'ufficio e denuncia di violenza sessuale.
TENTATIVO E REATO IMPOSSIBILE……………………………………….……pg. 143
FURTO D'USO E FORZA MAGGIORE…………………………………………….pg. 144
DOLO ALTERNATIVO E TENTATIVO……………………………………………pg. 145
Cass., sez. unite, 3571/1996:
sulle varie tipologie di dolo.
OMISSIONE DI REFERTO……………………………………………………………pg. 148
RIFIUTO DI OBBEDIENZA…………………………………………………………..pg. 149
RIDUZIONE IN SCHIAVITU’………………………………………………………..pg. 150
Cass. 3368/2005
riduzione in schiavitù.
SUCCESSIONE LEGGI PENALI…………………………………………………….pg. 154
CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO …………………………….pg. 155
Cass. 137/2007:
discarica abusiva e proprietà del suolo.
CONCORSO DI REATI E CONCORSO APPARENTE DI NORME ..…………..pg. 157
5
TRASFUSIONI DI SANGUE E TESTIMONI DI GEOVA…………………….…..pg. 158
Cass. 4211/2007:
trasfuzioni e stato di necessità.
Tribunale di Roma, ordinanza 15 – 16 dicembre 2006:
divieto di accanimento terapeutico.
RESPONSABILITA’ MEDICA E DELEGA ALLO SPECIALIZZANDO………..pg. 170
Cass. 22579/2007:
scioglimento anticipato dell'equipe chirurgica.
Cass. 33619/2006:
affidamento e responsabilità d'equipe.
ABUSIVO ESERCIZIO DELL'ATTIVITA’ MEDICA……………………………..pg. 181
Cass. 39087/2001:
abusivo esercizio della professione ed uso di apparecchiature diagnostiche.
LESIONI E VIOLENZA SESSUALE…………………………………………………pg. 184
Cass. 6775/2005:
violenza sessuale di gruppo.
ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA……………………………………………….pg. 196
Cass. 19473/2005:
violazione delle regole del gioco.
Cass. 38428/2006:
sulla posizione di garanzia dell'amministratore di una società.
OMICIDIO PRETERINTENZIONALE……………………………………….……..pg. 205
Cass. 13673/2006:
preterintenzione e dolo del fatto minore.
Cass. 19611/2006:
preterintenzione e dolo misto a colpa.
CONCORSO DI PERSONE E RESPONSABILITÀ DA LINK…………………….pg. 219
Cass. 33945/2066:
responsabilità da link.
ART. 116 C.P. E OMICIDIO PRETERINTENZIONALE…………………………..pg. 223
ABERRATIO E DIVERSO OGGETTO MATERIALE DEL REATO…………….pg. 224
6
GESTORE E OMICIDIO COLPOSO DA OMISSIONE……………………………..pg. 224
Cass. 11960/2007:
responsabilità del gestore.
Cass. 4177/2007:
causalità omissiva.
Cass. 25233/2005:
accertamento della causalità omissiva.
Cass. 12246/2007:
infortunio sul lavoro e responsabilità per colpa.
DIRETTORI DI LAVORI, DIPENDENTI E RESPONSABILITÀ…………………..pg. 259
Cass. 8407/2007:
reati edilizi e soggetti esecutori dei lavori.
DELEGA DI FUNZIONI ED APPALTO……………………………………………….pg. 264
Cass. 41943/2007:
delega di funzioni e responsabilità del datore di lavoro.
Cass. 12275/2005:
responsabilità del medico nella fase post-operatoria
ASSOCIAZIONE CON FINALITÀ DI TERRORISMO………………………………pg. 271
Cass.1072/2007:
sulle azioni suicide dei c.d. kamikaze contro obiettivi militari.
FRODE IN ASSICURAZIONE E LIMITI………………………………………………pg. 289
Cass. 12210/2007
CONCORSO ANOMALO EX ART. 116 C.P……………………………………………pg. 292
Cass. 10528/2003:
concorso anomalo e prevedibilità dell'evento.
COOPERAZIONE COLPOSA IN ILLECITO CONTRAVVENZIONALE…………..pg. 297
Cass. 9739/2005:
cooperazione colposa e personale paramedico.
SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO…………………………………...pg. 305
Cass. 33748/2005:
concorso esterno e reato di associazione mafiosa.
LA NUOVA LEGITTIMA DIFESA……………………………………………………...pg. 332
Cass. 32282/2006:
MINACCIA……………………………………………………………….……………….pg. 337
Cass. 35763/2006:
augurare sventura e reato di minaccia.
7
CONCORSO APPARENTE DI NORME……………………………………………..pg. 339
Cass. 10231/2006:
indebita percezione di erogazioni e truffa ai danni dello Stato.
Cass. 7916/2007:
frode fiscale e truffa.
Cass. 7629/2006:
crollo di costruzioni ed incendio.
Cass. 47164/2005
ricettazione e vendita di supporti informatici e audiovisivi
LEGITTIMA DIFESA E LIMITI………………………………………………….…pg. 369
OMICIDIO PRETERINTENZIONALE ABERRANTE………………………..….pg. 370
8
IMMUNITÀ PARLAMENTARE……………………………………………….pg. 371
Corte Cost. 166/2007:
dichiarazioni extra moenia del parlamentare.
Corte Cost. 151/2007:
manifestazione del pensiero e dichiarazioni del parlamentare.
TENTATA TRUFFA……………………………………………………………pg. 382
ESTORSIONE E MINACCIA………………………………………………….pg. 383
Cass. 11.02.2002:
estorsione e trattamenti retributivi deteriori .
Cass. 11946/2007:
estorsione ed insolvenza fraudolenta.
CONCORSO TRA ART. 186 CDS ED ART. 187 CDS………………………..pg. 388
Cass. 14803/2006:
giuda sotto effetto di stupefacenti.
Cass. 19056/2007:
spaccio e sostanze non tabellate.
FALSO IDEOLOGICO………………………………………………………….pg. 392
Cass., SEZ. UNITE, 15983/2007:
cartellini marcatempo e nozione di atto pubblico.
Cass. 22694/2005:
falso ideologico e cartella clinica.
RESPONSABILITA’ DELLO PSICHIATRA………………………………….pg. 401
App. Bologna, 4 aprile 2007:
responsabilità dello psichiatra e TSO.
FAVOREGGIAMENTO E SPACCIO DI STUPEFACENTI…………………..pg. 411
Cass., sez. unite, 21832/2007
DATORE DI LAVORO E POSIZIONE DI GARANZIA……………………….pg. 417
Cass. 21587/2007:
infortunio sul lavoro e concorso di colpa del lavoratore
Cass, 10109/2007:
vigilanza sul rispetto delle regole antinfortunistiche
Cass. 38428/2007:
responsabile della sicurezza e posizione di fatto
Cass. 21471/2006:
sicurezza sul lavoro e concorso di responsabilità
FALSO IDEOLOGICO ED INVESTIGATORE INFEDELE…………………..pg. 440
Cass., sez. Unite, 32009/2006 :
falso ideologico e verbale infedele
Cass. 17441/2007:
circoncisione e truffa
9
Cass., sez. unite, 16568/2007:
indebita percezioni di erogazioni pubbliche e truffa aggravata
DOLO EVENTUALE E TENTATIVO…………………………………………..pg. 454
Cass. 16666/2007:
tentativo e dolo eventuale
Cass. 5849/2006:
tentativo e dolo eventuale 2
INSOLVENZA FRAUDOLENTA E TRUFFA…………………………………....pg. 458
Cass. 16629/2007:
sulla dissimulazione dello stato di insolvenza
Cass. 26289/2007:
viacard e truffa
Cass. 17441/2007:
circoncisione e truffa
Cass. 16568/2007:
indebita percezione e truffa
ABUSI D’UFFICIO E DOLO INTENZIONALE………………………………….pg. 469
Cass. 9 novembre 2006:
abuso d’ufficio e dolo intenzionale
Corte Cost. 251/2006:
abuso d’ufficio ed interesse pubblico
RESPONSABILITÀ MEDICA DA EQUIPE……………………………………….pg. 476
Cass. 22579/2005:
colpa professionale e responsabilità d’equipe
Cass. 1025/2007:
obblighi di informazione del medico
Cass. 33619/2006:
responsabilità d’equipe
CANE CHE MORDE IL PASSANTE
E RESPONSABILITA’ DEL CUSTODE…………………………………………...pg. 492
Cass. 25474/2007: cani mansueti e precauzioni
ERRORE SULL’ETÀ DEL MINORE NEI CASI DI ABUSO…………………….pg. 495
Corte Cost. 322/2007:
rapporti sessuale con minori e conoscenza dell’età
DOLO COLPITO A MEZZA VIA DA ERRORE…………………………………...pg. 504
Cass. 12466/2007: nuova legittima difesa
CONCORSO APPARENTE DI NORME TRA TRUFFA AGGRAVATA ED INDEBITA
PERCEZIONE DI CONTRIBUTI DA PARTE DELLO STATO…………………pg. 509
Cass. 30528/2007:
differenze tra 316 ter e 640 bis c.p.
Cass., sez. unite, 16568/2007 :
rapporto di sussidiarietà tra 316 ter e 640 bis c.p.
Cass. 30150/2006:
10
millantato credito e truffa
Cass. 7629/2006:
rapporto di consunzione
ABERRATIO ICTUS ED SMS INVIATO ERRONEAMENTE……………………..pg. 509
Cass. 36225 /2007:
mms pornografico ed aberratio
Cass. 15990/2006:
aberratio ictus e delicti
ART. 48 C.P. E CONCORSO FORMALE DI REATI………………………………...pg. 533
Cass. 35488/2007:
art. 48 c.p. e concorso formale di reati
DICHIARAZIONE EXTRA MOENIA DEL PARLAMENTARE……………………pg. 543
Corte Cost. 342/2007:
immunità parlamentare extra moenia
Corte Cost. 274/2007:
atti tipici della funzione parlamentare
Corte Cost. 152/2007:
immunità parlamentare e nesso funzionale
Corte Cost. 166/2007:
dichiarazione del parlamentare e contesto politico
VIOLENZA SESSUALE IN FAMIGLIA……………………………………………….pg. 564
Cass. 22850/2007:
reati sessuali e maltrattamenti in famiglia
Cass. 1090/2007:
maltrattamenti in famiglia e riduzione in schiavitù
VIOLENZA SESSUALE…………………………………………………………………pg. 570
Cass. 33761/2007:
violenza sessuale e condizione di inferiorità psichica
Cass. 25112/2007:
violenza sessuale e bacio
Cass. 19718/2007:
toccatina al seno
Cass. 22840/2007:
toccatina repentina e fugace
Cass. 12425/2007.
atti sessuali e zona esogena
CONCORSO ESTERNO ED ASSOCIAZIONE TERRORISTICA………………….pg. 580
Cass. 24994/2006:
attentato terroristico ed ideazione
Cass. 1072/2007:
atto terroristico
Cass. . 21648/2007:
concorso esterno in associazione mafiosa
11
ESTORSIONE…………………………………………………………………….pg. 606
Cass. 39366/2007:
minaccia ed obbligazione naturale
Cass. 35484/2007:
estorsione ed amicizia
DIFFAMAZIONE E SCRIMINANTE………………………………………….pg. 612
Cass. 42067/2007:
diritto di cronaca e limiti
Cass. 21876/2007:
cronaca giudiziaria e limiti
ELUSIONE PROVVEDIMENTO GIUDIZIARIO……………………………..pg. 617
Cass. 36692/2007:
elusione del provvedimento giudiziario
DISTURBO DEL RIPOSO DELLE PERSONE…………………………………pg. 612
Cass. 40502/2007:
disturbo delle persone
Cass. 1075/2007:
disturbo delle persone 2
Cass. 23130/2006:
rumore del condizionatore
CAPACITÀ DI INTENDERE E VOLERE…………………………………….pg. 629
Cass., sez. unite, 9163/2005:
disturbi della personalità
COLTIVAZIONE DI MARIJUANA……………………………………………pg. 654
Cass. 17983/2007:
coltivazione domestica
Cass. 21832/2007:
modica quantità di stupefacenti
12
CONCORSO APPARENTE DI NORME
(INCENDIO E CROLLO DI COSTRUZIONI)
TRACCIA:
Tizio è amico da diversi anni di Caia.
Nel tempo, Tizio diviene amante di Caia che è sposata con due figli (Caietta e Caietto); Tizio
vorrebbe far separare Caia dal marito.
Invero, Caia ritiene che il rapporto avuto con Tizio sia stato privo di Amore, così che non ritiene
giusto decidere di separarsi.
Tizio non ne vuole sapere di rinunciare a Caia e decide di incendiare la casa dove quest’ultima vive
con il marito.
Così, Tizio, un giorno, si apposta vicino la casa di Caia, attendendone l’uscita insieme al marito ed
ai figli; quando Tizio si rende conto che la casa è vuota, la incendia, accettando il rischio del crollo
della stessa.
Due giorni dopo il fatto, Tizio si reca da un legale per essere informato circa la sua posizione
giuridica.
Il candidato, premessi brevi cenni sul concorso apparente di norme, affronti la questione giuridica
posta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa era utile ricostruire (molto) sinteticamente il fatto.
Subito dopo, il problema andava inquadrato nell'ambito del concorso apparente di norme.
Il concorso apparente di norme è un istituto giuridico complesso, che si riferisce all'ipotesi in cui un
medesimo fatto sembra, prima facie, riguardare due o più norme, ma in realtà una soltanto deve
essere applicata; il concorso di reati designa una pluralità di violazioni della legge penale, mentre il
concorso apparente di norme individua, a seguito di interpretazione, la violazione di una sola
fatttispecie incriminatrice: il concorso apparente di norme è l'antitesi, la negazione del concorso di
reati.
Esistono varie teorie, in tema di concorso apparente di norme, finalizzate ad individuare un criterio
idoneo a discernere la pluralità dei reati (concorso di reati) dall'unicità del reato (concorso apparente
di norme).
Le varie teorie possono così riassumersi:
-teoria della specialità in astratto (è necessario che due norme riguardino il medesimo beneinteresse tutelato, affinchè si possa parlare di concorso apparente, in quanto il concetto di "stessa
materia", ex art. 15 C.P., va interpretato in senso formale-astratto);
-teoria della specialità in concreto (le norme in concorso apparente possono riguardare anche beniinteressi diversi, purchè vi sia una condotta oggettiva sussumibile apparentemente in diverse norme,
in quanto l'art. 15 C.P., laddove parla di "stessa materia" si riferisce ad una concezione concretasostanziale);
-teoria del ne bis in idem (non sempre il pincipio di specialità, che generalmente risolve il problema
del concorso apparente, è da solo sufficiente a risolvere i concorsi apparenti di norme, in quanto vi
sono casi di norme speciali e generali tra loro), che riguarda le ipotesi di clausole di riserva (alcuni
parlano di principio di sussidiarietà);
-teoria della consunzione, in base alla quale (argomentando dall'art. 84 C.P., oltre che dall'art. 15
C.P.) la norma che assorbe l'intero disvalore del fatto andrà applicata.
Nel caso sottoposto al legale si pone proprio un problema di concorso apparente di norme o
concorso di reati: Tizio deve rispondere di incendio, ex art. 423 C.P., o di crollo di costruzioni o
altri disastri dolosi, ex art. 434 C.P., ovvero, ancora, di entrambi i reati menzionati in concorso tra
loro?
13
Indubbiamente, l'art. 423bis C.P. non potrà trovare applicazione in quanto riferibile a "boschi" e
neanche l'art. 449 C.P. in quanto Tizio non ha agito con colpa, ma con dolo sia per l'incendio che
per il crollo (seppure nella forma del dolo eventuale); neanche potrà trovare applicazione l'art. 424
C.P., perchè non vi è il dolo diretto a danneggiare, ma un dolo diretto ad incendiare (ed,
eventualmente, anche a far crollare), e neanche potrà trovare applicazione l'art. 635 C.P. (Tizio
vuole incendiare e non cagionare un generico danno).
Secondo una certa impostazione minoritaria, pertanto, nel caso di specie, sussisterebbe un concorso
di reati, in quanto si verificherebbero due reati separati e distinti, ben attinenti a condotte ben
diverse e danni non omogenei.
Tale ricostruzione, invero, di recente è stata superata dalla giurisprudenza che ha avuto modo di
cogliere degli aspetti comuni alle fattispecie prese in esame, giustificando una ricostruzione diversa
in favore del concorso apparente di norme, da risolvere tramite il criterio della consunzione e/o
assorbimento; in questi casi, infatti, il reato più ampio ed idoneo a cogliere l'intero disvalore del
fatto assorbirebbe il reato meno grave: nel caso di specie dovrebbe trovare applicazione solo il reato
di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi, ex art. 434 C.P.
Tuttavia, tale orientamento giurisprudenziale recente, per quanto condivisibile, non è applicabile
alla condotta di Tizio, che potrà rispondere del solo reato di incendio.
Infatti, affinchè si possa ipotizzare un concorso di reati tra l'art. 423 C.P. e l'art. 434 C.P. ovvero un
concorso apparente di norme, Tizio avrebbe dovuto agire con una condotta diretta a cagionare il
crollo della costruzione (o parte di essa) e non accettando il rischio del crollo; id est: l'art. 434 C.P.
richiede la sussitenza del dolo diretto (e/o specifico), con la conseguenza di essere incompatibile
con il dolo indiretto e/o eventuale, così che non si pone proprio un problema di concorso apparente
di norme o concorso di reati, perchè l'art. 434 C.P. non è, comunque, ex ante integrato.
Inoltre, il crollo della costruzione non è certo che si sia verificato, così che l'art. 434 C.P. non è per
nulla applicabile per la carenza sia dell'elemento psicologico richiesto e sia per carenza
dell'elemento oggettivo. Altresì, nel caso di specie non sussiste neanche il pericolo per l'incolumità
(che è condizione obiettiva di punibilità dello stesso art. 434 C.P.), come desumibile dal fatto che,
verosimilmente, Tizio ha appiccato l'incendio alla casa di Caia in un luogo non tanto frequentato,
perchè, diversamente, non si sarebbe limitato ad attendere che la famiglia di caia si allontanasse, ma
avrebbe dovuto attendere che anche i vicini si allontanassero.
In questo senso, allora, Tizio non risponderà del reato di incendio in concorso con quello di crollo e
neanche correrà questo rischio, in un eventuale giudizio, in quanto l'art. 434 C.P. non è applicabile
al caso di specie (ne in astratto con il concorso apparente e nè in concreto con il concorso di reati) in
quanto non si sono realizzati gli elementi costitutivi del reato suddetto (e neanche la condizione
obiettiva di punibilità richiesta dal legilsatore); al più converrebbe consigliare a Tizio di cercare di
riparare i danni cagionati con l'incendio, al fine di godere dell'attenuante dell'art. 62 n. 6 C.P.
CONCORSO ANOMALO (RISSA ED OMICIDIO)
TRACCIA
Tizio e Caio sono tifosi del Milan; il giorno della partita Torino - Milan, si recavano allo stadio
torinese per vedere la partita e tifare per la propria squadra del cuore.
Il Milan perdeva.
Tizio e Caio, delusi, incominciavano a gridare una serie di canzoni contro il Torino; Sempronio e
Quarto, tifosi del Torino, sentivano le canzoni contro la propria squadra e si avvicinavano a Tizo e
Caio, insultandoli.
Ne nasceva una rissa.
Dopo poco, Quinto, che passava nei dintorni, si accorgeva della rissa; Quinto, antico rivale di Tizio,
14
estraeva un coltello dalla tasca del giubbotto ed iniziava a correre verso Tizio per ucciderlo.
Erroneamente, poi, Quinto colpiva mortalmente Sempronio.
Subito dopo, Tizio e Caio scappavano.
Tizio e Caio si recano da un legale; il candidato rediga motivato parere sulla posizione di Tizio e
Caio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Subito dopo, bisognava inquadrare il fatto accaduto nell'ambito della rissa, ex art. 588 c.p.
Tale reato è necessariamente plurisoggettivo; è dubbio, poi, se per la configurazione di tale reato
siano sufficienti due persone (tesi prevalente in giurisprudenza, che pone l'accento sul fatto che
viene usato l'inciso "chiunque", che sembra presupporre l'indifferenza al numero di soggetti
coinvolti, per cui potrebbero anche essere il minimo, due appunto) ovvero almeno tre (tesi
prevalente in dottrina che esalta la parola "partecipa" che sembra richiamare la partecipazione al
reato, sulla falsariga delll'art. 416 bis c.p. in cui il minimo di soggetti coinvolti nel reato deve essere
pari a tre).
Tizio e Caio rischiano seriamente di rispondere del reato di rissa, in quanto non solo hanno
partecipato, ma, verosimilmente, l'hanno anche causata.
Tuttavia, Tizio e Caio rischiano anche di rispondere del reato cagionato da Quinto?
E' configurabile il concorso anomalo, ex art. 116 c.p.?
Al quesito posto bisognerebbe dare risposta negativa, in quanto affinchè si verifichi il concorso
anomalo vi deve essere il dolo del fatto minore comune a tutti i concorrenti, ex art. 116 c.p., e
l'agente deve compiere un reato diverso da quello per il quale si era accordato con gli altri
concorrenti (il legislatore dice "qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei
concorrenti...", ex art. 116 c.p.); altresì, l'evento deve essere conseguenza dell'omissione o azione
degli altri concorrenti.
Nel caso di specie, allora, si verifica uno schema fattuale ben diverso da quello ipotizzato dal
legislatore all'art. 116 c.p.:
-Tizio e Caio non hanno mai fatto alcun accordo con Quinto,
-Quinto non ha compiuto un reato diverso da quello voluto, ma ha realizzato il medesimo reato
(omicidio) di quello voluto, sbagliando soggetto passivo (il reato è il medesimo, ma cambia il
soggetto passivo)
-Tizio e Caio non hanno determinato in alcun modo il reato di omicidio, perchè erano inconsapevoli
della volontà omicida (al più, nella rissa ,il nesso causale con l'omicidio vi può essere sotto il profilo
della prevedibilità nella misura in cui l'omicidio avviene all'interno della rissa, con gli stessi soggetti
della rissa, ma non è prevedibile l'intervento di un terzo che nutre rancori verso uno dei "rissaioli")
di Quinto; la rissa non è stata la causa dell'omicidio, ma una mera occasione; al più, si potrebbe dire
che la rissa possa essere stata la causa dell'errore (soggettivo) di Quinto, ma non la causa
dell'evento: causare un errore nei mezzi di esecuzione di un reato non vuol dire causare il reato
stesso (che si sarebbe egualmente compiuto, seppure in danno di un soggetto diverso).
Tutto quanto detto varrebbe ad escludere l'applicabilità dell'art. 116 c.p. a Tizio e Caio.
Il fatto, poi, che la rissa sia stata l'occasione dell'omicidio ma non la causa varrebbe anche ad
escludere la responsabilità del secondo comma dell'art. 588 c.p.
Inutile porsi il problema dell'aberratio delicti o ictus in capo a Quinto, perchè i fatti vanno analizzati
solo sotto il profilo delle posizioni di Tizio e Caio, come richiesto espressamente dalla traccia.
Non andava ipotizzato il reato di ingiuria o diffamazione perchè gli insulti (non sappiamo bene il
contenuto delle affermazioni) a vicenda (ex art. 599 c.p.) sarebbero stati mere provocazioni (utili
eventualmente come attenuanti per il reato di rissa).
Infine, non da ultimo, poteva essere utile chiedersi se potesse configurarsi il reato ex art. 593 c.p..
Al problema interpretativo posto si potrebbe dare risposta negativa, alla luce del fatto che il
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legislatore, ex art. 593 c.p., incrimina colui che "trova" una persona ferita o morta, ma non colui che
scappa; in questo senso, pertanto, optare per una ricostruzione diversa significherebbe violare la
lettera della legge (sul punto, invero, la giurisprudenza più recente interpreta "molto"
estensivamente il verbo "trovare").
Sotto tali rilievi argomentativi, pertanto, Tizio e Caio potrebbero rispondere del solo reato di rissa,
ex art. 588 comma I, attenuato, ex art. 62 c.p.
CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO (RESPONSABILITA’ DEI SINDACI)
TRACCIA
Surreal è una società per azioni che si occupa della vendita di penumatici.
Tizio è sindaco della società Surreal da 12 anni; da 3 anni Caio è amministratore della Surreal.
Tizio è nelle condizioni di verificare di volta in volta le operazioni economiche suggerite o attuate
da Caio, fatta eccezione per quelle attinenti a operazioni di fusione.
Caio comunica a Tizio di aver bisogno di un finanziamento pubblico per un'operazione di fusione
della società Surreal con la Duoband; Tizio acconsente.
Dopo un anno, a Caio viene notificato un'informazione di garanzia per il reato di cui all'art. 640 bis
c.p.
Tizio rimane stupito di quanto avvenuto e teme un coinvolgimento personale.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente poteva essere utile accennare al discorso sul concorso omissivo in reato
commissivo altrui, con particolare riferimento alla complessa tematica relativa alla configurabilità
di una responsabilità penale dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori di società.
Susssiste una posizione di garanzia in capo al sindaco della società?
L'impostazione minoritaria opta per la tesi negativa: l'obbligo dei sindaci è di sorveglianza (devono
informare gli organi competenti) e non sono muniti di poteri impeditivi, con la conseguenza pratica
che non si trovano in una posizione di garanzia; l'art. 40 cpv c.p., in tema di omissione, dice che il
soggetto attivo è responsabile se non impedisce un evento che ha l'obbligo giuridico di impedire,
ma dall'art. 2403 c.c. non si desume un obbligo giuridico di impedire l'evento, ma di informare terzi.
La tesi prevalente ( si veda Cassazione pen. sez. III, 27 luglio 2004, 32730), tuttavia, è nel senso del
possibile concorso omissivo in reato commissivo da parte dei sindaci, perchè, si dice, l'art. 2403 c.c.
e 2409 c.c., laddove impone un obbligo di vigilanza e denuncia degli amministratori che compiono
reati, implicitamente, sembrerebbero ammettere anche il suddetto concorso: se il sindaco non vigila
(nel senso di informare terzi del compimento di reati) e non denuncia, allora, entra in concorso,
perchè concorre nel cagionare il reato, sul presupposto logico che, verosimilmente, laddove il
sindaco avesse vigilato correttamente, il reato non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato
a condizioni diverse; id est, se il sindaco non vigila rischia di entrare in concorso di reato con
l'amministratore.
In questo senso, pertanto, Tizio rischierebbe di essere condannato per concorso nel reato ex art. 640
bis c.p.
Tuttavia, seppure in astratto può sussistere il suddetto reato, non è detto che possa realizzarsi in
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concreto e che Tizio abbia compiuto il suddetto reato.
Infatti, Tizio non era nelle condizioni di verificare le operazioni di fusione, con la conseguenza che,
se a monte Tizio non poteva verificare operazioni truffaldine di fusione, allora, a valle non potrà
essere punito per il compimento di un reato per il quale non era stato messo nelle condizioni di
evitare.
Seppur tali rilievi sembrano avere una certa capacità di convincimento, tuttavia, Tizio ha
acconsentito alla fusione, con la conseguenza applicativa che tale consenso facilmente potrebbe
essere ritenuto manifestazione di volontà di aderire al proposito crimonoso dell'amministratore
Caio.
In base a quanto detto, pertanto, Tizio rischia seriamente di concorrere con il reato (eventualmente)
compiuto da Caio proprio in considerazione del suo assenso, così che un'eventuale difesa dovrebbe
mirare a far ritenere il consenso come se fosse stato illegittimamente prestato (per errore sul fatto,
sostenendo, ad esempio, che Tizio credeva erroneamente di aver capito l'operazione di fusione posta
in essere da Caio).
FALSO GROSSOLANO
TRACCIA:
Tizio, immigrato regolare, acquista da Mirko borse griffate FENUX e DIRITTO&GIUSTIZIA, per
un valore pari a pochi euro.
Tizio rivende, poi, le borse false (nella firma e nella sostanza) a clienti che incontra per strada.
Mirko, in passato, aveva detto a Tizio che tale vendita non era illecita e che non si fondava su una
falsificazione delle borse, perchè gli acquirenti quando acquistavano erano consapevoli di non
comperare prodotti originali, così che non venivano in concreto danneggiati e non si configurava un
falso punibile.
Tizio, tuttavia, decide di recarsi dall'avvocato Caio per avere una delucidazione sul punto.
Il candidato rediga motivato parere in favore di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Subito dopo, era possibile inquadrare il fatto nella problematica attinente al falso punibile (è la
stessa traccia che “suggerisce” di parlare del problema del falso sotto il profilo della sua punibilità).
Tutti i falsi sono punibili ex se, ovvero è necessario un quid pluris? Il falso è punibile per la sola
falsificazione ovvero è necessario che vi sia un’intrinseca idoneità ingannatoria?
In generale, la normativa in tema di falso potrebbe essere interpretata alla luce del principio
generale di offensività, ex art. 49 c.p.: la condotta tipica per avere rilevanza penale deve presentare
una intrinseca idoneità offensiva.
Se, quindi, si leggono le disposizioni in tema di falso (falsificazione) alla luce dell’art. 49 c.p.,
allora, la falsificazione è punibile solo nella misura in cui sia effettivamente offensiva.
Applicando tale ricostruzione, la dottrina e parte della giurisprudenza hanno elaborato falsi non
punibili, come il falso inoffensivo, falso innocuo, falso inulte, la dubbia figura del falso consentito
(come il falso su autorizzazione del titolare del diritto) ed il c.d. falso grossolano.
Con particolare riferimento a quest’ultima tipologia di falso, è stato detto che la contraffazione di
cui all’art. 474 c.p., ben potrebbe riguardare, in alcuni casi, una contraffazione grossolana non
punibile, laddove la stessa falsificazione sia così evidente da non essere idonea ad ingannare alcuno.
Nel caso di specie, allora, Tizio ben potrebbe non essere punibile proprio perché ha posto in essere
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atti di vendita di un prodotto falsificato grossolanamente; più chiaramente, benché astrattamente
Tizio possa aver compiuto il reato ex art. 474 c.p. (con particolare riferimento all’inciso “detiene
per vendere, o pone in vendita, o mette altrimenti in circolazione…”), in concreto, potrebbe non
risultare punibile proprio perché i prodotti della sua vendita (borse FENUX e
DIRITTO&GIUSTIZIA) non presentano un’idoneità ingannatoria ed offensiva, ex art. 49 c.p.,
verso l’acquirente che, al momento dell’acquisto (in base a circostanze chiare ed univoche come, ad
esempio, il basso prezzo) è consapevole del valore reale del bene acquisito, con la conseguenza
giuridica che non viene tratto in inganno.
Di contro, la giurisprudenza più recente ritiene che il falso grossolano non possa rilevare ai fini
dell’esonero di responsabilità dall’art. 474 c.p. perché tale norma tutelerebbe la fede pubblica (l’art.
474 c.p. è collocato sistematicamente nel titolo VII) e non la trasparenza del singolo acquisto, con la
conseguenza che la stessa fede pubblica rischierebbe di essere vulnerata, perché laddove
l’acquirente, ad esempio, vada in giro con il prodotto falsificato rischierebbe di indurre nei terzi la
convinzione che quello stesso bene appartenga effettivamente alle case di moda da cui prende
analogicamente il nome.
Tuttavia, tale orientamento giurisprudenziale non può trovare applicazione nel caso di specie.
Infatti, i beni che Tizio mette in vendita sono così manifestamente falsificati da non correre il
rischio di ingannare alcuno; si tratta di beni a firma FENUX o DIRITTO&GIUSTIZIA, cioè firme
molto diverse da quelle “classiche”, con la conseguenza applicativa che non vi è, da questa
angolazione prospettica, alcun rischio di ingannare la fede pubblica.
Se, poi, non vi è il rischio di ingannare la fede pubblica, allora, a fortiori, non vi è il rischio di
ingannare il singolo compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera, con il corollario
applicativo che non verrà neanche integrato il reato ex art. 517 c.p. (non vi è, infatti, l’induzione in
inganno).
Se viene meno l’idoneità dell’azione a violare il bene-interesse tutelato, allora, de plano, verrà meno
anche il reato.
In base a tali rilievi argomentativi, poi, non sarebbe neanche configurabile il reato di ricettazione, ex
art. 648 c.p., in quanto verrebbe meno il reato presupposto; se, infatti, i beni (borse) di cui si è detto
non sono stati contraffatti in modo punibile, allora, Mirko non sarà punibile penalmente (sotto il
profilo del falso), con la conseguenza che se viene meno il reato presupposto, de plano, verrà meno
anche il reato presupponente ex art. 648 c.p. (il reato di ricettazione richiede la configurabilità di un
altro reato a monte, come desumibile dall’inciso “…denaro o cose provenienti da un qualsiasi
delitto…”).
In questo senso, pertanto, Tizio potrebbe non essere punibile.
REATO ABERRANTE E TENTATIVO
TRACCIA:
Tizio è titolare dell'azienda CULTAN; Caio è titolare dell'azienda CUTON; Sempronio è il
poliziotto del quartiere.
Tizio è adirato con Caio, in quanto ritiene che la CUTON stia facendo concorrenza sleale.
Una sera, Tizio esce di casa con un coltello per recarsi ad uccidere Caio nella sua abitazione.
Tizio entra nella casa e si dirige verso la presunta camera da letto di Caio; Tizio, al buio, inizia a
cercare la presunta sagoma di Caio e, quando la vede, fuori al balcone, cerca subito di colpirla con il
coltello.
Tuttavia, la sagoma fugge ed accende la luce, rivelando la persona di Sempronio che svolgeva il suo
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lavoro.
Tizio scappa via; due giorni dopo, Tizio si reca da un legale.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Il problema, poi, andava inquadrato nell’ambito dell’art. 82 c.p., con particolare riferimento al
problema (complesso) della sua compatibilità con il tentativo.
L’art. 82 c.p. può trovare applicazione anche laddove non vi è reato compiuto, ma tentativo
punibile?
Detto in altri termini, vi può essere tentativo di delitto aberrante?
Secondo una certa impostazione il problema posto andrebbe risolto negativamente, perché l’art. 82
si riferirebbe solo al reato consumato (si dice “…il colpevole risponde come se avesse compiuto il
reato in danno…”); laddove il legislatore parla di reato, lo farebbe per riferirsi a quello compiuto.
Applicando tale tesi al caso di specie, allora, Tizio ben potrebbe rispondere di tentato omicidio
aggravato, ex art. 61 n.10 c.p.
Tuttavia, tale ricostruzione non è del tutto condivisibile, sia perché porrebbe a carico dell’autore del
reato un aggravante non voluta (rischiando di vulnerare, in concreto, anche l’art. 27 Cost.) e sia
perché si finirebbe per trattare in modo eguale situazioni giuridiche diseguali in contrasto con l’art.
3 Cost. (si tratterebbe allo stesso modo il fatto preso in esame e l’ipotesi del “malvivente” che
direttamente cerca di uccidere un pubblico ufficiale).
Inoltre, anche il tentato reato è, nella sostanza, un vero e proprio reato (come sostenuto dalla
giurisprudenza più recente), e non una figura minore, con la conseguenza applicativa che al
tentativo andranno applicate le attenuanti ed aggravanti comuni e che laddove il legislatore si
riferisce al reato è necessario estendere tale concetto al tentato reato.
In questo senso, pertanto, nell’ipotesi presa in esame Tizio potrebbe rispondere di tentato omicidio
aberrante verso Caio, non trovando altresì applicazione l’aggravante ex art. 61 n.10 c.p. (alla luce
del rinvio dell’art. 82 all’art. 60 c.p.).
Inoltre, Tizio potrebbe vedere cumulato il reato suddetto con quello di violazione di domicilio, ex
art. 614 c.p.
ABERRATIO E TENTATO OMICIDIO
TRACCIA:
Tizio è un imprenditore che gode di rispetto presso i suoi colleghi.
Un giorno, Tizio veniva a sapere che Caio, imprenditore che svolgeva attività analoghe, aveva vinto
una gara di appalto del valore di diversi milioni di euro.
Tizio, appresa la notizia, correva subito verso la sede dell’impresa di Caio con il proposito di
ucciderlo.
Tizio arrivava alla sede dell’azienda di Caio, impugnando una pistola; Tizio puntava la pistola verso
Caio e sparava un colpo.
Nella traiettoria si trovava, casualmente, Sempronio che veniva ferito alla spalla; il proiettile, così,
veniva deviato e colpiva la spalla di Caio.
In seguito al fatto, quindi, recavano ferite alla spalla sia Caio che Sempronio.
Tizio scappava via ed il giorno dopo si recava nello studio di un avvocato.
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Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere sulla questione giuridica
posta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva risultare utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Prima facie, Tizio sembrerebbe aver compiuto il reato di tentato omicidio (verso Caio) e lesioni
personali ex art. 582 c.p. (verso Sempronio); tuttavia, tale ipotesi si potrebbe verificare solo se Tizio
avesse agito con dolo, seppure eventuale, verso Sempronio, ma non se Sempronio è stato ferito
involontariamente e imprevedibilmente.
Al più potrebbe emergere il tentativo di omicidio verso Caio cumulato con le lesioni personali
colpose verso Sempronio.
Tuttavia, il caso in esame sembra riguardare il delitto aberrante e non il tentato omicidio, in quanto
vi è, chiaramente, un errore nei mezzi di esecuzione del reato, in quanto Tizio non ha verificato
adeguatamente, prima di sparare, che nessuno si potesse frapporre tra lui e Caio; la sussistenza di un
errore nei mezzi di esecuzione del reato nonché il ferimento di un ulteriore soggetto rispetto a
quello che si voleva “danneggiare” sembrerebbe deporre nel senso di un reato aberrante bilesivo.
Generalmente, si suole distinguere tra aberratio ictus ed aberratio delicti; le due fattispecie hanno in
comune il fatto che vi è una divergenza tra voluto e realizzato e che tale divergenza sia dovuta ad un
errore esecutivo, mentre si distinguono perché:
-nell’aberratio ictus si vuole commettere un certo reato nei confronti i una determinata persona, ma
tale reato viene commesso nei confronti di persona diversa (art. 82 c.p.)
-nell’aberratio delicti si vuole commettere un certo reato, ma se ne commette uno diverso.
Sinteticamente: nell’aberratio ictus si ha un mutamento della persona offesa, mentre nell’aberratio
delicti un evento diverso.
A queste fattispecie – base, si possono aggiungere fattispecie complesse relative al numero dei
soggetti offesi (aberratio ictus o delicti, bilesive o plurioffensive).
Seppure in teoria tali differenze sembrano agevoli, in pratica può risultare arduo distinguere le
figure suddette, perché è dubbio se per evento diverso sia necessario far riferimento ad una diversità
formale (si realizza un evento che lede un bene-interesse diverso rispetto al bene-interesse che si
voleva “aggredire”) o sostanziale (si realizza un fatto naturalisticamente diverso da quello
verificatosi che si voleva realizzare).
Nel caso, di specie, ad ogni modo, vi è un reato aberrante bilesivo, con riferimento alle lesioni verso
Caio e Sempronio.
Nel caso di specie, sembrerebbe, poi, configurarsi un’aberratio ictus, perché l’evento che si verifica
(lesioni personali verso Caio e Sempronio) non sembra potersi dire diverso da quello voluto, perché
si tratta di reati appartenenti allo stesso bene-interesse tutelato (tesi formale), con la conseguenza
applicativa che, nel caso di specie, si offende sia una persona diversa rispetto a quella che si voleva
offendere sia la persona che si voleva offendere (ex art. 82 comma 2 c.p.); id est, l’evento che si
realizza non è “diverso” in senso giuridico rispetto a quello che si voleva realizzare, perché tentato
omicidio e lesioni personali colpose riguardano il medesimo bene-interesse tutelato (“Delitti contro
la persona”), con il corollario applicativo che Tizio, sotto questo profilo interpretativo, potrebbe
rispondere di tentato omicidio (assorbente rispetto alle lesioni personali colpose verso Sempronio),
con sanzione aumentata fino alla metà ex art. 82 comma 2 c.p.
Diversamente, laddove si volesse accogliere la tesi naturalistica dell’evento (Tizio ha realizzato un
evento diverso da quello voluto, perché voleva uccidere Caio, ma ha cagionato lesioni personali a
Caio e Sempronio), Tizio risponderà di tentato omicidio in concorso con lesioni personali colpose,
ex art. 83 comma 2 c.p.
Si ritiene utile ricordare che:
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-l’error in persona riguarda un difetto di percezione a monte (ab initio), mentre l’aberratio ictus un
errore che si realizza nella fase esecutiva (come nel caso di specie)
-risponde di aberratio ictus (in combinato disposto con il reato ex art. 584 c.p.) il soggetto che
voleva percuotere un determinato soggetto, ma in concreto ne abbia ucciso un altro
-nell’art. 83 c.p. l’evento non è voluto dall’agente che erra nell’esecuzione, mentre nell’art. 116 c.p.
l’evento è voluto, derivando da una volontaria iniziativa di un concorrente che devia dall’originario
progetto criminoso.
GETTO DI COSE PERICOLOSE
TRACCIA:
Tizio è proprietario dell’immobile Alfa.
Tizio passa gran parte della giornata ai vari telefoni cellulari di cui è proprietario, a causa del suo
lavoro.
Un giorno, Tizio decide di far installare all’ultimo piano di Alfa un’antenna della telefonia mobile,
al fine di essere sicuro di avere sempre il segnale durante le numerosissime telefonate tramite
cellulare.
Caio proprietario dell’immobile Beta, situato di fronte ad Alfa, ritiene che la suddetta antenna
produca onde elettromagnetiche pericolose.
Caio denuncia Tizio per il reato di getto pericoloso di cose.
Tizio si reca da un legale per raccontare il fatto, precisando di non aver chiesto al comune alcun tipo
di autorizzazione per l’installazione dell’antenna.
Il candidato rediga motivato parere favorevole alla posizione di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Subito dopo la questione giuridica andava inquadrata nell’ambito del reato ex art. 674 c.p., tenendo
presente che il parere doveva essere “favorevole alla posizione di Tizio”.
Pertanto era utile chiedersi:
-se il campo elettromagnetico è “cosa”
-se il termine “gettare” può ricomprendere anche l’emissione di onde magnetiche
-se le onde elettromagnetiche sono idonee ad offendere come indicato nello stesso art. 674 c.p.
Su questi punti, vi è da precisare, che non c’è unanimità di vendute né in dottrina e né in
giurisprudenza.
Secondo una certa impostazione, anche le onde elettromagnetiche possono integrare il reato ex art.
674 c.p.
In particolare, secondo questa ricostruzione, le onde elettromagnetiche ben potrebbero essere cose,
perché il legislatore, ex art. 624 c.p., laddove spiega che l’energia elettrica è cosa mobile, esprime
chiaramente una voluntas legis di parificare le cose all’energia, così che l’energia sarebbe cosa
anche ai fini della configurabilità del reato di getto di cose pericolose.
Sarebbe, poi, possibile “gettare” energia elettrica, in quanto tale verbo ha una portata molto ampia
e, comunque, sarebbe stato utilizzato in senso atecnico.
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Inoltre, non vi sarebbe alcun dubbio sul fatto che le onde elettromagnetiche possano offendere o
molestare le persone, sia perché, indebitamente, impongono qualcosa che ben potrebbe non essere
voluta, violando la libertà di autodeterminazione (sancita anche a livello costituzionale) dei terzi, e
sia perché sarebbe nociva per la salute umana (tanto che, generalmente, sono richieste
autorizzazioni amministrative volte a limitare l’installazione di “ripetitori”).
In fondo, è stato detto, l’art. 674 c.p. sarebbe la fattispecie penale corrispondente all’illecito civile
ex art. 844 c.c.
Tuttavia, tale impostazione non è del tutto condivisibile e rischia di porsi in contrasto con il
principio di legalità e del favore rei.
Infatti, secondo altra (e più condivisibile) impostazione l’art. 674 c.p. non sarebbe applicabile al
caso di specie, a tutto vantaggio della posizione giuridica di Tizio.
Precisamente: il campo elettromagnetico non sarebbe “cosa”, non sarebbe possibile “gettare” onde
elettromagnetiche e la condotta di Tizio sarebbe inoffensiva.
Con riferimento al primo profilo, dunque, le onde elettromagnetiche non sarebbero cose, ma flussi
di energia; laddove il legislatore, ex art. 624 c.p., parifica il furto di energia elettrica al furto di cosa
mobile, individua un’equivalenza (basata su una fictio iuris) applicabile esclusivamente all’art. 624
c.p. e non ad altre fattispecie giuridiche; un’equivalenza collocata in una norma di parte speciale e
non nella parte generale del codice penale avrebbe il significato di limitarne l’effetto applicativo
alla singola disposizione e non a tutto il codice.
Ne seguirebbe che, estendere la clausola di equivalenza anche a fattispecie come l’art. 674 c.p. si
tradurrebbe in una violazione del principio di legalità e del favor rei.
Altresì gettare sarebbe un verbo incompatibile con un oggetto come le onde elettromagnetiche,
perché il suddetto verbo si riferirebbe alla preesistenza di qualcosa in natura, diversamente dalle
onde elettromagnetiche; id est, si può gettare un bene che già esiste a monte, ma l’emissione di onde
elettromagnetiche vuol dire generare flussi prima non esistenti: si tratterebbe di concetti
diametralmente opposti.
Infine, non sarebbe vero che le onde elettromagnetiche sono offensive e le autorizzazioni
amministrative richieste (di massima) sono volte non a tutelare la salute, ma lo stato dei luoghi; in
questo senso, infatti, si giustificherebbe ampiamente le diverse antenne telefoniche presenti in vari
centri abitati.
In questo senso, accogliendo tale orientamento, Tizio ben potrà non essere ritenuto responsabile del
reato di cui all’art. 674 c.p.
Si consiglia di leggere le massime giurisprudenziali che seguono.
Cassazione penale (III sez.)
Sentenza del 13-01-2003, n. 760
Il superamento dei limiti fissati in leggi speciali attraverso l'immissione di gas, fumi, vapori e
simili non è condizione da sola sufficiente per la configurazione del reato di cui all'art. 674 c.p.
Per la venuta in essere di quest'ultimo è necessario, infatti, che le predette immissioni abbiano
carattere effettivamente molesto e dannoso per le persone interessate dall'evento.
In caso contrario, non si avrà la perfezione dell'illecito di cui all'art. 674 ma quello relativo
alla legge speciale posto a tutela dei limiti fissati
Cassazione penale (I sez.)
Sentenza del 24.04.2002 , n. 15717
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L'emissione di onde elettromagnetiche, oltre i limiti stabiliti dalla legge in materia, può
configurare gli estremi del reato di cui all'art. 674 c.p. quando risulti accertata la potenziale
nocività dell'emissione per la salute umana.
Il secondo punto da analizzare è quello relativo ai requisiti necessari per emettere un
provvedimento di sequestro. Infatti, mentre per la venuta in essere dell'elemento strutturale
della fattispecie di cui all'articolo 674 c.p. si deve verificare la concreta possibilità che il
campo prodotto dalle onde elettromagnetiche sia nocivo per la salute delle persone esposte
alla sua azione, per quanto riguarda i requisiti del sequestro preventivo questa certezza non
rileva.
"Per la sua adozione, infatti, non è necessario che il Giudice valuti la sussistenza di gravi e
specifici indizi di colpevolezza, essendo di contro sufficiente che sussista il fumus commissi
delicti, vale a dire la astratta sussumibilità del fatto nella fattispecie di reato."
Cassazione penale (I sez.)
Sentenza del 14-06-2002, n. 23066
Nell'ipotesi di emissione di onde elettromagnetiche generate da ripetitori radiotelevisivi la
configurabilità del reato di cui all'art. 674 cod. pen. è subordinata al superamento dei valori
indicativi dell'intensità di campo fissati dalla normativa specifica vigente in materia.
Cassazione penale (III sez.)
Sentenza del 19-12-2002, n. 42924
La Corte di Cassazione, in piena sintonia con alcuni suoi precedenti, dichiara che nell’art. 674
c.p. si deve fare "rientrare anche quello di diffondere, comunque, polveri nelle aree
circostanti “.
DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE
TRACCIA:
Tizio, un giorno, tradisce la compagna Tizia, con la quale è legato da 12 anni.
In particolare, Tizio realizza rapporti completi e senza precauzioni con la prostituta Franca.
Dopo due anni dal tradimento, Tizio si reca in ospedale per fare dei normali controlli medici e viene
a sapere di aver contratto la malattia nota come HIV (seppure in una forma particolarmente
attenuata).
Tizio decide di non dire alcunché alla compagna Tizia sia per non vederla soffrire “inutilmente” e
sia perché ritiene che, avendo contratto una forma lieve di HIV, non possa contagiare la compagna.
Tizio continua ad avere rapporti sessuali completi e senza precauzioni con la compagna Tizia.
Tizia contrae la malattia e dopo un anno muore.
Tizio ha paura di poter rispondere di omicidio doloso e si reca da un avvocato.
Il candidato rediga motivato parere favorevole al proprio assistito sulla questione giuridica posta.
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POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario affrontare il discorso (classico) su dolo eventuale e colpa
cosciente, partendo da un inquadramento del dolo.
Il dolo è la forma più grave della colpevolezza ed il criterio normale di imputazione soggettiva
(come desumibile dalla lettura dell’art. 42 comma II cod. pen.); il dolo è la previsione e volontà
dell’evento (pericoloso o dannoso), come precisato dall’art. 43 c.p.
Il dolo può esprimersi attraverso diverse manifestazioni (species); tali manifestazioni si
differenziano tra loro per il più o meno grave disvalore normativo che esprimono nel rivelare
l’atteggiamento del soggetto agente verso il divieto della norma penale, incontrando una diversa
risposta sanzionatoria, graduabile ex art. 133 c.p., che enumera tra i criteri di gravità del reato,
anche l’intensità del dolo (smentendo la vecchia tesi secondo cui il dolo non sarebbe suscettibile di
gradazione).
E’ stato detto che il dolo è previsione e volontà; nell’ambito della previsione (o rappresentazione) si
suole individuare varie species nell’ambito dello spatium deliberandi: tenendo conto di tale criterio
discretivo, è stata elaborata la fondamentale sequenza, in ordine di intensità crescente, tra dolo
d’impeto e dolo di proposito, del quale la premeditazione costituisce la species più rilevante.
Nell’ambito della volontà, di massima, si suole distinguere tra dolo intenzionale, diretto ed
eventuale (alcuni distinguono solo tra dolo diretto e dolo eventuale); il dolo intenzionale ricorre
quando il soggetto vuole, come obiettivo, proprio la realizzazione della condotta criminosa (nei
reati di mera condotta) ovvero la causazione dell’evento (nei reati di evento).
Ricorrerebbe, invece, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, il dolo diretto quando
la conseguenza del proprio agere (evento antigiuridico) è accettata come di probabile verificazione;
nel dolo eventuale, l’agente accetta il rischio di verificazione dell’evento antigiuridico ritenendolo
possibile.
Sinteticamente: il dolo intenzionale è il più grave perché mira direttamente alla realizzazione
dell’evento antigiuridico (non vi è accettazione del rischio, perché si vuole direttamente compiere il
reato, in tutti i suoi elementi costitutivi), mentre le altre due tipologie di dolo si differenziano per la
minore o maggiore possibilità (probabilità) di verificazione (si accetta il rischio, ritenendolo
possibile o probabile).
Si è soliti, poi, distinguere il dolo eventuale dalla colpa con previsione (o colpa cosciente): il dolo
eventuale configurerebbe l’ipotesi in cui l’agente si rappresenti vari eventi possibili collegati alla
sua condotta, e decida di agire accettando il rischio della verificazione di uno o più eventi
antigiuridici, diversamente dalla colpa con previsione, dove l’agente, pur essendosi rappresentato
uno o più eventi antigiuridici possibili, decide di agire nella convinzione che certamente l’evento (o
eventi) non voluto (o non voluti) non si realizzerà (o non si realizzeranno); nella colpa cosciente vi
è essenzialmente un errore di calcolo (sulle possibilità scientifiche di realizzazione dell’evento)
ovvero, secondo altra tesi, una generica imperizia o superficialità.
Nel caso di specie, che elemento psicologico sembra potersi individuare? Si tratta di dolo eventuale
o colpa cosciente? Tizio risponderà di omicidio doloso (per dolo eventuale) o colposo (sub specie di
colpa con previsione)?
In considerazione del fatto che Tizio ha agito nella convinzione di non poter contagiare la
compagna e del fatto che, imprudentemente, non si è informato maggiormente sulle possibilità di
contagio, sembrerebbe che possa rispondere a titolo di colpa, in quanto vi è stata ignoranza medica,
superficialità e imperizia, ma Tizio non si è mai rappresentato come possibile la morte della
compagna Tizia.
In un’ottica difensiva (seppur in parziale contrasto con i doveri costituzionali di solidarietà), non
sarebbe del tutto fuori luogo ipotizzare che non vi è un obbligo di trasparenza tra compagni e/o
conviventi, come vi è per i coniugi, con la conseguenza logica-deduttiva che, se non vi è a monte un
obbligo di trasparenza, allora, a valle non vi può essere una responsabilità per violazione di
24
quell’obbligo; altresì, sempre in un’ottica difensiva, sarebbe anche possibile provare a dimostrare
che la tipologia di HIV contratta da Tizio, sul piano scientifico, generalmente non è “contagiosa”,
ma il contagio sarebbe derivato da un caso fortuito (imprevedibile con la normale diligenza).
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-Il lancio di sassi dal cavalcavia avviene sotto la chiara consapevolezza del rischio di poter
uccidere.
Si tratta di dolo alternativo e non dolo eventuale, con la conseguenza che si può configurare
anche il tentativo.
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.5436/2005 (Presidente: R. Teresi;
Relatore: G. Corradini)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE I PENALE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 14/6/2004 la Corte d’Appello di Torino confermo’ la sentenza emessa a seguito di rito
abbreviato dal Tribunale di Tortona in data 11/7/2003 con cui M. S. era stato ritenuto colpevole dei
reati di tentato omicidio ai danni di S. S. e di attentato alla sicurezza dei trasporti, per avere, l’8
luglio 2003, in Castelnuovo Scrivia, lanciato un sasso dal diametro di dodici centimetri dal
cavalcavia n. 49 sulle autovetture che transitavano sulla sottostante autostrada A7 in direzione di
Milano, cosi’ colpendo l’autovettura Mercdes condotta da S. S. e ponendo in pericolo la sicurezza
dei trasporti, non riuscendo nell’intento per la pronta reazione della persona offesa che riusciva a
controllare l’autovettura e ad arrestare la cosa, e, ritenuta la continuazione fra i due reati contestati,
lo aveva condannato alla pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione, con la concessione delle
attenuanti generiche e della diminuente per il rito.
Nella mattinata dell’8 luglio 2003 erano giunte ai Carabinieri alcun segnalazioni da parte di
automobilisti che transitavano sulla A7 i quali avevano notato un giovane, accuratamente descritto
dai segnalanti, posto a fianco di una autovettura di piccola cilindrata, che aveva appena lanciato un
sasso sulla autostrada sottostante dal cavalcavia n. 4.
Altra segnalazione proveniente da una insegnante, M. E., specificava che il giovane che aveva
lanciato il sasso era un suo ex alunno, certo S. M., che era stato visto nella circostanza dalla M.
mentre si sforzava, essendo di bassa statura, alla fine comunque riuscendoci, di fare superare al
sasso una rete di recinzione, alta m. 1,80, che era stata posta sul cavalcavia proprio per evitare il
lancio di sassi in quanto, qualche anno prima, vi era stato un episodio mortale nel vicino cavalcavia
della Callosa che aveva avuto grande eco giornalistica.
La M. aveva visto bene in viso il giovane allorche’ si era voltato verso di lei, dopo il fatto, mentre si
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puliva le mani ed aveva visto la macchina del giovane, una Punto grigia.
I carabinieri, giunti sul posto, avevano rinvenuto una Mercedes con un ce4rchione ed un
pneumatico rotto, il cui conducente, S. S., al contrario di altri conducenti di autovetture in transito
in quel momento, non era riuscito ad evitare un sasso, dal diametro di 12 cm. Circa e del peso di
circa 3 kg., che si trovava al centro della sua corsia di percorrenza.
Sul cavalcavia furono rinvenuti un paio di occhiali che in seguito risultarono appartenere al M. e
che il ragazzo aveva dimenticato sul luogo del fatto.
Il M. era stato rintracciato dopo circa un’ora alla guida della Punto grigia con cui era andato nel
frattempo a prendere sul posto di lavoro la propria madre, che aveva a bordo, proprio mentre stava
tornando sul cavalcavia alla ricerca degli occhiali li dimenticati.
La perquisizione immediatamente eseguita sulla vettura aveva consentito di rinvenire altri nove
sassi delle stesse dimensioni di quello lanciato sull’autostrada.
L’imputato aveva ammesso la condotta sostenendo che aveva prelevato il sasso dai dieci che aveva
in macchina, a suo dire li collocati per difesa personale, e di averlo lanciato dopo aver guardato
bene la strada stando attento a non colpire nessuno, aggiungendo che pero’, essendo diagnosticato
che ho colpito la macchina, ammetto di aver sbagliato.
Aveva altresi’ sostenuto di avere agito a causa delle sue condizioni di infelicita’ e solitudine dovute
a problemi di disoccupazione e familiari collegati anche alla morte di suo padre avvenuta dodici
anni prima.
In sede di appello fu disposta una perizia psichiatrica sull’imputato, sollecitata dalla sua difesa e
motivata d alcuni episodi della vita del giovane M. che avevano anche determinato un trattamento
terapeutico presso il Servizio psichiatrico di base di Voghera, ma il perito concluse nel senso che
l’imputato, pur risultando affetto da ritardo mentale lieve e da disturbo passivo, aggressivo di
personalita’, era soggetto capace pienamente di intendere e di volere all’epoca dei fatti e capace di
stare in giudizio in quanto i predetti disturbi avevano, per entita’ ed essenza, rilevanza unicamente
clinica e non anche psichiatrica, forense.
La Corte di Appello, investita dall’appello del M., confermo’ pertanto il giudizio di imputabilita’
ma anche quello di colpevolezza espresso dai giudici di primo grado, rilevando in particolare che
sussisteva la idoneita’ e la univocita’ degli atti posti in essere dall’imputato a provocare la morte
dell’automobilista che transitava nella sottostante autostrada, avendo egli lanciato, in
corrispondenza della corsia di scorrimento delle auto, un sasso di rilevante massa da un punto del
cavalcavia da cui, come era stato accertato, non era possibile vedere le auto che transitavano in
basso e che in quel momento erano numerose, essendo notoriamente quella autostrada a quell’ora
notevolmente trafficata, addirittura sforzandosi per superare con il lancio la rete metallica posta
proprio per impedire che un sasso lanciato da quel punto potesse provocare la morte degli
automobilisti in transito, cosi’ evidenziando la volonta’ di cagionare la morte, almeno sotto il
profilo del dolo alternativo essendosi posto quanto meno in una posizione di indifferenza rispetto
alle possibili conseguenze del suo gesto cosi’ accettando una altissima probabilita’ che la massa del
sasso scagliato colpisse una vettura in transito provocando la morte degli occupanti nonostante la
residua possibilita’ di un evento diverso.
Nel contempo la Corte di Appello ritenne che la mancata reiterazione del lancio di sassi, pur
presenti nella vettura del M., non escludesse il dolo omicidiario considerato che era comparsa sulla
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scena la sua insegnante M e che comunque quell’unico lancio gia’ integrava gli estremi del reato
contestato.
Ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell’imputato chiedendo l’annullamento della sentenza
impugnata e lamentando con due motivi distinti: erronea applicazione degli artt. 56 e 575 c.p. [1]
laddove la sentenza aveva ritenuto la sussistenza del tentativo di omicidio, in assenza del dolo
diretto di tale reato, avendo la dottrina dominante e la giurisprudenza consolidata escluso la
compatibilita’ del dolo eventuale con il tentativo e dovendosi nella specie escludere che l’imputato
volesse uccidere il S. che neppure conosceva o qualsiasi altro automobilista in transito, posto che
aveva lanciato il sasso, senza poter vedere le autovetture in transito, dalla parte opposta del
cavalcavia rispetto alla direzione di marcia della sottostante autostrada e che il sasso non aveva
colpito direttamente la vettura del S., bensi’ era caduto sulla carreggiata dove era stato schivato da
due autovetture mentre il S. non era stato capace di evitarlo e lo aveva urtato con una ruota,
riuscendo comunque ad arrestare la marcia; manifesta illogicita’ della motivazione della sentenza
impugnata laddove, ai fini della valutazione della sussistenza o meno del dolo omicidiario, non
aveva considerato la particolare situazione di anormalita’ psicologica dell’imputato e la
irrazionalita’ del suo gesto e della condotta successiva che lo aveva portato a tornare verso il luogo
del fatto insieme alla madre, al fine di escludere la coscienza e la volonta’ del fatto quanto meno
sotto il profilo dell’elemento psicologico.
Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di gravame attiene alla individuazione dell’elemento psicologico del reato
contestato che, ad avviso della difesa dell’imputato, non potrebbe essere caratterizzato come dolo
diretto, bensi’, al massimo, come dolo eventuale, in quanto tale incompatibile con oil tentativo di
omicidio, come ormai ritenuto da tempo dalla giurisprudenza consolidata.
Secondo la difesa del ricorrente il dolo diretto dovrebbe essere escluso poiche’ l’imputato non
conosceva neppure la persona offesa e non aveva quindi alcun motivo per ucciderla e comunque
aveva lanciato il sasso senza poter vedere le autovetture in transito, dal lato del cavalcavia opposto
rispetto alla direzione di marcia delle vetture sulla sottostante autostrada, cosi’ rivelando che la sua
volonta’ non era quella di uccidere il S. o qualunque altro automobilista in transito.
La doglianza e’ infondata.
La giurisprudenza di questa Corte e’ nel senso che costituisce tentativo di omicidio il lancio di sassi
da un cavalcavia sulla sottostante autostrada in quanto tale azione, seppure non diretta, in ipotesi, a
colpire singoli autoveicoli, e’ idonea, per la non facile avvisabilita’ degli oggetti che cadono
all’improvviso dall’alto o che comunque siano gia’ giunti al suolo sulla carreggiata mentre i
conducenti sono intenti ad osservare le macchine che precedono e seguono e per la consistente
velocita’ tenuta generalmente dai conducenti in autostrada, a creare il concreto pericolo di incidenti
stradali, anche mortali, al cui verificarsi, quindi, sotto il profilo soggettivo, deve intendersi diretta la
volonta’ dell’agente (cfr. Cass. 30/4/2003 n. 1989).
A tali corretti principi si e’ attenuto il giudice di merito il quale ha ritenuto che il lancio di sassi da
un cavalcavia, oltretutto protetto da uno sbarramento laterale alto un metro e ottanta centimetri
proprio per impedire qual lancio che aveva provocato poco tempo prima un evento mortale su
quella stessa autostrada, evento che aveva suscitato grande allarme pubblico anche per la tragica
emulazione che ne era seguita, costituisse una specifica condotta per ritenere che l’imputato volesse
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provocare la morte degli automobilisti che transitavano sulla sottostante autostrada, alla stregua
degli elementi sintomatici solitamente indicati dalla giurisprudenza per la individuazione del dolo
diretto omicidiario, ed in particolare della raccolta di un rilevante numero di grossi sassi, rinvenuti
all’interno della sua macchina, dell’impiego di un sasso del peso di ben 3 kg., che, lanciato dall’alto
sulle auto in corsa, avrebbe certamente sfondato il parabrezza o quanto meno provocato la
fuoriuscita di una vettura dalla sede stradale, dello specifico e ripetuto sforzo fatto dall’imputato,
vista la sua bassa statura, per raggiungere tale risultato, della precedente morte di altra persona per
una azione analoga con quelle stesse modalita’, ben nota all’imputato, nonche’ della accertata
mancanza di visuale sulla autostrada dal cavalcavia , che non consentiva di verificare visivamente
se in quel momento giungessero o meno delle macchine, anche se a quell’ora l’autostrada era
notoriamente trafficata in modo notevole per cui le autovetture arrivavano in continuazione ed era
praticamente impossibile che una autovettura non finisse colpita dal sasso ovvero vi finisse sopra
subito dopo la sua caduta.
Ne rileva a tal fine che l’imputato non conoscesse la vittima ne le altre persone che in quel
momento circolavano sull’autostrada Milano- Genova, poiche’ all’imputato non interessava
uccidere una specifica persona, essendo per lui indifferente, vista anche la sua struttura di
personalita’, ben delineata nella perizia psichiatrica, che morisse una o altra persona.
Si tratta eventualmente di inadeguatezza della causale alla stregua del sentire dell’uomo comune
che pero’ non incide sulla sussistenza o meno della volonta’ omicida, essendo varie per intensita’ le
ragioni di ciascun individuo e potendosi uccidere anche per un futile motivo, essendo l’omicidio di
per se un gesto sempre irrazionale che non puo’ quindi essere giudicato alla stregua di criteri
razionali.
Ugualmente non rileva che l’imputato potesse o meno vedere le auto in transito, poiche’ sapeva
benissimo che sotto il cavalcavia, sulla autostrada Milano- Genova, con direzione verso Milano,
transitava a quell’ora una fila continua di autovetture e proprio per questo aveva scelto quel luogo e
quell’ora per il lancio dei sassi, correndo il rischio di essere visto e riconosciuto (come poi e’ stato
in effetti visto e riconosciuto dalla sua ex insegnante) ed anzi proprio la circostanza, accertata
positivamente, che non potesse vedere dal cavalcavia le macchine in corsa sulla sottostante
autostrada, dimostra la sua totale indifferenza verso la vita delle persone che transitavano in quel
momento dirette verso Milano.
Si ha invero dolo eventuale allorquando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri
scopi, si rappresenti la concreta possibilita’ del verificarsi di una diversa conseguenza della propria
condotta e, ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla, mentre il dolo alternativo
sussiste qualora l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente, al momento della realizzazione
dell’elemento oggettivo del reato, che si verifichi l’uno o l’altro degli elementi casualmente
ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (nella specie che muoia una persona o piu’
persone ovvero che una o piu’ vetture finiscano fuori strada), sicche’, attesa la sostanziale
equivalenza dell’uno o dell’altro, egli risponde per quello effettivamente realizzato (cfr. per tutte
Cass. 10/4/2003 n. 16976).
Orbene, e’ di tutta evidenza che, come giustamente ritenuto dai giudici di merito, nel caso in esame
si sarebbe percio’ trattato non gia’ di dolo eventuale bensi’ di dolo alternativo, non potendo il lancio
di sassi diretto ad un fine diverso da quello di colpire una macchina in transito, ne l’imputato stato
in grado di indicare un diverso fine, con la conseguenza che deve ritenersi, anche in tal caso,
configurabile il reato di tentato omicidio poiche’ la particolare manifestazione di volonta’ dolosa
definita dolo alternativo deve qualificarsi come diretta, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o
dell’altro evento (v. Cass. 14/1/2000 n. 385).
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E’ infondata anche la seconda doglianza diretta ad escludere il dolo sotto il diverso profilo della
mancanza di coscienza o volonta’ collegata alla anormalita’ psicologica dell’imputato.
La difesa dell’imputato ha accettato il giudizio di sussistenza della imputabilita’ emergente dalla
perizia psichiatrica disposta in grado di appello, dovendo convenire sulla sussistenza della capacita’
di intendere e di volere dell’imputato, nonostante i disturbi di personalita’ di cui e’ affetto, che sono
di indubbia gravita’ e che hanno gia’ portato i giudici di merito a collocare il giovane M. in una
struttura protetta diversa dal carcere, ma che non escludono ne fanno grandemente scemare la sua
imputabilita’ ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 88 e 89 c.p.; pero’ ha ritenuto che tali disturbi
psicologici potessero escludere la coscienza e volonta’ del fatto illecito e quindi la sussistenza del
dolo ai sensi dell’art. 43 c.p.
L’argomentazione non e’ condivisibile poiche’ nei rapporti fra imputabilita’ e dolo, l’indagine sul
primo dei suddetti elementi va tenuta ben distinta d quella del secondo, essendo quest’ultimo (il
dolo) un elemento costitutivo del delitto, la cui sussistenza va in ogni caso accertata secondo le
regole generali, e cio’ con riferimento all’ipotesi di un soggetto dotato di normale capacita’ di
intendere e di volere, mentre l’imputabilita’ costituisce semplicemente il presupposto per
l’affermazione delle responsabilita’ in ordine al reato commesso, il quale dovra’ pertanto essere gia’
stato compiutamente qualificato nelle sue connotazioni soggettive ed oggettive.
L’imputabilita’, quale capacita’ di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e
volonta’ del fatto illecito, esprimono quindi concetti diversi ed operano anche su piani diversi,
cosicche’ neppure la mancanza di imputabilita’ impedisce la sussistenza del dolo, dovendosi prima
accertare, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l’evento sia stato prodotto secondo
l’intenzione, oltre l’intenzione o contro l’intenzione, per poi passare a verificare se e come il
soggetto debba penalmente rispondere di tale evento in ragione del suo stato di mente; con la
conseguenza che la colpevolezza anche del soggetto disturbato ed addirittura quella del soggetto
infermo di mente deve essere valutata alla stregua delle regole di cui agli artt. 42 e 43 c.p.,
indipendentemente dalla perturbazione psichica e dalla riduzione del senso critico collegata alla
malattia ovvero al disturbo di personalita’.
In tal modo hanno correttamente operato i giudici di merito i quali hanno valutato la sussistenza del
dolo in base al parametro normativo ed alla stregua dei principi giurisprudenziali consolidati, per
cui il ricorso dell’imputato, siccome totalmente infondato, deve essere respinto, con le conseguenze
di legge.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma, 25 gennaio 2005.
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2005.
-Se si accetta il rischio della probabilità di verificazione dell’evento antigiuridico si tratta di
dolo; se si accetta il rischio della possibile verificazione dell’evento antigiuridico vi è dolo
eventuale.
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
SENTENZA 14.02.1996 n° 3571
Fatto
Con sentenza della Corte di Appello di Milano del 20 maggio 1995, in parziale riforma di decisione
del Tribunale di quella città del 14 novembre 1994, M. F. è stato condannato alla pena di anni sei e
giorni venti di reclusione per i delitti di tentata rapina aggravata (artt. 56, 628 co. 1 e 3 cod. pen.),
tentato omicidio aggravato artt. 56, 575, 61 n. 2 cod. pen.) e detenzione e porto illegale di pistola
semiautomatica Beretta cal. 7,65 con matricola abrasa, tutti ritenuti in continuazione e commessi in
concorso con certo T. M. .
Hanno ritenuto concordemente i giudici di merito che il M. e il T. il 23 giugno 1994, si sono
introdotti in una oreficeria di Milano per compiere una rapina e sono stati costretti alla fuga dalla
reazione delle vittime e da operai che lavoravano nei pressi, intervenuti in soccorso. Inseguiti per la
strada, il M. , che impugnava una pistola e che aveva esploso altri colpi, si è rivoltato e, dalla
distanza di 4 - 5 metri, con il braccio ripiegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato un
colpo verso il busto di certo P. C. , che è riuscito a scansarlo, mentre il secondo colpo si è
inceppato.
La Corte di Milano ha ritenuto il fatto integrante il tentato omicidio, ravvisando la sussistenza
dell'elemento soggettivo "quantomeno a titolo di dolo eventuale".
Il solo M. ha proposto ricorso per Cassazione deducendo il vizio di violazione di legge perché il
dolo eventuale non è configurabile nel delitto tentato.
La seconda Sezione della Corte, rilevando che, nonostante l'intervento delle Sezioni Unite (18
gennaio 1983, n. 6309, Basile, 159.825), persisteva contrasto sul punto nelle decisioni delle Sezioni
Semplici, con ordinanza del 17 novembre 1995 ha rimesso la decisione del ricorso alle Sezioni
Unite.
Diritto
Il ricorso, con il quale si sostiene non essere configurabile il tentativo con dolo eventuale, deve
essere rigettato perché infondato.
È infondato perché nella specie sussiste il dolo diretto e non quello eventuale; cade quindi la base
stessa del ricorso e non può essere riesaminata la questione, già risolta nel senso della compatibilità
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da queste Sezioni Unite (18 giugno 1983, n. 6309, Basile, 159.825), con decisione non condivisa
talvolta dalle Sezioni Semplici, talché ciò ha indotto la Seconda Sezione della Corte a riproporre la
questione stessa.
Già le Sezioni Unite, investite del problema in fattispecie analoga (12 ottobre 1993, n. 748, Cassata,
195.804), hanno chiarito quali siano i livelli crescenti della volontà dolosa, che va dal dolo
eventuale, in cui vi è la sola accettazione del rischio dell'evento, al dolo diretto in cui l'evento è
accettato perché altamente probabile o certo, al dolo intenzionale quando l'evento è perseguito come
scopo finale.
In proposito conviene ulteriormente precisare, perché non prosegua una errata tendenza
giurisprudenziale ad estendere il dolo eventuale "per superare le difficoltà probatorie che talora si
riscontrano nell'accertamento della..... volontà omicida" (cfr. Sez. Un. 15 dicembre 1992,
Cutruzzolà) o per semplificare la motivazione sul dolo, che tale forma di dolo sussiste quando
l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità
del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il
rischio di cagionarle.
Quando invece si entra nel campo della probabilità, specie quando la realizzazione del fatto si
presenti all'agente come altamente probabile - e sarà il concreto accadimento stesso a segnare la
linea di demarcazione - non si può ritenere che il colpevole si limiti ad accettare il rischio
dell'evento, ma accettando l'evento lo vuole, sicché versa in dolo diretto e non eventuale (cfr.,
limitatamente alla distinzione tra dolo eventuale e alternativo, Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428,
Casu, 189.405).
Nella specie, risulta dalla sentenza della Corte di Milano che il ricorrente M. ha commesso il tentato
omicidio dell'operaio P. , che lo inseguiva, con dolo diretto.
Già in precedenza il M. , inseguito, si era voltato ed aveva sparato prendendo la mira verso terra alla
destra di due inseguitori. Quasi raggiunto dal P. , si è rivoltato e da 4 - 5 metri, con il braccio
piegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato verso il busto dell'inseguitore che è riuscito a
scansare il colpo: il secondo colpo si è inceppato.
La dinamica dei fatti rende chiaro che il M. aveva deciso di evitare comunque la cattura, anche
uccidendo l'inseguitore,
La micidialità dell'arma, la voluta direzione dei colpi verso parte vitale del corpo dello inseguitore,
la distanza ravvicinata facevano apparire estremamente probabile l'uccisione della persona contro la
quale l'azione era diretta, che nella specie si è fortunosamente salvata.
Essendo l'evento altamente probabile il M. non si è limitato ad accettare il rischio del suo
verificarsi, ma l'ha voluto.
Pertanto, la situazione di fatto quale ritenuta dalla corte di merito è di dolo diretto e l'errore di diritto
in cui è incorsa nello specificare l'elemento soggettivo del tentativo di omicidio in esame
"quantomeno a titolo di dolo eventuale", deve essere corretto senza rinvio.
Trattandosi di dolo diretto, il ricorso del M. , basato - come già notato - sulla non configurabilità di
un tentativo con dolo eventuale, deve essere rigettato con conseguente sua condanna al pagamento
delle spese del procedimento.
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P.Q.M
Visto l'art. 616 cod. proc. pen.;
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Roma, 14 febbraio 1996.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 12 APR. 1996
FAVOREGGIAMENTO DEL FAMILIARE
TRACCIA:
Tizio è un giovane di 23 anni che da diverso tempo frequenta cattive compagnie.
In particolare, Tizio, Caio e Sempronio acquistano prodotti falsificati per rivenderli in negozi
griffati a prezzo molto superiore del valore reale e di acquisto.
Martufella è la madre di Tizio che da diversi mesi è a conoscenza dell’attività illecita del figlio.
Un giorno Tizio viene a sapere che i carabinieri lo stanno cercando; Tizio scappa all’estero, in
Svizzera, dandone comunicazione solo alla madre.
I carabinieri, poi, si recano da Martufella per avere informazioni circa la presunta attività illecita
compiuta da Tizio; i carabinieri chiedono anche a Martufella dove sia andato Tizio.
Martufella dichiara di non sapere alcunché.
Diversi giorni dopo le dichiarazioni, Martufella si reca dal legale Saverio.
Il candidato affronti la questione giuridica proposta, non tralasciando di evidenziare gli istituti
giuridici sottesi alla fattispecie presa in esame.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente si poteva entrare nel cuore del problema: Martufella, che ha dichiarato il falso nei
confronti dei Carabinieri, per agevolare il figlio Tizio, ha compiuto qualche reato?
Prima facie, sembrerebbe potersi dire che Martufella abbia compiuto il reato di favoreggiamento
personale, ex art. 378 c.p., in favore del figlio.
E’ davvero così?
Invero, Martufella sembra aver agito nell’ambito dei casi di non punibilità, ex art. 384 c.p., perché
ha agito mossa dalla necessità di salvare il figlio dal nocumento all’onore che poteva derivare da un
processo penale.
Nell’ambito dell’art. 384 c.p., era necessario soffermarsi sul concetto di necessità; generalmente, in
questi casi, la giurisprudenza sostiene che se il parente presunto favoreggiatore (nel caso di specie la
madre Martufella) dichiara il falso, nel senso di cercare di depistare le indagini dicendo ad esempio
che, il favoreggiato, si trova in un luogo al posto di un altro, si configura il reato di favoreggiamento
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personale, perché vi è un quid pluris che esorbita dallo stretto necessario volto a tutelare l’onore; se,
invece, il parente presunto favoreggiatore dichiara il falso nei limiti dello stretto indispensabile
(come nel caso di specie che la madre si limita a comunicare di non sapere alcunché), ben potrebbe
trovare applicazione l’art. 384 c.p.
In questo senso, pertanto, ed alla luce della giurisprudenza prevalente, Martufella ben potrebbe non
essere ritenuta responsabile di alcun reato.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono, al fine di conoscere gli orientamenti
giurisprudenziali più recenti.
-Se il genitore mente per salvare il figlio, non c’è favoreggiamento personale.
CASS. PEN- SEZ. VI- 6 settembre 2006, n. 29769- Pres. Criscuolo – est. Cortese
Fatto
Con sentenza in data 17 dicembre 2004 il Gup del Tribunale di Udine applicava ex articolo 444 Cpp
a H. M. la pena di due di reclusione per il delitto di cui all’articolo 378 Cp.Propone ricorso
l’imputata, deducendo che la sua condotta non è punibile ex articolo 384 Cp, in quanto posta in
essere per la necessità di proteggere il figlio H. C., imputato di concorso nel delitto ex articolo 648
Cp.
Diritto
Il ricorso è fondato.Come, invero, risulta in atti, H. C., accusato di concorso nel delitto di
ricettazione, in relazione al quale furono rese ai Carabinieri le dichiarazioni false e reticenti che
hanno dato luogo al presente procedimento, è figlio della prevenuta. La stessa, quindi, andava e va
ritenuta non punibile per il reato ascritto, a sensi del comma 1 dell’articolo 384 Cp, essendo
evidente che la sua condotta fu determinata dalla necessità di evitare al figlio le gravi e inevitabili
conseguenze sulla libertà e sull’onore che gli sarebbero derivate dall’accertamento della sua
colpevolezza per il delitto ex articolo 648 Cp.L’impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata
senza rinvio.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, trattandosi di persona non punibile ai sensi
dell’articolo 384, comma 1 Cp.
- Il falso deve essere inevitabile, ex art. 384 c.p., per non essere punibile.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
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SEZIONE VI PENALE
Sentenza 20 giugno 2006 - 2 agosto 2006, n. 27614
Presidente Sansone - Consigliere Romano
Repubblica Italiana
In Nome del Popolo Italiano
La Corte Suprema di Cassazione
VI sezione penale
(…)
Con sentenza 16 luglio 2004 la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza
5/12/2002 del tribunale della stessa città, (con la quale XXX L. era stata condannata per il reato di
cui all’art. 372 c.p. ad anni 1 di reclusione- le era contestato di aver affermato il falso come
testimone, in quanto aveva dichiarato, all’udienza 1/2/2001, dinanzi al Tribunale di Trento:
"di essere stata lei a telefonare alla sorella XXX P.L. il giorno 30/4/1999;
che la predetta telefonata aveva lo scopo di avvisare la sorella che il notaio YYY attendeva che (la
stessa) e gli altri due fratelli si recassero da lui a sottoscrivere la cancellazione di due ipoteche già
pagate in quanto lei intendeva vendere e l’acquirente senza la cancellazione non avrebbe acquistato;
che, nella mattinata del 30/4/1999, ella si era incontrata con il notaio YYY per trattare di queste
questioni con il compratore e che al rientro dallo studio del notaio aveva chiamato la sorella
(suddetta);
che ricordava il giorno esatto per averlo appreso dalla sua agenda del 1999",
concedeva all’imputata stessa la non menzione alla condanna.
Avverso detta sentenza la XXX ha proposto ricorso per Cassazione.
Denunzia erronea applicazione della legge penale.
Deduce: che erroneamente la Corte d’Appello di Trento non ha ritenuto sussistente l’esimente di cui
all’art. 384 c.p., considerando la necessità di salvare un proprio congiunto dal nocumento che
consegue ad una condanna, adeguatamente salvaguardata dalla facoltà di astensione dalla
deposizione;
che il prevalente orientamento della recente giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile tale
esimente anche quando il prossimo congiunto dell’imputato abbia operato la scelta di non avvalersi
della facoltà di astenersi dal testimoniare.
Osserva il Collegio che il ricorso è infondato.
Al riguardo correttamente la corte territoriale, si è espressa nel senso che "… l’interesse del
testimone, il quale è compreso dalla deposizione testimoniale, ‘dalla necessità di salvare un
prossimo congiunto dal nocumento’ che consegue ad una condanna, sia adeguatamente
salvaguardato con la facoltà di astensione dalla deposizione (cfr. Cass. Sez. VI, 16/11/2000). Il
testimone è, infatti, posto nella condizione di scegliere consapevolmente – in seguito
all’avvertimento del giudice – se sottoporsi alla testimonianza con conseguente obbligo di dire la
verità ovvero se esimersi dalla stessa; con tale scelta egli è in grado di sottrarsi ‘all’inevitabilità del
nocumento’ che potrebbe derivare al prossimo congiunto dalla verità della sua deposizione".
In conformità dell’avviso della corte territoriale, questo Collegio non condivide l’orientamento della
sentenza della Sezione VI, 4/10/2001, che come si è detto, estende l’applicabilità dell’esimente
anche nei confronti di coloro che abbiano operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi
dal testimoniare, ma ritiene di restare nel solco della prevalente giurisprudenza di legittimità per
ragioni che, come di seguito sarà detto, appaiono inconfutabili.
La pronunzia dinanzi menzionata si fonda preminentemente sull’assunto che la causa di non
punibilità di cui alla disposizione in parola "… presuppone una situazione di necessità, nettamente
distinta da quella prevista in via generale dall’art. 54 c.p., poiché non richiede (come in
quest’ultimo) che il pericolo non sia stato causato dall’agente, nella quale il nocumento alla libertà e
all’onore è evitabile solo con la commissione di uno dei reati contro l’amministrazione della
giustizia", ma non coglie che tale netta distinzione è, viceversa, smentita dal testo delle disposizioni.
Orbene questo Collegio ritiene che l’ipotesi in cui la situazione di necessità sia stata
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volontariamente causata dal soggetto agente, esplicitamente esclusa (art. 54 c.p.) nello stato di
necessità, nel cui disposto è detto che il pericolo di un danno grave alla persona deve essere
dall’agente "… non volontariamente causato", non può avvalersi di un trattamento meno favorevole
rispetto all’esimente di cui all’art. 384 c.p., per incontrovertibili argomenti, attinti
all’interpretazione letterale della norma.
Deve considerarsi: in primo luogo il significato dell’espressione "non è punibile chi ha commesso il
fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da
un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore" che, cioè, indica chi è obbligato a fare
cose contrarie alla sua volontà e, comunque, non spontanee;
che, quando ciò avviene, sussiste una situazione in cui certamente non versa il soggetto che ha
scelto di non astenersi dal deporre, così determinando esso stesso la situazione di necessità;
in secondo luogo l’aggettivo "inevitabile", inevitabilità che non sembra più sussistere allorché
l’agente avrebbe potuto evitare la situazione necessitante avvalendosi della facoltà di non
rispondere e così scongiurando il nocumento derivante da una sua testimonianza veritiera;
in terzo luogo che l’ultima parte del comma 2 dell’art. 384 col dire "… la punibilità è esclusa se il
fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto a rifornire informazioni ai
fini dell’indagine o assunto come testimone (…) avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di
astenersi dal rendere informazioni, testimonianza …", procura un ulteriore argomento favorevole
alla tesi propugnata, in quanto riguardo a costoro non dovrebbe escludersi la punibilità nel caso in
cui il soggetto sia stato avvertito della facoltà di astenersi e vi abbia rinunciato.
Alla reiezione del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 20 giugno 2006.
- Presentare la fotocopia di un documento non è falso.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
SENTENZA 11-07-2005 / 30-09-2005, N. 35165
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
D. Loris è stato condannato dal Tribunale dell'Aquila alla pena di m. 6 di reclusione per il delitto di
cui agli artt. 477-482 c.p., avendo alterato la fotocopia di un certificato del servizio veterinario
dell'USL n. 1 di Agnone, inserendovi un capo bovino e modificando la data. La corte d'appello
confermava.
Ricorre il difensore, deducendo il vizio di motivazione e la violazione di legge:
· il fatto non sussiste, poichè il falso cade su una semplice fotocopia;
· Non v'è prova della commissione del fatto, onde può al più configurarsi, nella specie, il reato di
cui allo art. 489 c.p.;
· erroneamente non è stata applicata l'attenuante di cui all'art. 482 c.p. e sono state negate le
generiche, nonchè la sospensione condizionale della pena.
Le doglianze sono prive di fondamento.
E' versata in fatto quella che nega la commissione dell'addebito, in spregio alla ricostruzione storica
del fatto, così come operata dai giudici di merito. Infondate sono tutte le altre. Fuorviante e fallace è
la tesi secondo cui il reato di falso si configura se abbia ad oggetto una copia fotostatica.
Tanto può, infatti, affermarsi solo se la copia predetta sia presentata come tale, dal momento che
essa produce effetti giuridici solo se autenticata o non espressamente disconosciuta (sez. 5^ 5.5.98,
n. 11185, Detti).
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Al contrario, la fotocopia integra il reato di falsità materiale quando sia presentata non come tale,
ma con l'apparenza di un documento originale, atto a trarre in inganno i terzi di buona fede (sez. 5^,
17.6.96, n. 7717, Jacobacci; 15.4.99, n. 7566, Domenici).
Il giudice si è attestato su un livello di pena assai prossimo al minimo edittale, onde appare evidente
che ha tenuto conto della fattispecie delineata dagli artt. 477 e 482 c.p. (che non configura
un'attenuante, come sembra ritenere il ricorrente), ascritta al D..
I precedenti penali sono stati ritenuti ostativi esplicitamente alla sospensione condizionale della
pena, implicitamente alle richieste generiche, per il cui riconoscimento non è stato individuato alcun
elemento di meritevolezza.
Il ricorso va rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2005.
Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2005.
DIFFAMAZIONE E DIRITTO DI CRITICA
TRACCIA:
Tizio è un esponente politico di livello nazionale.
Tizio veniva invitato da Sempronio, a tenere una relazione sul programma elettorale ed a farsi
intervistare dai diversi giornalisti.
Alla relazione, che veniva organizzata in un teatro nella bellissima città di Palermo, partecipavano
Caio, Matrix e Sandro.
Caio, Matrix e Sandro erano giornalisti del “Dieciore”, prestigioso quotidiano locale, noti per
articoli particolarmente velenosi e di corrente politica avversa a Tizio.
Tizio incominciava a parlare di una serie di iniziative, quando Caio gridava “Buffone, fatti
processare”; dopo le urla si sedeva comodamente, attendendo eventuali repliche.
Poco dopo, Caio si alzava, di nuovo, in piedi e gridava: “Sei un buffone, perché non parli delle
tangenti e del processo a tuo carico iniziato un anno fa?”; successivamente, Caio si sedeva.
L’incontro terminava dopo un’ora circa, dall’intervento di Caio.
Un mese dopo, Caio si recava da un legale.
Il candidato rediga motivato parere favorevole a Caio, dopo aver premesso brevi cenni sul rapporto
tra diffamazione e diritto di critica.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire (molto sinteticamente il fatto).
Successivamente, era necessario parlare del rapporto tra diffamazione e diritto di critica.
La diffamazione è generalmente ritenuto reato di dolo generico (non si deve per forza voler
offendere il soggetto passivo, ai fini della punibilità); i requisiti necessari alla sussistenza della
diffamazione (dal punto di vista della condotta oggettiva) sono stati individuati in:
-assenza dell’offeso;
-offesa all’altrui reputazione;
-comunicazione con più persone (si ritiene configurabile la condotta omissiva, ad esempio,
nell’ipotesi in cui il diffamante non aggiorni una notizia già resa nota).
Generalmente, il reato di diffamazione (la diffamazione può esistere anche tramite internet) non è
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configurabile laddove sia stata posta in essere una condotta diffamatoria nell’esercizio di un diritto,
ex art. 51 c.p., come quello di manifestazione libera del pensiero (anche sub specie di diritto di
critica e satira).
Tuttavia, affinché no siano superati i limiti consentiti dell’art. 51 c.p. e non si arrivi all’eccesso
colposo, è necessario, secondo la tesi dominante, che il “diffamante”si esprima rispettando la
pertinenza (le affermazioni esternate devono rivestire interesse per l’opinione pubblica) e
continenza (correttezza nell’esposizione dei fatti).
Vi è diffamazione nel caso di specie?
A rigore, nell’ipotesi presa in esame, più che emergere un rapporto tra diffamazione e diritto di
critica, sembrerebbe emergere il rapporto tra ingiuria e diritto di critica, perché la esternazioni fatte
da Caio sembravano dirette a Tizio e non ai presenti; id est, sembrerebbe emergere un’offesa al
decoro ed onore di una persona, piuttosto che la comunicazione con terzi, tanto più che la
diffamazione per configurarsi richiede l’assenza dell’offeso (in quanto si dice “fuori dei casi
indicati nell’articolo precedente”), diversamente dal caso de quo (tanto più che, poi, tale
argomentazione è più favorevole al Caio).
Sussiste, quindi, ingiuria?
Al quesito si potrebbe rispondere negativamente, perché erano state poste domande di interesse
pubblico, senza eccedere i limiti di continenza (l’affermazione di “buffone” riveste una certa critica
più che offesa); nello stesso senso, d’altronde, si è espressa la giurisprudenza più recente (si veda la
sentenza della Cassazione 19509/2006, sotto riportata).
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-Dare del "buffone" al Presidente del Consiglio dei Ministri può non integrare il delitto di
ingiuria (o diffamazione) qualora l'esternazione, seppur aspra e forte, si contestualizzi
nell'ambito di una critica politica rispettosa dei requisiti previsti dall'art. 51 c.p.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 7 giugno 2006 n. 19509
MOTIVI DELLA DECISIONE Il Giudice di pace di Milano condannava R.P. alla pena della multa,
per avere offeso l'onore e il decoro di Berlusconi Silvio, Presidente del Consiglio dei Ministri,
proferendo al suo indirizzo le seguenti espressioni: «Fatti processare, buffone! Rispetta la legge,
rispetta la democrazia o farai la fine di Ceausescu e di don Rodrigo».Il giudice escludeva la
sussistenza dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., sia per la violazione del limite della continenza, sia
perché, essendosi svolto l'episodio nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, difettava il
contesto stesso nel quale si inquadra il diritto di critica.Ricorre l'imputato, che ribadisce gli assunti
difensivi prospettati, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione. Egli rammenta il
particolare momento in cui si svolse la vicenda, ossia il maggio 2003, quando il querelante, al
centro del dibattito politico per il noto conflitto di interessi che lo riguardava, era imputato nel
processo Sme a Milano e promuoveva leggi ad personam (legge Cirami, legge sulle rogatorie
internazionali, legge di modifica del reato di falso in bilancio).Il prevenuto è un giornalista free
lance, collaboratore di vari giornali, sensibile alla questione morale della politica italiana,
organizzatore di dibattiti sul tema.L'epiteto "buffone", opportunamente contestualizzato, perde la
sua carica lesiva e va comunque inserito nell'ambito della critica politica, che si esprime con toni
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anche aspri e sgradevoli.Le circostanze dimostrano chiaramente - prosegue il ricorrente - che la
strategia processuale adottata dal querelante era dilatoria e defatigante e, dunque, contraria ai doveri
di un cittadino investito di elevate funzioni pubbliche. E tale strategia si coniugava con i ripetuti
attacchi del partito del querelante contro l'ordine giudiziario.L'imputato richiamava pure la
decisione del caso Oberschick da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'1 luglio 1997,
che ha ritenuto che l'espressione "idiota" rivolta da un giornalista ad un personaggio politico molto
in vista in un articolo improntato a critica poteva essere considerata polemica, ma non costituiva
gratuito attacco personale.Non diversamente, pertanto, assume il R., l'epiteto "buffone" esprime
veemente, ma legittima critica rivolta al querelante, la cui condotta appariva elusiva del rispetto
della legge.È stata presentata memoria difensiva all'odierna udienza.Il ricorso è fondato.Il diritto di
critica può manifestarsi anche in maniera estemporanea, non essendo necessario che si esprima
nelle sedi, ritenute più appropriate, istituzionali o mediatiche, ove si svolgano dibattiti fra i
rappresentanti della politica ed i commentatori. Diversamente, verrebbe indebitamente limitato, se
non conculcato, il diritto di manifestazione del pensiero che spetta al comune cittadino. Irrilevante,
dunque, è la circostanza che nella specie la censura sia stata esternata nei corridoi di un palazzo di
giustizia, che appare anzi particolarmente idoneo, come sede privilegiata, a suscitare riflessioni sul
tema della legalità e del rispetto della legge.Che si tratti di una critica lo si desume in maniera non
dubbia dal fatto che l'imputato ha fatto seguire all'epiteto incriminato espressioni che suonano come
forte riprovazione della condotta tenuta dal querelante come homo publicus. L'esortazione pressante
«fatti processare, rispetta la legge» è una vibrata ed accorata censura, istintivamente suscitata dalla
presenza del personaggio che a tante polemiche e contrasti aveva dato origine.Non a caso il
ricorrente ha rammentato temi scottanti, che hanno profondamente diviso l'opinione pubblica,
dando luogo a critiche anche da parte della stampa estera: il conflitto di interessi, le leggi definite ad
personam, il rapporto fra i parlamentari e la giurisprudenza.Del carattere di critica politica
dell'esternazione è conferma ulteriore l'evocazione del dittatore romeno Ceausescu e del
personaggio manzoniano simbolo di sopraffazione ed arbitrio (don Rodrigo).Ciò che denota il
profondo senso di protesta per il vulnus che il R. riteneva inferto a valori primari dello stato di
diritto, come quello della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ed ai giudici che la
applicano.È noto che il diritto di critica si concreta nella espressione di un giudizio o di un'opinione
che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Ove il giudice pervenga, attraverso l'esame
globale del contesto espositivo, a qualificare quest'ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti
dell'esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione
(Cass., Sez. V, 11211/1993, Paesini, in tema di diffamazione a mezzo stampa; 6416/2004, Pg in
proc. Ambrosio; 7671/1984, Hendi).Non si è trattato di gratuità l'espressione alla persona del
querelante, ma di forte critica, speculare per intensità al livello di dissenso nell'ambito politico e
nell'opinione pubblica dalla delicatezza dei problemi posti ed affrontati dalla persona offesa.Il
diritto di critica riveste necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili quando si svolge in
ambito politico, in cui risulta preminente l'interesse generale al libero svolgimento della vita
democratica. Ne deriva che, una volta riconosciuto il ricorrere della polemica politica ed esclusa la
sussistenza di ostilità e malanimo personale, è necessario valutare la condotta dell'imputato alla luce
della scriminante del diritto di critica di cui all'art. 51 c.p. (Sez. VII, 15236/2005, Ferrara ed altri).Il
Giudice di pace ha estrapolato dalle frasi pronunciate dal R. il solo termine oggettivamente
offensivo, negando l'esercizio del diritto di critica ed omettendo di contestualizzare, come dovuto,
l'esternazione.Al contrario, si adombrano nel caso di specie gli estremi dell'esimente in questione,
della quale resta da accertare se sia stato rispettato il limite della continenza (o correttezza
formale).La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio al Giudice di pace di Milano, che si
uniformerà al principio di diritto innanzi formulato e che motiverà congruamente in punto di
continenza.Essendo stati accertati il sostrato fattuale della critica e l'utilità sociale della stessa,
intesa come interesse della collettività alla manifestazione del pensiero ed alla conoscenza delle pur
divergenti opinioni dei cittadini sui temi cruciali della vita pubblica, il giudice di merito dovrà
stabilire se sia stato violato il limite della correttezza formale delle espressioni adoperate dal
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R.Sotto tale profilo egli avrà cura di considerare: la desensibilizzazione del significato offensivo di
talune parole, segnatamente in ambito politico e sindacale, ossia il mutato atteggiamento circa la
loro offensività da parte dei consociati, in ragione delle peculiarità di taluni settori della vita
pubblica, ove i contrasti si esprimono tradizionalmente in forma anche vibrata (per l'operatività
della scriminante anche quando essa si esprima in toni aspri e di disapprovazione, v., ex pluribus,
Sez. V, 12013/1998, Casanova; 761/1998, Pg in proc. Pendinelli ed altri; 11905/1997, Farassino;
5109/1997, Landonio).La critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più
elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria (Sez. VII, 11928/1998, Ruffa;
3473/1984, Franchini).Ciò vale a dire che il livello e l'intensità, pur notevoli, delle censure
indirizzate a mo' di critica a coloro che occupano posizioni di tutto rilievo nella vita pubblica, non
escludono l'operatività della scriminante.Pertinente appare, al riguardo, il richiamo fatto dal
ricorrente alla decisione 1° luglio 1997 della Corte europea dei diritti dell'uomo (causa Oberschick
c. Austria), che ha ritenuto la violazione dell'art. 10 della Convenzione da parte dell'Austria, in un
caso in cui il direttore di un giornale aveva pubblicato un commento su un discorso tenuto dal
leader del partito liberale austriaco e capo del governo della Carinzia, nel quale questi veniva
definito "idiota". La Corte ha affermato in proposito:- che la libertà di espressione non vale solo per
le "informazioni" e le "idee" recepite favorevolmente, ma anche per quelle che indignano ed
offendono;- che se si tratta di un uomo politico, che è un personaggio pubblico, i limiti alla
protezione della reputazione si estendono ulteriormente, nel senso che il diritto alla tutela della
reputazione deve essere ragionevolmente bilanciato con l'utilità della libera discussione delle
questioni politiche;- che se l'espressione "idiota" può essere offensiva dal punto di vista obiettivo, è
anche vero che essa appare proporzionata all'indignazione suscitata dallo stesso ricorrente.Si
impone, dunque, l'annullamento con rinvio al Giudice di pace di Milano per nuovo esame. P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di pace di Milano per nuovo esame.
-La falsita’ della notizia esclude l’applicazione di qualsivoglia scriminante.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 16 marzo 2006 n. 9246
A seguito di querela sporta dall’avv. G.L., fu promossa azione penale per diffamazione aggravata
nei confronti della S., tre articoli redatti dalla quale erano stati pubblicati sul quotidiano La
Repubblica il 27/9/1996 e l’8/12/1996, e per omesso controllo nei confronti del M., direttore del
detto giornale.Con sentenza del 28/3/2002, il Tribunale di Roma dichiarava gli imputati colpevoli
dei reati loro ascritti, condannandoli alla pena ritenuta di giustizia.Su gravame dei medesimi, la
Corte di appello di Roma il 14/11/2003 riformava parzialmente la pronuncia di primo grado,
condannando la S. e il M. al pagamento di 2.000,00 Euro ciascuno, a titolo di riparazione
pecuniaria, ma confermandola nel resto.Tale decisione veniva annullata con rinvio, per vizio
procedurale, da questa Corte, con sentenza del 3/6/2004.Il giudice di rinvio, individuato in altra
sezione della Corte di appello di Roma, assolveva, sulla sentenza oggi esaminata, da ogni addebito
la S. perche’ il fatto non costituisce reato e il M. perche’ il fatto non sussiste.Pur rilevando la ormai
intervenuta prescrizione dei reati, riteneva tale giudice di dover emettere pronuncia assolutoria,
notando anzitutto che la persona del L. era, all’epoca, salita agli onori della cronaca in virtu’ della
notoria amicizia con l’allora A. D.P. e del coinvolgimento in delicate indagini processuali; dal che
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derivava l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti che la riguardassero.Cio’ premesso, osservava
il giudice a quo che i riferimenti alla persona fisica del querelante assumevano carattere o di
irrilevanza per difetto di offensivita’, o di satira pittoresca, non venendone comunque deformata
l’immagine del soggetto.Il primo articolo non affermava che i clienti dell’avv. L. avessero ricevuto
un trattamento di favore in forza della suddetta amicizia, della quale si limitava a dare atto
dell’esistenza, citando anche il veridico episodio di una compravendita di auto e della
partecipazione (ancorche’ non in qualita’ di fondatore) del medesimo ad una societa’, che peraltro
aveva scopi perfettamente leciti e che quindi non provocava alcun disonore per il soggetto
citato.Quanto a dichiarazioni rese da tale M.R. a proposito di detta amicizia, il Tribunale aveva
frainteso il senso della smentita da costui resa, che altro non era se non il desiderio di tenersi
lontano dalla vicenda, senza peraltro negare le voci che collegavano il L. al D.P.E del resto, la
notizia era riportata dalla S. con estrema cautela.Il secondo articolo, a parte le notazioni descrittive
della persona fisica del querelante, conteneva notizie veritiere sulla carriera dell’avv. L., collocato
anche nell’ambito di una societa’ denominata Promosud, rispetto alla quale era stata svolta un
indagine giudiziaria, che rendeva la notizia di pubblico interesse.Del resto, una smentita di costui
circa la posizione assunta in seno alla detta associazione (e non societa’) era stata pubblicata dalla
giornalista.Quanto poi all’affermazione della S., per cui il L. faceva, piu’ che l’avvocato,
l’intermediario di affari, si trattava di una evidente distorsione del patrimonio professionale del
soggetto, che pero’ non aveva rilevanza penale, potendo se mai comportare titolo di risarcimento
civilistico, per il mancato uso di termini intrinsecamente offensivi.In relazione ai successi
professionali dell’avvocato, era mera deduzione di quest’ultimo che la S. intendesse attribuirli alla
piu’ volte ricordata amicizia; e l’unico caso citato a sproposito non incideva sulla complessiva
veridicita’ dell’assunto.Nel terzo articolo veniva citata una perquisizione nello studio del L., a
proposito del quale si rammentava che rivestiva la toga ma fondava societa’, il che non era
attributivo di attivita’ disdicevoli.E quanto alla menzione di una contabile bancaria oggetto di
procedimento penale che si sarebbe concluso un anno dopo, l’articolista esercitava il diritto di
cronaca e, citando e non condividendo una intervista del gia’ ricordato R., quello di critica,
contenuto in termini non diffamatori.Avverso tale pronuncia ricorreva per cassazione, a mezzo del
suo difensore, la parte civile L:, che denunciava violazione di legge e vizio della motivazione.La
sentenza impugnata aveva erroneamente ricondotto nell’esercizio della satira i molteplici richiami
alla fisicita’ del ricorrente; la satira deve essere chiaramente percepita come una voluta
deformazione del soggetto cui si riferisce, mentre nel caso di specie gli argomenti svolti dal giudice
(che negavano tale effetto) apparivano palesemente contraddittori ed ignoravano i limiti della
continenza, qui superati per la reiterata virulenza delle singole descrizioni, oltre tutto in un contesto
non rispondente al vero, in riferimento ad un inesistente procedimento disciplinare a carico del
L.Quanto all’amicizia con l’ex magistrato, non era corretto limitarsi all’esame oggettivo delle
espressioni usate, dovendosi tener conto del significato finale e complessivo degli apprezzamenti ed
apparendo evidente l’insinuazione che essa avesse agevolato l’ascesa professionale del soggetto,
con accostamenti suggestivi tra la vita privata e quella forense.La notizia dell’acquisto di una
Mercedes era collegata alla persona del D.P. falsamente, essendo l’auto intestata a compagnia
assicuratrice e rivenduta poi ad un prezzo documentato come molto inferiore a quello riferito dalla
giornalista.Qualsiasi esimente ne era allora esclusa.La notizia relativa alla fondazione della soc. Isi
Informatica era non veridica, come riconosciuto dalla sentenza, che contraddittoriamente poi la
considerava non diffamatoria, distaccandola dal contesto dell’articolo che aveva il chiaro scopo di
porre in cattiva luce il ricorrente.Altrettanto doveva dirsi per la Promosud (associazione e non
societa’) posta in collegamento con la qualita’ allora di ministro del D.P., di nuovo accostato al L.
con intento denigratorio, derivante dalla qualificazione di avvocato del malaffare; solo una lettura
parziale dell’articolo poteva giustificare l’affermata irrilevanza penale del suo
contenuto.L’intervista del R. era riportata in modo esasperato; il giudice di rinvio l’aveva valutata
come vera, scorrettamente interpretando altre note giornalistiche e pero’ ignorando che il suo
contenuto, ancorche’ cautamente riferito, integrava la lamentata diffamazione, stante anche la
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risalenza nel tempo delle dichiarazioni, frattanto ampiamente screditate.In particolare, il richiamo
alla contabile bancaria, che di nuovo avrebbe collegato il L. al D.P., veniva indicata come riscontro
dell’intervista del R., che peraltro non ne parlava.Era quindi carente ogni interesse legittimante la
pubblicazione.Sostanzialmente falsa, e illogicamente ritenuta sostanzialmente vera, la notizia delle
mancate carcerazioni che l’avv. L. avrebbe ottenuto (sempre nei modi illeciti insinuati, definendosi
il querelante come avvocato dei miracoli) per i propri clienti; ancora una volta evocando le amicizie
del ricorrente e dimenticando le carcerazioni e le condanne subite da numerosi altri patrocinati dal
medesimo avvocato.La falsita’ della notizia escludeva l’applicazione di qualsivoglia scriminante.Si
insisteva, quindi, per l’annullamento della sentenza impugnata.Il ricorso e’ fondato.Il giudice del
rinvio ha ritenuto, in presenza di una causa estintiva del reato per il quale vi era stata condanna in
primo grado, che fosse evidente la prova della irrilevanza penale della condotta tenuta dalla S. e
della insussistenza dell’omesso controllo addebitato al suo direttore, E.M., applicando quindi la
formula liberatoria dell’art. 129 c. 2 c.p.p.A tale conclusione e’ pervenuto, ritenendo che la
giornalista avesse correttamente esercitato il diritto di cronaca e che le notazioni soggettive, mediate
le quali aveva colorato il personaggio oggetto dei tre articoli, fossero esercizio di satira; nessuna di
tali argomentazioni e’ correttamente sostenibile.La satira, notoriamente, e’ quella manifestazioni del
pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si e’ addossata il compito di castigare ridendo
mores; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di
ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioe’ verso il bene.E
dunque, simili indicazioni sono strettamente funzionali allo scopo, che, senza la loro evocazione,
rimarrebbe irraggiungibile; ora, tutto si puo’ dire, tranne che quelli che la Corte territoriale ha
valutato essere commenti satirici (la forfora, lo sguardo del bottegaio) abbiano svolto, nella
fattispecie, tale compito.Se la giornalista intendeva informare la pubblica opinione sulle vicende che
vedevano (oggettivamente) coinvolto il L., simili notazioni erano del tutto superflue; e, pur non
avendo intrinsecamente valenza diffamatoria, nella loro sgradevolezza inutile assumevano tale
carattere.E simile conclusione pare adeguarsi al tono di tutti gli articoli, dai quali traspare un
evidente (e oggettivamente inutile) malanimo verso l’attuale ricorrente.A proposito del quale, poi,
neppure puo’ dirsi che il diritto di cronaca sia stato esercitato nel rispetto, indispensabile, della
veridicita’ dei fatti riportati; la stessa sentenza impugnata deve dare atto (o inaccettabilmente
trascura) della oggettiva falsita’ di circostanze accreditate come reali negli articoli: la vicenda della
Mercedes, l’attribuzione della fondazione di una societa’, il complesso della intervista del R., le
sorti processuali (generalmente evocate) dei clienti del L., ai quali (contrariamente al vero)
sarebbero stati riservati trattamenti processuali privilegiati.Il tutto sullo sfondo, piu’ o meno
palesemente evocato, di un’amicizia con l’allora notissimo magistrato, la quale aveva rivalutato la
persona del parvenu, quale il L. sostanzialmente e’ indicato essere stimato dai suoi colleghi.E non a
caso, la giornalista lo definiva piu’ un affarista che un legale; giudizio che senza un giustificato
collegamento con le vicende del soggetto, esaminate negli articoli.E’ sufficiente questo rapsodico
esame dei medesimi, per concludere che la responsabilita’ penale era stata correttamente affermata
in primo grado, dovendosi peraltro prendere atto della estinzione dei reati per l’ormai intervenuta
prescrizione.Per tale ragione deve essere annullata senza rinvio l’impugnata senza, ferme restando
le statuizioni civili a suo tempo adottate.P.Q.M.Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche’
i reati sono estinti per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.Roma, 24/2/2006.Depositata
in Cancelleria il 16 marzo 2006.
-Per l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un
parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento, è necessario che
tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell'esercizio di attività
parlamenta.
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CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 27 luglio 2006 n. 317
SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della
deliberazione della Camera dei deputati del 19 settembre 2001, promosso con ricorso del Tribunale
di Roma, sezione VII penale, notificato il 9 luglio 2004, depositato in cancelleria il 16 luglio 2004
ed iscritto al n. 11 del registro conflitti 2004. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;
udito nell'udienza pubblica del 4 luglio 2006 il Giudice relatore Paolo Maddalena; udito l'avvocato
Massimo Luciani per la Camera dei deputati. Ritenuto in fatto 1. ¾ Con ricorso depositato il 21
marzo 2003, il Tribunale di Roma, sezione VII penale, nel corso di un procedimento penale
instaurato nei confronti del deputato Gianfranco Miccichè per il reato di diffamazione a mezzo
stampa in danno del dott. Giancarlo Caselli, Procuratore della Repubblica di Palermo, ha sollevato
conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione
alla deliberazione, adottata dall'Assemblea il 19 settembre 2001 (documento IV-quater, n. 1), con la
quale è stato dichiarato, in conformità alla proposta della Giunta per le autorizzazioni della Camera
dei deputati, che i fatti per i quali è in corso il processo a carico del deputato Miccichè concernono
opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari, a norma dell'art. 68, primo comma,
della Costituzione. Il giudice ricorrente espone che le dichiarazioni per le quali è in corso il
procedimento penale sono state rese dal deputato Miccichè nel corso di una intervista al periodico
“Liberal” pubblicata in data 17 settembre 1998. In quell'intervista, il deputato Micciché avrebbe
detto, tra l'altro, che il dott. Caselli «è stato mandato in Sicilia per dare una spallata decisiva alla
D.C.», ha fatto «solo politica», con processi ai politici che «servono solo a scrivere le verità pagate
dei pentiti», perdendo «tempo e denaro» e così senza lottare contro la vera mafia. Ad avviso del
Tribunale ricorrente, la deliberazione della Camera dei deputati sarebbe lesiva delle attribuzioni
costituzionali della giurisdizione a causa della mancanza del nesso funzionale tra le opinioni
espresse dal deputato Miccichè e l'attività parlamentare. Secondo il Tribunale di Roma – ad avviso
del quale «esula dall'oggetto del presente conflitto sia lo stabilire la natura diffamatoria delle
affermazioni contenute nell'articolo in esame sia la possibilità di configurare la scriminante del
diritto di cronaca o di critica, nella specie politica» –, per poter definire insindacabile un'opinione
espressa da un parlamentare in un'intervista alla stampa non è sufficiente una mera comunanza di
tematiche con il dibattito parlamentare, come è insufficiente il semplice collegamento di argomento
o di contesto tra attività parlamentare e dichiarazione; occorre, piuttosto, che si riscontri la identità
sostanziale di contenuto, nella specie mancante, tra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella
manifestata nella sede esterna. Pertanto, il Tribunale chiede che la Corte dichiari che non spetta alla
Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale concernono
opinioni espresse dal deputato Miccichè nell'esercizio delle sue funzioni di parlamentare, a norma
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, ed annulli la deliberazione adottata dalla stessa
Camera il 19 settembre 2001. 2. ¾ Con ordinanza n. 218 del 2004, depositata il 6 luglio 2004, la
Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto proposto dal Tribunale di Roma. L'ordinanza di
ammissibilità, unitamente all'atto introduttivo del giudizio, è stata notificata in data 9 luglio 2004. Il
conseguente deposito è stato effettuato il 16 luglio 2004. 3. ¾ Nel giudizio si è costituita la Camera
dei deputati, depositando documenti e svolgendo deduzioni, a conclusione delle quali ha chiesto che
la Corte dichiari il conflitto inammissibile, irricevibile e improcedibile, e in subordine rigetti il
ricorso, dichiarando che spettava alla Camera dei deputati affermare l'insindacabilità, ai sensi
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse nei confronti del dott.
Giancarlo Caselli dal deputato Gianfranco Micciché. La difesa della Camera, riservandosi,
preliminarmente, di identificare compiutamente tutte le ragioni di irricevibilità, di inammissibilità e
di improcedibilità del conflitto solo dopo avere esaminato gli atti e i documenti depositati dal
ricorrente Tribunale di Roma, osserva, nel merito, che il procedimento nei confronti del deputato
Miccichè riguarda talune sue opinioni e valutazioni di contenuto schiettamente politico sull'operato
del dott. Giancarlo Caselli: in particolare, dichiarazioni concernenti la ritenuta distorsione politica
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subita dall'attività della Procura di Palermo, a causa delle scelte operate dal capo di quell'Ufficio,
dott. Caselli. Secondo la difesa della Camera, simili opinioni erano state già manifestate, in sede
parlamentare ed in atti tipici, prima delle dichiarazioni del deputato Micciché ora in contestazione.
Nella memoria si richiamano, in particolare: un'interrogazione del deputato Forestiere (XII
Legislatura, n. 4/05334 del 16 novembre 1994); un'interpellanza del deputato Maiolo (XIII
Legislatura, n. 2/01335 del 30 luglio 1998); una dichiarazione di voto del deputato Mancuso del 9
luglio 1998; un'interpellanza con primo firmatario il deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 2/00252
del 21 ottobre 1996); un'interrogazione del deputato Parenti (XIII Legislatura, n. 3/02499 dell'11
giugno 1998); un'interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/01624 del 28 ottobre
1997); un'interrogazione del deputato Maiolo (XIII Legislatura, n. 3/01517 del 30 settembre 1997);
un'interrogazione del deputato Sgarbi (XII Legislatura, n. 3/00009 del 29 aprile 1994);
un'interrogazione, ancora, del deputato Sgarbi (XII Legislatura, n. 4/08683 del 21 marzo 1995);
un'interpellanza del senatore Novi (XIII Legislatura, n. 2/00445 del 2 dicembre 1997);
un'interpellanza del deputato Tassone (XIII Legislatura, n. 2/00783 del 17 novembre 1997);
un'interpellanza dei senatori Contestabile e Milio (XIII Legislatura, n. 2/00097 del 15 ottobre 1996);
un'interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/02766 del 30 luglio 1998); altra
interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/02843 del 15 settembre 1998);
un'interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/02476 dell'8 giugno 1998);
un'interrogazione del deputato Maiolo (XIII Legislatura, n. 3/01784 del 10 dicembre 1997);
un'interrogazione del deputato Fragalà (XIII Legislatura, n. 3/01801 del 15 dicembre 1997);
un'interrogazione del deputato Gasparri (XIII Legislatura, n. 3/02201 del 14 aprile 1998);
un'interrogazione con primo firmatario il deputato Giuliano (XIII Legislatura, n. 3/01712 del 19
novembre 1997); un'interrogazione del deputato Saponara (XIII Legislatura, n. 4/05613 del 27
novembre 1996); un'interrogazione con primo firmatario il senatore Marini (XIII Legislatura, n.
4/03013 del 20 novembre 1996); un'interrogazione del deputato Gasparri (XIII Legislatura, n.
3/01907 del 28 gennaio 1998); l'illustrazione, da parte del deputato Mancuso, dell'interrogazione n.
2-00950 nella seduta dell'11 marzo 1998. Questi atti starebbero a dimostrare che la critica
parlamentare nei confronti della Procura di Palermo e specificamente del suo capo, dott. Caselli,
accusato di aver abusato dei suoi poteri per finalità puramente politiche, è stata a dir poco diffusa,
trovando posto in numerosissimi atti di sindacato ispettivo e nelle discussioni parlamentari. Le
dichiarazioni extra moenia del deputato Miccichè, pertanto, non avrebbero fatto altro che divulgare
all'esterno il contenuto di atti tipici della funzione parlamentare, oltretutto senza espressioni
insultanti. Secondo la difesa della Camera, il deputato può giovarsi, ai fini della non sindacabilità
delle sue dichiarazioni, dell'attività parlamentare posta in essere sul medesimo tema da altri membri
delle Camere. La “paternità” delle dichiarazioni rese intra ed extra moenia non avrebbe alcuna
importanza al fine dell'attivazione della garanzia di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione.
Se, infatti, il contenuto sostanziale delle dichiarazioni è il medesimo, l'ammissione del sindacato su
quelle “esterne” determinerebbe, comunque, un'interferenza su quelle “interne”, e quindi la
violazione degli artt. 67 e 68, primo comma, della Costituzione, quale che fosse l'identità del
parlamentare dichiarante. Questa prospettazione si imporrebbe anche in considerazione della
funzione dell'insindacabilità, che è quella, oggettiva, di tutelare le istituzioni rappresentative, e non i
loro membri. Inoltre dovrebbe considerarsi che gli atti tipici sopra ricordati provengono, in gran
parte, da appartenenti al medesimo gruppo parlamentare del quale fa parte il deputato Miccichè, e la
consentaneità ideologica tra appartenenti al medesimo gruppo fa sì che non si possa immaginare
una separazione netta fra le attività di parlamentari diversi, ma appartenenti al medesimo gruppo.
Secondo la difesa della Camera, possono aversi tre tipi di opinioni di parlamentari manifestate extra
moenia, che debbono ricevere trattamenti diversi: (a) opinioni del tutto estranee alla sfera della
politica; (b) opinioni connesse alla sfera della politica, ma estranee alla politica parlamentare; (c)
opinioni connesse alla politica parlamentare. Mentre le prime non possono minimamente pretendere
alcuna specifica garanzia costituzionale diversa da quelle comuni, e le seconde, a loro volta, sono
assoggettate al regime ordinario, in forza del principio di parità di trattamento valorizzato dalle
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sentenze n. 10 e n. 11 del 2000 della Corte costituzionale, le terze, invece, dovrebbero godere della
copertura assicurata dall'art. 68, primo comma, Cost. Ciò perché il fatto che esse siano state
manifestate extra anziché intra moenia sarebbe meramente accidentale, e non potrebbe essere alla
base di un trattamento deteriore, che porrebbe a rischio l'autonomia del parlamentare. Nella società
dell'informazione – si sostiene – i tempi, i mezzi e le modalità della politica e della stessa attività
parlamentare sono profondamente mutati, e l'imposizione di una connessione stretta tra singoli atti
parlamentari e singole opinioni manifestate all'esterno determinerebbe un'eccessiva
formalizzazione, non più corrispondente ai tempi e alle modalità di esercizio del mandato
parlamentare. Una volta che si affermi il principio secondo cui le opinioni dei rappresentanti della
Nazione sono tutelate anche se manifestate al di fuori del recinto parlamentare, il discrimine tra ciò
che deve e ciò che non può essere tutelato non può che stare nella oggettiva connessione delle
opinioni con il complessivo contesto parlamentare, e cioè con i contenuti (di volta in volta
modificantisi) della politica parlamentare. 4. ¾ In prossimità dell'udienza, la difesa della Camera
dei deputati ha depositato una memoria illustrativa. 4.1. ¾ In via preliminare, viene eccepita
l'inammissibilità del ricorso, in quanto il Tribunale di Roma avrebbe misurato la sussistenza o meno
del nesso funzionale semplicemente su uno stralcio, oltretutto inesatto, delle dichiarazioni rese in
sede giornalistica dal deputato Miccichè. L'isolamento di certe frasi o espressioni nel più ampio
contesto delle dichiarazioni del parlamentare avrebbe impedito al ricorrente di valutare appieno il
collegamento tra queste dichiarazioni e la funzione parlamentare, che può essere apprezzato solo a
condizione di avere una completa rappresentazione delle une e delle altre. Si riprodurrebbe,
pertanto, la situazione già esaminata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 79 del 2005, con
cui è stata dichiarata l'inammissibilità del conflitto in un caso – ritenuto analogo – nel quale l'atto
introduttivo del conflitto non conteneva una compiuta esposizione dei fatti, non riportando le frasi
pronunciate dal parlamentare. In altri termini, il Tribunale ricorrente avrebbe indebitamente isolato
alcune frasi (oltretutto inesattamente riportate) dal complessivo contesto delle dichiarazioni extra
moenia del deputato Miccichè, e, in tal modo, non riuscirebbe nell'intento di dimostrare la
fondatezza delle proprie censure, perché non avrebbe tenuto nel debito conto l'intero dire del
menzionato parlamentare, indispensabile oggetto – invece – della valutazione ai fini
dell'applicazione dell'art. 68, primo comma, Cost. 4.2. ¾ Nel merito, la Camera dei deputati
ribadisce le conclusioni di non fondatezza del ricorso. A sostegno della sussistenza del nesso
funzionale, la difesa della Camera richiama l'interrogazione cofirmata dal deputato Miccichè, XIII
legislatira, n. 4/08769 del 1° aprile 1997, nella quale si ironizza duramente sulla «grande illusione
di mafia sconfitta, suscitata dal frastuono e dalla passerella di molti di coloro che operano o si
aggirano nell'ambito dell'antimafia» e si lamenta la «Babele delle rivelazioni dei pentiti». Invoca,
inoltre, l'interrogazione dello stesso deputato Micciché, XIII legislatura, n. 3/06609 del 27
novembre 2000, nella quale si censura il comportamento dell'allora sostituto procuratore della
Repubblica presso il Tribunale di Palermo Gioacchino Natoli, unitamente a quello del pubblico
ministero di Perugia Fausto Cardella, in particolare alla luce di una denuncia, in quanto «risulta, in
sostanza dalla descritta denuncia come un pubblico ufficiale, cioè il predetto dottor Natoli, tenuto
per legge all'osservanza del principio di legalità, abbia violato tale dovere, clamorosamente
manifestando la sua assoluta contrarietà allo sviluppo di quelle attività di indagine che, invece,
stante le dichiarazioni di Badalamenti (il quale aveva smentito Buscetta in ordine al suo teorema e
alla responsabilità del senatore Andreotti nell'omicidio Pecorelli), bene avrebbero potuto evitare
anni di inutili e persecutorie indagini e di un altrettanto inutile dibattimento; si tratta, secondo la
denuncia, di una manovra intenzionalmente tendenziosa, diretta ad accreditare la cosiddetta verità
nascente dalle artefatte dichiarazioni del collaborante Buscetta, manovra implicante una diretta
responsabilità processuale e morale del predetto dottor Natoli e verosimilmente del predetto dottor
Cardella». Nella difesa della Camera si richiamano, inoltre, ulteriori interpellanze ed interrogazioni
di altri parlamentari, appartenenti allo stesso gruppo del deputato Miccichè, in cui si imputano al
dott. Caselli gravi violazioni deontologiche ed il perseguimento di finalità non attinenti a interessi
oggettivi del suo ufficio. Ad avviso della Camera, gli atti tipici di funzione degli altri parlamentari
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appartenenti al medesimo gruppo non possono restare senza influenza nella ricostruzione del nesso
funzionale che lega dichiarazione extra e dichiarazione intra moenia. Quanto alla collocazione
temporale delle opinioni manifestate in sede parlamentare, per rapporto a quelle manifestate extra
moenia, nella memoria si rileva che la sentenza n. 221 del 2006 di questa Corte, in materia di
insindacabilità di consiglieri regionali, avrebbe ribadito che quel che conta non è l'anteriorità degli
atti di funzione rispetto alle dichiarazioni extra moenia, bensì il nesso di sostanziale contestualità tra
gli uni e le altre. Ad avviso della difesa della Camera, peraltro, l'oggettiva divulgazione all'esterno
ben potrebbe essere presente anche quando lo spatium temporis che separa opinioni e divulgazione
è notevole. Considerato in diritto 1. ¾ Il Tribunale di Roma, sezione VII penale, ha sollevato – con
ricorso depositato il 21 marzo 2003 – conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti
della Camera dei deputati, in relazione alla deliberazione, adottata dall'Assemblea il 19 settembre
2001 (documento IV-quater, n. 1), con la quale è stato dichiarato, in conformità alla proposta della
Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati, che i fatti per i quali è in corso il processo a
carico del deputato Miccichè per il reato di diffamazione a mezzo stampa in danno del dott.
Giancarlo Caselli, Procuratore della Repubblica di Palermo, concernono opinioni espresse
nell'esercizio delle funzioni parlamentari, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Le
dichiarazioni per le quali è in corso il procedimento penale sono state rese dal deputato Miccichè
nel corso di una intervista al periodico “Liberal” in data 17 settembre 1998. In quell'intervista, il
deputato Micciché avrebbe detto, tra l'altro, che il dott. Caselli «è stato mandato in Sicilia per dare
una spallata decisiva alla D.C.», che il predetto magistrato ha fatto «solo politica», con processi ai
politici che «servono solo a scrivere le verità pagate dei pentiti», perdendo «tempo e denaro» e così
senza lottare contro la vera mafia. 2. ¾ Deve, preliminarmente, essere ribadita l'ammissibilità del
conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con
l'ordinanza n. 218 del 2004. Non può essere accolta in proposito l'eccezione, avanzata dalla difesa
della Camera dei deputati, basata sul rilievo che l'atto introduttivo del presente giudizio sarebbe
privo dei necessari requisiti formali, per la mancanza di una compiuta esposizione dei presupposti
di fatto del conflitto. Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa della resistente, l'atto
introduttivo del conflitto riporta sia il testo integrale delle dichiarazioni rese dal deputato Micciché
nell'intervista al periodico “Liberal”, pubblicata il 17 settembre 1998, sia l'esatto tenore
dell'imputazione per la quale è stata disposta la citazione a giudizio del predetto parlamentare. Che
l'imputazione contestata al deputato Micciché non riporti tutte le frasi pronunciate dal medesimo,
ma soltanto alcuni stralci delle medesime, tratte dal più ampio contesto, non significa che vi sia
stata, nel caso, una libera rielaborazione ad opera dell'autorità giudiziaria ricorrente tale da impedire
l'accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate nel corso dell'intervista e gli eventuali
atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse potrebbero essere la divulgazione esterna. 3. ¾ Nel
merito, il ricorso è fondato. Va qui ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui,
per l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e
l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento, è necessario che tali dichiarazioni
possano essere identificate come espressione dell'esercizio di attività parlamentari (cfr., tra le più
recenti, sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 164, n. 176 e n. 193 del 2005). Indipendentemente
dall'eventuale contenuto diffamatorio di tali dichiarazioni, il compito di questa Corte è limitato alla
verifica se esse, ancorché rese al di fuori della sede istituzionale, siano collegate ad attività proprie
del parlamentare; costituiscano, cioè, espressione della sua funzione o ne rappresentino il momento
di divulgazione all'esterno (sentenza n. 508 del 2002 e n. 235 del 2005). Nel caso in esame, neppure
nella delibera di insindacabilità e nella proposta della Giunta per le autorizzazioni è possibile
rinvenire un riferimento ad atti tipici del parlamentare. In proposito, la proposta della Giunta, alla
quale rinvia la delibera di insindacabilità, contiene solo un generico richiamo al collegamento fra le
dichiarazioni del deputato Miccichè e il «contesto politico-parlamentare», giacché «le tematiche
della giustizia, del modo in cui essa è amministrata e del ruolo di taluni magistrati è oggetto ormai
da diversi anni di un vastissimo dibattito in tutto il Paese e soprattutto nelle sedi politicoparlamentari», ivi rilevandosi come «l'onorevole Miccichè abbia legittimamente esercitato il suo
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diritto di critica come parlamentare in ordine a questioni di indubbio rilievo pubblico, nel quadro di
quelle attività che possono senz'altro definirsi prodromiche o conseguenti agli atti tipici del mandato
parlamentare». A tale proposito, non può che ribadirsi che il «contesto politico» o comunque
l'inerenza a temi di rilievo generale dibattuti in Parlamento, entro cui tali dichiarazioni si possano
collocare, non vale in sé a connotarle quali espressive della funzione, ove esse, non costituendo la
sostanziale riproduzione delle specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle
proprie attribuzioni, siano non già il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun
senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale
coperto, a garanzia delle prerogative delle Camere, dall'insindacabilità), ma una ulteriore e diversa
articolazione di siffatto contributo, elaborata ed offerta alla pubblica opinione nell'esercizio della
libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21 della Costituzione (sentenza n. 51
del 2002). La difesa della Camera, a sostegno della sussistenza del nesso funzionale, richiama
l'interrogazione cofirmata dal deputato Micciché, XIII Legislatura, n. 4/08769 del 1° aprile 1997 e
l'interrogazione dello stesso deputato Miccichè, XIII legislatura, n. 3/06609 del 27 novembre 2000.
La seconda interrogazione (quella del 27 novembre 2000) non assume rilievo, in quanto posta in
essere dal deputato Miccichè in data posteriore alle dichiarazioni oggetto del presente giudizio (cfr.,
da ultimo, sentenza n. 260 del 2006). Ma anche il primo di tali atti, l'unico in ipotesi rilevante, in
quanto anteriore alle dichiarazioni al periodico “Liberal”, non è idoneo a giustificare
l'insindacabilità, perché non si riscontrano i due elementi che debbono contemporaneamente
ricorrere affinché possa dirsi sussistente il nesso funzionale: il legame temporale fra l'attività
parlamentare e l'attività esterna, di modo che questa assuma una finalità divulgativa della prima; la
sostanziale corrispondenza di significato tra opinioni espresse nell'esercizio di funzioni parlamentari
e atti esterni, non essendo sufficienti né una mera comunanza di argomenti né un mero contesto
politico cui esse possano riferirsi (sentenze n. 28 e n. 176 del 2005, n. 221 e n. 258 del 2006). Per
un verso, infatti, difetta il medesimo contesto temporale tra atto tipico e divulgazione extra moenia,
il primo risalendo ad oltre un anno prima. Per l'altro verso, l'interrogazione del 1° aprile 1997 –
riguardante genericamente la «grande diffusione di mafia sconfitta, suscitata dal frastuono e dalla
passerella di molti di coloro che operano o si aggirano nell'antimafia» e la «Babele delle rivelazioni
dei pentiti», senza alcun apprezzamento critico nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, Procuratore
della Repubblica presso il Tribunale di Palermo – ha un oggetto sostanzialmente diverso da quello
di cui alle dichiarazioni apparse su “Liberal”, in cui si imputa proprio al dott. Caselli, nella sua
qualità, di essere stato «mandato in Sicilia per dare una spallata decisiva alla D.C.», di avere fatto
«solo politica», con processi ai politici che «servono solo a scrivere le verità pagate dei pentiti»,
perdendo «tempo e denaro» e così senza lottare contro la vera mafia. Si deve, pertanto, concludere
che le espressioni usate dal deputato Micciché, per le quali è stato instaurato il procedimento penale
all'origine del presente conflitto, non trovano corrispondenza in alcun atto o intervento parlamentare
dello stesso deputato. La difesa della Camera, invero, sia nella memoria di costituzione che in
quella depositata in prossimità dell'udienza, ha richiamato numerosi atti tipici (interrogazioni ed
interpellanze) di altri parlamentari, molti dei quali appartenenti al medesimo gruppo del deputato
Miccichè, a dimostrazione di quanto fosse diffusa la critica parlamentare nei confronti della Procura
di Palermo e specificamente del suo capo, dott. Caselli, accusato di aver abusato dei suoi poteri per
finalità puramente politiche. E sostiene che il deputato potrebbe giovarsi, ai fini della non
sindacabilità delle sue dichiarazioni, dell'attività parlamentare posta in essere sul medesimo tema da
altri membri delle Camere, tanto più in un caso di appartenenza al medesimo gruppo parlamentare.
Tale tesi non può essere condivisa. Questa Corte ha già chiarito che la verifica del nesso funzionale
tra dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente parlamentari, nonché il controllo sulla
sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde, devono essere effettuati con riferimento alla
stessa persona, mentre «sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari» (sentenze n. 260 del 2006, n.
146 del 2005 e n. 347 del 2004). La circostanza che gli altri parlamentari, ai cui atti si
collegherebbero le dichiarazioni oggetto del giudizio penale, appartengono allo stesso gruppo del
deputato Micciché, non può influire sull'estensione della garanzia a soggetti diversi da quello cui si
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riferisce la delibera di insindacabilità. È vero che le guarentigie previste dall'art. 68 sono poste a
tutela delle istituzioni parlamentari nel loro complesso e non si risolvono in privilegi personali dei
deputati e dei senatori. Da questa esatta rilevazione non si può trarre, tuttavia, la conseguenza che,
come afferma la difesa della Camera dei deputati, esista una tale fungibilità tra i parlamentari iscritti
allo stesso gruppo da produrre effetti giuridici sostanziali nel campo della loro responsabilità civile
e penale per le opinioni espresse al di fuori delle Camere: «l'art. 68, primo comma, Cost. non
configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento parlamentare di un
appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti gli altri iscritti al gruppo
medesimo» (sentenza n. 249 del 2006). 4. ¾ Deve quindi concludersi che la Camera dei deputati,
nel deliberare l'insindacabilità delle dichiarazioni di cui si tratta, ha violato l'art. 68, primo comma,
della Costituzione e ha leso in tal modo le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente. La
deliberazione di insindacabilità deve essere, pertanto, annullata. per questi motivi LA CORTE
COSTITUZIONALE dichiara che non spettava alla Camera dei deputati affermare che le
dichiarazioni rese dal deputato Gianfranco Miccichè, oggetto del procedimento penale pendente
davanti al Tribunale di Roma, VII sezione penale, costituiscono opinioni espresse da un membro del
Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione;
annulla, di conseguenza, la delibera di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella
seduta del 19 settembre 2001 (documento IV-quater, n. 1). Così deciso in Roma, nella sede della
Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 2006.
-La verifica del nesso funzionale tra dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente
parlamentari, nonché il controllo sulla sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde,
devono essere effettuati con riferimento "alla stessa persona" , mentre sono irrilevanti gli atti
di altri parlamentari, financo nella ipotesi in cui si tratti di parlamentari appartenenti allo
stesso gruppo di cui faccia parte l’imputato. L’articolo 68, comma 1, della Costituzione ,
infatti, non configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento
parlamentare di un appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti
gli altri iscritti al gruppo medesimo.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE di FERIALE - SENTENZA 30 agosto 2006
…omissis…..
OsservaCon,sentenza del 26 gennaio 2006, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma de la
sentenza pronunciata dal Tribunale di Monza, Sezione distaccata di Desio, il 7 maggio 2004, con la
quale Sgarbi Vittorio era stato dichiarato responsabile del reato di diffamazione aggravata in danno
di Caselli Giancarlo, Aliquo’ Vittorio, Lo Forte Guido, Ingroia Antonio, Di Leo Giovanni e Sava
Lia, all’epoca dei fatti magistrati in servizio presso la procura della Repubblica di Palermo, in
relazione ad un articolo e ad una intervista pubblicati sul quotidiano “il Giornale” il 17 ed il 14
agosto 1998, e condannato alla pena di mesi uno di reclusione oltre al pagamento delle spese
processuali ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, ha ridotto la pena irrogata
all’imputato determinandola in euro mille di multa, confermando nel resto l’impugnata
sentenza.Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’
imputato, rassegnando due distinti atti di impugnazione. Nel ricorso proposto dall’avv. Giampaolo
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Cicconi si lamenta, come primo motivo, il mancato proscioglimento dell’imputato, avendo egli
legittimamente esercitato la funzione parlamentare, con conseguente applicabilità della prerogativa
sancita dall’articolo 68, comma 1 della Costituzione. Il giudice di appello si sarebbe, infatti, limitato
a :;otto lineare che la Camera dei deputati aveva già sancito - peraltro in epoca antecedente alla
entrata in vigore della legge 140/003 - la insussistenza dei presupposti per deliberare la
insindacabilità delle opinioni espresse dall’ imputato, ma nulla avrebbe detto a proposito della
mancata applicazione della garanzia costituzionale, omettendo al contempo di disporre, in base alla
richiamata novella, la trasmissione degli atti alla stessa Camera, che avrebbe poi dovuto deliberare
entro 90 giorni. Si prospetta, poi, violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alle
dedotte nullità delle notifiche di alcuni atti del processo per incertezza assoluta del destinatario, in
quanto nella relazione di notificazione sarebbe stata indicata, quale persona che aveva ricevuto gli
atti presso lo studio del difensore domiciliatario, un nominativo illeggibile qualificato come
“incaricata di ricevere le notifiche”. Nel terzo motivo viene prospettata violazione di legge, per
omessanotifica della ordinanza del 5 dicembre 2001, con la quale il giudice per le indagini
preliminari rinviava l’udienza preliminare dal 5 a16 dicembre 2001: sostiene, infatti, il difensore
che, in mancanza di una formale dichiarazione di contumacia, il giudice «avrebbe dovuto disporre il
rinnovo della notifica all’imputato e non ritenere: sufficiente la lettura dell’ ordinanza effettuata in
udienza alla presenza del sostituto del difensore». La sentenza sarebbe comunque da annullare, in
quanto la Corte territoriale avrebbe immotivatamente disatteso gli impedimenti addotti dall’
imputato per le udienze del 20 dicembre 2005 e 26 gennaio 2006. In subordine, ove fosse ritenuto
non documentato l’impedimento per il 20 dicembre 2005, dovrebbe qualificarsi come illegittima la
ordinanza emessa il 26 gennaio 2006, giacché essa si sarebbe fondata sulla erronea premessa - pur
mutuata da giurisprudenza di legittimità, che peraltro si contesta - secondo la quale la declaratoria di
contumacia pronunciata alla precedente udienza, avrebbe precluso “all’appellante la possibilità di
far valere impedimenti alle udienze successive...”. Nel quarto motivo, il difensore denuncia
violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla mancata applicazione delle esimenti
del diritto di critica o di cronaca. Nelle specie – osserva, infatti, il ricorrente – l’imputato si sarebbe
“limitato a censurare il comportamento delle persone offese, esprimendo comunque giudizi e
convinzioni personali; concetti peraltro ripresi da numerosi atti ispettivi ed interpellanze presentate
da altri parlamentari”. Anche ammesso – sottolinea ancora l’atto di ricorso – che le frasi riferite
all’imputato potessero avere contenuto denigratorio, il medesimo dovrebbe ritenersi non punibile
“per avere esercitato il diritto di critica garantito dall’articolo 21 della Costituzione”, anche se
esercitato “con toni coloriti e polemici”.Ugualmente numerose, e in larga misura riproduttive delle
analoghe questioni già dedotte in sede di appello, sono le censure sviluppate nel ricorso sottoscritto
dall’avvocato Salvatore Lo Giudice. Nel primo motivo si denuncia “esercizio da parte del giudice di
una potestà riservata dalla legge all’organo legislativo” in riferimento alla mancata trasmissione
degli atti alla Camera cui apparteneva l’imputato, ai sensi dell’articolo 3,ella legge 140/03: Tale
norma, infatti, non consentiva al giudice alternative alla trasmissione degli atti alla Camera
competente, ove fosse stata ritenuta ne n direttamente applicabile l’esimente di cui all’articolo 68,
comma 1, Costituzione, e ciò a prescindere dalla precedente deliberazione dell’organismo
parlamentare. Nel secondo motivo si rinnova la eccezione della nullità della notifica di «tutti gli atti
del procedimento in particolare del decreto che dispone il giudizio e dell’avvisi di fissazione della
udienza preliminare, effettuata all’imputato nel domicilio irritualmente (e perciò inefficacemente)
eletto all’ atto della nomina del difensore li fiducia», reputandosi non conferenti le contrarie
deduzioni svolte al riguardo dalla Corte territoriale. Sotto altro profilo - sottolinea il difensore
ricorrente - la decisione impugnata sarebbe viziata anche con riferimento alla già eccepita nullità del
a ordinanza dichiarativa della contumacia intervenuta il 6 dicembre 200 l nella udienza preliminare.
Infatti, nel disporre il rinvio dal 5 al 6 dicembre 2001, il giudice non provvedeva alla rinnovazione
della notifica all’imputato assente, «considerando sufficiente la lettura della ordinanza effettuata in
udienza in presenza del sostituto del difensore di fiducia presso il cui studio l’imputato risultava
(pure inefficacemente, come si è detto) domiciliato». Si denuncia, poi, violazione di legge e vizio di
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motivazione in riferimento a varie questioni attinenti l’ ammissibilità della costituzione le delle parti
civili. Si rinnova, infatti, la censura secondo la quale la costituzione le di parte civile sarebbe stata
viziata dalla assenza di valida procura ai sensi dell’articolo 100 Cpp, giacché la procura speciale
conferita a norma dell’articolo 122 del codice di rito ai fini della costituzione, non equivale a
conferimento della rappresentanza processuale che scaturisce dal mandato defensionale. Si lamenta,
poi, ugualmente vizio di motivazione in riferimento alla replica - reputata nonappagante, - che la
Corte territoriale avrebbe offerto alla censura secondo la quale le parti civili Caselli e Lo Forte
avrebbero dovuto essere escluse, avendo esercitate l’azione civile in sede propria nei confronti
dell’editore – responsabile civile - per la integralità del danno subito. Nel quarto motivo di ricorso si
denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del
delitto di diffamazione. I giudici dell’appello, infatti, si sarebbero limitati a riportarsi alla
motivazione della sentenza di primo grado senza prendere in considerazione le censure prospettate
nell’atto di appello, che vengono diffusamente riprodotte. In particolare, non sarebbe spiegata la
legittimità della individuazione dei soggetti indicati quali persone offese nella imputazione di cui al
capo A) della rubrica, e conseguentemente, la diffamazione che si sarebbe realizzata in loro danno.
Del pari carente sarebbe la motivazione nella parte in cui ha escluso l’esimente del diritto di cronaca
e di critica politica, deducendo genericamente la prospettazione di “circostanze false”, “modalità
espositive suggestive” e “ricche di valenza diffamatoria”. Violazione di legge e vizio di
motivazione si denunciano, pure, nel quinto ed ultimo motivo di ricorso, in riferimento alla mancata
assunzione delle prove indicate nei motivi di appello, giacché la reiezione della richiesta di
rinnovazione della istruzione dibattimentale si sarebbe fondata su una tautologica delibazione circa
la estraneità delle prove stesse all’oggetto del processo.In prossimità della udienza, il difensore
delle parti civili ha depositato documentata memoria, a conclusione della quale ha sollecitato
declaratoria di rigetto degli atti di ricorso proposti dai difensori dell’imputato.Le censure poste a
base degli atti di ricorso sono prive di fondamento. La prima, fra le numerose eccezioni in rito
sollevate dai difensori dell’imputato, fa leva sulla asserita mancata identificazione della persona che
avrebbe materialmente ricevuto gli atti notificati presso il difensore domiciliatario. Osserva infatti il
ricorrente che dal complesso delle disposizioni dettate dagli articoli 157, 167 e 168 Cpp,
emergerebbe che il nucleo essenziale del procedimento di notificazione sarebbe costituito dalla
consegna della copia dell’atto da notificare al destinatario, in quanto unico mezzo che consente la
conoscenza di esso; e tale attività ufficiale notificatore deve attestare nella relazione di notifica, ai
fini – si puntualizza – della prova di essa, “superabile solo con querela di falso”. Nella specie,
poiché nelle varie notificazioni destinate all’imputato presso il difensore gli atti sarebbero stati
consegnati a persona il cui nominativo non risulterebbe leggibile e qualificata come “incaricato di
ricevere le notifiche”, mancherebbe la compiuta indicazione delle generalità del consegnatario, la
quale precluderebbe “la sua identificazione, risolvendosi il tutto nella nullità prevista dall’articolo
171 lettera d) Cpp”. L’eccezione è palesemente destituita di fondamento. Va subito osservato,
infatti, che la causa di nullità della notificazione evocata dal ricorrente attiene esclusivamente
all’ipotesi in cui siano state violate le disposizioni inerenti la persona cui deve essere consegnato
l’atto: vale a dire, una gamma di situazioni assai ampia che può ricomprendere evenienze fra loro
non poco diversificate: quali la incapacità del consegnatario; il mancato possesso delle qualità
legittimanti; il mancato rispetto delle disposizioni sui luoghi; la mancata osservanza dell’ordine da
rispettare tra i possibili consegnatari di cui all’articolo 157 Cpp. Il vizio, quindi, presuppone
l’accertamento di determinati “stati di fatto” e non certo come dedotto nella specie – la semplice
difficoltà di “lettura” delle generalità dell’accipiens riportate nella relazione di notificazione,
quando di tale persona, per di più, sia stata precisata la qualifica che la pone in relazione al luogo in
cui la notifica è stata eseguita ed alla persona del destinatario della stessa. In tale cornice, risulta
quindi di tutta evidenza come la semplice indicazione della qualità di “incaricata di ricevere le
notifiche”, riferita a persona presente nello studio di un avvocato e che ivi svolga quelle specifiche
mansioni, ne permetta, in modo quanto mai agevole, la pronta identificazione; con l’ovvia
conseguenza di rendere del tutto eccentrica la stessa astratta configurabilità del vizio prospettato dal
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ricorrente, presupponendo esso il positivo accertamento della avvenuta violazione delle disposizioni
di legge circa il consegnatario della copia dell’atto. D’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte
ha avuto modo di precisare che il termine di “incaricato” utilizzato dall’ufficiale giudiziario nella
individuazione della persona che ha ricevuto la notifica presso lo studio professionale del difensore,
è idoneo ad indicare la temporanea presenza di colui che, negli orari di apertura dello studio
professionale, ed in assenza dell’avvocato, svolge esclusivamente la funzione di ricevere la posta
(Cassazione, Sezione seconda, 16 gennaio 2003, Noviello).Altre questioni in rito, dedotte sempre
dalla difesa dell’imputato, presentano, fra loro, aspetti di connessione che ne consigliano una
trattazione unitaria. Viene, anzitutto, nuovamente proposta la eccezione di nullità della notificazione
degli atti introduttivi del processo, in quanto eseguita nel domicilio eletto con forme irrituali
(l’elezione di domicilio era infatti contenuta nell’atto di nomina del difensore, cosicché essa
risultava «effettuata con modalità diverse da quelle tassativamente previste dal codice di rito»),
insistendosi nel reputare come assoluta la nullità che sarebbe scaturita dall’indicato vizio. Anche
tale eccezione risulta, però, del tutto priva di consistenza giuridica. Come esattamente ricordano le
parti civili, questa Corte ha avuto modo di puntualizzare che la nullità di cui all’articolo 179,
comma 1, Cpp, si riferisce alle sole ipotesi in cui sia stata del tutto omessa la notificazione della
citazione, oppure che questa sia stata fatta con forme assolutamente non idonee a raggiungere lo
scopo. Al tempo stesso, si è pure ritenuto che, quando, nonostante la sua idoneità in astratto, la
notificazione effettuata in forma diversa da quella prescritta noi ha conseguito lo scopo di portare
l’atto di citazione a conoscenza dell’imputato, questi, se vuole far valere la nullità assoluta stabilita
dall’articolo 179, comma 1, Cpp, non può limitarsi a denunciare l’inosservanza della norma
processuale, ma deve anche rappresentare al giudice di non aver avuto conoscenza dell’atto e deve
eventualmente avvalorare l’affermazione con elementi che la rendano credibile. «In atti si è
affermato in un processo basato sulla iniziativa delle parti è normale che anche l’esercizio dei
poteri officiosi del giudice sia mediato dall’attività delle parti, quando dagli atti non risultino gli
elementi necessari per l’esercizio di quei poteri e solo le parti sono in grado di rappresentarli al
giudice e di procurarne l’acquisizione» (Cassazione, Su, 27 ottobre 2004, Palumbo). Nella specie,
dunque, non soltanto non sono stati prospettati elementi dai quali desumere che le notificazioni
effettuate presso il difensore “domiciliatario” non abbiano raggiunto lo scopo di portare gli atti a
conoscenza dell’imputato, ma può al contrario dedursi l’esatto reciproco, cosi come reciproca era
l’ipotesi delibata dalla richiamata sentenza delle Su di questa Corte (in quel caso, infatti, in luogo
della notificazione nel domicilio eletto, la notificazione era stata eseguita presso la casa di
abitazione, mediante consegna dell’atto alla moglie convivente dell’imputato). Occorre, infatti, qui
ribadire che l’elezione di domicilio ha le connotazioni tipiche di un atto a carattere negoziale,
costitutivo, che comporta una manifestazione di volontà (ex multis, Cassazione, Sezione. quarta, 16
giugno 2005, De Stefano); con l’ovvia conseguenza che, ove la relativa “scelta”, ancorché
manifestata attraverso formalità diverse da quelle prescritte, risulti essere stata in concreto
soddisfatta, ben può presumersi che il provvedimento di notificazione abbia raggiunto l’effetto di
portare l’atto a conoscenza del destinatario. Per altro verso, non è senza significato neppure la
circostanza che le “forme” attraverso le quali è stata nella specie effettuata la dichiarazione di
elezione di domicilio, risultino esser state nella sostanza satisfattive dei “requisiti” che le specifiche
formalità prescritte dall’articolo 162 Cpp mirano a presidiare: vale a dire da un lato, la certa
provenienza della elezione dall’interessato (attraverso la autentificazione della sottoscrizione, nel
caso in esame effettuata dallo stesso difensore); dall’altro, la certezza della data ed il carattere
recettizio della dichiarazione in questione. (attraverso il deposito dell’atto nella cancelleria del
giudice). D’altra parte, se è ben vero che la giurisprudenza prevalente di questa Corte afferma che la
elezione di domicilio è atto personale a forma vincolata, da compiersi esclusivamente secondo le
modalità indicate nell’articolo 162 Cpp, traendosi da ciò il corollario che non può riconoscersi
validità ed efficacia alla elezione di domicilio fatta presso il difensore e da questi depositata in
cancelleria, anziché dichiarata a verbale dall’imputato o da questi trasmessa all’autorità procedente
mediante telegramma o lettera raccomandata, con sottoscrizione autenticata (Cassazione, Su, 27
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novembre 1998, Boscotrecase; Cassazione, Sezione prima, 8 febbraio 2001, Antonelli; v. anche,
Cassazione, Sezione sesta, 12 giugno 2003, Conte), non può sottacersi che, più di recente, è stato
affermato che, in tema di dichiarazione o elezione di domicilio, la forma vincolante che condiziona
l’efficacia dell’atto è esclusivamente quella relativa alla sua sottoscrizione ed all’autenticazione
della firma, trattandosi di atto decisionale dell’imputato. Per quanto attiene, invece, alle modalità di
comunicazione all’autorità giudiziaria, l’articolo 162, comma 1, Cpp, opera nel senso che la
trasmissione tramite il mezzo postale costituisce una facilitazione per l’imputato e non rende
invalide altre modalità di presentazione che offrano maggiori garanzie, quali la presentazione per
mezzo del difensore o di altra persona espressamente autorizzata (Cassazione, Sezione prima, 7
febbraio 2006, Rossini). Non v’è dubbio, quindi, che, in presenza di un siffatto contesto normativo,
le notificazioni eseguite presso il difensore, conformemente alla espressa volontà manifestata
dall’imputato, abbiano raggiunto il loro effetto, con la conseguenza di precludere la configurabilità
di una nullità assoluta, a norma dell’articolo 179, comma 1, Cpp, sub specie di omessa citazione
dell’imputato.In tale prospettiva, allora, si dissolve anche la fondatezza delle censure relative alla
mancata notificazione all’imputato dell’avviso di differimento della udienza dal 5 al 6 dicembre
2001, giacché l’avviso dato verbalmente al difensore equivaleva, a norma dell’articolo 148, comma
5, Cpp, alla notificazione dell’avviso all’interessato, in quanto dato oralmente difensore
domiciliatario.Neppure fondata è la questione, sollevata dalla difesa del ricorrente, secondo la quale
risulterebbe illegittima perché in contrasto con il regime della contumacia, quale scaturito dalle
novelle introdotte in sede di udienza preliminare ad opera dalla legge 479/91, sotto gli articoli 420 e
seguenti, e dei corrispondenti i chiami che compaiono nella disciplina relativa alla costituzione delle
parti in dibattimento (articolo 484 Cpp) l’ordinanza emessa il 26 gennaio 2096; illegittimità che
si desume dal fatto che il provvedimento in questione si sarebbe fondato sull’assunto ritenuto
erroneo per il quale la declaratoria di contumacia pronunciata nel corso della precedente udienza,
avrebbe precluso «all’appellante la possibilità di far valere impedimenti alle udienze successive».
Al riguardo, infatti, va rammentato che questa Corte ha avuto modo di affermare che la scelta
dell’imputato di rimanere estraneo al processo, conclamata dalla dichiarazione di
contumacia,determina che in caso di rinvio dell’udienza non possa far valere un impedimento a
comparire per la prosecuzione, senza far precedere la richiesta dalla volontà esplicita di volervi
partecipare al processo (Cassazione, Sezione seconda, 19 febbraio 2003, Pm in proc. Leone, mass.
Uff. n. 227244). E ciò gia basterebbe a dissolvere, ab imis, il fondamento della doglianza. Ma, più
radicalmente, e contrariamente all’assunto del ricorrente, parrebbe che la peculiare natura e
disciplina del procedimento in contumacia non a caso annoverato, sotto la vigenza e secondo la
sistematica del codice abrogato, fra i procedi, lenti speciali si presenti strutturalmente e
funzionalmente “insensibile” rispetto agli impedimenti che possano riguardare la persona di chi sia
stato regolari ente dichiarato contumace ed abbia quindi liberamente scelto la peraltro
ampiamente garantita via del procedimento in absentia. La difesa dell’imputato, a sostegno della
propria tesi, sottolinea la portata a proprio avviso innovativa che rivestirebbe l’uso della
locuzione «Quando, l’imputato ... non si presenta all’udienza», che compare nel comma 1 dell’
articolo 420ter, in luogo della espressione «Quando l’imputato non si presenta alla prima udienza»
che figurava nell’abrogato articolo 486. Ma la diversità lessicale che il ricorrente segnala non
sembra assumere portata dirimente né uno specifico valore denotativo, agli effetti che qui
interessano, posto che la stessa ben potrebbe giustificarsi con l’esigenza di coordinamento formale
scaturita dalla diversa collocazione “topografica” della disciplina relativa all’istituto della
contumacia: dagli atti preliminari al dibattimento, appunto, all’«udienza» preliminare. Più
significativa pare, invece, la circostanza che, mentre l’impedimento dell’imputato assume articolata.
disciplina e pregnanza di garanzie in stretta correlazione con il momento in cui occorre valutare
l’esistenza dei presupposti per la declaratoria della contumacia della quale, quindi, rappresenta
condizione “ontologicamente” negativa una volta che lo status di contumace sia stato ritualmente
attribuito, soltanto la comparizione e non altre evenienze sono considerati dalla legge, come
fattispecie “solutorie” del procedimento contumaciale. A seguito della comparizione, infatti,
51
ancorché tardiva, ma comunque antecedente all’epilogo della udienza preliminare o del
dibattimento, il «giudice revoca l’ordinanza che ha dichiarato la contumacia» (articolo 420quater,
comma 3, Cpp), reintroducendo, quindi – non a caso attraverso un atto formale, quale è il
provvedimento di revoca – l’ordinario procedimento “in presenza”, che assicura le corrispondenti
garanzie partecipative all’imputato comparso. Ove l’imputato contumace fosse ammesso a dedurre
impedimenti nel successivo corso della udienza preliminare o del giudizio, cesserebbe qualsiasi
distinzione rispetto all’imputato sempre presente o a quello semplicemente assente, giacché
troverebbe applicazione, in ogni caso, la disciplina dettata dall’articolo 420ter, comma 3, Cpp, la
quale, invece, non soltanto non è in alcun modo richiamata dall’articolo 420quater (l’articolo 420ter
è in atti richiamato soltanto nei commi 1 e 2), ma si presenterebbe come previsione del tutto
eccentrica rispetto agli stessi connotati tipici del procedimento contumaciale (sul piano concettuale,
infatti, la figura del contumace “impedito” è, davvero, una contraddictio in adiecto. Non può
pertanto condividersi il diverso orientamento che sembra espresso in Cassazione, Sezione sesta, 21
dicembre 2000, Santangelo, mass. Uff. 219830).A proposito, poi, dell’insistito richiamo alle
prerogative che avrebbero assistito la posizione dell’imputato quale parlamentare e che sarebbero
state vulnerate nel mancato riconoscimento del legittimo impedimento a comparire, va rammentato
come la giurisprudenza costituzionale formatasi sul punto risulti ormai attestata nell’affermare che
la posizione dell’imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale, non è assistita
da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite dall’articolo 68, comma 1 e 2, della
Costituzione. Al di fuori delle ipotesi ivi disciplinate trovano infatti applicazione, nei confronti
dell’imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e
soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali. È dunque compito esclusivo delle
competenti autorità giurisdizionali interpretare ed applicare le regole processuali, anche stabilendo
se ed in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti dalla sussistenza di doveri funzionali relativi
ad attività di cui sia titolare l’imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dovere essere
equiparate – secondo quanto ora dispone l’articolo 420ter comma 1, Cpp a cause di forza
maggiore. Non vi è quindi luogo in questo campo ha puntualizzato la Corte costituzionale,
chiamata a dirimere i purtroppo non infrequenti conflitti tra autorità giudiziaria e Parlamento ad
individuare regole speciali, derogatorie dal diritto comune, e pertanto nemmeno la regola per cui
costituirebbe in ogni caso impedimento assoluto quelle (e solo quello) derivante dalla necessità per
l’imputato di prendere parte a votazioni in assemblea: il che significherebbe introdurre una
distinzione fra diversi aspetti della attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi
diritti e doveri funzionali, non potendosi inoltre escludere che l’esigenza di indire votazioni insorga
in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla
preventiva programmazione dei lavori. Tuttavia, l’autorità giudiziaria, allorquando agisce nel
campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze, deve tener conto non solo delle esigenze
delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri
poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni, e cosi ai fini
dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza. Pertanto. il
giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze. entrambe di valore
costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far
prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda. Da qui, anche, l’onere per il giudice di
concordare un calendario delle udienze (evenienza, questa, che la sentenza impugnata dà atto essere
avvenuta) che tenga conto delle esigenze del parlamentare e che permetta, quindi, di evitare
coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari (v. Corte costituzionale, sentenze
225/01, 263/03, 284/04 e 451/05). Posto, dunque, che nella vicenda processuale che viene qui in
discorso la delibazione degli impegni di. (l’imputato è stata ritualmente effettuata dai giudici a
quibus, ne deriva che le doglianze riproposte al riguardo in sede di ricorso si rivelano del tutto
destituite di fondamento.Alle medesime conclusioni occorre pervenire anche per ciò che concerne il
motivo di ricorso nel quale si lamenta la mancata trasmissione degli atti alla Camera di
appartenenza dell’imputato, a seguito della entrata in vigore della legge 140/03 e della correlativa
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cosiddetta “pregiudiziale parlamentare” in riferimento alla eccepita insindacabilità delle opinioni
espresse dall’imputato medesimo, a nonna dall’articolo 68, comma 1, della Costituzione. Al
riguardo, infatti, del tutto correttamente i giudici del merito hanno disatteso la fondatezza della
identica questione già loro devoluta, sul rilievo che la trasmissione degli atti, in forza dello jus
superveniens, si rivelava del tutto superflua, avendo la Camera dei deputati – a suo tempo investita
dello scrutinio sulla sussistenza o meno della immunità parlamentare in riferimento alla presente
vicenda – aveva negato la copertura costituzionale della insindacabilità, e perciò stesso omesso di
dare vita al procedimento per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato. Come, infatti, hanno
correttamente rammentato le parti civili, la Corte costituzionale (v. sentenza 120/04) ha avuto modo
di puntualizzare che la disciplina introdotta dalla legge 140/03, a parte l’articolo 1 relativo ai
processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato, rappresenta null’altro che il coronamento
della medesima linea attuativa già tracciata con la lunga ed ininterrotta catena di decreti legge, mai
convertiti, succedutisi tra il 1993 ed il 1996, senza che, peraltro, potessero intravedersi – come
d’altra parte sarebbe stato precluso ad una legge ordinaria – elementi concretamente innovativi
rispetto al testo costituzionale ed alla (ormai imponente) giurisprudenza costituzionale formatasi a
margine della prerogativa della insindacabilità parlamentare. Dunque, da un lato, la perdurante
validità delle specifiche esigenze di collegamento funzionale fra le opinioni espresse extra moenia
dal parlamentare e gli atti tipici della relativa funzione – nesso funzionale i cui presupposti e
requisiti sono stati reiteratamente scandagliati in numerosissime pronunce del giudice delle leggi –
mentre, dall’altro, l’esigenza di correlare quel nesso alla tutela dei valori di eguaglianza dei cittadini
di fronte alla legge e della eguale tutela giurisdizionale e diritto di agire e di difendersi in
giudizio.Un’esigenza di bilanciamento, dunque, di primario risalto, al punto – ha soggiunto la Corte
da essere stata «avvertita anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo,
come dimostrano, in particolare, le decisioni 30 gennaio 20o3 sui ricorsi n. 40877/98 e n. 45649/99
[si veda, successivamente, la decisione del 3 giugno 2004 sul ricorso n. 73936/01, nonché, da
ultimo, la decisione del 6 dicembre 2005, sul ricorso n. 23053], secondo le quali l’assenza di un
chiaro legame tra l’opinione espressa e l’esercizio di funzioni parlamentari postula una
interpretazione stretta della proporzionalità esistente tra il fine perseguito ed i mezzi impiegati,
specialmente nei casi in cui, sulla base della natura asseritamente politica della dichiarazione
contestata, venga negato il diritto del soggetto leso di agire in giudizio». In tale contesto, dunque, la
già intervenuta delibazione parlamentare circa la vicenda oggetto del presente procedimento e della
sua non riconducibilità al plesso delle garanzie sancite dall’articolo 68 Costituzione, non soltanto
rendeva del tutto superflua la trasmis3ionè degli atti da parte della autorità giudiziaria, ma
paradossalmente ove tale trasmissione fosse stata in concreto disposta, la stessa si sarebbe
addirittura potuto“interpretare” quale strumento di atipica ingerenza, giacché la scelta di “non
reagire” al processo da parte della Camera dei deputati, proprio perché adottata in sede
politico parlamentare, assumeva le connotazioni di irreversibile espressione della volontà di quel
potere costituzionale. Per altro verso, la mancata evocazione di specifici atti parlamentari compiuti
o riferibili all’imputato, quali “opinioni” delle quali gli articoli oggetto di imputazione avrebbero in
ipotesi rappresentato elementi meramente divulgativi, impedisce in radice di poter ravvisare, nella
specie, i presupposti per ritenere applicabile, in questa sede, la causa di non punibilità prevista
dall’articolo 68, comma 1, Costituzione, che uno degli atti di ricorso sollecita, addirittura, in via
preliminare”. Né può certo venire in soccorso ad una siffatta impostazione accenno, che compare
sempre nel ricorso proposto dall’avv. Cicconi, al fatto che le espressioni usate dall’imputato
rinvenissero “copertura” agli effetti della sindacabilità ex articolo 68. Costituzione in
«numerosi atti ispettivi ed interpellanze presentate da altri parlamentari», giacché la giurisprudenza
costituzionale è da tempo consolidata nell’affermare che la verifica del nesso funzionale tra
dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente parlamentari, nonché il controllo sulla
sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde, devono essere effettuati con riferimento «alla
stessa persona», mentre sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari, financo nella ipotesi in cui si
tratti di parlamentari appartenenti allo stesso gruppo di cui faccia parte l’imputato. Si è infatti
53
sottolineato, al riguardo, che è ben vero che le guarentigie previste dall’articolo 68 Costituzione
sono poste a tutela delle istituzioni parlamentari nel loro complesso e non si risolvono in privilegi
personali dei deputati e dei senatori. Ma da questa esatta rilevazione non può trarsi tuttavia la
conseguenza che esista una ti: e fungibilità tra i parlamentari iscritti allo stesso gruppo da produrre
effetti giuridici sostanziali nel campo della loro responsabilità civile e penale per le opinioni e:
presse al di fuori delle Camere: l’articolo 68, comma 1 Costituzione si è infitti efficacemente
sottolineato non configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento
parlamentare di un appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti gli altri
iscritti al gruppo medesimo (su tali aspetti, v Corte costituzionale, sentenze 317/06, 260/06, 249/06,
146/05 e 347/04).Devono infine essere respinte anche tutte le questioni relative alle parti civili. A.,
proposito, infatti, della dedotta irritualità della procura conferita dalle parti civili, che si asserisce
essere formalmente corretta ai fini della costituzione di parte civile, n, i non idonea a conferire
anche valida rappresentanza processuale, «tanto che in calce all’atto di costituzione si legge una
nomina di difensore in favore di sé stesso dell’avvocato nominato procuratore ex articolo 122 Cpp»,
basterà osservare che, al di là d. gli aspetti meramente nominalistici, ciò che conta è il profilo
sostanziale degli atti di conferimento dei poteri, giacché è su di essi che va misurata tanto la
legitimatio ad causam che la legitimatio ad processum. Ebbene, l’atto di procura speciale, con
autentica notarile, sottoscritto dalle odierne parti civili, non soltanto “nominativa” e “costitutiva”
quali procuratori speciali gli “avvocati...” affinché, alternativamente, si costituiscano parte civile: in
loro vece nel procedimento penale a carico di…” ma attribuiva agli stessi anche il compito di
rappresentanti e difenderli “con ogni necessaria facoltà, compresa quella di estendere la costituzione
di parte civile nei confronti di tutti gli eventuali responsabili, di nominare sostituiti ed altri
difensori, con espresso riferimento ad ogni grado del giudizio, di citare il responsabile civile di
presentare impugnazioni, di ricorrere in Cassazione, eleggere domicilio, presentare memorie,
richieste di risarcimento e conclusioni e fare quant’altro necessario fino al momento in cui sarà
ottenuto il risarcimento integrale dei danni”. Non si vede, dunque, quali altre “formule” le parti
private avrebbero dovuto adottare per il conferimento, accanto alla rappresentanza “sostanziale”,
anche del correlativo potere di rappresentanza processuale. La procura è quindi valida anche quale
nomina di difensore (v. Cassazione, Sezione quinta, 7 marzo 1995, Prati; Sezione quarta, 11 giugno
2001, Emanuele; Sezione quinta, 8 ottobre 2002, Farneti).Palesemente infondata è, poi, la pretesa
inammissibilità della domanda risarcitoria delle parti civili Caselli o Lo Forte nei confronti
dell’imputato, in considerazione della intervenuta condanna al risarcimento in sede civile a carico
dell’editore e del direttore responsabile. Anche a volere prescindere, infatti, dai pur puntuali rilievi
svolti dai difensori delle parti civili nella documentata memoria prodotta per l’udienza, ove si
segnala la diversità della posizione del direttore e dell’editore del quotidiano convenuti in sede
propria e della non integralità del danno ivi richiesto e riconosciuto, è assorbente rilevare che, in
sede penale, la condanna risarcitoria è stata pronunciata solo sull’an, riservandosi la liquidazione
del quantum in separata sede. Dunque, non v’è spazio alcuno per ritenere sine titulo la condanna
pronunciata per il capo civile.Manifestamente infondato, oltre che generico, è anche il quinto ed
ultimo motivo del ricorso proposto dall’avvocato Lo Giudice, nel quale ci si duole della scarna
motivazione con la quale il giudice dell’appello avrebbe disatteso la richiesta di assunzione
probatoria sollecitata nei motivi di impugnazione. Non può non rammentarsi, al riguardo, che la
disposizione di cui all’articolo 603 Cpp, è fondata sulla presunzione di completezza dell’indagine
probatoria esperita in primo grado e subordina la rinnovazione del dibattimento, da una parte, alla
condizione di una sua necessità, che il legislatore qualifica come “assoluta” per sottolineare la
oggettività e la insuperabilità con ricorso agli ordinari espedienti processuali, e, dall’altra, alla
condizione che il giudice, cui è demandata ogni valutazione in proposito, la percepisca e la valuti
come tale, vale a dire come un ostacolo all’accertamento della verità del caso concreto,
insormontabile senza il ricorso alla rinnovazione totale o parziale del dibattimento. La
discrezionalità dell’apprezzamento, dalla legge rimesso al giudice di merito, determina su altro
versante l’incensurabilità in sede di legittimità di una valutazione, come nella specie, correttamente
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anche se succintamente motivata, posto che l’apprezzamento circa la pertinenza e la rilevanza del
novum evocato a corredo della domanda probatoria, necessariamente si salda all’intero panorama
già scandagliato in prime cure (sul carattere eccezionale della rinnovazione della istruzione
dibattimentale in appello, cfr. ex multis, Cassazione, Sezione seconda, 1 dicembre 2005, Di Gloria
Il Grande).Quanto, infine, alle doglianze relative alla carenza di motivazione in ordine alle ragioni
per le quali si sarebbe realizzata la diffamazione in danno delle persone indicate nella imputazione
relativa al capo a) della rubrica, ed all’identico vizio che affliggerebbe la sentenza impugnata sul
più generale profilo della mancata applicazione della esimente del diritto di cronaca e di critica
politica, i rilievi non colgono nel segno, giacché i giudici dell’appello hanno, sia pur succintamente,
esaminato le stesse doglianze, disattendendole alla luce dei rilievi già sviluppati nella sentenza di
primo grado. In merito al primo profilo, infatti, nella sentenza di primo grado significativamente si
premette: «quanto all’esatta individuazione dei magistrati non citati nominativamente, si osserva
subito, per sgombrare il campo da eventuali contrarie argomentazioni che tale individuazione deve
ritenersi emergere con tutta evidenza, al momento dei fatti, per essere gli stessi magistrati
appartenenti al pool che svolgeva indagini nei confronti del collega Bombardini, più volte citati
nominativamente e con la pubblicazione delle rispettive fotografie sulla maggior parte delle testate
nazionali e locali, per cui non sussisteva alcuna possibilità di errore identificativo». Ed è noto, al
riguardo, che, in tema di diffamazione, non è necessario che la persona cui l’offesa è diretta sia
nominativamente designata, essendo sufficiente che essa sia indicata in modo tale da poter essere
individuata in maniera inequivoca (Cassazione, Sezione quinta, 18 gennaio 1993, Pendinelli).
Quanto, poi, al mancato riconoscimento della esimente del diritto di cronaca o di critica politica, la
relatio che la sentenza di appello opera agli enunciati in fatto già presenti nella decisione adottata il
primo grado, si rivela, in sé, legittima, posto che, una volta attestata la falsità delle circostanze
esposte nell’articolo e nella intervista oggetto di imputazione, e verificata, la portata lesiva della
onorabilità delle persone offese che palesemente caratterizzavano quelle stesse circostanze, «per
giunta riportate puntualizza la sentenza impugnata con modalità espositive suggestive, ricche
di valenza diffamatoria», v’è quanto basta per ritenere superata la soglia all’interno della quale
vanno parametrati i confini entro i quali va riconosciuto il diritto, costituzionalmente presidiato, di
manifestare liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero. Va infatti ribadito che, in tema di
diffamazione a mezzo stampa, è configurabile l’esimente del diritto di critica distinto e diverso
dal diritto di cronaca quando il discorso giornalistico abbia un contenuto esclusivamente
valutativo e si sviluppi nell’alveo di cui a polemica intensa e dichiarata, frutto di opposte
concezioni, su temi di rilevanza sociale, senza trascendere ad attacchi personali finalizzati come
nella specie –all’unico scopo di aggredire l’altrui sfera morale, non richiedendosi neppure a
differenza di quanto si verifica con riguardo al diritto di cronaca che la critica sia formulata con
riferimento a precisi dati fattuali, sempre, però, che il nucleo ed il profilo essenziale di questi non
siano strutturalmente travisati e manipolati. Non sussiste, quindi, l’esimente del diritto di critica
allorché un magistrato del Pm venga accusato come nelle vicende oggetto delle odierne
imputazioni di svolgere indagini politiche, in quanto una siffatta espressione, evocando l’intento
di favorire una determinata forza politica a scapito di un’altra, assume portata offensiva,
risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona. Esula, dunque, dalla scriminante del
diritto di critica, politica o giornalistica, l’accusa di asservimento della funzione giudiziaria ad
interessi personali, partitici, politici, ideologici, ovvero accuse di strumentalizzazione di quella
funzione per il conseguimento di finalità divergenti da quelle che debbono guidare l’operato del
Pm, stanti le attribuzioni ed i doveri istituzionali che caratterizzano la posizione ordinamentale di
tale organo (v., fra le altre, Cassazione, Sezione quinta, 1 luglio 2005, Liguori; 5 marzo 2004,
Giacalone; 4 dicembre 1998, Soluri). D’altra parte, l’applicazione della scriminante del diritto di
critica politica, pur nell’ambito (che certo non ricorre nella specie) della polemica tra avversari di
contrapposti chiarimenti ed orientamenti, di per sé improntata ad un maggior grado di virulenza,
presuppone che la critica sia espressa con argomentazioni, opinioni, valutazioni, apprezzamenti che
non degenerino in attacchi personali o in manifestazioni gratuitamente lesive della altrui
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reputazione, strumentalmente estese anche a terreni estranei allo specifico della contesa politica, e
non ricorrano all’uso di espressioni linguistiche oggettivamente offensive ed estranee al metodo ed
allo stile di una civile contrapposizione di idee, oltre che non necessarie per la rappresentazione
delle posizioni sostenute e non funzionali al pubblico interesse (Cassazione, Sezione prima, 10
giugno 2005, Pochini). Un limite di continenza, dunque, necessariamente ancor più rigoroso ove
esso venga riguardato, non nella prospettiva di una contesa fra gruppi politici contrapposti, ma si
iscriva – come nella specie – in una “polemica” unilateralmente promossa attraverso l’arbitrario
inserimento di magistrati all’interno di un supposto schieramento politico antagonista. Per altro
verso, l’esercizio del diritto di critica, pur assumendo necessariamente connotazioni soggettive ed
opinabili, specie quando lo stesso abbia ad oggetto l’esercizio di pubbliche funzioni, richiede –
accanto al rispetto del limite della rilevanza sociale e della correttezza delle espressioni usate – che,
comunque, le critiche trovino riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale e
che, pertanto, esse non si risolvano in una ricostruzione volontariamente disopra della realtà,
preordinata esclusivamente ad attirare l’attenzione negativa dei lettori sulla persona criticata (sulla
verità del fatto, Cassazione, Sezione quinta, 30 novembre 2005, Sorbo; 25 febbraio 2005, Ferrara;
12 novembre 2004, Perna). Ebbene, anche sotto tale profilo – per la verità neppure seriamente
contestato in sede di ricorso – la sentenza di primo grado ha dato puntualmente atto di come le
“accuse”, “per molti versi deliranti”, rivolte dall’imputato per il tramite degli organi di stampa, si
fossero rivelate, nel merito, infondate, avendo l’istruttoria dibattimentale “permesso di stabilire che
la diversa verità dei fatti emergeva dai comportamenti da ciascuno posti in essere e da tutta la
documentazione degli atti pubblici ed ufficiali che ben era conosciuta allo stesso imputato, che
poteva essere conosciuta, che, in quanto sconosciuta perché riservata, doveva indurre a prudenza”.
Dunque, palese in conferenza, di qualsiasi scriminante, sia essa riconducibile al diritto di cronaca,
ovvero al diritto di critica, che il ricorrente – errando – assume essere stato indebitamente
pretermesso dai giudici a quibus.Pertanto, avendo la sentenza impugnata fatta proprio lo scrutinio
già condotto in primo grado sulla assenza dei presupposti per ritenere nella specie ravvisabile
l’invocata scriminante, deve ritenersi che la pronuncia stessa si sottragga al dedotto vizio di
motivazione, considerato che le doglianze a tal proposito sollevata in sede di appello non
coinvolgevano profili diversi da quelli già esaminati nel precedente grado di giudizio.Al rigetto del
ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione di
quelle sostenute nel grado delle parti civili, che vengono liquidate come da dispositivo.PQMRigetta
il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle
spese sostenute nel grado dalle parti civili che liquida in complessivi euro 5000 come da notula,
oltre spese generali come per legge.
-La diffamazione, in quanto reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi
percepiscono la espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano
state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 25 luglio 2006, n. 25875
SENTENZA sul ricorso proposto da: 1) C.R., nato il ...; 2) D.N.C., nato il ...; avverso la sentenza 11
gennaio 2005 della Corte d'Appello di Napoli; Visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;Udita in
pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Fumo Maurizio;Udito il P.G., in persona
del Sostituto Procuratore Generale F.M. Jacoviello, che ha chiesto: 1) annullamento senza rinvio in
ordine al capo relativo alle spese cui è stato condannato l'imputato; 2) annullamento con rinvio in
ordine alla entità della liquidazione del'onorario del difensore di p.c.; 3)dichiarazione di
inammissibilità nel resto per quanto riguarda il ricorso dell'imputato.Udito il difensore di p.c., Avv.
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E.B., che, illustrando i motivi di ricorso, ne ha chiesto l'accoglimento, chiedendo al contempo
dichiararsi inammissibile il ricorso proposto nell'interesse dell'imputato;adito il difensore
dell'imputato, Avv. F.M., che, illustrando i motivi di ricorso, ne ha chiesto l'accoglimento;Osserva
quanto segue:Il Tribunale di Napoli, con sentenza 03.08.2003, condannò C.R. alla pena ritenuta di
giustizia (con la continuazione, il riconoscimento di attenuanti generiche e il beneficio della
sospensione condizionale), oltre al risarcimento danni in favore della p.c., giudicandolo colpevole
del reato di cui all'art. 595 cp (per avere offeso la reputazione dell'Avv. D.N.C. aprendo un sito
internet a nome del predetto, indicato come ... ..., sul quale apparivano immagini di adolescenti
intenti a compiere atti sessuali) e per quello ex artt. 476, 482, 485, 61n.2 cp perchè, allo scopo di
commettere il predetto reato di diffamazione, apponeva la falsa firma del D.N.C. in calce al modulo
di richiesta di apertura dei siti web ..., ..., ....La Corte d'Appello, con sentenza 11.01.2005, ha
confermato la pronunzia di primo grado (affermando tuttavia in motivazione di concedere al C.R. il
beneficio della non menzione), condannando l'imputato al pagamento delle ulteriori spese
processuali e al rimborso di quelle sostenute dalla p.c. in secondo grado, spese che ha liquidato in
Euro 1000 oltre Iva e Cpa.Ricorre il difensore dell'imputato e deduce erronea applicazione della
legge processuale con riferimento alla difformità tra motivazione e dispositivo della sentenza,
erronea applicazione della legge penale sostanziale con riferimento all'art. 595 cp e della legge
processuale penale con riferimento all'art. 192 cpp, nonchè difetto di motivazione con riferimento
alla applicazione di tale ultimo articolo.Argomenta come segue:a) La Corte ha riformato la sentenza
di primo grado (concedendo la non menzione), ma ha poi erroneamente condannato l'appellante alle
spese processuali.b) La Corte afferma che il contenuto diffamatorio delle notizie e immagini inserite
sul sito web è stato certamente percepito da terzi, dal momento che l'imputato inviò una lettera
anonima a un giornalista, invitandolo a visitare i siti pornografici. Orbene, è evidente che, con
l'avvisare il giornalista, certamente il mittente della lettera intendeva avvisare il D.N.C., ma il
giudice di secondo grado confonde la lettera inviata al giornalista con altra lettera inviata al D.N.C.
con la quale lo si rendeva edotto della presenza sul web delle notizie e immagini sopra
indicate.Sulla base di tale equivoco, i giudicanti ricostruiscono (errando) la natura dolosa della
condotta ascritta all'imputato.c) Nei procedimenti di natura indiziaria devono ovviamente trovare
applicazione i commi I e II dell'art. 192 cpp. Ebbene, la Corte di merito non ha adeguatamente
motivato in ordine al secondo motivo di gravame col quale si contestava la riconducibilità al C.R.
del fatto accertato.Erroneamente si sostiene infatti in sentenza che la difesa dell'imputato non
contesta che l'attivazione dei siti sarebbe stata effettuata ad opera del ricorrente e dunque non si
comprende donde il giudicante abbia tratto il suo convincimento che sia stato proprio l'imputato
l'autore della falsificazione documentale di cui al capo di imputazione.Invero l'esame di tutti gli
elementi ritenuti indiziari non ha consentito di raggiungere la certezza della concordanza tra gli
indizi predetti, atteso che essi rinviano alla condotta di soggetti diversi dal ricorrente (B.G., M.C.,
C.C., C.F.).A ben vedere, dunque, i pretesi indizi non sono neanche precisi e univoci.La
motivazione tenta di sopperire, facendo menzione di un presunto malanimo dell'imputato nei
confronti del D.N.C. per essere stato quest'ultimo avvocato della ... in una controversia civile che la
aveva opposta al C.R..La circostanza è quantomeno equivoca, atteso che anche gli altri soggetti
sopra indicati risultano essere stati coinvolti nella ricordata vicenda giudiziaria.Nessun ulteriore
elemento di convincimento può poi essere tratto dal presunto astio che l'imputato avrebbe nutrito
nei confronti di un magistrato che, in funzione di G.E., si occupò di un'esecuzione immobiliare in
danno del ricorrente, posto che in tale vicenda non risulta a nessun titolo coinvolto il D.N.C..In
realtà l'unico elemento concreto emerso consiste nel fatto che la Polposta ebbe ad accertare che i siti
furono "attivati" attraverso un'utenza telefonica nella presunta disponibilità dell'imputato. Detta
utenza in realtà è intestata alla sorella di C.R.; nulla prova che fosse in uso esclusivo al
ricorrente.Ricorrono inoltre, congiuntamente, il D.N.C. e il suo difensore, Avv. E.B., i quali
deducono violazione di legge (art.1 D.M. 127/04 in relazione all'art.4 capitolo I che stabilisce gli
onorari minimi e i diritti previsti per le prestazioni professionali del difensore) e lamentano che la
liquidazione operata dal giudice di secondo grado risulta, da un lato, del tutto priva di motivazione,
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dall'altro, comunque, inferiore al minimo stabilito, appunto, per legge.Tanto premesso, questo
Collegio rileva che la sentenza di secondo grado reca, come premesso, nella parte motiva, la
indicazione della concessione dell'ulteriore beneficio della non menzione al C.R. ("la completa
incensuratezza dell'imputato consente la concessione del beneficio della non menzione"), mentre di
tanto non è traccia nel dispositivo.Orbene, poichè - ai sensi delle risalenti pronunzie della Corte
Costituzionale 225/75 e 155/84 - l'art.175 comma I cp va necessariamente interpretato nel senso che
può concedersi la non menzione anche in presenza di pene per reati anteriormente commessi,
purchè dette pene, cumulate con quella da irrogare, non superino il limite dei due anni, ne consegue
che il C.R., in astratto e nonostante la precedente condanna già riportata, potrebbe fruire del
beneficio richiesto.Il contrasto tra dispositivo e motivazione non è dunque irrilevante.L'errore della
Corte d'Appello (aver affermato che l'imputato era incensurato) e l'omissione compiuta (nel
dispositivo, rispetto alla motivazione) impongono l'annullamento con rinvio per nuovo esame
(ovviamente ad altra sezione della medesima Corte), in accoglimento, nei termini appena chiariti,
della prima censura del ricorso del C.R.Va da sè che l'eventuale concessione del beneficio (e
dunque, sostanzialmente, all'accoglimento del primo motivo di appello) dovrebbe corrispondere una
conseguente statuizione in ordine alle spese per il giudizio di secondo grado, come richiesto dalla
difesa del C.R.La seconda censura è manifestatamente infondata.Questa Corte, proprio con
riferimento a un caso di "diffamazione telematica", ebbe ad affermare (ASN 200004741 - RV
217745) che la diffamazione, in quanto reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i
terzi percepiscono la espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano
state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato.Coerentemente, dunque,
la Corte territoriale ha fatto riferimento alla missiva ricevuta dal giornalista (e dunque resa
inevitabilmente nota a più persone operanti nella redazione del quotidiano), il quale, proprio a
seguito di essa, si collegò con il sito e prese visione del suo contenuto, comunicandolo poi al
D.N.C..Che quest'ultimo sia stato, poi, a sua volta, destinatario di altra lettera di analogo contenuto
è del tutto irrilevante.Al proposito, oltretutto, va chiarito che, quando una notizia risulti immessa sui
cc.dd. media, vale a dire nei mezzi di comunicazione di massa (cartacei, radiofonici, televisivi,
telematici ecc.), la diffusione della stessa, secondo un criterio che la nozione stessa di
"pubblicazione" impone, deve presumersi, fino a prova del contrario.Il principio non può soffrire
eccezione per quanto riguarda i siti web, atteso che l'accesso ad essi è solitamente libero e, in
genere, frequente (sia esso di elezione o meramente casuale), di talchè la immissione di notizie o
immagini "in rete" integra l'ipotesi di offerta delle stesse in incertam personam e dunque implica la
fruibilità da parte di un numero solitamente elevato (ma difficilmente accertabile) di utenti.La terza
censura è, a sua volta, manifestatamente infondata, atteso che essa presuppone una errata lettura e
una non corretta comprensione della trama argomentativa posta dalla Corte a supporto della
decisione assunta.I giudice del merito, infatti, muovono dal dato certo, consistente nel fatto che i siti
in questione furono "caricati" da un'utenza telefonica, installata presso il laboratorio di riparazione
TV dell'imputato.Dunque, anche se l'utenza in questione era intestata a C.F., osserva la Corte
d'Appello, l'utente abituale era certamente il fratello R. Accanto a tale primo elemento, tuttavia, i
giudici di merito considerano anche il fatto che l'imputato aveva un valido movente per un'azione
ritorsiva nei confronti del D.N.C. (vedasi quanto esposto in narrativa a proposito dle fatto che la p.o.
era il legale della ... che intentò azione civile contro il C.).E' duqnue esatto che anche altri soggetti
avrebbero potuto avere motivi di astio nei confronti del D.N.C ma è anche esatto che l'utenza
telefonica in questione era installata presso il laboratorio del C.R. e non degli altri
"sospettabili"."Dall'incrocio degli elementi sopra indicati, la Corte giunge, con procedimento
certamente non illogico, alla conclusione che autore della diffamazione (e del falso strumentale ad
essa) altri non poteva essere stato se non l'imputato.I canoni del processo indiziario risultano
dunque puntualmente osservati.Consegue l'inammissibilità delle censure sub b) e c).La censura
recata dal ricorso dell'Avv. B. e di D.N.C appare, viceversa, fondata, atteso che, a seguito di mera
operazione di raffronto/riscontro, è agevole accertare che quanto liquidato dal giudice di secondo
grado costituisce somma inferiore ai minimi stabiliti per legge.L'impugnata sentenza va dunque
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annullata con rinvio (come si è detto, ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli),
limitatamente:1) al diniego della non menzione in favore di C.R.;2) alla liquidazione delle spese in
favore della p.c., nel giudizio di appello.Nel resto il ricorso del C.R. va dichiarato
inammissibile.L'imputato va condannato al ristoro delle spese sostenute dalla p.c. in questo grado di
giudizio che si liquidano come da dispositivo.PQM La Corte annulla l'impugnata sentenza
limitatamente al diniego del beneficio della non menzione della condanna e all'entità della
liquidazione delle spese di p.c., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'Appello
di Napoli; dichiara inammissibile nel resto il ricorso dell'imputato e condanna il ricorrente C.R. al
pagamento delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, che liquida in
complessivi Euro duemilatrecento (2300), di cui duemila (2000) per onorario.
TRUFFA E MILLANTATO CREDITO
TRACCIA:
Tizio, gelataio di Palermo, conosceva da diversi anni il sig. Pizzul.
Tizio veniva visto dal sig. Pizzul in compagnia del giudice civile Martufel.
Pizzul veniva citato, poi, in giudizio da Sempronio, per un inadempimento contrattuale del valore di
dieci milioni di euro; il giudice competente era Martufel.
Tizio, allora, venuto a sapere del fatto, si recava presso il domicilio di Pizzul.
Tizio chiedeva a Pizzul la somma di un milione di euro, promettendo a quest’ultimo l’assoluzione
dal processo civile, in considerazione dell’amicizia con il giudice Martufel: Tizio prometteva a
Pizzul di non fargli avere la condanna al pagamento per la causa promossa da Sempronio.
Pizzul restava sbalordito; dopo due giorni dall’incontro, Pizzul telefonava a Tizio, comunicandogli
di voler accettare la proposta.
Pizzul consegnava un assegno, del valore di un milione di euro, a Tizio.
Dopo sei mesi dal fatto, Tizio, che non aveva mai avuto intenzione di chiedere alcun “favore” a
Martufel, si recava da un legale.
Il candidato, premessi brevi cenni sul reato di truffa, affronti la questione giuridica posta
evidenziando eventuali tesi favorevoli al proprio assistito.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa andava ricostruito (molto sinteticamente il fatto); subito dopo era necessario parlare
brevemente del reato di truffa.
Generalmente il reato di truffa (oggi si ritiene ammissibile anche la truffa omissiva e telematica) è
un tipico reato in contratto (e non reato-contratto) che incide sul processo di volizione, alterandolo,
con la conseguenza che eventuali contratti, stipulati a seguito di truffa (truffa contrattuale) sono
annullabili (per vizi della volontà).
Secondo l’orientamento più recente, la truffa, ex art. 640 c.p., è reato plurioffensivo, comune (può
essere compiuto da chiunque, mentre se vi è la qualifica soggettiva pubblica del soggetto attivo, che
abusa della sua autorità, vi potrà essere concussione), tendenzialmente a condotta vincolata (la
giurisprudenza non è unanime sul punto) caratterizzata da artifici e raggiri (che è un concetto molto
più ampio della dissimulazione del proprio stato di insolvenza, come nel caso di insolvenza
fraudolenta, ex art. 641 c.p.) che cagionano un danno patrimoniale (alla luce della collocazione
sistematica: “Dei delitti contro il patrimonio”) con un collegamento causale diretto (alcuni
ammettono anche la truffa a danno di terzo o a favore di terzo) tra depauperamento (altrui danno) ed
arricchimento (ingiusto profitto).
Successivamente, bisognava chiedersi se la fattispecie di truffa sia o meno applicabile al caso preso
59
in esame; Tizio ha realizzato una condotta idonea ad integrare gli estremi della truffa?
Invero, Tizio non sembra tanto aver realizzato una condotta generica di artifici e raggiri (c’è una
forma, particolare, di mediazione, che non è presente nello schema della truffa), ma più specifica e
circostanziata di millantato credito, ex art. 346 c.p.
Tizio, in particolare, chiedeva una somma di denaro a Pizzul in cambio di un favore da chiedere a
Martufel, con la conseguenza che vi è la condotta tipica della mediazione verso pubblico ufficiale,
ex art. 346 c.p.; non era applicabile il II comma dell’art. 346 c.p., in quanto Tizio non riceveva il
milione di euro con il pretesto di comprare il favore di Martufel, ma riceva quel denaro come
corrispettivo della richiesta di un favore a Martufel (senza cedergli il compenso del milione di euro
ovvero parte di esso).
Ulteriore problema che doveva essere preso in considerazione era quello del possibile concorso di
reati tra truffa e millantato credito (altrimenti la traccia non avrebbe richiesto di premettere brevi
cenni sulla truffa se, in qualche modo, non era una figura destinata ad essere trattata), tanto più che
bisognava cercare di evidenziare tesi favorevoli (già da questo “suggerimento” della traccia poteva
intuirsi di dover negare validità alla tesi del concorso di reati).
Il concorso di reati non sembra sussistere nel caso di specie, in quanto l’art. 346 c.p. potrebbe essere
ritenuta norma speciale rispetto a quella di truffa, come sostenuto da parte della dottrina (e
giurisprudenza), tanto più che emerge la specificità del credito vantato e della mediazione che,
invece, non è espressamente menzionata nella truffa; id est: l’art. 346 c.p. ha una sua autonomia
strutturale ben diversa dalla truffa, con la conseguenza che le due figure possono anche non
concorrere tra loro, come nel caso di specie in cui la condotta antigiuridica è costituita dall’aver
vantato un credito come prezzo per una mediazione.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-L’autista giudiziario in servizio presso un Tribunale che si fa consegnare una somma di
danaro da un detenuto, al fine di “comprare” un provvedimento di scarcerazione,
millantando credito presso un magistrato dello stesso Tribunale in procinto di adottare un
provvedimento di sospensione dell’esecuzione delle pena detentiva in corso nei confronti dello
stesso detenuto (c.d. “compratore di fumo”), risponde soltanto del reato di millantato credito,
ex art. 346, comma 2, c.p., e non anche del reato di truffa, atteso che tra le due fattispecie di
reato non vi può essere concorso formale; in tal caso, infatti, non può trovare applicazione
anche la norma incriminatrice della truffa, in quanto tale reato deve ritenersi assorbito in
quello di millantato credito, sul rilievo che, diversamente, l’imputato si troverebbe a dover
rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla
norma incriminatrice di cui all’art. 346, comma 2, c.p.
CASS. PEN. SEZ VI- 12 settembre 2006, n. 30150- Pres. Leonasi- Fidelbo
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Messina ha confermato la
decisione con cui il locale Tribunale, in composizione monocratica, aveva condannato Filippo LA
PORTA alla pena di anni due e mesi due di reclusione per i reati di millantato credito e truffa
aggravata, con condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in
separata sede.
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Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito LA PORTA, autista giudiziario in
servizio presso il Tribunale di Nicosia, avrebbe millantato credito presso il dott. Luca Rossomandi,
magistrato di quello stesso ufficio, facendosi promettere e poi consegnare la somma di otto milioni
di lire da Giovanni Sutera e Santi Sutera, per "comprare" il provvedimento di scarcerazione dallo
stesso magistrato, che avrebbe dovuto adottare una decisione in ordine alla sospensione
dell'esecuzione della pena detentiva che Giovanni Sutera stava scontando. Per questi fatti i giudici
d'appello hanno ritenuto sussistente, oltre al reato di cui all'art. 346 c.p., anche l'ipotesi di truffa
aggravata ai danni dei fratelli Sutera.
2. L'imputato ha proposto ricorso per cassazione per mezzo del suo difensore.
Con il primo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 346 comma 2 c.p. riprendendo un
argomento già speso in appello. In particolare, il ricorrente assume che non ricorra nella specie il
reato di millantato credito, in quanto al momento dell'accordo truffaldino il magistrato aveva già
emesso il provvedimento, con la conseguenza che è venuto a mancare lo stesso presupposto per la
sussistenza del millantato credito, cioè l'acquisto del favore presso il pubblico ufficiale.
Con altri due motivi si deduce l'inosservanza dell'art. 61 n. 9 e n. 11 c.p., in quanto erroneamente i
giudici hanno applicato tali circostanze aggravanti, non riferibili all'imputato che svolgeva mansioni
di autista giudiziario e che quindi non si è agevolato del servizio cui era addetto, né la sua attività ha
integrato la violazione connessa alle sue funzioni; allo stesso modo, si ritiene che LA PORTA non
abbia "abusato" delle relazioni d'ufficio, tenendo conto che lavorava in una sede diversa da quella
del dott. Rossomando, che era giudice di sorveglianza a Caltanissetta.
Con il quarto motivo, collegato agli ultimi due, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 640 c.p.,
ritenendo che una volta escluse le aggravanti, i giudici d'appello avrebbero dovuto dichiarare
l'improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela.
Con l'ultimo motivo, infine, si contesta la sentenza per l'immotivato diniego delle circostanze
attenuanti generiche.
MOTIVI DELLA DECISIONE
3. Il primo motivo è infondato.
3.1. Correttamente i giudici d'appello hanno ritenuto la sussistenza del reato di millantato credito,
nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 346 c.p., escludendo che con la sua condotta l'imputato abbia
posto in essere solo una truffa ai danni dei fratelli Sutera, così come sostiene il ricorrente, secondo
cui il delitto di millantato credito non vi sarebbe stato, in quanto l'accordo truffaldino si sarebbe
concluso successivamente all'emanazione del provvedimento di scarcerazione. Si tratta di una
ricostruzione alternativa dei fatti, smentita dalla sentenza impugnata che, invece, rispondendo alla
medesima obiezione sollevata nei motivi d'appello, ha ritenuto che le trattative abbiano preceduto il
provvedimento di scarcerazione e che le parti avessero anche raggiunto un accordo preventivo circa
il pagamento della somma di cinque milioni, pagamento subordinato alla effettiva scarcerazione del
Sutera.
E' evidente che la dedotta violazione di legge si fonda su una ipotesi alternativa a quella ritenuta dai
giudici di merito, in cui, indirettamente, vengono confutati i fatti così come ricostruiti dalla sentenza
impugnata, senza peraltro che siano stati proposti motivi riguardanti la mancanza ovvero la
illogicità o la contraddittorietà della motivazione. In sostanza, la supposta erroneità
nell'applicazione dell'art. 346 comma 2 c.p. si fonda su una ricostruzione dei fatti che non trova
riscontro nella sentenza. Infatti, è sulla base della ipotesi ricostruttiva effettuata nella sentenza che
deve essere valutata non solo la correttezza del procedimento logico-argomentativo che ha portato a
ritenere la sussistenza del reato, ma anche la corretta applicazione delle norme sostanziali e
processuali.
3.2. In ogni caso, deve osservarsi che la circostanza relativa al momento in cui l'accordo è
intervenuto - prima o dopo l'emanazione del provvedimento di scarcerazione emesso dal giudice non è elemento in grado di far venire meno l'ipotizzabilità del reato di cui all'art. 346 comma 2 c.p.
Questo delitto si realizza quando l'agente si fa dare o promettere il denaro col pretesto di dover
comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare, quando cioè promette la
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corruzione del pubblico ufficiale; la dazione o la promessa trovano la loro causa nel pretesto di
corrompere il funzionario e la condotta dell'agente finisce per realizzare un mendacio in danno del
"compratore di fumo", indotto da tale falsa rappresentazione della realtà a impegnarsi
nell'adempimento della prestazione. Il reato si consuma nel momento in cui l'agente si fa promettere
l'utilità col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale e non è previsto come
elemento costitutivo del reato che l'agente condizioni effettivamente l'attività del pubblico ufficiale.
Se ciò accadesse, se cioè la remunerazione fosse effettivamente destinata al pubblico ufficiale
scatterebbero le diverse ipotesi di reato previste dagli arti 318, 319 c.p. Il millantato credito realizza,
quindi, una tutela anticipata, in quanto perché sia integrato basta la dazione o la promessa di
un'utilità, anche non patrimoniale.
Ne consegue che ai fini della configurabilità dell'illecito non assume alcun rilievo il fatto che il
pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento favorevole: tenuto conto del momento
consumativo del millantato credito, il reato si realizza anche nel caso in cui il provvedimento
favorevole già esista, ma sia ignoto al "compratore di fumo", il quale, ignaro, concluda l'accordo
con l'agente. La circostanza dedotta dal ricorrente può acquistare rilievo solo come elemento
sintomatico della conoscenza, da parte del "compratore di fumo", del raggiro posto in essere ai suoi
danni: ma nel caso in esame non vi è la minima prova di ciò e lo stesso imputato si è solo limitato
ad affermare, apoditticamente, che al momento dell'accordo il provvedimento era già stato emesso.
3.3. La sentenza impugnata ha riconosciuto l'imputato colpevole sia del reato di millantato credito,
che del reato di truffa, prendendo così posizione sul dibattuto problema del concorso tra le due
fattispecie penali. Deve tuttavia osservarsi che la questione, ancora aperta in dottrina e in
giurisprudenza, circa la possibilità o meno che i due reati possano concorrere riguarda
esclusivamente la fattispecie contenuta nel primo comma dell'art. 346 c.p., relativa al fatto di chi,
millantando credito presso un pubblico ufficiale riceve denaro o altra utilità come prezzo della
propria mediazione verso il pubblico ufficiale, ma non si pone con riferimento alla ipotesi di cui al
secondo comma, che è quella contestata nel caso in esame.
L'orientamento dottrinario prevalente ritiene che in base al principio di consunzione il millantato
credito, nell'ipotesi di cui al comma 1, assorbe la truffa in quanto la contiene, sia pure nella forma
del tentativo e questa tesi è seguita da una parte minoritaria della giurisprudenza (Sez. VI, 4 maggio
2001, n. 2010, Paccani); un diverso orientamento, minoritario in dottrina, ma prevalente in
giurisprudenza, ritiene invece che tra i due reati sia configurabile il concorso formale, perché
tutelano interessi distinti e perché diverso è il mezzo utilizzato per la loro commissione, dal
momento che nel delitto di millantato credito la condotta consiste in un raggiro del tutto particolare
consistente nelle vanterie esplicite o implicite di ingerenze o pressioni sulla attività pubblica (Sez.
VI, 25 febbraio 2003, n. 15118, Santangelo, RV 224844; Sez. VI, 24 novembre 1998, n. 13657,
Battaglia; Sez. VI, 7 novembre 1997, n. 547, Virzi).
Ma un problema di concorso in relazione all'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 346 c.p. non sembra
destinato a porsi, almeno negli stessi termini conosciuti per l'altra figura. La fattispecie contemplata
nel capoverso dell'art. 346 c.p. oltre ad essere del tutto autonoma rispetto all'altra, riguarda, come si
è visto, il fatto di chi riceve o fa dare o fa promettere a sé o ad altri denaro o altra utilità, col pretesto
di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare. Si tratta
di un reato autonomo ricalcato sullo schema della truffa, anzi rappresenta, così come ritiene una
autorevole dottrina, una figura particolare di truffa. Invero, a differenza del millantato credito
previsto dal primo comma del citato art. 346 c.p., in questa ipotesi la condotta richiesta non sembra
poter prescindere dagli artifizi o raggiri indicati per il delitto di truffa: anche nella fattispecie in
esame la condotta dell'agente consiste in una forma di raggiro nei confronti di un soggetto che viene
indotto da una falsa rappresentazione della realtà ad un accordo che lo impegna ad una prestazione
di pagamento. Qui il soggetto attivo non si propone attraverso un'attività di intermediazione, come
nella ipotesi base dell'art. 346 c.p., ma si presenta quale strumento di corruzione di un funzionario
pubblico, con la conseguenza che se realizza effettivamente l'attività di corruzione concorre del
delitto di cui all'art. 318-319 c.p., mentre se, ingannando il "compratore di fumo", si appropria della
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retribuzione risponderà del reato di cui al capoverso dell'art. 346 c.p. Ciò che differenzia le due
ipotesi di millantato credito è l'elemento del "pretesto" contenuto nel comma 2 dell'art. 346 c.p., un
elemento che richiama il mendacio e l'inganno, in quanto corrisponde sostanzialmente alla falsa
causa addotta dall'agente per indurre con l'inganno il "compratore di fumo" ad una prestazione
patrimoniale, che diversamente non sarebbe ottenibile. D'altra parte, la sovrapposizione con il reato
di truffa può essere colta anche da un altro punto di vista, che mette in evidenza come la condotta
dell'agente sia tutta protesa al conseguimento di un profitto patrimoniale attraverso l'induzione in
errore del ed. compratore di fumo, il quale non è punibile proprio in considerazione di tale struttura
della norma, considerazione questa che porta a ritenere che il bene oggetto della tutela penale,
almeno nell'ipotesi di cui al capoverso dell'art. 346 c.p., sia anche quello patrimoniale.
In definitiva, si tratta di una fattispecie che ricalca pienamente la struttura della truffa e che consiste
- secondo la definizione di una autorevole dottrina - in una "frode volgare tesa al privato, col
pretesto di una corruzione che non si ha nessuna intenzione di intraprendere".
Sulla base di questa interpretazione, che il Collegio ritiene di accogliere, deve escludersi che
l'imputato possa rispondere, con riferimento alla medesima condotta, anche del reato di truffa
commesso nei confronti dei fratelli Sutera, così come ritenuto nella sentenza impugnata, in quanto
fra le due fattispecie non vi può essere concorso formale. Non può trovare applicazione anche la
norma incriminatrice della truffa, in quanto tale reato deve ritenersi assorbito in quello di millantato
credito, dal momento che, diversamente, l'imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati,
sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui
all'art. 346 comma 2 c.p.
3.3. I motivi di cui ai n. 2, 3 e 4 del ricorso, tutti riguardanti il reato di truffa, devono ritenersi
assorbiti
4. Infondato è l'ultimo motivo, con cui il ricorrente lamenta la mancata concessione delle attenuanti
generiche, in quanto la sentenza ha motivato in maniera adeguata tale scelta, ponendo l'accento sui
gravi precedenti dell'imputato.
5. In conclusione la sentenza deve essere annullata senza rinvio, limitatamente alla condanna per il
reato di truffa, la cui pena, pari a due anni di reclusione inflitta in continuazione al delitto di
millantato credito, può essere eliminata in questa sede.
Per il resto il ricorso deve essere rigettato.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla imputazione di truffa, siccome
assorbita nel reato di millantato credito ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione.
Rigetta nel resto.
-La fattispecie criminosa di cui all’articolo 316-ter del Cp ha carattere residuale e sussidiario
rispetto alla fattispecie della truffa aggravata prevista dall’articolo 640-bis del Cp e non è con
essa in rapporto di specialità, sicché ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o
presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere e omissione di
informazioni dovute) ben può concorrere a integrare gli artifici e/o i raggiri previsti dalla
fattispecie della truffa, ove di questa figura siano integrati gli altri presupposti.
Bisogna verificare caso per caso.
CASS. PEN.- SEZ. II- 15 settembre 2006, n. 30729- Pres. Rizzo- est. Macchia Con ordinanza del
25 gennaio 2006, il Tribunale di Catanzaro, in parziale accoglimento dell'appello proposto dal
pubblico ministero presso il Tribunale di Lamezia Terme avverso l'ordinanza del locale Giudice per
63
le indagini preliminari del 29 settembre 2005, con la quale era stata respinta la richiesta di sequestro
preventivo e per equivalente formulata in relazione al delitto di cui all'art. 640 bis cod. pen. in
riferimento a finanziamenti erogati alla azienda IMM s.r.l. in Gizzeria, località Marevitano, a
seguito di artifici contabili e operazioni di false fatture, ha fra l'altro disposto il sequestro preventivo
per equivalente - in ragione dell'ammontare dei finanziamenti erogati - dei beni, fra gli altri, di
CARERE Vincenzo Salvatore, fino alla concorrenza di euro 2.169.010,52. In particolare, il
Tribunale dell'appello cautelare riteneva la sussistenza di gravi indizi in ordine al delitto di cui
all'art. 640 bis cod. pen. in merito al finanziamento richiesto per la costruzione dell'opificio in
Ginzeria della IMM Industria Manifattura Maglieria s.r.l. alla stregua di varie emergenze scaturite
dalle indagini. Tale apprezzamento era infatti desunto dal fatto che il finanziamento era stato
richiesto facendo leva su un artificio contabile consistito nell'aver indicato come esistente un
apporto di capitale da parte di alcuni soci senza che tale aumento fosse stato effettivo, non essendo
stati mai operati i relativi versamenti ed essendo stata stornata la posta attiva nei successivi stati
patrimoniali e bilanci di esercizio. La operazione truffaldina era poi asseverata dalla esistenza di
false attestazioni e false fatture finalizzate alla percezione delle successive tranches di
finanziamento a fronte di lavori effettivamente eseguiti e pagati per importi inferiori, nonché dalla
falsa indicazione di acquisti di macchinari nuovi in luogo degli acquisti effettivi, relativi a
macchinari usati, nonché dalla acquisizione di elementi dai quali era possibile desumere lo storno di
denaro indicato come corrispettivo dei pagamenti in contanti per opere e forniture non realizzate, su
conti comunque riconducibili agli indagati. A proposito, poi, della specifica posizione del
CARERE, il Tribunale ne ha messo in luce la qualità di consulente fiscale della impresa IMM in
riferimento ad un complesso artificio contabile realizzato dall'indagato nel quadro della vicenda
oggetto del procedimento, vale a dire il fittizio aumento di capitale preordinato al conseguimento
del contributo, ed il successivo mutamento dello stato patrimoniale con eliminazione, al 31
dicembre 2000, del credito verso soci e dell'aumento di capitale. Evenienza, questa, che veniva
assunta a base della accusa, considerato che il mutamento dei dati delle scritture contabili, redatte
dall'indagato nel 1999 e nel 2000, e relative al capitale sociale, si presentavano come operazioni in
sé prive di logica, spiegandosi invece nella prospettiva della relativa finalizzazione alla richiesta di
finanziamento.Avverso l'ordinanza indicata in premessa propone ricorso per cassazione il difensore,
deducendo vari motivi. Nel primo si lamenta violazione dell'art. 15 della legge 29 settembre 2000,
n. 300, introduttiva dell'art. 322 ter cod. pen., in quanto la condotta dell'indagato sarebbe stata
antecedente alla data di entrata in vigore della novella, essendosi realizzata con il deposito presso il
registro delle imprese di Catanzaro del bilancio di esercizio del 1999 e della connessa relazione,
avvenuto il 30 maggio 2000, rappresentando il successivo mutamento dello stato patrimoniale al 31
dicembre 2000 - menzionato nella ordinanza impugnata - null'altro che un post factum tendente
all'adeguamento formale delle risultanze contabili. Si prospetta, poi, nel secondo motivo, erronea
applicazione dell'art. 640 bis cod. pen. e conseguente erronea applicazione dell'art. 640 quater cod.
pen., in quanto il reato contestato doveva essere quello di indebita percezione di erogazioni a danno
dello Stato di cui all'art. 316 ter cod. pen., posto che, a seguito della introduzione di tale figura, per
la realizzazione del delitto di truffa di cui all'art. 640 bis cod. pen., sarebbe richiesto un quid pluris
oltre alla mera presentazione di dichiarazioni e documenti falsi. Il che comporta, secondo il
ricorrente, la inapplicabilità della confisca per equivalente, stante il rinvio operato al solo art. 640
bis cod. pen. ad opera dell'art. 640 quater del medesimo codice. Nel terzo motivo si denuncia
erronea applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in relazione all'art. 322 ter cod. pen., nonché
violazione dell'art. 27, primo comma, Cost., quanto alla affermata responsabilità per l'intero
ammontare del profitto in capo a ciascuno dei concorrenti nel reato contestato, nonché violazione
dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen., per carenza di motivazione sul punto. A parere del
ricorrente, infatti, stante anche lo scopo della norma, il sequestro e la confisca non possono che
riguardare il profitto ed il guadagno personalmente desunto dal reato; sicché, anche a voler accedere
ad una configurazione sanzionatoria della misura, la stessa deve necessariamente postulare la
graduabilità della misura stessa in rapporto alla colpevolezza del singolo partecipe. Si prospetta,
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inoltre, errata applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in relazione all'art. 322 ter dello stesso
codice, quanto alla interpretazione del termine «profitto», erroneamente riferito al «lordo» e non al
«netto» dell'utile desunto dal finanziamento: ad avviso del ricorrente, infatti, il sequestro e la
confisca per equivalente devono essere commisurati non all'ammontare lordo del finanziamento, ma
al minor importo che risulta dopo aver dedotto le spese sostenute dagli interessati prima e dopo
l'ottenimento della sovvenzione agevolata. Si denuncia, poi, nel quinto motivo, vizio di motivazione
in riferimento al rigetto dell'appello del pubblico ministero in ordine al mancato sequestro della
azienda, contestandosi la motivazione offerta sul punto nella ordinanza impugnata, e si lamenta, nel
sesto ed ultimo motivo, erronea applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in riferimento all'art. 322
ter, cod. pen., quanto alla individuazione dei presupposti del sequestro per equivalente. Ad avviso
del ricorrente, infatti, il sequestro per equivalente rappresenta la extrema ratio cui si può ricorrere
ove non sia possibile il sequestro e la confisca dei beni ottenuti, anche in via derivata, per effetto
della commissione del reato; sicché, non avendo il provvedimento impugnato dato contezza circa la
infruttuosa ricerca del profitto originario o derivato, il provvedimento di cautela deve ritenersi in
parte qua viziato e conseguentemente da annullare.Il ricorso è infondato. Le doglianze poste a
fondamento del primo motivo sono, infatti, palesemente inconsistenti, giacché, pur in presenza
dell'univoco tenore della disposizione dettata dall'art. 15 della legge n. 300 del 2000 - in base al
quale le disposizioni previste dagli artt. 322 ter e 640 quater cod. pen. in tema di confisca «per
equivalente» si applicano ai reati ivi previsti commessi anteriormente all'entrata in vigore della
stessa legge - non può certo assumersi, sia pure ai limitati effetti della legittimità del provvedimento
ablatorio, la possibilità di configurare una sorta di frazionabilità temporale della condotta posta in
essere dal singolo concorrente, giacché, evidentemente, è solo la data di consumazione del reato a
rappresentare l'unitario discrimine agli effetti della applicazione, non soltanto dell'editto
sanzinatorio penale, ma anche della peculiare misura patrimoniale rappresentata dalla confisca dei
beni di cui il reo (autore principale o concorrente che sia) ha la disponibilità, per un valore
corrispondente a quello del profitto desunto dal reato (sempre che, ovviamente, non sia possibile la
confisca diretta dei beni che quel profitto concretamente rappresentino). Nella specie, poiché la
erogazione delle rate del finanziamento oggetto di contestazione sono proseguite - come puntualizza
lo stesso ricorrente - sino a tutto l'anno 2002, non v'è dubbio che il provvedimento adottato risulti
del tutto legittimo sul piano della applicabilità della nuova disciplina, non sottacendo neppure come
la stessa condotta materiale ascritta all'indagato non si sia affatto esaurita - come il ricorrente si
sforza di argomentare - con il deposito del bilancio recante i contestati artifici contabili, giacché le
successive (e contestate) condotte di ripianamento non possono affatto assumere, nella economia
della programmata operazione truffaldina, le prospettate e neutre connotazioni di un mero post
factum privo di risalto penale.Ugualmente infondato è il secondo motivo di ricorso, nel quale si
deduce che la fattispecie in astratto ravvisabile non sarebbe quella della truffa di cui all'art. 640 bis
cod. pen., ma la particolare ipotesi di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui
all'art. 316 ter cod. pen., giacché nella vicenda de qua l'illecito si sarebbe realizzato esclusivamente
attraverso comportamenti perfettamente coincidenti con la figura delineata dall'indicato art. 316 ter
cod. pen., «e cioè - si sottolinea nel ricorso - nel mero “utilizzo” e nella “presentazione” di
“dichiarazioni e documenti falsi o attestanti cose non vere”, senza che l'accusa abbia descritto, nel
capo di imputazione... quelle note di ulteriore fraudolenza che debbono connotare il più grave reato
di cui all'art. 640 bis». Donde la inapplicabilità del sequestro per equivalente, non essendo il reato di
cui all'art. 316 ter previsto fra quelli per i quali è consentita la confisca (e dunque il sequestro
preventivo) del tantundem, in base al combinato disposto degli artt. 322 ter e 640 quater cod. pen.
L'assunto non può, però, essere condiviso. Questa Corte, infatti, ha avuto modo recentemente di
sottolineare che la fattispecie criminosa di cui all'art. 316 ter cod. pen., ha carattere residuale e
sussidiario rispetto alla fattispecie di truffa aggravata e non è con essa in rapporto di specialità,
sicché ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti
falsi o attestanti cose non vere, e omissioni di informazioni dovute) può concorrere ad integrare gli
artifici ed i raggiri previsti dalla fattispecie di truffa, ove di questa figura criminosa siano integrati
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gli altri presupposti. Si è così chiarito che anche il mendacio ed il silenzio assumono connotazioni
«artificiose» o di «raggiro» in riferimento a specifici obblighi giuridici di verità, la cui violazione
sia penalmente sanzionata, perché essi qualificano l'omessa dichiarazione o la dichiarazione
contraria al vero come artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto o manipolazione dell'altrui
sfera psichica (Cass., Sez. II, 10 febbraio 2006, p.m. in proc. Fasolo, RV 233449). È del tutto
evidente, infatti - ha osservato questa Corte - che, mirando la sanzione penale ad assicurare la
certezza e speditezza del traffico giuridico, la veridicità dell'atto così presidiato è destinata a
suscitare uno specifico affidamento nei destinatari del relativo contenuto dichiarativo o attestativo;
con la conseguenza che la relativa immutatio veri da parte dell'autore è in grado di inscenare una
artificiosa rappresentazione della realtà in sé atta ad indurre in errore quanti - non per scelta
soggettiva, ma in ragione del carattere giuridicamente fidefacente di quell'attestato o documento erano tenuti ad una condotta di «affidamento» quali destinatari di tali atti. Non v'è dubbio, quindi,
che i contestati «artifici contabili» inseriti nelle scritture obbligatorie, e le false fatturazioni e le
altrettanto false attestazioni di fatti contabili rilevanti sullo stato patrimoniale abbiano realizzato
appieno la contestata ipotesi di truffa, senza, quindi, la possibilità di evocare il ricorso alla
sussidiaria e del tutto residuale ipotesi dell'art. 316 ter cod. pen., delineata dal legislatore, in
ossequio a precisi obblighi internazionali, a loro volta intesi ad allargare (e non certo a ridurre)
l'area della persecuzione penale nello specifico settore delle frodi connesse ai finanziamenti
pubblici ed a reprimere fatti di corruzione (v. Corte cost. ordinanza n. 95 del 2004 e la già
richiamata sentenza di questa Corte in proc. Fasolo).Ugualmente infondate sono le censure che il
ricorrente ha posto a base del terzo motivo di ricorso. A tal proposito, pur dovendosi sottolineare, ad
avviso del ricorrente, che la misura della confisca per equivalente, nel privare il reo della somma
corrispondente all'arricchimento tratto dal reato, chiaramente mira a «garantire il raggiungimento
delle finalità preventive della pena, assicurando che dal delitto non residuino comunque
conseguenze redditizie in capo ai singoli percettori di guadagni illeciti, destinatari di sanzioni
personalmente orientate»; e pur dovendosi, quindi, riconoscere la «logica sanzionatoria» che
informa l'istituto, se ne desume che, proprio in funzione di tale natura, la misura della sanzione deve
necessariamente essere rapportata al livello di contributo che ciascun partecipe ha offerto per la
realizzazione del reato. Pertanto - conclude il ricorrente - «è proprio la graduabilità della sanzione
penale - frutto del necessario rispetto del principio di personalità - che logicamente deve escludere
la soggezione dei singoli concorrenti ad una misura la cui entità copra l'intero disvalore del reato,
tanto più laddove il “monte-pena” prescinda, come nel caso della confisca del profitto, dalla
colpevolezza del singolo partecipe (si può dare un contributo colpevole minimo ad un reato
produttivo di un enorme guadagno altrui) ». La tesi, anche se coerente nello sviluppo logico, non
può condividersi, in quanto fondata su una premessa erronea. Come infatti sottolineano tanto
l'ordinanza impugnata che il ricorrente, questa Corte ha avuto modo di affermare che è legittimo il
sequestro preventivo, funzionale alla confisca di cui all'art. 322 ter cod. pen., eseguito in danno di
un concorrente nel reato di cui all'art. 316 bis cod. pen., per l'intero importo relativo al prezzo o
profitto dello stesso reato, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da
altri coindagati, in quanto, da un lato, il principio solidaristico, che informa la disciplina del
concorso di persone nel reato, implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto
conseguente in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà nella pena; dall'altro, la confisca
per equivalente riveste preminente carattere sanzionatorio e può interessare ciascuno dei concorrenti
anche per l'intera entità nel prezzo o profitto accertato, salvo l'eventuale riparto tra i medesimi
concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi e che non ha alcun rilievo penale (Cass.,
Sez. V, 16 gennaio 2004, Napolitano, RV 228750). Tutto ciò, però, non equivale affatto a trasferire
la misura patrimoniale della confisca per equivalente nel panorama delle pene propriamente intese,
giacché, a far velo ad una siffatta configurazione, concorrono due rilievi. Anzitutto - e come la
sentenza Napolitano, appena citata, ha puntualizzato - presupposto imprescindibile per
l'applicazione della confisca per equivalente è che nella «sfera giuridico-patrimoniale» della
persona indagata per uno dei reati in ordine ai quali la misura stessa è applicabile, non sia stato
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«rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o il profitto del reato per cui si proceda, ma di
cui sia ovviamente certa l'esistenza». Ne deriva, quindi, che, operando la confisca - ed il sequestro per equivalente soltanto nella ipotesi di impossibilità di applicare la ordinaria misura della confisca
del profitto o del prezzo del reato, quale istituto sostanzialmente surrogatorio di quest'ultimo, non
può certo presupporsi una sorta di novatio della misura, tale da trasformare il provvedimento
ablatorio in una vera e propria pena patrimoniale. È del tutto evidente, infatti, che risulterebbe a dir
poco eccentrica rispetto al sistema ed alla stessa tavola dei valori costituzionali, la possibilità di far
discendere l'applicazione di una pena dalla semplice e casuale eventualità rappresentata dalla
impossibilità di rinvenire - e conseguentemente aggredire - il profitto o il prezzo del reato. Per altro
verso, ove il legislatore avesse davvero inteso imprimere alla confisca per equivalente le stigmate
della sanzione criminale, non si spiegherebbe la previsione della irretroattività sancita dal
richiamato art. 15 della legge n. 300 del 2000, bastando a tal fine il generale precetto sancito
dall'art. 25, secondo comma, della Carta fondamentale. Il paradigma della «gradualità» della
confisca per equivalente in rapporto al quantum di contributo offerto nella realizzazione dell'illecito
concorsuale - insistentemente evocato dal ricorrente - non può quindi rappresentare, in assenza di
una specifica disposizione legislativa, un criterio legittimamente applicabile, muovendosi esso al di
fuori dello schema legale e delle stesse finalità, indubbiamente general-preventive, che il peculiare
istituto mira a soddisfare. Precludere, infatti, la realizzazione del profitto desunto da taluni reati
attraverso la ablazione diretta dello stesso o del valore corrispondente, equivale a postulare, in capo
ai singoli partecipi, una «responsabilità per l'intero» del tutto legittima, giacché spetta alla
discrezionalità del legislatore calibrare - nel rispetto del principio di ragionevolezza - la disciplina
dei presidi volti ad impedire (e prevenire) che l'utile comunque desunto dal reato possa essere, in
tutto o in parte, mantenuto nella disponibilità (giuridica e patrimoniale) di chi abbia a qualsiasi
titolo concorso nella realizzazione dell'illecito. E ciò - evidentemente - anche a prescindere da
qualsiasi rilievo in ordine ai diversi «gradi» di responsabilità, ovvero all'ammontare effettivo del
profitto che «singolarmente» ciascun coautore del fatto abbia desunto dal reato.I restanti motivi di
ricorso sono, invece, palesemente inconsistenti. Circa il quarto motivo basta infatti osservare che il
profitto del reato di cui all'art. 640 bis cod. pen., non può che corrispondere all'importo del
finanziamento indebitamente percepito, senza che possa a tal fine assumere risalto alcuno il fatto
che il percettore dello stesso abbia subito dei «costi» per il relativo conseguimento: la logica del
profitto corrispondente al «netto» della erogazione - che il ricorrente deduce, per di più, in termini
del tutto teorici ed astratti - è profilo assolutamente inconferente, così come lo sono, agli effetti di
qualsiasi provvedimento di confisca, gli eventuali oneri economici sopportati dall'autore del reato
per la realizzazione del fatto delittuoso. Inammissibile, per difetto di legittimazione ed interesse, e
fondato su vizio non deducibile ex art. 325 cod. proc. pen., è il quinto motivo, nel quale si censura,
per di più sull'esclusivo versante del vizio di motivazione, il rigetto dell'appello proposto dal
pubblico ministero avverso la decisone del giudice per le indagini preliminari in tema di sequestro
preventivo. Manifestamente infondato è, infine, l'ultimo motivo di ricorso, giacché la motivazione
offerta dai giudici a quibus a sostegno della ritenuta impossibilità di procedere al sequestro diretto
del profitto, in quanto non più rinvenibile, si presenta del tutto corretta, considerata, fra l'altro, la
insussistenza di elementi dai quali poter dedurre la individuabilità di beni conseguiti con il
finanziamento illecitamente ottenuto.Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al
pagamento delle spese processuali.P.Q.M.Rigetta il ricorso.
-La fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p. ha, pertanto, carattere residuale e
sussidiario rispetto alla fattispecie di truffa aggravata e non è con essa in rapporto di
specialità: ne discende che ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o presentazione di
dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, e omissioni di informazioni
dovute) può concorrere ad integrare gli artifici ed i raggiri previsti dalla fattispecie di truffa,
ove di questa figura criminosa siano integrati gli altri presupposti.
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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II PENALE
SENTENZA (ud. 10-02-2006) 23-03-2006, n. 10231
Svolgimento del processo
Con sentenza del 28 settembre 2004, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti, ha
dichiarato non luogo a procedere nei confronti di F.C. in ordine al reato di truffa aggravata ( art. 640
c.p., comma 2) in danno dell'Azienda Ospedaliera di Patti dalla quale aveva ottenuto prestazioni
sanitarie in regime di esenzione contributiva mediante falsa dichiarazione sulle condizioni di reddito
proprie e della sua famiglia, in Patti il 24 marzo 2002.
Il Giudice dell'udienza preliminare, escluso che la fattispecie contestata potesse essere ricondotta
alla meno grave ipotesi di reato di cui all'art. 316 ter cod. pen. sul rilievo che l'indebito
conseguimento di prestazioni di carattere previdenziale ed assistenziale in regime di esenzione non
rientrava nel novero delle sovvenzioni (contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni
dello stesso tipo) oggetto di tutela, escludeva altresì - all'esito di un' accurata disamina dei principi
interpretativi formulati dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale in ordine al rapporto di
sussidiarietà (non di specialità) tra l'art. 316 ter e 640 bis cod. pen. - che la condotta contestata (falsa
dichiarazione sulle condizioni di reddito familiare), in quanto non indirizzata al conseguimento
indebito di una sovvenzione pubblica (nel significato enucleato) e non integrata da ulteriori profili
idonei a configurare la sussistenza di artifizi o raggiri e l'induzione in errore del soggetto passivo,
consentisse di ritenere realizzato il delitto di truffa, oggetto di contestazione. Riteneva infine non
accoglibile la tesi della pubblica accusa in ordine all'applicabilità dell'ipotesi delittuosa di cui al
D.L. n. 382 del 1989, art. 3, comma 4, perchè abrogato dal D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 8.
Contro tale decisione ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Patti, che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata per i seguenti motivi:
1) per erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 8, sul
rilievo che nell'abrogazione ivi enunciata, con riferimento a tutte le precedenti norme in materia di
partecipazione alla spesa sanitaria, non si fa menzione del D.L. n. 382 del 1989, art. 3, il quale
stabilisce specificamente la riconducibilità al paradigma della truffa, nell'ipotesi aggravata di cui al
capoverso dell'art. 640 cod. pen., di ogni condotta di indebito conseguimento dei prestazioni
assistenziali sanitarie;
2) per erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 316 ter, 640 e 640 bis cod. pen.,
sul rilievo che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che anche la condotta di mero mendacio,
non accompagnata da ulteriori comportamenti ingannevoli e consistente anche nel semplice
mantenimento del silenzio su circostanze rilevanti, se attivamente orientata a trarre in inganno il
soggetto passivo, integra V artificio della truffa ove tale effetto abbia prodotto. Nel caso di specie,
la sottoscrizione di una dichiarazione ideologicamente falsa sulle proprie condizioni di reddito, oltre
ad integrare il reato previsto dall'art. 483 cod. pen. (per il quale il Giudice per le indagini
preliminari aveva disposto il rinvio a giudizio), aveva indotto l'ente a riconoscere l'esenzione
contributiva. La ritenuta irrilevanza penale della condotta asseritamente esauritasi nella falsa
dichiarazione, non può dunque essere condivisa, perchè, quando la condotta medesima è
caratterizzata da modalità ingannevoli diverse ed ulteriori rispetto alla mera falsa dichiarazione, è
configurabile la fattispecie della truffa aggravata.
Le conclusioni scritte del Procuratore generale presso questa Corte, con le quali si chiede di
annullare la sentenza impugnata, si articolano nella disamina attenta della sentenza impugnata, della
quale si condivide il complessivo impianto motivazionale; constata, tuttavia, la differente rilevanza
che agli effetti della odierna determinazione deve essere assegnato ad una condotta realizzatasi
attraverso la produzione di una falsa autocertificazione, non potendosi sottovalutare, ad avviso del
requirente, l'affidamento ex lege sulla relativa veridicità, atteso che il legislatore attribuisce a tale
genere di dichiarazioni valore certificativo. Tale aspetto, soggiunge il requirente, non è stato mai
oggetto di approfondita attenzione. Se il soggetto ricevente, deve, per legge, affidarsi a tale
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dichiarazione, ad una siffatta autocertificazione non può non annettersi un valore ulteriore rispetto
al semplice mendacio; e, quindi, il significato di artificio per la intrinseca capacità ingannatoria.
Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso del Procuratore della Repubblica, che denuncia violazione di legge in
relazione alla ritenuta vigenza del D.L. 25 novembre 1989, n. 382, art. 3, convertito in L. 25
gennaio 1990, n. 8, è infondato, in quanto l'abrogazione operata dal D.Lgs. 29 aprile 1998, n. 124,
art. 8 (in conformità, anche, alle argomentazioni svolte sul punto dal Procuratore generale nella
requisitoria scritta), si estende a tutta la precedente disciplina in materia di partecipazione alla spesa
sanitaria e di esenzione della stessa; sicchè non è consentito ritenere la sopravvivenza di una singola
norma. La formula usata dal legislatore, non consente, invero, margini di incertezza. Infatti, il
richiamo, con portata caducatoria, di "tutte" le precedenti norme (che già di per sè non lascia spazi
di esclusione), è confermato dal successivo inciso ("non esplicitamente confermate dal presente
decreto"), il quale ultimo, a ben guardare, rafforza il convincimento che il legislatore ha inteso con
la nuova normativa disciplinare ex novo l'intera materia, attraverso una regolamentazione
dettagliata (che per il suo tecnicismo ha fatto ritenere preferibile il sistema della delega al governo)
e completa. Essendo stati ridefiniti i criteri, sia di partecipazione alla spesa sanitaria, sia di
esenzione, sia di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni
sociali agevolate nei confronti di amministrazioni pubbliche, sia di modalità per l'acquisizione delle
informazioni e l'effettuazione dei controlli, anche le previsioni sanzionatorie della precedente
disciplina restano travolte dal novum. Ed invero il D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 4, comma 7 prevede
in qual modo il diritto all'esenzione debba essere riconosciuto dalle AUSL, nonchè il contenuto e la
funzione della dichiarazione sostitutiva a norma dell'allora vigente L. n. 15 del 1968 (abrogata e
sostituita dal D.P.R. 445 del 2000, che, però, all'art. 78, ha espressamente stabilito che restano in
vigore le disposizioni di cui al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 109, concernenti la dichiarazione
sostitutiva unica per la determinazione dell'indicatore della situazione economica equivalente dei
soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate). Mentre il successivo art. 6, regola le
procedure e i tempi, in particolare le competenze regionali (comma 2), per il riconoscimento del
diritto all'esenzione (lett. a); per il rilascio da parte delle AUSL del documento attestante il diritto
all'esenzione (lett. b); per le modalità con le quali effettuare i controlli sulle esenzioni riconosciute
(lett. c). La particolarità di tale procedura - la cui attivazione è individuata nella dichiarazione
sostitutiva del richiedente (D.Lgs. n. 109 del 1998, art. 4, tuttora in vigore, perchè, si ribadisce, fatto
salvo espressamente dal D.P.R. 445 del 2000, sopra citato, art. 78), la quale prevede l'espressa
dichiarazione di consapevolezza della possibilità (nel caso di corresponsione della prestazione) di
controlli diretti ad accertare la veridicità delle informazioni fornite - da ulteriormente conto della
intenzione del legislatore di dettare una disciplina integralmente nuova.
Del resto, la disposizione di cui al citato D.L. n. 382 del 1989, art. 3, nel suo dato testuale
("chiunque, con qualsiasi mezzo, ottiene indebitamente l'esenzione dal pagamento delle quote di
partecipazione alla spesa sanitaria"), era stato correttamente interpretata (cfr. Cass., Sez. 2^, 6
marzo 1996, P.M. in proc. Angeloni, n. 3778/96, C.E.D, Cass., n. 204752) come fattispecie da
leggere in maniera non isolata ed indipendente, (in quanto non retta da principi giuridici propri), ma
alla stregua dei principi generali ai quali si ispira anche l'art. 640 cod. pen. (cui la disposizione
predetta espressamente rinvia quoad poenam), e che informano un più ampio sistema di norme volte
ad impedire le frodi compiute mediante lo svolgimento di attività illecite. In conseguenza, anche nel
caso in cui si dovesse pervenire al diverso approdo della sua vigenza, il risultato non muterebbe,
dovendosi comunque tener conto del novum che è conseguito all'entrata in vigore dell'art. 316 ter
cod. pen..
2. Più complessa è la questione che propone il secondo motivo di ricorso. La sentenza impugnata,
partendo dalla premessa che l'abrogazione del sopra citato D.L. n. 382 del 1989, art. 3 aveva
comportato la necessità di ricondurre il profitto conseguente all'indebita esenzione dal pagamento
delle quote di partecipazione sanitaria all'ipotesi delittuosa di cui all'art. 640 cod. pen. (come del
resto contestato all'imputato) solo nel caso in cui la condotta di induzione in errore fosse
69
conseguenza di artifici e raggiri, li ha ritenuti non sussistenti perchè la condotta si era risolta nella
semplice falsa dichiarazione di persona non abbiente. A giustificazione di tale assunto, in sentenza
si è richiamato quanto stabilito nell'ordinanza n. 95 del 2004 pronunciata dalla Corte costituzione
l'8-12 marzo 2004 sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 316 ter cod. pen. (richiamo
sicuramente opportuno perchè la definizione della condotta delineata dal delitto di truffa è unitaria
sia che essa si esplichi a danno del privato, sia che si esplichi ai danni dello Stato o di altro ente
pubblico).
La Corte costituzionale, rammentata la coincidenza della questione con quella in passato sollevata
per la previsione punitiva di cui alla L. 23 dicembre 1986, n. 898, art. 2, ha rilevato che "il carattere
sussidiario e "residuale" dell'art. 316 ter cod. pen. rispetto all'art. 640 bis cod. pen. - a fronte del
quale la prima norma è destinata a colpire fatti che non rientrino nel campo di operatività della
seconda - costituisce dato normativo assolutamente inequivoco". Ha in tal modo escluso
l'automatica sovrapponibilità delle condotte individuate nell'art. 316 ter cod. pen. (dichiarazioni o
documenti falsi o attestanti cose non vere) con quelle di cui all'art. 640 cod. pen., cioè con gli
artifizi e i raggiri. Ha tuttavia espressamente riservato all'"ordinario compito interpretativo del
giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie
delineata dall'art. 316 ter cod. pen. integri anche la figura descritta dall'art. 640 bis cod. pen.,
facendo applicazione in tal caso solo di quest'ultima previsione punitiva", perchè ha ritenuto
evidente, anche in ragione delle preoccupazioni espresse dal legislatore nel corso dei lavori
parlamentari, che "l'art. 316 ter cod. pen. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati
una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella già offerta dall'art. 640 bis cod. pen.,
"coprendo", in specie, gli eventuali margini di scostamento - per difetto - del paradigma punitivo
della truffa rispetto alla fattispecie della frode "in materia di spese", quale delineata dall'art. 1 della
Convenzione (PIF): margini la cui concreta entità - correlata alle più o meno ampie "capacità di
presa" che si riconoscono al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli "artifici o
raggiri", in qualunque forma realizzati, sia all'induzione in errore - spetta all'interprete identificare,
ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a
scrutinio".
Vale a dire: nella valutazione della fattispecie concreta è rimesso al giudice stabilire se la condotta
che si è risolta in una falsa dichiarazione, per il contesto in cui è stata formulata, integri l'artificio di
cui all'art. 640 cod. pen..
La soluzione adottata in via interpretativa dal Giudice delle leggi è condivisibile, e d' altra parte
coincide con i principi già affermati da questa Corte, anche a sezioni unite (Cass., Sez. un., 24
gennaio 1996, Panigoni ed altri, in tema di rapporto fra la L. n. 898 del 1986, art. 2, ed il reato di
truffa; Cass., Sez. 6^, 24 settembre 2001, P.M. in proc. Tammerle, n. 41928/01, C.E.D. Cass., n.
220200) Dalla più volte richiamata ordinanza n. 95 del 2004 della Corte costituzionale emergono,
dunque, due profili che paiono essereoltremodo qualificanti ai fini dell'odierno scrutinio. Da un lato,
infatti, traspare in termini "costituzionalmente conformati" il dato incontrovertibile - alla stregua,
anche, degli analoghi approdi, cui la Corte stessa era pervenuta in riferimento ai precedenti
normativi in tema di frodi FEOGA, non a caso altrettanto "travagliati" quanto a ricostruzione
ermeneutica - rappresentato dalla circostanza che, atteso il più che dichiarato carattere residuale e
sussidiario che contraddistingue il reato di cui all'art. 316 ter cod. pen. rispetto alla ipotesi di truffa,
la descrizione della relativa fattispecie individua una condotta necessariamente "diversa" da quella
che invece caratterizza la figura, per così dire, "maggiore": giacchè, ove così non fosse, tra le due
norme poste a raffronto, la relatio correttamente evocabile non sarebbe quella di sussidiarietà
(rapporto, questo, che riflette un paradigma di alternatività strutturale tra le fattispecie, nel senso
che le aree applicative delle due figure restano fra loro nettamente distinte, ancorchè raccordate da
un fenomeno di progressività lesiva), ma quella della specialità, per la quale una figura assumerebbe
connotazioni di parziale o totale "assorbimento" degli elementi descrittivi della seconda, o dando
vita ad un fenomeno di "assorbimento" reciproco, per "cerchi concentrici".
Al riguardo, non possono, quindi, non essere condivise le obiezioni di equivocità espresse dai
70
commentatori e fatte proprie dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, alla sentenza, di
questa stessa Sezione, del 22 marzo 2002, Morandell, essendosi in essa affermato - non senza un
formale ossequio ai dieta delle Sezioni unite, pronunciatesi sul finitimo tema delle frodi FEOGA
(Sez. un., 15 marzo 1996, Panigoni) - che, avuto anche riguardo alla scarsa chiarezza dell'innesto
normativo rappresentato dall'art 316 ter cod. pen. e dei suoi problematici rapporti con il delitto di
truffa, non potesse "essere di risolutivo aiuto l'attardarsi ad approfondire i concetti di sussidiarietà o
specialità delle norme, perchè, nel caso in esame sembrerebbe trattarsi quasi di un criterio di
sussidiarietà espresso ("salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis) il quale, in
realtà, disegna e ritaglia una fattispecie normativa specifica nell'ambito della più generale
previsione della truffa comunitaria". Tale assunto, infatti, negato a chiare lettere dal Giudice delle
leggi, non può trovare accoglimento, proprio per la inconciliabilità logica delle due prospettive di
fondo sulla cui "confondibilità" quell'assunto stesso poggiava; giacchè, una volta ricondotto il
rapporto tra le due fattispecie nello schema della "specificità" dell'una rispetto all'altra, doveva
derivarne la ontologica esclusione di qualsiasi rapporto di sussidiarietà. Mentre, infatti, dalla
mancanza della norma sussidiaria non deriva la applicabilità della norma, per così dire, "sussidiata"
(la prima, anzi, è per sua stessa natura destinata a colmare lacune precettive e sanzionatorie che
residuano dalla seconda), ove difetti, invece, la norma speciale, si "riespande" l'area applicativa
della norma generale: i due fenomeni, in sostanza - quello di sussidiarietà, da un lato, e quello di
specialità, dall'altro - non soltanto si presentano fra loro come realtà normative nettamente
distinguibili, ma si collocano, addirittura, su piani alternativi.
Sotto altro profilo, dalla citata sentenza della Corte costituzionale, deriva anche che, qualsiasi
diversa interpretazione o applicazione dell'art. 316 ter cod. pen., - come traspare dalla stessa
"questione" sulla quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi e che emerge dalla parte narrativa
dell'ordinanza - ineluttabilmente condurrebbe a conseguenze del tutto irragionevoli, giacchè, a
configurare il richiamato art. 316 ter cod. pen. come una sorta di figura attenuata di truffa, si
creerebbe, nel sistema, un singolare "privilegio" nel trattamento sanzionatorio di ipotesi di frodi in
teoria più gravi, perchè realizzate contro enti pubblici (addirittura con semplice sanzione
amministrativa, se la somma indebitamente percepita è inferiore alla soglia prevista dallo stesso art.
316 ter cod. pen.), rispetto al trattamento riservato alle truffe commesse in danno di privati.
Il corollario che se ne può trarre, propone, dunque, una alternativa ineludibile: o si ritiene che la
semplice "presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero ...
l'omissione di informazioni dovute" non sia più condotta qualificabile come artifizio o raggiro agli
effetti di quanto previsto dall'art. 640 cod. pen., come il giudice a quo e parte della dottrina
sostengono; oppure, occorre riconoscere che anche quei "fatti" possono integrare gli artifizi o
raggiri descritti dal delitto di truffa. La richiamata ordinanza della Corte costituzionale, come già si
è accennato, mostra di propendere chiaramente verso quest'ultima soluzione, sottolineando come
rientri "nell'ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata
condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall'art. 316 ter c.p. integri anche la
figura descritta dall'art. 640 bis, c.p., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest'ultima
previsione punitiva". Non senza però aver poco prima puntualizzato, come debba riconoscersi
all'interprete - e, dunque, al giudice - il compito di accertare i concreti margini di operatività dell'art.
316 ter cod. pen., sempre, peraltro, nel rispetto della "inequivoca vocazione sussidiaria" di tale
norma, misurandone l'entità, come già si è accennato, alla stregua delle "più o meno ampie
"capacità di presa" che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli
"artifizi e raggiri", in qualunque forma realizzati, sia al requisito della induzione in errore".
Poichè, quindi, artifizi e raggiri continuano a permanere nel sistema come condotte in sè
strutturalmente variegate e contenutisticamente "aperte", se ne deve desumere che, ove il legislatore
ne avesse inteso circoscrivere l'ambito, avrebbe operato - claris verbis - sulla struttura dello stesso
art. 640 cod. pen., e non certo attraverso una norma "di confine", destinata a colmare un'area di
condotte (a torto o a ragione) ritenute non punibili a titolo di truffa.
Pretendere quindi di derivare dall'art. 316 ter un "indicatore" normativo destinato a produrre un
71
"prosciugamento" contenutistico delle condotte che possono integrare artifizi e raggiri,
equivarrebbe ad introdurre - a parere di questa Corte - un arbitrio ermeneutico, produttivo di sicuri
effetti incostituzionali, contrario alla dichiarata mens legis e certamente antitetico rispetto a quella
"vocazione sussidiaria", che la norma stessa - stavolta con inequivoco ed espresso esordio
precettivo - ha inteso programmaticamente enunciare, come "marcatore" rispetto alla figura della
truffa aggravata a norma dell'art. 640 bis, cod. pen.. Ciascuna delle condotte indicate dallo stesso
art. 314 ter cod. pen., può dunque concorrere ad integrare, in ipotesi, gli artifizi e raggiri previsti per
la realizzazione del delitto di truffa: sempre che, ovviamente, di tale figura vengano integrati anche
gli ulteriori presupposti. Il problema sta quindi nel calibrare, come ha rammentato la Corte
costituzionale, lo spazio entro il quale un determinato comportamento, eventualmente
corrispondente alle figure descritte dall'art. 316 ter cod. pen., realizzi le più che tradizionali forme
degli artifizi o raggiri, dai quali derivi, poi, l'ulteriore requisito della induzione in errore (si è anzi
evidenziato, a quest'ultimo riguardo, come nella fattispecie di cui all'art. 316 ter difetti, rispetto alla
ipotesi della truffa, proprio l'elemento della induzione in errore: il che, ad avviso di alcuni
commentatori, consentirebbe di intravedere un margine residuale di applicabilità dello stesso art.
316 ter cod. pen. nelle ipotesi, ad esempio, dell'approfittamento dell'errore altrui, o della condotta
che si iscriva nell'ambito di un procedimento che non comporti alcuna verifica sulla veridicità delle
dichiarazioni del soggetto attivo o delle relative semplici omissioni).
In proposito, la dottrina, come è noto, è da tempo sostanzialmente concorde nel definire l'artifizio
come una manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna, provocata mediante la simulazione
di circostanze inesistenti o, al contrario, con la dissimulazione di circostanze esistenti. Attraverso,
dunque, una più o meno callida "messa in scena", si realizza una realtà apparente, in varia misura
difforme da quella effettiva, attraverso una immutatio veri che può attingere qualsiasi elemento del
mondo circostante. Il raggiro, invece, operando direttamente sulla psiche del soggetto, viene fatto
consistere in una proposizione menzognera corredata di un ingegnoso avvolgimento di parole od
argomentazioni atte a far scambiare il falso per vero.
Come, però, si è sottolineato in dottrina - puntualmente rammentata dal Procuratore generale nella
propria requisitoria - la giurisprudenza di questa Corte ha gradualmente finito per svalutare il ruolo
della condotta, orientandosi sempre più verso una configurazione del reato in senso causale, ove ciò
che rilevava non era tanto la definizione dei concetti di artifizi e raggiri, quanto, piuttosto, la
idoneità di quelle condotte a produrre l'effetto di induzione in errore del soggetto passivo. Si è così
assistito al consolidarsi dell'affermazione secondo la quale, ai fini della sussistenza del reato di
truffa, l'idoneità dell'artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento
diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso;
tale idoneità - si è aggiunto - non è perciò esclusa dalla esistenza di preventivi controlli, nè dalla
scarsa diligenza della persona offesa nell'eseguirli, quando, in concreto, esista un artificio o un
raggiro posto in essere dall'agente e si accerti che tra di loro e l'errore in cui la parte offesa è caduta
sussista un preciso nesso di causalità (Cass., Sez. 6^, 25 febbraio 2003, Di Rosa; Cass., Sez. 5^, 27
marzo 1999, Longarini; Cass., Sez. 1^, 7 dicembre 1990, Ricci;
Cass., Sez. 2^, 14 novembre 1989, Scarcelli). Da tale svalutazione della portata definitoria e
precettiva degli artifici e raggiri, in una prospettiva tutta tesa a privilegiare una disamina
causalmente orientata della fattispecie, sarebbe così derivata, secondo alcuni, una dilatazione del
raggio d'azione della truffa, sino ad attrarre - quali elementi idonei ad indurre in errore (e come tali
riguardagli alla stregua di artifizi o raggiri, secondo una visione per così dire "retrograda", che
ricostruisce le cause dagli effetti), condotte in sè "neutre", come il silenzio, o il mendacio.
Come ricorda la già citata sentenza delle Sezioni unite Panigoni, "indubbiamente potrebbe
riproporsi la questione se il concetto di "artifizi o raggiri" sia integrato anche dalla menzogna pura e
semplice e cioè dalla menzogna che, anche senza particolari modalità ingannatorie "aggiuntive",
abbia determinato l'errore nel soggetto passivo. Questione - avvertivano le Sezioni unite - senz'altro
seria, potendosi ritenere che - senza quella "forzatura" del concetto di artifizi e raggiri riconosciuta
da dottrina e giurisprudenza ... - la menzogna pura e semplice integra soltanto la condotta che
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induce in errore, ma non la condotta posta in essere con artifizi e raggiri".
Eppure, non v'è chi non veda come silenzio e mendacio cessino di essere elementi strutturalmente
neutri, per assumere, invece, connotazioni senz'altro "artificiose" o di "raggiro" in rapporto a
specifici obblighi giuridici che qualifichino l'omessa dichiarazione o la dichiarazione contraria al
vero come artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto o manopolazione della altrui sfera
psichica in rapporto allo specifico valore fidefacente che la dichiarazione contraria al vero può
assumere nell'ordinamento.
L'omesso adempimento dell'obbligo di comunicazione, così come la "semplice" menzogna, al di là
dell'effetto di induzione in errore, possono già di per sè integrare - in ragione dello specifico
affidamento che quelle stesse condotte, in positivo o in negativo, possono, ex lege, ingenerare - le
caratteristiche della artificiosa mise en scene che rappresenta l'in se della truffa (Cass., Sez. 6^, 3
aprile 1998, Perina; Cass., Sez. 2^, 19 aprile 1991, Salvalaio; Cass. Sez. 2^ 23 giungo 1989, Della
Torre).
La conclusione, dunque, lumeggiata dal giudice a quo e, come si è accennato, condivisa da una
parte della dottrina, secondo la quale l'innesto dell'art. 316 ter cod. pen. restringerebbe l'area degli
artifizi e raggiri ponendo in seria crisi la perdurante proponibilità delle tesi giurisprudenziali dianzi
riferite, non può trovare accoglimento: il carattere necessariamente sussidiario di quella fattispecie,
infatti, ne esclude la configurabilità alla stregua di "frode minore", per consentirne l'inquadramento
in una apposita categoria di fattispecie "altra" (e dunque alternativa) rispetto alla truffa, i cui
elementi tipizzanti erano e restano quelli contrassegnati da una lunga e consolidata tradizione
ermeneutica.
La condotta descritta dal richiamato art. 316 ter cod. pen. si distingue, dunque, dalla figura delineata
dall'art. 640 bis cod. pen. per le modalità, giacchè la presentazione di dichiarazioni o documenti
attestanti cose non vere deve essere "fatto" strutturalmente diverso dagli artifizi e raggiri, e per la
assenza della induzione in errore, considerato che ove l'ente erogante fosse stato in concreto
"circuito" attraverso la produzione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi, il
fatto finirebbe per essere attratto nell'ambito della clausola di salvezza con cui lo stesso art. 316 ter
cod. pen. esordisce. La sussistenza, dunque, della induzione in errore, da un lato, e la natura
fraudolenta della condotta, dall'altro, non può che formare oggetto - come puntualmente ha
segnalato la Corte costituzionale e come per certi aspetti induce a ritenere una pertinente lettura
della sentenza Panigoni - di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le
circostanze che caratterizzino la vicenda in concreto. Non senza sottolineare come, la stessa
collocazione topografica dell'art. 316 ter cod. pen., e gli elementi descrittivi che compaiono tanto
nella rubrica che nel corpo della norma, chiaramente mostrino la volontà del legislatore di
perseguire la semplice percezione sine titulo delle erogazioni, e non le "modalità" attraverso le quali
l'indebita percezione si è realizzata; svelando, per questa via, la scelta di non incentrare la voluntas
puniendi, sulle condotte nelle quali l'erogazione è stata realizzata attraverso la frode ed il
conseguente errore dell'ente erogante, nella dichiaratapresupposizione che tale fatto fosse già
"coperto" dalla previsione dettata dall'art. 640 bis cod. pen.. In questa prospettiva, è ben vero che
l'area applicativa della figura "sussidiaria" finisce per circoscriversi ad ipotesi che, nel panorama
della più estesa tematica delle frodi, rischiano di assumere connotazioni del tutto marginali: ma ciò
risponde, a ben guardare, proprio alla scelta - imposta dagli obblighi comunitari - di non lasciare
nulla di "impunito" nello specifico settore, in linea, dunque, con il carattere, non soltanto
sussidiario, ma anche "residuale" che - come ricorda l'ordinanza n. 95 del 2004 della Corte
Costituzionale - caratterizza l'art. 316 ter cod. pen. rispetto all'art. 640 bis cod. pen..
Resta ovviamente irrisolto il più generale problema di definire i margini di soluzione delle possibili
"frizioni ermeneutiche" cui ineluttabilmente si può andare incontro nel tracciare una sorta di actio
finuim regundorum tra le due figure di reato. Ma, per quel che qui rileva, sembra dirimente
osservare che - come ha correttamente puntualizzato il Procuratore generale presso questa Corte - la
natura e la forma del "mendacio" assumono connotazioni ben diverse alla luce del contesto
"normativo" in cui esse si iscrivono. Altro è, infatti, la dichiarazione o il documento nei quali si
73
prospettano circostanze non vere, senza che sul dichiarante incomba uno specifico obbligo di verità;
altro è l'identica prospettazione o produzione documentale ove, invece, quell'obbligo sussista in
forza di una specifica previsione. Nell'ipotesi, poi, in cui - come nella vicenda in esame - non
soltanto l'obbligo di verità sia positivamente sancito dalla legge, ma sia addirittura presidiato da una
apposita figura di reato, ne consegue che la "trasmigrazione" di un siffatto "mendacio" nell'area
degli artifizi e raggiri deve ritenersi senz'altro realizzata.
E' del tutto evidente, infatti, che, mirando la sanzione penale ad assicurare la certezza e la
speditezza del traffico giuridico, la veridicità dell'atto così presidiato è destinata a suscitare uno
specifico affidamento nei destinatari del relativo contenuto dichiarativo o attestativo; con la
conseguenza che la relativa immutatio veri da parte dell'autore è in grado di inscenare una
artificiosa rappresentazione della realtà, in sè atta ad indurre in errore quanti - non per scelta
soggettiva, ma in ragione del carattere giuridicamente fidefacente di quell'attestato o documento erano tenuti ad una condotta di "affidamento" quali destinatari di tali atti. In tale cornice ben si
iscrive, dunque, proprio la vicenda oggetto del presente scrutinio, giacchè, come emerge dalla
imputazione e dalla stessa sentenza impugnata - nella quale si da atto di come diverso debba essere
l'epilogo in ordine al reato di cui all'art. 483 cod. pen., contestato al capo A) - la truffa ai danni della
Azienda Ospedaliera si sia realizzata con artifizi e raggiri consistiti, appunto, "nel rendere la falsa
dichiarazione sostitutiva di certificazione di cui al capo che precede". Falso contestato, appunto, sub
specie di cui all'art. 483 cod. pen., art. 61 cod. pen., n. 2, in relazione al D.P.R. 28 dicembre 2000, n.
445, art. 76, comma 3, e art. 46, lettere o) ed r), perchè - si legge nella rubrica, "con dichiarazione
resa ad impiegato addetto all'ufficio ticket dell'Ospedale di Patti, autocertificava, con ciò attestando
il falso, di essere disoccupato o licenziato, e comunque che il proprio nucleo familiare era titolare di
un reddito non superiore a quello previsto per l'attribuzione del diritto alla fruizione delle
prestazioni mediche richieste in regime di esenzione contributiva".
Posto, quindi, che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono destinate a "provare", come
recita il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 46, comma 1, determinati stati, qualità personali e fatti, e
considerato che tali dichiarazioni "sono considerate come fatte a pubblico ufficiale" e, se mendaci,
sono punite "ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia" (art. 76 del medesimo
decreto), ne deriva che il relativo valore e regime giuridico equivale, in tutto e per tutto, alle normali
e corrispondenti certificazioni pubbliche, con tutto quel che ne consegue sul piano dell'affidamento
che in esse doverosamente va riposto, alla stregua di una precisa e cogente scelta normativa. Donde
la sussistenza, nel caso concreto, di una condotta che presenta tutti i "requisiti" per poter ritenere
nella specie integrati gli artifizi e raggiri atti ad indurre in errore la parte offesa, e, quindi,
permettere le conseguenti delibazioni, sia pure agli effetti del circoscritto ambito processuale che
qui rileva, in ordine alla ravvisabilità del contestato delitto di truffa aggravata, di cui all'art. 640
cod. pen., comma 2. 3. La sentenza deve in conseguenza essere annullata.
A norma dell'art. 569 cod. proc. pen., comma 4, gli atti vanno trasmessi alla Corte di appello di
Messina competente per l'appello, che si atterrà ai principi di diritto indicati.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e dispone che gli atti siano trasmessi alla Corte di appello di
Messina per l'ulteriore corso.
Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2006.
Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2006
- Il pubblico dipendente che, avendo effettivamente compiuto una missione fuori sede,
richieda falsamente rimborso delle spese sostenute per il trasferimento commette il delitto di
truffa ai danni dell'amministrazione dalla quale dipende, ma non sarà ipotizzabile un falso
punibile, perchè, com'è noto, la falsità ideologica in atti privati non è prevista come reato.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
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SEZIONE QUINTA
SENTENZA 12-04-2005 / 22-04-2005, n. 15271
Svolgimento del processo
Carmen P. ed Emanuela B. impugnano per cassazione la sentenza che, in accoglimento dell'appello
del pubblico ministero, ne ha dichiarato la colpevolezza in ordine al delitto di falso in atto pubblico,
perchè, nella qualità di ispettrici dell'Inail, avevano attestato e documentato falsamente spese di
missione superiori a quelle effettivamente affrontate. Propongono entrambe due motivi
d'impugnazione.
Con il primo motivo le ricorrenti deducono violazione dell'art. 479 c.p. e sostengono che le richieste
di rimborso delle spese di missione non vengono redatte nell'esercizio di pubbliche funzioni, sicchè
si tratta di atti privati per i quali non è punibile la falsità ideologica. Con il secondo motivo le
ricorrenti deducono in via subordinata violazione dell'art. 480 c.p., sostenendo che le suddette
richieste di rimborso possono essere qualificate tutt'al più certificati amministrativi, non atti
pubblici.
Il primo motivo del ricorso è fondato e assorbente. Secondo la giurisprudenza di questa Corte,
invero, "in materia di falso ideologico in atto pubblico, è tale ogni scritto redatto dal pubblico
impiegato e dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle loro funzioni, anche quando si tratti di
atti di corrispondenza, interna o esterna, o comunque, di atti interni alla P.A., anche non
tassativamente previsti dalla legge: ciò che rileva è la provenienza dell'atto dal pubblico ufficiale
nell'esercizio delle sue funzioni ed il contributo da esso fornito - in termini di conoscenza o di
determinazione - ad un procedimento della Pubblica amministrazione" (Cass., sez. 5^, 18 marzo
1999, Andronico, m. 213363).
Sicchè è sufficiente che l'atto provenga dalla pubblica amministrazione, perchè rientri nella tutela
prevista dall'art. 479 c.p., essendo irrilevante la sua eventuale destinazione meramente interna
all'organizzazione.
Vanno pertanto considerati pubblici anche gli atti redatti dal pubblico dipendente per attestare
l'effettivo espletamento di una missione di istituto (Cass., sez. 5^, 23 ottobre 1995, Iaquinta, m.
202500) ovvero la sua stessa presenza in ufficio (Cass., sez. 5^, 9novembre 2004, Amendola, m.
230261), perchè si tratta di attestazioni attinenti, oltre che eventualmente al rapporto di lavoro del
dichiarante, anche al regolare funzionamento dell'ufficio pubblico e possono assumere nei confronti
dei terzi un rilievo probatorio non predeterminabile.
Deve escludersi invece che il pubblico dipendente rediga atti pubblici quando non agisca neppure
indirettamente per conto della pubblica amministrazione, ma operi solo come soggetto privato in un
rapporto contrattuale con la sua stessa amministrazione di appartenenza. E tanto si desume non solo
dall'art. 479 c.p., che per la sua applicazione richiede l'esercizio delle funzioni pubbliche, e dall'art.
493 c.p., che presuppone l'esercizio delle attribuzioni dell'incaricato di pubblico servizio equiparato
al pubblico ufficiale, ma anche dall'art. 482 c.p., laddove, sia pure ai soli fini delle falsità materiali,
equipara al privato il pubblico ufficiale che agisca al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni.
Redige perciò un atto privato il pubblico dipendente che, avendo effettivamente compiuto una
missione fuori sede, richieda il rimborso delle spese sostenute per il trasferimento.
In questi casi infatti il pubblico dipendente non esprime la volontà o la conoscenza della pubblica
amministrazione, ma rappresenta esclusivamente un suo interesse privato, senza attestare alcunchè
in ordine all'attività della pubblica amministrazione. Sicchè nella sua condotta risulterà
configurabile il delitto di truffa ai danni dell'amministrazione dalla quale dipende, ma non sarà
ipotizzabile un falso punibile, perchè, com'è noto, la falsità ideologica in atti privati non è prevista
come reato.
La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio, perchè il fatto non è previsto dalla legge
come reato.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè il fatto non è previsto dalla legge come
75
reato.
Così deciso in Roma, il 12 aprile 2005.
Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2005.
RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ E VIOLENZA SESSUALE
TRACCIA:
Tizio è un signore di circa quaranta anni, che ama uscire la sera con colleghe di lavoro.
Una sera, mentre passeggiava vicino al Colosseo con Francesca (giovane attrice polacca),
intravedeva la ex moglie Marta; Tizio si avvicinava a Marta (dopo aver chiesto a Francesca di
attendere qualche minuto da sola), chiedendole un appuntamento per il mese successivo, al
ristorante Gustibus, nei pressi di piazza di Spagna.
Marta, timidamente, accettava.
Accadeva, poi, che Tizio chiedeva a Francesca di lavorare per lui, in cambio di 200,00 euro al
giorno; Francesca, senza lavoro e bisognosa di denaro, accettava senza chiedere ulteriori
spiegazioni.
Tizio, allora, la conduceva presso la sua abitazione, spiegandole che avrebbe dovuto prostituirsi
ogni sera; Francesca a quel punto urlava, ma Tizio la legava di forza ad un letto e si allontanava.
Ogni sera Tizio la slegava, portandola in strada a prostituirsi. Francesca subiva la volontà di Tizio.
Tizio, poi, un giorno, andava a cena con Marta a cenare presso Gustibus; dopo cena, Tizio iniziava
a dire a Marta di voler tornare insieme.
Tizio faceva anche gesti volti a far capire a Marta di volerla baciare, ma non la toccava mai; Marta
minacciava di procedere a denuncia per violenza sessuale.
Tizio, allora, tornava a casa da solo, adirato.
Tizio, una volta a casa, andava da Francesca che era legata ed indossava i jeans; Tizio provava a
baciarle le cosce, ma non riuscendo a sfilare i jeans, cercava di baciare il collo; neanche in questo,
però, riusciva.
Quella stessa notte Francesca riusciva a scappare.
Due giorni dopo, Tizio si recava da un legale per avere informazioni circa la sua posizione giuridica
complessiva.
Il candidato affronti la complessa questione giuridica posta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, poteva essere utile distinguere la fattispecie antigiuridica integrata da Tizio nei
confronti di Francesca, dalla fattispecie realizzata verso Marta.
Con riferimento alla posizione di Tizio verso Francesca, emerge una condotta che sembra integrare
la riduzione in schiavitù, ex art. 600 c.p., ed il sequestro di persona, ex art. 605 c.p., oltre che il
reato di violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p.
Con riferimento al reato di riduzione in schiavitù emerge una condotta sostanzialmente finalizzata
ad uno scopo (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o prestazioni che comportano
sfruttamento): si esercita un potere, simile a quello del diritto di proprietà, per realizzare uno scopo
76
(si parla di dolo specifico).
In questo senso, allora, Tizio sembra aver realizzato il reato ex art. 600 c.p. perché costringe
Francesca a fare ciò che lui vuole ed, in particolare, a prostituirsi.
Francesca diventa una res senza diritti, succube della volontà di Tizio.
E’ possibile ipotizzare anche il concorso con il reato di sequestro di persona?
Al quesito si potrebbe dare risposta negativa (con riferimento al caso di specie), in considerazione
del fatto che non viene negata in assoluto la libertà personale (nel senso di costringimento fisico a
restare ferma in un certo luogo), in quanto Francesca esce ogni sera per prostituirsi; id est: non
emerge la restrizione assoluta della libertà (anche di locomozione), quanto piuttosto la coartazione a
fare qualcosa (prostituzione) di specifico (nel sequestro di persona, di massima, il sequestrante non
richiede alla vittima una condotta attiva), per cui non vi è sequestro di persona, ma “solo” riduzione
in schiavitù.
Ulteriore problema che si poneva nel rapporto tra Tizio e Francesca, era la sussistenza
dell’eventuale reato di violenza sessuale; Tizio ha violentato, ex art. 609 bis c.p., Francesca?
Qui il problema posto andava risolto (preferibilmente) alla luce della giurisprudenza più recente.
Il fatto che Francesca indossasse i jeans non rileva specificatamente sulla questione (con
l’occasione, si ricorda che la tesi relativa alla non configurabilità del reato di violenza sessuale, in
presenza di una donna che indossa i jeans, è stata abbandonata, di recente), se non nel senso che
Tizio non riesce a baciare le cosce di Francesca, con la conseguenza che non si integra il reato di
violenza sessuale, ma al più tentata violenza sessuale; anche con riferimento al tentato bacio sul
collo sembrerebbe configurarsi il tentativo di violenza sessuale (a meno che Tizio non sia riuscito,
in concreto, a sfiorare con le labbra il collo di Francesca, ma la traccia sembrava escluderlo).
Successivamente, si poteva porre il problema della sussistenza o meno del reato di violenza sessuale
(o tentata violenza sessuale) di Tizio verso Marta.
In questo caso, invero, non vi è alcun contatto tra Tizio e Marta che, in qualche modo, possa
giustificare una restrizione della libertà di autodeterminazione di Marta (Tizio faceva solo gesti,
senza toccare alcunché); né, altresì, sembrerebbe poter sussistere il tentativo, in quanto non c’è
proprio un minimum di minaccia al bene-interesse tutelato.
La stessa giurisprudenza più recente sembra orientata in questo senso.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
Il jeans non può rappresentare il discrimen tra atto sessuale consentito e atto sessuale imposto
con violenza.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA 19 maggio 2006 n. 22049
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
D.B.R., nato a Belluno il 9/1/1965, era tutto a giudizio per rispondere: del delitto p. e p. dell’art. 519
co. 1 c.p. per aver, in Belluno nell’aprile del 1990, costretto con violenza e minaccia S. B. a
congiungersi carnalmente con lui (l’imputato, richiesto dagli occupanti di un appartamento
soprastante i bar presso cui lavorava di recapitare delle consumazioni, aveva chiesto alla B. di
accompagnarlo per aiutarlo a svolgere la commissione e al ritorno, dopo avere fermato ad un piano
intermedio l’ascensore sul quale entrambi si trovavano, con uno strattone costringeva la giovane ad
uscire e quindi premendola contro la parete del pianerottolo riusciva ad abbassarle i pantaloni e gli
slip e quindi la penetrava pur parzialmente con il membro: azione da cui desisteva per la reazione
77
che la ragazza, dopo i primi attimi di smarrimento, si opponeva, anche mettendosi a piangere; del
delitto p. e p. Dell’art. 527 c.p. per aver compiuto su S. B., nelle circostanze e con le modalità di cui
al capo che precede, gli atti osceni ivi descritti (parziale denudamento della ragazza e congiunzione
carnale).
Con sentenza in data 11/4/1997 il Tribunale di Belluno dichiarava il D.B. colpevole di entrambi i
delitti a lui ascritti e, ritenuto il vicolo di continuazione tra tali reati, lo condannava alla pena
principale di anni 3 e mesi 2 di reclusione ed al quella accessoria dell’interdizione dai pubblici
uffici per 5 anni.
Il predetto imputato era altresì condannato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte
civile, danni che venivano liquidati direttamente in £ 30.000.000, oltre alle spese di lite.
In ordine alla ritenuta responsabilità, il primo Collegio la fondava in principalità sulle deposizioni
della parte lesa e della sua amica A.S., sulla valutazione critica delle dichiarazioni dell’imputato,
nonché su una serie di convalidanti considerazioni logiche.
In particolare attendibili e precisi, almeno sui punti centrali della vicenda, erano ritenuti dal
tribunale sia la parte lesa B., sia la sua amica e compagna di scuola A.S.
In particolare quest’ultima aveva confermato che il D.B., nel bar, aveva chiesto alla B.S. di andar
via con lui; che questa aveva accettato ed era stata fuori un certo tempo; che al ritorno la ragazza era
sconvolta e le aveva chiesto di essere accompagnata al bagno; che in tale locale la B. le aveva
confidato che il D.B. aveva abusato di lei, mostrandole gli slip sporchi di sangue.
Trovavano così, secondo i primi giudici, sostanziale riscontro le dichiarazioni accusatorie della
parte lesa che aveva ricostruito la violenza subita e risposto ad una serie di considerazioni critiche
avanzate dalla difesa.
Prendendo poi in esame le dichiarazioni dell’imputato, il Tribunale rilevava come costui, pur
negando l’addebito anche con toni non privi di arroganza e supponenza, avesse ammesso di essersi
fatto accompagnare dalla B. (circostanza che, peraltro, aveva negato in sede di indagini) adducendo
l’intenzione di aver un semplice colloquio.
I primi giudici ritenevano poi che la tesi difensiva di una denuncia costruita per ritorsione, dopo
l’interruzione di un rapporto sentimentale, era smentita dal riferito stato di assoggettamento (che da
solo dava ragione del ritardo nella denuncia) e comunque non era provata anche per la rinuncia ad
escutere quei testi che, secondo l’originaria impostazione difensiva, avrebbero dovuto deporre in tal
senso.
Avverso tale sentenza proponeva rituale impugnazione in appello l’imputato.
della Corte di appello di Venezia con sentenza del 10 mar. 2005- 11 apr. 2005, in parziale riforma
della sentenza 11/4/1997 del Tribunale di Belluno, dichiarava non doversi procedere nei confronti
dell’appellante in ordine al reato di cui all’art. 527 c.p. perché estinto per prescrizione; ritenuto poi
il fatto contestato al capo a) come rientrante nella previsione dell’art. 609 bis, ultimo comma, c.p.
rideterminava l pena nei confronti del predetto imputato in anni 2 di reclusione; condannava poi il
D.B. a rifondere alla costituita parte civile le spese del grado.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è articolato in tre motivi con il primo motivo il ricorrente si duole dell’irrituale
inserimento di un giudice onorato nel collegio del tribunale senza che risultasse l’impedimento o la
mancanza di un giudice togato.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’inadeguata valutazione delle risultanze probatorie.
In particolare non si sarebbe tenuto conto che la parte offesa indossava pantaloni del tipo jeans, che
secondo comune esperienza non è possibile sfilare senza la fattiva collaborazione di chi li indossa.
Con il terzo motivo il ricorrente fa valere la (ritenuta) estinzione del reato per prescrizione.
Il primo motivo è infondato.
Questa Corte (Cass. sez. I 2 apr. 2004, Sepede) ha già affermato, quanto alla capacità del giudice,
che la partecipazione al collegio di un giudice onorario non è causa di nullità.
Ed invero, ha precisato la cit. pronuncia, nessuna specifica disposizione di legge impedisce che un
giudice onorario venga chiamato a far parte del tribunale; ne ciò può desumersi dall’art. 43 bis ord.
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giud., che si limita ad introdurre, come si evince dalla sua formulazione letterale, un mero criterio
organizzativo dell’assegnazione del lavoro tra i giudici ordinari e quelli onorari (cfr. anche Cass.,
sez. IV, 19 feb. 2004, n. 20187, Suriel; Cass., VI, 21 mar. 2003, n. 20517, Ragosa).
Analogamente Cass., sez. VI, 19 feb. 2004, n. 20187, Suriel, ha ribadito che la trattazione in
dibattimento da parte del giudice onorario di un procedimento penale diverso da quelli indicati
dall’art. 43 bis, co. 3, lett. b), ord. giud., ossia in relazione a reati non previsti nell’art. 550, co. 1,
cod. proc. pen., non è causa di nullità, in quanto la disposizione ordinamentale introduce un mero
criterio organizzativo dell’assegnazione del lavoro tra i giudici ordinari e quelli onorari.
Inammissibile è poi il secondo motivo del ricorso.
Rispetto alla pronuncia invocata dal ricorrente (Cass. 6 nov. 1998, Cristiano) con cui questa Corte
aveva annullato con rinvio, per carenza di motivazione, la sentenza di secondo grado che aveva
affermato la colpevolezza dell’imputato di violenza carnale senza tenere conto del presunto dato di
comune esperienza secondo cui è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona
senza la sua fattiva collaborazione, perché trattasi di un’operazione che è già difficoltosa per chi li
indossa, la successiva giurisprudenza di questa Terza Sezione (Cass., sez. III, 6 nov. 2001, Kamal)
ha precisato che l’attendibilità della vittima della violenza sessuale non può essere inficiata dal fatto
che la stessa indossasse i jeans al momento dello stupro, posto che la paura di ulteriori conseguenze
potrebbe avere determinato la possibilità di sfilare i jeans più facilmente.
La stessa pronuncia ha poi aggiunto che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile,
deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di
legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza (cfr., anche Cass., sez. 24
nov. 1999, Spina).
Nella specie invece l’impugnata pronuncia della Corte d’appello di Venezia è assistita da
motivazione sufficiente ed immune da contraddittorietà.
In particolare la Corte di appello ha ricordato come B.S. ha puntualmente e senza contraddizioni
riferito l’episodio della violenza subita.
Quanto poi alle presunte difficoltà ricostruttivo che avrebbe espresso la teste A. la Corte di appello
ha posto in evidenza come la teste sia stata ferma e chiara, nei punti essenziali (ribadisco, lei mi
aveva detto che l’aveva violentata, praticamente…), ben descrivendo lo svolgersi dell’episodio di
violenza.
In merito poi alla prospettazione secondo cui le tracce di sangue, segno della violenza, sarebbero
riferibili al flusso mestruale la Corte di appello si è fata carico anche di questa deduzione in fatto
rilevando che c’è differenza sostanziale, se non altro quantitativamente, tra l’una cosa e l’altra.
C’era poi l’evidente stato di sconvolgimento della parte lesa, conseguente alla violenza subita.
Insomma la censura del ricorrente attinge null’altro che alla valutazione dei fatti da parte dei giudici
di merito senza per ciò evidenziare alcuna illogicità manifesta della motivazione della sentenza
impugnata, che invece, si ribadisce, è sufficientemente e non contraddittoriamente argomentata.
Infondato è anche il terzo motivo di ricorso.
Il reato, di cui l’imputato è stato ritenuto colpevole, non è prescritto.
Infatti la condotta delittuosa è stata posta in essere il 30 apr. 1990, talché la prescrizione sarebbe
decorsa (dopo 15 anni, stante l’interruzione del termine di prescrizione) il 30 apr. 2005.
Ma occorre considerare il rinvio del dibattimento a richiesta della difesa dal 4 feb. 1994 al 15 apr.
1994e dal 20 gen. 1995 al 3 nov. 1995, per la durata complessiva di 11 mesi e 24 giorni, periodo
questo che si aggiunge all’ordinario termine prescrizionale.
Questa Corte (Cass., sez. un., 28 nov. 2001, Cremonese) ha infatti affermato che la sospensione del
comportamento e il rinvio o la sospensione del dibattimento comportano la sospensione dei relativi
termini ogni qualvolta siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su
loro richiesta e sempre che l’una o l’altra non siano determinati da esigenze di acquisizione della
prova e dal riconoscimento di un termine a difesa.
Successivamente in senso conforme v. Cass., sez. un., 24 set. 2003, Putrella.
Successivamente, fissata l’udienza del 9 mar. 2006, prima del compimento del termine
79
prescrizionale, quest’ultimo è stato ulteriormente sospeso (per 30 giorni) per consentire alla difesa
di presentare motivi aggiunti ai sensi dell’art. 10, co. 5, legge 20 feb. 2006 n. 46; sicché il termine
finale di prescrizione del reato deve fissarsi nel 22 mag. 2006, non decorso alla data dell’odierna
pronuncia.
Pertanto il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma, 19 mag. 2006.
Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2006.
- E’ un dato di comune esperienza che non è possibile sfilare i jeans senza il consenso della
vittima.
Corte di CassazioneIn data 12-7-92 R. P., allora diciottenne, denunciava alla Questura di Potenza
che il giorno precedente, verso le ore 12,30, era stata vittima di una violenza carnale consumata in
suo danno da C. C., suo istruttore di guida. Costui, come aveva fatto altre volte, l'aveva prelevata
presso la sua abitazione, per effettuare la lezione di guida pratica. Sennonché, con la scusa di dover
prelevare altra ragazza pure interessata alle lezioni di guida, l'aveva condotta fuori dal centro abitato
e, fermata l'autovettura in una stradella interpoderale, l'aveva gettata a terra e, dopo averle sfilato da
una gamba i jeans che indossava, l'aveva violentata. Consumato l'amplesso, l'aveva condotta a casa
imponendole con minacce di non rivelare ad altri l'accaduto. I genitori, vedendola turbata, le
avevano chiesto spiegazioni, ma aveva preferito non raccontare quanto le era accaduto. Lo stesso
giorno, dopo il suo rientro a casa dalla lezione di teoria presso l'autoscuola, aveva informato i
genitori della violenza subita. Il C., sottoposto a fermo lo stesso giorno della denuncia, dava una
diversa versione dei fatti. Ammetteva di avere avuto il rapporto sessuale con la P., nelle circostanze
di tempo e di luogo da questa riferite, ma precisava che la ragazza era stata consenziente. Iniziatosi
procedimento penale a carico del C. per i reati di violenza carnale, violenza privata, ratto a fine di
libidine, lesioni personali, atti osceni in luogo pubblico e violenza privata, il tribunale di Potenza,
con sentenza del 29.2.96, condannava l'imputato per il reato di atti osceni in luogo pubblico, mentre
lo proscioglieva dai rimanenti reati. A seguito di appello del pm e dell'imputato, la Corte di Appello
di Potenza, con sentenza del 19.3.98, dichiarava il C. responsabile di tutti i reati a lui contestati e lo
condannava alla pena di anni 2 e mesi 10 di reclusione. Contro tale sentenza il C. ha proposto
ricorso per Cassazione ed ha dedotto il visto di motivazione sostenendo che la Corte di Appello
aveva affermato la di lui responsabilità con argomentazioni non coerenti con le risultanze
processuali.Motivi della decisioneRitiene la Corte che la sentenza impugnata merita l'annullamento
perché carente di adeguato e convincente apparato argomentativo. E' certo che a carico
dell'imputato sussistono le reiterate accuse formulate dalla P. Ma, considerate le proteste di
innocenza dell'imputato, il quale ha sostenuto che la ragazza era stata consenziente al rapporto
sessuale, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere ad una rigorosa analisi in ordine alla
attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla P., mentre invece ha affermato la
colpevolezza dell'imputato valorizzando le circostanze di fatto che ben si conciliavano con la
versione dei fatti rappresentata dal C. e minimizzando o ammettendo di valutare altre circostanze
che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale. La sentenza afferma che le dichiarazioni
rese dalla P. sono da ritenersi attendibili perché costei non aveva motivo alcuno per muovere contro
il C. una accusa calunniosa. Una tale considerazione non può condividersi sol che si consideri che la
ragazza potrebbe avere accusato falsamente il C. di averla violentata, per giustificare con i genitori
l'amplesso carnale avuto con una persona molto più grande di lei di età e per di più sposata,
amplesso che non si sentiva di tener celato poiché preoccupata dalle possibili conseguenze del
rapporto carnale.Peraltro una tale ipotesi non appare inverosimile alla luce del comportamento
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tenuto dalla P. dopo i fatti. Costei raccontò ai genitori quanto le era accaduto non già appena tornò a
casa, sebbene i parenti le chiedessero cosa le era successo in quanto era visibilmente turbata, ma
soltanto la sera dopo aver assistito presso l'autoscuola alla lezione di Teoria. La Corte di Appello
giustifica un tale ritardo sostenendo che la P. presumibilmente provava vergogna: o si sentiva in
colpa. Ma una tale argomentazione non è convincente. Non si vede infatti quale vergogna o senso di
colpa la P. potesse avvertire, se effettivamente vittima di una violenza carnale, data la gravità di un
tale fatto, peraltro commesso dal suo istruttore di guida, sulla cui autovettura si era trovata per
effettuare la programmata esercitazione di guida.Parimenti censurabile è la sentenza allorché
afferma che la P. fu realmente vittima della denunciata violenza carnale dato che è certo che durante
l'amplesso aveva i jeans tolti soltanto in parte mentre se fosse stata consenziente al rapporto carnale
avrebbe tolto del tutto i pantaloni che indossava. Un tale rilievo non può condividersi perché
sarebbe stato assai singolare che in pieno giorno (il fatto avvenne verso le ore 12-12,30), in una
zona che seppur isolata non era preclusa al transito di persone, la P. si denudasse del tutto perché
era consenziente all'amplesso.Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi
impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché
trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa. Anche su altri punti la
sentenza ci sembra carente di convincente motivazione. Sul corpo della P. e del C. non sono stati
riscontrati segni di una colluttazione tra i due o comunque di una vigorosa resistenza della ragazza
al suo aggressore. La Corte di Appello al riguardo si limita ad affermare che per la sussistenza del
reato di violenza carnale non è necessario che l'autore del fatto sottoponga la persona offesa ad atti
di violenza e che comunque, sul caso in esame, la P. non aveva opposto resistenza temendo di
subire gravi offese alla sua incolumità fisica. Ma al riguardo è da osservare che è istintivo,
soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico
affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla
persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità
fisica.La sentenza impugnata infine, non chiarisce come si concilia con l'asserita violenza carnale la
circostanza che la P. non tentò di fuggire appena il C. fermò l'autovettura e manifestò i suoi
propositi, così come non dà una plausibile spiegazione del comportamento della ragazza che, dopo
la consumazione del rapporto carnale, si mise alla guida dell'autovettura. In sentenza viene precisato
che lei aveva interesse a tornare subito a casa. Ma la Corte di Appello ha omesso di considerare che
è assai singolare che una ragazza, dopo aver subito una violenza carnale, si trovi nelle condizioni
d'animo che le consentano di porsi alla guida di una autovettura con accanto il suo stupratore,
soprattutto se, come nel caso in esame, essendo inesperta di guida, deve pilotare l'autovettura
seguendo i consigli e le istruzioni di chi momenti prima l'ha violentata.Ne consegue che la sentenza
impugnata risulta affetta da motivazione carente ed illogica e pertanto merita l'annullamento con
rinvio alla Corte di Appello di Napoli.Per questi motiviAnnulla la sentenza impugnata con rinvio
alla Corte di Appello di Napoli.Roma 6 novembre 1998.Depositata in Cancelleria il 10 febbraio
1999.
- L’attenuante dell’art. 609 quater può sussistere anche se la consumazione è avvenuta
secondo modalità innaturali (nel caso di specie un adulto consuma il rapporto con la figlia
minorenne della convivente consenziente).
Corte di cassazione
Sezione III penale
Sentenza 17 febbraio 2006, n. 6329
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 25 novembre 2003 la Corte d'appello di Cagliari decidendo sulla impugnazione
proposta da T.M. avverso la sentenza in data 30 novembre 2001 del tribunale della stessa città - che
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lo aveva condannato alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione per il delitto di violenza
sessuale ed a quella di mesi due di reclusione per i reati di percosse e minacce - dichiarava di non
doversi procedere per intervenuta remissione della querela in ordine al reato di percosse e
rideterminava la pena per i reati sub b) e c) nella misura di gg. 15 di reclusione, confermando nel
resto con condanna dell'appellante anche alle spese di costituzione e rappresentanza della costituita
parte civile.
Con il primo motivo di appello l'imputato aveva negato il pregresso rapporto di convivenza con la
ragazza, S.V., vittima della violenza.
La Corte di merito replicava che le risultanze testimoniali dimostravano il contrario ed altrettanto
risultava in definitiva dalle stesse dichiarazioni dell'imputato che aveva parlato di una volontà
calunniosa della parte lesa originata dai suoi rimproveri per lo scarso impegno scolastico.
Con altro motivo erano state evidenziate le inesattezze in cui era caduta la ragazza. La Corte
osservava che erano inesattezze di carattere marginale e che doveva escludersi il dolo di calunnia
nel suo racconto anche perché non aveva avuto difficoltà a riferire dei suoi incontri precedenti con
uomini giovani e meno giovani.
Con un'ulteriore motivo aveva sottolineato che la parte lesa aveva falsamente negato di avere
parlato dei suoi rapporti con l'imputato ed altresì che la denuncia era chiaramente finalizzata a
liberarsi dello stesso.
La replica era che i testimoni avevano confermato il racconto della parte lesa e che per sbarazzarsi
del T. sarebbe stato sufficiente denunciare i maltrattamenti ai quali sottoponeva la famiglia.
La gravità del fatto escludeva infine ad avviso della Corte che il fatto stesso potesse configurarsi
come fatto di minore gravità.
L'imputato propone personalmente ricorso per cassazione denunziando con un unico motivo
mancanza ed illogicità manifesta della motivazione laddove la sentenza impugnata ha negato la
minore gravità di cui all'art. 609-quater, comma 3. Rappresenta infatti che si è trattato di un unico
rapporto, pacificamente acconsentito dalla ragazza che si era rifiutata ad un rapporto completo ma
aveva optato senza difficoltà per un coito orale e che infine fin dall'età di 13 anni la stessa aveva
avuto rapporti con giovani ed adulti.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L'unico motivo di ricorso merita di essere accolto.
La diminuente della minore gravità del fatto di cui all'art. 609-quater, comma 3, c.p. è stata negata
dalla Corte territoriale con riferimento alle "modalità innaturali del rapporto", ritenute tali da
compromettere "l'armonioso sviluppo della sfera sessuale della vittima".
L'affermazione si pone in contrasto con quanto poco prima rilevato dalla stessa Corte allorché ha
proceduto alla ricostruzione dell'unico episodio - quello riprodotto nel capo di imputazione - di
abuso sessuale posto in essere dall'imputato ai danni della minore: si era trattato di un rapporto
pienamente assentito dalla stessa che ne aveva scelto le modalità. L'imputato infatti intendeva avere
un rapporto completo ma la ragazza, consapevole che l'uomo aveva avuto problemi di
tossicodipendenza, aveva optato per un, a suo avviso, meno rischioso rapporto orale.
Ora è bensì vero che ciò non elimina la riprovevolezza della condotta dell'imputato che in realtà si è
avvalso dello stato di soggezione in cui la giovane vittima si trovava nei suoi confronti per essere
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inserita nello stesso nucleo familiare da lui costituito con la di lei madre convivente. Ma tale
relazione interpersonale fa parte dell'elemento oggettivo della fattispecie delittuosa tipica di cui si
tratta (punita con la reclusione da 5 a 10 anni di reclusione) senza la quale quest'ultima non si
sarebbe integrata in quanto pacificamente all'epoca del fatto la ragazza aveva compiuto 14 anni e
come si è visto la stessa aveva prestato il proprio consenso al rapporto sessuale.
In questo contesto non sembra possa convenirsi con l'impugnata sentenza laddove afferma la gravità
dell'episodio deducendola dalle modalità innaturali del rapporto, che in realtà furono scelte con
avvedutezza della minore in quanto a suo dire idonee ad evitare i rischi che un diverso rapporto
poteva comportare per la sua salute a causa della pregressa condizione di tossicodipendente
dell'imputato.
Ancora meno condivisibile è l'altra affermazione della stessa sentenza, relativa alle negative
conseguenze indotte da questo rapporto sullo sviluppo sessuale della minore.
L'affermazione è infatti del tutto apodittica in quanto trascura di considerare quanto nella stessa
sentenza poco prima si è rilevato, e cioè che la ragazza già a partire dall'età di 13 anni aveva avuto
numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età di guisa che è lecito ritenere che già al momento
dell'incontro con l'imputato la sua personalità dal punto di vista sessuale fosse molto più sviluppata
di quanto ci si può normalmente aspettare da una ragazza della sua età.
Alla stregua delle considerazioni che precedono e tenendone il debito conto, la Corte territoriale ala
quale gli atti devono essere restituiti dovrà valutare se il diniego della attenuante in parola possa
essere deciso con il supporto di una motivazione diversa da quella testè censurata.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata limitatamente al diniego della
attenuante di cui all'art. 609-quater, comma 3, c.p. e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di
Cagliari.
- Il consenso della minore di anni 14 non attenua la gravità del reato di violenza sessuale.
CASS. PEN.- SEZ. III- 12 ottobre 2006, n. 34120- Pres. De Maio- est. Franco Svolgimento del
processoCon sentenza del 14 maggio 2002 il tribunale di Nuoro dichiarò Deliperi Gian Paolo
colpevole del reato di cui all'art. 609 quater n. 1 cod. pen, per avere compiuto reiteratamente atti
sessuali, consistiti anche in congiunzioni carnali, con Trogu Cecilia, consenziente ma minore degli
anni 14, avendo all'epoca anni 13 e mesi 10, e lo condannò alla pena di anni 6 di reclusione, oltre
pene accessorie e risarcimento del danno in favore della parte civile.La corte d'appello di Cagliari,
sezione distaccata di Sassari, con la sentenza in epigrafe concesse le attenuanti generiche e quindi
ridusse la pena ad anni 5 di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.L'imputato
propone ricorso per cassazione deducendo:a) violazione e falsa applicazione dell'art. 609 quater
cod. pen. per mancata applicazione del terzo comma del medesimo articolo; contraddittorietà e
manifesta illogicità della motivazione. Lamenta, in sostanza, che erroneamente e con motivazione
manifestamente illogica la corte d'appello non ha ravvisato l'ipotesi del fatto di minore gravità, pur
avendo riconosciuto che nella specie non vi era stata nessuna violenza; che non vi era stata nessuna
compressione della libertà della vittima; che la ragazza aveva mostrato particolare intraprendenza,
tanto che era stata lei a procurare il luogo adatto per gli incontri sessuali e non aveva disdegnato di
allontanarsi dalla propria città per recarsi nell'abitazione dell'uomo a Sassari; che la ragazza aveva
tenuto un comportamento che sembrava «eufemistico definire disinibito e disinvolto» nonché una
«apparente maturità psico-fisica» ed una «particolare disponibilità e spigliatezza». Osserva che non
doveva venire in rilievo la completezza dell'atto sessuale ma il grado di compressione della libertà
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sessuale della vittima, oltre che le circostanze oggettive e soggettive del fatto.b) mancanza e
contraddittorietà della motivazione in ordine alla determinazione della pena ed in particolare perché
immotivatamente la corte d'appello ha mantenuto la stessa pena base già determinata dal giudice di
primo grado e non ha effettuato la riduzione massima per le attenuanti generiche.e) ribadisce la
sollevata eccezione di illegittimità costituzionale che non è seriamente contrastata dalle
osservazioni della corte d'appello. Sostiene che vi è disparità di trattamento rispetto alla legge sulla
interruzione della gravidanza, specie con riferimento alla mancata distinzione legislativa tra
ignoranza della età della vittima ed errore in relazione alla medesima nonché alla non punibilità nel
caso in cui i rapporti sessuali con una minore degli anni 14 e maggiore degli anni 13 siano intercorsi
con un soggetto anch'esso minore di età.Motivi della decisioneVa preliminarmente esaminata la
eccezione di illegittimità costituzionale che deve essere dichiarata inammissibile.Innanzitutto deve
osservarsi che, secondo la costante e comune interpretazione giurisprudenziale e dottrinale, contro
la statuizione del giudice del merito che abbia dichiarato manifestamente infondata una eccezione di
illegittimità costituzionale non è consentito proporre impugnazione. E ciò per il motivo che, ai sensi
dell'art. 24, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'eccezione di illegittimità
costituzionale che sia stata dichiarata manifestamente infondata o irrilevante «può essere riproposta
ali'inizio di ogni grado ulteriore del processo».Va quindi esaminata l'eccezione riproposta con il
ricorso per cassazione, la quale va appunto dichiarata inammissibile per mancanza dei requisiti
richiesti dall'art. 23 delle legge n. 87 del 1953, il quale prescrive che chi intende sollevare una
questione di legittimità costituzionale deve indicare le disposizioni della legge o dell'atto avente
forza di legge che ritiene viziate da illegittimità costituzionale, le disposizioni della Costituzione o
delle leggi costituzionali, che si assumono violate, nonché i termini ed i profili della questione
proposta.Il ricorrente si è invece limitato a «ribadire» l'eccezione sollevata ed a prospettare
genericamente una disparità di trattamento «rispetto alla legge sulla interruzione della gravidanza»,
nonché una distinzione tra ignoranza ed errore della età della vittima ed a fare riferimento alla
ipotesi in cui il soggetto attivo sia anch'esso minorenne, ma ha completamente omesso di indicare
sia le disposizioni legislative che ritiene viziate da illegittimità costituzionale, sia le norme o i
principi della Costituzione che assume essere stati violati, sia soprattutto i termini ed i profili della
eccezione sollevata.Per completezza può anche osservarsi che, qualora dovesse poi ritenersi che il
ricorrente abbia fatto rinvio per relationem alla eccezione sollevata in sede di appello e che tale
rinvio fosse ammissibile, l'eccezione sarebbe manifestamente infondata per i motivi tutti
perspicuamente ed esaustivamente indicati dalla corte d'appello e che qui dovrebbero intendersi
richiamati.Ritiene il Collegio che il primo motivo sia infondato, in quanto la motivazione con la
quale la corte d'appello ha ritenuto che non potesse ravvisarsi la ipotesi di minore gravità è priva di
errori di diritto e di vizi logici.La giurisprudenza di questa Suprema Corte, invero, ha ripetutamente
affermato che l'attenuante del fatto di minore gravità è applicabile quando, avuto riguardo ai mezzi,
alle modalità esecutive ed alle circostanze dell'azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale
personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave, ed implica la necessità di una
valutazione globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, bensì estesa
anche a quelle soggettive ed a tutti gli elementi menzionati nell'art. 133 cod. pen. (cfr. Sez. Ili, 8
giugno 2000, Nitti, m. 217.708; Sez. Ili, 24 marzo 2000, Improta, m. 216.568; Sez. Ili, 1 luglio
1999, Scacchi, m. 215.077); che l'attenuante di cui all'art. 609, comma 3, cod. pen. non risponde ad
esigenze di adeguamento del fatto alla colpevolezza del reo, ma concerne la minore lesività del fatto
in concreto rapportata al bene giuridico tutelato e, quindi, assumono rilievo il grado di coartazione
esercitato sulla vittima e le condizioni, fisiche e mentali, di quest'ultima, le caratteristiche
psicologiche, valutate in relazione all'età, l'entità della compressione della libertà sessuale ed il
danno arrecato alla vittima anche in termini psichici (cfr. Sez. Ili, 24 marzo 2000, Improta, m.
216.569; Sez. Ili, 29 febbraio 2000, Pziello Della Rotonda, m. 215.954; Sez. Ili, 28 ottobre 2003, El
Kabouri, m. 226.865).Ciò posto, non si rinviene nessuna contraddittorietà nella motivazione della
corte d'appello, la quale ha sì posto in evidenza la particolare intraprendenza della ragazza (la quale
si procurava addirittura il luogo più adatto per gli incontri amorosi e si allontanava dalla propria
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città anche per andare a casa dell'imputato), che questa aveva tenuto un comportamento che era
«eufemistico definire come disinibito e disinvolto», che aveva una «apparente maturità psico-fisica»
ed una «particolare disponibilità e spigliatezza», ma ha ritenuto queste circostanze rilevanti ai fini
del riconoscimento delle attenuanti generiche e della valutazione del dolo dell'imputato, mentre le
ha ritenute irrilevanti, o quanto meno non decisive, ai fini del riconoscimento della ipotesi di minore
gravità. A questo fine, invero, la corte d'appello, conformemente del resto al costante orientamento
giurisprudenziale dianzi ricordato, ha esattamente tenuto conto soprattutto dell'entità della
compressione della libertà sessuale e del danno arrecato alla vittima anche in termini psichici, ed ha
osservato, da un lato, che era irrilevante la circostanza che non vi era stata violenza o minaccia o
abuso di autorità o abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della ragazza dal momento
che proprio l'assenza di tali elementi rendeva applicabile la disposizione in esame (e non l'ipotesi
aggravata di cui all'art. 609 ter), e, dall'altro lato, che si era trattato di penetrazione vaginale
reiterata, la quale, nonostante la ragazza fosse stata consenziente, aveva costituito per la stessa una
esperienza pur sempre traumatica, in considerazione del fatto che si era trovata ad avere il primo
rapporto sessuale completo quando aveva soltanto 13 anni e 10 mesi (con un coinvolgimento anche
affettivo e con una delicata estrinsecazione della personalità) e soprattutto del fatto che ciò era
avvenuto da parte di un adulto, che invece avrebbe dovuto avere una sorta di obbligo morale di
protezione ed una particolare cautela nei confronti della minore, evitandole appunto che «vivesse
l'esperienza pur sempre traumatica della deflorazione con un uomo maturo».Ritiene il Collegio che
si tratta di considerazioni che non possono ritenersi manifestamente illogiche e che quindi non sono
sindacabili da questa Corte.Il Collegio ritiene che la sentenza impugnata abbia fornito una congrua,
specifica ed adeguata motivazione anche in ordine alla determinazione della pena, che è stata dal
giudice del merito valutata conforme a giustizia e proporzionata alla entità del fatto ed ai suoi
risvolti particolari. D'altra parte il giudice di primo grado aveva determinato la pena base non solo
in considerazione delle modalità e della gravità dell'azione criminosa, ma soprattutto in
considerazione dei numerosi e specifici precedenti penali dell'imputato.Il ricorso deve pertanto
essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.Per
questi motivi La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile la sollevata eccezione di
illegittimità costituzionale.Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
- Bacio sul collo repentino è violenza sessuale.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 26.01.2006 - 09.06.2006, n. 19808
(Presidente: G. De Maio; Relatore: A. Fiale)
FATTO E DIRITTO
La Corte d'Appello di Genova, con sentenza del 18.10.2002, confermava la sentenza 29.9.2000 del
Tribunale di San Remo che aveva affermato la penale responsabilità di G.G. in ordine al reato di cui
agli artt. 609bis e 61 n.9 cod.pen. (perchè, abusando delle proprie qualità di assistente capo della
Polizia di Stato e comandante di una pattuglia, costringeva la collega R.C. a subire atti sessuali
consistiti in baci sul collo e tentativi di baci sulla bocca, dopo averla stretta a sè - in San remo il
10.06.1994) e, riconosciute sia la diminuente di cui al 3° comma dell'art. 609bis cod. pen. siale
circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, lo aveva condannato alla pena
principale di anni uno e mesi due di reclusione e alla pena accessoria di legge, con doppi benefici.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore di G., il quale - sotto i profili della violazione
di legge e del vizio di motivazione - ha eccepito l'insussistenza del reato per carenza della
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connotazione oggettiva, in quanto la sfera sessuale della parte offesa non sarebbe stata attinta dalle
condotte contestate, consistenti in mere "avances" non incidenti sulla libertà di determinazione
sessuale della donna.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso deve essere rigettato perchè infondato.
1. Con riferimento alla condotta tipica del reato di "violenza sessuale" devono ribadirsi le
considerazioni già svolte da questa Corte Suprema nella sentenza 23.04.2004 n.37395 ove è stato
posto in rilievo che l'individuazione di tale condotta si riconnette alla definizione della nozione, del
contenuto e dei limiti della locuzione "atti sessuali" di cui alla legge 15.02.1996, n.66, in quanto
l'art. 609bis cod. pen. (introdotto appunto da tale legge) ha concentrato in una fattispecie unitaria le
previgenti ipotesi criminose previste dagli artt. 519 e 521, individuando quale unica condotta
composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della "congiunzione
carnale" e degli "atti di libidine violenti", il fatto di chi con violenza o minaccia o mediante abuso di
autorità "costringe" taluno a compiere o a subire "atti sessuali".
In ordine al problema dell'individuazione del minimum di condotta penalmente rilevante perchè
resti integrato il delitto di violenza sessuale, la giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso
che il concetto attuale di "atti sessuali" è semplicemente la somma dei concetti previgenti di
congiunzione carnale e atti di libidine (vedi Cass., Sez. III, 03.11.1999, n.2941, P.G. in proc.
Carnevali).
Punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare e la
condotta vietata dall'art. 609bis cod. pen. ricomprende - se connotata da costrizione (violenza,
minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di
inferiorità fisica o psichica - oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che,
risolvendosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ancorchè fugace ed
estemporaneo, o comunque coinvolgendo la corporeità sessuale di quest'ultimo, sia finalizzato e
normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella
sua sfera sessuale.
Le finalità dell'agente e l'eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale non assumono
rilievo decisivo ai fini dle perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal dolo generico e
richiede semplicemente la coscienza e volontà di compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui
(vedi Cass., Sez. III, 10.04.2000, n.4402, Rinaldi).
Non possono qualificarsi, pertanto, come "atti sessuali" - nel senso richiesto dalla norma
incriminatrice in esame - tutti quegli atti i quali, pur essendo espressivi di concupiscenza sessuale,
siano però inidonei (come nel caso dell'esibizionismo, del feticismo, dell'autoerotismo praticato in
presenza di altri costretti ad assistervi o del "voyerismo") ad intaccare la sfera della sessualità fisica
della vittima, comportando essi soltanto offesa alla libertà morale di quest'ultima o (ricorrendone i
presupposti) al sentimento pubblico del pudore (vedi Cass., Sez. III, 03.11.1999, n.2941, P.G. in
proc. Carnevali).
Anche i palpeggiamenti ed i toccamenti possono costituire una indebita intrusione nella sfera
sessuale ed il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende pure quelle
ritenute "erogene" (stimolanti l'istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed antropologicosociologica (vedi Cass., Sez. III, 01.12.2000, n.12446, Gerardi; 30.03.2000, n.4005, Alessandrini;
27.01.1999, n.1137 De Marco; 05.06.1998, n. 6652, Di Francia).
2. Questa Corte inoltre ha già prestato adesione (con la sentenza n.37395/2004) all'orientamento
dottrinario secondo il quale "le fattispecie incriminatrici, per loro stessa natura, implicano una
valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti presi in
considerazione", sicchè deve convenirsi che "la determinazione di ciò che è sessualemte rilevante in
materia penale non può in realtà prescindere dal riferimento al costume e alle rappresentazioni
culturali di una collettività determinata in un determinato momento storico".
Non basta dunque, talvolta, il solo riferimento alle parti anatomiche aggredite dal soggetto attivo e/o
al grado di intensità fisica del contatto instaurato, non potendo trascurarsi la valenza significativa
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dell'intero "contesto" in cui il contatto si realizza e la complessa dinamica intersoggettiva che si
sviluppa in una situazione che, oltretutto, è connotata dalla presenza di fattori coartanti. Più
aderente alla logica dell'apprezzamento penalistico va considerato, conseguentemente, un approccio
interpretativo di tipo sintetico, volto, cioè a desumere il significato della violenza sessuale da una
valutazione complessiva di tutta la vicenda sottoposta a giudizio.
3. Appare opportuno ricordare, infine, che - secondo parte della dottrina - il concetto di violenza è
ben diverso da quelli della sorpresa e dell'insidia, sicchè non realizzerebbero violenza sessuale gli
atti non violenti ma attuati di sorpresa, pure essendo manifestazioni di immoralità e spesso di
degenerazione, riconducibili eventualmente ad altre ipotesi di reato.
La giurisprudenza di questa Corte, invece, è orientata nel senso che la violenza richiesta per
l'integrazione del reato non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell'impossibilità di
opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma
anche quella che si manifesta nel compimento, insidiosamente rapido, dell'azione criminosa, così
venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo (vedi Cass., Sez. III, 01.12.2000,
n.3990).
4. Nella fattispecie in esame i giudici del merito si sono correttamente attenuti ai principi di diritto
dianzi enunciati e le condotte tenute dal G. nei confronti della donna, che svolgeva con lui servizio
istituzionale di pattuglia, sono state valutate in relazione all'intero contesto in cui i comportamenti si
sono realizzati.
Risulta accertato, invero, che:
- la R. fu comandata dall'imputato di raggiungere, in ora notturna, una spiaggia isolata e che, ivi
giunti, dopo avere spento il motore dell'autovettura di servizio, quegli di sorpresa la strinse a sè e
tentò di baciarla, provocando l'immediata reazione di lei, che si divincolò ed allontanò il collega
"mettendogli una mano sulla bocca";
- seguì un nuovo ordine di portarsi in uno spiazzo panoramico, ove per la seconda volta l'imputato
repentinamente strinse la donna con forza tra le braccia, baciandole il collo, a fronte dell'aperto
dissenso da lei manifestato.
Condotte rapide ed insidiose, idonee ad offendere la libertà di autodeterminazione sessuale della R.,
poste in essere nella piena consapevolezza di un rifiuto inequivocamente e reiteratamente palesato.
5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento.
P.Q.M.
la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Roma, 26.01.2006.
Depositata in cancelleria il 09.06.2006.
- Abbracciare la moglie separata chiedendo un rapporto sessuale non è violenza.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza 13 gennaio 2006 - 12 maggio 2006, n. 16287
(Presidente: C. Vitalone; Relatore: P. Onorato)
IN FATTO E IN DIRITTO
Con sentenza del 2/12/2003 il GIP del Tribunale di Firenze, procedendo col rito abbreviato,
dichiarava M. T. colpevole del reato di lesioni personali, di cui agli artt. 582, 585 e 577, ultimo
comma, c.p., in danno della moglie separata M. N. (capo b) e del reato di violenza sessuale, ipotesi
lieve, di cui all'art. 609 bis, commi I e ultimo, c.p. (capo c), condannandolo, col beneficio della
sospensione condizionale, alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione per il secondo, con le
pene accessorie di legge.
87
Su appello dell'imputato, la corte distrettuale di Firenze, con sentenza del 14/1/2005, assolveva il T.
dal reato sub C.
Osserva che dall'episodio in questione, avvenuto a preparare il pranzo alla figlia che doveva
rientrare dalla scuola (secondo gli accordi di separazione coniugale), il marito si era avvicinato di
slancio alla moglie, l'aveva abbracciata toccandole il sedere e pronunciando alcune parole di affetto,
desiderio, frustrazione, forse con l'intento di ripristinare l'intimità perduta.
Rivendicò con parole non equivoche un rapporto che la moglie efficacemente gli proibì.
L'approccio divenne così lite; le parole, insulti.
In sostanza, secondo la Corte, il T. non usò violenza a carattere sessuale, non palpeggiò la moglie,
non le toccò le parti intime.
Avverso la sentenza d'appello, limitatamente alla decisione assolutoria, ha proposto ricorso il
Procuratore Generale.
Deduce contraddittorietà e manifesta illogicità di motivazione, errata interpretazione della norma
incriminatrice e travisamento del fatto.
Sostiene che i toccamenti e palpeggiamenti nelle parti intime (indicati dalla vittima) erano
oggettivamente suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale e anche soggettivamente connotati
da sessualità, essendo accompagnati da frasi offensive che alludevano al rapporto carnale.
Ad avviso del collegio, il ricorso è inammissibile perché richiede in sostanza una rivalutazione delle
risultanze processuali che è preclusa al giudice di legittimità.
Con motivazione scevra da vizi logici o giuridici, la Corte fiorentina ha accertato che quella mattina
del 30/4/2001 il T. abbracciò la moglie (separata) con un semplice gesto affettivo, anche se
contemporaneamente richiedendo un rapporto sessuale, che però la moglie decisamente rifiutò.
A questo punto scoppiò la lite, durante la quale il marito percosse la moglie, procurandole lesioni
personali.
Ma, al di la della violenza fisica, l'imputato si astenne dal dare sfogo al suo desiderio sessuale, non
compiendo atti sessuali di alcun tipo (palpeggiamenti o toccamenti), come dichiarò la stessa donna.
È questa una violazione legittima delle risultanze probatorie, che questo giudice non può sostituire
con la diversa valutazione fattane dal PM ricorrente, anche se per ipotesi altrettanto plausibile
P.Q.M.
la Corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso del procuratore generale.
Roma, 13/1/2006.
Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2006.
- Il tentato bacio sulla bocca può essere violenza sessuale.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
Sentenza n.549/2006
(Presidente: C. Vitalone; Relatore: A. Postiglione)
SENTENZA
FATTO E DIRITTO
B. V., direttore della Banca di Credito Cooperativo di Preganzioli, è stato condannato, con i benefici
di legge, alla pena di anni uno e due mesi di reclusione oltre ai danni a favore della parte civile, M.
F., dipendente della predetta banca, in relazione ad un abuso ex art. 609 ter cod. pen., commesso sul
luogo di lavoro il 14/2/2000.
88
La pena, già comminata dal Tribunale di Treviso con sentenza del 24/5/2002, veniva confermata
dalla Corte di Appello di Venezia in data 20/5/2003.
L'imputato ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi di censura.
Con il primo deduce la inutilizzabilità delle risposte della persona offesa durante l'esame del PM in
quanto sarebbero state rese a seguito di domande suggestive, nonché carenza di adeguata
motivazione sul punto.
Con il secondo motivo si assume che non poteva qualificarsi il fatto con riferimento all'art. 609 bis
cod. pen., posto che il mero sfioramento con le labbra del viso altrui per dare un bacio non potrebbe
avere contenuto libidinoso.
Con il terzo motivo si lamenta carenza di logica motivazione nella valutazione di quanto affermato
dall'imputato in relazione all'episodio contestato.
Con il quarto motivo sui assume che erroneamente non sarebbe stata disposta la rinnovazione
dell'istruttoria dibattimentale, per ascoltare alcune testimonianze addotte dalla difesa.
Con il quinto motivo viene censurata la valutazione dei giudici di merito sul contenuto delle
testimonianze assunte, nel senso della loro non coerenza.
Il ricorso è infondata.
In ordine alla prima censura osserva la Corte che i giudici di merito hanno correttamente escluso la
violazione delle regole per l'esame testimoniale di cui all'art. 499 c.p.p. con riferimento alla
deposizione della persona offesa.
Tale deposizione è stata giustamente utilizzata, perché da un puntuale riscontro documentale degli
atti operato dai giudici di appello e da questa Corte, emerge in modo chiaro che il pubblico
ministero pose delle domande, in modo non suggestivo, ma piano ed oggettivo, senza interferire con
la libertà e sincerità delle risposte, peraltro molto dettagliate e precise sull'episodio accaduto il
14/2/2000.
Sul punto la sentenza impugnata motiva espressamente riproponendo, a titolo esemplificativo, la
domanda principale: ci racconti l'episodio del 14 febbraio, e precisando che, tutto il resto della
deposizione è scevra di condizionamenti e scorre sempre con tali passaggi, ricchi di particolari che
costituiscono anzi una ulteriore prova di attendibilità e sincerità della M.
Trattasi, all'evidenza, di una valutazione di merito correttamente motivata, che esclude la
irregolarità processuale e la conseguente sanzione della inutilizzabilità, considerato altresì il potere
di equilibrio esercitato dal Presidente, nella direzione dell'udienza.
La difesa ha avuto la possibilità di saggiare l'attendibilità della teste con il controesame.
Nel valutare l'attendibilità di una teste, occorre peraltro considerare l'intero contenuto di quanto
dichiarato e non una singola domanda.
Circa la seconda censura, questa Corte ribadisce che nella nozione di atti sessuali di cui all'art. 609
bis c.p. si devono includere non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì solo gli atti che
riguardano le zone erogene su persona non consenziente (Cass. Sez. 3, 12446, 1/12/2000, rv.
89
218351).
Tra gi atti suscettibili di integrare il delitto possono essere ricompresi palpeggiamenti e sfregamenti
delle parti intime, compresi anche gli atti insidiosi e rapidi (come palamenti al seno e tentativi di
baci sulla bocca;
Cass. Sez. 3, n. 4402, 10/4/2000, rv. 220938).
Comunque sul punto i giudici di merito hanno dato sufficiente logica motivazione, sicché non vi è
spazio per censure di legittimità.
Analogamente deve dirsi per altri punti di censura, attinenti alla sufficienza o meno delle prove
testimoniali acquisite rispetto alle ulteriori richieste, posto che la loro valutazione nel contenuto è
rimessa all'apprezzamento dei giudici di merito.
Risultano motivati tutti i profili sollevati nel ricorso, giacché sia il racconto a propria discolpa
dell'imputato, sia la testimonianza dell'amica della persona offesa (S.), dei genitori, della psicologia
e delle altre persone sentite (Q., S., B., B., B.,) risultano aver formato oggetto di corretto esame.
Segue alla condanna, che va confermata, anche quella alla spese ed onorari della parte civile nel
presunto giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al
versamento a favore della parte civile costituita della somma complessiva di Euro 1500, di cui Euro
1200 per onorari, oltre IVA e CA.
Roma, 15/11/2005.
Depositata in Cancelleria l'11 gennaio 2006.
- La pacca sul sedere può essere violenza sessuale.
Cass. 876/2005
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Trieste, con sentenza emessa il 19/02/04, in riforma della sentenza del
Tribunale di Tolmezzo, in data 2/03/01, appellata dal PG della Corte di Appello di Trieste nei
confronti di P. I., imputato dei reati di cui agli artt. 609 bis c.p. (n. 1 della rubrica), 527 c.p. (n. 2
c.p.); 594 c.p. (n. 3 c.p.), in ordine ai quali era stato assolto nel giudizio di 1° grado, perché il fatto
non sussiste, dichiarava il P. colpevole dei reati ascrittigli e, ritenuta l’ipotesi di cui al 2° comma
dell’art. 609 bis c.p., lo condannava alla pena di anni uno e mesi due di reclusione; pena sospesa e
non menzione.
L’interessato proponeva ricorso per Cassazione denunciando violazione dell’art. 606, lett. b) ed e)
c.p.p.
In particolare il ricorrente esponeva: che la motivazione della decisione impugnata era carente,
contraddittoria e si fondava su una errata valutazione delle risultanze processuali; che la condotta
contestata all’imputato non concretizzava il reato di violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p., bensì la
90
fattispecie contravvenzionale di molestia o disturbo alle persone, con conseguente estinzione del
reato per sopravvenuta prescrizione.
Tanto dedotto, il ricorrente chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata.
Il PG della Cassazione, nella pubblica udienza del 3/12/04, ha chiesto il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
La Corte Territoriale, mediante un procedimento argomentativi privo di errori di diritto e vizi logici,
ha motivato in odo esauriente in ordine a tutti i punti determinanti della decisione.
In particolare, per quanto attiene al reato di cui all’art. 609 bis c.p. )capo 1 della rubrica), la Corte
Territoriale ha ricostruito con precisione il contesto in cui si è svolta la vicenda in esame.
Ha accertato la credibilità soggettiva ed oggettiva della persona offesa, P. M., le cui dichiarazioni
sono state confermate dalla madre e dal fidanzato della stessa.
Il racconto della donna si presenta coerente e plausibile nella sua attualità; inoltre non è inficiato da
risultanze processuali di segno opposto, come congruamente motivato nella decisione impugnata.
Tanto affermato, va subito aggiunto che le questioni dedotte sul punto in esame costituiscono, nella
sostanza, censure in punto di fatto, poiché non attengono ad errori di diritto o vizi di motivazione,
bensì alle valutazioni operate dai giudici di merito.
Si chiede, in realtà, una rilettura delle risultanze probatorie onde pervenire ad una diversa
valutazione delle risultanze processuali, più favorevole alla tesi difensiva del ricorrente.
Trattasi di censure non consentite in sede di legittimità, perché in violazione della disciplina di cui
all’art. 606 c.p.p.
Parimenti è infondata la censura attinente alla qualificazione giuridica del fatto.
La condotta del P., concretizzatasi nel reiterato palpeggiamento libidinoso del sedere di P. M.,
approfittando della menomata condizione della donna la quale, intenta a telefonare presso la cabina
telefonica sita nella piazzetta del paese di Bordano, non era in grado di ostacolare un toccamento
repentino ed imprevedibile, realizza certamente la fattispecie criminosa di cui all’art. 609 bis c.p.
Al riguardo va ribadito che rientrano nella nozione rilevante ai fini della norma di cui all’art. 609
bis c.p., tutti gli atti sessuali indirizzati verso zone erogene, idonei a compromettere la libera
determinazione del soggetto passivo in ordine alla sua sessualità, connotati dalla costrizione, abuso
di inferiorità fisica e psichica.
Ne rileva ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, il fatto che l’atto sessuale sia di
breve durata e che non abbia determinato la soddisfazione erotica del soggetto attivo (vedi anche
Cass. Sez. III Sent. n. 7722 del 4/7/2000, ud. 2/5/2000, rv. 217012).
Non risultano essere state dedotte nel ricorso de quo ulteriori censure ne in ordine alla
determinazione della pena, ne in ordine ai restanti reati di cui ai capi 2° e 3° della rubrica.
Va respinto, pertanto, il ricorso proposto da P. I., con conseguente condanna dello stesso al
pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si
liquidano in complessivi Euro 1700, come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla
rifusione alla parte civile costituita dalle spese e compensi del presente grado, che liquida in
complessive Euro 1700,00 più IVA e CA, di cui 1500, 00 per onorari di difesa.
Roma, 3/12/04.
Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2005.
NESSO CAUSALE E FATTORI INTERRUTTIVI
TRACCIA:
Il giovane Tizio riportava ustioni alla persona che, secondo il giudizio del personale sanitario
operante sull’isola in cui il paziente risiedeva, richiedevano un ricovero in una struttura ospedaliera
91
della vicina città. Considerate le avverse condizioni del mare, interveniva un elicottero della Polizia
di Stato, condotto da Caio, con a bordo Sempronio, quale specialista in volo.
L’elicottero atterrava sul campo sportivo dell’isola e, durante le operazioni di imbarco del ferito, il
motore rimaneva acceso in previsione di un decollo immediato.
Sennonché, la barella che trasportava Tizio risultava troppo grande per il velivolo, inducendo gli
operatori sanitari a far sdraiare il paziente su un lenzuolo sul fondo dell’abitacolo.
In quel preciso istante, una forte raffica di vento faceva impennare la barella, che sfuggiva al
controllo di Sempronio e urtava le pale dell’elicottero, che perdeva stabilità e si inclinava verso il
suolo, facendo volare in aria elementi meccanici.
Caio, allora, decideva di non tentare il decollo, anche in considerazione delle molte persone presenti
vicino al velivolo, senza però mettere in atto neppure l’altra manovra suggerita dal manuale di volo,
ossia lo spegnimento del motore.
In tale fase concitata, Tizio era riuscito ad allontanarsi, mentre Sempronio e Mevia (un’infermiera)
venivano colpiti mortalmente dagli elementi meccanici volati in aria, a seguito del ribaltamento e
della perdita di stabilità.
Caio si recava da un legale di fiducia.
Il candidato rediga motivato parere in merito alla questione giuridica posta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Il parere andava affrontato focalizzando l’attenzione sul nesso causale, applicando anche le tesi
recenti in tema di causalità in concreto (la tesi sulla causalità scientifica è stata in parte abbandonata
dalla giurisprudenza).
Si può dire, nella complessa vicenda, che Caio ha cagionato la morte di Sempronio e Mevia, ovvero
sussistono dei fattori interrottivi del nesso di causalità?
L’accertamento processuale dell’esistenza del nesso causale deve avvenire alla luce di canoni di
certezza processuale che conducono, all’esito di un ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di
responsabilità, caratterizzato da elevato grado di credibilità razionale.
Le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimono un coefficiente probabilistico
prossimo al 100% (completato da coefficienti medio bassi di probabilità frequentista), devono
essere corroborate da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso di specie di
altri fattori interagenti: non è consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente dal
coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge scientifica la conferma dell’ipotesi
sull’esistenza del rapporto di causalità.
Nel caso di specie, allora, emerge che si è verificato un fattore interruttivo del nesso di causalità, ex
art. 41 II comma c.p., derivante dalla raffica di vento improvvisa: è stata tale raffica che,
interrompendo il nesso causale rispetto a Caio, ha cagionato la morte di Sempronio e Mevia.
Non rileva il fatto che Caio non ha rispettato alla lettera il manuale di volo, in quanto, nel caso di
specie, verosimilmente, anche laddove l’avesse rispettato la morte di Sempronio e Mevia si sarebbe
verificata lo stesso; id est, rileva il nesso causale in concreto, e non il mero rispetto di dati formali,
come il rispetto preciso e puntale del manuale di volo (secondo la giurisprudenza più recente).
In questo senso, pertanto, Caio non sarà punibile (probabilmente, per non aver commesso il fatto).
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
92
-La verifica dell'esistenza del nesso di causalità nel caso di condotta omissiva va operata in
concreto, in termini di ragionevole certezza, secondo tutte le circostanze che connotano il caso,
e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di "serie ed apprezzabili
probabilità di successo" per l'azione impeditiva dell'evento.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
TERZA SEZIONE PENALE
Sentenza 19 aprile 2006 n. 20192
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 17 dicembre 2003 - 9 aprile 2004 la quarta sezione penale di questa Corte
annullava con rinvio ad altra sezione la sentenza pronunciata dalla prima sezione della Corte di
Appello di Caltanissetta del 12 dicembre 2002 che aveva dichiarato non doversi procedere per
prescrizione nei confronti di R.G. in ordine al reato di omicidio colposo, così confermando la
sentenza pronunciata in primo grado dal tribunale di Gela dell'1 marzo 2001, che, concedendo
all'imputato le attenuanti generiche, aveva già dichiarato l'estinzione del reato (fatto commesso il
[...].
Questa la vicenda che ha originato il processo penale. Il R., medico del servizio di pronto soccorso
dell'ospedale di Gela, era imputato di avere cagionato la morte della paziente S.A. per negligenza ed
imperizia professionali.
La S., affetta da HBS-beta thalassemia e da "drepanocitosi allo stato eterozigote", il [...] veniva
ricoverata nel nosocomio di Gela in condizioni di grave crisi da iperemolisi.
Nonostante gli evidenti sintomi manifestati dalla paziente e malgrado il sanitario fosse stato messo
sull'avviso dai familiari, l'imputato non aveva effettuato la diagnosi, aveva omesso di apprestare le
opportune misure terapeutiche, si era rifiutato di chiamare il medico responsabile del reparto di
medicina e aveva così privato la donna della necessaria assistenza, concorrendo a cagionarne la
morte avvenuta per scompenso cardiocircolatorio in soggetto gravemente anemizzato per imponenti
crisi emolitiche. I giudici della Corte di appello avevano confermato l'addebito di grave negligenza
formulato a carico del dottor R. che, in base agli elementi a sua conoscenza sullo stato di salute
della S., avrebbe dovuto immediatamente disporre l'effettuazione di un'analisi del liquido ematico
onde orientate da subito il trattamento terapeutico che egli aveva invece limitato alla mera
somministrazione di farmaci antidolorifici.
Su ricorso dell'imputato, questa Corte osservava che il ragionamento dei giudici di merito doveva
ritenersi viziato sotto il dato "fattuale e logico". Ferma l'accertata negligenza e imperizia
professionale del R. e quindi la sua colpa professionale, non risultava provata nel processo
l'incidenza causale della condotta colposa sull'evento letale. Sotto tale profilo errata doveva ritenersi
l'affermazione dei primi giudici che sulla base della relazione di consulenza tecnica avevano
riconosciuto all'operato del sanitario la connotazione di condizione equivalente del verificarsi
dell'evento, dando rilievo ai fini del rapporto causale anche e soltanto alle "serie ed apprezzabili
possibilità di successo, tali che la vita della S. sarebbe stata, con una certa probabilità, salvata"; tale
affermazione si poneva in assoluto contrasto con quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte
con la nota sentenza del 10 luglio 2002 n. 27, Franzese. Illogica doveva poi ritenersi - secondo la
cit. pronuncia rescindente di questa Corte - l'affermazione che sarebbe stata necessario disporre
perizia medico- legale sulla derivazione causale della morte della S. dalla condotta professionale del
R. e nel contempo, in assenza di espletata prova sul rapporto causale, prosciogliere il predetto per
prescrizione del reato con valutazione di colpevolezza necessariamente connessa alla concessione
delle attenuanti generiche.
La sentenza della Corte di appello di Caltanissetta veniva quindi annullata con rinvio ad altra
93
sezione per nuovo esame.
2. Con sentenza del 1.12.2004 - 8.2.2005 la Corte d'Appello di Caltanissetta ha rigettato l'appello
confermando la pronuncia di primo grado.
Osserva la Corte territoriale che i periti d'ufficio avevano definito "sconcertante" la condotta dei
sanitari che di lei si occuparono negli ultimi giorni di vita. La gravità e le peculiari caratteristiche
della S. erano note perchè avevano dato luogo a trasfusioni nella fase pre-parto (al settimo mese a
seguito di una crisi emolitica si era dovuto fare ricorso ad una intensiva terapia trasfusionale).
Ricoveratasi alle 2,00 del [...] nell'ospedale di Gela con evidenti sintomi di crisi emolitica in atto in
paziente che, nella diagnosi di entrata, si assumeva affetta da thalassemia, la S. rimaneva priva di
specifica terapia per circa nove ore. I periti hanno stigmatizzato il mancato "immediato" ricorso a
terapia trasfusionale, specificando come detto immediato trattamento era la sola condizione per
salvare la vita della paziente e hanno indicato indiscutibilmente in tale omissione una possibile
concausa del decesso poichè quando la stessa giungeva alle 12, 30 del 31 maggio all'ospedale di
Catania, ove il marito aveva voluto trasferirla per sfiducia nella struttura sanitaria di Gela che con la
sua inerzia aveva prodotto il precipitare delle condizioni della paziente, la stessa era già gravemente
anemizzata (16% di ematocrito) ed in condizioni cardiocircolatorie già compromesse.
E' in questa inerzia e nell'omissione della sola terapia utilmente praticabile alla paziente per poterle
salvare la vita che i consulenti hanno individuato indiscutibilmente una condizione colposa
dell'evento che si innestava su una terapia forse non tutto efficace praticata nell'ospedale di Catania,
che peraltro aveva ricevuto la paziente già in condizioni critiche in quanto la grave anemia aveva
creato una precaria situazione cardiocircolatoria, il precipitare della quale produceva il decesso.
L'apparente momentanea ripresa della donna dopo la trasfusione praticatale a Catania non era in
contrasto con il giudizio dei periti, poichè lo scompenso cardiocircolatorio con occlusione dei vasi
era indicato come effetto delle "imponenti crisi emolitiche" che la donna aveva dovuto subire a
causa dei precedenti ritardi nella pratica delle dovute terapie.
Osserva quindi la Corte d'appello che i giudici del Tribunale di Gela avevano accertato la
responsabilità dell'imputato R. per il decesso della S. alla stregua del diritto vivente al tempo della
loro pronuncia.
In base a quella giurisprudenza - osservava ancora la Corte d'appello - l'accertamento di
responsabilità del R. appariva del tutto giustificato anche senza il ricorso alla perizia, ricorso
inevitabile invece in base allo standard probatorio richiesto dalla più recente giurisprudenza
nell'accertamento del nesso di causalità, non essendo più sufficiente stabilire che la condotta
colposa del sanitario sia stata probabile condizione del decesso del paziente, occorrendo invece una
prova più specifica e stringente del nesso di causalità nel caso concreto e quindi la prova che detta
condotta sia stata anche la causa sufficiente, con la dimostrazione che nel caso concreto, tenuto
conto di tutte le specifiche variabili in gioco, quel singolo caso si sarebbe risolto con la salvezza del
paziente se allo stesso fosse stata praticata la dovuta terapia in attuazione della corretta condotta
professionale. Una tale prova non era affatto necessaria in base ai criteri vigenti al tempo della
pronuncia dei giudici del tribunale di Gela sicchè costoro ben avevano potuto accertare la
responsabilità del R. nonostante i consulenti tecnici avessero concluso la loro relazione rilevando
come non vi fosse certezza che un tempestivo e adeguato intervento medico avrebbe salvato la vita
della S..
Avevano quindi formulato un giudizio astratto e basato sul criterio dell'alto grado di possibilità di
successo, criterio ovviamente che prescinde dal quello della certezza nel caso concreto, come
rilevato dai consulenti. Per costoro la mancanza di adeguata e tempestiva terapia aveva consentito
alla malattia di produrre il suo effetto letale. Era, infatti, venuta meno la sola terapia che avrebbe
potuto salvare la paziente. Sulla base degli accertamenti eseguiti non era possibile per il tribunale
affermare con certezza che la donna si sarebbe salvata, ma si poteva correttamente ritenere, alla luce
delle affermazioni dei consulenti, che senza l'adeguata e tempestiva terapia la paziente era destinata
con certezza a morire.
Sulla base di tali premesse la Corte d'appello si è trovata a dover decidere sulla base di un materiale
94
istruttorio che poteva considerarsi insufficiente a pervenire ad affermazione di responsabilità alla
stregua del più rigoroso criterio di accertamento del nesso di causalità individuale; si è posta quindi
l'alternativa se, in presenza di una causa estintiva del reato, dovesse prosciogliersi l'imputato ai
sensi dell'art. 530 c.p.p. , comma 2, ovvero se, non potendosi parlare di "evidenza" dell'innocenza
dell'imputato, questi dovesse essere prosciolto ribadendosi la formula dell'estinzione del reato.
Ha ritenuto la Corte d'appello che l'alternativa dovesse essere risolta nel secondo senso potendo
ritenersi estremamente probabile (con elevato grado di credibilità razionale) che la morte della S.
avesse trovato concausa determinante nell'inerzia dei medici di Gela nelle decisive ore che
precedettero il suo trasferimento a Catania.
3. Avverso questa pronuncia il R. ha proposto ricorso per Cassazione con due motivi illustrati anche
con una successiva memoria difensiva.
Le parti offese, costituite parti civili, B.G. e B. M.S. hanno presentato due memorie difensive.
L'imputato ricorrente ha presentato anche motivi nuovi.
Motivi della decisione
1. Va premesso che la parte civile, ritualmente costituita in primo grado senza che a ciò abbia
rinunciato nelle successive fasi del processo, può comunque stare in giudizio anche se non ha
proposto impugnazione.
L'art. 76 c.p.p. , comma 2, infatti prevede che la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in
ogni stato e grado del processo, sancendo il c.d. principio di immanenza della costituzione di parte
civile.
La parte civile non può però giovarsi dell'eventuale impugnazione del P.M..
Infatti - come già affermato da questa Corte (Cass., sez. 2^, 9 maggio 2000, Caniglia) - qualora la
parte civile, a fronte della sentenza di assoluzione dell'imputato in primo grado, non si sia avvalsa
della facoltà di impugnazione prevista dall'art. 576 c.p.p. , il giudice d'appello, nell'affermare, su
gravame del solo P.M., la penale responsabilità dello stesso imputato, non può statuire sulla
domanda di risarcimento del danno derivante dal reato, non potendosi in contrario invocare il
menzionato principio di immanenza della costituzione di parte civile.
Quindi la parte civile, pur in presenza di una pronuncia di merito dichiarativa dell'estinzione del
reato per prescrizione, dalla stessa non impugnata, può stare in giudizio anche nel giudizio di
Cassazione; può prendere la parola e rassegnare delle conclusioni (in termini di rigetto del ricorso,
ad es., ma non di richiesta di risarcimento del danno).
2. Il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia la violazione del principio di diritto affermato
dalla menzionata sentenza rescindente, è inammissibile.
E' sufficiente rilevare che il ricorrente, invece di censurare la sentenza impugnata, si limita
testualmente a trascrivere la deposizione del teste C., assunto dalla Corte d'appello all'udienza del
12 marzo 2002, prima della pronuncia rescindente.
Quindi invoca un'inammissibile rinnovazione della valutazione del materiale probatorio.
3. Il secondo motivo è infondato.
3.1. La Corte d'appello ha ribadito il giudizio in ordine all'affermazione della colpa (ritenuta
gravissima) dell'imputato, che pur conoscendo la patologia congenita di cui era affetta la S., non ha
effettuato alcuna analisi del sangue nè ha predisposto quanto necessario per la terapia trasfusionale;
ossia non ha preso quelle iniziative che sarebbero state adottate dopo circa quattro ore dal dott. C. il
quale, appena preso servizio nel reparto, subentrò all'imputato.
Ma in realtà il carattere colpevole e negligente della condotta dell'imputato è pacifico e già accertato
nelle precedenti fasi del giudizio atteso che la sentenza rescindente di questa Corte ha riguardato
unicamente la valutazione del nesso di causalità da farsi alla luce della più volte citata sentenza
delle Sezioni Unite di questa Corte. Orbene quanto al nesso causale la Corte d'appello, con
valutazione in fatto sufficientemente e non contraddittoriamente motivata, ha affermato come fosse
"estremamente probabile (con elevato grado di credibilità razionale) che la morte della S. abbia
trovato concausa determinante nell'inerzia dei medici di Gela nelle decisive ore che precedettero il
suo trasferimento a Catania".
95
In punto di fatto questo elevato grado di probabilità è desunto dalla Corte d'appello: dalle stesse
dichiarazioni dell'imputato in sede di interrogatorio al P.M., che si è mostrato consapevole della
necessità di un'immediata trasfusione di sangue; dalle precedenti crisi da iperomolisi superate dalla
donna (in occasione di una minaccia di aborto nonchè dello stesso parto); la crisi emolitica dei
soggetti affetti da difetto emoglobinico allo stato di eterozigote è controllabile, secondo la
letteratura medica, ben più della talassemia allo stato di monozigote; dalla mancanza di specifiche
patologie ulteriori e aggiuntive.
La Corte ha poi ritenuto che l'impossibilità per l'accusa di fornire la prova piena del nesso di
causalità non impediva di affermare che, stante lo stato del processo, non emergeva l'evidenza
dell'innocenza dell'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p. , comma 2. 3.2.
In diritto vanno richiamati i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SS.UU. 10
luglio 2002, Franzese), secondo cui: a) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del
giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge
scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la
condotta doverosa impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si
sarebbeverificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; b) Non è
consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la
conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve
verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza
disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di
fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta
omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di
credibilità razionale" o "probabilità logica".
Sulla base di questo arresto giurisprudenziale la verifica dell'esistenza del nesso di causalità nel
caso di condotta omissiva va operata in concreto, in termini di ragionevole certezza, secondo tutte le
circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice
di "serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l'azione impeditiva dell'evento.
Questa prova del nesso di causalità è però necessaria per pervenire ad un'affermazione di
responsabilità dell'imputato. Quando invece si è verificata una causa estintiva del reato è sufficiente
che, a quello stadio del processo, sussista una ragionevole probabilità del nesso causale per
escludere l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. , comma 2. In questo caso la prova sarebbe si
insufficiente ( art. 530 c.p.p. , comma 2) per pervenire ad un'affermazione di responsabilità
mancando quella verifica in concreto richiesta dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite; ma
neppure, all'opposto, sussiste la prova che l'imputato non ha commesso il fatto o che il fatto non
sussiste. Nè è possibile procedere ad ulteriori accertamenti (quali una consulenza tecnica) per
sciogliere il nodo della verifica in concreto dell'esistenza del nesso di causalità, stante l'estinzione
del reato per prescrizione.
Correttamente pertanto i giudici di merito hanno adottato una pronuncia (processuale) di non
doversi procedere per essere estinto il reato per prescrizione e non già una pronuncia (nel merito) di
assoluzione dell'imputato per non aver commesso il fatto.
4. In conclusione il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle
spese processuali e alla rifusione delle spese in favore della parte civile nella misura liquidata in
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla
rifusione di spese ed onorari di parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila) oltre
I.V.A. e C.P.A..
Così deciso in Roma, il 19 aprile 2006.
Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006
96
-La sussistenza del nesso eziologico non può essere semplicisticamente rinvenuta nelle leggi
statistiche, ma allo stesso tempo non può prescindersi dalle stesse: id est, la certezza
processuale si rinviene anche attraverso l’accertamento probabilistico dell’esito favorevole
dell’intervento medico inattuato, in quanto le leggi statistiche costituiscono condizione
necessaria del giudizio ipotetico in tema di causalità omissiva, ma non sufficiente, poiché la
percentuale di successo astrattamente idonea a configurare la responsabilità medica va
verificata alla luce degli elementi in concreto desumibili dalla risultanze istruttorie (l'età, il
sesso, le condizioni generali del paziente, altri fenomeni morbosi interagenti, la sensibilità
individuale ad un determinato trattamento farmacologico e tutte le altre condizioni, che
appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica).
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Sentenza 9 febbraio 2006/12 aprile 2006, n. 12894
(Presidente D. Nardi, Relatore F. Monastero)
Fatto e diritto
Il GIP presso il Tribunale di Lametia Terme con sentenza del 17 luglio 2002 assolveva, con la
formula perché il fatto non sussiste, il dott. V. P., primario della divisione di ostetricia e ginecologia
dell'Ospedale di Soveria Mannelli, e il dott. V.
F., responsabile pro tempore del predetto reparto (in assenza del primo, per ferie, nei giorni
13,14,15 maggio 1999), dal reato di omicidio colposo in danno di G. I. M., gestante, ivi ricoverata
con i sintomi di un parto prematuro, a far data dal 13 maggio 1999 e deceduta il 16 dello stesso
mese, a causa della sindrome denominata "coagulopatia intravasale disseminata (CID)" (un difetto
nella coagulazione del sangue dovuto alla mancanza di fibrinogeno), seguita da shock emorragico
con danno ipossico generalizzato.
Si era contestato agli imputati di aver cagionato per negligenza, imperizia ed imprudenza la morte
di I. G., addebitandosi in particolare ad entrambi, nelle rispettive qualità, di avere omesso di
effettuare sulla paziente gli esami clinici e strumentali (ecografia, monitoraggio dei valori
dell'emocromo, tocografia uterina) necessari per accertare la presenza o l'insorgenza di un distacco
intempestivo di placenta; di avere omesso di effettuare un emocromo la mattina del 16 maggio
1999, nonostante i sintomi di distacco della placenta presentati dalla paziente (dolori addominali e
vomito); di avere omesso di disporre tempestivamente il trasferimento della paziente ad altro
ospedale, dotato di centro trasfusionale, di rianimazione e di terapia intensiva neonatale, idoneo,
pertanto, a fronteggiare una potenziale situazione di crisi in cui la G. si fosse venuta a trovare, pur
in presenza di diversi fattori, conosciuti da entrambi i medici (il V. anche in qualità di medico
curante) deponenti per il distacco della placenta.
Il giudice di primo grado aveva assolto entrambi i medici dall' imputazione loro ascritta sulla base
dei seguenti rilievi: 1) la sussistenza di una situazione dubbia in merito alle modalità di
manifestazione della patologia, non essendo risultato certo che il distacco intempestivo della
placenta (DIP) si fosse manifestato in maniera progressiva, evolvendosi da una forma lieve di primo
grado ad una gravissima di terzo grado, e che, di conseguenza, tale distacco potesse essere
tempestivamente diagnosticato e curato; 2) il distacco improvviso della placenta -ritenuta l'ipotesi
più probabile- avrebbe escluso la configurabilità dell'omissione, essendo stato praticato in termini
ragionevoli il taglio cesareo o comunque apparendo difficile ritenere, con ragionevole certezza, che
una maggiore celerità dell'intervento avrebbe salvato la vita della donna; 3) in considerazione della
gravissima situazione, il decesso sarebbe avvenuto anche in una struttura attrezzata, in conformità
alle conclusioni del perito nominato dal giudice, prof.
Barrii, il quale aveva sottolineato che non vi sarebbero state misure idonee a fronteggiare la
gravissima situazione e che, in casi come quello in esame in cui il DIP aveva avuto come
conseguenza la coagulopatia intravasale disseminata (CID), poteva essere addirittura
97
controproducente la terapia trasfusionale; 4) non vi erano elementi per ritenere che una condotta
non omissiva degli imputati avrebbe determinato un decorso degli eventi sostanzialmente diverso.
A seguito dell'appello interposto dal P.M. e dalle parti civili, la Corte di Appello di Catanzaro, con
sentenza in data 13 maggio 2004, riformava quella di primo grado, assolvendo il V. con la formula
per non avere commesso il fatto, ma dichiarando il V. responsabile del reato ascrittogli e,
concessegli le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al
risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio.
I giudici di appello ritenevano il dott. V. esente da colpa, con riferimento ad entrambe le posizioni
di garanzia dallo stesso rivestite, sia nella qualità di primario (per tutto il periodo del ricovero, salvo
l'ultimo giorno, in cui la situazione era già compromessa, il V. era in ferie) che in quella di medico
curante (sulla base del principio dell'affidamento, al sanitario (il quale, interpellato telefonicamente
sui sintomi presentati dalla donna nel corso della notte -sanguinamento e contrazioni uterine-aveva
indicato come probabile un leggero distacco della placenta ed aveva indirizzato la paziente all'
Ospedale di Soveria Mannelli) non poteva addebitarsi la responsabilità di non avere previsto i
possibili sviluppi del caso.
Secondo la Corte territoriale, invece, doveva ritenersi sussistente il nesso di causalità tra le
omissioni colpevoli, contestate e ritenute dimostrate, tutte riconducibili al V., responsabile del
reparto, in assenza del primario, e la morte della paziente, Nel pervenire al giudizio di
responsabilità, La Corte osservava che: 1) le emergenze processuali dimostravano che il distacco
della placenta, causa determinante della morte, era già presente al momento del ricovero in ospedale
(tale conclusione era contenuta anche nella consulenza del prof. Ricci ( il quale, unitamente alla
dott. Giardini aveva redatto la prima consulenza disposta dal P.M.), favorevole alla difesa; 2) anche
se così non fosse stato, sarebbero stati comunque omessi tutti gli accertamenti necessari (in
particolare quello ecografico e quello sulla contrattilità uterina che
avrebbero consentito di valutare più a fondo le cause delle perdite ematiche) per impedire che il
distacco della placenta, perfettamente prevedibile, avesse le conseguenze letali poi verificatesi,
tenuto conto che trattavasi di paziente a rischio, oltre che per la sintomatologia, anche per la sua
storia pregressa (dalla consulenza di un altro consulente del P.M., il prof. Bresadola, risultava che la
gravidanza della G. era successiva a due aborti spontanei precoci, a due ricoveri in ospedale per
difficoltà gestazionali, ad una terapia giornaliera di deltacortene e bassi dosi di aspirina, a fronte del
ripetersi di emorragie modeste); 3) la mancanza di sofferenza fetale -argomento utilizzato dal primo
giudice per escludere il distacco della placenta al momento del ricovero- non era significativa, alla
luce della letteratura medica, per pervenire alle conclusioni della sentenza di primo grado; 4) anche
il colorito normale e roseo del muscolo uterino -altro elemento di sostegno alla pronuncia
assolutoria- costituiva argomento non significativo, sia perché la circostanza era stata riferita dai
medici, che avevano eseguito il taglio cesareo (gli imputati) sia perché si poteva desumere dalla
consulenza del prof. Bresadola che l'area interessata era situata nella parte posteriore dell'utero e
comunque, all'interno della cavità uterina; 5) erano stati trascurati i segnali di malessere (vomito e
forti dolori di pancia) che la donna presentava il giorno 16 maggio 1999, per il quale era già stata
disposta la sua dimissione, così creando una situazione dì emergenza che non era stato possibile
affrontare con i presidi disponibili, laddove altra struttura sanitaria, dotata di un centro trasfusionale
e dì rianimazione, avrebbe invece potuto intervenire con successo; 6) le conclusioni del prof. Barni,
secondo il quale il decesso sarebbe avvenuto anche in una struttura attrezzata, erano smentite da
quelle rese dai consulenti Bresadola e Rizzo (quest'ultimo consulente nominato dalle parti civili) e
dalla letteratura medica, secondo la quale la percentuale di mortalità materna in caso di DIP era da
ritenere dell'ordine del 5% e la gravità della condizione morbosa doveva considerasi dipendente in
gran misura non solo dall'entità del distacco placentare ma anche dalla durata dell'intervallo fra
inizio dei sintomi e istituzione di adeguata terapia.
Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione Vescia F. articolando un unico
complesso motivo con il quale deduce la violazione di legge e la carenza ed illogicità della
motivazione quanto all'affermazione di responsabilità.
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Il ricorrente, dopo aver premesso che la sentenza impugnata ha aderito acriticamente
all'impostazione accusatoria del P.M., sostiene che i giudici di merito, disattendendo i principi
affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (10 luglio 2002, Franzese) avrebbero errato
nell'individuare la sussistenza del nesso eziologico tra il suo comportamento ed il decesso della
paziente, non tenendo conto della interferenza di decorsi causali alternativi e facendo riferimento ad
ormai superati criteri di probabilità statistica.
Sotto il primo profilo, si sostiene che i giudici dell'appello sarebbero partiti dall'apodittico
presupposto che al momento del ricovero la G. fosse in condizione di probabile distacco della
placenta; in ogni caso, anche ipotizzando la reale sussistenza di tale situazione, il trattamento
sanitario adottato, come, si sostiene, risultava anche da talune delle consulenze tecniche acquisite in
atti, sarebbe stato in linea con i protocolli medici; il distacco della placenta sarebbe invece stato
improvviso, dopo tre giorni di quiete, come emergeva dalla consulenza del prof. Barni e, pertanto,
nessuna rilevanza avrebbero potuto avere le omissioni contestate all'imputato (relative all'
accertamento ecografico e quello sulla contrattilità uterina ed al trasferimento della paziente in un
centro attrezzato), dovendo ragionevolmente ritenersi che l'evento morte si sarebbe comunque
verificato.
Sotto il secondo profilo, in violazione dei principi affermati dalle Sezioni unite, la sentenza
impugnata, avrebbe tratto la conferma della ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità, dal
coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge scientifica, laddove aveva contestato la tesi
esposta dal prof. Barni, secondo il quale il decesso sarebbe avvenuto anche in una struttura
attrezzata, facendo riferimento alla bassissima percentuale di mortalità materna in caso di distacco
intempestivo di placenta e sottolineando che, in caso di intervento tempestivo con tutte le misure
idonee a fronteggiare l'emorragìa, l'evento morte era da ritenere evitabile in una altissima
percentuale di casi.
Così ragionando i giudici avrebbero dedotto "automaticamente" dal coefficiente di probabilità
espresso dalla legge statistica la conferma dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale,
violando il dovere loro imposto di verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle
circostanze del fatto e dell'evidenza disponìbile. In applicazione di tali principi, secondo il
ricorrente, al giudizio di responsabilità si potrebbe pervenirsi solo quando, all'esito del
ragionamento probatorio, che abbia altresì
escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e "processualmente certa" la
conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo
con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica".
Nella fattispecie, si argomenta, i giudici dell'appello non avrebbero tenuto conto del complessivo
quadro probatorio secondo il quale: non poteva escludersi l'ipotesi di un distacco improvviso della
placenta (assunta dal perito d'ufficio come dato pressoché certo); doveva ritenersi l'idoneità della
struttura sanitaria ad affrontare l'emergenza, alla luce dichiarazioni del perito nel corso del
dibattimento, che aveva escluso comunque I' efficacia di qualsiasi intervento nella ipotesi di
distacco improvviso della placenta con sindrome CID e l'inutilità della terapia trasfusionale;
l'incertezza in ordine alla possibilità di una diagnosi più tempestiva in quanto i possibili esami
sull'ematocrito e quelli ecografia non avrebbero consentito con sicurezza la diagnosi; l'idoneità in
ogni caso del trattamento sanitario adottato che non sarebbe stato diverso anche se fosse stato più
celermente diagnosticato il distacco intempestivo di placenta.
Con memoria ritualmente depositata, la difesa dell'imputato ha articolato un motivo aggiunto, con il
quale prospetta plurime violazioni alle norme processuali da parte dei giudici di appello, che
possono sintetizzarsi nei seguenti termini.
La sentenza impugnata, accogliendo acriticamente i motivi di impugnazione del P.M., non avrebbe
dato atto del contraddittorio materiale probatorio, costituito dagli esiti delle diverse consulenze,
provenienti anche dallo stesso pubblico ministero, in merito alle cause della morte della G., così
dando luogo ad una motivazione incompleta, fondata su una valutazione frazionata degli atti di
causa ed apodittica. Sotto tale ultimo profilo i giudici del merito non avrebbero evidenziato gli
99
elementi dai quali avevano desunto il momento iniziale del distacco della placenta (da essi
individuato, contrariamente al giudice di primo grado, nel momento del ricovero della G.) nonché la
prevedibilità del distacco della placenta, soprattutto tenuto conto delle conclusioni del prof. Bami,
perito nominato dal giudice, che aveva sottolineato che tale sintomatologia nelle sue espressioni più
gravi è solita manifestarsi in modo improvviso ed in apparente benessere, come anche la devastante
complicazione di CID.
Tale situazione di contrasto avrebbe legittimato, nella ipotesi in cui i giudici non avessero ritenuta
adeguata l'applicazione dell'art. 530, comma 2, c.p.p., la predisposizione di un nuovo accertamento
peritale che potesse consentire di fare chiarezza sulle conclusioni difformi, al fine di dirimere il
ragionevole dubbio sulla ricostruzione del nesso causale, in conformità agli insegnamento della S.C.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla
ritenuta erroneità dell'affermato giudizio di responsabilità.
Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare accoglimento, in
quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle
questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di
diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa e di nesso di causalità.
Deve innanzitutto sottolinearsi che con il presente gravame, attraverso la denunzia di asseriti vizi di
violazione di legge e di motivazione, sono state riproposte questioni sostanzialmente di fatto già
dibattute nelle precedenti fasi del giudizio, tutte tese a dimostrare che il quadro probatorio
esaminato dai giudici di merito non avrebbe fornito sufficiente prova della responsabilità del
ricorrente.
In proposito, non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di
merito.
IIvizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espresso disposto normativo,
risultare dal testo del provvedimento impugnato e l'illogicità deve essere manifesta, cioè percepibile
immediatamente, ictu oculì ( v. Cass., Sezioni unite, 24 settembre 2003, Petrella).
Tanto comporta, quanto al vizio di illogicità, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale
sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per un
altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra
interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi ugualmente corretti sul piano logico; ne
consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame,
a nulla vale opporre che
questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità
( v. Cass., Sezioni unite, 27 settembre 1995, Mannino; da ultimo, Cass., Sezione IV, 14 dicembre
2004, parte civile Castelbonese ed altri, in proc.Marotta ed altri): dedurre tale vizio in sede di
legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di
motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice
di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica.
E' principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della motivazione, la Corte di
cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti,
né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento". Ciò
in quanto l'art. 606, comma 1, lettera e), del c.p.p non consente alla Corte di cassazione una diversa
lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di
legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass.,
Sezione V, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice
della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova,
in particolare non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento di
riscontro probatorio (Cass., Sezione VI, 6 marzo 2003, Di Folco).
Ciò premesso in termini generali, ritiene il Collegio che i vizi dedotti non sono riscontrabili nella
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sentenza impugnata con la quale la Corte ha dimostrato di avere analizzato tutti gli aspetti essenziali
della vicenda, pervenendo, all'esito di un approfondito vaglio di tutta la materia del giudizio, a
conclusioni sorrette da argomentazioni logico giuridico.
I giudici di appello hanno infatti adeguatamente e logicamente motivato il proprio convincimento
sulla sussistenza di comportamenti omissivi posti in essere dal ricorrente, nella qualità di
responsabile del reparto di ginecologia dell'ospedale di Soveria Mannelli, e sulla rilevanza causale
degli stessi nel processo determinativo dell'evento.
Nella specie la Corte di merito ha dedotto in modo logico e corretto, la responsabilità del ricorrente
da specifici accertamenti fattuali e dalle relazioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero,
individuando vari profili di colpa, tutti riconducibili, in via generale, alla mancanza dì una
assistenza adeguata a fronteggiare la situazione di una paziente, certamente a rischio per la sua
storia pregressa e certamente da monitorare attentamente per i sintomi che presentava.
Alla luce di tali premesse, a fine di accertare se possa ritenersi corretta la valutazione dei giudici di
appello sull'esistenza degli elementi costitutivi del reato, appare opportuno riassumere la
ricostruzione dei fatti così come effettuata dalla Corte di appello, integrata con il riferimento a
quella eseguita dal giudice di primo grado, e ciò per verificare, nel rigoroso ambito di valutazione e
di sindacato di cui supra si è detto, la congruenza delle conclusioni adottate sull'esistenza della
colpa e del nesso di condizionamento tra la condotta colposa ed il verificarsi dell'evento.
Come si è accennato in premessa, si desume dalla motivazione della sentenza gravata che G. I., al
settimo mese di gravidanza, era stata ricoverata presso l'Ospedale dì Soveria Mannelli il 13.5.1999,
con la diagnosi di minaccia di parto prematuro, dopo che a seguito di contrazioni uterine e perdite
ematiche vaginali dal giorno precedente, il medico curante aveva paventato un distacco
intempestivo della placenta. La paziente durante il ricovero non era stata sottoposta ad accertamenti
ecografia per indisponibilità dell'ecografo né al monitoraggio delle contrazioni uterine attraverso
l'effettuazione di tracciati cardiotocografici: indagini strumentali, entrambe, che avrebbero
consentito di fornire importanti indicazioni diagnostiche in merito alle cause di quelle perdite
ematiche e di accertare la presenza di un eventuale distacco, anche se lieve, della placenta. il giorno
16.5.1999, già fissato per le dimissione della G., insorgeva una sintomatologia acuta, caratterizzata
da forti dolori di pancia e vomito e venivano constatate perdite ematiche dai genitali rosso vivo
miste a coaguli; diagnosticato un distacco intempestivo di placenta, la G. era sottoposta a taglio
cesareo d'urgenza, a seguito del quale il feto veniva estratto privo di vita. Essendo comparsa una
emorragia imponente, veniva eseguito un intervento di isterectomia e, infine, la donna veniva
ricoverata d'urgenza presso il reparto di rianimazione dell'Ospedale di Lametta Terme, dove,
risultate inefficaci le manovre rianimatorie, se ne
verificava il decesso per arresto cardio-circolatorio conseguente a coagulazione intravasale
disseminata (CID) instauratasi per distacco intempestivo di placenta.
Proprio muovendo da tali incontestati dati fattuali, i giudici dell'appello hanno, con adeguata e
convincente motivazione, espresso il loro convincimento sìa sulla causa della morte della G., sia sui
profili di colpa (omissiva) apprezzati a carico del sanitario che aveva in cura la donna (il ricorrente,
dottor V.), sia sulla sussistenza del nesso causale tra detti profili di colpa e l'evento letale.
Tale apprezzamento, va soggiunto, è stato compiuto attraverso l'analisi critica dei diversi (e
contrastanti) apporti medico-legali e delle conclusioni di segno opposto raggiunte dal giudice di
primo grado.
Sotto il primo profilo, quello dell'accertamento della causa della morte, la Corte d'appello ha
ritenuto di trarre dalle emergenze processuali, analizzate nei termini suddetti, il convincimento che
causa della morte era da ritenersi il distacco della placenta, da cui era scaturita la coagulopatia
intravasale disseminata (CID) seguita da shock emorragico con danno ipossico generalizzato.
In tal modo la Corte di merito ha rispettato il principio ineludibile in forza del quale,
nella ricostruzione del nesso eziologico, non si può assolutamente prescindere dall'individuazione dì
tutti gli elementi concementi la "causa dell'evento" (ergo, la causa della morte del paziente): solo
conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione
101
della malattia, è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per
effettuare il giudizio controfattuale e verificare (avvalendosi delle leggi statistiche o scientifiche e
delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto) se, ipotizzandosi come realizzata la
condotta dovuta (ma omessa), l'evento lesivo "al di là di ogni ragionevole dubbio" sarebbe stato
evitato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità
lesiva (sul punto, v. Cass., Sezione IV, 25 maggio 2005, Lucarelli, i cui principi, diversamente da
quanto prospettato nei motivi aggiunti, non sono affatto contraddetti dalla sentenza sub iudice).
Il convincimento espresso dal giudice d' appello, siccome adeguatamente argomentato attraverso
l'analisi dei diversi apporti del sapere tecnico-scientifico, non può essere qui posto in discussione,
non interessando neppure approfondire se la patologia iniziale (il distacco della placenta) fosse o
meno presente già al momento del ricovero, essendo ampiamente satisfattivo, ai fini
dell'accertamento della colpa (v. infra), la rappresentazione, in parte motiva, di circostanze che
dovevano indurre a ritenere tale evento (a prescindere da quando insorto) come prevedibile, sì da
imporre un conseguente approccio diagnostico e terapeutico.
Or bene, sotto il secondo profilo, quello della colpa del sanitario, il giudice di merito ha posto in
evidenza i plurimi addebiti colposi omissivi riconducibili all'odierno ricorrente, il quale, nella
qualità dì medico che aveva in cura la paziente, aveva comunque omessi tutti gli accertamenti
necessari (in particolare quello ecografico e quello sulla contrattilità uterina che avrebbero
consentito di valutare più a fondo le cause delle perdite ematiche che subiva la paziente) per
impedire l'evento letale verificatosi a seguito di una patologia - quale il distacco della placenta- che,
come accennato, poteva e doveva ritenersi prevedibile, tenuto conto che trattavasi di paziente a
rischio, oltre per la sintomatologia, anche per la sua storia pregressa (si rappresenta in motivazione
che la gravidanza della G. era successiva a due aborti spontanei precoci, a due ricoveri in ospedale
per difficoltà gestazionali, ad una terapia giornaliera di deltacortene e bassi dosi di aspirina, a fronte
del ripetersi di emorragie modeste). Prevedibilità del resto rafforzata, secondo quando
convincentemente riportato in motivazione, dai segnali di malessere (vomito e forti dolori di pancia)
che la paziente presentava il giorno per il quale era stata disposta la dimissione.
Sotto il terzo profilo, quello del rapporto di causalità, risulta convincentemente argomentata la
ritenuta sussistenza del nesso di condizionamento tra le carenze comportamentali del sanitario e
l'evento morte, sviluppata attraverso il rilievo, supportato dalla scienza medica scientifica, che
laddove vi fosse stato un intervento tempestivo di diagnosi e di cura, altissime sarebbero state le
probabilità di fronteggiare con successo l'emorragia rivelatasi invece letale (99, 5%).
In proposito, non può condividersi la censura della difesa che il ragionamento del giudice di merito
avrebbe finito con il contrastare con i principi della sentenza Franzese, laddove questa avrebbe
imposto il superamento delle regole della probabilità statistica nella ricostruzione del nesso di
condizionamento tra la condotta omissiva del sanitario e l'evento letale verificatosi per il paziente.
Al riguardo, come puntualizzato anche in dottrina, bisogna partire dalla considerazione che la
risposta sulla sussistenza o meno del nesso eziologico non può essere, in effetti, esaustivamente e
semplicisticamente trovata, sempre e comunque, nelle leggi statistiche. E" un assunto ormai non più
dubitabile, dopo quanto ampiamente, ed esaustivamente, osservato proprio dalle Sezioni unite, con
la sentenza Franzese.
Però, non può neppure affermarsi che le leggi statistiche, in precedenza considerate decisive,
debbano essere completamente trascurate.
Le leggi statistiche, in vero, sono solo uno degli elementi che il giudice può e deve considerare,
unitamente a tutte le altre emergenze del caso concreto. Con la conseguenza che il giudizio positivo
sulla sussistenza del nesso eziologico non si baserà più solo sul calcolo aritmetico/statistico (quale
che sia la percentuale rilevante), ma dovrà trovare il proprio supporto nell'apprezzamento di tutti gli
specifici fattori che hanno caratterizzato la vicenda concreta.
Il giudice, in buona sostanza, potrà (anzi, dovrà) partire dalle leggi scientifiche di copertura e in
primo luogo da quelle statistiche, che, quando esistano, costituiscono il punto di partenza
dell'indagine giudiziaria. Però, dovrà poi verificare se tali leggi siano adattabili al caso esaminato,
102
prendendo in esame tutte le caratteristiche specìfiche che potrebbero minarne -in un senso o
nell'altro- il valore di credibilità, e dovrà verificare, altresì, se queste leggi siano compatibili con
l'età, il sesso, le condizioni generali del paziente, con la presenza o l'assenza di altri fenomeni
morbosi interagenti, con la sensibilità individuale ad un determinato trattamento farmacologico e
con tutte le altre condizioni, presenti nella persona nei cui confronti è stato omesso il trattamento
richiesto, che appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica.
In una tale prospettiva, il dato statistico, lungi dall'essere considerato ex se privo di qualsivoglia
rilevanza, ben potrà essere apprezzato dal giudice, nel caso concreto, ai fini della sua decisione, se
riconosciuto come esistente e rilevante, unitamente a tutte le altre emergenze fattuali della specifica
vicenda sub iudice, apprezzando in proposito, laddove concretamente esìstenti ed utilizzabili, oltre
alle leggi statistiche, le "regole scientifiche" e quelle dettate dall"'esperienza".
E' ovvio poi che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà verificare l'eventuale emergenza
di "fattori alternativi" che possano porsi come causa dell'evento lesivo, tali da non consentire di
poter pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale ("al di là di ogni ragionevole dubbio")
sulla riconducibilità di tale evento alla condotta omissiva del sanitario.
Ed è altresì ovvio che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà porsi anche il problema dell'
"interruzione del nesso causale", per I' eventuale, possibile intervento nella fattispecie di una "causa
eccezionale sopravvenuta" -rispetto alla condotta sub iudice del medico- idonea ad assurgere a sola
causa dell'evento letale (articolo 41, comma 2, c.p.).
Nel rispetto di tale approccio metodologico, il giudizio finale, laddove di responsabilità a carico del
sanitario, non potrà che essere un giudizio supportato da un "alto o elevato grado di credibilità
razionale" ovvero da quella "probabilità logica" pretesa dalle Sezioni unite Franzese; mentre
l'insufficienza, la contraddittorietà e/o l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del
nesso causale e, quindi, il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta
omissiva del medico, rispetto ad altri fattori interagenti o eccezionalmente sopravvenuti nella
produzione dell'evento lesivo, non potrà che importare una conclusione liberatoria.
Or bene, il giudice di merito si è mosso nel pieno rispetto di questi principi essendo pervenuto al
giudizio di responsabilità esprimendo il proprio convincimento non solo e non tanto sul dato
statistico percentuale (delle probabilità di salvezza), ma inserendo tale dato nel giudizio
complessivo che lo ha portato, in modo convincente e qui incensurabile, a fondare la responsabilità
del sanitario per l'evento letale in modo "processualmente certo".
In altri termini, la sentenza impugnata, richiamando il dato statistico relativo alla possibilità di
sopravvivenza della paziente con distacco di placenta in caso di intervento tempestivo, dopo avere
esaminato tutte le circostanze del caso concreto ed aver effettuato il giudizio controfattuale, si è
posta in linea con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, come già
evidenziato, il dato statistico deve ricevere conferma nell'apprezzamento di tutti gli elementi che
hanno caratterizzato il caso concreto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle di parte
civile che liquida in complessive euro 2.500,00 ( duemilacinquecento), di cui 300,00 ( trecento) per
spese, oltre IVA e CPA.
Così deciso nella camera di consiglio del 9 febbraio 2006
Il Consigliere, estensore II Presidente
Patrizia Piccialli Graziana Campanaio
-La posizione di garanzia penalisticamente rilevante in capo all'equipe medica non riguarda
solo l'intervento chirurgico, ma si estende anche alle fasi post-operatorie.
103
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COCO Giovanni Silvio – PresidenteDott. TUCCIO Giuseppe – ConsigliereDott. MARINI
Lionello – ConsigliereDott. CHILIBERTI Alfonso - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA 30-03-2005 n. 12275
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con separati atti Francesco A., Giacomo C. e Benedetto Z. hanno proposto a mezzo dei rispettivi
difensori ricorso avverso la sentenza in data 13.12.2002 della Corte d'appello di Catania, che ha
confermato la sentenza 10.7.2001 del Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Lentini, con la
quale ciascuno è stato condannato con le attenuanti generiche alla pena di un anno di reclusione per
il reato di cui agli artt. 40 cpv. e 589 c.p., commesso il 4.10.1995.
Gli imputati, costituenti l'equipe chirurgica che effettuò l'intervento operatorio su Bordarmi Eugenio
il 2.10.1995, sono statiritenuti responsabili del detto reato per aver omesso di effettuare su di un
soggetto con fratture costali multiple e doppie l'intervento di stabilizzazione di dette fratture o di
applicargli un tubo oro- tracheale allo scopo di ovviare all'insufficienza respiratoria, per averlo fatto
rientrare al reparto dopo l'intervento anzichè sottoporlo a terapia intensiva, e per aver sottovalutato
elementi significativi che rendevano prevedibile un'insufficienza respiratoria, quali l'incremento
progressivo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, provocando così la morte del
paziente per insufficienza respiratoria acuta. La corte di merito non dava rilievo ad una discrasia tra
cartella clinica e cartellino anestesiologico, che non parlavano d'intervento di osteosintesi, e registro
di sala operatoria, che ne attestava l'esecuzione, sul rilievo che era senz'altro da escludersi che vi
fosse stata un'osteosintesi completa, relativa a tutte le 24 fratture costali, mache non poteva
escludersi che l'intervento avesse interessato le costole prossime alla ferita chirurgica, sì che ben
poteva esservi stata un'osteosintesi parziale. Rilevava invece come la ventilazione forzata cui si era
fatto ricorso durante l'intervento operatorio era stata interrotta dopo l'esecuzione di questo e nulla
era stato fatto per consentire la respirazione del paziente, e ravvisava la responsabilità di tutti detti
medici, che avevano partecipato o assistito all'intervento e che erano o dovevano essere a
conoscenza delle condizioni del ricoverato, e quindi avevano l'obbligo giuridico, sulla scorta dei
D.P.R. 761/79 e 128/69 (che comporta che primari, aiuti ed assistenti assumono tutti e per intero,
salve le eccezioni che non sono qui ravvisabili, la responsabilità del caso concreto) di impedire
l'evento indicando, promovendo, imponendo odoperando direttamente i necessari presidi,
accertamenti ed interventi.
All'udienza del 17.3.2004 si celebrava il giudizio di Cassazione a carico dell'A. e del C., e veniva
straciata per difetto di notifica la posizione dello Z., il giudizio nei cui confronti si è celebrato in
data odierna.
Osserva questa Corte che il reato è prescritto: il termine di prescrizione, infatti, per effetto delle
attenuanti generiche e compresa l'interruzione, è di anni sette e mesi sei, per cui - pur tenendosi
conto della sospensione per mesi 11 e gg. 25 - esso si è interamente consumato.
Lamenta il ricorrente vizi che non sono idonei a far apparire evidente che il fatto non sussiste, che
l'imputato non l'ha commesso, che il fatto non è preveduto dalla legge come reato, si che non è
consentito un proscioglimento ai sensi dell'art. 129, co. 2^, c.p.p.La stessa esclusione del reato di
falso ideologico, dimostrata dalla sentenza 7.2.2003 esibita, non dimostra che vi è stata
un'osteosintesi completa, e prevalentemente i motivi si fondano su risultanze processuali che non
104
emergono dal testo della sentenza impugnata, nè si può dubitare del fatto che, se l'intervento
operatorio in senso stretto può ritenersi concluso con l'uscita del paziente dalla camera operatoria,
sul sanitario grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche
nella fase post-operatoria; tale obbligo, rientrante tra quelli di garanzia, discende non solo da norme,
scritte e non, ma anche dal contratto d'opera professionale, di tal che la violazione dell'obbligo
comporta responsabilità civile e penale per un evento casualmente connesso ad un comportamento
omissivo ex art. 40, co. 2 c.p. (cfr. Cass. 3492/02).
L'impugnata sentenza va dunque annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2005.
ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA
TRACCIA:
Tizio è un giovane amante del calcio dilettantistico.
Tizio, grande giocatore, riteneva di avere un futuro da calciatore professionista, così che si
impegnava al massimo e con ardore in ogni partita; Tizio, in ogni partita, giocava solo per vincere.
Un giorno, Tizio veniva invitato a partecipare ad una partita di calcetto, per fini di beneficenza.
Ad un certo punto della partita, la squadra avversaria andava in vantaggio di punteggio e Tizio si
adirava parecchio, soprattutto contro Caio.
In un’azione, Tizio entrava in scivolata su Caio, causandogli la frattura della caviglia.
Caio veniva ricoverato in ospedale e Tizio veniva espulso.
Due giorni dopo, Tizio si recava da un legale.
Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa era utile sintetizzare il fatto.
Successivamente, era necessario affrontare (sinteticamente) il problema delle scriminanti non
codificate (attività sportiva violenta, consenso, offendicula, ecc.).
In particolare, sul punto, ci si è chiesto se possano configurarsi ulteriori scriminanti oltre quelle
tipizzate dal legislatore penale (artt. 50, 51, 52, 53, 54 c.p.).
Secondo parte minoritaria della dottrina, non potrebbero sussistere scriminanti non codificate, in
considerazione del divieto di analogia.
Secondo altra ricostruzione, invece, sarebbero ammissibili scriminanti non codificate, estendendo le
norme scriminanti tipizzate analogicamente in bonam partem; in questo senso, si dice, ad esempio,
sarebbero giustificabili azioni sportive violente (nei limiti del rischio consentito in rapporto alla
natura dell’attività sportiva).
Secondo altra ricostruzione, il problema andrebbe risolto “semplicemente” alla luce delle
scriminanti tipizzate, che già per la loro generalità possono essere applicate nella maggior parte dei
casi (legittima difesa aniticipata, consenso presunto, stato di necessità anticipata).
In questo senso, allora, nel caso di specie ben potrebbe emergere la scriminante non codificata
105
dell’attività sportiva violenta (che rientra, secondo una certa tesi, nell’esercizio del diritto o nel
consenso dell’avente diritto), con la conseguenza che Tizio potrebbe non risultare responsabile delle
lesioni (dolose o colpose) causate a Caio.
Nel caso di specie, comunque, si trattava di prendere in esame un’attività sportiva (come il calcio)
eventualmente violenta ( e non necessariamente violenta come la boxe), analizzando i limiti del
rischio consentito in una partita di calcetto per scopi di beneficenza.
Sono stati superati i limiti del rischio consentito?
Al quesito si poteva dare risposta affermativa, evidenziando che una frattura alla caviglia in una
partita di calcetto non è un fatto intrinseco all’attività sportiva (come può essere un livido, o una
“storta”), tanto più che non era di livello agonistico.
Al più, anche in un’eventuale ottica difensiva, si poteva sostenere la presenza di un eccesso colposo,
con la conseguente applicabilità dell’art. 590 c.p., in considerazione del fatto che la lesione
cagionata da Tizio a Caio è stata realizzata non tanto al fine di danneggiare Caio, quanto piuttosto
per vincere la partita (Tizio giocava in ogni partita solo per vincere).
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-La condotta del giocatore non professionista deve essere correlata al tipo di competizione in
atto, tanto da essere richiesta una particolare cautela e prudenza per evitare il pregiudizio
fisico all’avversario, e quindi un maggior controllo dell’ardore agonistico, non equiparabile a
quello che caratterizza le competizioni sportive tra professionisti, le cui azioni impetuose,
invece, sono scriminate nei limiti del rischio consentito.
CASS. PEN.- SEZ. IV- 6 ottobre 2006, n. 33577 MOTIVI DELLA DECISIONECon sentenza
emessa il 24 maggio 2002 il Tribunale di Trapani dichiarava G. Giovanni responsabile del delitto di
lesioni colpose gravi commesso il 25 agosto 1999 in danno di V. Giuseppe colpendolo al ginocchio
destro, durante una partita amichevole di calcio a cinque, con una "entrata in scivolata" di estrema
irruenza e violenza, senza regolare e coordinare il proprio sconnesso intervento in considerazione
della dinamica dell'azione di gioco e della posizione assunta dal pallone, sì da aver cagionato al
predetto V., rovinato a terra sul ginocchio sinistro, la rottura bilaterale dei tendini rotulei di
entrambe le ginocchia.Avverso detta sentenza proponeva appello l'imputato deducendo la erroneità
dell'ordinanza non ammissiva dell'esame del consulente tecnico dott. M. e di ulteriore ordinanza
recettiva della richiesta, formulata con riferimento all'art. 507 c.p.p., di esame testimoniale di
spettatori della partita, e lamentando la mancata assoluzione per insussistenza del fatto.Con
sentenza emessa in data 9 maggio 2003 la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della
sentenza impugnata, determinava la pena in euro 200 di multa, confermando nel resto la sentenza
impugnata.La Corte territoriale affermava la insussistenza degli estremi per procedere alla
rinnovazione parziale del dibattimento per raccogliere la prova denegata dal primo giudice, e ciò in
quanto la ricostruzione del fatto - e segnatamente della dinamica dell'incidente - così come operata
nella sentenza impugnata sulla base del plurimo e convergente dato testimoniale oltre che delle
dichiarazioni rese dalla persona offesa, era da ritenersi con evidenza del tutto corretta e
condivisibile, essendo emerso che il G. aveva optato un intervento in scivolata molto violento e
duro, appoggiando una mano a terra e quindi colpendo il V. con ambo le gambe, una delle quali,
distesa a terra, aveva attinto il pallone e la caviglia della vittima, mentre l'altra, alzata, aveva
raggiunto il ginocchio destro di quest'ultima, la quale, di conseguenza, era caduta poggiando sul
ginocchio sinistro.Tali risultanze, secondo la Corte di merito, destituivano di fondamento la
ricostruzione della vicenda operata dall'imputato il quale, dopo avere negato di essersi appoggiato
con una mano a terra, aveva sostenuto di avere colpito soltanto il pallone, e che la caduta al suolo
106
del V. era dipesa dalle modalità scomposte e goffe del tentativo da lui operato di evitare l'ostacolo,
saltandolo per finire inginocchiato a terra.Ciò posto, i secondi giudici affermavano che la «causa di
giustificazione non codificata dell'esercizio di un'attività sportiva, ravvisata dalla giurisprudenza di
legittimità, in tanto può, secondo detta giurisprudenza, configurarsi in quanto le lesioni derivate
dall'esercizio di detta attività siano state procurate nel rispetto delle regole alle quali la singola
pratica sportiva è informata, nel senso che (e tanto vale indubbiamente per il gioco del calcio, nel
quale è possibile e frequente lo scontro fisico tra i giocatori, con esiti anche gravi) il comportamento
lesivo può ritenersi corretto e scriminato soltanto ove posto in essere nel rispetto delle regole della
disciplina specifica e del dovere di lealtà nei riguardi dell'avversario».Nel caso in esame, escluso il
dolo, il comportamento tenuto dall'imputato era stato indubbiamente colposo, «per avere egli
interpretato l'evento sportivo in corso come una competizione effettiva, quindi animato da un
agonismo non conferente alla situazione concreta, per avere impostato la manovra di contrasto in
scivolata del V. senza governare adeguatamente il proprio slancio, la propria forza fisica e
soprattutto per averlo colpito sia alla caviglia, sia al ginocchio destro mentre tentava il salto, senza
che questo specifico fallo avesse alcuna utilità rispetto all'intento di allontanare il pallone che si
trovava a terra spinto dal piede della persona offesa».Donde la violazione delle regole calcistiche e
delle norme di prudenza, stante la sproporzione e l'eccessività dell'intervento a fronte della
caratteristiche dell'incontro di calcio, a cinque giocatori per parte (già per questo differenziantesi dal
calcio tradizionale ad undici giocatori contrapposti per il minor contenuto agonistico), avente
carattere amichevole in quanto organizzato estemporaneamente da un gruppo di amici e conoscenti,
alcuni dei quali non avevano (a differenza dell'imputato, il quale aveva militato nella serie B di
calcio a cinque) mai giocato a calcio, nonché a contenuto agonistico limitato, svoltosi sulla sabbia
ed in assenza di un arbitro.Avverso la sentenza resa dalla Corte territoriale ha proposto ricorso
l'imputato deducendo i seguenti motivi:1) la mancata assunzione di prova decisiva e mancata
rinnovazione del dibattimento per udire il teste dott. M., manifesta illogicità della motivazione
quanto alla decisività di detta prova;2) mancata assunzione di prova decisiva e mancata
rinnovazione del dibattimento per l'audizione dei consulenti tecnici L. e V. e manifesta illogicità
della motivazione sul punto;3) mancata assunzione di prova decisiva e mancata rinnovazione del
dibattimento per l'audizione degli spettatori della partita;4) manifesta illogicità della motivazione in
ordine all'affermazione di responsabilità, sull'assunto che la ricostruzione del fatto sarebbe
inverosimile, come, se disposta consulenza, i consulenti avrebbero ritenuto; inoltre, la circostanza
che il pallone fu spedito in fallo laterale dimostra, secondo il ricorrente, che unico obiettivo
dell'imputato era stato quello di colpire il pallone medesimo.La Corte osserva quanto segue.I motivi
sopra riassunti sub nn. 1), 2) e 3) - tutti concernenti gli asseriti vizi di cui alle lett. d) ed e) dell'art.
606 c.p.p., sono inammissibili per difetto di requisito di specificità prescritto dall'art. 581, lett. c),
c.p.p. a pena di inammissibilità sancita dall'art. 591, comma 1, lett. c), dello stesso codice.Invero la
motivazione della sentenza impugnata dà adeguatamente conto, in termini di acquisita certezza
processuale, di un colpo violento sferrato dall'imputato al ginocchio destro di V. Giuseppe, nella
fase di gioco in questione, ed a fronte dell'accertata rottura traumatica bilaterale dei tendini rotulei
della persona offesa, caduta dall'altro ginocchio a seguito del colpo subito, e pertanto dà altresì
conto, sia pure in parte implicitamente, della inesistenza della necessità di ulteriori indagini
mediante parziale rinnovazione della istruzione dibattimentale in secondo grado onde accertare le
concrete modalità della condotta incriminata ed il nesso causale tra la medesima ed il grave evento
lesivo.A fronte di detta motivazione il ricorrente si limita ad affermare, del tutto genericamente, la
esistenza di imprecisati "pregressi danni fisici" dai quali la persona offesa sarebbe stata affetta per
mettere in dubbio, del tutto inattendibilmente alla luce della risultanze valorizzate dai giudici di
merito, la sussistenza del nesso causale.Né lo stesso ricorrente chiarisce minimamente in che
consiste la pretesa decisività delle prove delle quali lamenta la mancata assunzione da parte dei
secondi giudici, e neppure evidenzia (al di là dell'uso di espressioni del tutto generiche in ordine
all'essere la irrilevanza delle prove stata connessa "alla presunta astrattezza dell'intervento
denegato" e ad un preteso miglior punto di osservazione degli spettatori rispetto a quello dei testi
107
presenti sul campo a breve distanza dal punto di verificazione del fatto) l'asserita illogicità
manifesta della complessiva ricostruzione del fatto, motivatamente ritenuta dai secondi giudici tale,
in quanto provata, da non giustificare il ricorso alla rinnovazione parziale del dibattimento in grado
di appello ex art. 603 c.p.p.A tale riguardo questa Corte osserva che, per giurisprudenza di
legittimità assolutamente costante dopo la pronuncia della sentenza delle Sezioni unite di questa
Corte 2780/1996, Panigoni ed altri, l'istituto di cui all'art. 603 c.p.p. ha carattere eccezionale e
presuppone l'impossibilità di decidere allo stato degli atti, rientrando nel potere discrezionale del
giudice di merito, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità ove congruamente e
logicamente motivato, il provvedere negativamente sulla relativa richiesta (Cass., Sez. VI,
7047/1996, Pg in proc. Riberto; Sez. I, 5267/1998, Fiore; Sez. V, 6379/1999, Bianchi ed altri; Sez.
I, 9531/1999, Pg in proc. Merlino; Sez. V, 7659/1999, Jovino; Sez. VI, 9151/1999, Capitani; Sez.
III, 13071/1999, Crivelli ed altri; Sez. II, 8106/2000, Accertatola; Sez. VI, 68/2002, Pg in proc.
Raviolo; v. anche Cass., Sez. V, 8891/2000, Callegari, a tenore della quale «In tema di
rinnovazione, in appello, della istruzione dibattimentale, il giudice pur investito - con i motivi di
impugnazione - di specifica richiesta, è tenuto a motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione
acceda; invero, in considerazione del principio di presunzione di completezza della istruttoria
compiuta in primo grado, egli deve dare conto dell'uso che va a fare del suo potere discrezionale,
conseguente alla convinzione maturata di non potere decidere allo stato degli atti. Non così,
viceversa, nella ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione potrà anche essere implicita
e desumibile della stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia
la sussistenza di elementi sufficienti alla affermazione o negazione di responsabilità»).In definitiva,
il mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione parziale della istruzione dibattimentale in
grado di appello in tanto sarebbe stato censurabile nella presente sede di legittimità, sotto il dedotto
profilo del vizio di cui alla lett. e) dell'art. 606 c.p.p. in quanto il ricorrente avesse proposto
argomentazioni specifiche tali da dimostrare (il che non si dà in relazione al ricorso in esame),
indipendentemente dalla esistenza o meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione
impugnata, la esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della medesima, di lacune o
illogicità manifeste, ricavabili dal testo del provvedimento medesimo (od anche, dopo la modifica
dell'art. 606, lett. e), c.p.p. apportata dall'art. 8 l. 46/2006, da altri atti del processo specificamente
indicati nei motivi di gravame) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state
verosimilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all'assunzione o alla
riassunzione di prove determinate in grado di appello.E quanto all'ulteriore vizio dedotto in ricorso,
di cui alla lett. d) dell'art. 606 c.p.p., si è già rilevata la assoluta genericità del suddetto motivo, dal
momento che il ricorrente suggerisce una indagine ad explorandum senza indicare specifici e
concreti elementi fattuali che, se provati, avrebbero sovvertito il giudizio, sicché la censura non va
oltre il limite di una eventualmente possibile diversa prospettazione valutativa, neppure
adeguatamente chiarita e comunque insufficiente a delineare il carattere di "decisività" delle prove
richieste.Il quarto motivo, concernente l'affermazione di responsabilità, è infondato, essendo
affidato alla inconsistente deduzione di una pretesa inverosimiglianza di un intervento tanto agile e
controllato quale quello ascritto all'imputato che, in quanto "giocatore di sottocategoria" non
sarebbe stato in grado di compierlo, ed all'assunto, irrilevante alla luce della motivazione della
sentenza impugnata, che egli ebbe a colpire (anche) il pallone (circostanza, questa, idonea ad
escludere il dolo del delitto di lesioni, ascritto peraltro a titolo colposo) senza che il ricorrente
confuti le ragioni di diritto illustrate nella sentenza impugnata in riferimento alla sussistenza della
colpa correlata alle modalità della condotta correlata al tipo di competizione amichevole in atto
(vedansi, a sostegno della fondatezza di tale operata correlazione e delle conseguenze trattene dai
secondi giudici, Cass., Sez IV, 2765/1999, Pg in proc. Bernava, e Cass., Sez. V, 9627/1992, Lolli,
con riguardo, rispettivamente, ad una fattispecie di attività sportiva consistita in una esibizioneallenamento, e ad altra consistita in un incontro di calcio tra dilettanti, entrambe ritenute
intrinsecamente tali da richiedere, da parte dei contendenti, particolare cautela e prudenza per
evitare il pregiudizio fisico per l'avversario, e quindi un maggiore controllo dell'ardore
108
agonistico).Per le sin qui esposte ragioni il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.P.Q.M.Rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
-Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare
lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica.
Corte di cassazione
Sezione V penale
Sentenza 23 maggio 2005, n. 19473
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 27 settembre 1999, il tribunale di Venezia dichiarava F.D. colpevole del reato di
lesioni volontarie aggravate, ai sensi dell'art. 582, 583, comma 2, n. 3, c.p. (per avere cagionato a
D.A., colpendolo violentemente con una gomitata all'addome, nel corso di una partita di calcio, una
lesione gravissima dalla quale derivava la perdita dell'uso dell'organo della milza) e - con la
concessione delle attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata aggravante - lo condannava alla
pena di mesi otto di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte
civile, da determinarsi in separata sede, con provvisionale liquidata in lire 20.515.600, oltre
consequenziali statuizioni di legge.
La vicenda processuale riguardava un episodio accaduto il 3 marzo 1995 durante un incontro di
calcio del campionato "Eccellenza" tra le squadre Nuova Salzano e Jesolo 91. Sugli sviluppi di un
calcio d'angolo, il D., portiere dello Jesolo, aveva respinto, in elevazione, il pallone e subito dopo,
in fase di ricaduta, era stato colpito dal F., giocatore avversario, con una gomitata all'addome.
Immediatamente soccorso, lo stesso D. era stato trasportato all'Ospedale di Mirano dove, otto giorni
dopo, aveva subito la splenectomia e la saturazione di una perforazione intestinale.
Pronunciando sul gravame proposto dal difensore dell'imputato, la Corte d'appello di Venezia
riformava, in parte, l'appellata decisione, dichiarando non doversi procedere nei confronti del F.
perché il reato ascrittogli era estinto per intervenuta prescrizione. Confermava le disposizioni
relative all'azione civile, con ulteriori statuizioni di legge.
Avverso l'anzidetta pronuncia lo stesso difensore e l'imputato personalmente propongono ora
distinti ricorsi per cassazione, deducendo le ragioni di censura in parte motiva indicate.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.- Il primo motivo di ricorso proposto dal difensore denuncia mancanza o manifesta illogicità della
motivazione in ordine alla dinamica della vicenda, ricostruita sulla base di deposizioni testimoniali
contrastanti e senza dar conto, peraltro, dei molteplici rilievi mossi nell'atto di appello.
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Il secondo motivo denuncia violazione dell'art. 606, lett. e), del codice di rito, nonché mancanza e,
comunque, manifesta illogicità della motivazione in ordine a quella stessa dinamica, in palese
contrasto con univoche risultanze testimoniali.
Il terzo motivo denuncia identica violazione dell'art. 606, lett. e), del codice di rito con riferimento
alla ritenuta volontarietà della duplice lesione della milza e dell'intestino, nonostante le precise
affermazioni del dr. Dall'Olivo, il chirurgo che aveva operato la parte offesa.
Il quarto motivo eccepisce la violazione dell'art. 606, lett. b) ed e), del codice di rito in relazione
agli artt. 50 e 51 c.p. ed alle cause di giustificazione non codificate; nonché errata interpretazione ed
applicazione della legge penale od illogicità della motivazione. Contesta, in particolare, la
qualificazione giuridica del fatto come reato doloso, insistendo, altresì, per la richiesta di
applicazione delle scriminanti di cui agli artt. 50 e 51 c.p. (consenso dell'avente diritto ed esercizio
di un diritto) ovvero di quelle, atipiche e non codificate, dell'esercizio dell'attività sportiva e
dell'azione socialmente adeguata, sulla base, peraltro, di autorevoli insegnamenti di questo Giudice
di legittimità.
Il quinto motivo denuncia violazione dell'art. 606, lett. b), c.p.p. in relazione agli artt. 582, 590 c.p.;
errata interpretazione ed applicazione della legge penale sul gradato rilievo che, nel caso di specie,
sarebbe stata, semmai, ravvisabile una fattispecie colposa, ai sensi dell'art. 590 c.p.
Il primo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato riproduce, in buona sostanza, le
censure già espresse nel ricorso del difensore, sotto il profilo del difetto motivazionale, in ordine
alla lettura delle risultanze testimoniali.
Il secondo motivo eccepisce inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ai sensi
dell'art. 606, lett. b), del codice di rito, sul riflesso, fondato anche su diversi richiami
giurisprudenziali di legittimità e di merito, che, nel caso di specie, sarebbe operante la scriminante
del consenso dell'avente diritto nell'ambito del rischio consentito che ogni giocatore conosce ed
accetta e che l'ordinamento non punisce per l'interesse pubblico sotteso alla pratica sportiva.
2. - Le censure relative alla motivazione ed alla metodologia di lettura delle risultanze di causa, che
sostanziano i motivi primo, secondo e terzo del ricorso proposto dal difensore ed il primo motivo
del ricorso dell'imputato, valutate globalmente per identità di ratio, devono essere disattese in
quanto si risolvono in censure di merito. Peraltro, la dinamica del sinistro, nelle sue particolari
modalità, risulta delineata sulla base di un'argomentazione immune da incongruenze di sorta. Dal
coacervo delle motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado, che, in quanto convergenti
in punto di penale responsabilità, si integrano vicendevolmente, costituendo una sola entità
giuridica, risulta infatti accertato che le gravi conseguenze fisiche patite dal D. sono riconducibili
alla gomitata inferta dal F., nel corso di un'azione di gioco. Il dato sostanziale, emerso
pacificamente dalle risultanze processuali, al di là delle segnalate divergenze su particolari
ininfluenti e marginali, depone incontrovertibilmente per l'ascrivibilità del fatto allo stesso imputato
e per l'accidentalità dell'evento nell'ambito di un'ordinaria fase di gioco, non essendo emerso da
alcunché che il colpo sia stato inferto deliberatamente od in un diverso contesto, vale a dire "a gioco
fermo", con lo specifico e diretto intendimento di aggredire la persona offesa.
In questa sede di legittimità risultano, allora, insindacabili la ricostruzione della dinamica
dell'incidente, la determinazione dell'evento lesivo e la sua riconducibilità all'azione violenta del F.
L'esistenza di un idoneo apparato giustificativo a fondamento della versione dei fatti prescelta dal
giudice del merito non lascia, dunque, spazio all'apprezzamento delle doglianze di parte, neanche
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sotto il profilo scientifico relativo a natura ed eziologia delle lesioni riportate dalla persona offesa, a
fronte delle dichiarazioni - giustamente valorizzate - del consulente di parte civile e del chirurgo che
aveva operato il D.
Le censure di parte vanno, poi, disattese nella misura in cui, sono intese alla contestazione del
mancato rilievo dell'art. 129 c.p.p., a fronte della causa estintiva maturata per decorso del termine
prescrizionale, ed alla richiesta di relativa applicazione in questa sede di legittimità.
E' ius receptum, infatti, che l'art. 129 c.p.p. - come, del resto, è fatto palese dal significato letterale
delle locuzioni usate dalla stessa norma - postula che, in presenza di una causa di estinzione del
reato, il giudice debba privilegiare la pronuncia di proscioglimento nel merito, con formula
corrispondente, soltanto quando dagli atti di causa risulti evidente - e, dunque, con rilievo percettivo
ictu oculi - che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso e che il fatto non
costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (cfr. Cassazione, 48527 del 18 novembre
2003, rv. 228505, secondo cui la valutazione che, in proposito, deve essere compiuta dal giudice
appartiene più al concetto di constatazione che a quello di apprezzamento; con la conseguenza che,
qualora le risultanze processuali siano tali da condurre a diverse ed alternative interpretazioni, senza
che risulti evidente la prova dell'estraneità dell'imputato al fatto criminoso, non può essere applicata
la regola di giudizio ex art. 530, comma 2, c.p.p., la quale equipara la prova incompleta,
contraddittoria od insufficiente alla mancanza di prova, ma deve essere dichiarata la causa estintiva
della prescrizione). La Corte di merito ha correttamente applicato tale principio giurisprudenziale
rilevando che non risultava evidente in atti alcuna situazione sostanziale che potesse giustificare il
proscioglimento in merito del F., da privilegiare rispetto alla declaratoria della causa estintiva del
reato per prescrizione.
Risultano, invece, fondate, nei soli termini di seguito indicati, le doglianze di parte, espresse nei
motivi quarto e quinto dei ricorso del difensore e nel motivo secondo dell'impugnazione dello stesso
imputato, relativamente alla qualificazione giuridica dei fatto in questione. Profilo questo che,
nell'economia del giudizio, mantiene la sua rilevanza anche in presenza di una causa estintiva, per la
ricaduta che, agli effetti civili, assume la caratterizzazione giuridica ai fini della determinazione del
quantum risarcitorio.
Orbene, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie
e giurisprudenziali hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito sportivo, nozione
che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che
governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili,
neppure quando risultano pregiudizievoli per l'integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto
non superano la soglia del c.d. rischio consentito. Si tratta di un'area di non punibilità, la cui
giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante.
Il quesito interpretativo se l'esimente in questione debba essere ricondotta al paradigma del
consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 c.p., e dunque all'ambito concettuale di una tipica causa
di giustificazione prevista dal sistema positivo, ovvero all'area delle cause di giustificazione c.d.
non codificate è stato risolto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte nel secondo senso, in
considerazione dell'interesse primario che l'ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport
(cfr., tra le altre, Cassazione, Sez. IV, 12 novembre 1999, n. 2765, rv. 217643; id., Sez. V, 2 giugno
2000, n. 8910, rv. 216716). Tale interpretazione deve essere certamente ribadita, vuoi perché la
riconducibilità ad una tipica causa di giustificazione comporterebbe non trascurabili problemi di
coordinamento con il generale principio della non disponibilità di beni giuridici fondamentali, quali
la salute od anche la vita, dotati, certamente, di valenza costituzionale, vuoi perché, in effetti, alla
pratica sportiva l'ordinamento giuridico assegna un ruolo di assoluto rilievo.
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La considerazione privilegiata attiene sia ad una duplice prospettiva, sia individuale, sul piano della
tutela della persona, sia di carattere sociale: entrambe meritevoli di protezione.
Sotto il primo profilo, rileva la funzione altamente educativa dello sport, soprattutto agonistico,
sotto forma non solo di cultura fisica, ma di educazione del giovane praticante al rispetto delle
norme ed all'acquisizione della regola di vita secondo cui il conseguimento di determinati obiettivi
(quale può essere la vittoria di una gara o il miglioramento di record personale) è possibile solo
attraverso l'applicazione, il sacrificio e l'allenamento e, soprattutto, deve essere il risultato di tali
componenti, senza callide o pericolose scorciatoie. Ed in tale prospettiva, lo sport diventa anche
formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare, con lo spirito giusto, la grande
competizione della vita che li attende e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove
interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle regole e del prossimo.
La valenza positiva dello sport la si coglie, in modo più vistoso, in chiave sociale, con riferimento
alle discipline di squadra, in quanto al valore del benessere fisico, si accompagna quello della
socializzazione, con evidente ricaduta nella sfera di previsione dell'art. 2 della Carta Costituzionale,
alla luce del riferimento alle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità, tra le quali sono
certamente da ricomprendere anche le associazioni sportive. Senza dire, poi, dell'ulteriore profilo di
utilità sociale connesso al fatto che lo sport può aiutare le istituzioni a distogliere i giovani da
pericolose forme di devianza.
Funzionale al perseguimento di questi valori è il principio di lealtà e di rispetto dell'avversario,
codificato mediante regole tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta
consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di specifiche sanzioni. Non a caso
tutti i regolamenti delle federazioni sportive annoverano tra i principi fondamentali quello della
lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di ciascun ordinamento.
Orbene, proprio sulla base di tali principi è stata ritagliata la nozione di illecito sportivo, con
riferimento all'inosservanza sia dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina
(ad esempio, determinate tipologie comportamentali anche estranee alla competizione vera e
propria; tesseramenti fraudolenti od iniziative volte ad alterare il regolare svolgimento di una gara
ed altro ancora), sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate nell'agone sportivo
e che compongono la parte tecnica del regolamento di ciascuna federazione. L'area del rischio
consentito deve ritenersi coincidente con quella delineata dal rispetto di quest'ultime regole, che
individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal
regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante
deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un
determinato sport. Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l'uso della violenza, intesa come
energia fisica positiva, tale in quanto spiegata - in forme corrette - al perseguimento di un
determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell'avversario (quale può essere
l'impossessamento di un pallone conteso o la realizzazione di un goal nel calcio, calcetto, hockey,
pallanuoto, pallamano; di un canestro nel basket o di una meta nel rugby et similia; o ancora il
superamento dell'avversario nel pugilato, nella lotta ed altro ancora).
Posto che l'uso della forza fisica, nel senso anzidetto, può essere causa di pregiudizi per l'avversario
che cerchi di opporre regolare azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il discrimine tra
lecito ed illecito in chiave sportiva. Ma neppure in ipotesi di violazione di quelle norme, tale da
configurare illecito sportivo, viene travalicata l'area del rischio consentito, ove la stessa violazione
non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un'azione che, nella
concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta elusione delle
regole anzidette. Tutte le volte in cui quella violazione sia, invece, voluta, e sia deliberatamente
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piegata al conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l'altrui integrità fisica o,
addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni
personali, si entra nell'area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della
colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare
lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (per ragioni estranee alla gara o
per pregressi risentimenti personali o per ragioni di rivalsa, ritorsione o reazione a falli
precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso).
E' evidente che, ai fini dell'indagine in questione, risulta decisivo accertare se il fatto si sia o meno
verificato nel corso di una tipica azione di gioco, in quanto in ipotesi alternativa ricorre sempre una
fattispecie dolosa.
Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un'ordinaria situazione di gioco, il
fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare
pregiudizi fisici all'avversario, ma al conseguimento - in forma illecita, e dunque antisportiva - di un
determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di
un'azione di gioco non sia stato altro che mero pretesto per arrecare, volontariamente, danni
all'avversario.
Orbene, applicando tali principi alla fattispecie in esame, è agevole rilevare che dall'esposizione
della sentenza impugnata, integrata, per quanto di ragione, dalla motivazione di primo grado, non
emerge alcun elemento - neppure dalle dichiarazioni della persona offesa - che potesse indurre a
ritenere che il F. avesse profittato delle circostanze di tempo e luogo per colpire deliberatamente il
D., sull'impulso di motivazioni estranee allo svolgimento della partita.
E' risultato, inoltre, che il fatto lesivo ha avuto luogo nel corso di un'ordinaria azione di gioco, sugli
sviluppi di un corner, nella tipica situazione che si verifica quando il pallone, dopo la battuta del
calcio d'angolo, spiove in area avversaria e viene conteso dal portiere e dagli altri giocatori. Nello
specifico, il D., in elevazione, era saltato più in alto degli avversari e, sia pure contrastato, era
riuscito a respingere la sfera e poi, in fase di ricaduta, aveva subito l'azione fallosa del F. che lo
aveva colpito con una gomitata.
Quindi, certa la circostanza di gioco, certa l'azione fallosa per violazione di una specifica regola di
gioco (tipico fallo sul portiere) ed altrettanto certo l'effetto lesivo, non risulta indicata prova alcuna
che l'impatto sia stato volontariamente inteso ad arrecare pregiudizio all'integrità fisica
dell'avversario, piuttosto che evento conseguente ad un'intempestiva azione di contrasto (il portiere
aveva già colpito il pallone) caratterizzata da salto scomposto (con le braccia allargate ed i gomiti
alzati) ovvero da volontaria violazione di regole di gioco (fallo da frustrazione) non accompagnata
però da univoca volontà di ledere. In questa logica, la parte motiva della sentenza impugnata offre
un elemento di particolare pregnanza che, riduttivamente, è stato valorizzato dal giudice di merito,
al solo fine di ribadire il giudizio di riconducibilità del fatto lesivo al F. E cioè la circostanza che, al
termine della partita, l'atleta si sia recato prontamente nello spogliatoio avversario per sincerarsi
delle condizioni del D., ad eloquente riprova, ancorché postuma, non solo che era stato proprio lui
l'autore del fallo, ma, soprattutto, che non v'era stato alcun pregresso risentimento od alcuna volontà
di far male.
3. - Per tutto quanto precede, il fatto lesivo per cui è causa deve essere riqualificato, ai sensi dell'art.
590 c.p., come fatto colposo, con conseguente statuizione nei termini indicati in dispositivo.
P.Q.M.
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Annulla senza rinvio l'impugnata sentenza limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto che
qualifica come reato di lesioni colpose. Rigetta nel resto il ricorso.
-Il giocatore autore dell'evento lesivo, che sia stato però rispettoso delle regole del gioco, del
dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e della integrità fisica di costui, commette un
illecito sportivo ma non è perseguibile penalmente, poichè in siffatta ipotesi non può dirsi
superata la soglia del "rischio consentito", in quanto è dato di comune esperienza che nel
corso di una gara l'ansia di risultato, la stanchezza fisica e la carica agonistica, talvolta
eccessiva, possono comportare delle violazioni non volontarie del regolamento di gara.
Viceversa quando il fatto lesivo si verifica perché il giocatore violi volontariamente le regole
del gioco disattendendo i doveri di lealtà verso l'avversario che, invece, dovrebbero costituire
la caratteristica essenziale di ogni sportivo, allora il fatto non potrà rientrare nella causa di
giustificazione, ma sarà penalmente perseguibile.
Cassazione sez. V, sentenza 21.02.2000 n° 1951
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
SENTENZA
Sul ricorso proposto da Rolla Lorenzo, nato a La Spezia il 7 gennaio 1973 elettivamente domiciliato
presso l'avvocato A. Corradino del foro di La Spezia
Avverso la sentenza emessa il 22 settembre 1999 dalla Corte di Appello di Genova, che aveva
confermato la sentenza del Pretore di La Spezia, che aveva condannato Rolla Lorenzo alla pena di
mesi due di reclusione con i benefici della sospensione della pena e della non menzione della
condanna, oltre al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile Daniele Ricci ed al pagamento
delle spese processuali per il reato di cui all'art. 582 c.p. (querela del 16 dicembre 1994);
Visti gli atti, la sentenza denunciata ed il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere dott. Gennaro Marasca, che ha illustrato
lo svolgimento del processo ed i motivi del ricorso
Udito il Pubblico Ministero in persona del dott. Antonio Frasso che ha concluso per il rigetto del
ricorso con condanna del ricorrente alle spese del procedimento;
La Corte di Cassazione osserva
A) Svolgimento del processo
1) Le due sentenze di merito
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Nel corso della partita di pallacanestro tra le squadre del Lerici e del Sarzana il giocatore Daniele
Ricci subiva un colpo, alla mandibola che gli procurava una frattura all'angolo mandibolare destro".
Si rese necessario un intervento chirurgico che comportò una incapacità complessiva di attendere
alle proprie occupazioni di trenta giorni.
Si appurava che in una fase di gioco c.d. "fermo", perché si aspettava una rimessa laterale del
pallone, il giocatore Rolla Lorenzo sferrò un pugno all'avversario.
Con sentenza del 10 aprile 1997 il Pretore di Sarzana, ritenuto il fatto volontario, condannava Rolla
Lorenzo per il delitto di lesioni di cui all'art. 582 c.p. alla pena di mesi due di reclusione, con i
benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p., oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte
civile Daniele Ricci ed al pagamento delle spese processuali.
La Corte di Appello di Genova, con sentenza del 22 settembre 1998, dopo avere escluso il caso
fortuito ed avere ritenuto la sussistenza del dolo confermava la decisione di primo grado e
condannava l'appellante a pagare le maggiori spese processuali ed a rifondere le spese sostenute
dalla parte civile.
2) I motivi del ricorso
Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione Rolla Lorenzo, che deduceva i seguenti
motivi di impugnazione:
1) Violazione dell'art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p. in relazione all'art. 192 c.p.p. Il ricorrente
lamentava che fosse stato dato credito ai testimoni dell'accusa piuttosto che a quelli della difesa, che
le valutazioni operate dalla Corte di merito non fossero logiche e che vi era stato un vero e proprio
travisamento del fatto.
2) Violazione dell'art. 606 comma 1 lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 592 e 43 c.p., trattandosi
tutto al più di illecito sportivo.
Il ricorrente chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata.
B) I motivi della decisione
3) La remissione della. Querela
Perveniva a questa Corte un verbale di remissione della querela di Daniele Ricci e l'accettazione
della remissione dell'imputato Rolla Lorenzo.
Il reato ritenuto dai giudici di merito non è remissibile, poiché le lesioni subite dal Ricci sono
guarite in trenta giorni.
Per tali ipotesi è prevista la procedibilità di ufficio e, pertanto, la richiesta del ricorrente non è
accoglibile
4) Il vizio di motivazione
I motivi posti a sostegno dei ricorso proposto dal Rolla non sono fondati
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Con il primo motivo il ricorrente si è lamentato che, nella ricostruzione dei fatti in occasione dei
quali il Ricci subì lesioni, i giudici di merito abbiano prestato maggiore credito ai testimoni indicati
dal PM rispetto a quelli proposti dalla difesa, senza una plausibile ragione.
Ciò avrebbe comportato una illogicità della motivazione ed un travisamento del fatto con palese
violazione dei criteri previsti dall'art. 192 c.p. per una corretta valutazione delle prove.
In realtà il ricorrente con l'eccezione del vizio di motivazione ha prospettato una diversa
ricostruzione dei fatti, a lui più favorevole, sollecitando la Corte di Cassazione ad una rivalutazione
del fatto.
Dimentica il ricorrente che la Corte di Cassazione non può rivalutare il materiale probatorio, poiché
tale valutazione è demandata, in via esclusiva, ai giudici di merito.
Esula, inoltre, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, ripetesi, riservata, in via esclusiva, al
giudice di merito (SS-UU. 30 aprile 1997, Dessimone Cass. Pen. 1997, 3327).
Non può, quindi integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il
ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (vedi anche Cass. 18 dicembre
1995, Perpiglia, CED Cass. n, 203468).
Per espressa volontà del legislatore alla Corte di Cassazione spetta esclusivamente il compito di
riscontrare l'esistenza di un logico e coerente apparato argomentativo sui vari punti della decisione
impugnata e la completezza della motivazione nel senso che i giudici di merito debbono tenere
conto, ai fini della decisione degli argomenti della difesa ed, in particolare, nel giudizio di secondo
grado, dei motivi di appello.
Quanto, poi, al dedotto travisamento del fatto è sufficiente rilevare che il travisamento del fatto è un
vizio che in tanto può essere oggetto di valutazione e di sindacato in sede di legittimità, in quanto
risulti inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 606 lett. e) c.p.p..
L'accertamento di esso richiede, pertanto la dimostrazione, da parte del ricorrente, della avvenuta
rappresentazione al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali
quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicché la Corte di Cassazione possa, a
sua volta, desumere, dal testo del provvedimento impugnato, se e come quegli elementi siano stati
valutati (così SS.UU. 30 aprile 1997, Dessimone, citata).
E' alla luce di tali principi che debbono essere valutati i motivi dei ricorso del Rolla.
L'apparato argomentativo che sorregge le decisioni di merito della sentenza impugnata è, in verità,
articolato e complesso.
Il ragionamento dei giudici di merito appare logico, poiché essi, con molta precisione hanno
esaminato tutte le testimonianze, ne hanno valutato la attendibilità, hanno affrontato e risolto le
singole questioni poste dagli appellanti ed hanno fornito una ricostruzione dei fatti logica e
plausibile
Non compete alla Corte di legittimità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il
giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, e, tuttavia, è lecito rilevare che
le argomentazioni, fondate, peraltro, su indirizzi giurisprudenziali consolidati, appaiono non solo
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logiche e coerenti con i criteri fissati dal legislatore per una corretta valutazione delle prove, ma
anche immuni da interne contraddizioni.
Insomma la motivazione che sorregge la decisione impugnata regge senz'altro al vaglio di
legittimità.
Infine è necessario rilevare che la Corte di Appello di Genova ha tenuto conto dei motivi di appello
ed ha vagliato tutte le istanze difensive, riesaminando le questioni sottoposte alla sua attenzione,
cosicché non sussiste il dedotto vizio di travisamento del fatto.
Non è certo il caso di ripercorrere tutta la motivazione della sentenza impugnata per una puntuale
verifica della logicità delle argomentazioni poste a sostegno della decisione.
Sarà sufficiente ricordare che la Corte di merito, dopo avere analizzato tutte le testimonianze, ha
chiarito che le dichiarazioni della parte lesa - che aveva sostenuto di avere ricevuto un pugno alla
mandibola destra dal Rolla durante una fase di gioco "ferma" in attesa di una rimessa laterale del
pallone - erano assai precise ed avevano ricevuto piena conferma dalle deposizioni di Scaglione
Massimo compagno di squadra del Ricci, e di Giannetti Andrea, allenatore del Sarzana
testimonianze che per la precisione, la coerenza e la completezza erano da ritenersi pienamente
attendibili
Inoltre - ha spiegato la Corte di merito - tali testimonianze non sono stato smentite dalle
dichiarazioni dei testimoni indicati dalla difesa, Baudoni Enzo, Roncallo Francesco e Bergamaschi
Annalena, che, seppur imprecise ed incomplete, hanno confermato "l'impatto" tra i due giocatori,
anche se non hanno saputo precisare né con quale parte del corpo - mano o pugno - il Rolla avesse
colpito la parte lesa né dove fosse stato attinto il Ricci dal colpo infertogli dall'imputato.
Infine la Corte di Genova ha rilevato che le deposizioni della parte lesa e dei testimoni ad essa più
favorevoli avevano trovato un riscontro obiettivo nella natura e nella ubicazione delle lesioni subite
dal Ricci - frattura dell'angolo mandibolare destro.
Trattasi, come già si è notato, di una ricostruzione dei fatti fondata su argomenti logici ed esaurienti
frutto di un buon governo dei criteri di valutazione delle prove.
La motivazione della decisione impugnata non presenta contraddizioni desumibili dal testo stesso .
La denunciata manifesta illogicità della motivazione è, pertanto, infondata.
E' rimasto, quindi, provato - e ritenuto dai giudici di merito - che nel corso di una partita di
pallacanestro e, precisamente, mentre si era in attesa di una rimessa laterale del pallone, i due
giocatori - Rolla e Ricci - stavano tentando di posizionarsi nel modo migliore, per essere pronti a
ricevere il lancio del pallone, ed anche di contrastarsi reciprocamente, per impedire che l'avversario
fosse in condizioni di ricevere il pallone .
E' in tale fase che il Rolla, che si trovava alle spalle del Ricci, colpì con un pugno la mandibola
destra dell'avversario.
Il gesto del Rolla costituì forse una reazione ad un gomito del Ricci appoggiato sul suo corpo, come
ha riferito il teste Giannetti.
5) L'assenza di cause di giustificazione
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Se tale è la ricostruzione della vicenda infondato è pure il secondo motivo di gravame
E' noto che sia la dottrina che la giurisprudenza hanno da tempo individuato nella attività sportiva o
meglio nell'esercizio della c.d. violenza sportiva una scriminante dei fatti lesivi che tale violenza
possa cagionare.
Il problema, assai rilevante nell'esercizio del pugilato, è peraltro presente in molti altri sport, singoli
o di squadra, che richiedano una notevole carica agonistica, il compimento di movimenti rapidi, per
i quali non è sempre possibile garantire il massimo controllo, ed un contrasto anche fisico tra i
partecipanti al gioco.
E' stata, quindi, costruita, un po' alla volta, la categoria dei c.d. "illeciti sportivi" nella quale
rientrano tutti quei comportamenti, che, pur potendo talvolta costituire infrazione alle regole del
gioco comportanti penalizzazioni per il giocatore e/o per la sua squadra, non sono penalmente
perseguibili, perché non superano la c.d. soglia di "rischio consentito" nell'esercizio di quella
specifica attività sportiva.
Soltanto il superamento di tale soglia, che ovviamente varia a seconda dello sport e della maggiore
o minore carica di "violenza sportiva" richiesta per il suo esercizio, renderebbe i comportamenti
lesivi perseguibili penalmente a titolo di dolo o di colpa.
Molto si è discusso in dottrina ed in giurisprudenza se una tale ipotesi scriminante dovesse essere
inquadrata nel paradigma del consenso dell'avente diritto - art. 50 c.p., - o se, invece, si dovesse
parlare di una causa di giustificazione non codificata.
La soluzione del problema non è semplice, perché se è vero che una parte della giurisprudenza parla
esplicitamente di consenso dell'avente diritto (vedi per es. Cass. Sez. V n. 9627 in data 8 ottobre
1992) non può non considerarsi che riesce davvero difficile riportare la causa di non punibilità di un
evento lesivo verificatosi nel corso di una manifestazione sportiva nell'ambito di una causa di
giustificazione tipica come quella di cui all'art. 50 c.p. senza forzare il limite normativo della tutela
di un bene per principio indisponibile quale è appunto quello alla vita o all'integrità fisica.
Secondo una parte della dottrina, più correttamente, l'indagine dell'interprete dovrebbe riguardare
una fase precedente, poiché il limito della punibilità dei fatti in esame andrebbe ricercato negli
elementi costitutivi della fattispecie e nell'incidenza dei caso fortuito.
Si vuole dire cioè che per ogni competizione sportiva sono dettate prescrizioni tecniche che lasciano
intendere come nel rispetto delle regole del gioco la legge presume il fortuito per l'eventuale
verificarsi di una disgrazia.
Il fortuito, come è noto, resta fuori dello schema delle cause di giustificazione perché incide sul
rapporto di causalità.
Pur essendo le due tesi indicate supportate da validi argomenti sembra, però, preferibile ritenere che
quella in esame costituisca una causa di giustificazione atipica o meglio non codificata che trova la
sua ragione di essere nel fatto che la competizione sportiva è non solo ammessa, ed anzi
incoraggiata per gli effetti positivi che svolge sulle condizioni fisiche della popolazione, dalla legge
e dallo Stato, ma è anzi ritenuta dalla coscienza sociale come una attività assai positiva per
l'armonico sviluppo della intera comunità.
118
Ciò significa che viene a mancare nel comportamento dello sportivo, che, pur rispettoso delle regole
del gioco, cagioni un evento lesivo ad un avversario, quella antigiuridicità che legittima la pretesa
punitiva dello Stato e la inflizione di una sanzione.
Insomma l'azione che cagiona l'evento non contrasta affatto con gli interessi della comunità, ma
anzi, come si è già detto, contribuisce a raggiungerli.
Questo è il fondamento della non punibilità dei comportamenti considerati, che è esattamente
identico, a ben riflettere, a quello delle cause di giustificazione codificate - assenza della
antigiuridicità per mancanza del danno sociale -.
Ecco allora che in virtù di un procedimento di interpretazione analogica, resa possibile dal fatto che
essa è in bonam partem [3], è possibile individuare delle cause di giustificazione non codificate, tra
le quali di certo rientra, per tutto le ragioni già esposte' l'esercizio della attività sportiva.
Non è sempre agevole individuare i comportamenti scriminati dalla causa di giustificazione
considerata.
Neppure è facile stabilire quale sia la soglia del c.d. "rischio consentito" per ciascuna disciplina
sportiva.
Trattasi in realtà di questioni prevalentemente di fatto la cui soluzione compete ai giudici di merito
(così Cass. Sez. V 8 ottobre 1992 n. 9627 citata ).
Possono tuttavia essere individuati dei criteri generali dei quali è necessario tenere conto.
Non vi può essere alcun dubbio, infatti che molte competizioni sportive, e tra esse anche il gioco
della pallacanestro richiedano oltre che abilità specifica anche prontezza di riflessi, vigore fisico,
rapidi movimenti o capacità di contrastare l'avversario.
Il gioco consiste, infatti, nell'acquisire e mantenere il possesso della palla impedire che gli avversari
se ne impossessino, muovere rapidamente verso il canestro avversario e tentare, spesso in posizioni
acrobatiche, di mandare la palla nel canestro.
E' allora evidente che oltre alla abilità nel controllo della palla, di sicuro predominante nel gioco in
questione, è necessaria una prestanza fisica, una carica agonistica rilevante, tenuto conto della
notevole velocità del gioco, ed una notevole rapidità di esecuzione dei vari movimenti del corpo in
situazione statica e di corsa.
In tali condizioni specialmente se si considera che questo gioco viene praticato da persone di
notevole statura fisica - sovente vicina ai due metri di altezza - e, quindi, di peso considerevole, non
è possibile escludere anche il casuale scontro fisico tra giocatori avversari ed il prodursi di
conseguenti eventi lesivi.
Il giocatore autore dell'evento lesivo, che sia stato però rispettoso delle regole del gioco, del dovere
di lealtà nei confronti dell'avversario e della integrità fisica di costui certamente non sarà
perseguibile penalmente perché non può dirsi superata, in siffatta situazione, la soglia del "rischio
consentito" (vedi Cass. Sez. V. Nasuti 12 maggio 1993).
Talvolta, poi si possono verificare violazioni involontarie delle norme regolamentari del gioco
dovute essenzialmente alla foga agonistica ed alla incapacità di interrompere tempestivamente la
119
propria azione o corsa al fine di non ostacolare l'avversario ad es. il c.d. fallo di ostruzione.
In tali ipotesi si versa in ipotesi di "illecito sportivo" sanzionato dalle norme regolamentari ma non
perseguibile penalmente, perché anche in tale ipotesi non può ritenersi superato il c.d. "rischio
consentito", in quanto è dato di comune esperienza che nel corso di una gara l'ansia di risultato, la
stanchezza fisica e la carica agonistica, talvolta eccessiva, possono comportare delle violazioni non
volontarie del regolamento di gara.
Quando però il fatto lesivo si verifichi perché il giocatore violi volontariamente le regole dei gioco
disattendendo i doveri di lealtà verso l'avversario che, invece, dovrebbero costituire la caratteristica
essenziale di ogni sportivo allora il fatto non potrà rientrare nella causa di giustificazione, ma sarà
penalmente perseguibile.
Se il fatto si verifichi nel corso di una azione di gioco al fine di impossessarsi della palla o di
impedire che l'avversario ne assuma il controllo ed il mancato rispetto delle regole dei gioco sia, in
realtà, dovuto all'ansia di risultato, certamente il fatto avrà natura colposa.
Una responsabilità per dolo sarà, invece, ravvisabile o quando la gara sia soltanto l'occasione
dell'azione volta a cagionare l'evento oppure quando il comportamento posto in essere dal giocatore
autore del fatto lesivo non sia immediatamente rivolto all'azione di gioco, ma piuttosto ad
intimorire, l'antagonista e a dissuaderlo dall'opporre un qualsiasi contrasto - casi deplorevoli che
purtroppo non sono infrequenti, per esempio sui campi di calcio - oppure a "punirlo" per un fallo
involontario subito c.d. fallo di reazione anche esso piuttosto frequente.
In entrambi i casi indicati, come è evidente, la condotta dell'agente fuoriesce dagli schemi tipici dei
gioco e la violazione delle regole non è diretta in via immediata al compimento di una azione di
gioco, ma al perseguimento di altri fini dei tutto estranei alla competizione o, se connessi alla stessa,
non perseguibili perché illeciti.
Sulla scorta delle osservazioni che procedono e tenuto conto della ricostruzione dei fatti operata dai
giudici di merito, infondato appare il motivo di gravame proposto.
Il Rolla, infatti, in attesa di una rimessa laterale del pallone - poco interessa qualificare questa fase
del gioco come "ferma" oppure no - sferrò un pugno al giocatore avversario attingendo la
mandibola destra.
Il comportamento, certamente volontario, è stato posto in essere in violazione delle regole dei
gioco, che non prevedono fatti di violenza di tal genere, e dei doveri di lealtà e non era diretto al
compimento di una azione di gioco
Azione di gioco è certo quella di posizionarsi in attesa della rimessa laterale del pallone e ciò è
lecito fare anche spostandosi oppure muovendo il corpo, ivi comprese le braccia, ma non certo
aggredendo il giocatore avversario.
L'aggressione fisica nel gioco della pallacanestro non rientra in nessuno schema di azione, perché al
contenuto regolamentare di tale gioco è estranea la violenza fisica.
Poco interessano in questa sede le motivazioni che possono avere spinto il Rolla a porre in essere la
sua condotta: forse hanno ragione i giudici di merito quando ritengono che il Rolla volesse
intimidire, con un colpo ben assestato, l'antagonista o forse ha ragione il Giannetti quando riferisce
che il Rolla potrebbe avere reagito al posizionamento di un gomito del Ricci sul proprio corpo.
120
E', invece, rilevante il fatto che la condotta posta in essere dal Rolla non aveva nulla a che fare con
il gioco praticato
6) Il dolo
Quanto al dolo, di cui il ricorrente eccepisce l'inesistenza nel caso di specie hanno ragione i giudici
di merito quando rilevano che il dolo nel delitto di lesioni è generico, essendo sufficiente
l'intenzione di infliggere all'altrui persona una violenza fisica, e può manifestarsi anche nella forma
eventuale (vedi Cass. Sez. 14 luglio 1996 n. 6773, Poma).
Il dolo del delitto in esame sussiste, infatti, per giurisprudenza consolidata (vedi ex plurimis Cass.
Sez. I n. 3329 del 14 marzo 1988),tutte le volte che l'agente ha previsto che il suo comportamento
avrebbe potuto determinare un'offesa all'integrità personale del soggetto passivo ed ha agito al fine
o al costo di cagionarla.
Le ragioni esposte impongono il rigetto del ricorso e la conseguente condanna del ricorrente al
pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento
Così deliberato in Camera di consiglio, in Roma, in data 2 dicembre 1999.
Depositata in cancelleria il 21 febbraio 2000
SCRIMINANTE DI CUI ALL’ART. 384 C.P.
TRACCIA:
Tizio, nel 1998, veniva ascoltato quale persona informata sui fatti dagli ufficiali di P.G. del
commissariato di Milano, che indagavano sul traffico di sostanze stupefacenti praticato dai fratelli
Furbis; a tali ufficiali, Tizio aveva detto, contrariamente al vero, di non fare uso di droga e di non
averne mai acquistata da alcun Furbis.
Invero, Tizio era venuto a sapere che vari amici nella stessa situazione rischiavano di subire un
processo penale per favoreggiamento.
Tizio, allora, decide di recarsi da un legale.
Il candidato, premessi brevi cenni sul reato di favoreggiamento, rediga motivato parere.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Anche in questo caso, si pone un problema di applicabilità della scriminante prevista dall’art. 384
c.p.
Il problema dell’applicabilità o meno dell’art. 384 c.p. poteva essere risolto evidenziando
l’elemento psicologico con cui Tizio ha agito: Tizio ha agito per avvantaggiare i Furbis, oppure al
fine di evitare di trovarsi sospettato per un possibile concorso di persone nel reato?
Dalla traccia sembra emergere che Tizio abbia agito per salvare se stesso e non per avvantaggiare i
121
Furbis, per cui dovrebbe essere applicata la scriminate prevista all’art. 384 c.p. e non la fattispecie
del favoreggiamento.
Il fatto, poi, che Tizio rischiasse un’incriminazione per una fattispecie amministrativa (e art. 75 del
D.P.R. 309/1990) e non penale, non può ex se escludere l’applicabilità della suddetta scriminante,
in quanto rileva la posizione soggettiva di Tizio in rapporto all’elemento psicologico e non in
riferimento alla minaccia di una sanzione penale o meno; id est: l’art. 384 c.p., per essere
applicabile, fa riferimento al fatto che il soggetto interessato agisce al fine di difendersi o difendere
terzi ( e non al fine di aiutare), con la conseguenza logica-deduttiva che non rileva in alcun modo
l’entità del “nocumento”, ma il fine per cui si agisce, che è idoneo ad escludere il dolo del
favoreggiamento.
----------------------------------INDEBITO UTILIZZO DEL BANCOMAT
TRACCIA:
Tizio è un noto ladro di periferia.
Un giorno, Tizio notava dentro un’auto Punto una carta bancomat, lasciata sul sedile.
Tizio, allora, apriva lo sportello, forzandolo, e si impossessava della suddetta carta bancomat.
Successivamente, si recava ad uno “sportello bancomat” per cercare di procedere alla richiesta
elettronica (attraverso codice non conosciuto) di banconote.
Tizio, tuttavia, mentre inseriva la carta bancomat nell’apposita fessura, veniva fermato dalla polizia.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere favorevole al proprio
assistito.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto.
Successivamente, il problema poteva essere inquadrato nell’ambito della responsabilità penale per il
reato di furto e di utilizzo indebito di carte bancomat, ex art. 12 della L. 197/1991.
Astrattamente, infatti, ben potrebbe configurarsi il reato di furto, ex art. 624 c.p., in quanto Tizio si
è impossessato della cosa mobile altrui (carta bancomat), forzando, tra l’altro, lo sportello della
Punto, al fine di trarne profitto (usando la carta per prelevare contante); in aggiunta a tale reato, poi,
potrebbe sussistere l’utilizzo indebito del bancomat, in quanto la carta sottratta veniva utilizzata
indebitamente.
In questo senso, potrebbe emergere un concorso di reati, perché sembrerebbero emergere condotte
ben distinte tra loro: l’una volta ad impossessarsi del bene (furto), e l’altra volta ad utilizzare
indebitamente il bene sottratto.
Tuttavia, tale ricostruzione non è del tutto condivisibile, in quanto sembra punire due volte il
soggetto per il medesimo fatto, in contrasto con il principio del ne bis in idem.
In particolare, Tizio si è impossessato della carta bancomat al fine di trarne un profitto indiretto
tramite utilizzo del bancomat, con la conseguenza che i due reati si trovano in un rapporto di mezzo
a fine, facendo parte, altresì, del medesimo disegno criminoso.
Inoltre, dalla lettera dell’art. 12 della legge 197/1991 appare evidente che viene punito l’indebito
utilizzo, che per poter sussistere, inevitabilmente, deve basarsi su un impossessamento indebito;
diversamente argomentando, non si tratterebbe di utilizzo indebito.
Sotto tali profili, pertanto, sembra potersi dire che il principio della consunzione, nel caso di specie,
segnala all’interprete che il reato della legge speciale assorbe quello di furto (anche per merito
dell’art. 15 c.p.).
Tizio, allora, risponderà del reato di utilizzo indebito di documenti che abilitano al prelievo di
denaro contante, ex art. 12 della l. 197/1991?
122
Invero, in un’ottica difensiva, ben potrebbe ritenersi che il reato suddetto possa degradare, nel caso
di specie, a tentativo, perché, a rigore, non vi è stato un vero e proprio utilizzo indebito, ma tentato
(ex art. 56 c.p.) utilizzo indebito.
Infatti, Tizio viene fermato dalla polizia mentre inseriva la tessera bancomat, per cui l’utilizzo
indebito non si è completato, con la conseguenza che non vi poteva essere la certezza assoluta che
l’indebito utilizzo potesse essere portato a termine, tanto più che, in concreto, il profitto non si è
avuto (la giurisprudenza recente è contraria a questa ricostruzione, ma la traccia richiedeva uno
sforzo argomentativo a favore di Tizio), ma è rimasto meramente potenziale (le carte bancomat, ex
se, non hanno valore, se non nella misura in cui vengono utilizzate).
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-Il reato di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, di cui all'art. 12 della legge
5.7.1991, n. 197, è da considerarsi consumato, in base alla formulazione della norma
incriminatrice, ogni qual volta l'utilizzo abbia avuto effettivamente luogo, indipendentemente
dal conseguimento o meno del profitto che l'agente perseguiva.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione V Penale
Composta dagli Ill.mi Signori:
dr. Carlo COGNETTI Presidente
dr. Angelo DI POPOLO Consigliere
dr. Gennaro MARASCA Consigliere
dr. Emilio MALPICA Consigliere
dr. Paolo Antonio BRUNO Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sui ricorsi proposti il 28.12.1999 dall'avv. Mario Fedrizzi, difensore di G. A., nato a Trento il
3.1.1975, e dal Procuratore Generale della Repubblica di Trento, avverso la sentenza
dell'1/15.12.1999 della Corte di Appello di Trento.
Letti il ricorso e la sentenza impugnata.
Sentita la relazione fatta dal consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO.
123
Udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto dr. Umberto Toscani, che ha
chiesto l'accoglimento del ricorso del P.G., con conseguente revoca del beneficio della sospensione
condizionale della pena concessa dal Pretore di Bolzano con sentenza del 18.1.1996, ed il rigetto del
ricorso del G..
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 29.4.1998, il GUP del Tribunale di Trento dichiarava G. A. colpevole dei reati di
cui agli artt. 624, 625 c.p. ed all'art. 12 della L.5.7.1991, n. 197 [1], e - ritenuta la continuazione tra
gli stessi illeciti - lo condannava alla pena ritenuta di giustizia.
L'imputato era stato accusato di avere forzato, in concorso con altri, la portiera dell'autovettura di V.
D. per impossessarsi di un giaccone lì custodito, all'interno del quale si trovava un portafogli
contenente tra l'altro la somma di L. 350.000, una carta di credito (CartaSi) ed una tessera
Bancomat e di avere successivamente inserito quest'ultima tessera in uno sportello della Cassa
Rurale di Povo in Trento, al fine di prelevare indebitamente del contante, senza però riuscire
nell'intento a seguito dell'intervento della p.g..
Pronunciando sull'appello proposto nell'interesse dell'imputato, la Corte di Appello di Trento
confermava l'impugnata pronuncia con conseguenziali statuizioni.
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di
Appello di Trento, lamentando la mancata revoca del beneficio della sospensione condizionale della
pena a suo tempo concesso all'imputato G. dal Pretore di Bolzano, con sentenza 18.1.1996, sul
rilievo che il fatto-reato per cui si procedeva era stato commesso il 4.1.1997 e, dunque, entro il
quinquennio decorrente dal passaggio in giudicato della precedente condanna.
Proponeva ricorso per cassazione anche il difensore dell'imputato per censurare il mancato
riconoscimento dell'attenuante di cui all'art 62, n. 6 e la mancata applicazione alla fattispecie della
norma di cui all'art. 56 c.p..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Assume rilievo pregiudiziale la ragione di censura riguardante la configurazione giuridica di una
delle fattispecie dedotte in giudizio, e precisamente quella relativa all'indebito inserimento della
carta di pagamento Bancomat nell'apposito sportello dell'istituto di credito emittente.
In proposito, la Corte territoriale ha fatto richiamo al pacifico insegnamento giurisprudenziale di
legittimità che, pur ritenendo astrattamente ammissibile il tentativo in riferimento al reato di cui
all'art. 12 del d.l. 3.5.1991, n. 143, conv. in legge 5.7.1991, n. 197, ha nondimeno precisato che il
reato di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento è da considerarsi consumato, in base alla
formulazione della norma incriminatrice, ogni qual volta l'utilizzo abbia avuto effettivamente luogo,
indipendentemente dal conseguimento o meno del profitto che l'agente perseguiva (cfr., da ultimo,
Cass. Sez. l, 28.4.1998. n. 2409). Ed applicando tale principio al caso di specie, nel quale il
conseguimento del profitto era stato impedito dall'intervento degli agenti di p.g., dopo che la carta
Bancomat era stata introdotta nella macchina e mentre era ancora in corso di effettuazione
l'operazione bancaria relativa, ha ritenuto che tale condotta fosse da qualificare in termini di reato
consumato e non già di mero tentativo.
Ad avviso di parte ricorrente, la corretta applicazione del dictum della Suprema Corte alla
fattispecie concreta avrebbe, invece, dovuto portare a risultati diametralmente opposti, alla stregua
124
del rilievo che, in riferimento all'apposita tessera di pagamento in questione, l'indebito utilizzo
coincide non già con il suo inserimento nella macchina elettronica distributrice di banconote, ma
con il momento in cui, compiute tutte le operazioni necessarie, la stessa macchina abbia erogato il
contante, facendolo scivolare nell'apposita cassettina raggiungibile dall'esterno, in modo che l'utente
possa effettivamente apprenderlo, anche se poi tale apprensione non dovesse aver luogo a seguito
dell'intervento di terzi o per altra ragione. Diversamente opinando, nell'ipotesi di specie il tentativo
sarebbe di assai difficile configurazione.
Il rilievo è da ritenere fondato.
È dato di comune esperienza che, a differenza di altre carte di pagamento (quale la tessera viacard,
utilizzabile presso i caselli autostradali per il pagamento del pedaggio), l'utilizzo del bancomat non
si risolve nell'inserimento del tesserino magnetico nell'apposita fessura delle macchine all'uopo
predisposte, ma richiede un'attiva partecipazione dell'utente, consistente nella digitazione del codice
segreto nella tastiera numerica - indispensabile ai fini della sua legittimazione, attraverso
l'automatica individuazione tra gli aventi titolo - e nella successiva effettuazione di tutta una serie di
ulteriori operazioni, sempre mediante l'uso dei tasti, non appena l'apposito display visualizzi le
relative informazioni. Solo in esito al corretto adempimento delle richieste attività, la macchina
automatica può rilasciare le banconote nella quantità richiesta ed il momento in cui il contante
compare nell'apposita fessura segna, in chiave giuridica, il trasferimento del bene dalla sfera
patrimoniale dell'istituto di credito all'ambito di disponibilità dell'utente, con la materiale offerta
allo stesso prenditore. Tant'è che, contestualmente all'erogazione delle banconote, la macchina
provvede all'automatico addebito dell'operazione nel conto corrente dell'intestatario della carta di
pagamento.
Dunque, la cooperazione dell'utente costituisce il discrimine tra l'uso della carta bancomat e quello
di analoghe carte di pagamento, il cui utilizzo si risolve nella mera consegna all'addetto esattore
perché provveda lui stesso alle necessarie registrazioni ai fini dell'ammissione al servizio richiesto,
senza che il portatore abbia a compiere alcun'altra attività. Non è certo casuale, d'altronde, che le
affermazioni giurisprudenziali richiamate dalla Corte territoriale facciano riferimento a fattispecie
riguardanti carte di questo tipo, come appunto la viacard, relativamente alle quali il momento
consumativo - pur non potendosi escludere concettualmente il tentativo - coincide con la consegna
all'esattore, restando assolutamente irrilevante il conseguimento o meno del profitto che l'agente
perseguiva. Interpretazione che si spiega, agevolmente, anche in ragione della natura composita del
bene giuridico tutelato dalla norma in questione che attiene non solo ad un ambito patrimoniale
squisitamente privato (e, dunque, proprio del titolare della carta di credito e/o del soggetto
emittente), ma anche ad una sfera di interessi pubblici, quali l'interesse d'impedire che il sistema
finanziario venga utilizzato ai fini di riciclaggio e quello di salvaguardare, al tempo stesso, la fede
pubblica (cfr., Cass. sez 5, 9.4.1999, n. 7192).
Nell'ipotesi del bancomat, invece, la potenziale configurabilità del tentativo si dilata notevolmente
proprio in quanto l'utilizzazione postula il compimento delle operazioni di cui si è detto, a parte poi
il pur fondamentale rilievo che un problema di individuazione del fine e dell'idoneità dell'atto affidato all'apprezzamento di fatto del giudice di merito - si pone anche in ragione della notoria
molteplicità di usi del bancomat, collegata al suo inserimento nelle stesse macchine erogatrici di
danaro. L'utilizzo del tesserino magnetico, infatti, non sempre prelude al prelievo di banconote, ma
può anche essere finalizzato ad operazioni diverse (indicazione del saldo, lista movimenti, ricariche
telefoniche ed altro ancora).
Alla luce delle considerazioni che precedono, non appare, dunque, revocabile in dubbio che
l'intervento degli agenti di p.g. prima della materiale apprensione delle banconote ed anzi mentre
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era in corso di effettuazione l'operazione bancaria relativa comporti il ridimensionamento della
fattispecie nello stadio del tentativo, la cui ammissibilità, peraltro, in relazione alla norma di cui
all'art. 12 del dl. N. 143/91, era stata già riconosciuta da questa Corte (cfr. Cass. sez. 5, 24.4.1996,
n. 4295, con specifico riferimento alla condotta di chi introduca una carta bancomat di illecita
provenienza in uno sportello automatico e, non disponendo del codice di accesso, esegua una serie
di combinazioni numeriche al fine di conseguire il danaro, senza riuscirvi).
2. - È, invece, infondata la doglianza relativa al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui
all'art. 62, n. 6 c.p.. In proposito, appare ineccepibile l'interpretazione della Corte territoriale che ha
negato l'applicabilità della circostanza attenuante dell'integrale riparazione del danno in ragione
della mancanza di spontaneità nella restituzione dei beni e di effettività della riparazione del danno,
considerato, peraltro, che la refurtiva (o meglio, il giaccone di cui l'imputato si era in precedenza
disfatto, gettandolo in un cassetto delle immondizie) era stata recuperata dopo la sorpresa in
flagranza del G. nel tentativo di indebito utilizzo della tessera bancomat.
3. - Per quanto precede, l'impugnata sentenza deve essere annullata con rinvio al giudice
competente per la determinazione della pena da infliggere al G. in relazione alla diversa
qualificazione giuridica della fattispecie considerata.
Alla stesso giudice di rinvio deve essere rimesso anche l'esame dell'istanza di revoca della
sospensione condizionale della pena già concessa all'imputato, la cui mancata valutazione da parte
della Corte territoriale, nonostante espressa richiesta nel verbale di udienza, ha costituito oggetto del
ricorso per cassazione proposto dal Procuratore Generale.
P. Q. M.
La Corte, qualificato il reato di cui all'art. 12 della l. n. 197/91 come tentativo, annulla l'impugnata
sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Brescia per la rideterminazione della pena e per nuovo
esame sulla richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena. Rigetta nel resto il ricorso
dell'imputato.
Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 31.1.2001.
Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2001.
-In tema di tentativo punibile si segnala, per importanza, la recentissima sentenza della Cassazione.
L'istituto del delitto tentato non prevede una distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi, in
quanto la struttura del tentativo si fonda sul compimento di atti idonei diretti in modo non
equivoco a commettere un delitto. Ne deriva che non si richiede che l’azione esecutiva sia già
iniziata e che anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo quando sia
idoneo e diretto in modo non equivoco a commettere un delitto.
126
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 2 febbraio 2007, n. 4359 - Pres.
Bardovagni – est. Urban
Svolgimento del processo
Con sentenza del 23 febbraio 2006 la Ca di Milano, Sezione per i Minorenni, in parziale
accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i
Minorenni di Milano condannava M. per concorso nell’omicidio pluriaggravato ai danni di M. C. e
T. Fabio; confermava l’assoluzione dello stesso M. e di M. Mario dai reati di tentato omicidio ai
danni degli stessi M. C. e T. Fabio.
Il presente processo è lo stralcio di un più ampio processo nei confronti delle cosiddette “Bestie di
Satana”, un gruppo di numerosi adepti dediti a riti satanici che a partire dal 1996 operò nella zona
del milanese: i fatti presi in esame con la sentenza impugnata riguardano i due minorenni che
facevano parte del gruppo, M. Mario e M. Massimiliano.
Le indagini presero avvio dalla morte di Mariangela P., in data 24 gennaio 2004, per la quale furono
arrestati V. Andrea, B. Elisabetta e S. Nicola. L’episodio fu subito messo in relazione con la
sparizione di T. Fabio e di M. C., risalente al 17 gennaio 1998, i quali avevano frequentato gli stessi
personaggi coinvolti nell’uccisione della P.. Alcuni mesi dopo l’arresto il V. decideva di collaborare
con gli inquirenti e forniva dettagliati elementi sulla uccisione della M. e del T. indicando i
personaggi che avevano preso parte al delitto, tra i quali erano il M. e il M.; sulla scorta delle
dichiarazioni rese dal V. erano stati rinvenuti i cadaveri dei due giovani.
Il M. confessava di aver preso parte al delitto; anche un altro partecipante al rito satanico e quindi
alla duplice uccisione, G. Pietro, confessava le proprie responsabilità e forniva nuovi elementi a
carico del M. e del M.. Si ricostruivano in tal modo altri due episodi avvenuti poco tempo prima
dell’uccisione: il primo, avvenuto nel dicembre 1997 era consistito nel tentativo di uccidere M. C.
prima somministrandole una bevanda a base di barbiturici per stordirla ? quindi iniettandole una
potente dose di
eroina. L’impresa era stata interrotta per il casuale passaggio nella zona di una pattuglia dei
Carabinieri. Il secondo episodio, avvenuto nella notte di Capodanno tra il 1997 e il 1998 prevedeva
l’uccisione della M. e del T. facendo esplodere l’auto a bordo della quale i due erano stati indotti ad
appartarsi, mediante P inserimento di un petardo acceso nel tubo di scappamento. La vicenda si era
però conclusa con l’incendio dell’auto, senza alcuna esplosione e quindi i due giovani erano riusciti
ad abbandonare l’auto incendiata.
La Ca riteneva che tali ipotesi di reato non consentissero una dichiarazione di responsabilità, in
quanto nel primo caso gli atti posti in essere dagli imputati si interruppero nella fase preparatoria (la
somministrazione dei barbiturici) e gli stessi abbandonarono volontariamente il progetto.
Nel secondo caso gli atti posti in essere per sopprimere i due ragazzi non furono idonei a
provocarne la morte in quanto erano privi della potenzialità letale necessaria: in altre parole,
secondo le valutazione di un perito di ufficio, era impossibile che attraverso la introduzione di un
petardo acceso nel tubo di scappamento si potesse verificare una deflagrazione e in ogni caso
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l’incendio che si sarebbe verificato sarebbe avvenuto all’esterno dell’auto e quindi non avrebbe
compromesso la possibilità degli occupanti dell’auto di allontanarsi.
Quanto alla responsabilità del M. in ordine al duplice omicidio, la sentenza impugnata, riformando
la sentenza assolutoria del Gup, ritiene sia sussistente il concorso morale nell’omicidio, avendo egli
contribuito a rafforzare il proposito criminoso degli altri compartecipi sia partecipando alle riunioni
nel corso delle quali fu assunta la decisione di uccidere i due, sia perché egli fu tenuto al corrente
dei preparativi che precedettero l’uccisione e in particolare dello scavo della fossa. La sera del
delitto gli fu affidato l’incarico di coadiuvare l’azione del gruppo dando una mano a controllare il T.
e la M. mentre si trovavano presso il locale Mid Night e quindi di fornire un’azione di copertura
rimanendo nello stesso locale mentre gli altri componenti del gruppo si occupavano di eseguire
materialmente gli omicidi. Successivamente si doveva occupare di sviare i sospetti, facendo in
modo che il ?motorino della M. non fosse rinvenuto all’esterno dello stesso locale e quindi andando
a passare il resto della notte a casa di uno dei compartecipi, L. Paolo; la mattina seguente si sarebbe
poi attivato assieme agli altri per fingere di cercare il T. di cui era stata denunziata la “scomparsa”
dal padre, sempre allo scopo di sviare ogni sospetto.
Sulla base di tali elementi si era quindi riscontrata la prova della colpevolezza del M., avendo egli
preso parte in veste non soltanto passiva, ma avendo fornito un rilevante contributo causale in tutte
le fasi dell’impresa, in quella preparatoria, in quella esecutiva e in quella di depistaggio delle
indagini.
Propone ricorso per cassazione il Pg della Repubblica presso la Ca di Milano sul punto della
assoluzione degli imputati in ordine ai due tentativi di omicidio contestati.
Quanto all’episodio della somministrazione alla M. di barbiturici, alla quale avrebbe dovuto seguire
la iniezione di una dose letale di eroina si rileva la violazione di legge e la illogicità della
motivazione in quanto anche gli atti preparatori possono integrare il tentativo, quando siano idonei,
diretti in modo non equivoco alla consumazione di un reato. Nella specie, il passaggio in zona di
un’auto dei Carabinieri non avrebbe avuto alcun rilievo n’ella determinazione volitiva dei
compartecipi; per altro verso la assunzione di una dose pari ad un grammo si eroina avrebbe una
elevatissima probabilità di essere letale nei riguardi un soggetto non assuefatto. Nè si comprende
per quale motivo sarebbe stata sminuita solo in questo frangente la attendibilità delle dichiarazioni
rese dal V., ritenuto in ogni altra occasione pienamente affidabile.
Quanto all’episodio dell’incendio dell’auto sulla quale si trovavano il T. e la M., il ricorrente rileva
come nella specie fossero presenti tutti i presupposti necessari allo sviluppo di un grave incendio
che avrebbe dovuto compromettere ogni possibilità per i due ragazzi di mettersi in salvo. Infatti il
serbatoio della benzina era stato riempito solo a metà (condizione ritenuta indispensabile per
l’innesco dell’incendio); nell’auto erano stati posti alcuni petardi; gli occupanti dell’auto sarebbero
stati intossicati dai fumi tossici prodotti dall’incendio e dalla deflagrazione dei petardi; i due ragazzi
si sarebbero trovati in uno stato di scarsa vigilanza, essendo essi intenti a consumare un atto
sessuale.
Tali elementi contribuirebbero a realizzare quella idoneità degli atti compiuti, con valutazione da
effettuare in astratto ed ex ante, a provocare la morte dei due giovani.
Propone ricorso il difensore di M. Massimiliano rilevando, con il primo, motivo, l’inappellabilità ai
sensi dell’articolo 10 comma 2 legge 46/2006 da parte del Pm della sentenza di proscioglimento
emessa dal G.U.P. del Tribunale per i Minorenni di Milano.
128
Con il secondo motivo si è rilevata l’assenza dei servizi minorili nell’udienza preliminare, ai fini di
valutare la necessità di un eventuale aggiornamento delle relazioni sulla personalità del ragazzo
(articoli 31 e 28 Dpr 448/88).
Con il terzo motivo si rileva la violazione di legge in relazione alla mancata acquisizione in sede di
incidente probatorio delle trascrizioni integrali degli interrogatori resi dagli imputati detenuti,
essendo stati acquisiti, semplicemente i verbali riassuntivi; ai sensi dell’articolo 141bis Cpp tale
omissione comporterebbe la inutilizzabilità di dette dichiarazioni.
Con il quarto motivo si rileva la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo stesso M. in data 14
giugno 2004, interrotte ai sensi dell’articolo 63 Cpp.
Con il quinto motivo si rileva la carenza della motivazione sul punto della individuazione di
elementi di responsabilità a carico del M., posto che il G.U.P. l’aveva assolto dallo stesso reato e
non si dà conto in modo completo e approfondito, delle ragioni della diversa valutazione degli
elementi acquisiti.
Con il sesto motivo si censura la sentenza impugnata per la contraddittorietà di taluni aspetti della
motivazione, quale quello in cui da un lato si afferma che tutti gli adepti erano tra loro “pari”, e da
un altro si prospetta un gruppo di componenti dotati di carisma e gli altri più deboli, che sarebbero
stati succubi dei primi. Si n’chiamano quindi studi relativi a sette sataniche, senza approfondire la
vera natura del gruppo preso in esame. Superficiale e incompleta sarebbe poi la valutazione sulla
attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputati V. e G., sulla base delle quali era stata ritenuta la
responsabilità del M.
In relazione alle dichiarazioni del V., non sarebbe mai stato precisato il ruolo che il M. avrebbe
rivestito nel momento decisionale delle azioni da compiere: in realtà il V. si è limitato ad affermare
che il M. era a conoscenza delle decisioni assunte, senza fornire alcun elemento dal quale ritenere
una sua partecipazione attiva alla fase decisionale. Peraltro la credibilità di dette chiamate in
correità sono evidente sminuite dalla circostanza che il V. avrebbe indicato il M. come partecipe
alla deliberazione di uccidere la P. nel 2004, quando questi si era già allontanato dal gruppo da ben
sei anni.
Analoghi rilievi andavano quindi mossi alla valutazione della attendibilità dell’altro chiamante in
correità, G. Pietro, il quale non avrebbe fornito significativi elementi per la configurare la
responsabilità del M.; né sarebbero state in qualche modo riscontrate le notizie già riferite dal V..
Anche le dichiarazioni del M. apparirebbero quanto mai vaghe e sfumate in relazione alla posizione
del M..
Quanto infine alle dichiarazioni rese dallo stesso M., fermi restando rilievi già illustrati sulla
inutilizzabilità di quanto dichiarato in assenza di difensore, la sentenza d’appello avrebbe omesso
ogni seria valutazione sulla loro attendibilità e sulla loro efficacia; né si sarebbe curata di comparare
le varie dichiarazioni, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle stesso alle varie
riunioni preparatorie tenute prima del duplice omicidio.
Con il settimo motivo si censura la sentenza per violazione di legge e illogicità della motivazione
sul punto della sussistenza degli elementi richiesti per la configurabilità del cosiddetto concorso
morale. In realtà si tratterebbe di semplice connivenza, e non di volontà di concorrere assieme agli
altri, al raggiungimento del fine criminoso; e tale atteggiamento non sarebbe di per se punibile.
Con l’ottavo motivo si censura la sentenza impugnata per carenza di motivazione sul punto della
riqualificazione del fatto di aver passato la notte successiva al duplice omicidio presso l’abitazione
del L. come favoreggiamento personale.
129
Con il nono motivo si rileva l’assoluta assenza di motivazione sul punto della sussistenza della
imputabilità del M. al momento della commissione del fatto, trattandosi di imputato minorenne.
Con il decimo motivo si censura la sentenza impugnata sul punto della mancata sospensione di cui
all’articolo 28del Dpr 448/88 in assenza di un progetto educativo attualmente in esecuzione e tenuto
conto della età del M., in realtà la relazione dei Servizi minorili avrebbe fatto riferimento ad un
progetto educativo.
Con l’undicesimo motivo si censura infine la sentenza sul punto della assenza di motivazione sulla
determinazione della pena applicata, senza peraltro applicare la diminuente di cui all’articolo 114
Cp.
Motivi della decisione
Nell’esaminare i ricorsi nello stesso ordine seguito sopra, si deve che il ricorso del Pg presso la Ca
di Milano è fondato.
Quanto al capo D, ossia il tentato omicidio ai danni di M. C. nel dicembre 1997, erroneamente il
Tribunale aveva ritenuto che gli atti preparatori (come descritti nel capo di imputazione, ossia nei
confronti dei due imputati all’epoca minorenni e in concorso con altri soggetti appartenenti al
gruppo, tra i quali V. Andrea e G. Pietro, consistiti nello stordire la stessa facendole bere acqua
nella quale era stata sciolta una sostanza a base di barbiturici ? Valium ? e nel predisporre una
siringa contenente una overdose di eroina ? circa un grammo ?nel trasportare la stessa in stato di
incoscienza in zona periferica, frequentata da tossicodipendenti e non riuscendo nell’intento per
cause indipendenti dalla loro volontà) non avevano raggiunto la soglia del tentativo punibile. Su tale
capo D il Pm deduce la mancanza e contraddittorietà della motivazione in rapporto all’affermazione
della Ca secondo cui non si sarebbe raggiunta la soglia del tentativo punibile non essendo mai
andata la condotta degli indagati oltre agli atti preparatori, perché costoro avevano predisposto il
delitto nei dettagli ed erano già stati predisposti gli atti successivi da compiere.
L’impugnazione del Pm è fondata. Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata non abbia
esaurientemente vagliato, in ogni suo aspetto, le modalità organizzative e operative del gruppo
criminale: la ricostruzione della vicenda, negli stessi termini con cui risulta precisata nella sentenza
impugnata, dimostra che V omicidio della M. era stato non solo deliberato dal gruppo criminale, ma
era stata predisposta un’adeguata organizzazione per eseguirlo. In particolare, era stato predisposto
un modo per stordire la ragazza, il suo accompagnamento in zona appartata e notoriamente
frequentata da tossicomani, era stata acquistata e preparata la siringa contenente P overdose di
eroina. Nella ricostruzione analitica della vicenda in base a prove attendibili e concordi la Corte
d’Appello ha ravvisato lo svolgimento di un’attività meramente preparatoria, ritenendo che non vi
sia stato neppure l’inizio della condotta tipica. Nell’esprimere tale valutazione la sentenza non
affronta il problema della distinzione in concreto fra atti deliberativi dell’omicidio progettato dai
concorrenti e gli atti organizzativi, che hanno assunto una specificità e un’imponenza tali da non
poter non rappresentare un inizio di esecuzione. A prescindere da questo, occorre tener presente che
P istituto del delitto tentato, nel sistema adottato dal codice penale, non prevede una distinzione fra
atti preparatori e atti esecutivi, in quanto la struttura del tentativo si fonda sul compimento di atti
idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto (Cassazione, Sezione sesta, 7446/92;
seconda, 4982/85; 3692/85; 3326/85; 10957/83; quinta, 5186/83; 3111/83); ne deriva che non si
richiede che l’azione esecutiva sia già iniziata (Cassazione, Sezione seconda, 10362/87; 9776/80;
130
2791/92) e che anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo quando sia idoneo e
diretto in modo non equivoco a commettere un delitto (Sezione seconda, 1058/85; 6439/84; quinta,
3939/85; seconda, 1813/84; 3265/83).
In altri termini, il criterio legale per la qualificazione del tentativo punibile è quello
dell’individuazione nello sviluppo assunto dalla condotta degli elementi distintivi del delitto
consumato attraverso l’univocità della direzione degli atti compiuti verso la commissione di tale
delitto e la contemporanea idoneità degli atti stessi a commetterlo (Cassazione, Sezione sesta,
11022/96; 295/95; prima, 7938/92; seconda, 10496/88; sesta, 25040/04). L’idoneità degli atti ?
valutata ex ante e non con riferimento alle circostanze impreviste che abbiano impedito il verificarsi
dell’evento o il compimento dell’intera azione necessaria per la consumazione del delitto
(Cassazione, Sezione seconda, 10362/87; 3326/85; 8997/84; 7451/83), tenendo conto delle
circostanze in cui opera L’agente e delle modalità dell’azione ? è criterio di determinazione
dell’adeguatezza causale, intesa come attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e
concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice (Cassazione, Sezione quinta,
1365/98; prima 9273/95; 7317/95; 151/94; sesta, 5405/85). L’univocità degli atti è espressa dal
riferimento di essi al delitto consumato, riferimento che deve essere non equivoco, cioè tale da non
consentire la possibilità di ritenere leciti gli atti stessi in quanto vi è già, ravvisabile, sia in base
all’essenza di essi, sia in base alla prova specificamente acquisita, la finalità della commissione di
un determinato delitto. Per converso, l’inidoneità dell’azione, che rende impossibile l’evento
dannoso o pericoloso (articolo 49 Cp) esige che l’incapacità di essa di produrre l’evento sia
assoluta, intrinseca e originaria e tale risulti secondo una valutazione oggettiva da compiersi
risalendo al momento iniziale del suo compimento; deve cioè tradursi in inefficienza causale
rispetto alla produzione dell’evento, indipendentemente da ogni cautela predisposta dalla parte
offesa o intervento successivo che abbia impedito la realizzazione (Sezione quinta, 3315/83; terza,
1588/82; quinta, 5946/82; terza, 10571/81; quinta, 4624/81). Alla luce degli orientamenti
giurisprudenziali qui esposti non v’è dubbio che la condotta dei componenti di un gruppo criminale
che allo scopo di eliminare uno dei componenti del gruppo deliberano di ucciderlo e predispongono
l’organizzazione necessaria per l’esecuzione del delitto configura un tentativo di omicidio.
Sussiste, infatti, in questa ipotesi l’idoneità dell’azione, da valutare ex ante in base alle prospettive
di realizzazione che gli atti esecutivi di per sé posseggono, indipendentemente dall’insuccesso
determinato da fattori estranei, nonché in base all’efficienza causale che l’azione stessa dimostra.
È altresì presente l’univocità degli atti compiuti, i quali sono inequivocabilmente diretti a
commettere il delitto di omicidio in danno della vittima designata.
Ai suddetti principi di diritto deve uniformarsi la decisione e per conseguenza la sentenza
impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio sui capi impugnati.
Analoghi rilievi debbono essere mossi alla pronunzia di assoluzione dei due imputati minorenni in
ordine al capo C, ossia al tentato omicidio di M. C. e di T. Fabio al Parco dell’Acquatica, nella notte
tra il 31 dicembre 1997 e il 1 gennaio 1998. In quella occasione, secondo il capo di imputazione i
due imputati, in concorso con altri componenti del gruppo, avevano appiccato il fuoco all’auto a
bordo della quale si trovavano i due ragazzi da uccidere, collocando materiale esplodente nel
condotto di iniezione del carburante e non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla loro
volontà.
In relazione a tale episodio la Ca aveva ritenuto che gli atti compiuti non fossero idonei a provocare
una deflagrazione tale da provocare la morte degli occupanti dell’auto, ovvero ad appiccare un
incendio tale da compromettere ogni possibilità di salvezza degli stessi occupanti.
131
Su tale capo C il Pm deduce la mancanza e contraddittorietà della motivazione in rapporto
all’affermazione della Corte d’Appello secondo cui non si sarebbe raggiunta la soglia del tentativo
punibile.
L’impugnazione del Pm è fondata. Ritiene il Collegio che facendo uso degli stessi principi sopra
richiamati e riferiti all’episodio di cui al capo D la sentenza non ha approfondito in modo completo
il tema dell’idoneità dell’azione, da valutare ex ante in base alle prospettive di realizzazione che gli
atti esecutivi di per sè posseggono, indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori
estranei, nonchè in base all’efficienza causale che l’azione stessa dimostra. Su cale punto, li n’corso
della pubblica accusa ha richiamato non soltanto le risultanze della perizia predisposta dall’ing. B.,
ma tutte le circostanze predisposte dai correi per ottenere il successo dell’agguato e cioè il
riempimento solo parziale del serbatoio del carburante, allo scopo di consentire la diffusione dei
vapori di benzina e facilitare quindi la propagazione dell’incendio; il posizionamento di petardi
all’interno della vettura; la conseguente emissione di fumi tossici che avrebbero provocato un serio
impedimento per i due occupanti di potersi mettere in salvo; la induzione a compiere un rapporto
sessuale, allo scopo attenuare la vigilanza delle due vittime designate.
Anche su tali aspetti la sentenza impugnata non fornisce adeguate risposte e merita quindi di essere
annullata con rinvio per nuovo giudizio.
In relazione al ricorso nell’interesse di M. Massimiliano, si osserva: quanto al primo motivo di
ricorso, i provvedimenti da assumere in relazione alla inammissibilità della impugnazione del Pm
sono precisati nella parte finale della presente sentenza, in funzione dell’accoglimento del presente
ricorso.
In relazione alla questione dell’assenza dei servizi minorili all’udienza avanti alla Corte d’Appello,
si tratta di questione ritenuta superata dalla sentenza impugnata dalla circostanza che nel frattempo
il M. è diventato maggiorenne; sul punto, si tratta di valutazione in contrasto con la giurisprudenza
di questa Corte che ha ritenuto che la misura della sospensione del processo e la messa alla prova di
cui all’articolo 28 legge 448/88, in funzione della quale è richiesta la presenza al processo dei
servizi sociali, è applicabile anche nei riguardi degli imputati infradiciottenni al momento della
commissione del reato, che siano divenuti maggiorenni alla data del provvedimento di sospensione
(Cassazione Sezione quarta, 4 aprile 2003, ric. Pm in proc. Orlati, RV 225587). Si ritiene in ogni
caso che la assenza dei servizi sociali alla udienza non dia luogo a nullità, in conformità al principio
di carattere generale della tassatività delle nullità e potendo in ogni caso il giudice avvalersi dei
poteri di cui agli articoli 422 e 507 Cpp quando ritenga indispensabile la presenza dei servizi
sociali.
La censura sul punto deve essere quindi disattesa.
I successivi rilievi riguardanti la mancata acquisizione dei verbali integrali degli interrogatori degli
imputati detenuti (terzo motivo) non hanno pregio: questa Corte ha ?hà avuto modo di affermare il
principio che “In tema di documentazione dell’interrogatorio di persona detenuta, la sanzione di
inutilizzabilità ex articolo 141bis Cpp consegue alla mancata riproduzione fonografica o
audiovisiva dell’atto, ovvero alla ipotesi in cui, pure avvenuta tale riproduzione, manchi sia la sua
trascrizione, che la redazione del verbale in forma riassuntiva. La semplice mancata trascrizione del
contenuto dell’interrogatorio registrato o filmato, in presenza della verbalizzazione riassuntiva, non
implica inutilizzabilità, anche nel caso in cui la suddetta trascrizione, in quanto richiesta dalla parte,
costituisca obbligo per il giudice.” (Cassazione Sezione quinta, 31 gennaio 2000 ric. Carboni, RV
215970).
Quanto al merito del ricorso, riguardante la valutazione degli elementi di responsabilità a carico del
M., il ricorso è fondato. La sentenza impugnata dà atto della esistenza di elementi di responsabilità
anche a carico del M., sotto il profilo del concorso morale. Tali elementi sarebbero costituiti in
132
primo luogo della presenza del M. alle riunioni nel corso delle quali fu assunta la decisione di
uccidere la M. e il T.; egli fu tenuto al corrente anche dello stato dei preparativi relativi al progetto e
in particolare dello scavo della fossa dove i due sarebbero stati sepolti. In secondo luogo egli
avrebbe coadiuvato gli altri partecipi sia per intrattenere i due giovani sin tanto che si trovavano
presso il locale dove ebbe inizio la tragica serata (il Mid Night), sia prestandosi alla successiva
azione di copertura sino a passare il resto della notte a casa del L. e simulare di attivarsi per cercare
il T. dopo che i genitori si erano resi conto della sua scomparsa.
La sentenza impugnata assume che tali elementi valgano a ritenere una presenza non soltanto
passiva del M. all’interno del gruppo, ma che essa abbia contribuito a rafforzare la volontà
criminale degli altri compartecipi sia nella fase preparatoria che in quella esecutiva, che in quella
successiva di depistaggio delle indagini.
In realtà, secondo la linea assunta dalla difesa, dai risultati delle indagini effettuate, la presenza del
M. alle riunioni del gruppo criminale sarebbe stata soltanto occasionale e saltuaria, essendo egli
coinvolto nella vicenda solo in quanto legato al M. e al T., con I quali condivideva la passione per la
musica e con i quali partecipava ad un gruppo musicale. La presenza del M. ad alcune delle riunioni
avrebbe consentito a questi di conoscere alcuni dei programmi criminali deliberati, ma non avrebbe
prestato alcun contributo per l’assunzione di tali decisioni. Anche le chiamate in correità del M., del
V. e del G. sarebbero quanto mai vaghe e prive di indicazione di singoli elementi individualizzanti
ai fini della sua partecipazione al duplice omicidio.
Tali aspetti, sui quali era stata fondata la sentenza di primo grado, non hanno trovato adeguato e
soddisfacente approfondimento da parte di giudici dell’appello, soprattutto in relazione all’aspetto
fondamentale della sussistenza del comportamento non semplicemente passivo, di semplice
connivenza, ma di contributo cosciente e volontario al fine di realizzare l’evento.
Nè risulta che la sentenza impugnata abbia sottoposto a critica le valutazioni che avevano indotto il
giudice di primo grado di decidere per l’assoluzione del M.: in relazione a tale aspetto è evidente la
violazione del principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sezione seconda,
12/12/2002, P.G. in proc. Contrada, rv. 225564; Sezione IV, 29/11/2004, P.G. in proc.
Marchiorello, rv. 231136), per il quale il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di
primo grado, caratterizzata come nella specie da un solido impianto argomentativo, “ha l’obbligo
non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento
probatorio ma anche di confutare specificamente e adeguatamente i più rilevanti argomenti della
motivazione della prima sentenza e, soprattutto quando all’assoluzione si sostituisca la decisione di
colpevolezza dell’imputato, di dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o
l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma.” (Cassazione Su 12
luglio 2005 ric. Mannino, RV 33748).
In relazione a tale aspetto il ricorso del M. deve essere quindi accolto, restando assorbiti oli altri
motivi di ricorso.
A seguito della novella legislativa introdotta con legge 46/2006, deve essere dichiarata, ai sensi
della norma transitoria di cui all’articolo 10 comma 4, l’inammissibilità dell’appello del Pm, con la
conseguente notifica della presente sentenza del Pm appellante, ai fini dell’eventuale ricorso per
cassazione previsto dallo stesso articolo 10 comma 3 (in tal senso: Cassazione Sezione quinta, 10
maggio 2006, ric. Nardo e altri, RV 234096).
Si designa per il giudizio di rinvio relativo alla posizione di M. Mario sui capi C e D la Ca di
Brescia, Sezione per i Minorenni, ai sensi dell’articolo 623 Cpp. Detta norma non consente, infatti,
di disporre il rinvio alla stessa sezione in diversa composizione e ai sensi dell’articolo 58
dell’Ordinamento giudiziario approvato con Rd 12/1941 in nessuna Ca è prevista più di una Sezione
133
per i Minorenni: ne deriva la necessità di ordinare il rinvio alla Ca più vicina, nella specie, la Ca di
Brescia.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Prima Sezione Penale, annulla nel confronti di M. Massimiliano
la sentenza impugnata; dichiarato inammissibile l’appello del pubblico ministero e dispone la
trasmissione del presente provvedimento, ai sensi dell’articolo 10, commi 2 e 4, legge 46/2006, al
Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano e al Procuratore
Generale presso la Ca di Milano.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente ai capi c) e d), nei confronti di M. Mario e rinvia per
nuovo giudizio sui capi predetti alla Sezione per i Minorenni presso la Ca di Brescia.
-In tema di consunzione, si veda la sentenza che segue.
Il rapporto di consunzione, secondo la più autorevole dottrina in argomento, è un rapporto di
valore tra due norme incriminatrici, in base al quale l'apprezzamento negativo dell'accadere
concreto riconducibile ad un'unica condotta (la dottrina parla di "identità normativa del
fatto") appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave, di guisa che
applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto
moltiplicarsi della sanzione. In altri termini, il rapporto di consunzione comporta sempre la
prevalenza della norma che prevede il reato più grave, ovvero, più precisamente, quella che
prevede il trattamento penale più severo (anche quando il trattamento più severo si ricolleghi,
come nel caso di specie, alla sussistenza di una circostanza aggravante specifica).
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I PENALE
Sentenza (ud. 24-01-2006) 02 marzo 2006, n. 7629
OSSERVA
1. Con sentenza 20 giugno 2005 la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza 28 marzo
2003 di quel Tribunale che aveva condannato L.N., titolare della ditta "Licata Giocattoli" di
Palermo, e O.F., dipendente del L. con funzioni di magazziniere, rispettivamente alla pena di anni
cinque e mesi quattro di reclusione ed alla pena di anni quattro e mesi sette di reclusione per i
seguenti reati:
Il solo L.:
134
Capo A - incendio doloso ( artt. 423 e 425 c.p.) di una parte dei locali della ditta "Licata Giocattoli"
(pari a mq. 1650) e della merce in essi contenuta, commesso il (OMISSIS).
Il L. e l' O. in concorso tra loro:
Capo B - incendio doloso ( artt. 423 e 425 c.p.) degli interi locali della ditta "Licata Giocattoli" (pari
a mq. 4500) e della merce in essi contenuta, nonchè dell'edificio abitato da oltre sessanta famiglie e
degli esercizi commerciali adiacenti; commesso il (OMISSIS);
Capo C - crollo doloso ( art. 434 c.p.) dei locali della ditta "Licata Giocattoli", di parte dell'edificio
sovrastante e di sette negozi adiacenti; commesso il (OMISSIS);
Capo D - per avere cagionato, come conseguenza non voluta dei reati di cui ai capi C e D ( art. 586
c.p.), la morte del vigile del fuoco B.N., impegnato nelle opere di spegnimento dell'incendio;
commesso il (OMISSIS);
Capo E - per avere posto in essere le condotte di cui ai capi precedenti al fine di conseguire il
risarcimento previsto dalla polizza assicurativa stipulata dal L. nel (OMISSIS) con le Assicurazioni
Generali s.p.a.; in Palermo fino al (OMISSIS).
La Corte di secondo grado basava la propria decisione sulle seguenti argomentazioni:
- Che gli accertamenti tecnici avevano evidenziato come l'incendio del (OMISSIS) fosse stato
provocato da un quantitativo di benzina (circa un litro) versato su un paio di scaffali metallici posti
sul fondo del negozio di vendita al pubblico e si fosse sviluppato rapidamente.
- Che il fumo era stato notato per la prima volta dalla teste P. alle ore 13.45, mentre i vigili del
fuoco avevano fissato il momento di inizio dell'incendio del (OMISSIS) tra le 13.15 e le 13.43.
- Che il L. era stato l'ultimo a lasciare i locali del negozio uscendo e chiudendolo per la pausa
pranzo alle ore 13.25 di quel (OMISSIS).
- Che non altri se non il L. avrebbe potuto appiccare il primo incendio, visto che è stato l'ultimo a
uscire.
- Che gli autori del fatto non possono essere stati dei terzi estranei perchè "se così fosse stato i
predetti avrebbero atteso la chiusura del negozio prima di agire".
- Che i due incendi - del (OMISSIS) e del (OMISSIS) - vanno valutati congiuntamente "poichè
rivelano la riconducibilità dei due eventi allo stesso soggetto", dal momento che "sono stati
realizzati con identiche modalità esecutive, vale a dire in pieno giorno, all'interno dei locali e non
all'esterno e, soprattutto, allo stesso orario".
- Che secondo il consulente l'incendio del 27 agosto aveva avuto "un'origine policentrica
caratterizzata da una dinamica veloce" e, in particolare, era stato originato da sei distinti focolai
dislocati su due piani: il primo e il secondo piano cantinato.
- Che il (OMISSIS), verso le ore 13, alcuni testimoni avevano visto il fumo uscire dalle finestre del
magazzino della ditta.
135
- Che quel giorno (OMISSIS) la chiusura del negozio per la pausa pranzo era intervenuta verso le
ore 13.
- Che secondo il consulente tecnico alle ore 13 di quel (OMISSIS), al momento della chiusura del
negozio, l'incendio era stato già attivato, Perchè altrimenti, all'arrivo dei vigili del fuoco, circa venti
minuti dopo la chiusura del negozio, "l'incendio non avrebbe assunto le vaste dimensioni che in
realtà ha avuto".
- Che di conseguenza "a commettere l'incendio non può che essere stato il L. e mai certamente terzi
estranei poichè, se fossero stati questi ultimi, i predetti avrebbero atteso la chiusura del negozio
prima di agire".
- Che "la necessità di ripetere l'iniziativa criminosa commettendo il secondo incendio ... dimostra
l'estrema imperizia dell'autore di entrambi", ragion per cui "soltanto soggetti inesperti e estranei al
mondo del crimine e ancor più a contesti di tipo mafioso possono avere assunto le due iniziative
criminose"; il che comporta, secondo la Corte di merito, che "la individuazione del responsabile ben
si attaglia alla personalità del L.", essendo persona priva di trascorsi penali.
- Che infine, secondo la Corte di merito, "il movente che ha mosso la mano del L. è duplice: lucrare
l'indennizzo previsto dal contratto di assicurazione per destinarlo al pagamento almeno in parte
dell'ingente somma che avrebbe dovuto corrispondere al fratello Giacomo", a causa di una
complessa e risalente controversia civile in atto tra i due fratelli.
Relativamente alla posizione di O.F., magazziniere della ditta in questione, la Corte di secondo
grado basava la propria decisione di confermarne la condanna sulle seguenti argomentazioni:
- O.F. era tra le persone presenti nei locali della ditta quel (OMISSIS).
- Dalle 12 alle 13 era rimasto tutto il tempo nel deposito sito al secondo piano cantinato ed era
risalito al primo piano solo al momento della chiusura del negozio.
- Quel giorno l'ultimo a uscire fu l' O. e, su incarico del L., fu lui a chiudere i locali della ditta
riconsegnando poi le chiavi al L. che gliele aveva affidate.
- Da ciò si doveva desumere, secondo la Corte di merito, che era stato l' O. a provocare l'incendio,
previa intesa con il L..
2. Avverso la sentenza di secondo grado propongono ricorso per Cassazione i difensori del L. e dell'
O..
Il ricorrente O. deduce l'illogicità della motivazione e la violazione di legge con riferimento all'art.
192 c.p.p., comma 2, sostenendo che non vi siano indizi gravi, precisi e concordanti da cui
desumere la sua responsabilità penale per i fatti del (OMISSIS), e lamenta che la sentenza
impugnata non abbia dato risposta o abbia dato risposta incongrua o comunque insufficiente alle
doglianze specifiche contenute nei motivi di appello sottolineando, in particolare, la mancata
indicazione di un valido movente che possa concernere la sua persona, nonchè la totale assenza di
risposta alle argomentazioni contenute nei motivi di appello con le quali la difesa O. aveva
contestato la tesi del "rapporto di sudditanza" che era stata sostenuta nella sentenza di primo grado.
La difesa del L. ricorre per cinque ordini di motivi.
136
Con il primo motivo deduce la mancanza ed illogicità della motivazione in relazione alla
responsabilità penale per i due delitti di incendio contestati ai capi A e B, lamentando in particolare
che l'impugnata sentenza non abbia dato risposta o abbia dato risposta incongrua e inadeguata alle
specifiche e argomentate doglianze contenute nei motivi di appello, segnatamente laddove la difesa
aveva contestato:
- il punto in cui la sentenza di primo grado aveva assunto elementi di convincimento circa la natura
dolosa del primo incendio dalle caratteristiche del secondo incendio trascurando il primo giudizio
espresso dai Vigili del fuoco;
- il punto in cui la sentenza di primo grado aveva sostenuto che il L. avrebbe appiccato il fuoco nei
suoi locali nel quadro di una vertenza con suo fratello sia allo scopo di sottrarre beni alla divisione
con il congiunto sia allo scopo di ottenere liquidità dalla compagnia assicuratrice;
- il punto in cui la sentenza di primo grado aveva escluso, in relazione a entrambi gli incendi, che
terzi estranei potessero essere entrati nel locale per appiccare il fuoco, possibilità su cui la difesa
aveva argomentato nei motivi di appello sottolineando come l'ingresso di estranei fosse divenuto
più agevole a seguito dei danni dovuti al primo incendio;
- il punto in cui la sentenza di primo grado aveva escluso che gli incendi potessero riconnettersi al
fatto che il L. era stato sottoposto a richieste estorsive da parte della mafia alle quali aveva cercato
di sottrarsi;
- il punto in cui la sentenza di primo grado aveva ritenuto di poter fissare con relativa precisione
l'ora in cui il fuoco venne appiccato in occasione del secondo incendio, nonostante la "estrema
varietà ed inattendibilità di molte delle dichiarazioni rese, seppure in buona fede, dai testimoni
esaminati.
Sempre nel primo motivo di ricorso L. vengono contestati come manifestamente illogici taluni
argomenti della sentenza di secondo grado, come quello in cui si sostiene "l'estrema imperizia" di
chi appiccò gli incendi e si desume da tale notazione un indizio ulteriore a carico del L. in quanto
soggetto inesperto e estraneo al mondo del crimine, ovvero quello in cui, per escludere l'ipotesi di
una matrice mafiosa, si sostiene che non sarebbe possibile individuare una volontà di intimidazione
"dal momento che non vi è stato il ricorso a mezzi esplosivi".
Con il secondo motivo di ricorso la difesa L. deduce l'erronea applicazione della legge penale e
l'illogicità della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art.
434 c.p. (capo C), posto che tale norma sarebbe applicabile solo fuori dei casi preveduti dagli
articoli precedenti, quindi solo quando il crollo sia determinato da atti diversi da quelli integranti
uno dei delitti configurati negli articoli precedenti.
Con il terzo motivo di ricorso la difesa L. deduce l'erronea applicazione della legge penale e
l'illogicità della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art.
586 c.p. (capo D), lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe motivato specificamente
circa la prevedibilità in concreto dell'evento morte con riferimento allo specifico rischio creato dalle
concrete modalità di realizzazione dell'illecito doloso di cui al capo B. Con il quarto motivo di
ricorso (strettamente collegato e conseguente al primo motivo) la difesa L. chiede l'annullamento
della sentenza impugnata anche in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui
all'art. 642 c.p. (capo E).
137
Con un ultimo motivo di ricorso la difesa L. deduce l'erronea applicazione della legge penale e
l'illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti
generiche e alla mancata applicazione di un minimo aumento di pena per effetto della riconosciuta
continuazione.
3. Entrambi i ricorsi sono fondati e meritano accoglimento. Per quanto riguarda i motivi di ricorso
attinenti al merito dell'accusa relativa ai reati di cui ai capi A e B le doglianze avanzate dai due
ricorrenti (ricorso O. e primo motivo di ricorso L.) possono essere trattate congiuntamente.
In proposito osserva il Collegio che la stringatissima sentenza impugnata si limita a ribadire
succintamente e frettolosamente (quindi a riassumere lacunosamente) le argomentazioni che erano
state svolte dai giudici di primo grado, sottraendosi così all'obbligo di fornire puntuale risposta alle
controargomentazioni contenute nei motivi di appello svolti dalle difese dei due imputati.
I ricorsi sono fondati anche laddove mettono in luce le affermazioni apodittiche e le argomentazioni
gravemente illogiche che caratterizzano qua e là il provvedimento impugnato, come quella che
ritiene di poter desumere un indizio a carico del L. dalla sua qualità di soggetto "inesperto e
estraneo al mondo del crimine" (pag. 6), o quella che sottolinea il mancato ricorso a mezzi esplosivi
come argomento per escludere la matrice mafiosa (pag. 9).
Sotto il primo profilo basti dire che l'estraneità al mondo del crimine è una connotazione
estremamente generica che si attaglia alla stragrande maggioranza degli esseri umani, ed è
francamente illogico ritenere di poter desumere da tale connotazione - di per sè quanto meno neutra
- una sorta di paradossale indizio di reato; sotto il secondo profilo, basti dire che la lunga e
articolata elaborazione giudiziaria che si è sviluppata intorno alle attività criminali delle mafie
storiche dimostra che la forza di intimidazione che le contraddistingue non è legata esclusivamente
all'uso di esplosivi.
A proposito, poi, del movente che avrebbe indotto l' O. a appiccare il secondo incendio, l'illogicità
della motivazione del provvedimento impugnato è particolarmente grave laddove si afferma (pag.
13) che la responsabilità dell' O. è "oggettivamente desumibile dalla sua presenza sui luoghi e dal
mero rapporto di lavoro che lo legava al L."; illogicità davvero manifesta, tanto più se si considera
che la stessa sentenza di secondo grado da conto della presenza di un certo numero di altri
dipendenti del L. sul luogo del secondo incendio. Questo argomento irrazionale, inoltre, si aggancia
ad un altra affermazione altrettanto illogica che si può leggere nelle righe che immediatamente lo
precedono: si tratta di un'affermazione decisamente apodittica, secondo la quale "il fatto che ... il L.
abbia potuto avvalersi dell'opera dell' O. deriva intuitivamente dalla manifestata disponibilità dell'
O. ad assecondare i propositi criminosi del proprio datore di lavoro, senza che sia necessario per
questo indagare sull'esistenza di recondito rapporto di sudditanza psicologica". Va anzitutto
sottolineato, infatti, che l'affermata "manifestata disponibilità dell' O. ad assecondare i
propositicriminosi del proprio datore di lavoro" è rimasta un postulato totalmente privo di qualsiasi
tentativo di dimostrazione. D'altro canto, poichè la tesi della sudditanza psicologicà dell' O. rispetto
al L. era stata sostenuta (quale elemento indiziante per entrambi gli imputati) nella sentenza di
primo grado, ed era stata specificamente contestata nei motivi di appello, è del tutto evidente che
era preciso dovere della Corte di secondo grado fornire un'adeguata e altrettanto specifica risposta
sul punto, anzichè limitarsi a definire non necessario indagare su tale aspetto della vicenda
processuale.
Dati i gravi vizi logici della motivazione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad
altra sezione della Corte d'appello di Palermo per un riesame complessivo degli elementi probatori
prospettati dall'accusa a carico rispettivamente dei due imputati in ordine ai due incendi di cui ai
138
capi A e B. 4. Pure fondato è il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa L. relativamente al
delitto di crollo doloso di cui all'art. 434 c.p., comma 2, contestato al capo C, ancorchè per ragioni
non del tutto coincidenti con quelle prospettate dal ricorrente.
Va premesso che l'art. 434 c.p., che prevede congiuntamente il delitto di crollo doloso di costruzioni
e il delitto di disastro doloso innominato, è ricompreso - così come il delitto di incendio doloso
previsto dall'art. 423 c.p. - tra i "delitti di comune pericolo mediante violenza" (Libro 2^, Titolo 6^,
Capo 1^, artt. 422 e 437 c.p.). Peraltro, la peculiarità dell'art. 434 c.p., (proprio per il fatto di
prevedere congiuntamente il crollo doloso e il disastro innominato) è quella di costituire una norma
di chiusura nel quadro, appunto, della sottoclasse dei delitti di disastro.
Orbene, ritiene il Collegio che, come del resto è ritenuto dalla dottrina più recente, l'espressione
"fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti", contenuta nell'art. 434 c.p., rimanda non già a
tutti gli articoli precedenti contenuti nel Capo 1^, bensì soltanto a quelli, tra gli articoli precedenti,
che prevedono altri delitti di disastro. Tra questi ultimi rientrano, per esempio, l'art. 428 c.p.
(naufragio), l'art. 430 c.p. (disastro ferroviario), l'art. 432 c.p. (attentato alla sicurezza dei trasporti),
ma non anche l'art. 423 c.p. che prevede il delitto di incendio.
Nel caso di specie il delitto di cui all'art. 434 c.p., comma 2 è stato contestato - in concorso formale
con il delitto di cui all'art. 423 c.p. - perchè, in conseguenza dell'incendio del (OMISSIS), si è
verificato il crollo parziale dell'edificio sovrastante alla ditta "Licata Giocattoli", per modo che
l'accusa ha ritenuto che i due imputati, provocando l'incendio, abbiano al tempo stesso commesso
"un fatto diretto a cagionare il crollo" dell'edificio sovrastante; con l'aggravante di avere
effettivamente cagionato tale crollo (parziale). In altri termini, lo stesso fatto materiale è stato
configurato come reato due distinte volte sulla base di due distinte norme incriminatrici.
Ritiene questa Corte che l'iter logico motivazionale percorso dalla sentenza impugnata sia viziato
sotto un duplice profilo.
Sotto il primo profilo, infatti, nella sentenza impugnata si riscontra un difetto di motivazione circa
l'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 434 c.p., dal momento che nessuna argomentazione
viene prospettata dalla Corte di merito a tale proposito. In altri termini, il delitto di crollo doloso
viene ritenuto sussistente per il fatto in sè della materialità del crollo, e la volontà di cagionare il
crollo viene affermata apoditticamente in capo a coloro che sono accusati di avere appiccato
l'incendio. La sentenza impugnata va quindi annullata anche sotto questo profilo, e il giudice di
rinvio dovrà analizzare il contesto probatorio onde stabilire, motivatamente, se l'elemento
soggettivo del delitto di crollo doloso sia effettivamente ravvisabile, quanto meno in termini di dolo
eventuale, o se invece sia configurabile soltanto il dolo di incendio ex art. 423 c.p..
Sotto il secondo profilo - qualora sia effettivamente ravvisabile il dolo di crollo ex art. 434 c.p. - la
sentenza impugnata appare comunque viziata per difetto di motivazione perchè non si pone il
problema del rapporto esistente fra il delitto di incendio doloso e il delitto di crollo doloso quando i
due delitti, come nel caso di specie, vengano ricollegati a un'identica condotta materiale, oltre che a
un'identica offesa agli interessi tutelati dalla legge. A questo proposito ritiene il collegio che tra le
due norma in questione debba riconoscersi esistente il cosiddetto rapporto di "sussidiarietà", ovvero
di "consunzione", ispirato al principio del ne bis in idem sostanziale secondo il quale (anche fuori
dei casi di vera e propria specialità) nessuno può essere punito più volte per lo stesso fatto (ovvero,
più precisamente, per la medesima offesa ai beni tutelati dalla legge).
In particolare, il rapporto di consunzione, secondo la più autorevole dottrina in argomento, è un
rapporto di valore tra due norme incriminatrici, in base al quale l'apprezzamento negativo
139
dell'accadere concreto riconducibile ad un'unica condotta (la dottrina parla di "identità normativa
del fatto") appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave, di guisa che
applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto moltiplicarsi
della sanzione. In altri termini, il rapporto di consunzione comporta sempre la prevalenza della
norma che prevede il reato più grave, ovvero, più precisamente, quella che prevede il trattamento
penale più severo (anche quando il trattamento più severo si ricolleghi, come nel caso di specie, alla
sussistenza di una circostanza aggravante specifica).
Pertanto, se il reato di crollo di costruzione previsto dal secondo comma dell'art. 434 c.p. (pena
edittale da tre a dodici anni di reclusione) sia commesso cagionando l'incendio della costruzione (
art. 423 c.p.: pena edittale da tre a sette anni di reclusione), dovrà trovare applicazione solo la
norma che incrimina il crollo doloso (aggravato ex comma 2), in base al principio di sussidiarietà
tra norme che prevedono stati o gradi diversi di offesa di un medesimo bene (nel caso: la pubblica
incolumità), in quanto l'offesa maggiore assorbe quella minore e, di conseguenza, l'applicabilità di
una norma è subordinata alla mancata applicazione dell'altra (cfr.
Cass., Sez. 6^, 30 aprile 1999 n. 1531, dep. 16 giugno 1999, Sibio, CED-214741, che ha affermato
l'assorbimento del reato di frode processuale nel più grave reato di falsa perizia contestato a colui
che aveva indotto in errore il perito trasmettendogli un documento certificativo falso).
5. Gli altri motivi di ricorso devono ritenersi assorbiti in quelli sin qui trattati. Peraltro, data
l'ampiezza ed il rilievo delle questioni sulle quali il giudice di rinvio è chiamato a intervenire, è
opportuno che il nuovo esame si estenda fino ad abbracciare nuovamente anche le questioni residue,
con particolare riguardo - relativamente al reato di cui all'art. 586 c.p. contestato al capo D - alla
prevedibilità in concreto dell'evento morte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appella,
di Palermo.
Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2006.
Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2006
OMISSIONE DI ATTI D'UFFICIO
TRACCIA:
Francesco è un noto barbone, piuttosto violento, che vive nei pressi della stazione Tiburtina di
Roma.
Michela, dottoressa in legge, una sera, vero le 23.30, si trovava nei pressi della suddetta stazione per
fare la spesa al supermercato notturno.
Michela veniva fermata da Francesco, che la minacciava con un coltello, affinché la prima si
concedesse fisicamente al secondo; Michela urlava, ma Francesco incominciava a prenderla a
schiaffi, portandola in una macchina abbandonata, dove procedeva a violentarla ripetutamente.
Dopo l’atto fisico, Francesco correva verso la metropolitana e si dileguava.
140
Michela, ferita visibilmente in più parti del corpo, con la forza rimasta, si recava al vicino comando
dei Carabinieri, per esporre l’accaduto.
I carabinieri Tizio e Caio, preposti alla ricezione delle denunce, ritenevano di non redigere verbale
di quanto narrato da Michela, per l’assenza di referto medico; a nulla valevano le implorazioni di
Michela.
Il giorno dopo Michela si recava da un legale, manifestando l’intenzione di voler agire contro Tizio
e Caio.
Il candidato rediga motivato parere, tenendo presente le richieste di Michela.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario precisare che Francesco aveva compiuto il reato di violenza
sessuale.
Dopo, era utile chiedersi se Tizio e Caio avevano compiuto qualche reato, idoneo a giustificare
un’azione giudiziaria (querela) penale.
In effetti, il fatto sembra assumere rilevanza penale, con particolare riferimento all’art. 328 c.p.,
tanto più che il fatto narrato da Michela appariva, ictu oculi, verosimile (Michela era visibilmente
ferita in più parti del corpo), con la conseguenza che non può emergere un errore sul fatto.
In questo senso, allora, Tizio e Caio sembrano aver rifiutato un atto del loro ufficio, in modo non
scusabile.
Si precisa, poi, che verosimilmente l’art. 361 c.p. non sembra poter trovare applicazione, in quanto
nel caso di specie non emerge un’omessa denuncia o ritardo all’Autorità giudiziaria, ma un rifiuto a
monte di un atto che, poi, sarebbe dovuto essere comunicato all’autorità Giudiziaria; l’art. 361 c.p.
riguarda il caso del mancato rispetto dell’obbligo di denuncia all’Autorità Giudiziaria, mentre l’art.
328 c.p. riguarda il rifiuto di un atto generale (nel caso di specie, denuncia da parte di un privato).
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
-E’ omissione di atti d’ufficio non accogliere una denuncia di violenza sessuale per assenza di
referto medico.
Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza n.44734 del 20 novembre 2003
OSSERVA
141
Sull'appello proposto da F. T. e D.C. F. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli del 24 gennaio
2001 con la quale i predetti appellanti, dichiarati colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 328 c.p.
perché, in concorso tra loro, quali sottufficiali in servizio presso la stazione dei CC di Casoria e,
come tali, pubblici ufficiali, si erano indebitamente rifiutati di ricevere una denuncia di violenza
carnale presentata da P.F., asserendo, tra l'altro, che "per formalizzare una denuncia di tal genere era
indispensabile un referto medico", in Casoria il 26 novembre 1994, erano stati condannati, previa
concessione ad entrambi delle attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione ciascuno,
con i doppi benefici di legge, la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 31 gennaio 2002,
confermava il giudizio di primo grado, ribadendo la comprovata sussistenza del reato contestato e la
sua attribuibilità ad entrambi gli imputati, la cui condotta risultava essere stata priva di "qualunque
plausibile giustificazione", avuto riguardo alle circostanze e modalità dei fatti, come riferiti dalla
giovane donna.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, deducendo, a
monocordi motivi di gravame, la violazione dell'art. 606, lett. e), c.p.p. per manifesta illogicità della
motivazione in ordine all'asserito carattere di "indebito rifiuto" riferito alla contestata condotta dei
ricorrenti, apoditticamente attribuendo credito alle dichiarazioni della parte offesa, senza nemmeno
assicurare l'acquisizione di un pur opportuno e necessario supporto documentale sanitario circa le
reali condizioni psico-fisiche della denunciante.
I ricorsi sono infondati e vanno rigettati, con la conseguente condanna degli imputati in solido al
pagamento delle spese processuali.
Ed invero, contrariamente a quanto denunciato dai ricorrenti, il contesto motivazionale
dell'impugnata sentenza offre un quadro esaustivo, convincente e logico delle ragioni supportanti il
confermato giudizio di colpevolezza degli imputati in ordine alla corretta contestazione di rifiuto di
atti d'ufficio.
Ricorre, infatti, tale reato, allorché, come nella specie, si realizza il mancato compimento di un atto
rientrante nella competenza funzionale del pubblico ufficiale come è il riceversi, nella qualità di
sottufficiali in servizio presso una stazione dei CC, una denuncia di fatto penalmente rilevante, e
l'asserita e del tutto gratuita necessità (ovvero anche mera opportunità) di previamente munirsi di
asseritamente "indispensabile" referto medico circa la possibile conferma di violenza carnale in
pregiudizio della donna che intende sporgere la denuncia per tale reato, vale a configurare
l'avverbio "indebitamente" inserito nel dettato legislativo, creando, in ogni caso, un ritardo alla
intuibile esigenza di tempestività della denuncia in relazione all'esigenza di tempestività dell'inizio
delle indagini per la migliore e fattiva identificazione dell'autore del fatto reato e conseguenti
provvedimenti a suo carico, ove necessari.
Né giova far richiamo alle asserite "buone intenzioni" degli imputati nell'agevolare, con l'invito
rivolto alla ragazza, la migliore efficienza delle indagini, posto che resta impregiudicata, in punto di
dolo generico (sufficiente alla configurabilità del reato), la consapevolezza degli imputati di agire,
comunque, in violazione dei doveri loro imposti ex lege nella ricezione di denuncia di fatto reato,
salvo che, dal contesto modale e temporale di tutti i fatti, non sia ragionevole e palesemente
evidente dedurre che la denuncia si riferisca a fatto assolutamente inverosimile da parte di soggetto
altrettanto assolutamente non affidabile in punto di sufficiente credibilità.
Di qui la corretta conferma del giudizio di condanna, a prescindere dall'invocata acquisizione di
certificazione sanitaria sulla "denuncianda" violenza carnale.
P.Q.M.
142
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.
TENTATIVO E REATO IMPOSSIBILE
TRACCIA:
Tizio, il 20 gennaio 2007, litigava violentemente con Caio, per motivi di lavoro.
Il 22 gennaio 2007, Caio si recava nell’abitazione di Tizio, al fine di ucciderlo; Caio sparava un
colpo di pistola diretto verso Tizio, nella convinzione che dormisse.
Il giorno 23 gennaio 2007, Caio veniva a sapere dalla televisione che Tizio era già morto per infarto
ancora prima di essere sparato.
Caio si recava da un legale.
Il candidato, premessi brevi cenni sul tentato omicidio, rediga parere favorevole a Caio
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa andava ricostruito il fatto, soffermarsi sulla circostanza che nel momento in cui Caio
sparava a Tizio, costui era già morto per cause indipendenti dalla condotta di Caio stesso, per cui
non vi era spazio applicativo per la sussistenza del reato di omicidio.
Successivamente occorreva soffermarsi sulla configurabilità nel caso de quo del delitto di omicidio
tentato.
Caio pone in essere degli atti diretti in modo univoco alla realizzazione del delitto di omicidio, solo
che l’evento della morte non si realizza per circostanze gnoselogicamente sopravvenute (la
conoscenza da parte dell’agente della morte pregressa è successiva) ma fenomenicamente
antecedenti (Tizio era già morto al momento dello sparo).
Per configurare il delitto tentato l’ idoneità dell’azione potrebbe essere valutata ex ante, in base alle
circostanze in cui opera l’agente e alle modalità in concreto dell’azione, a prescindere dai motivi
che successivamente hanno reso l’azione inidonea.
Sotto tale profilo, Caio ha posto in essere una condotta idonea ed ha manifestato una volontà
inequivoca alla realizzazione dell’evento morte, e la circostanza che la morte della vittima avesse
avuto luogo anteriormente per infarto costituisce un elemento non conosciuto e non conoscibile da
parte di Caio, che non inficia la sequenza causale posta in essere.
Tuttavia, è pur vero che Tizio era già morto prima del colpo mortale di Caio, per cui si potrebbe
dire, ex post, che la condotta non era idonea ad uccidere, con la conseguenza applicativa che
potrebbe trovare applicazione l’art. 49 c.p,, relativamente alla fattispecie impossibile.
In questo senso, allora, anche in una logica di favor rei, Caio non dovrebbe essere punito a titolo di
tentato omicidio, in quanto seppur è vero che, di massima, il tentativo va valutato ex ante, è pur
vero che il principio di causalità si fonda sulla materialità del collegamento tra condotta ed evento,
con la conseguenza che se tale materialità non vi è (o non vi può essere), allora, a rigore, non
dovrebbe sussistere alcun reato.
Diversamente argomentando, verrebbe del tutto vulnerato l’art. 49 c.p. rendendolo inutile duplicato
a contrario dell’art. 56 c.p., e si punirebbe un soggetto per la sola volontà manifestata di uccidere,
senza alcun riferimento all’idoneità concreta (e non astratta) a minacciare il bene-interesse
giuridicamente tutelato.
143
FURTO D'USO E FORZA MAGGIORE
TRACCIA:
Tizio, studente universitario incensurato, un giorno, vedeva in strada un camioncino della
spazzatura, lasciato incustodito.
Tizio decideva di prendere il camioncino per farsi un giro, passando dalla piazza principale al fine
di farsi vedere dagli amici e ridere.
Mentre Tizio si allontanava dal luogo del furto veniva sorpreso dai carabinieri che, senza denuncia
del proprietario del camioncino, accusavano Tizio di furto.
Il candidato rediga motivato parere a favore di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE :
In premessa andava ricostruito sinteticamente il fatto.
Successivamente occorreva soffermarsi sulla qualificazione giuridica della condotta di Tizio: essa è
riconducibile alla fattispecie di furto aggravato, ex art. 625 n.7 c.p. (perseguibile d’ufficio) oppure
si tratta di un ipotesi più lieve di furto d’uso, ex art. 626, n.1 c.p. (perseguibile a querela della
persona offesa) ?
La prima ricostruzione (sfavorevole a Tizio) comporta la punibilità della condotta posta in essere in
quanto Tizio si impossessa di un bene altrui (la camionetta per raccogliere la spazzatura), utilizzato
per lo svolgimento di un pubblico servizio o, comunque, di una pubblica utilità.
La circostanza dell’utilizzo del bene per finalità ludiche (fare una bravata, per vantarsene con gli
amici), del resto non escluderebbe la sussistenza di un elemento essenziale del reato di furto, ossia,
il profitto.
Infatti, la giurisprudenza ha accolto una nozione estensiva del concetto di profitto
ricomprendendovi qualsiasi vantaggio, patrimoniale e non patrimoniale, compreso il mero piacere o
divertimento.
Se la condotta posta in essere da Tizio è riconducibile al furto aggravato dall’utilizzo di beni lato
sensu pubblicistici, allora il reato è perseguibile d’ufficio senza necessità di querela da parte del
proprietario del bene sottratto (vedi art. 624, comma 3, c.p).
Ma le modalità concrete di svolgimento della vicenda suggeriscono una diversa ricostruzione del
fatto (più favorevole a Tizio).
La condotta dell’agente, proprio perché legata all’intenzione di fare una “bravata”, manifesta,
implicitamente, l’intenzione di fare uso momentaneo del bene illegittimamente sottratto (per farsi
notare dagli amici), senza la volontà di appropriarsi definitivamente del bene, che, tra l’altro, per le
caratteristiche intrinseche che presenta non può essere adoperato per scopi diversi rispetto alla
stessa raccolta di rifiuti e, quindi, non è suscettibili di una apprensione in via definitiva, per finalità
diverse.
Si tratterebbe in definitiva di una ipotesi di furto d’uso.
Tale fattispecie, però, si configura quando il soggetto agente, non solo, agisce allo scopo di fare un
uso momentaneo della cosa, ma anche provvede alla immediata restituzione del medesimo.
In tema di restituzione del bene momentaneamente sottratto l’art. 626, n. 1, c.p. è stato oggetto di
una sentenza di parziale illegittimità emessa dalla Corte Costituzionale, la quale ha affermato che la
fattispecie del furto d’uso può configurarsi anche quando la immediata restituzione del bene non ha
avuto luogo per circostanze non imputabili all’agente, riconducibili a caso fortuito o forza
maggiore.
144
E’ possibile allora affermare che il fatto che Tizio sia stato fermato dai carabinieri costituisce una
ipotesi di forza maggiore, che ha reso impossibile la restituzione del camioncino della spazzatura?
Invero, la giurisprudenza ritiene che la restituzione possa ritenersi impedita per l’intervento delle
forze dell’ordine o di un terzo, costituendo tali eventi ipotesi di forza maggiore, ma precisa che
l’impedimento della restituzione deve, comunque, inserirsi in un contesto logico-temporale da cui
desumere, con certezza o verosimiglianza, l’effettiva restituzione.
Nel caso in esame tale elemento, pure, sembra desumersi dalla natura del bene oggetto di
apprensione materiale da parte di Tizio, in quanto l’utilizzo della camionetta della spazzatura era
legato all’uso momentaneo del bene per poi restituirlo, non essendo ipotizzabile un uso personale
del bene in oggetto, diverso dalla raccolta della spazzatura stessa.
Così argomentando, la condotta di Tizio configurerebbe un’ipotesi di furto d’uso, fattispecie
perseguibile solo a querela della persona offesa, querela che nel caso in esame non è stata
presentata.
DOLO ALTERNATIVO E TENTATIVO
TRACCIA:
L’onorevole Tizio Mix decideva di uccidere uno degli invitati alla festa del collega parlamentare
Caio Max, al fine di creare uno scandalo ed indebolire l’immagine di quest’ultimo.
Così, Tizio Mix, il giorno della festa voluta fortemente da Caio Max, collocava una caramella
avvelenata sopra un vassoio, confondendola con altre 15 caramelle.
I camerieri non si accorgevano di alcunché.
Marcello Caius prendeva in mano la caramella avvelenata per assaporarla, ma veniva chiamato da
altre persone e, furtivamente, la gettava a terra senza farsi vedere dai colleghi.
La caramella avvelenata andava persa, senza che nessun invitato l’avesse ingerita.
Il candidato affronti la questione giuridica posta relativamente alla posizione giuridica di Tizio Mix.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era possibile chiedersi che fattispecie sembra aver integrato Tizio Mix.
Indubbiamente, il reato di omicidio non si è verificato, in quanto nessuno degli invitati alla festa
voluta da Caio Max decede; può sussistere, allora, il reato tentato (nella specie tentato omicidio)?
Sussistono, invero, atti diretti in modo non equivoco a commettere il delitto di omicidio, desumibili
dal fatto che Tizio Mix collocava una caramella avvelenata al fine di uccidere qualcuno (il
destinatario è indeterminato, ma ristretto ad un gruppo) degli invitati.
Dal punto di vista della condotta, quindi, sembra poter sussistere il tentato omicidio.
Dal punto di vista soggettivo, potrebbe sussistere il dolo eventuale.
A riguardo, occorre ricordare che tale tipologia di dolo si realizza, secondo l’orientamento
prevalente, quando un soggetto agisce accettando il rischio della verificazione di un reato, ma è
dubbio se tale elemento psicologico sia compatibile con il delitto tentato.
Secondo una certa impostazione, gli atti diretti in modo non equivoco avrebbero una portata
essenzialmente oggettiva, riferendosi al nesso di causalità, con la conseguenza logico-deduttiva che,
in quest’ottica, nulla osterebbe alla compatibilità del dolo eventuale (dolo indiretto) con il tentativo,
ex art. 56 c.p.
Secondo altra tesi, invece, sarebbe incompatibile il tentativo con il dolo eventuale, in quanto il
legislatore, ex art. 56 c.p., riferendosi agli atti diretti in modo non equivoco, sembrerebbe richiedere
145
la necessaria sussistenza di un dolo diretto, con la conseguenza che il dolo indiretto, come, appunto,
quello eventuale, escluderebbe la configurabilità della fattispecie di delitto tentato.
Invero, nel caso di specie non sembra sussistere l’elemento psicologico del dolo eventuale, quanto
piuttosto del dolo diretto (o, al più, dolo alternativo), in quanto Tizio Mix vuole (intenzionalmente)
cagionare una morte, cioè vuole esattamente integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 575 c.p.,
seppur è indifferente il soggetto passivo del reato.
In questo senso, allora, il dolo è diretto verso l’evento (“Tizio Mix decideva di uccidere”), per cui
ben potrebbe sussistere la fattispecie tentata, ex art. 56 c.p. e art. 575 c.p., con la conseguenza
dell’irrilevanza, rispetto al caso concreto, dell’accoglimento della tesi positiva o negativa in tema di
compatibilità tra dolo eventuale e tentativo.
Sotto tali profili ricostruttivi, pertanto, Tizio Mix potrebbe essere chiamato a rispondere del reato di
tentato omicidio.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
-Vi sono più tipi di dolo:
-dolo eventuale, in cui vi è la sola accettazione del rischio dell'evento
-dolo diretto in cui l'evento è accettato perché altamente probabile o certo
-dolo intenzionale quando l'evento è perseguito come scopo finale.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
SENTENZA 14.02.1996 n° 3571
Fatto
Con sentenza della Corte di Appello di Milano del 20 maggio 1995, in parziale riforma di decisione
del Tribunale di quella città del 14 novembre 1994, M. F. è stato condannato alla pena di anni sei e
giorni venti di reclusione per i delitti di tentata rapina aggravata (artt. 56, 628 co. 1 e 3 cod. pen.),
tentato omicidio aggravato artt. 56, 575, 61 n. 2 cod. pen.) e detenzione e porto illegale di pistola
semiautomatica Beretta cal. 7,65 con matricola abrasa, tutti ritenuti in continuazione e commessi in
concorso con certo T. M. .
Hanno ritenuto concordemente i giudici di merito che il M. e il T. il 23 giugno 1994, si sono
introdotti in una oreficeria di Milano per compiere una rapina e sono stati costretti alla fuga dalla
reazione delle vittime e da operai che lavoravano nei pressi, intervenuti in soccorso. Inseguiti per la
strada, il M. , che impugnava una pistola e che aveva esploso altri colpi, si è rivoltato e, dalla
distanza di 4 - 5 metri, con il braccio ripiegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato un
colpo verso il busto di certo P. C. , che è riuscito a scansarlo, mentre il secondo colpo si è
inceppato.
146
La Corte di Milano ha ritenuto il fatto integrante il tentato omicidio, ravvisando la sussistenza
dell'elemento soggettivo "quantomeno a titolo di dolo eventuale".
Il solo M. ha proposto ricorso per Cassazione deducendo il vizio di violazione di legge perché il
dolo eventuale non è configurabile nel delitto tentato.
La seconda Sezione della Corte, rilevando che, nonostante l'intervento delle Sezioni Unite (18
gennaio 1983, n. 6309, Basile, 159.825), persisteva contrasto sul punto nelle decisioni delle Sezioni
Semplici, con ordinanza del 17 novembre 1995 ha rimesso la decisione del ricorso alle Sezioni
Unite.
Diritto
Il ricorso, con il quale si sostiene non essere configurabile il tentativo con dolo eventuale, deve
essere rigettato perché infondato.
È infondato perché nella specie sussiste il dolo diretto e non quello eventuale; cade quindi la base
stessa del ricorso e non può essere riesaminata la questione, già risolta nel senso della compatibilità
da queste Sezioni Unite (18 giugno 1983, n. 6309, Basile, 159.825), con decisione non condivisa
talvolta dalle Sezioni Semplici, talché ciò ha indotto la Seconda Sezione della Corte a riproporre la
questione stessa.
Già le Sezioni Unite, investite del problema in fattispecie analoga (12 ottobre 1993, n. 748, Cassata,
195.804), hanno chiarito quali siano i livelli crescenti della volontà dolosa, che va dal dolo
eventuale, in cui vi è la sola accettazione del rischio dell'evento, al dolo diretto in cui l'evento è
accettato perché altamente probabile o certo, al dolo intenzionale quando l'evento è perseguito come
scopo finale.
In proposito conviene ulteriormente precisare, perché non prosegua una errata tendenza
giurisprudenziale ad estendere il dolo eventuale "per superare le difficoltà probatorie che talora si
riscontrano nell'accertamento della..... volontà omicida" (cfr. Sez. Un. 15 dicembre 1992,
Cutruzzolà) o per semplificare la motivazione sul dolo, che tale forma di dolo sussiste quando
l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità
del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il
rischio di cagionarle.
Quando invece si entra nel campo della probabilità, specie quando la realizzazione del fatto si
presenti all'agente come altamente probabile - e sarà il concreto accadimento stesso a segnare la
linea di demarcazione - non si può ritenere che il colpevole si limiti ad accettare il rischio
dell'evento, ma accettando l'evento lo vuole, sicché versa in dolo diretto e non eventuale (cfr.,
limitatamente alla distinzione tra dolo eventuale e alternativo, Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428,
Casu, 189.405).
Nella specie, risulta dalla sentenza della Corte di Milano che il ricorrente M. ha commesso il tentato
omicidio dell'operaio P. , che lo inseguiva, con dolo diretto.
Già in precedenza il M. , inseguito, si era voltato ed aveva sparato prendendo la mira verso terra alla
destra di due inseguitori. Quasi raggiunto dal P. , si è rivoltato e da 4 - 5 metri, con il braccio
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piegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato verso il busto dell'inseguitore che è riuscito a
scansare il colpo: il secondo colpo si è inceppato.
La dinamica dei fatti rende chiaro che il M. aveva deciso di evitare comunque la cattura, anche
uccidendo l'inseguitore,
La micidialità dell'arma, la voluta direzione dei colpi verso parte vitale del corpo dello inseguitore,
la distanza ravvicinata facevano apparire estremamente probabile l'uccisione della persona contro la
quale l'azione era diretta, che nella specie si è fortunosamente salvata.
Essendo l'evento altamente probabile il M. non si è limitato ad accettare il rischio del suo
verificarsi, ma l'ha voluto.
Pertanto, la situazione di fatto quale ritenuta dalla corte di merito è di dolo diretto e l'errore di diritto
in cui è incorsa nello specificare l'elemento soggettivo del tentativo di omicidio in esame
"quantomeno a titolo di dolo eventuale", deve essere corretto senza rinvio.
Trattandosi di dolo diretto, il ricorso del M. , basato - come già notato - sulla non configurabilità di
un tentativo con dolo eventuale, deve essere rigettato con conseguente sua condanna al pagamento
delle spese del procedimento.
P.Q.M
Visto l'art. 616 cod. proc. pen.;
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Roma, 14 febbraio 1996.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 12 APR. 1996
OMISSIONE DI REFERTO
TRACCIA:
Tizio è operaio, da diversi anni, della società Frixibel.
Un giorno accadeva che a Tizio cadesse sul piede una chiave inglese, a causa di un cedimento
strutturale del piano superiore; più chiaramente, un cedimento strutturale di un segmento di struttura
metallica, posizionata sopra Tizio, causava, improvvisamente, una pendenza idonea a far scivolare
verso il basso una chiave inglese che finiva sul piede di Tizio, fratturandolo.
Tra un piano e l’altro della struttura metallica non erano state predisposte le opportune misure di
sicurezza.
Tizio si recava dal dott. Bianchi per farsi controllare ed ingessare il piede; Tizio faceva presente a
Bianchi che il fatto era avvenuto mentre era sul luogo di lavoro senza precisare altro.
Il dott. Bianchi procedeva regolarmente alla visita, senza procedere a riferirne all’Autorità
148
giudiziaria.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica del dott. Bianchi.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA PENALE 6BIS
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario chiedersi se il dott. Bianchi poteva aver commesso il reato di
omissione di referto, ex art. 365 c.p.
Tale reato sussiste quando il soggetto attivo omette di dare comunicazione all’Autorità giudiziaria
di un fatto che presenta i caratteri di un delitto perseguibile d’ufficio; inoltre, l’obbligo grava sul
sanitario (soggetto attivo) solo se l’eventuale comunicazione non rischi di esporre il soggetto
assistito a procedimento penale: semplificando, se l’assistito è soggetto attivo di qualche reato
(perseguibile d’ufficio) non vi è l’obbligo di comunicazione all’Autorità giudiziaria, mentre se
l’assistito è soggetto passivo sussiste l’obbligo di comunicazione.
Il fatto accaduto a Tizio sembra poter essere inquadrato nell’art. 437 c.p. oppure nell’art. 451 c.p.,
ovvero in reati perseguibili d’ufficio, con la conseguenza logico-deduttiva che il dott. Bianchi
potrebbe rischiare un’incriminazione per omissione di referto, ex art. 365 c.p., per non aver
comunicato all’Autorità la sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio.
Tuttavia, vi è da precisare che, nel caso di specie, ben potrebbe trovare applicazione l’art. 47 c.p.,
con la conseguenza di ritenere non punibile il dott. Bianchi (l’art. 365 c.p. richiede la sussistenza del
dolo che, nel caso di specie, mancherebbe, ex art. 47 c.p.).
Sotto tale profilo, pertanto, il dott. Bianchi potrebbe non aver integrato gli estremi della fattispecie
di cui all’art. 365 c.p.
RIFIUTO DI OBBEDIENZA
TRACCIA:
Il candidato esamini la questione giuridica prospettata di seguito.
Tizio, appartenente al corpo di Polizia Municipale con la qualifica di istruttore di vigilanza e senza
alcun potere di coercizione, riceveva dal suo superiore Caio l’ordine di inoltrare all’Autorità
Giudiziaria un’annotazione di servizio, redatta dall’agente di Polizia Giudiziaria Sempronio dalla
quale emergevano ipotesi di responsabilità penale.
Tizio si rifiutava di eseguire l’ordine.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, il problema posto andava inquadrato nell’ambito dell’art. 329 c.p..
Tizio ha compiuto il reato di cui all’art. 329 c.p.?
Dal punto di vista rigorosamente oggettivo sembrerebbe poter sussistere un rifiuto di obbedienza da
parte di un militare o agente della forza pubblica, ma Tizio rientra in queste ultime qualificazioni
soggettive (idonee a perimetrare l’applicabilità della disposizione de quo)? Tizio è militare o agente
della forza pubblica?
Sembrerebbe potersi dire, ictu oculi, che la polizia municipale (Tizio) sia inquadrabile nella
categoria degli agenti di forza pubblica, ma è davvero così?
149
Invero, il concetto di forza pubblica sembra richiamare il potere di coercizione, nel senso, cioè, che
affinché possa sussistere la forza pubblica vi deve essere potere di coercizione; diversamente, lo
stesso concetto di “forza” pubblica verrebbe ad essere vulnerato.
Sotto tale profilo, pertanto, Tizio potrebbe non rispondere del reato di cui all’art. 329 c.p., per
l’assenza della richiesta condizione soggettiva.
Ne deriva l’irrilevanza penale di ogni forma di omissione o rifiuto che riguardi l’espletamento di
un’attività meramente amministrativa quale è, nel caso di specie, quella svolta da Tizio.
Si consiglia di leggere, Di Martino, Rifiuto o ritardo di obbedienza da parte di militare o agente
della forza pubblica, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, pag. 300.
Altresì, si consiglia di leggere, Mella, Rifiuto di obbedienza, in Studium Iuris, 1/2007, pag. 99.
RIDUZIONE IN SCHIAVITU’
TRACCIA:
Tizio e Tizia acquistavano, previa valutazione dell’aspetto fisico, una donna moldava (Cosha) al
prezzo di euro 1.000.000.
Successivamente, Tizio e Tizia introducevano, in modo clandestino, in Italia la donna moldava,
privandola della libertà di movimento, segregandola in un appartamento e assoggettandola a
continua e diretta sorveglianza.
Cosha, la donna moldava, decideva di prostituirsi per riscattare il debito verso Tizio e Tizia, che
l’avevano comprata per 1.000.000 euro, senza subire alcuna costrizione in tal senso.
Il candidato affronti la questione giuridica proposta, soffermandosi sulla portata applicativa dell’art.
600 c.p., come novellato nel 2003.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente era necessario porre l’attenzione sull’art. 600 c.p., che viene ritenuto, secondo
l’orientamento più recente, reato di evento a condotta vincolata.
Nel caso di specie, Tizio e Tizia sembrano aver integrato la prima parte della fattispecie, ex art. 600
c.p., ma non la seconda parte, in quanto la loro condotta non ha costretto il soggetto passivo (Cosha)
a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne
comportino lo sfruttamento; ne segue che potrebbe essere dubbio che sussistano gli estremi
applicativi della fattispecie de qua.
Ai fini dell’art. 600 c.p., come novellato, è necessaria la costrizione a prestazioni lavorative o
sessuali o accattonaggio o prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, tanto più che si tratta di
un reato di evento, oppure è sufficiente l’integrazione della prima parte della disposizione?
Secondo una prima impostazione, non sarebbe necessario che venga integrata anche la seconda
parte della norma, in quanto l’assenza di un punto, si dice, dal punto di vista letterale, starebbe a
significare che la condotta deve essere integrata nella sua totalità, comprendendo anche la
costrizione sessuale (nel caso di specie), con la conseguenza applicativa che Tizio e Tizia
potrebbero non subire alcuna condanna per il reato di cui all’art. 600 c.p.
150
Secondo altra impostazione (giurisprudenziale) più recente, il problema posto andrebbe risolto in
termini diversi, in quanto il solo evento idoneo ad integrare la fattispecie dell’esercizio di poteri
corrispondenti a quelli proprietari, senza far assumere rilievo alla costrizione sessuale, che sarebbe,
invece, una semplice conseguenza dell’evento.
In altri termini, si dice, la costrizione a prestazioni sessuali (ovvero le altre previste all’art. 600 c.p.)
non costituisce un’ulteriore condotta che l’autore deve porre in essere con violenza o minaccia,
bensì effetto della situazione di assoggettamento che costituisce l’evento dell’azione penalmente
sanzionata.
Accogliendo tale ricostruzione, pertanto, Tizio e Tizia ben potranno essere ritenuti responsabili del
reato di riduzione in schiavitù, seppur non abbiano costretto alla prostituzione Cosha, per averla
comprata e tenuta segregata in un appartamento, avendo in concreto esercitato poteri corrispondenti
a quelli proprietari.
Si consiglia di leggere, Musacchio, La nuova normativa penale contro la riduzione in schiavitù e la
tratta delle persone, in Giur. It., 2004, III, pag. 2446; Paesano, Il reato di riduzione in schiavitù, tra
vecchia e nuova disciplina, in Cass. Pen. 2005, pag. 791.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
-La riduzione in schiavitù è un reato di evento a forma vincolata, in cui l’evento, consistente
nello stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve
essere ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di
autorità ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una
situazione di necessità.
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.3368/2005 (Presidente: G.
Savignano; Relatore: P: Onorato)
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE III PENALE
SENTENZA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ordinanza del 6/10/2004 il Tribunale di Milano ha confermato la misura cautelare della
custodia in carcere disposta il 2/9/2004 dal gip dello stesso tribunale contro F. C. G. per i seguenti
reati: reclutamento, induzione e agevolazione della prostituzione, commesso con violenza (artt. 3,
nn. 4 e 5, e 4 n. 1legge 75/1958); riduzione in stato di schiavitù e servitù, commessa in danno di
minore di anni diciotto e a scopo di sfruttamento della prostituzione (art. 600, comma 1, 2 e 3, c.p.);
favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, commesso con violenza e minaccia in danno di
più persone (artt. 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 legge 75/1958).
Ha osservato il Tribunale che risultavano gravi indizi di colpevolezza sulla base delle precise e
coerenti dichiarazioni delle persone offese, che si confermavano a vicenda ed erano riscontrate
anche dai risultati dei servizi di osservazione svolti dalla polizia giudiziaria e dalle dichiarazioni
rese da tale D. S., che aveva aiutato le giovani M. e P. a sottrarsi al controllo dei loro sfruttatori.
151
In particolare, per quanto riguarda il delitto di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p.,
recentemente riformulato ad opera della legge 11/8/2003 n. 228 [1], il giudice del riesame ha messo
in evidenza che la riduzione i uno stato di soggezione continuativa, prevista e punita dalla norma,
emergeva chiaramente dalle dichiarazioni rese dalle suddette M. e P., le quali avevano descritto la
sistematica attività di violenza e di minaccia perpetrata dal G. al fine di costringerle ad esercitare la
prostituzione e approfittando del loro stato di necessità, derivante dall’essere clandestine in Italia e
senza passaporto, sottratto loro dal medesimo G. appena erano giunte in territorio italiano.
Il G. ha proposto personalmente ricorso per cassazione, deducendo due motivi a sostegno.
Col primo motivo lamenta una motivazione apparente in ordine alla sussistenza del delitto di cui
all’art. 600 c.p., giacché il Tribunale sul punto ha omesso di indicare gli elementi fattuali in base ai
quali ha ritenuto integrato il delitto medesimo; con il secondo motivo denuncia inosservanza o
erronea applicazione dell’art. 600 c.p.
Premesso che la norma richiede una interpretazione rigorosa, sostiene che lo stato di necessità
previsto dal secondo comma del predetto articolo va inteso nel senso indicato dall’art. 54 c.p.,
mentre il Tribunale lo ha fatto scorrettamente coincidere con lo stato di straniero clandestino.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La legge 11/8/2003 n. 228, recante misure contro la tratta delle persone, col suo art. 1, ha
integralmente ridefinito il reato di riduzione in schiavitù, sostituendo il previgente art. 600 c.p. con
il seguente art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù): chiunque esercita su una
persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una
persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali
ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con
la reclusione da otto a venti anni.
La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata
mediante violenza, minaccia, inganno abuso di autorità o approfittamento di una situazione di
inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di
somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona.
La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno
di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di
sottoporre la persona offesa al prelievo di organi.
Il legislatore, nell’evidente intento di conferire determinatezza alla fattispecie abrogata, che puniva
genericamente chiunque riduceva una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla
schiavitù, ha descritto analiticamente la condotta materiale del reato, configurando un delitto a
fattispecie plurima, che è integrato alternativamente: dalla condotta di chi esercita su una persona
poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario: è questo un reato di mera condotta,
parametrato sulla nozione di schiavitù prevista dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del
25/10/1926, ratificata con r.d. 26/4/1928 n. 1723, secondo il quale la schiavitù è lo stato o la
condizione di un individuo sui quali si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi;
dalla condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa,
costringendola a prestazioni lavorative (es. servitù per debiti) o a prestazioni sessuali, o
all’accattonaggio o comunque prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (es. servitù della
gleba): si tratta in questo caso di un reato di evento a forma vincolata, in cui l’evento, consistente
nello stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere
ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità
152
ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di
necessità.
Il legislatore del 2003, nel definire l’evento, riprende in parte la nozione di servitù per debiti quella
di servaggio o servitù della gleba definite rispettivamente nelle lettere a) e b) dell’art. 1 della
Convenzione supplementare di Ginevra del 7/9/1965, ratificata con lege 20/12/1957 n. 1304.
Aggiunge però l’accattonaggio e le prestazioni sessuali.
Ma soprattutto richiede una condotta del soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno,
abuso di autorità, o approfittamento di situazione di inferiorità o di necessità.
Lo stato di necessità come sopra previsto non è una causa di giustificazione del reato, bensì un
elemento della fattispecie, e più precisamente un presupposto della condotta approfittatrice
dell’agente.
Perciò, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, la nozione di necessità non corrisponde a
quella precisata nell’art. 54 c.p., ma è piuttosto paragonabile con la nozione di bisogno di cui all’art.
1448 cod. civ. e va intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale,
adatta a condizionare la volontà della persona.
Infatti, come nel caso di rescissione del contratto per lesione, nell’ipotesi di riduzione in schiavitù di
cui si tratta si verifica una sproporzione tra la prestazione della vittima e quella del soggetto attivo,
che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il secondo approfitti per trarne vantaggio (si
pensi proprio al caso di specie in cui l’imputato ospitava nella sua casa le donne immigrate
clandestinamente e, approfittando del loro stato di precarietà, le costringeva a prostituirsi per il suo
vantaggio).
Tanto premesso, va respinto il secondo motivo di ricorso (n. 2.2), giacché correttamente il tribunale
del riesame ha ritenuto che le straniere M. e P. versavano in uno stato di necessità, in quanto
immigrate clandestine, private per giunta del passaporto.
Di qui i gravi indizi di colpevolezza a carico del G., il quale le costringeva alla prostituzione
approfittando appunto del loro stato di necessità, ma anche sistematicamente percuotendole e
minacciandole (anche di morte).
Anche la prima censura appare chiaramente infondata, giacché l’ordinanza impugnata ha
puntualmente richiamato le dichiarazioni delle persone offese, i risultati dei servizi di osservazione
della polizia giudiziaria e infine le dichiarazioni di tale D. S., da cui risultavano in linea di fatto i
comportamenti, di minaccia e violenza, tenuti dal G. per costringere le donne alla prostituzione.
Il ricorso va quindi respinto.
Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Considerato il contenuto dell’impugnazione, non si ritiene di comminare anche la sanzione
pecuniaria a favore della cassa delle ammende.
PQM
153
La Corte Suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att. c.p.p. manda alla cancelleria per trasmettere copia della
sentenza al direttore dell’istituto penitenziario territorialmente competente.
SUCCESSIONE LEGGI PENALI
TRACCIA:
Tizio nel 2002 veniva sorpreso da Carabinieri alla guida della propria auto in stato di ebbrezza.
La vicenda processuale veniva portata innanzi al Giudice di Pace di Firenze; nel 2003, l’art. 186 del
codice della strada, come noto, veniva novellato, prevedendo, tra l’altro, una competenza diversa.
Il candidato, premessi cenni sulle teorie in tema di successioni di leggi nel tempo, affronti la
questione giuridica proposta, soffermandosi, in particolare, sul problema dell’applicabilità dell’art.
2 c.p. alle norme processuali, tenendo presente il principio del favor rei e quello della perpetuatio
jurisdictionis.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente era necessario esporre le varie tesi in tema di successione di leggi penali nel
tempo.
L’art. 2 c.p. sancisce il principio dell’irretroattività della legge penale, nonché quello della
retroattività della legge più favorevole.
In particolare, l’art. 2 comma II c.p. sancisce che se vi è un’abolitio criminis il fatto non costituirà
più reato; se, invece, vi è una modifica della legge (ex art. 2 comma III c.p.), tale che la legge
posteriore è diversa, potrà trovare applicazione solo quella più favorevole al reo (non si ha, in
questo caso, abolitio criminis, ma mera successione di leggi penali nel tempo).
Nella realtà non è sempre facile distinguere l’ipotesi di abolitio criminis da quella di successione di
leggi penali nel tempo (modifica).
La dottrina ha elaborato, sul punto, diverse tesi.
Secondo una prima tesi, occorre valutare se il fatto concreto è sussumibile sia nella nuova che nella
previdente normativa ed, in caso positivo, vi sarebbe la continuità del tipo di illecito, per cui non vi
sarebbe abolitio criminis, ma successione di leggi penali nel tempo, con conseguente applicabilità
della legge più favorevole (da vedere tendenzialmente in concreto).
Secondo una seconda ricostruzione, andrebbe valutato il disvalore penale del fatto, sotto il profilo
del bene protetto e della modalità di aggressione che, se permangono, sia nella nuova che nella
vecchia disciplina vi sarà continuità del tipo di illecito.
Secondo una terza tesi, invece, bisognerebbe valutare il nomen iuris, nel senso che alla modifica del
nomen iuris farà capo un’abolitio criminis, mentre se il nomen iuris non viene modificato, allora, vi
sarà continuità del tipo di illecito.
Il problema che, tuttavia, si pone nel caso di specie è quello di capire se l’art. 2 c.p. possa trovare
applicazione anche per le norme processuali, tanto più che in senso positivo sembrerebbe deporre il
principio del favor rei ed in senso negativo sembrerebbe deporre il principio della perpetuatio
jurisdictionis.
Invero, il principio della perpetuatio jurisdictionis (desumibile anche dall’art. 11 della legge in
generale) non andrebbe inteso in senso assoluto tanto che, più volte, è lo stesso legislatore che
154
prevede delle forme di deroga a tale principio, non violando, tra l’altro, l’art. 25 comma 2 Cost. (che
si riferisce a norme penali che prevedono nuove fattispecie incriminatrici o che aggravano quelle
esistenti); in questo senso, allora, una deroga al principio sopra detto ben potrebbe essere
giustificato nella misura in cui si tratti di norme più favorevoli, estendendo l’ambito applicativo
dell’art. 2 c.p. anche alle norme processuali.
CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO
Tizio è proprietario del fondo Tuscolano, esteso per diversi ettari in una zona industriale
abbandonata.
Un giorno, Tizio si accorge che da diversi anni sul proprio fondo, che non visitava da parecchio
tempo, sistematicamente Caio gettava rifiuti, commettendo il reato di cui all’art. 51 del d.lvo.
22/1997 (decreto Ronchi).
Tizio si preoccupava della propria posizione giuridica, anche perché non aveva recintato il fondo.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere sulla questione giuridica
prospettata.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente era necessario chiedersi se Tizio possa aver commesso il reato di concorso
omissivo in reato commissivo con Caio.
Invero, affinché Tizio possa entrare in concorso con Caio avrebbe dovuto agire con dolo ed essere
obbligato a recintare il fondo; non sussistendo, in particolare, tale ultimo obbligo, alcun reato potrà
essere imputato a Tizio, perché il reato omissivo si configura solo se vi è un obbligo giuridico di
attivarsi, con il corollario che, mancando questo, il reato non si configurerà.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
-Il proprietario del fondo non risponde a titolo di concorso omissivo nell’altrui reato ex art.
51, comma 2, D.Lgs. n. 22/1997 di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sul medesimo
fondo, neanche quando ne abbia consapevolezza. Ed invero, in omaggio al principio di
legalità, la condotta omissiva può dar luogo ad ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui
sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento, non gravante sul proprietario per i reati da
altri commessi sul suo fondo.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - SENTENZA 6 febbraio 2007, n. 137 - Pres. Lupoest. Teresi
155
SENTENZA
Con sentenza in data 26 settembre 2005 il Tribunale di Rimini condannava M.E. alla pena
dell’ammenda per avere, quale legale rappresentate dell’Immobiliare Green di C. G. e C. Sas,
consentito, omettendo la necessaria incombenza di recingere, vigilare e dissuadere utilizzatori
clandestini del terreno esteso circa 20.000 metri quadrati, che lo stesso divenisse deposito
incontrollato di circa 450 tonnellate di rifiuti urbani e speciali non pericolosi.
Rilevava il Tribunale che il deposito incontrollato era stato realizzato per l’incompleta recinzione
del terreno; che l’imputato, quale legale rappresentante della società, pur consapevole dello stato di
degrado dell’area, aveva tollerato la protrazione di tale situazione consentendo "con la sua condotta
dolosamente omissiva (essendosi intenzionalmente disinteressato delle sorti dell’azienda)", la
consumazione dell’illecito ravvisabile nella condotta omissiva di colui che riveste una posizione di
garanzia.
Proponeva ricorso per cassazione l’imputato denunciando violazione di legge; mancanza o illogicità
della motivazione in ordine alla configurabilità del reato perché la condotta omissiva del
proprietario di un terreno, in relazione alla realizzazione sullo stesso di un deposito incontrollato di
rifiuti da parte di terzi, integra concorso nel reato di cui all’articolo 51, comma 2, D.Lgs 22/1997
soltanto ove sussista l’obbligo giuridico d’impedire l’evento.
Inoltre, poiché i reati di discarica abusiva e di non autorizzato stoccaggio di rifiuti possono
realizzarsi solo in forma commissiva, una condotta omissiva (negligente) non può integrare il reato
contestato non gravando sul proprietario del terreno alcun obbligo di recinzione né d’immediata
eliminazione dei rifiuti abbandonati da altri.
Chiedeva l’annullamento della sentenza.
Il ricorso è fondato perché "in tema di gestione di rifiuti, la consapevolezza del proprietario del
fondo dell’abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi non è sufficiente ad integrare il
concorso nel reato di cui all’articolo 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997 (abbandono o deposito
incontrollato di rifiuti), atteso che la condotta omissiva può dar luogo ad ipotesi di responsabilità
solo nel caso in cui ricorrano gli estremi del comma 2 dell’articolo 40 C.p., ovvero sussista
l’obbligo giuridico di impedire l’evento" (Cassazione, Sezione terza, 32158/2002, Ponzio, rv.
222420).
Quindi, anche in materia ambientale un dato comportamento omissivo acquista il connotato
dell’antigiuridicità solamente in funzione di una norma che imponga al soggetto di attivarsi per
impedire l’evento naturalistico di lesione dell’interesse tutelato.
Tale posizione è configurabile nei confronti del produttore dei rifiuti il quale è tenuto a vigilare che
propri dipendenti o altri sottoposti o delegati osservino le norme ambientalistiche, dovendosi
intendere produttore di rifiuti, ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lettera b), del D.Lgs 22/97, non
soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il
soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi
configurabile, quale titolare di una posizione definibile come di garanzia, l’obbligo, sancito
dall’articolo 10, comma 1, del citato decreto, di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti nei
tempi medi prescritti.
156
Nella specie, non è stato ravvisato concorso nel reato, potendosi, quello esterno materiale, realizzare
con condotta commissiva mediante cogestione di fatto o morale (istigazione, rafforzamento,
agevolazione) ovvero con condotta omissiva - in linea teorica - ma sempre che il non agere s’innesti
in uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento (Cassazione, Sezione prima, 12431/1995,
Insinna, RV. 203332], sicché erroneamente è stato ritenuto che integri il reato contestato la condotta
del proprietario di un terreno che abbia omesso d’impedire che sul proprio fondo non recintato terzi
realizzassero un deposito incontrollato di rifiuti.
Il ricorso, pertanto, deve essere annullato senza rinvio.
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata per non avere l’imputato commesso il fatto.
Così deciso alla c.c. 16 novembre 2006.
CONCORSO DI REATI E CONCORSO APPARENTE DI NORME
TRACCIA:
Tizio acquista per 10.000,00 euro una donna polacca.
A seguito dell’acquisto la porta in Italia, rinchiudendola per diversi giorni in una stalla.
Successivamente, Tizio obbliga la donna polacca alla prostituzione.
Il candidato, premessi brevi cenni sul concorso di reati e sul reato progressivo, rediga motivato
parere sulla questione giuridica prospettata.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario accennare al problema del concorso di reati ed al reato
progressivo.
In generale, è possibile dire che si hanno più reati e non un unico reato, quando la condotta o le
condotte integrano gli estremi applicativi di più fattispecie penali incriminatrici, non trovando
applicazione né l’art. 15 c.p. e neanche l’art. 84 c.p.
In altri casi, invece, il concorso di norme è meramente apparente, nel senso, cioè, che solo
apparentemente vi sono più reati e norme idonee ad inquadrare un caso concreto, mentre, invero, è
applicabile una sola norma incriminatrice.
Per comprendere a pieno se si tratti di concorso apparente di reati o concorso di reati, secondo la
giurisprudenza più datata era necessario riferirsi al solo principio di specialità, ex art. 15 c.p., da
intendersi in astratto (il concetto di stessa materia andava individuato nell’ambito del medesimo
bene-interesse protetto, da individuare in base alla collocazione sistematica all’interno del codice
voluta dal legislatore), mentre secondo la giurisprudenza più recente, accogliendo le istanze della
dottrina, è possibile anche utilizzare il criterio della consunzione, anche al fine di non rendere l’art.
84 c.p. un inutile duplicato, al contrario, dell’art. 15 c.p., nonché al fine di rispettare il principio del
ne bis in idem sostanziale.
157
In questo contesto, allora, ben si colloca il reato progressivo che è una species del reato complesso,
ex art. 84 c.p.
Il reato progressivo, al pari del reato complesso, contiene come elemento costitutivo un reato
minore, in modo tale che la commissione del maggiore richiede (necessariamente o eventualmente)
il passaggio attraverso la commissione del minore.
La ragione della differente denominazione, come è stato acutamente osservato, starebbe in ciò: se,
alla stregua di un’analisi attenta al dato strutturale, si conclude per la qualificazione dell’attività
criminosa di tipo progressivo in termini di reato complesso, un esame attento, invece, al divenire
dell’illecito penale induce a cogliere le peculiarità tipicamente proprie del reato progressivo, in
specie il passaggio da un minus ad un maius; sotto tale profilo, allora, si comprende come il reato
progressivo, pur inquadrandosi nell’ambito dei reati complessi, ha una sua peculiarità dovuta alla
progressività della condotta, nell’ambito del medesimo disegno criminoso, da un minus ad un
maius.
In questo senso, allora, che reato ha commesso Tizio? Vi è spazio per il concorso tra sequestro di
persona, ex art. 605 c.p., e riduzione in schiavitù?
Alla luce di quanto è stato detto, sembrerebbe potersi dire che vi è stato un passaggio dal reato
meno grave (sequestro di persona) a quello più grave (riduzione in schiavitù) nell’ambito del
medesimo disegno criminoso, con la conseguenza logico-deduttiva che, a rigore, sembrerebbe
doversi escludere la pluralità di reati, a favore dell’unico reato, più grave, di riduzione in schiavitù.
TRASFUSIONI DI SANGUE E TESTIMONI DI GEOVA
TRACCIA:
Tizio medico dell’ospedale Vito Vitis di Genova, veniva chiamato d’urgenza ad operare Caio, noto
testimone di Geova.
Tizio faceva presente a Caio di doversi sottoporre ad una trasfusione di sangue, ma quest’ultimo si
rifiutava per i suoi convincimenti religiosi.
Tizio faceva presente a Caio che, laddove non si fosse sottoposto a trasfusione, con ogni probabilità
sarebbe morto; Caio ribadiva che preferiva morire che subire una trasfusione.
Successivamente, Caio perdeva coscienza, a causa della diversa quantità di sangue perduto.
Tizio decideva, allora, di procedere alla trasfusione, ipotizzando un consenso sopravvenuto.
Caio si salvava.
Il giorno dopo, Tizio, si recava dal legale Marcello, a cui esponeva quanto successo, precisando di
aver immaginato che, se Caio fosse rimasto cosciente, di certo, alla fine della discussione, avrebbe
prestato il proprio consenso.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire il fatto.
Successivamente, era fondamentale accennare al fatto che, di massima, l’attività medica trova la sua
fonte legittimante sia nel consenso del paziente, che nel profilo pubblicistico della difesa della
salute, ex art. 32 Cost.
158
Indubbiamente, Tizio, con la sua condotta ha agito senza consenso, rischiando di aver compiuto il
reato di violenza privata, ex art. 610 c.p.; di contro è pur vero che, la sua condotta, potrebbe essere
scriminata dal consenso presunto, ex art. 50 c.p. (eventualmente nascente anche da un errore di
fatto).
D’altronde, a giustificare la condotta del medico Tizio vi sarebbe sia l’art. 51 c.p., che imponeva a
Tizio di cercare di tutelare il proprio paziente (anche ex art. 32 Cost.), che l’art. 54, c.p., tale per cui
sembrerebbe potersi dire che, sotto tali angoli prospettici, Tizio avrebbe posto in essere una
condotta ampiamente scriminata.
Si consiglia di leggere le pronunce giurisprudenziali che seguono, seppur di diritto civile.
-Nel momento in cui le trasfusioni si rendano necessarie a scongiurare il pericolo di vita del
paziente, il sanitario che le effettui, seppur a conoscenza del rifiuto del paziente stesso, pone in
essere un comportamento scriminato ex articolo 54 c.p. che esclude la sussistenza di un
qualsiasi danno risarcibile.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 4211/2007
SEZIONE III CIVILE
(Presidente Varrone – Relatore Amatucci)
Svolgimento del processo
Con citazione del 14/10/2002 T. S. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di X.,
sezione stralcio, del 9/7/2002 di rigetto della domanda di risarcimento dei danni morali patiti per
essere stato costretto, contro la sua volontà a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di una
trasfusione sanguigna.
Premesso, in fatto, che la mattina del 15/5/1990 veniva, a seguito di un incidente stradale,
ricoverato presso il pronto soccorso dell’Ospedale Santa Chiara ed immediatamente trasferito nel
reparto rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con
emorragia in atto; che nel corso del successivo intervento chirurgico veniva sottoposto a trasfusione
sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio alle proprie convinzioni religiose
Testimone di Geova non voleva gli venisse praticato tale trattamento; tutto ciò premesso, si doleva
dell’erroneità ed offensività della scarna sentenza, impugnata sotto diversi profili.
In primo luogo lamentava che il primo Giudice avesse affermato che,non essendo stato contestato ai
sanitari alcun reato, non potesse essere loro addebitata alcuna responsabilità, ben potendo, al
contrario, il Giudice civile accertare la sussistenza di un reato al limitato fine di decidere sulla
domanda risarcitoria. Nella specie, in considerazione dell’esplicita manifestazione di volontà diretta
a rifiutare la trasfusione, la consapevole e volontaria violazione, da parte dei sanitari, di tale volontà
configurava gli estremi del reato di violenza privata.
In secondo luogo, il Tribunale aveva ritenuto che i sanitari si fossero trovati di fronte alla necessità
di salvargli la vita e che, conseguentemente, ciò avrebbe reso comunque lecito, ai sensi dell’articolo
159
54 c.p., il loro comportamento. Senonché il presunto stato di necessità da una parte era stato causato
dagli stessi sanitari, che erano intervenuti tardivamente operandolo dopo ben sei ore dal ricovero,
dall’altra sarebbe stato evitabile trasferendolo in altro nosocomio attrezzato per l’autotrasfusione.
L’invito offensivo del Giudice a rivolgersi a “guaritori o sciamani”, poi, era del tutto inconferente
non avendo egli assolutamente rifiutato la medicina tradizionale ma solo quel trattamento medico;
del pari inaccettabili le considerazioni “etiche” del primo Giudice in ordine alla richiesta risarcitoria
ed all’uso che avrebbe fatto della somma eventualmente percepita (mancata devoluzione in
beneficenza).
Chiedeva pertanto, in riforma dell’impugnata decisione, il risarcimento di tutti i danni morali,
patrimoniali e biologici subiti.
Si costituiva in giudizio l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di X.
(ex USL 5) eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità delle nuove domande volte ad ottenere il
risarcimento anche del danno biologico e patrimoniale. Nel merito, chiedeva la conferma
dell’impugnata decisione, evidenziando come la trasfusione fosse stata effettuata quando non
c’erano alternative in considerazione delle condizioni di salute del S.; precisava come il diritto alla
vita costituisse un diritto indisponibile costituzionalmente garantito di cui nessuno poteva disporre e
come il rifiuto alla trasfusione fosse stato effettuato in un momento in cui le condizioni di salute
non erano così gravi come quelle verificatesi poi, in sala operatoria, quando tale dissenso non
poteva più essere manifestato. In ogni caso, se anche volessero ritenersi ravvisabili gli estremi di un
reato, il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato, ai sensi dell’articolo 54 c.p., dalla
necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte.
Con sentenza 19 dicembre 2003 la Corte di Appello X. rigettava il gravame e dichiarava
interamente compensate le spese del grado, affermando: che il primo problema era accertare se
fosse possibile evitare le trasfusioni, se, cioè, l’aggravarsi dell’emorragia nel corso dell’operazione
fosse prevedibile fin dal momento del ricovero; che la risposta doveva essere negativa dal momento
che l’aggravamento delle condizioni del paziente era sopravvenuto appunto durante l’intervento e
non poteva essere imputato ai sanitari; che l’altro nodo fondamentale da accertare era se il rifiuto al
trattamento trasfusionale manifestato al momento del ricovero potesse ritenersi operante anche al
momento in cui le trasfusioni si erano rese necessarie; che la risposta era “se non sicuramente
negativa, quantomeno fortemente dubitativa”, essendo assai dubbio che il S., qualora avesse saputo
dell’effettiva gravità della lesione e dell’incombente pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il
suo dissenso, che per essere valido deve essere inequivocabile, attuale, effettivo e consapevole; che,
comunque, anche nell’ipotesi in cui l’iniziale dissenso dovesse ritenersi perdurante nel tempo e che
quindi i medici si fossero trovati ad operare nella certezza che il trattamento trasfusionale non era
consentito dal paziente, tuttavia il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato alla luce
dell’articolo 54 c.p., essendosi trovati nella necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente
pericolo di morte.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il S., affidandolo a due motivi, ai quali ha
resistito l’azienda provinciale per i servizi sanitari della provincia autonoma di X. con
controricorso.
Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la contraddittorietà e comunque la insufficienza
della motivazione su punti decisivi della controversia, lamenta che il giudice del gravame non si è
neppure posto il problema della evidente negligenza professionale dei sanitari nel l’inadeguatezza
160
della diagnosi quanto alla lesione vascolare, nel senso che il quadro clinico, gravemente
compromesso e peggiorato manifestatosi nel corso dell’intervento chirurgico, era perfettamente
prevedibile proprio alla luce della diagnosi d’ingresso del paziente. In particolare, il S. afferma, in
primo luogo, che la Corte d’appello aveva contraddittoriamente ritenuto che, durante l’intervento
chirurgico, gli operatori s’erano trovati dì fronte ad una situazione non prevedibile al momento del
ricovero e dei successivi esami clinici e strumentali per essere stata in origine diagnosticata una
semplice lesione dell’arteria e della vena succlavia” e per essere stata invece riscontrata una
“lacerazione” delle stesse in sala operatoria. Proprio la diagnosi di “lesione” dell’arteria e della vena
succlavia avrebbe dovuto, all’opposto, indurre i sanitari ad intervenire immediatamente per frenare
l’emorragia, così rendendo superflue le trasfusioni, invece di operare solo cinque ore più tardi,
quando non erano più possibili terapie alternative alla trasfusione ematica ed il quadro clinico si
presentava, come era del tutto prevedibile, gravemente peggiorato. Né poteva conferirsi alla
diagnosi di “lesione dell’arteria e della vena succlavia” una valenza tanto riduttiva da escludere che
essa comprendesse l’ipotesi, poi effettivamente riscontrata, dì una possibile lacerazione vascolare,
giacché continua il ricorrente in tal caso ai medici sarebbe stato ascrivibile un errore diagnostico
risoltosi non solo nella sottoposizione del paziente ad un trattamento terapeutico esplicitamente e
ripetutamente rifiutato, ma anche nell’amputazione completa del braccio sinistro che era stata poi
necessario praticare.
Si sostiene, in secondo luogo, che il paziente aveva immediatamente domandato di essere trasferito
in un ospedale attrezzato per terapie alternative alla trasfusione ematica. La Corte d’appello aveva
escluso che ai sanitari fosse ascrivibile qualsiasi responsabilità al riguardo in quanto le
indispensabili indagini strumentali avrebbero consentito che ciò avvenisse “al più verso le ore 10”,
quando egli non era più in condizione di essere trasferito. Ma osserva il ricorrente se già alle 10 i
valori dell’ematocrito erano tanto pregiudicati da rendere impraticabile il trasferimento, è stato
logicamente contraddittorio concludere sia che la situazione di emergenza fosse imprevedibile al
momento del successivo intervento chirurgico, sia che i medici non versassero in colpa per non
avere immediatamente frenato l’emorragia, suturando i vasi la cui “lesione” pure era stata
riscontrata dalla ore 7,05.
Né, ancora, la Corte di merito s’era chiesta se l’arteriografia (pur ritenuta necessaria, unitamente
all’indagine radiologica ed a quella tomografica, al fine di giustificare il tempo trascorso fino alle
ore 10) fosse stata effettivamente eseguita, così offrendo anche una motivazione insufficiente sul
punto.
Con il secondo motivo il S. denuncia la violazione e la falsa applicazione degli articolo 13, comma
1 e 32, comma 2, Costituzione e 54 c.p., contestando l’affermazione della Corte territoriale circa la
non operatività del suo dissenso alle trasfusioni anche nel successivo momento in cui le stesse si
erano rese necessarie. Obietta al riguardo il ricorrente che la richiesta di consenso per la trasfusione
non poteva che riferirsi alla necessità di tale trattamento per il mantenimento in vita del paziente e
che pertanto il suo rifiuto, espresso sino a pochi minuti prima dell’operazione, era pienamente
valido anche pochi minuti dopo ed avrebbe dovuto indurre i medici a non violentare la sua volontà,
ma ad adeguarvisi anche se ciò avesse dovuto mettere in pericolo la sua stessa vita.
Osserva inoltre che il richiamo della Corte di merito all’articolo 54 c.p. è erroneo, sia in ragione del
fatto che lo stato dì necessità era venuto a determinarsi per negligenze degli stessi medici che si
erano avvantaggiati della sua applicazione, sia perché lo stato di necessità può “sostituirsi al
consenso mancante per rendere lecito un intervento medico d’urgenza, ma non può in alcun caso
elidere e sopraffare il dissenso validamente espresso”, la cui vincolatività si basa sui principi
espressi dalle. citate norme costituzionali. E, nel caso in esame, il paziente aveva legittimamente
161
rifiutato un trattamento medico (trasfusione) che, nella sua scala di valori, gli pareva inaccettabile
per motivi morali e religiosi, anche a costo del sacrificio della vita stessa.
Che, del resto, un intervento terapeutico non possa essere praticato senza il consenso “libero ed
informato” del paziente è stabilito dall’articolo 5 della legge 28 marzo 2001 (recante “ratifica ed
esecuzione della convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della
dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina”), la quale fa
bensì salvi gli interventi di urgenza indispensabili (articolo 8), ma con la precisazione che “i
desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento da parte di un paziente che, al
momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno presi in
considerazione” (articolo 9); nonché dall’articolo 32 (recte, 40) del codice di deontologia medica, il
quale prescrive che non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”.
Nella specie conclude il ricorrente dopo diffusi richiami della giurisprudenza di legittimità e di
merito l’essere stata la trasfusione praticata nonostante un dissenso manifestato per motivi religiosi
(in quanto la stessa non è, appunto, ammissibile per gli aderenti alla fede dei testimoni di Geova)
l’atto compiuto dai medici aveva comportato anche la violazione del principio stabilito dall’articolo
19 della Costituzione.
I due motivi, che per la stretta connessione e conseguenzialitá logico-giuridica possono esaminarsi
congiuntamente, non sono fondati.
Per quanto concerne il primo motivo la Corte trentina, condividendo con apprezzamento
consapevole e critico le conclusioni del C.T.U. , ha ritenuto che al momento del ricovero “appariva
possibile una terapia alternativa alla trasfusione, che fu correttamente attuata dai sanitari della
rianimazione”; che le emotrasfusioni si erano rese necessarie nel corso dell’intervento chirurgico
“quando l’ulteriore peggioramento dell’ematocrito, l’ipertensione arteriosa ed il sanguinamento
copioso dell’arteria lacerata ha fatto temere per la vita del paziente”; che il riscontro dell’importante
lacerazione dell’arteria e della vena succlavia aveva prodotto necessariamente una emorragia del
campo operatorio molto maggiore di quella prevista prima dell’intervento quando, in sede di visita
preoperatoria, l’anestesista aveva annotato, mediante l’arteriografia, una ostruzione arteriosa a
causa di un grosso ematoma, cosicché l’intervento era presumibilmente limitato allo svuotamento
dell’ematoma ed alla decompressione dell’arteria; che neppure il C.T. di parte aveva ipotizzato la
prevedibilità ex ante della lacerazione dell’arteria; che l’accertata situazione, oggettivamente
diversa da quella iniziale, non poteva essere rimediata con il trasferimento del paziente
nell’ospedale, meglio attrezzato, di Piacenza, atteso che le condizioni generali del S. e la caduta
verticale dei valori ematici rendevano tale viaggio “molto rischioso per la vita”; tutto ciò premesso,
la suddetta Corte ha tratto la conclusione che l’aggravamento del paziente, rivelatosi in sede
operatoria, costituiva una situazione clinica oggettivamente e pesantemente diversa da quella
diagnosticata all’atto del ricovero, non altrimenti evitabile e, soprattutto, non causata da imperizia
e/o negligenza dei sanitari (si tenga presente, a quest’ultimo riguardo, che il S., pur avendo dovuto
successivamente subire l’amputazione dell’arto, non ha mai proposto domanda risarcitoria per
responsabilità professionale ex articolo 2236 c.c.).
Orbene, sembra doversi riconoscere che tali conclusioni sono sostenute da una motivazione ampia,
analitica e niente affatto contraddittoria ed il primo motivo va, pertanto, rigettato.
Le conclusioni svolte introducono opportunamente l’esame dell’altro motivo con cui si affronta il
nodo fondamentale per la decisione della presente controversia: accertare, cioè, se il rifiuto al
trattamento trasfusionale, esternato dal S. al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche
al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie.
162
Il giudice del gravame, conformemente a quello di primo grado. ha ritenuto che la risposta ... è, se
non sicuramente negativa, quanto meno fortemente dubitativa” in quanto “è più che ragionevole
chiedersi se iI S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’attuale pericolo di
vita, avrebbe senz’altro ribadito il proprio dissenso”. Ciò in virtù delle seguenti considerazioni: che
anche il dissenso, come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole; che
l’originario dissenso era stato espresso dal S. in un momento in cui le sue condizioni di salute non
facevano temere un imminente pericolo di vita, tanto che il paziente era stato trattato con terapie
alternative, che lo stesso S. aveva chiesto, qualora fosse stato ritenuto indispensabile ricorrere ad
una trasfusione, di essere immediatamente trasferito presso un ospedale attrezzato per
l’autotrasfusione, così manifestando, implicitamente ma chiaramente, il desiderio di essere curato e
non certo di morire pur di evitare d’essere trasfuso; che alla luce di questi elementi e di un dissenso
espresso prima dello stato d’incoscienza conseguente all’anestesia, era lecito domandarsi se
sicuramente il S. non volesse essere trasfuso, ... o se invece fosse altamente perplesso e dubitabile,
se non certo, che tale volontà fosse riferibile solo al precedente contesto temporale, meno grave, in
cui l’uomo non versava ancora in pericolo di vita.
Ha aggiunto il suddetto giudice che anche nell’ipotesi in cui il dissenso originariamente manifestato
dal S. fosse ritenuto perdurante, comunque il comportamento adottato dai sanitari sarebbe stato
scriminato ex articolo 54 c.p. e che, quindi, esclusa l’illiceità di tale comportamento, doveva
escludersi la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile.
Ora questa Corte, pur consapevole dell’importanza morale e culturale, prima ancora che giuridica
della questione, ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza (perché, oltre alle asserite
violazioni di legge, il ricorrente denuncia implicitamente anche un vizio di contraddittorietà della
motivazione a pag. 9 - 10 del ricorso) non sia censurabile. Perché questo è il problema da risolvere:
non circa il valore assoluto e definitivo di un dissenso pronunciato in virtù di un determinato credo
ideologico e religioso (il rifiuto delle trasfusioni di sangue è fondato dalla comunità dei Testimoni
di Geova su una particolare lettura di alcuni brani delle scritture: Gen. 9,3 - 6; Lev. 17,11; Atti 15,
28, 29), ma la correttezza della motivazione con cui il giudice trentino ha ritenuto che il dissenso
originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in
un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo
di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello dei paziente ormai anestetizzato.
Va aggiunto e precisato che tale motivazione non è viziata da errori di diritto, perché rispettosa
della legge 145/01 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la
protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della
biologia e della medicina), che all’articolo 9 stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a
proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in
grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. e che i sanitari trentini li
abbiano tenuti in considerazione, risulta non foss’altro dall’avere interpellato telefonicamente, in
costanza di intervento operatorio, il Procuratore della Repubblica ricevendone implicitamente un
invito ad agire. Per il resto, la motivazione sì fonda su argomenti congrui e logici, non conformi alle
credenze della Comunità religiosa d’appartenenza del S., ma certo aderenti ad un diffuso sentire in
questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle
terapie e dei dolore (si consideri ad esempio, che nei vari disegni di legge sul “testamento
biologico”, contenente cioè le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie
consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano
vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella
clinica). Insomma, delle varie situazioni configurabili nell’attuale vivace dibattito sul tema
drammatico della morte, situazioni da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti
(accanimento terapeutico, rifiuto dì cure, testamento biologico, suicidio assistito), il tema in esame
163
riguarda appunto il rifiuto delle cure; ma non nel senso di statuire sulla legittimità del diritto di
rifiutare nel caso dei Testimoni di Geova le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte,
ma, più limitatamente di accertare la legittimità del comportamento dei sanitari che hanno praticato
la trasfusione nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più
valido ed operante. A questo specifico riguardo la statuizione della Corte trentina dove ritenersi
corretta ed il ricorso del S. non può trovare accoglimento.
La novità e la delicatezza delle questioni trattate costituiscono giusti motivi per compensare le spese
di questo grado.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese dei giudizio di cassazione.
- Il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi
costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal
Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla
Convenzione Europea, ma purtroppo che non è regolato dal diritto.
Tribunale di Roma
Sezione Prima Civile
Ordinanza 15 – 16 dicembre 2006
(Giudice Istruttore: Salvio)
Premesso in fatto
Con ricorso ex art. 700 C.P.C. proposto ante causam dal sig. Piergiorgio Welby nei confronti della
ANTEA Associazione Onlus ed il Dott. Giuseppe Casale è stato chiesto: "accertato e dichiarato il
diritto del ricorrente ad autodeterminarsi nella scelta delle terapie mediche invasive alle quali
sottoporsi e, quindi, il diritto del medesimo ricorrente di manifestare il proprio consenso a taluni
trattamenti ed il rifiuto ad altri; presto atto ed accertato, altresì che il Signor Piergiorgio Welby ha
espresso, e ribadisce con il presente atto, la propria libera, informata, consapevole ed incondizionata
volontà a che sia immediatamente cessata l'attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo
di ventilatore artificiale mentre sia proseguita e praticata la terapia di sedazione terminale; sia
ordinato al Dott. Giuseppe Casale ed alla Antea Associazione Onlus, soggetti che hanno in cura il
ricorrente, di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale che assicura la respirazione
assistita del Signor Welby, contestualmente somministrando al paziente terapie sedative che, in
conformità con le migliori ed evolute pratiche e conoscenze medico-scientifiche, risultino idonee a
prevenire e/o eliminare qualsiasi stato di sofferenza fisica e/o psichica del paziente stesso con
modalità tali da rispettare momento per momento, sia all'atto del distacco dal respiratore che
successivamente, il massimo rispetto delle condizioni di dignità e di sopportabilità del suo stato da
parte del paziente; disporre, in ogni caso, tutte le misure ritenute più adeguate a dare concreta
attuazione agli interessi e ai diritti esercitati dal ricorrente".
Il ricorrente ha esposto: di essere affetto da anni da un gravissimo stato morboso degenerativo,
clinicamente diagnosticato quale "distrofia fascioscapoloomerale; che il progredire della malattia,
seguendo un decorso non inatteso, ha comportato che, allo stato odierno, al ricorrente è inibito
qualsiasi movimento di tutto il corpo, ad eccezione di quelli oculari e labiali, e la sua sopravvivenza
è assicurata esclusivamente per mezzo di un respiratore automatico al quale è collegato dal 1997;
che la tipologia del morbo è tale che, sulla base delle attuali conoscenze medico-scientifiche, i
trattamenti sanitari praticabili non sono in condizione di arrestarne in nessun modo l'evoluzione e,
164
quindi, hanno quale unico scopo quello di differire nel tempo l'ineludibile e certo esito infausto,
semplicemente prolungando le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica ed il gravissimo
stato patologico in cui versa il ricorrente; che, nonostante sia, nel fisico, completamente
immobilizzato, il deducente conserva intatte le proprie facoltà mentali ed è, dunque, in grado di
esprimere una volontà pienamente informata e consapevole circa l'accettazione o il rifiuto dei detti
trattamenti, che, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia in fase irreversibilmente
terminale, dopo essere stato debitamente informato dei trattamenti praticabili e delle relative
conseguenze, ha consapevolmente ed espressamente richiesto alla struttura ospedaliera ed al medico
dai quali è professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di
sostentamento in atto e di voler ricevere assistenza nei limiti in cui sia necessario a lenire le
sofferenze fisiche; che il ricorrente, in particolare, ha dichiarato, in data 24 novembre 2006, con
volontà chiaramente ed univocamente espressa, che non consente a proseguire l'utilizzo, sulla
propria persona, del ventilatore polmonare, chiedendo espressamente che si proceda al distacco di
tale apparecchio, peraltro "sotto sedazione terminale", e, dunque, con espressa indicazione circa la
contestualità tra il distacco medesimo ed il trattamento sedativo teso a scongiurare ulteriori
patimenti; che la struttura ospedaliera ed il medico curante, in data 25 novembre 2006, hanno, per
iscritto, opposto un rifiuto alla richiesta del Signor Welby, assumendo di non poter dare seguito alla
volontà espressa dal paziente, in considerazione degli obblighi ai quali si ritengono astretti; che, in
particolare, il medico curante, pur non negando di essere "obbligato per legge a rispettare la
volontà" del sig. Welby, e dunque ad essere obbligato al distacco del ventilatore polmonare sotto
sedazione, rilevato che ciò comporta "pericolo di vita", ha opposto che quando il paziente fosse
sedato, e dunque "non più in grado di decidere" scatterebbe immediatamente in relazione al rischio
di vita, l'obbligo di "procedere immediatamente" a riattaccare il ventilatore polmonare medesimo al
fine di "ristabilire la respirazione"; che il rifiuto opposto alla richiesta del ricorrente è ingiustificato
in base alle seguenti argomentazioni: 1) è principio pacifico che il consenso informato costituisce la
base di ogni trattamento terapeutico; 2) che esso riceve protezione direttamente da norme di rango
costituzionale (artt. 2, 13 e 32 Cost.) e ne consegue che ogni persona può vantare un vero e proprio
diritto perfetto a liberamente e consapevolmente determinarsi in ordine al compimento o al rifiuto
del compimento di qualsiasi attività invasiva di trattamento o terapia di natura medica e che tale
diritto comprende quello di interrompere le terapie alla cui somministrazione sia stato in
precedenza, manifestato il proprio assenso - cosa che, tra l'altro non è dato riscontrare nella specie
in quanto l'applicazione, all'epoca, del respiratore automatico non venne preceduta da assenso del
ricorrente, trovandosi in quel momento nella impossibilità di esprimerlo; 3) che il rapporto tra la
libertà di disporre consapevolmente in ordine ai trattamenti terapeutici e la tutela del bene vita deve
essere riconsiderato alla luce della evoluzione scientifica che incide sugli eventi naturali, quali il
concepimento e la morte, qualificati, per i riflessi che hanno su di essi i progressi scientifici, quali
"processi gestibili" e che, in conseguenza, di ciò si chiede, non tanto di opporsi agli eventi naturali,
bensì di poter interloquire con quei soggetti (medici) che gestiscono la fase terminale della vita; 4)
in forza del diritto ad autodeterminarsi nella scelta sulle caratteristiche, sui termini e sui limiti dei
trattamenti cui il paziente intende sottostare, il principio del consenso informato alla interruzione
della terapia comporta che il rifiuto cosciente e volontario dei trattamenti sanitari non desiderati
viene espresso anche per la situazione successiva alla sedazione, in quanto ben rappresentata ed
attuale nella coscienza e volontà del soggetto allorquando consente alla interruzione, ed i successivi
eventi non costituiscono situazioni nuove o imprevedibili rispetto al momento in cui il consenso
cosciente e volontario è stato manifestato: che sussiste la necessità di protezione urgente dei diritti
del ricorrente, risultando particolarmente intollerabile, a livello psicologico, dover sottostare a
terapie sanitarie che egli, a ragione, considera quale indebita ed illecita intrusione nella propria sfera
personale e che ritiene, stante la loro sostanziale inutilità per il miglioramento della propria salute,
profondamente lesive della propria dignità in quanto non utili neppure a perseguire benefici in
termini di qualità della vita, e che il pregiudizio può essere rimosso solo rimuovendo senza indugio
le cause che lo determinano.
165
Instauratosi il contraddittorio, si sono costituiti la Antea Associazione Onlus ed il Dott. Giuseppe
Casale, medico e coordinatore della Associazione stessa, ed hanno richiesto, in via preliminare,
rigettare la domanda per difetto di legittimazione passiva; nel merito, respingere il ricorso.
Il Pubblico ministero è intervenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 70 Cpc ed ha concluso che, sotto il
profilo dell'esistenza del diritto ad ottemperare il trattamento terapeutico non voluto, con le
modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolto; per ciò che riguarda la possibilità di
ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, il ricorso è inammissibile, perché trattasi di scelta
discrezionale del medico.
Ritenuto in diritto
In primo luogo deve essere affermata la non ritualità del deposito di note di chiarimento in data
14/12/2006 da parte degli avvocati di parte ricorrente, quando già il fascicolo era stato preso in
riserva del Giudice, ed al di fuori della regolare esplicazione del contraddittorio all'interno del
processo.
Pertanto dello scritto non autorizzato non può tenersi conto; peraltro, va anche osservato, la non
influenza, ai fini del decidere, delle argomentazioni illustrative aggiuntive ivi prospettate, in quanto
il thema decidendum era già stato integralmente puntualizzato, in tutti i suoi aspetti ed implicazioni,
negli scritti precedenti e nell'udienza di trattazione del ricorso.
Va, preliminarmente, respinta l'eccezione di difetto di legittimazione passiva avanzata dai resistenti,
in quanto di fatto superata, sia sulla base della documentazione allegata al ricorso (v. cartella clinica
del sig. Welby, dalla quale risulta la presa in carico del paziente da parte dell'Associazione Antea
Onlus, sottoscritta dal Dott. Casale), sia dalle stesse dichiarazioni rese in udienza dal Dott. Giuseppe
Casale (v. verbale del 12/12/2006).
Il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle
società culturalmente evolute; esso permette alla persona, in un'epoca in cui le continue conquiste e
novità scientifiche nel campo della medicina consentono di prolungare artificialmente la vita,
lasciando completamente nelle mani dei medici la decisione di come e quando effettuare
artificialmente tale prolungamento, con sempre nuove tecnologie, di decidere autonomamente e
consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della
decisione sul se ed a quali cure sottoporsi.
Nel corso degli anni è profondamente mutato il modo di intendere il rapporto medico-paziente, e il
segno di questa trasformazione è proprio nella rilevanza assunta dal consenso informato, che ha
spostato il potere di decisione del medico al paziente, in cui quest'ultimo è diventato protagonista
del processo terapeutico.
Il quadro di riferimento dei principi generali si rinviene innanzitutto negli artt. 2, 13 e 32 Cost., ed
abbraccia la tutela e promozione dei diritti fondamentali della persona della sua dignità ed identità,
della libertà personale e della salute.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale ha fatto emergere
l'ampiezza di tale principio, nel senso che qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura
terapeutica che non terapeutica, non può avvenire senza o contro il consenso della persona
interessata, in quanto l'inviolabilità fisica costituisce il nucleo essenziale della stessa libertà
personale; mentre, l'imposizione di un determinato trattamento sanitario può essere giustificato solo
se previsto da una legge che lo prescrive in funzione di tutela di un interesse generale e non a tutela
della salute individuale e se è comunque garantito il rispetto della dignità della persona (art. 32
Cost.)
Il principio trova riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea nella
Convenzione europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina di Oviedo del 1997, ratificata con Legge
28 marzo 2001 n.145 nel Codice di deontologia medica, in molte leggi speciali, a partire dal quella
istitutiva del Servizio sanitario nazionale.
Il codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente
consapevolmente la rifiuti (art. 32) e, inoltre, nel caso in cui il paziente non è in grado di esprimersi,
166
la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando la ritenga
"ragionevolmente utile" (art. 37).
Pertanto, il principio dell'autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti
sanitari può considerarsi ormai positivamente acquisito ed è collegato al dovere del medico di
informare il paziente sulla natura, sulla portata e sugli effetti dell'intervento medico, che è
condizione indispensabile per la validità del consenso, ed è il presupposto dialettico del rapporto
medico-paziente nonché fondamento di obblighi e responsabilità di quest'ultimo; esso, tuttavia,
presenta aspetti problematici in termini di concretezza ed effettività rispetto al profilo della libera e
autonoma determinazione individuale sul rifiuto o la interruzione delle terapie salvavita nella fase
terminale della vita umana.
Ritiene il giudicante, alla stregua dei principi sopra richiamati, e considerati i seguenti elementi: 1)
le applicazioni pratiche che dei detti principi ha effettuato la giurisprudenza - che ad esempio, per
quel che più può interessare il caso oggetto di esame, ha ritenuto di sussistere in capo alla persona
un vero e proprio diritto soggettivo perfetto a rifiutare liberamente e consapevolmente la terapia,
anche nel caso in cui quest'ultima consentirebbe di salvare la vita al paziente (ad esempio rifiuto
della trasfusione per motivi religiosi), ravvisando il reato di violenza privata nel comportamento del
medico che imponesse la terapia contro la volontà del paziente (ad es. Cass. Sez. I, 11 luglio 2002,
n. 26646) o che ha ritenuto scriminante dal consenso informato del paziente prestato prima
dell'anestesia tutte le attività mediche, i trattamenti e i rischi prevedibili al momento della
prestazione del consenso, che siano stati preventivamente illustrati al paziente e volontariamente
accettati prima della perdita di coscienza (v. fra le altre Cass. Sez. III n. 14638/2004) -; 2) le
indicazioni contenute nel codice di deontologia medica, che all'art. 34 prescrive: "... se il paziente
non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere
conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso"; 3) la disposizione di cui all'art. 9 della
Convenzione di Oviedo (ratificata, anche se mancante dell'attuazione della delega di cui all'art. 3
della Legge 28 marzo 2001 n.145 ), che dispone che in caso di perdita irreversibile della coscienza
bisogna tener conto delle direttive precedentemente espresse dal paziente; 4) l'intervento del
Comitato nazionale di bioetica (18 dicembre 2003) che si è occupato delle "dichiarazioni anticipate
di trattamento", affermando che esse si iscrivono in un positivo processo di adeguamento dell'atto
medico al principio di autonomia decisionale del paziente, che non possa negarsi la rilevanza
centrale assunta dal consenso informato del paziente e la positivizzazione del principio
dell'autodeterminazione della persona in ordine ai trattamenti sanitari nella sua massima espansione,
fino a comprendere il diritto di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico e di terapia,
di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interrompere la terapia, in
tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, in cui deve ritenersi riconosciuta all'individuo la
libertà di scelta del come e del quando concludere il ciclo vitale, quando ormai lo spegnimento della
vita è ineluttabile, la malattia incurabile e per mettere fine alle proprie sofferenze.
Il tema della rilevanza della volontà individuale nel caso dei malati terminali da tempo anima il
dibattito scientifico, filosofico, religioso e giuridico - anche sulla spinta del confronto con le
esperienze di altri Paesi europei e non, in cui in qualche misura si è colto l'impegno negli ultimi
anni per la predisposizione di una regolamentazione della materia: v. in particolare Olanda, Belgio,
Stati Uniti, Canada, Australia, Inghilterra - e appare segnato da questioni eticamente laceranti, che
tuttavia non possono essere ignorate perché già penetrate profondamente nella coscienza civile e
nella pratica della medicina, specie laddove la terapia di mantenimento in vita viene continuata
contro la volontà del paziente, quando si trovi in condizioni talmente gravi da far ritenere di voler
negare al malato una morte dignitosa, prolungando una sofferenza ormai insostenibile.
Il nodo centrale è che, siccome l'ordinamento giuridico va considerato nell'intero complesso, appare
non discutibile che esso non preveda nessuna disciplina specifica sull'orientamento del rapporto
medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell'attuazione pratica del principio
dell'autodeterminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o
l'interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente; anzi, il principio di fondo
167
ispiratore è quello della indisponibilità del bene vita: v. art. 5 del codice civile, che vieta gli atti di
disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e, soprattutto gli artt. 575,
576, 577, I comma n. 3, 579 e 580 del codice penale che puniscono, in particolare, l'omicidio del
consenziente e l'aiuto al suicidio.
Rispetto al bene vita esiste, altresì, un preciso obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e
mantenere in vita il paziente: "anche su richiesta del malato non deve effettuare né favorire
trattamenti diretti a provocare la morte" (art. 35 del codice deontologico) e "in caso di malattie a
prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera
all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i
trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita. In caso di
compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale
finché ritenuta ragionevolmente utile. Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non
sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo" (art. 37 del codice
deontologico).
E allora lo sforzo di attuazione del principio della libertà individuale e di elaborazione del contenuto
del consenso per le scelte di trattamento medico di fine vita nei malati terminali, tema molto
presente nella sensibilità culturale, scientifica, etica e religiosa generale, richiede necessariamente il
superamento della impostazione formale della generale doverosità giuridica del mantenimento in
vita del paziente e il leale ripensamento delle categorie distintive fra comportamenti passivi e
comportamenti attivi del medico, in particolare valorizzando l'essenza e il rispetto della dignità
umana, la qualità della vita, e facendo ricorso ai concetti di futilità o inutilità del trattamento
medico, di incurabilità della malattia, di insostenibilità della sofferenza e di condizioni degradanti
per l'essere umano.
Il Comitato nazionale per la bioetica è intervenuto muovendo dalla premessa che la morte non può
essere considerata come un mero evento biologico o medico, essendo essa portatrice di un
significato nel quale deve essere individuata la radice della dignità dell'essere umano. La morte
assegna all'essere umano un compito morale, che è quello di trovare un senso che guidi e assicuri la
sua libertà.
Alla luce di questa visione, il Cnb considera criticamente ogni ipotesi di accanimento terapeutico,
che volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire si pone contro la
consapevolezza del soggetto alla propria invincibile caducità. L'accanimento terapeutico viene
definito come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo, a cui si aggiunge
la presenza di un rischio elevato per il paziente di ulteriori sofferenze, in un contesto del quale
l'eccezionalità dei mezzi adoperata risulta chiaramente sproporzionata rispetto agli obiettivi.
L'art. 14 del codice deontologico medico vieta l'accanimento diagnostico terapeutico: "Il medico
deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un
beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita".
Alcuni spunti di elaborazione, del tutto condivisi da questo Giudicante, possono trarsi dal decreto
della Corte d'Appello di Milano del 26/11/1999 (anche se riguarda un caso differente di paziente in
stato vegetativo persistente, per il quale era stata richiesta l'interruzione delle cure mediche che
consentivano il protrarsi dello stato vegetativo, nonché l'alimentazione artificiale) : "Il dovere
giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all'incurabilità della malattia, giacché
ogni protrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto ad oggetto, viola la sua dignità.
Nell'eccezione più accreditata invero l'accanimento terapeutico, si presenta come una cura inutile,
futile, sproporzionata, non appropriata rispetto ai prevedibili risultati, che può, pertanto, essere
interrotta, perché incompatibile con i principi costituzionali, etici e morali di rispetto, di dignità
della persona umana, di solidarietà".
Può, pertanto, affermarsi che il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato
sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico
medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla
Convenzione Europea, nonché condiviso anche in prospettiva morale religiosa.
168
Esso, tuttavia, sul piano dell'attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente ad esigere ed a
pretendere che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita (il problema si è
posto, in particolare, per l'alimentazione e l'idratazione forzate e, come nel caso di specie, per la
respirazione assistita a mezzo di ventilatore artificiale), in quanto reputata di mero accanimento
terapeutico, lascia il posto alla interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella definizione di
concetti si di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo fra tutti la
dignità della persona), ma che sono indeterminati e appartengono ad un campo non ancora regolato
dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall'intervento del Giudice, nemmeno utilizzando i
criteri interpretativi che consentono il ricorso all'analogia o ai principi generali dell'ordinamento.
Ciò perché i principi sono incerti ed evanescenti, manca una definizione condivisa ed accettata dei
concetti di futilità del trattamento, di quando l'insistere con trattamenti di sostegno vitale sia
ingiustificato o sproporzionato, sugli stessi concetti di insostenibilità della qualità della vita o di
degradazione della persona da soggetto ad oggetto e perché non esistono linee-guida di natura
tecnica ed empirica di orientamento dei comportamenti dei medici che, in definitiva, riempiano di
contenuti il divieto di accanimento terapeutico ed il correlativo diritto a far cessare l'accanimento
stesso con la richiesta di interruzione della terapia di sostentamento vitale (va ricordato, altresì, che
non sono ancora stati emanati i decreti per l'attuazione della Legge 28 marzo 2001 n.145 ).
Siccome un diritto può dirsi effettivo e tutelato solo se l'ordinamento positivamente per esso
prevedeva la possibilità di realizzabilità coattiva della pretesa, in caso di mancato spontaneo
adempito alla richiesta del titolare che intenda esercitarlo, va osservato che, nel caso in esame, il
diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del
respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente
alla stregua delle osservazioni di cui sopra, ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato
dall'ordinamento; infatti, non può parlarsi di tutela se poi quanto richiesto al ricorrente deve essere
sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, alla
sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie
concezioni etiche, religiose e professionali (come dimostra anche il diniego alla richiesta del sig.
Welby da parte del Dott. Giuseppe Casale che, come egli ha chiarito in udienza, è anche collegato
alle sue personali convinzioni etiche e professionali, essendo un sostenitore della cura dei malati
terminali con cure palliative e che ha affermato che nel caso di Welby: "non c'è accanimento
terapeutico perché il respiratore non è futile. Se io stacco il respiratore il paziente muore": v.
dichiarazioni a verbale effettuate all'udienza del 12/12/2006).
In altri termini, in assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e
scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico, va
esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell'azione da far valere nel giudizio di merito, e
di conseguenza, ciò comporta la inammissibilità dell'azione cautelare, attesa la sua finalità
strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito.
Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare la accresciuta
sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare
risposte alla solitudine ed alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi
degli operatori sanitari ed alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può
colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che
consentano di prevenire abusi e discriminazioni (allo stesso modo in cui intervenne il legislatore per
definire la morte cerebrale nel 1993).
Considerate la delicatezza e la novità della questione appare equo disporre la integrale
compensazione delle spese di lite fra le parti.
P.Q.M.
Visto l'art. 669 septies C.P.C.;
Il Giudice, pronunciando sul ricorso ex. artt. 669 ter e 700 C.P.C. proposto dal Sig. Piergiorgio
Welby nei confronti della Antea Associazione Onlus e del Dott. Giuseppe Casale, ogni altra istanza
169
disattesa, così provvede: dichiara la inammissibilità del ricorso e compensa integralmente le spese
processuali fra le parti.
Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2006.
RESPONSABILITA’ MEDICA E DELEGA ALLO SPECIALIZZANDO
TRACCIA:
Tizio è medico chirurgo dell’ospedale Politus di Cagliari.
Un giorno, mentre era in sala operatoria a svolgere la sua attività, vedeva arrivare di corsa
nell’ospedale, attraverso la finestra che affacciava sull’entrata principale, la moglie Tizietta
grondante di sangue.
Tizio, allarmato, ritenendo che l’operazione potesse essere proseguita dallo specializzando in
medicina Marcus che era venuto ad assistere ad un’operazione de visu per la prima volta,
abbandonava la sala operatoria, chiedendo a Marcus di proseguire la suddetta operazione.
Tizio correva a soccorrere la moglie Tizia che, veniva detto dai medici, aveva subito un aborto
spontaneo.
Due giorni dopo, Tizio veniva a sapere che l’operazione di Marcus non era andata a buon fine e il
paziente era morto.
Tizio si recava da un legale.
Il candidato prenda in esame la questione giuridica prospettata.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, il problema andava inquadrato nell’ambito del discorso sulle operazioni mediche
d’equipe, con particolare riferimento alla delega dell’operazione ad uno specializzando.
In generale, il medico che si assenta durante un’operazione chirurgica è responsabile di quanto
accade al proprio paziente, per cui Tizio potrebbe rispondere di omicidio colposo, tanto più che si
sarebbe allontanato dalla sala operatoria per aiutare la moglie senza rispettare (verosimilmente)
regolamenti e normative interne (non si può soccorrere chiunque in qualsiasi momento, ma è
necessario rispettare i regolamenti interni).
Di contro, è pur vero che Tizio non ha abbandonato la sala operatoria, ma ha delegato Marcus
affinché proseguisse l’intervento, per cui il problema è quello di capire se possa operare il principio
dell’affidamento incolpevole al fine di esonerare da responsabilità Tizio; vi è incolpevole
affidamento verso Marcus?
Invero, alla luce del fatto che Marcus fosse uno specializzando in medicina e che era venuto ad
assistere per la prima volta ad un’operazione, non banale visto che il paziente decedeva, non è
possibile ritenere che l’affidamento posto in essere da Tizio in favore di Marcus possa essere
incolpevole, quanto piuttosto colpevole (sub specie di imperizia e negligenza), con il corollario
applicativo che, verosimilmente, Tizio sarà chiamato a rispondere (eventualmente in concorso con
Marcus, che non si rifiutava di proseguire l’operazione) di omicidio colposo verso il paziente,
attenuato dalle circostanze ex art. 62 c.p. (in particolare, quelle di cui al n. 1).
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Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-L’anticipato «scioglimento dell’équipe chirurgica» per cause giustificate o dalla semplicità
delle residue attività da compiere o dalla impellente necessità di uno dei componenti
dell’équipe di prestare la propria opera professionale per la cura indilazionabile di altro o di
altri pazienti, o, a maggior ragione, per il concorso di entrambe le cause, ben può esonerare
da responsabilità colposa il medico allontanatosi, che quindi non era presente nel momento in
cui o è stata omessa la dovuta prestazione professionale o è stato eseguito un maldestro
intervento, che ha causato conseguenze dannose per il paziente.
Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 6 aprile-16 giugno 2005 n. 22579 (Presidente
De Grazia; Relatore Visconti; Pm - conforme - Geraci)
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 13/5/2004 la Corte di Appello di Salerno ha confermato, limitatamente agli
imputati (A) e (B), la sentenza del 2/10/2001 del Tribunale di Salerno, che li aveva ritenuti
responsabili di lesioni colpose e, concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla
contestata aggravante, li aveva condannati alle pene ritenute di giustizia.
Ai predetti imputati era stato addebitato il delitto di cui agli artt. 113 e 590, comma 2, in relazione
all'art. 583, 1° comma, n. 2, C.P. perché, a seguito di un intervento di taglio cesareo su ©, eseguito
dal dott. (A), coadiuvato dal dott. (B), era stata dimenticata nell'addome della paziente una garza
laparotomica. Dimessa dalla clinica «D» il 16/10/1995, la © subì due interventi chirurgici il
29/12/1995, eseguiti presso l'ospedale di Samo, il primo di «laparotomia sottombelicale per ascesso
intraperitoneale contenente pezza laparotomica con asportazione della tuba sinistra» ed il secondo
di asportazione dell'ovaio di sinistra. Sempre nell'ospedale di Sarno, rispettivamente in data
20/1/1996 e 4/3/1996, la © subì un primo successivo intervento chirurgico per «ascesso
intracavitario in regione paraombelicale sinistra», e poi un secondo per «peritonite infetta delle
pelvi e delle ultime anse».
Il giudice di primo grado, così come quello di appello, ha ritenuto che il primo intervento fu causato
dalla necessità di rimuovere la garza laparotomica, ed i successivi per sopperire alle gravi
complicazioni alle quali aveva dato luogo la permanenza della garza nell'addome.
Il giudice di appello ha dapprima motivato sul mancato decorrere del termine per la prescrizione,
essendosi verificate sospensioni per anni uno, mesi sette e giorni quindici, a causa dei rinvii per
impedimento o comunque su istanze dei difensori. Ha poi richiamato per relationem la motivazione
della sentenza di primo grado, ed infine ha esaminato i motivi di appello, tra cui anche quelli del
responsabile civile «D».
Per ciò che concerne la posizione del (A), la Corte territoriale ha ritenuto che dalle dichiarazioni del
consulente del P.M. e del testimone (E), che ha sottoposto la © agli interventi chirurgici presso
l'ospedale di Sarno, era risultato che l'asportazione della tuba sinistra era avvenuta per effetto della
permanenza della garza nell'addome della paziente, e che tutti i successivi interventi erano stati
conseguenti al primo. Inoltre, l'avere ritenuto da parte del primo giudice che un intervento più
tempestivo avrebbe limitato le conseguenze dannose non immutava il fatto, sempre ricollegato alla
negligenza e alla non attenta esecuzione del parto cesareo.
La Corte di merito ha poi disatteso il motivo di appello dello (B) attinente ad un ruolo
assolutamente marginale tenuto nell'intervento di parto cesareo, rilevando che l'imputato era un
collaboratore della casa di cura e partecipava agli interventi che si svolgevano nel suo turno di
171
servizio. Nella specie, il giudice di merito ha rilevato che il (A) ne ha voluto la presenza finché
fosse indispensabile, e che lo ha fatto andare via solo quando era «impellente» la sua presenza in
reparto.
Infine, è stato disatteso anche l'appello del responsabile civile, non condividendosi le eccezioni
procedurali, di incompletezza del decreto che aveva disposto la citazione in giudizio, e di tardività,
secondo la quale la citazione era avvenuta dopo la prima udienza, avendo poi il responsabile civile
potuto compiutamente svolgere tutte le attività difensive necessarie. In ordine alla responsabilità il
giudice di merito ha richiamato una sentenza della Corte di Cassazione - sezione civile - in base alla
quale in caso di danni causati dall'insuccesso di un intervento chirurgico la casa di cura nella quale
l'intervento è stato praticato risponde del danno causato dal chirurgo anche nei casi in cui
quest'ultimo non faccia parte dell'organizzazione aziendale della stessa.
La Corte ha, quindi, confermato la sentenza di primo grado, tranne che per altro imputato, ed ha
condannato in solido gli imputati ed il responsabile civile al rimborso delle spese sostenute dalla
parte civile.
I due imputati ed il responsabile civile hanno proposto ricorso per cassazione, chiedendo
l'annullamento della sentenza della Corte di Appello di Salerno.
(A), a mezzo del proprio difensore, con un primo motivo, ha eccepito la violazione degli artt. 521 e
522 C.P.P., deducendo che la Corte di merito aveva risposto solo in parte al motivo di appello, non
rilevando invece che il giudice di primo grado aveva sostenuto che una tempestiva rimozione della
garza avrebbe consentito una rapida guarigione, ed evitato le successive conseguenze, per cui tutti
gli interventi, successivi al primo, sono «causalmente scollegati» con la condotta posta a carico del
ricorrente nel decreto di citazione a giudizio.
Con un secondo motivo di impugnazione, il ricorrente ha assunto l'erronea applicazione della legge
penale in relazione all'attribuzione dell'evento lesivo alla condotta colposa dell'imputato, in quanto,
essendosi l'indebolimento permanente dell'organo della riproduzione verificatosi per un errore
tecnico compiuto nell'intervento di rimozione della garza, nessun danno permanente si era
sviluppato per colpa del ricorrente, e la condotta iniziale, penalmente rilevante, era successiva a
quella tenuta nel corso del parto cesareo.
Con il terzo ed ultimo motivo di gravame, il ricorrente ha assunto la mancanza di motivazione in
ordine allo specifico motivo di appello, secondo il quale la competenza alla conta delle garze è del
ferrista, e non del primo operatore.
(B), con un primo motivo di ricorso, ha censurato la sentenza impugnata per violazione dell'art. 192
C.P.P. e difetto di motivazione, non essendo egli il «medico di turno» ed avendo occasionalmente
assistito il dott. (A). Inoltre, nella stessa sentenza di appello era riconosciuto che egli andò via
«quando la sua presenza non era più indispensabile», per cui, effettuandosi la conta delle garze
prima della sutura della ferita, egli non era più presente in camera operatoria. Dopo avere ribadito la
maggiore competenza del dott. (A) e l'impossibilità di interferire con le sue decisioni, peraltro su un
fatto imprevedibile, il ricorrente ha lamentato che la Corte di merito non ha ritenuto di rinnovare
l'istruttoria dibattimentale al fine di accertare la propria effettiva partecipazione all'intervento, non
suffragata da prova scritta a lui attribuibile.
Con il secondo ed ultimo motivo di gravame, lo (B) ha dedotto la violazione dell'art. 157 C.P. in
quanto i rinvii sono stati determinati da richieste delle altre parti processuali, per cui nei suoi
confronti andava dichiarato estinto il reato ascrittogli per prescrizione.
Il responsabile civile, con un primo motivo di ricorso, ha censurato la sentenza impugnata per
violazione dell'art. 2049 C.C., ribadendo l'eccezione secondo la quale il dott. (A) non era suo
dipendente, né collaboratore, ma il ginecologo di fiducia della partoriente, che aveva chiesto
ospitalità alla clinica privata per l'operazione di taglio cesareo.
Con il secondo motivo di ricorso, il responsabile civile ha reiterato le eccezioni di violazione
dell'art. 83 C.P.P., in particolare perché il giudice si era limitato a provvedere sulla richiesta della
parte civile con la sola espressione «visto, si autorizza», ed omettendo di fornire le indicazioni di
cui al 3° comma della norma citata, omissione sanzionata con la nullità ai sensi del 5° comma.
172
Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente società ha eccepito la violazione degli artt. 192 e
546 C.P.P. per non avere la Corte di merito accolto la richiesta istruttoria integrativa del dott. (B),
che comunque avrebbe partecipato autonomamente all'intervento di taglio cesareo. La società
ricorrente ha poi dedotto che non è stata accertata la durata della partecipazione dello (B)
all'intervento chirurgico e la fase in cui egli è intervenuto, per cui a suo carico vi è stata
un'apodittica applicazione di un principio di responsabilità più oggettiva che per cooperazione
colposa.
Con il quarto ed ultimo motivo di gravame, la ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 157 C.P.,
assumendo che non tutti i rinvii erano stati richiesti dal responsabile civile.
Motivi della decisione
Il ricorso di (A) va dichiarato inammissibile, essendo tutti i motivi di impugnzione palesemente
infondati.
Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 521 e 522 C.P.P., assumendo
che la Corte di merito ha riconosciuto che una tempestiva rimozione della garza nel periodo di
degenza avrebbe senz'altro consentito una rapida guarigione ed evitato le successive devastanti
conseguenze. Secondo il ricorrente, quindi, tutti gli interventi successivi al primo non possono
essere causalmente ricollegati all'errore verificatosi, per cui la contestazione nel decreto di
citazione, dalla quale l'imputato si è difeso, è diversa dal fatto per il quale è stato condannato.
Sul punto, si osserva, in primo luogo, che la Corte territoriale ha ritenuto (pagg. 5 e 6 sentenza
impugnata) sussistere comunque il nesso di causalità tra la condotta omissiva del (A), per avere
lasciato la garza laparatomica nell'addome della paziente, e gli eventi lesivi successivi, in quanto,
senza l'iniziale negligenza, nessuna conseguenza negativa incidente sulla salute di © si sarebbe
verificata. Tale valutazione è così ampiamente logica da non potere meritare censura alcuna, e
quindi supera l'eccezione procedurale, in quanto nessuna divergenza vi è stata tra l'imputazione
contestata e la sentenza a norma dell'art. 521, 2° comma, C.P.P.
Ma, in ogni caso, il ricorrente lamenta che da una contestazione più ampia (e cioè conseguenze
lesive per vari interventi chirurgici, oltre che per l'indebolimento permanente dell'organo della
riproduzione) sarebbe stato enucleato, per sopravvenuta incidenza di altre cause, un evento più
circoscritto, dato che non è certamente variata la condotta addebitatagli.
Premesso - ed è bene ribadirlo - che la sentenza impugnata non ha in nessun modo recepito tale
versione dei fatti, ritenendo con motivazione chiara e congrua, che la condotta del (A) è stata causa
di tutti i successivi eventi lesivi, in quanto antecedente causale determinante, la parziale riduzione
dell'evento (e non certamente della condotta) rispetto alla contestazione più ampia, avrebbe al più
costretto il ricorrente a difendersi da altri fatti addebitatigli, e dei quali non era stato ritenuto
colpevole, fattispecie che esula completamente dalla previsione di nullità di cui agli artt. 521, 2°
comma, e 522 C.P.P., che riguarda la sentenza emessa per un fatto diverso da quello descritto nel
decreto di citazione a giudizio o contestato a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, ma non
certamente la limitazione della condanna ad uno solo dei fatti contestati.
Concludendo sul punto va ricordato che «con riferimento al principio di correlazione fra
imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione
radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi
astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui
scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare
la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente
letterale in contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a
trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione» (Cass.
sezioni unite 19/6/1996 n. 16; conformi Cass. 7/6/2000 n. 7929; Cass. 5/7/2000 n. 10525).
Le ragioni appena esposte consentono di ritenere palesemente infondato anche il secondo motivo di
ricorso, assumendo il (A) che la sentenza di secondo grado avrebbe nella motivazione accolto
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l'appello, ritenendo che l'indebolimento permanente dell'organo della riproduzione si era verificato
non per colpa del ricorrente, ma per un errore tecnico verificatosi nel corso dell'intervento
chirurgico effettuato per asportare la garza.
Va ribadito che non è così, e che la semplice lettura delle pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata
dimostra che i giudici di appello hanno ritenuto, in base alla consulenza tecnica disposta dal P.M. ed
alle dichiarazioni del teste (E), che ha effettuato gli interventi chirurgici sulla persona della ©
nell'ospedale di Sarno, che «la causa diretta dell'indebolimento dell'organo della riproduzione è
costituita dalla non attenta esecuzione dell'intervento di parto cesareo».
Nella specie, pertanto, è anche superfluo qualsiasi richiamo alla costante giurisprudenza delle
SS.UU. di questa Corte sulla inammissibilità delle censure di merito (Cass. 24/9/2003 n. 18;
conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997), trattandosi di ricorso
nel quale sono indicate valutazioni attribuite al giudice di merito, che non trovano riscontro nella
lettura della sentenza impugnata, e neppure in valutazioni di carattere logico. Infatti, se i giudici di
merito avessero ritenuto la esclusiva o concorrente responsabilità dei medici che avevano operato la
© dopo l'intervento di parto cesareo, avrebbero dovuto rimettere gli atti al P.M. per procedere nei
loro confronti. Non solo ciò non si è verificato, ma addirittura uno di tali chirurghi, il (E), è stato
esaminato come testimone, e le sue dichiarazioni sono state valorizzate per confortare le risultanze
degli accertamenti tecnici medico-legali.
Con il terzo ed ultimo motivo di impugnazione il ricorrente ha censurato la sentenza gravata per non
avere risposto al motivo di appello, secondo il quale la competenza alla conta delle garze è del
ferrista e non del primo operatore.
La Corte di Appello di Salerno, pur con motivazione sintetica, ha invece precisato che «appare
appena il caso di ribadire che della evidenziata negligenza ne debba rispondere il (A) quale
principale operatore» (pag. 6). Tale orientamento giurisprudenziale è stato recentemente ribadito
con due sentenze di questa sezione (Cass. 26/5/2004 n. 39062; Cass. 2/3/2004 n. 24036).
Alla declaratoria di inammissibilitià del ricorso proposto da (A) consegue, a norma dell'art. 616
C.P.P., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene
equo liquidare in euro 1.000,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di
colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità.
La declaratoria di inammissibilità del ricorso impedisce di dichiarare il reato di lesioni colpose
estinto per prescrizione. Come è stato affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni
unite n. 32 del 22/11/2000, l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi non
consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di
rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 C.P.P., tra cui la prescrizione
del reato, maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso, come precisato a pag. 4
del provvedimento gravato (conformi Cass. 8/1/2001 n. 7678; Cass. 27/11/2002 n. 5758; Cass.
20/1/2004 n. 18641).
A diverse conclusioni si deve pervenire per il ricorso di (B), che non è manifestamente infondato.
Nella specie, il delitto di lesioni colpose è stato commesso l'11/10/1995, identificandosi il momento
consumativo del reato di cui all'art. 590 C.P. in quello di insorgenza della malattia (Cass. 9/5/2003
n. 37432; Cass. 8/1/1998 n. 2522). A norma dell'art. 157 n. 4 C.P., per il delitto in questione il
termine di prescrizione è di anni cinque, aumentato della metà in conseguenza dei numerosi atti
interruttivi ex art. 160 C.P., pervenendosi così alla data dell'11/4/2003. Vanno ancora aggiunti anni
uno, mesi sette e giorni quindici, per le numerose sospensioni (art. 159 C.P.) a causa di rinvii per
impedimenti o comunque su richiesta degli imputati o di alcuni di essi, e cioè, in primo grado,
dall'udienza del 14/3/2000 a quella dell'11/4/2000, e da questa a quella del 9/5/2000, nonché
dall'udienza dell'11/7/2000 a quella del 26/9/2000 e da questa a quella del 12/12/2000, e, in grado di
appello, dall'udienza del 21/3/2003 a quella del 27/11/2003, e da questa a quella del 22/4/2004. Ne
consegue che il termine di prescrizione è scaduto definitivamente il 26/11/2004, e cioè nel periodo
intercorrente tra l'emissione della sentenza di appello e di quella di legittimità.
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Occorre precisare comunque che è infondato il secondo motivo di ricorso, secondo il quale il
termine di prescrizione sarebbe scaduto prima della sentenza di appello, non essendo state tutte le
richieste di rinvio formulate dalla difesa dello (B), che comunque non si è mai opposto, come da lui
ammesso in ricorso. Infatti, la richiesta di rinvio investe l'intero processo, e non la posizione del
singolo imputato, né la separazione dei procedimenti avrebbe giovato alla loro speditezza, e
soprattutto all'accertamento dei fatti in modo omogeneo (Cass. 3/12/2003 n. 46321).
La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione nei confronti dello (B) è conseguente alla
circostanza che il primo motivo di ricorso è fondato ed avrebbe legittimato l'annullamento con
rinvio della sentenza impugnata per difetto di motivazione su un punto rilevante della decisione, e
cioè l'accertamento del momento in cui il ricorrente si sarebbe allontanato dalla camera operatoria.
A questo Collegio non sfugge - anzi si condivide - la già citata giurisprudenza di legittimità,
secondo la quale, in tema di colpa professionale, nel caso di équipes chirurgiche, ogni sanitario,
oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e di prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è
tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il
fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare
l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal
controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga
opportunamente rimedio ad errore altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed
emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Cass.
2/3/2004 n. 24036).
Ancor più specificamente, proprio in una fattispecie attinente alla mancata rimozione dall'addome
di un paziente di una pinza chirurgica, spezzatasi ed in parte scivolata nelle anse intestinali, la Corte
di legittimità ha ulteriormente specificato che il controllo della rimozione dei ferri spetta all'intera
équipe operatoria, cioè ai medici, che hanno la responsabilità del buon esito dell'operazione anche
con riferimento a tutti gli adempimenti connessi, e non può essere delegato al solo personale
paramedico, avendo gli infermieri funzione di assistenza, ma non di verifica (Cass. 26/5/2004 n.
39062).
Va, però, considerato che il giudice non può sottovalutare la circostanza dello «scioglimento
dell'équipe operatoria», che può anche non incidere sull'esclusione della colpa e del nesso di
causalità, qualora avvenga, ad esempio, in un intervento ad alto rischio, senza giustificazioni per chi
si allontana, e quindi facendo venire meno quel contributo di conoscenze professionali che possono
salvaguardare l'incolumità del paziente in presenza di errore altrui.
Al contrario, lo stesso «scioglimento dell'équipe operatoria» in una fase in cui l'intervento può
ritenersi, se non concluso, solo da definire con adempimenti della massima semplicità, quali la
conta delle garze e dei ferri da rimuovere o già rimossi, e, subito dopo, la sutura della ferita, a
conclusione di un'operazione chirurgica perfettamente riuscita, ed essendo il medico che si
allontana giustificato da altre più pressanti ed urgenti attività mediche, consente di escludere la
colpa per negligenza e, di conseguenza, l'incidenza causale sull'evento.
Nella specie, la stessa motivazione della sentenza impugnata, pur valorizzando le dichiarazioni rese
dallo stesso (B), e ritenute per lui solo pregiudizievoli in relazione all'esclusione di un ruolo
secondario nell'intervento di parto cesareo, precisa che il ricorrente ha dichiarato di essersi
allontanato dalla sala operatoria quando la sua presenza non era «più indispensabile», e si recò in
reparto ove «era impellente» la sua presenza (pag. 7).
Non vi è dubbio alcuno che la negligenza consistita nell'avere lasciato la garza nell'addome della ©
si è verificata nella fase finale dell'intervento, e cioè appena prima della sutura della ferita, essendo
in precedenza non solo giustificata, ma opportuna la sua permanenza nel corpo della paziente. Al
momento in cui la sentenza dà atto di un credibile allontanamento dello (B) prima che tutto
l'intervento di parto cesareo (da ritenersi concluso con la sutura della ferita) sia terminato, la Corte
di merito, sullo specifico motivo di appello dell'imputato, riproposto in sede di legittimità di una
partecipazione parziale del ricorrente all'intervento o avrebbe dovuto pronunciarsi sulla presenza o
meno dello (B) alla conta delle garze, o, quanto meno al momento in cui doveva essere eseguita, se
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la conta non è stata fatta, ma non può, in primo luogo, ritenere che, anche in caso di assenza del
ricorrente, questi ne deve rispondere avendo fatto parte dell'équipe operatoria, e, in secondo luogo,
se la circostanza di fatto non risulti oggetto di indagine istruttoria, non può ritenere non decisiva la
richiesta di integrazione istruttoria al fine di accertare la misura della partecipazione dello (B)
all'operazione di parto cesareo.
Sotto il primo aspetto la motivazione comporta una violazione di legge sostanziale addebitando la
cooperazione colposa ex art. 113 C.P. a soggetto estraneo alla condotta colposa di negligenza, né
portatore di un'autonoma colpa concorrente con quella del (A), tenuto conto della sua assenza nel
momento in cui è stata omessa o male eseguita la verifica delle garze, e ben potendosi ritenere (ma
la valutazione spetterebbe al giudice di merito) che le specifiche incombenze per le quali è stato
chiamato nel reparto di una clinica privata siano più urgenti delle semplici fasi di completamento di
un intervento di parto cesareo fino a quella fase perfettamente riuscito.
Per ciò che concerne il secondo aspetto, e cioè la possibilità che sul punto (e cioè l'individuazione
del momento dell'allontanamento dello (B) dalla sala operatoria) non sia stato effettuato in primo
grado alcun accertamento, ritenendosi la presenza nell'équipe già decisiva per dichiarare la
responsabilità del ricorrente, la motivazione di rigetto della richiesta di rinnovamento dell'istruttoria
dibattimentale ex art. 603 C.P.P. è in parte mancante e in parte manifestamente illogica. È mancante
là dove valuta la richiesta istruttoria al solo fine di escludere il ruolo marginale del ricorrente
nell'esecuzione dell'intervento di taglio cesareo, e non anche per determinare la cooperazione
colposa nel reato; è manifestamente illogica là dove assume che il suo allontanamento quando la
presenza non era più «indispensabile» è prova della sua responsabilità, aggravando tale illogicità
con la ritenuta «impellente» necessità di recarsi in reparto.
Al contrario, proprio tali valutazioni avrebbero dovuto indurre i giudici di appello a disporre la
rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 C.P.P., trattandosi di risolvere una questione
di diritto sostanziale, per la quale solitamente la giurisprudenza massimata di legittimità non può
comprendere tutte le possibili variabili di fatto, a differenza di quel che avviene per lo più per i vizi
processuali (ad es. tardività dell'impugnazione ex art. 585 C.P.P.).
Pertanto, pur se va ribadito che, in tema di colpa professionale, l'intera équipe chirurgica è tenuta ad
osservare gli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, e
tra tali obblighi rientra anche quello di porre rimedio agli errori di altro medico, pur specialista, se
questi siano rilevabili ed emendabili con l'ausilio di comuni conoscenze scientifiche del
professionista medio, l'anticipato «scioglimento dell'équipe chirurgica» per cause giustificate o dalla
semplicità delle residue attività da compiere o dalla impellente necessità di uno dei componenti
dell'équipe di prestare la propria opera professionale per la cura indilazionabile di altro o altri
pazienti, o - a maggior ragione - per il concorso di entrambe le cause, ben può esonerare da
responsabilità colposa il medico allontanatosi, che non era quindi presente nel momento in cui o è
stata omessa la dovuta prestazione professionale (negligenza) o è stato eseguito un maldestro
intervento (imperizia o imprudenza), che ha causato conseguenze colpose per il paziente.
Nella specie, dalla motivazione della sentenza impugnata si evince che o tale accertamento è del
tutto carente nel procedimento a carico del ricorrente, e quindi, andava eseguito, anche in sede di
appello, o - se oggetto dell'istruttoria nel primo grado di giudizio - di esso non è stato tenuto alcun
conto per la decisione, pur trattandosi di valutazioni indispensabili al fine di individuare o escludere
la responsabilità del ricorrente (B).
Essendo il reato estinto per prescrizione, per ciò che concerne le determinazioni penali, tale formula
prevale sull'annullamento con rinvio ex art. 623 C.P.P., e, in relazione al solo ricorso dello (B), gli
atti vengono rinviati per le sole statuizioni civili al giudice civile competente per valore in grado di
appello.
Per ciò che riguarda il ricorso del responsabile civile (D), vanno preliminarmente esaminate le
eccezioni di carattere processuale sulla regolarità della vocatio in iudicium.
In sede di legittimità, la società ricorrente insiste principalmente per la nullità della citazione, ai
sensi del 5° comma dell'art. 83 C.P.P., in quanto il decreto autorizzativo del giudice del 5/9/2000
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non contiene gli elementi di cui al 3° comma della stessa norma, essendo limitato ad un mero «letta
la richiesta che precede, autorizza la citazione».
Osserva il Collegio che, trattandosi di decreto apposto in calce alla istanza di autorizzazione alla
citazione del responsabile civile, il provvedimento del giudice è automaticamente. integrato dai dati
contenuti nella domanda di citazione, che contiene tutti gli elementi specificati nel citato 3° comma,
e cioè: a) la denominazione della società e l'indicazione del suo legale rappresentante; b) la
domanda di risarcimento del danno, quantificata in lire 500.000.000; c) l'invito a costituirsi ai sensi
dell'art. 84 C.P.P. Il provvedimento è poi sottoscritto dal giudice e reca la data del 5/9/2000.
L'altra eccezione di rito, trattata nel ricorso per cassazione in modo generico, è da ritenersi
abbandonata, ed è comunque infondata, in quanto la citazione è stata disposta per un'udienza
successiva alla prima, quando questa però era stata rinviata prima della regolare costituzione delle
parti ex art. 484 C.P.P., per cui, non essendosi instaurato il contraddittorio, il dibattimento non era
neppure iniziato, e - secondo la migliore dottrina - in tale caso la citazione del responsabile civile è
regolare, in quanto nessuna attività dibattimentale è possibile prima degli adempimenti di cui all'art.
484 C.P.P.
Anche il primo motivo di ricorso è infondato. Il responsabile civile reitera l'eccezione di violazione
dell'art. 2049 C.C., assumendo che, non essendo il (A) legato da alcun rapporto di collaborazione o
di lavoro dipendente con la casa di cura privata, dove è stato eseguito l'intervento di parto cesareo,
non sussiste alcun vincolo perché la società (D) sia tenuta a risarcire il danno alla ©.
È ormai giurisprudenza civile costante che «nel caso di danni causati dall'insuccesso di un
intervento chirurgico, la casa di cura nella quale l'intervento è stato praticato risponde, a titolo
contrattuale ex art. 1218 C.C., del danno causato dal chirurgo, anche nei casi in cui quest'ultimo non
faccia parte dell'organizzazione aziendale della casa di cura» (Cass. civile 8/1/1999 n. 103;
conformi Cass. 8/5/2001 n. 6386; Cass. 14/7/2004 n. 13066).
Infatti, il ricovero in una struttura deputata a fornire assistenza sanitaria avviene sulla base di un
contratto tra il paziente ed il soggetto che gestisce la struttura, e l'adempimento di tale contratto, per
quanto riguarda le prestazioni di natura sanitaria, è regolato dalle nome che disciplinano la
corrispondente attività del medico nell'ambito del contratto di prestazione d'opera professionale. Il
soggetto gestore della struttura sanitaria (pubblico o privato) risponde perciò per i danni che siano
derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme dettate
dagli artt. 1176, secondo comma, 1218 e 2236 C.C.
Per ciò che concerne il terzo motivo di ricorso, per le ragioni appena esposte, l'eventuale
partecipazione dello (B) all'intervento chirurgico come professionista autonomo, e non quale
dipendente della società (D), non ha rilevanza alcuna. La questione della sua parziale partecipazione
è stata già trattata e risolta - almeno ai fini penali - da questa Corte esaminando il ricorso dello
stesso (B), ed alla cui motivazione si fa rinvio, mentre la stessa questione ha indubbia rilevanza per
le statuizioni civili anche nei confronti della (D).
Infatti, il ricorso del responsabile civile va senz'altro rigettato con riferimento al motivo attinente
alla violazione dell'art. 83 C.P.P. e limitatamente al fatto attribuito a (A) (primo motivo nell'atto di
ricorso), per le ragioni già esposte alla pagina che precede.
Essendo, invece, fondato il motivo di ricorso attinente alla non provata - ai fini penali responsabilità dello (B), pur non potendosi, allo stato, escludere la responsabilità civile del detto
medico, non ostandovi la declaratoria di estinzione del delitto di lesioni colpose per prescrizione,
non vi è dubbio che anche il responsabile civile vada rimesso dinanzi al giudice civile competente
in relazione al fatto di (B).
Infine, per ciò che riguarda il quarto ed ultimo motivo, con il quale è stata eccepita la prescrizione
del reato verificatasi, anche secondo il responsabile civile, prima della sentenza di appello, va
ritenuto che trattasi di motivo di impugnazione, proposto dal responsabile civile, consentito dall'art.
575 C.P.P. in presenza di una sentenza di condanna degli imputati in secondo grado, ma comunque
infondato per le ragioni esposte, trattando i motivi di ricorso proposti dallo (B) (pag. 9).
177
P.Q.M.
La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di (B), in quanto il reato
ascrittogli è estinto per prescrizione, e rinvia per le statuizioni civili al giudice civile competente per
valore in grado di appello.
Dichiara inammissibile il ricorso di (A) e condanna il ricorrente al pagamento delle spese
processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Rigetta il ricorso del responsabile civile limitatamente al fatto di (A), e rimette lo stesso dinanzi al
giudice civile competente per valore in grado di appello in relazione al fatto di (B).
-Ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse
alle specifiche ed effettive mansioni svolte.
Deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell'"equipe” e deve porre
rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 12 luglio 2006 - 6 ottobre 2006, n. 33619
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUARTA SEZIONE PENALE
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Cosenza condannava B. R. e I. U. alla pena ritenuta di giustizia per aver
colposamente cagionato, nella loro qualità di medici presso l'ospedale civile di S. Giovanni in Fiore,
la morte di M. M. A., nel corso di un intervento di parto cesareo, in particolare per aver entrambi
errato la manovra di intubazione a seguito di anestesia generale introducendo per due volte la
cannula nell'esofago invece che in trachea e determinando così anossia prolungata con exitus
(evento in S. Giovanni in Fiore il 6 febbraio 1998).
A seguito di gravame ritualmente proposto nell'interesse di B. e I., la Corte d'Appello dì Catanzaro
dichiarava inammissibile l'impugnazione proposta dal B. - sull'asserito rilievo dell'inosservanza di
talune formalità previste dal codice di rito a pena di inammissibilità - e, quanto a I., confermava
l'impugnata decisione, motivando il proprio convincimento con argomentazioni che possono così
riassumersi:
a) era infondata l'eccezione di prescrizione del reato posto che il decorso del relativo termine aveva
subito taluni periodi di sospensione, per un tempo complessivo di oltre 18 mesi, in conseguenza di
rinvii disposti su richiesta della difesa di I. stesso per impedimento del difensore, nonché (dal 17
luglio 2003 al 19 febbraio 2004) per l'eventuale esercizio della facoltà di avvalersi del
patteggiamento "allargato" ai sensi della legge n. 134 del 2003;
b) alla visita anestesiologica cui la M. si era sottoposta in vista dell'intervento, non erano emerse
controindicazioni di sorta;
c) in occasione dell'intervento di parto cesareo la paziente aveva manifestato i primi sintomi di
sofferenza da ipossigenazione dopo l'intubazione necessaria a garantire l'ossigeno, tanto da indurre i
sanitari ad una nuova introduzione del tubo nella trachea;
d) nonostante il secondo tentativo la situazione era degenerata in arresto cardiaco che aveva portato
al decesso della paziente;
e) dalla consulenza tecnica, disposta dal P.M. e dalla perizia autoptica era emerso che il decesso era
stato determinato da prolungata anossia conseguente a mancata intubazione: dato conforme alle
178
risultanze della cartella clinica, dell'esame istopatologico e degli elementi valutativi acquisiti in
occasione delle deposizioni dei vari testimoni escussi (in particolare, tra i vari elementi, la presenza
di sangue di colore scuro - e quindi scarsamente ossigenato - pochi minuti dopo la prima
intubazione);
f) l'individuazione della causa della morte nell'errato inserimento del tubo endotracheale poteva
dirsi quale dato acquisito e non revocabile in dubbio;
g) lo stato di salute del neonato appariva elemento poco probante per escludere il difetto di
ossigenazione della madre posto che il chirurgo aveva provveduto pochissimi minuti dopo la prima
intubazione all'apertura della fascia addominale ed alla rapida estrazione del feto: dunque, stante la
rapidità del parto, il feto aveva potuto godere di autonomi meccanismi di compensazione idonei ad
ovviare alle carenze improvvise della madre (mentre il bambino era stato portato alla luce in buona
salute);
h) appariva priva di pregio la tesi difensiva dello laquinta, secondo cui questi avrebbe svolto un
ruolo del tutto marginale nella vicenda mentre responsabile dell'intervento sarebbe stato il B.; la
Corte distrettuale evidenziava che secondo l'indirizzo consolidato delineatosi in materia nella
giurisprudenza di legittimità, nel caso di interventi in “equipe” ciascun sanitario è responsabile non
solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle mansioni specificamente ed
effettivamente svolte, ma deve costituire anche una sorta di garanzia per la condotta degli altri
componenti e porre quindi rimedio agli eventuali errori altrui, purchè siano evidenti per un
professionista medio e non settoriali di una specifica disciplina estranea alle sue cognizioni;
i) nella concreta fattispecie si era trattato di errori piuttosto banali e comunque relativi alla comune
attività di anestesista dei due imputati: in una prima fase, relativa all'intubazione - errata - da parte
del B., lo I., procedendo all'auscultazione, con il fonendoscopio, del torace della paziente, non si era
accorto dell'errore del collega ed aveva dato il proprio beneplacito all'inizio dell'intervento; nella
seconda fase era stato personalmente lo laquinta a procedere all'intubazione;
l) lo laquinta aveva partecipato dunque attivamente alle due fasi dell'anestesia, entrambe
caratterizzate da manovre errate;
m) risultava priva di fondamento l'eccezione di violazione del principio di correlazione tra la
contestazione e la sentenza, avendo l'imputazione mossa allo laquinta fatto espresso riferimento alla
errata manovra di intubazione costituita dall'avere introdotto per due volte la cannula nell'esofago
invece che nella trachea;
n) alcuna incidenza avevano avuto le condizioni fisiche della M., risultando dagli atti che la donna
non presentava tracce di patologie preesistenti che potessero aver contribuito per via organica alla
ipossigenazione, ed aveva caratteristiche strutturali (conformazione del collo, diametro boccale,
distanza delle corde vocali) del tutto normali ed idonee a consentire un'agevole intubazione, come
peraltro confermato anche dalla visita pre-anestesiologica che non aveva evidenziato alcuna
anomalia.
Hanno proposto ricorso per cassazione lo laquinta ed il B.. All'udienza del 2 febbraio 2006, essendo
risultato deceduto l'avvocato Giuseppe Mazzotta, difensore di fiducia e domiciliatario dello I., è
stato disposto lo stralcio degli atti relativi alla posizione di quest’ultimo ed è stato deciso il ricorso
del solo B..
Il procedimento relativo al ricorso dello I. è stato quindi rinviato all'odierna udienza, con avviso al
difensore di ufficio avvocato Falcolini ed avviso per lo laquinta, ai sensi dell'art. 161, comma
quarto,c.p.p., allo stesso avvocato Falcolini, non essendo pervenuta nomina di altro difensore di
fiducia da parte dell'imputato, in sostituzione dell'avvocato Mazzotta deceduto, e nemmeno altra
dichiarazione o elezione di domicilio (essendo divenuta impossibile la notifica presso il precedente
domiciliatario, lo stesso avvocato Giuseppe Mazzotta, perché, appunto, deceduto).
Le censure dedotte dallo I. possono così sintetizzarsi: 1) asserita violazione del principio di
correlazione tra contestazione e sentenza; 2) la Corte d'Appello avrebbe errato nel computo dei
periodi di sospensione del decorso della prescrizione avendo calcolato anche il periodo relativo al
rinvio richiesto dalla parte ai sensi della legge n. 134 del 2003; 3) vizio motivazionale in ordine alla
179
ritenuta colpevolezza dello laquínta poiché questi sarebbe intervenuto dopo la comparsa del sangue
scuro - segno di rilevante anossia - e quindi allorquando la paziente doveva considerarsi già
deceduta..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio rileva l'inammissibilità del gravame per i motivi di seguito precisati.
La doglianza relativa all'omessa correlazione tra accusa contestata e sentenza è manifestamente
infondata, giacché, secondo giurisprudenza costante di questa Corte (Casa. sez. un. 22 ottobre 1996
n.16 rv.205619), per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi
elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla
legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale
pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del
principio suddetto non va esaurita nel pedisseguo e mero confronto puramente letterale fra
contestazione e sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è dei
tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l’"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella
condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione: nel caso in esame
l'affermazione di responsabilità dello I. risulta basata sull'imperita auscultazione polmonare nella
prima intubazione eseguita dal B. e sull'errata intubazione effettuata una seconda volta dallo I.
personalmente, sicché si tratta di operazioni concernenti la stessa attività (intubazione), cui si
riferisce il capo di imputazione.
A ciò aggiungasi che uniforme giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. IV 21 giugno 2004
n.27851 rv.229071, fra le più recenti) afferma che nei procedimenti per reati colposi, quando nel
capo d'imputazione sono stati contestati elementi "generici" e "specifici" di colpa, non sussiste
violazione del principio di correlazione tra sentenza ed accusa nel caso in cui il giudice abbia
affermato la responsabilità dell'imputato per un'ipotesi di colpa diversa da quella specifica
contestata; infatti, il riferimento alla colpa generica (nella concreta fattispecie con l'indicazione
dell'imperizia) evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente
considerata, sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti dei comportamento
tenuto in occasione dell'evento di cui è chiamato a rispondere. Parimenti destituita di qualsiasi
fondamento risulta la censura relativa alla ritenuta insussistenza dei presupposti per la declaratoria
di prescrizione. Appare infatti esatto il computo delle sospensioni del termine prescrizionale,
calcolate dalla Corte territoriale per un periodo complessivo di oltre 18 mesi (precisamente si tratta
di 18 mesi e 16 giorni), anche con riferimento al rinvio richiesto in applicazione dell'art.5 della
legge n. 134 del 2003, giacché il secondo comma della citata disposizione espressamente prevede
che "il dibattimento è sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni… e durante tale
periodo sono sospesi i termini di prescrizione": sicché la predetta causa estintiva maturerà il 22
febbraio 2007.
Con riferimento al vizio motivazionale, va ribadito che l'indagine di legittimità sul discorso
giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla
Corte di Cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di
un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di
verificare l'adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare
il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (tranne che si verta
nell'ipotesi introdotta con la legge n. 46 del 2006, estranea ai motivi enunciati con il ricorso).
L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere di spessore tale da risultare
percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di
macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le
deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili
con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del
convincimento senza vizi giuridici (Cass. sez. un. 16 dicembre 1999 n. 24 rv.214794).
La Corte territoriale ha dimostrato in maniera ineccepibile come la responsabilità del decesso sia
ascrivibile allo I.. Infatti, i giudici di seconda istanza, rispondendo a tutte le doglianze mosse, hanno
180
evidenziato che l'annerimento del sangue, constatato subito dopo l'inizio dell'intervento, fu il
sintomo iniziale della sofferenza acuta da ipossigenazione; ed hanno altresì sottolineato che, in
materia di colpa professionale di "equipe", ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle
regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma deve anche
conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell' "equipe" in modo da porre rimedio ad
eventuali errori posti in essere da altri, purché siano evidenti per un professionista medio, giacché le
varie operazioni effettuate convergono verso un unico risultato finale; la Corte d'Appello non ha
mancato infine di precisare che, nella concreta fattispecie, si è trattato di errori piuttosto banali e
comunque relativi proprio alla attività di anestesista dello I.. Questi non si è avveduto della prima
manovra di intubazione eseguita dal B., ed ha provveduto ad effettuare la seconda, erronea; sicché
"ha partecipato attivamente alle due fasi della anestesia, entrambe errate" (per come si legge
testualmente nell'impugnata sentenza); ciò costituisce elemento tranciante rispetto all'affermazione
dello laquinta secondo cui questi sarebbe intervenuto solo allorquando si era già verificato il
decesso della M. (affermazione peraltro priva di qualsiasi fondamento alla luce di quanto ritenuto
accertato in sede di merito dalla Corte territoriale: quest'ultima ha precisato, infatti, che la
situazione degenerò in arresto cardiaco dopo la seconda introduzione del tubo nella trachea della
M.).
Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente (peraltro con argomentazioni generiche ed
assertive), il convincimento espresso dalla Corte distrettuale si pone anche del tutto in sintonia con i
princìpi enunciati in materia da questa Corte a Sezioni Unite (Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese): si
è trattato infatti di un banalissimo intervento di taglio cesareo, eseguito su persona del tutto sana e
priva di controindicazioni alla anestesia, deceduta soltanto a causa di un'errata manovra di
intubazione, posta in essere dallo I. per le ragioni già illustrate. Alla declaratoria di inammissibilità
segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè
(trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, dei ricorrente:
cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa
delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro mille.
P. Q. M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorre e al pagamento delle spese processuali e
della somma di euro 1.000,00= in favore della cassa delle ammende.
Roma, 12 luglio 2006.
Il Presidente
(Giovanni Silvio Coco)
Il Consigliere estensore
(Vincenzo Romis)
ABUSIVO ESERCIZIO DELL'ATTIVITA’ MEDICA
Tizia è amica da diversi anni di Francesca.
Un giorno Francesca avvertiva dolori molto forti all’addome e si consultava con Tizia che, a suo
dire, si era laureata in medicina.
Tizia consigliava a Francesca di prendere il medicinale Fictio III almeno due volte al giorno,
preferibilmente dopo i pasti; Francesca, fidandosi dell’amica (presuntivamente) laureata in
medicina, eseguiva quanto consigliato.
181
Francesca peggiorava e si ricoverava all’ospedale, dove il medico Tartufell spiegava alla paziente
che, con ogni probabilità, la situazione relativa all’addome era peggiorata a causa dell’utilizzo
erroneo del medicinale Fictio III.
Tizia, venuta a sapere del fatto, si recava dal legale Sempronio, facendo sapere di non essere
laureata in medicina.
Il candidato affronti la questione giuridica relativa alla sussistenza o meno del reato di abusivo
esercizio della professione.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto.
Successivamente, il problema andava inquadrato nell’ambito dell’art. 348 c.p.
Tizia ha integrato gli estremi del reato di cui all’art. 348 c.p.?
La particolarità della questione, essenzialmente, riguarda il problema interpretativo relativo al se sia
necessario agganciarsi a criteri formali ovvero sostanziali, nell’ambito dell’applicazione di tale
disposizione; più chiaramente, esercita abusivamente la professione sanitaria, ai fini dell’art. 348
c.p., solo colui che sistematicamente e con una struttura ad hoc riceve pazienti e prescrive farmaci,
oppure anche colui che, sporadicamente, ovvero una tantum, suggerisce determinati medicinali?
La prima opzione interpretativa sembrerebbe più ragionevole, in quanto punirebbe, in concreto, solo
le condotte che abbiano raggiunto un minimum di offensività, coerentemente con l’art. 49 c.p.
La seconda opzione ermeneutica, che intende per esercizio abusivo anche il mero consiglio
suggerito una tantum, sembrerebbe più garantista.
Invero la giurisprudenza che si è occupata dell’argomento ha individuato sempre una certa
sistematicità dell’esercizio abusivo, sul presupposto che l’esercizio, ex se, richiederebbe una certa
sistematicità.
In questo senso, allora, Tizia non sembra aver esercitato abusivamente l’attività medica, quanto
piuttosto aver suggerito, erroneamente, un medicinale pericoloso a Francesca; inoltre, nel caso di
specie, indubbiamente, proprio per la carenza di sistematicità e di una struttura organizzata, non vi è
il dolo dell’esercizio abusivo.
Ne segue che, da questa angolazione prospettica, Tizia non risponderà del reato ex art. 348 c.p.
L’argomento può essere ripetuto dal testo di Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale,
Giuffrè.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
- Se non è ipotizzabile esercizio abusivo della professione di biologo nel fatto di chi usi
l'apparecchio per ottenere una diagnosi che lo riguarda, per lo stesso motivo deve essere
esclusa la configurabilità del reato nella condotta di chi, avendo posto a disposizione del
pubblico un apparecchio per autodiagnosi, esegua in luogo dell'interessato quelle operazioni
meramente materiali che sono necessarie per il suo funziona mento e per la produzione
automatica della diagnosi.
sentenza n. 39087 del 3 novembre 2001
Corte Suprema di Cassazione
Giurisprudenza Civile e Penale
(Sezione Sesta Penale - Presidente R. Leonasi - Relatore A. Di Virgilio)
182
Con sentenza in data 10.3.2000 il Tribunale di Milano dichiarava B. C. S. e C. R. responsabili del
reato di cui agli artt. 110-348 c.p. per avere, il primo quale titolare di una farmacia e la seconda
quale farmacista alla stessa addetta, esercitato abusivamente la professione di biologo eseguendo
analisi del sangue e prestazioni di diagnostica strumentale di patologia clinica. Come risulta dalla
sentenza impugnata, nel corso di un'ispezione eseguita presso la farmacia del B. si era constatato
che esisteva nella stessa, pubblicizzata del resto da un cartello apposto all'ingresso, una
apparecchiatura di cosiddetta autodiagnostica rapida, per esame di ematocrito, glicemia,
colesfirolomia e trigliceridi. Durante l'ispezione si presentava un cliente per l'esame dell'ematocrito;
e tutte le operazioni relative (prelievo di una goccia di sangue; confezionamento del "vetrino" e
inserimento dello stesso nell'apparecchio) venivano eseguite dalla C., che assisteva il richiedente
fino all'esito dell'esame fornito dall'apparecchio. Secondo il giudice di merito, pur essendo del tutto
lecita l'installazione dell'apparecchiatura autodiagnostica presso una farmacia, l'intervento della
farmacista (che aveva gestito tutte le fasi dell'operazione senza essere stata neppure sollecitata da
una richiesta di aiuto del cliente, in conformità evidente con una prassi abituale necessariamente
nota anche al B. e dallo stesso quanto meno accettata) aveva comportato un uso dell'apparecchio a
fine di diagnosi eseguita da un soggetto diverso dal paziente; e cioè un atto tipico della professione
di biologo. Da qui la configurabilità del reato ascritto agli imputati.
Ricorrono questi ultimi a mezzo del comune difensore, deducendo erronea applicazione dell'art.348
c.p. nonché manifesta illogicità della motivazione relativamente all'elemento psicologico del reato.
Il B. deduce manifesta illogicità della motivazione anche relativamente al concorso nel reato
attribuitogli.
I rilievi dei ricorrenti sono fondati.
È ben vero che, così come ricorda la sentenza impugnata, le analisi biologiche non sono consentite
ai farmacisti, trattandosi di atto tipico della professione di biologo. Nel caso di specie non vi è stata
però alcuna analisi, e cioè alcuna valutazione di dati obiettivi acquisiti attraverso esami clinici,
poiché il risultato degli accertamenti è derivato in via automatica e senza alcun intervento umano
dall'uso dell'apparecchio posto a disposizione del pubblico nei locali della farmacia. La
caratteristica distintiva degli apparecchi per cosiddetta autodiagnostica rapida è, per l'appunto,
quella di consentire una diagnosi immediata per via strumentale e senza interferenza alcuna da parte
dell'operatore, che é di solito (ma non necessariamente) il paziente, medesimo; tant'è che i predetti
apparecchi vengono di solito venduti o dati a noleggio per uso domiciliare. Se così è, l'uso
dell'apparecchio non può comunque invadere la sfera riservata all'esercizio della professione di
biologo o a quello di qualsiasi altra professione; e non si configura, al contrario di quanto ritiene la
sentenza impugnata, alcuna differenza tra il caso in cui l'apparecchio venga posto in funzione dal
paziente stesso oppure da altra persona più esperta del suo funzionamento, così come avvenuto
nella fattispecie, perché in entrambe le ipotesi l'acquisizione dei dati e la loro valutazione non
dipendono dall'intervento dell'utente, che è diretto unicamente ad attivare le funzioni
dell'apparecchio e non interferisce in alcun modo con la formazione della diagnosi, scaturente da
una procedura informatica cui è estraneo qualsiasi intervento umano. Se non è ipotizzabile, come
riconosce la sentenza impugnata, esercizio abusivo della professione di biologo nel fatto di chi usi
l'apparecchio per ottenere una diagnosi che lo riguarda, per lo stesso motivo deve essere esclusa la
configurabilità del reato nella condotta di chi, avendo posto a disposizione del pubblico un
apparecchio per autodiagnosi, esegua in luogo dell'interessato quelle operazioni meramente
materiali che sono necessarie per il suo funziona mento e per la produzione automatica della
diagnosi.
Va pertanto annullata senza rinvio la sentenza impugnata, non integrando il fatto ascritto ai
ricorrenti gli estremi del reato loro contestato.
PER QUESTI MOTIVI
la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.
183
LESIONI E VIOLENZA SESSUALE
TRACCIA:
Tizio è amico di Caio da diversi anni. Caio veniva a sapere che la propria ex moglie Saitta aveva
rapporti sessuali abituali con Sempronio.
Caio, che più di una volta era stato imputato per violenza sessuale senza mai, tuttavia, essere
condannato, decideva di recarsi nella dimora di Saitta per prenderla a schiaffi violentemente.
Caio comunicava il proposito criminoso a Tizio, che decideva di assecondarlo.
Pochi giorni dopo, Tizio accompagnava con la propria auto Caio presso la dimora di Saitta.
Tuttavia, quel giorno, Caio piuttosto che prendere a schiaffi Saitta, la violentava ripetutamente,
mentre Tizio aspettava in auto.
Dopo la violenza, Caio tornava in auto da Tizio, comunicandogli di aver violentato Saitta.
Il giorno dopo, Tizio si recava da un legale.
Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere, soffermandosi sulle
questioni giuridiche sottese alle fattispecie prese in esame.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE :
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario chiedersi: Tizio risponde solo del reato di lesione personale (ex art.
582 c.p.) in concorso con Caio, oppure sia di lesione che di violenza sessuale, ex art. 609bis c.p.?
Il problema interpretativo posto andrebbe risolto alla luce degli artt. 110 e 116 c.p.
Si applica la disciplina del concorso se si concorre nel medesimo reato e se nel caso in cui uno dei
concorrenti voleva un reato diverso (Tizio pensava che si sarebbe realizzato solo il reato di lesioni
personali) l’evento penale, comunque, si è verificato come conseguenza della condotta di colui che
voleva il reato diverso.
Indubbiamente, Tizio aveva pensato che Caio avrebbe compiuto il solo reato di lesioni personali,
ma la condotta del secondo, comunque, è stata determinata anche dal primo? Tizio potrebbe
rispondere, oltre che del reato di concorso in lesioni personali, anche di violenza sessuale, laddove
si rispondesse positivamente all’interrogativo posto.
Invero, l’evento violenza sessuale è attribuibile anche a Tizio solo se è stato conseguenza della sua
azione od omissione; dal punto di vista oggettivo indubbiamente Tizio ha contribuito alla
realizzazione del reato, ma dal punto di vista soggettivo (anche ex art. 27 Cost.) è dubbio che possa
sussistere un’attribuzione causale di questo tipo, in quanto la violenza sessuale non poteva essere
prevista perché imprevedibile.
Infatti, Tizio si era accordato con Caio per la sola lesione personale, e seppur quest’ultimo era stato
processato più volte per il reato di violenza sessuale, comunque, non era mai stato condannato, con
il corollario logico-deduttivo che la violenza posta in essere da Caio a danno di Saitta non essendo
prevedile in alcun modo da Tizio, non può giustificare una personale responsabilità in tal senso;
diversamente argomentando, verrebbe vulnerato l’art. 27 Cost., nonché l’art. 43 c.p., a favore di una
ricostruzione della responsabilità penale, in termini rigorosamente oggettivi, vietata
dall’ordinamento giuridico penale.
In questa prospettiva, pertanto, Tizio potrebbe rispondere in concorso con Caio del solo reato di
lesioni personali, e non anche del reato di violenza sessuale.
184
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
-Il delitto di violenza sessuale di gruppo, considerato come circostanza della forma aggravata
dell’omicidio, se commesso in un unico contesto temporale, non concorre formalmente bensì
resta in quest’ultimo assorbito, venendo a confluire nella figura del reato complesso di cui
all’art. 84 comma 1 c.p., punibile con l’ergastolo. Altresì, la fictio juris dell’assorbimento, in
funzione della previsione aggravatoria della pena per l’omicidio, non cancella l’autonomia del
delitto di violenza sessuale, ai plurimi e diversi fini di volta in volta rilevanti per le norme di
riferimento dell’ordinamento giuridico.
Sentenza n. 6775 del 28 gennaio 2005 - depositata il 22 febbraio 2005
(Sezione Prima Penale, Presidente M. Sossi, Relatore G. Canzio)
RITENUTO IN FATTO
1.– La sera di sabato 28 settembre 2002 il padre di (omissis) denunziava la scomparsa della figlia,
studentessa quattordicenne, uscita di casa alle ore 15,30 circa. Il primo elemento utile per le
indagini era costituito da un messaggio SMS, pervenuto la mattina successiva al cellulare del
fratello (omissis), con il quale (omissis) comunicava che stava con “T.”, cioè con (omissis) cui era
legata sentimentalmente, e che non intendeva tornare a casa. Il messaggio si rivelava però
fuorviante e opera di altri soggetti perché il (omissis) in quel momento si trovava coi familiari nella
caserma dei Carabinieri. Si accertava anche che il messaggio era stato inviato da una cabina
telefonica stradale di Leno mediante una scheda prepagata smarrita dal titolare nello scorso agosto a
Iesolo, località in cui era in vacanza la famiglia B. pure residente a Leno nei pressi dell’abitazione
della famiglia P.. In effetti, la perquisizione domiciliare eseguita il 4 ottobre portava al
rinvenimento della scheda telefonica in possesso del sedicenne (omissis), la cui tessera SIM
risultava peraltro essere stata utilizzata per fare due telefonate dal cellulare di (omissis) dopo le ore
15,47 del 28 settembre.
Il (omissis) confessava di avere ucciso (omissis) con un coltello e accompagnava i Carabinieri
presso un vecchio e abbandonato cascinale -la cascina Ermengarda- alla periferia di Leno,
indicando lo sgabuzzino sito al primo piano, ove era stato trascinato e giaceva il cadavere della
ragazza. La polizia giudiziaria documentava fotograficamente e procedeva al campionamento di
diverse fascette autobloccanti e di numerose macchie di sangue presenti nei diversi locali, sulla base
delle quali e dei rilievi medico-legali i Carabinieri del RIS avrebbero poi enucleato la verosimile
ipotesi ricostruttiva degli eventi, fatta propria dai giudici di merito. Il (omissis) faceva altresì
rinvenire presso un’altra cascina i jeans e la giacca di (omissis), due rivestimenti del cellulare della
stessa, due fazzoletti sporchi di sangue e una confezione di fascette, oltre un grosso coltello di
acciaio per cucina. Gli accertamenti medico-legali individuavano sul corpo della ragazza quattro
lesioni da punta e taglio, compatibili col coltello sequestrato, di cui due mortali all’emitorace
anteriore e posteriore sinistro, una pure potenzialmente letale al collo ma provocata in limine vitae e
un’altra alla regione lombare sinistra, oltre ad una ferita toracica più superficiale ed a numerose
contusioni, escoriazioni, ecchimosi e ferite da difesa.
185
Coinvolto dal (omissis) nella vicenda, il giovane amico (omissis) faceva a sua volta il nome di un
terzo minorenne, (omissis), ed entrambi facevano quindi il nome dell’odierno imputato, Giovanni
Erra, residente di fronte all’abitazione P., cui attribuivano un preciso ruolo nella dinamica dei fatti,
sia nella fase deliberativa che in quella esecutiva. Esaminato su sua richiesta dal G.i.p., all’esito
dell’audizione del (omissis) e del (omissis) in sede di incidente probatorio, l’Erra rendeva parziali
ammissioni circa la partecipazione all’incontro preliminare, in cui si era progettato di portare con un
pretesto (omissis) nella cascina abbandonata per abusarne sessualmente, e la sua effettiva presenza
nella medesima cascina il pomeriggio del 28 settembre.
Dall’analisi delle tracce ematiche rinvenute all’interno della cascina il R.I.S. dei Carabinieri
enucleava infine l’ipotesi di ricostruzione sequenziale degli avvenimenti, posta a base della
prospettazione accusatoria.
1.1.- Tenuto conto della sostanziale coerenza tra le risultanze delle indagini tecniche e degli
accertamenti medico-legali, le parziali ammissioni dell’imputato e il nucleo fondamentale delle
dichiarazioni accusatorie degli imputati minorenni (omissis) e (omissis), il G.u.p. del Tribunale di
Brescia, investito del rito abbreviato, riteneva provata la presenza fisica e la partecipazione diretta
dell’Erra a tutte le cadenze principali del fatto criminoso e lo dichiarava colpevole dei delitti di
violenza sessuale di gruppo e di sequestro di persona, unificati nel vincolo della continuazione,
nonché del delitto di omicidio pluriaggravato, oltre che del reato di spaccio di sostanze stupefacenti,
condannandolo, negate le attenuanti generiche e con la diminuente del rito, alla pena dell’ergastolo,
oltre al risarcimento dei danni a favore dei genitori di (omissis), costituitisi parti civili.
1.2.- La Corte di assise di appello di Brescia, disattese le eccezioni difensive di inutilizzabilità delle
dichiarazioni parzialmente confessorie rese dall’Erra al G.i.p. e respinte le istanze di rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale, pur ribadendo la tesi della partecipazione diretta dell’imputato alle
principali cadenze della vicenda criminosa, accoglieva parzialmente l’appello dell’imputato
relativamente all’esclusione delle aggravanti dell’omicidio di cui agli artt. 576, comma 1 nn. 1 e 5, e
577, comma 1 n. 4, in relazione agli artt. 61 nn. 1 e 2 c.p., sull’assunto che: l’aggravante dell’art.
576 comma 1 n. 5 si riferisce a figure di reato, quelle degli artt. 519-520-521, ormai espunte
dall’ordinamento a seguito della riforma dei reati sessuali di cui alla legge n. 66 del 1996, e in ogni
caso la violenza sessuale di gruppo costituisce una fattispecie autonoma a concorso necessario,
rispetto alla quale non è dato rinvenire continuità normativa con le ipotesi abrogate; non era
configurabile né provata la finalizzazione dell’omicidio all’occultamento dell’abuso sessuale o ad
assicurarsi l’impunità dal medesimo reato, poiché la situazione era ormai uscita di controllo a causa
dell’improvvisa furia omicida del (omissis); la futilità del motivo, pertinente alla condotta del
materiale esecutore a fronte della reazione ingiuriosa della vittima, non si comunicava per il suo
carattere soggettivo al coimputato. Di talché, con sentenza del 26/5/2004 la Corte distrettuale,
concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla residua aggravante della crudeltà di cui
all’art. 61 n. 4 c.p., riduceva la pena ad anni 20 di reclusione (p.b. per l’omicidio anni 23 + anni 7
per il concorrente reato continuato di sequestro di persona e violenza sessuale + anni 2 per il reato
di spaccio di stupefacenti = anni 32, ridotti ex art. 78 c.p. ad anni 30 – 1/3 per il rito abbreviato =
anni 20), con conseguente revoca della pubblicazione della sentenza e limitazione di durata pari a
quella della pena detentiva delle pene accessorie dell’interdizione legale e della sospensione della
potestà genitoriale; confermava nel resto la decisione di primo grado.
2.- Avverso la predetta sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione il difensore
dell’imputato e il P.G. presso la Corte d’appello di Brescia, cui hanno fatto seguito note di replica
del primo e memoria difensiva del procuratore speciale delle parti civili.
186
2.1.- Il difensore dell’imputato, dopo avere ribadito l’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni
rese dallo stesso davanti al G.i.p. all’esito dell’incidente probatorio fissato per l’audizione del
(omissis) e del (omissis), nonché criticato la denegata rinnovazione dell’istruzione probatoria
mediante il riesame dei coimputati minorenni e la perizia psichiatrica sulla fragile personalità
dell’Erra, ha dedotto la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla individuazione del ruolo
e dello specifico contributo concorsuale dell’imputato. Le sequenze fattuali sarebbero state
ricostruite e la sua partecipazione alla vicenda criminosa affermata in forza di elementi indiziari
inattendibili, incerti e congetturali, in particolare circa l’apporto operativo consistito nell’ostacolare
la fuga della vittima e nel prestare aiuto all’aggressore determinato ad ucciderla. In ogni caso,
quantomeno ai fini dell’ipotesi subordinata della diminuente di cui all’art. 116 c.p., secondo
l’alternativa ricostruzione dei fatti prospettata dalla difesa del ricorrente, l’eventuale presenza
dell’Erra nella cascina si sarebbe verosimilmente verificata quando la vittima era già stata colpita a
morte e trovavasi accasciata per terra ai piedi della scala, mentre la furibonda reazione del
(omissis), in preda ad una furia omicida, segnava ormai “un’invalicabile cesura tra gli atti sessuali e
la deviazione da essi verso approdi nemmeno immaginati”, diversi e più gravi rispetto al reato
voluto, oltre ogni possibilità di intervento dell’Erra per arrestare l’esecuzione omicidiaria. Ha
denunziato inoltre la difesa dell’imputato l’erronea applicazione dell’aggravante della crudeltà,
poiché le efferate e atroci modalità esecutive dell’omicidio, per il loro contenuto soggettivo,
appartenevano esclusivamente alla sfera morale del (omissis), determinato da una ormai
incontenibile furia ad uccidere (omissis), dalla quale era stato deriso e insultato. Quanto al sequestro
di persona, se ne è contestata la coesistenza con il delitto di violenza sessuale, la quale avrebbe
comportato di per sé una transitoria e funzionale limitazione della libertà di movimento della
vittima, senza un’apprezzabile soluzione di continuità fra i segmenti dell’azione. Infine, sono stati
censurati l’omesso riconoscimento dell’attenuante della minima importanza della partecipazione
alla vicenda criminosa ex art. 114 c.p. e l’erroneo giudizio di equivalenza fra le attenuanti generiche
e l’unica, residua aggravante.
Il difensore delle parti civili ha replicato censurando l’inammissibilità del ricorso dell’imputato,
essendosi questi limitato a proporre una ricostruzione alternativa degli eventi non consentita in sede
di legittimità ovvero ad avanzare richieste manifestamente infondate.
2.2.- Il P.G. presso la Corte d’appello di Brescia ha dedotto a sua volta:
a) la manifesta illogicità della motivazione quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante del
nesso teleologico, sul rilievo che l’uccisione della ragazza aveva l’obiettivo di procurarsi l’impunità
dai delitti di sequestro di persona e di violenza sessuale facendo tacere per sempre la vittima, sul cui
corpo, pure in assenza di segni dei palpeggiamenti, erano comunque visibili le tracce lesive (tagli,
graffi, ecchimosi) dell’aggressione subita;
b) l’erronea applicazione della legge penale quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante di
cui all’art. 576, comma 1 n. 5, c.p. in relazione al contestuale delitto sessuale di gruppo, attesa la
prospettata continuità (non solo delle tradizionali condotte di violenza sessuale descritte negli artt.
609-bis e 609-ter, ma anche) della speciale e concorsuale figura criminosa di cui all’art. 609-octies
rispetto alle abrogate fattispecie di cui agli artt. 519-520-521, tuttora richiamate dall’art. 576 per un
mero difetto di coordinamento legislativo, con l’ulteriore conseguenza che l’illecito sessuale,
degradato ad aggravante dell’omicidio, sarebbe in questo assorbito componendo la figura del reato
complesso di cui all’art. 84 c.p.;
c) l’erronea applicazione della legge penale quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante dei
motivi abietti e futili, ritenuta per il suo carattere soggettivo propria del (omissis) e non estensibile
187
al coimputato Erra, che pure aveva contribuito al risultato finale condividendo consapevolmente gli
sviluppi dell’azione esecutiva del primo.
Ha postulato quindi il P.G. una rinnovata valutazione delle circostanze aggravanti erroneamente
escluse e un nuovo giudizio di comparazione tra le stesse e le attenuanti generiche, la cui
concessione a favore dell’imputato non è stata tuttavia contestata.
All’atto di impugnazione del rappresentante della pubblica accusa ha replicato la difesa
dell’imputato, ribadendo la tesi della discontinuità normativa fra le abrogate fattispecie degli artt.
519-520-521 c.p. e la nuova, autonoma e speciale, fattispecie della violenza sessuale di gruppo,
costruita dalla dottrina e dalla giurisprudenza come reato plurisoggettivo a concorso necessario:
donde la non riferibilità dell’aggravante di cui all’art. 576 comma 1 n. 5 al delitto di cui all’art. 609octies c.p.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3.– Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni in rito sollevate dal difensore dell’Erra, in punto
di ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni da questi rese nel corso di incidente probatorio davanti al
G.i.p. e di denegata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, mediante la riaudizione
dei coimputati minorenni e la perizia psichiatrica sulla personalità dell’imputato.
Ritiene il Collegio che la prima eccezione, oltre ad essere formulata in termini generici, risulta
manifestamente infondata, poiché l’Erra, dopo avere espressamente e personalmente chiesto al
G.i.p. di essere anch’egli esaminato e posto a confronto con i coimputati minorenni (omissis) e
(omissis), per i quali era stato appena ultimato il relativo incidente probatorio, ha reso, in sede di
interrogatorio e di confronto con i suoi accusatori, dichiarazioni parzialmente confessorie,
avvalendosi dell’assistenza del difensore nel pieno contraddittorio tra le parti, e accedendo poi al
rito abbreviato, nel quale non rileva comunque la dedotta, e però insussistente, inutilizzabilità
“fisiologica” della prova (Cass., Sez. Un., 21/6/2000, Tammaro).
Quanto all’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la Corte di assise di appello ha
puntualmente replicato alla sollecitazione difensiva con rilievi fattuali attinenti alla completezza dei
dati probatori già acquisiti ai fini del decidere. Donde la valutazione, logica e incensurabile in sede
di legittimità, di superfluità dei richiesti mezzi di prova, atteso che, da un lato, i coimputati
minorenni erano già stati sentiti numerose volte nelle varie fasi del processo, mentre i pur evidenti
aspetti di fragilità della personalità dell’Erra e i denunziati “disturbi di ansia”, correlati anche
all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti, non giustificavano neppure il dubbio di una loro
incidenza sulla normale capacità d’intendere e di volere dell’imputato.
4.– La difesa ha denunziato la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta
partecipazione dell’imputato alla vicenda criminosa, che sarebbe stata affermata in forza di elementi
indiziari inattendibili, incerti e congetturali circa l’identificazione del ruolo e dello specifico
contributo concorsuale a lui ascritto. Secondo l’alternativa sequenza fattuale prospettata dalla
difesa, quantomeno ai fini della diminuente di cui all’art. 116 c.p., l’eventuale presenza dell’Erra
nella cascina si sarebbe verificata solo quando la vittima era già stata colpita a morte ai piedi della
scala, mentre l’ormai incontrollato comportamento del (omissis), in preda ad una furia omicida,
segnava “un’invalicabile cesura tra gli atti sessuali e la deviazione da essi verso approdi nemmeno
immaginati”, diversi e più gravi rispetto al reato voluto. Ad avviso del ricorrente meritavano di
essere censurati, in ogni caso, l’omesso riconoscimento dell’attenuante della minima importanza
della partecipazione ex art. 114 c.p. e, quanto al sequestro di persona, l’affermata coesistenza con il
188
delitto di violenza sessuale, pure in difetto di un’apprezzabile soluzione di continuità fra i segmenti
dell’azione criminosa.
Ritiene il Collegio che tutti i suesposti motivi di gravame siano privi di fondamento.
4.1.- Occorre innanzi tutto rammentare, in linea di fatto, che:
- sono stati i minorenni (omissis) e (omissis) a fare per primi il nome dell’odierno imputato,
Giovanni Erra, residente di fronte all’abitazione della famiglia P., ma dei cui rapporti con la ragazza
era già stata rinvenuta una traccia epistolare nella minuta di un manoscritto della giovane
scomparsa, in cui veniva descritto come un insistente ammiratore, che telefonava tutti i giorni
destando in lei sentimenti di paura;
- il (omissis) e il (omissis) hanno attribuito all’Erra un preciso ruolo nella dinamica dei fatti: essi,
insieme con l’Erra e con un altro minorenne, (omissis), avrebbero concordato fin dal giovedì 26
settembre di attirare con un pretesto (omissis) nella cascina per abusarne sessualmente, confortati
dalle assicurazioni dell’adulto che “ci sarebbe stata” come “ci stava con tutti”; l’Erra era presente
nella cascina mentre i ragazzi spogliavano e palpeggiavano in varie parti del corpo la ragazza,
legata con le mani dietro la schiena con fascette autobloccanti, ed anzi, essendo riuscita la stessa a
fuggire per le scale dopo la prima coltellata infertale dal (omissis) a seguito del rifiuto opposto al
rapporto sessuale, era stato l’Erra a trattenerla per riaccompagnarla forzosamente al primo piano
dove la ragazza, portatasi verso la finestra per l’ennesimo disperato tentativo di fuga, era stata
ancora colpita ripetutamente e mortalmente con il coltello dal (omissis); l’Erra aveva infine
contribuito a trascinare il corpo della ragazza nello sgabuzzino;
- lo stesso Erra ha reso parziali ammissioni nel corso dell’interrogatorio davanti al G.i.p., circa la
partecipazione all’incontro di giovedì 26 con i ragazzi, in cui s’era recepito il progetto di portare
con un pretesto (omissis) nella cascina abbandonata per abusarne sessualmente, e la sua effettiva
presenza nella cascina il tardo pomeriggio di sabato 28, ove avrebbe assistito ad una parte
dell’aggressione e dalla quale sarebbe fuggito perché impaurito dal comportamento del (omissis);
- gli accertamenti medico-legali hanno individuato sul corpo della ragazza quattro lesioni da punta e
taglio, compatibili col coltello fatto rinvenire dal (omissis), di cui due mortali all’emitorace
anteriore e posteriore sinistro, una pure potenzialmente letale al collo ma provocata in limine vitae e
un’altra alla regione lombare sinistra, oltre ad una ferita toracica più superficiale ed a numerose
contusioni, escoriazioni, ecchimosi e ferite da difesa;
- dall’analisi delle tracce ematiche rinvenute all’interno della cascina il R.I.S. dei Carabinieri ha
enucleato l’ipotesi di ricostruzione sequenziale degli avvenimenti (il cui caposaldo è costituito dalla
impossibilità, per una persona colpita da una coltellata così devastante quale quella all’emitorace
anteriore sinistro, di sottrarsi alla presa dei giovani violentatori, di scendere al piano sottostante
cercando di guadagnare la porta d’ingresso e con essa la salvezza) nei seguenti termini: la stretta e
ripida scala collegante il piano terra al primo piano è stata individuata come la zona maggiormente
interessata dalle tracce di sangue appartenenti alla (omissis) e in parte anche al (omissis), feritosi col
coltello; in questa zona la ragazza ha cercato ripetutamente e vanamente di puntellarsi, qui ha
cercato di fuggire raggiungendo il fondo delle scale per poi essere nuovamente sopraffatta e
trascinata al primo piano, sollevata di peso da almeno due persone; gli accoltellamenti mortali alla
schiena e lo sgozzamento finale sono avvenuti accanto alla finestra del primo piano, dalla quale la
ragazza ha ancora invano cercato di affacciarsi.
189
Orbene, valutata la sostanziale coerenza tra le risultanze delle indagini tecniche e degli accertamenti
medico-legali, le parziali ammissioni - pur ritrattate - dell’imputato, insieme con il falso alibi
fornitogli dalla moglie, e il nucleo fondamentale delle plurime e talora contraddittorie dichiarazioni
accusatorie degli imputati minorenni (omissis) e (omissis), i giudici del merito hanno ritenuto
provata la presenza fisica e la partecipazione diretta dell’Erra a tutte le cadenze principali del fatto
criminoso: e cioè, sia all’incontro serale del 26 settembre in cui s’era programmato di attirare con
un pretesto la ragazza nella cascina per perpetrare la violenza sessuale anche grazie alle menzogne
dell’adulto circa la propensione della stessa a “farsela con tutti”, sia alle condotte di violenza
sessuale di gruppo cui aveva quantomeno assistito senza intervenire, sia infine all’uccisione di
(omissis), avendo in particolare contribuito ad impedirne la fuga ed a riportarla con la forza al piano
superiore, dove le venivano inferte le coltellate mortali. Nonostante le varie e contraddittorie
dichiarazioni del (omissis), del (omissis) e dell’Erra, rimangono, infatti, taluni indiscutibili punti
fermi in ordine alla circostanza della contemporanea presenza dell’imputato all’intera sequenza dei
tragici avvenimenti, coerenti peraltro con gli oggettivi rilievi di polizia giudiziaria e con gli esiti
delle citate indagini tecniche del R.I.S. e medico-legali, con particolare riguardo alle singole fasi:
dell’incontro del 26 settembre in cui si presero gli accordi per attirare con un pretesto (omissis)
nella cascina il successivo sabato onde abusarne sessualmente; del procacciamento delle fascette
autostringenti e del coltello (di cui parlano l’Erra e sua moglie in due conversazioni telefoniche
intercettate); della fuga della ragazza per le scale dopo il tentativo di immobilizzazione della stessa
mediante le fascette adesive, il parziale denudamento, gli atti di violenza sessuale consistiti in
palpeggiamenti del corpo ed il primo accoltellamento inferto per vincerne la resistenza; della
caduta, dell’arresto, del mancato aiuto e anzi del riaccompagnamento forzoso della stessa al primo
piano, ove veniva ripetutamente accoltellata alle spalle mentre era vicina alla finestra per poi subire
il colpo finale alla gola.
Così ricostruiti, con analitico e puntuale apparato argomentativo, i distinti momenti della complessa
vicenda criminosa e, all’interno della descritta sequenza fattuale, i più significativi aspetti dello
specifico contributo concorsuale recato dall’Erra al sequestro, agli atti di violenza sessuale e
all’omicidio di (omissis) (ben oltre, dunque, la mera presenza passiva postulata dalla difesa), risulta
ineccepibile la logica conclusione – oltre il ragionevole dubbio - che la fattiva collaborazione
dell’imputato a trattenere la vittima che s’era data alla fuga per le scale ed all’operazione di
riaccompagnamento forzoso al piano superiore, alla mercé quindi dell’aggressore armato di coltello,
dal quale era già stata minacciata e gravemente ferita, comportava la consapevole adesione dell’Erra
alla prosecuzione degli atti di violenza e, in termini di altissima probabilità (perciò di dolo diretto),
attesa la furia omicida palesata dal (omissis), alla imminente realizzazione dell’evento omicidiario.
Ed invero, una volta resosi conto che il (omissis) stava colpendo la ragazza con il coltello, solo con
il delineato atteggiamento di adesione al dolo omicidiario, derivante dal timore di essere anch’egli
accusato ove la stessa fosse riuscita a sfuggire agli aggressori, poteva giustificarsi l’aiuto prestato a
ricondurla al piano superiore dove le vennero inferti i colpi mortali. Specifico e consapevole
contributo causale per la realizzazione dell’impresa criminosa, questo, che per il consistente rilievo
psicologico che lo sorregge esclude in radice la configurabilità del prospettato concorso anomalo ex
art. 116 c.p..
Di talché, considerato che dei principi che presidiano l’acquisizione della prova e la sua valutazione
la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione, con motivazione adeguata e articolata, estesa a
tutti gli elementi offerti dal processo, dando ragione delle scelte eseguite e dell’assoluta
preponderanza ed univoca convergenza delle prove d’accusa, concludendo quindi senza
contraddizioni logiche per la responsabilità del ricorrente, le doglianze di quest’ultimo attinenti alla
ricostruzione probatoria dei fatti o alla loro qualificazione giuridica per i profili dell’elemento
psicologico, si rivelano infondate, sollecitando esse in realtà il riesame nel merito della decisione
impugnata, che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità, laddove la Corte distrettuale,
190
come nella specie, abbia esplicitamente motivato circa tutti i punti oggetto delle specifiche ragioni
di gravame.
4.2.- Risulta altresì priva di pregio, per il medesimo ordine di considerazioni, la doglianza del
ricorrente relativa al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., avendo i giudici
del merito ritenuto, con esauriente e logico apparato argomentativo, che il ruolo svolto dall’Erra,
lungi dall’essere stato marginale, era stato determinante e indispensabile, sia per la deliberata
programmazione degli abusi sessuali sia per l’accertata partecipazione all’interno della cascina alle
fasi del sequestro e della violenza sessuale, seguite dalla forte reazione e dall’uccisione della
vittima. Di talché, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, da un lato il contributo
concorsuale dell’Erra aveva rivestito efficienza causale, essendosi posto come condizione
necessaria dell'evento lesivo, e dall’altro esso non era stato tale da poter essere avulso, senza
apprezzabili conseguenze pratiche, dalla serie causale produttiva dell'evento.
4.3.- Anche per il capo relativo al sequestro di persona le decisioni di merito sono sorrette da un
corretto e logico apparato argomentativo, ancorato a precise risultanze probatorie, essendosi
evidenziato che, pur comportando la violenza sessuale di per sé una transitoria e funzionale
limitazione della libertà di movimento della vittima (assorbendo in questo caso il giudizio di
riprovevolezza di tale illecita condotta), nel caso concreto (omissis) venne privata della libertà
personale per un tempo più ampio di quello necessario per realizzare gli atti di violenza sessuale,
avendo la ritenzione e l’immobilizzazione della vittima contro la sua volontà anticipato di un
congruo momento gli atti sessuali: questi, infatti, sicuramente iniziarono dopo le ore 16,00, mentre
già alle ore 15,47 la ragazza era stata immobilizzata e le era stato sottratto il cellulare, con il quale il
(omissis), inserendovi la sua scheda, avrebbe fatto una prima telefonata.
4.4.- Quanto al riconoscimento dell’esistenza a carico dell’Erra dell’aggravante per il delitto
omicidiario di cui all’art. 577 n. 4, in relazione all’art. 61 n. 4 c.p. (avere agito con crudeltà verso la
vittima per le atroci ed efferate modalità esecutive dell’omicidio), la relativa censura del ricorrente,
argomentata sull’assunto che essa, per il suo carattere soggettivo, apparterrebbe esclusivamente alla
sfera morale del (omissis), determinato da una ormai incontenibile furia ad uccidere (omissis), dalla
quale era stato deriso e insultato, si palesa priva di fondamento.
E’ bensì vero che la circostanza aggravante in esame ha natura soggettiva, in quanto attiene alla
intensità del dolo del soggetto agente, rivelandone l’indole particolarmente malvagia e
l’insensibilità a ogni richiamo umanitario (Cass., Sez. I, 30/05/1980, Milan, rv. 146064; Sez. I, 6
ottobre 1987, Mastrotaro, rv. 177452). Ma la Corte distrettuale, ai fini del criterio di imputazione
disciplinato dagli artt. 59 comma 2 e 118 c.p., sost. rispettivamente dagli arrt. 1 e 3 L. 7/2/1990 n.
19, ha posto correttamente in rilievo come il ricorrente, nel momento in cui ebbe ad impedire la
fuga della ragazza, già ferita a colpi di coltello ripetutamente infertile dal (omissis), ed a riportarla
poi di peso al primo piano della cascina nelle mani dello stesso, non poteva non avere piena
consapevolezza e perciò rappresentarsi i mezzi e le spietate modalità con cui l’aggressore, ancora in
possesso del micidiale coltello, avrebbe proseguito nell’azione omicida, culminata addirittura con la
recisione della gola quando la vittima era ancora viva. Di guisa che la relativa aggravante non può
non essere riferita anche al soggetto che abbia dato la sua adesione, col proprio volontario
contributo, alla realizzazione dell'evento criminoso e, prima dell'esaurirsi del suo apporto, ne abbia
maturata e fatta propria la particolare intensità del dolo.
4.5.- Il ricorso dell’imputato va pertanto respinto con le conseguenze di legge, mentre, con riguardo
alla residua doglianza difensiva avente ad oggetto il giudizio di equivalenza e la denegata
prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante della crudeltà - l’unica ritenuta sussistente dai
giudici di appello -, il relativo motivo di gravame deve ritenersi assorbito nelle statuizioni di
191
accoglimento delle ragioni di ricorso del P.G., di cui appresso si dirà, restando affidato al giudice di
rinvio il compito di provvedere al rinnovato apprezzamento circa la sussistenza delle altre
circostanze aggravanti, pure contestate, ed al conseguente giudizio di comparazione delle stesse con
le attenuanti generiche, e quindi all’eventuale rideterminazione della pena.
5.1.– Il P.G. ricorrente ha denunziato, a sua volta, l’erronea applicazione della legge penale, quanto
all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante del motivo abietto e futile di cui all’art. 577 n. 4, in
relazione all’art. 61 n. 1 c.p., che la Corte d’appello ha ritenuto, per il suo carattere soggettivo,
proprio del (omissis) e non estensibile al coimputato Erra, il quale avrebbe contribuito al
raggiungimento del risultato finale “per una diversa motivazione, di ben più cospicuo spessore,
rappresentata dalla necessità di evitare che fosse rivelato il compiersi di un tentato omicidio”.
Il motivo di gravame è fondato poiché - come si è già osservato a proposito della “crudeltà” - la
natura soggettiva e personale della circostanza aggravante in esame, siccome attinente alla intensità
del dolo del soggetto agente, non comporta affatto, secondo una irragionevole applicazione del
criterio di imputazione disciplinato dagli artt. 59 comma 2 e 118 c.p., che la stessa possa riguardare
solo la sfera morale del (omissis), rimanendo invece automaticamente estranea all’Erra. Sembra
infatti logico ritenere, come ha affermato il giudice di primo grado e come ha prospettato la
pubblica accusa, che l’Erra, nel concorrere volontariamente e consapevolmente al risultato finale e
nel condividere gli sviluppi dell’azione esecutiva, sia stato altresì in grado di rappresentarsi la
palese viltà e l’enorme sproporzione dei motivi del gesto omicidiario, e perciò di maturare e fare
propria la particolare intensità del dolo che lo ha assistito.
5.2.- Risulta parimenti fondato l’ulteriore motivo di ricorso con il quale il P.G. ha dedotto la
manifesta illogicità della motivazione quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante del nesso
teleologico di cui all’art. 576 comma 1 n. 1, in relazione all’art. 61 n. 2 c.p., che, secondo la
contestazione, sarebbe stato commesso per occultarne un altro ovvero per assicurarsi l’impunità del
delitto di violenza sessuale di gruppo.
Infatti, le affermazioni della sentenza impugnata (pag. 46) secondo cui, da un lato, la finalizzazione
dell’omicidio ad occultare l’abuso sessuale non sarebbe configurabile “perché l’omicidio della
vittima non nasconde le eventuali tracce dell’abuso” e, dall’altro, “l’aiuto prestato dall’Erra non
pare rivestire la finalità di evitare la scoperta del reato sessuale o di procurarsi l’impunità per tale
delitto, ma è conseguenza della presa d’atto che la situazione era uscita di controllo e che occorreva
evitare che la ragazza, già aggredita nella sua fisica incolumità, denunciasse qualche cosa di ben più
grave che una molestia sessuale”, si palesano meramente apodittiche, disancorate da ogni base
fattuale e probatoria, oltre che in insanabile contraddizione con quanto si legge in altri passaggi
della motivazione.
Ed invero, dall’affermazione contenuta nella medesima sentenza (pag. 42), laddove si sostiene che
il comportamento attivo tenuto dall’Erra, nell’impedire alla (omissis) di fuggire, era “diretto ad
evitare che la giovane desse l’allarme” e quindi potesse denunciare i gravi delitti fino a quel
momento commessi, sembra lecito desumere, come lineare e logico corollario, la concreta
configurabilità, tra i motivi soggettivi dell’apporto concorsuale dell’Erra all’uccisione della ragazza,
anche dell’obiettivo di occultare o conseguire l’impunità dai delitti di sequestro di persona e di
violenza sessuale, facendo tacere per sempre la vittima, sul cui corpo, pure in assenza di segni dei
palpeggiamenti, erano comunque visibili le tracce lesive dell’aggressione subita.
192
Entrambi i punti controversi, riguardanti l’applicazione delle circostanze aggravanti del motivo
abietto e futile e del nesso teleologico, dovranno essere oggetto, pertanto, di una nuova valutazione
da parte del giudice di merito.
6.- Il P.G. ricorrente ha infine censurato l’erronea applicazione della legge penale quanto
all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante di cui all’art. 576, comma 1 n. 5, c.p. in relazione al
contestuale delitto sessuale di gruppo, sul rilievo - contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte
distrettuale - della continuità normativa della speciale figura criminosa di cui all’art. 609-octies
rispetto alle abrogate fattispecie di cui agli artt. 519-520-521, tuttora richiamate dal n. 5 dell’art.
576.
Il Collegio deve dunque rispondere al duplice quesito interpretativo: a) se la circostanza aggravante
prevista dall’art. 576, comma 1 n. 5 c.p. per il reato di omicidio, quando sia stato eseguito “nell’atto
di commettere taluno dei delitti previsti dagli artt. 519, 520 e 521”, sia tuttora configurabile,
nonostante l’abrogazione di queste ultime disposizioni ad opera dell’art. 1 L. 15/2/1996 n. 66, con
riferimento ai delitti di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis e segg. c.p., inseriti dalla stessa
legge tra i delitti contro la libertà personale, ed in particolare con riferimento all’autonoma
fattispecie della violenza sessuale di gruppo prevista dall’art. 609-octies; b) in caso di risposta
affermativa, se tale aggravante sia compatibile con quella della connessione teleologica fra
l’omicidio e la violenza sessuale, prevista dall’art. 61 n. 2 richiamato dall’art. 576, comma 1 n. 1
c.p..
6.1.- Premesso in linea di fatto che nella ricostruzione probatoria della vicenda criminosa operata
dai giudici di merito non è in discussione la sussistenza del requisito, necessario e sufficiente, della
connessione di contestualità cronologica fra le condotte integrative dei due reati (Cass., Sez. I,
11/12/1972, Colarusso, rv. 123696-697; Sez. I, 10/2/1992, De Pasquale, rv. 189872; Sez. I,
4/3/1997, P.G. in proc. Chiatti, rv. 207229), nel senso che risulta accertato che in occasione e
contemporaneamente agli atti di violenza sessuale sono stati posti in essere altresì atti diretti
all’uccisione della vittima, ritiene innanzi tutto il Collegio che il rinvio dell’art. 576 comma 1 n. 5 ai
“delitti previsti dagli artt. 519, 520 e 521” abbia natura “formale” anziché “recettizia”.
Pur essendo praticabili anche all’interno del medesimo ordinamento entrambi i modelli di rinvio, la
cui scelta rifletterebbe mere esigenze di economia legislativa, deve convenirsi, infatti, che la tecnica
del rinvio “mobile” o “formale” appare più coerente al permanente potere del legislatore - frutto
delle sue scelte punitive - di modificare, sostituire o addirittura abrogare il preesistente atto
normativo. Questo tipo di rinvio consente più realisticamente di fare riferimento non solo alla
specifica norma preesistente ma anche alle sue successive vicende modificative, mentre con il
rinvio “fisso” o “recettizio” viene recepita per intero, senza che ne sia riprodotto il testo, solo la
specifica disposizione incriminatrice all’epoca vigente, della quale si postula la perdurante
intangibilità.
E’ pacifico che la ratio della circostanza aggravante in esame é da ravvisare nell’intento di
apprestare la rigorosa tutela degli interessi ivi protetti, mediante un più severo trattamento
sanzionatorio dei fatti in essa previsti, nel senso di punire più gravemente con la pena dell’ergastolo
l’omicidio allorché questo, denotando una più marcata attitudine criminosa dell’agente, sia
contestuale alle aggressioni alla libertà sessuale della vittima, originariamente contemplate dagli
artt. 519-521 c.p., abrogati dall’art. 1 L. n. 66 del 1996.
Ed è altresì incontroversa, in dottrina e in giurisprudenza, la tesi della continuità normativa tra le
previgenti e plurime nozioni di “congiunzione carnale” e di “atti di libidine” mediante violenza,
minaccia o abuso di autorità, di cui alle abrogate figure criminose, e la nozione di “atti sessuali”,
193
risultante della somma delle previgenti fattispecie e richiamata dall’art. 609-bis c.p. per la
configurabilità del reato di violenza sessuale, nel quale risultano oggi inseriti i medesimi fatti
contemplati nelle prime (da ultimo, Cass., Sez. I, 24/2/2004, Ceraulo, rv. 227118; Sez. III, 6/5/2004,
Gerboni, rv. 229555). All’esito della comparazione e del raffronto tra gli elementi strutturali del
contenuto normativo delle fattispecie incriminatrici (secondo lo schema ermeneutico disegnato nelle
più recenti decisioni delle Sezioni Unite: Sez. Un., 20 giugno 1990, Monaco; Sez. Un., 25/10/2000,
Di Mauro; Sez. Un., 9/5/2001, Donatelli; Sez. Un., 27/6/2001, Avitabile; Sez. Un., 26/3/2003,
Giordano) persiste infatti, anche se mutato, il giudizio di disvalore astratto per effetto di un nesso di
continuità ed omogeneità delle rispettive previsioni e il significato lesivo del fatto storico risulta
riconducibile nel suo nucleo essenziale ad una diversa categoria d’illecito, tuttora penalmente
rilevante nonostante ed anzi proprio in conseguenza dell’intervento legislativo, formalmente
abrogativo. Di talché, la pur espressa abrogazione dell’intero capo I del titolo IX del libro secondo
del codice penale non ha certamente comportato una generalizzata abolitio criminis in materia, ma
solo un ordinario fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, disciplinato dal
comma 3 dell’art. 2 c.p., nell’ambito della cennata unificazione delle due fattispecie di cui agli artt.
519-521 nella violenza sessuale di cui all’art. 609-bis.
Ciò posto, occorre concludere che la mancata riformulazione dell’art. 576 comma 1 n. 5 c.p., ad
opera della L. n. 66 del 1996, sia ascrivibile a mero difetto di coordinamento legislativo e non possa
essere affatto intesa dall’interprete come implicita abrogazione dell’aggravante, che permane
nonostante la mutata collocazione dei fatti di reato contemplati nelle disposizioni degli artt. 519-521
in altro titolo e in altre norme dello stesso codice penale, in forza del rinvio “formale” di cui si è
fatto cenno.
6.2.- Si sostiene tuttavia, da una parte della dottrina, che il rinvio in esame opererebbe ancora con
esclusivo riguardo alle condotte di violenza sessuale già ricadenti nella sfera delle tradizionali
figure criminose degli artt. 519-521, oggi descritte negli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater, quindi
solo nell’ipotesi di realizzazione monosoggettiva del tipo di illecito, suscettibile di concorso
eventuale di persone ex art. 110 c.p., ma non anche per la autonoma e più grave fattispecie
criminosa della violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609-octies. In questa, nonostante l’identità
del bene giuridico protetto, é configurabile, in considerazione del maggiore grado di intensità
dell’offesa alla libertà sessuale della vittima realizzata da “più persone riunite”, un reato
plurisoggettivo a concorso necessario (Cass., Sez. III, 3/6/1999, Bombaci, rv. 215148; Sez. III,
13/11/2003, Pacca, rv. 227495), completamente nuovo e non corrispondente alla previgente
disciplina, che prevedeva solo la figura dell’ordinario concorso di persone negli atti di violenza.
L’esclusione viene dunque motivata (v. anche la sentenza impugnata, pag. 45) con il rilievo che non
sussisterebbe alcuna continuità normativa tra i delitti di cui agli abrogati artt. 519-521, per la cui
integrazione non era richiesta, oltre all’accordo delle volontà dei compartecipi, anche l’elemento
costitutivo della simultanea, effettiva presenza di costoro nel luogo e nel momento di consumazione
dell’illecito, e quello di violenza sessuale di gruppo, nella specie contestato e ritenuto a carico
dell’Erra.
La tesi, come hanno puntualmente rilevato sia il P.G. ricorrente che il P.G. requirente, non può
essere condivisa, per una serie di ragioni di ordine logico-sistematico.
La descrizione legale della condotta tipica, integratrice dell’autonoma fattispecie della violenza
sessuale di gruppo, pur connotata dalla contestualità e interazione delle condotte partecipative di più
persone riunite nella fase esecutiva del delitto, e sol per questo punita più gravemente e sottratta al
regime ordinario di perseguibilità a querela, rinvia secondo la formulazione letterale del primo
comma dell’art. 609-octies, quanto alle modalità dell’azione criminosa, alla unitaria nozione degli
“atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis”.
194
Orbene, se è esclusivamente il dato della “partecipazione da parte di più persone riunite ad atti di
violenza sessuale” a svolgere il ruolo di elemento specializzante e aggiuntivo, che qualifica in
termini di autonomia la fattispecie a concorso necessario della violenza sessuale di gruppo, rispetto
alla tipicità generale del concorso di persone, non sembra possa dubitarsi che la condotta
integratrice di base del delitto in esame sia pur sempre costituita dai singoli atti di violenza sessuale
realizzati dai soggetti agenti, in forma monosoggettiva o plurisoggettiva, che corrispondono
ontologicamente e strutturalmente alle tradizionali ipotesi di atti di libidine e di congiunzione
carnale violenta, prima previste dalle abrogate norme degli artt. 519-521 ed oggi sostanzialmente
sussumibili nell’unitaria nozione di cui all’art. 609-bis.
Di talché, una volta individuato, all’esito del raffronto strutturale tra gli elementi descrittivi delle
astratte fattispecie, un rapporto di specialità “per aggiunta” tra la fattispecie dell’art. 609-octies e
quella dell’art. 609-bis c.p., deve convenirsi che anche in riferimento alla figura criminosa della
violenza sessuale di gruppo, attesa la persistente e prevalente rilevanza lesiva dell’elemento comune
e tipico alle due fattispecie, si pone in termini di continuità (lo stupro di gruppo essendo certamente
punibile già in base alla legge precedente, a titolo di concorso di persone nel reato ex artt. 519-521)
un ordinario fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, disciplinato dal
comma 3 dell’art. 2 c.p., nell’ambito della cennata unificazione delle due fattispecie di cui agli artt.
519-521 nella violenza sessuale di cui all’art. 609-bis (Cass., Sez. III, 1/7/1996, Hodca, rv. 205798).
D’altra parte, essendo confermata la vigenza della previsione aggravatoria comportante la pena
dell’ergastolo nelle ipotesi meno gravi di realizzazione monosoggettiva o di concorso eventuale ex
art. 110 c.p. in atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis, sarebbe, oltre che iniquo, davvero
irrazionale da un punto di vista logico-sistematico, considerata la ratio dell’aggravamento,
interpretare la mancata riformulazione dell’art. 576 comma 1 n. 5 c.p., ad opera della L. n. 66 del
1996, nel senso della sua implicita abrogazione limitatamente alla più grave ipotesi dell’omicidio
commesso nell’atto di eseguire una violenza sessuale di gruppo. Figura questa che, al di là
dell’elemento specializzante e aggiuntivo della “partecipazione da parte di più persone riunite ad
atti di violenza sessuale”, risulta per contro sovrapponibile, nel nucleo essenziale e negli elementi
strutturali di base della norma incriminatrice, alle abrogate fattispecie degli artt. 110, 519-521 c.p.,
unificate nel nuovo art. 609-bis.
Ne deriva quale ulteriore conseguenza che, in tal caso, il delitto di violenza sessuale di gruppo,
considerato come circostanza della forma aggravata dell’omicidio se commesso in un unico
contesto temporale, non concorre formalmente bensì resta in questo assorbito, venendo a confluire
nella figura del reato complesso in senso stretto di cui all’art. 84 comma 1 c.p., punibile con
l’ergastolo (Cass., Sez. I, 11/12/1972, Colarusso, rv. 123697; Sez. I, 10/2/1992, De Pasquale, rv.
189872).
6.3.- Avendo dato risposta affermativa al primo quesito interpretativo, la Corte è chiamata a
pronunziarsi sull’ulteriore questione se l’affermata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 576
comma 1 n. 5, con il conseguente assorbimento del delitto di violenza sessuale di gruppo in quello
di omicidio, sia compatibile con il riconoscimento dell’aggravante prevista dall’art. 61 n. 2
richiamato dall’art. 576, comma 1 n. 1, contestata anche con riferimento al fine di occultare e
conseguire l’impunità del primo dei menzionati delitti (oltre che del sequestro di persona), ovvero
ne comporti l’esclusione.
Premesso che ben possono coesistere, dal punto di vista storico-fattuale, la contestualità cronologica
e il collegamento di tipo finalistico fra le condotte e le distinte volizioni dell’omicidio e della
violenza sessuale, ritiene il Collegio (richiamandosi sul punto alla Relazione ministeriale al progetto
195
definitivo del codice penale del 1930 - p. 369 - e aderendo ad un pur remoto, ma non contrastato,
indirizzo giurisprudenziale: Cass., Sez. I, 27/7/1937, Sotgiu; Sez. I, 28/1/1955 n. 142, Bertolino;
Sez. I, 10/12/1958 n. 2069, Bianchi) che neppure si ravvisano ostacoli all’affermata compatibilità
delle due aggravanti nella costruzione concettuale della figura del reato complesso. Ed invero, la
fictio juris dell’assorbimento, in funzione della previsione aggravatoria della pena per l’omicidio,
non cancella l’autonomia del delitto di violenza sessuale, ai plurimi e diversi fini di volta in volta
rilevanti per le norme di riferimento dell’ordinamento giuridico.
7.- In definitiva, la sentenza impugnata, pronunziata dalla seconda sezione della Corte di assise di
appello di Brescia, va annullata con rinvio ad altra sezione della medesima Corte, la quale,
uniformandosi ai principi di diritto suenunciati, procederà a nuova valutazione circa la sussistenza
delle circostanze aggravanti del nesso teleologico, della connessione cronologica e dei motivi abietti
o futili, e quindi alla rielaborazione del giudizio di comparazione e bilanciamento tra le circostanze
aggravanti e le attenuanti generiche, irreversibilmente concesse all’imputato in difetto di specifico
gravame del P.G. sul punto (restando così assorbito il motivo di ricorso dell’imputato che ne chiede
la prevalenza), e alla rideterminazione del complessivo trattamento sanzionatorio.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’esclusione, per il delitto di omicidio, delle
aggravanti di cui agli artt. 576, comma 1 nn. 1 e 5, e 577, comma 1 n. 4, in relazione all’art. 61 n. 1
c.p., e rinvia per nuovo giudizio su tali punti e per la conseguente rideterminazione del trattamento
sanzionatorio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Brescia.
Rigetta il ricorso dell’Erra, che condanna al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione
delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che si liquidano in complessivi euro
4.240, di cui euro 500 per spese.
ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA
TRACCIA:
Tizio è proprietario e gestore di una palestra di pugilato denominata Vitalix.
Tizio organizzava un incontro di pugilato nella sua palestra tra l’UOMO INVINCIBILE e TIGER
MAN, di fronte a diversi spettatori.
Accadeva, poi, che l’UOMO INVINCIBILE, preso dalla foga, tirasse un pugno particolarmente
violento verso TIGER MAN; quest’ultimo cadeva e, dopo circa dieci minuti, moriva per arresto
cardiaco, senza che nessun medico intervenisse, in quanto nella palestra Vitalix non era presente
una struttura medica o paramedica, idonee a garantire il pronto intervento.
Il candidato prenda in esame, redigendo motivato parere, la posizione giuridica dell’UOMO
INVINCIBILE e di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
196
Successivamente, era necessario accennare al discorso delle scriminanti non codificate, che, come
noto, rendono legittime certe condotte seppur estranee alle scriminanti codificate, in una prospettiva
di analogia in bonam partem.
In particolare, allora, le attività sportive violenti giustificano lesioni personali, in quanto
intrinsecamente correlate con la stessa attività sportiva che si pratica; si tratta di condotte scriminate
per l’applicazione analogica della disciplina del consenso dell’avente diritto (il pugile quando inizia
la sua attività esprime un consenso di fatto a subire lesioni personali), che ben potrebbe giustificare
un’accettazione del rischio.
Se si supera il rischio intrinseco all’attività sportiva che si sta svolgendo, emerge l’eccesso colposo.
L’uomo invincibile ha agito eccedendo i limiti intrinseci all’attività sportiva di pugilato?
Alla luce del fatto che, a rigore, l’uomo invincibile ha sferrato un pugno particolarmente violento,
senza commettere alcuna scorrettezza e non utilizzando mezzi inidonei all’attività sportiva praticata
(si pensi ad un calcio), per cui si è mantenuto nell’ambito dei limiti del rischio consentito ad uno
sport come il pugilato, bisognerebbe concludere nel senso che la sua condotta era lecita, perché
relativa alla scriminante non codificata dell’attività sportiva violenta.
La posizione di Tizio, del tutto diversa da quella dell’uomo invincibile, invece, è ben più grave e
potrebbe giustificare un addebito di responsabilità penale in termini di omicidio colposo,
eventualmente in concorso con l’omissione di soccorso, in quanto Tizio proprietario di Vitalix
rivestiva una posizione di garanzia (in quanto proprietario e gestore) su tutto ciò che accadeva nella
sua palestra, per cui il fatto di non aver predisposto adeguati strumenti di intervento medico idonei
ad evitare danni gravi, giustificherebbe a pieno titolo una responsabilità penale per quanto accaduto
a Tiger man.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-L'atleta che deliberamente viola le regole del gioco è penalmente responsabile.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
SENTENZA 20 gennaio-23 maggio 2005, n. 19473
(Presidente Calabrese – estensore Bruno)
Svolgimento del processo
Con sentenza del 27 settembre 1999, il tribunale di Venezia dichiarava F. Davide colpevole del
reato di lesioni volontarie aggravate, ai sensi dell’articolo 582, 583, comma 2, n. 3, Cp (per avere
cagionato a D. Andrea, colpendolo violentemente con una gomitata all’addome, nel corso di una
partita di calcio, una lesione gravissima dalla quale derivava la perdita dell’uso dell’organo della
milza) e - con la concessione delle attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata aggravante - lo
condannava alla pena di mesi otto di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della
costituita parte civile, da determinarsi in separata sede, con provvisionale liquidata in lire
20.515.600, oltre consequenziali statuizioni di legge.
197
La vicenda processuale riguardava un episodio accaduto il 3 marzo 1995 durante un incontro di
calcio del campionato “Eccellenza” tra le squadre Nuova Salzano e Jesolo 91. Sugli sviluppi di un
calcio d’angolo, il D., portiere dello Jesolo, aveva respinto, in elevazione, il pallone e subito dopo,
in fase di ricaduta, era stato colpito dal F., giocatore avversario, con una gomitata all’addome.
Immediatamente soccorso, lo stesso D. era stato trasportato all’Ospedale di Mirano dove, otto giorni
dopo, aveva subito la splenectomia e la saturazione di una perforazione intestinale.
Pronunciando sul gravame proposto dal difensore dell’imputato, la Corte d’appello di Venezia
riformava, in parte, l’appellata decisione, dichiarando non doversi procedere nei confronti del F.
perché il reato ascrittogli era estinto per intervenuta prescrizione. Confermava le disposizioni
relative all’azione civile, con ulteriori statuizioni di legge.
Avverso l’anzidetta pronuncia lo stesso difensore e l’imputato personalmente propongono ora
distinti ricorsi per cassazione, deducendo le ragioni di censura in parte motiva indicate.
Motivi della decisione
1.- Il primo motivo di ricorso proposto dal difensore denuncia mancanza o manifesta illogicità della
motivazione in ordine alla dinamica della vicenda, ricostruita sulla base di deposizioni testimoniali
contrastanti e senza dar conto, peraltro, dei molteplici rilievi mossi nell’atto di appello.
Il secondo motivo denuncia violazione dell’articolo 606 lett. e) del codice di rito, nonché mancanza
e, comunque, manifesta illogicità della motivazione in ordine a quella stessa dinamica, in palese
contrasto con univoche risultanze testimoniali.
Il terzo motivo denuncia identica violazione dell’articolo 606 lett. e) del codice di rito con
riferimento alla ritenuta volontarietà della duplice lesione della milza e dell’intestino, nonostante le
precise affermazioni del dr. Dall’Olivo, il chirurgo che aveva operato la parte offesa.
Il quarto motivo eccepisce la violazione dell’articolo 606 lett. b) ed e) del codice di rito in relazione
agli articoli 50 e 51 Cp ed alle cause di giustificazione non codificate; nonché errata interpretazione
ed applicazione della legge penale od illogicità della motivazione. Contesta, in particolare, la
qualificazione giuridica del fatto come reato doloso, insistendo, altresì, per la richiesta di
applicazione delle scriminanti di cui agli articoli 50 e 51 Cp (consenso dell’avente diritto ed
esercizio di un diritto) ovvero di quelle, atipiche e non codificate, dell’esercizio dell’attività sportiva
e dell’azione socialmente adeguata, sulla base, peraltro, di autorevoli insegnamenti di questo
Giudice di legittimità.
Il quinto motivo denuncia violazione dell’articolo 606 lett. b) Cpp in relazione agli articoli 582, 590
Cp; errata interpretazione ed applicazione della legge penale sul gradato rilievo che, nel caso di
specie, sarebbe stata, semmai, ravvisabile una fattispecie colposa, ai sensi dell’articolo 590 Cp.
Il primo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato riproduce, in buona sostanza, le
censure già espresse nel ricorso del difensore, sotto il profilo del difetto motivazionale, in ordine
alla lettura delle risultanze testimoniali.
Il secondo motivo eccepisce inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ai sensi
dell’articolo 606, lett. b) del codice di rito, sul riflesso, fondato anche su diversi richiami
giurisprudenziali di legittimità e di merito, che, nel caso di specie, sarebbe operante la scriminante
del consenso dell’avente diritto nell’ambito del rischio consentito che ogni giocatore conosce ed
accetta e che l’ordinamento non punisce per l’interesse pubblico sotteso alla pratica sportiva.
198
2. Le censure relative alla motivazione ed alla metodologia di lettura delle risultanze di causa, che
sostanziano i motivi primo, secondo e terzo del ricorso proposto dal difensore ed il primo motivo
del ricorso dell’imputato, valutate globalmente per identità di ratio, devono essere disattese in
quanto si risolvono in censure di merito. Peraltro, la dinamica del sinistro, nelle sue particolari
modalità, risulta delineata sulla base di un’argomentazione immune da incongruenze di sorta. Dal
coacervo delle motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado, che, in quanto convergenti
in punto di penale responsabilità, si integrano vicendevolmente, costituendo una sola entità
giuridica, risulta infatti accertato che le gravi conseguenze fisiche patite dal D. sono riconducibili
alla gomitata inferta dal F., nel corso di un’azione di gioco. Il dato sostanziale, emerso
pacificamente dalle risultanze processuali, al di là delle segnalate divergenze su particolari
ininfluenti e marginali, depone incontrovertibilmente per l’ascrivibilità del fatto allo stesso imputato
e per l’accidentalità dell’evento nell’ambito di un’ordinaria fase di gioco, non essendo emerso da
alcunché che il colpo sia stato inferto deliberatamente od in un diverso contesto, vale a dire “a gioco
fermo”, con lo specifico e diretto intendimento di aggredire la persona offesa.
In questa sede di legittimità risultano, allora, insindacabili la ricostruzione della dinamica
dell’incidente, la determinazione dell’evento lesivo e la sua riconducibilità all’azione violenta del
F.. L’esistenza di un idoneo apparato giustificativo a fondamento della versione dei fatti prescelta
dal giudice del merito non lascia, dunque, spazio all’apprezzamento delle doglianze di parte,
neanche sotto il profilo scientifico relativo a natura ed eziologia delle lesioni riportate dalla persona
offesa, a fronte delle dichiarazioni - giustamente valorizzate - del consulente di parte civile e del
chirurgo che aveva operato il D..
Le censure di parte vanno, poi, disattese nella misura in cui, sono intese alla contestazione del
mancato rilievo dell’articolo 129 Cpp, a fronte della causa estintiva maturata per decorso del
termine prescrizionale, ed alla richiesta di relativa applicazione in questa sede di legittimità.
E’ ius receptum, infatti, che l’articolo 129 Cpp - come, del resto, è fatto palese dal significato
letterale delle locuzioni usate dalla stessa norma - postula che, in presenza di una causa di
estinzione del reato, il giudice debba privilegiare la pronuncia di proscioglimento nel merito, con
formula corrispondente, soltanto quando dagli atti di causa risulti evidente e, dunque, con rilievo
percettivo ictu oculi che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso e che il fatto non
costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (cfr. Cassazione, 48527/03, rv. 228505,
secondo cui la valutazione che, in proposito, deve essere compiuta dal giudice appartiene più al
concetto di constatazione che a quello di apprezzamento; con la conseguenza che, qualora le
risultanze processuali siano tali da condurre a diverse ed alternative interpretazioni, senza che risulti
evidente la prova dell’estraneità dell’imputato al atto criminoso, non può essere applicata la regola
di giudizio ex articolo 530, comma 2, Cpp, la quale equipara la prova incompleta, contraddittoria od
insufficiente alla mancanza di prova, ma deve essere dichiarata la causa estintiva della
prescrizione). La Corte di merito ha correttamente applicato tale principio giurisprudenziale
rilevando che non risultava evidente in atti alcuna situazione sostanziale che potesse giustificare il
proscioglimento in merito del F., da privilegiare rispetto alla declaratoria della causa estintiva del
reato per prescrizione.
Risultano, invece, fondate, nei soli termini di seguito indicati, le doglianze di parte, espresse nei
motivi quarto e quinto dei ricorso del difensore e nel motivo secondo dell’impugnazione dello
stesso imputato, relativamente alla qualificazione giuridica dei fatto in questione. Profilo questo
che, nell’economia del giudizio, mantiene la sua rilevanza anche in presenza di una causa estintiva,
per la ricaduta che, agli effetti civili, assume la caratterizzazione giuridica ai fini della
determinazione del quantum risarcitorio.
199
Orbene, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie
e giurisprudenziali hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito sportivo, nozione
che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che
governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili,
neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto
non superano la soglia del c.d. rischio consentito. Si tratta di un’area di non punibilità, la cui
giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante.
Il quesito interpretativo se l’esimente in questione debba essere ricondotta al paradigma del
consenso dell’avente diritto, di cui all’articolo 50 Cp, e dunque all’ambito concettuale di una tipica
causa di giustificazione prevista dal sistema positivo, ovvero all’area delle cause di giustificazione
c.d. non codificate è stato risolto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte nel secondo senso,
in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello
sport (cfr., tra le altre, Cassazione, Sezione quarta, 2765/99, rv. 217643; idem, Sezione quinta,
8910/00, rv 216716). Tale interpretazione deve essere certamente ribadita, vuoi perché la
riconducibilità ad una tipica causa di giustificazione comporterebbe non trascurabili problemi di
coordinamento con il generale principio della non disponibilità di beni giuridici fondamentali, quali
la salute od anche la vita, dotati, certamente, di valenza costituzionale, vuoi perché, in effetti, alla
pratica sportiva l’ordinamento giuridico assegna un ruolo di assoluto rilievo.
La considerazione privilegiata attiene sia ad una duplice prospettiva, sia individuale, sul piano della
tutela della persona, sia di carattere sociale: entrambe meritevoli di protezione.
Sotto il primo profilo, rileva la funzione altamente educativa dello sport, soprattutto agonistico,
sotto forma non solo di cultura fisica, ma di educazione del giovane praticante al rispetto delle
norme ed all’acquisizione della regola di vita secondo cui il conseguimento di determinati obiettivi
(quale può essere la vittoria di una gara o il miglioramento di record personale) é possibile solo
attraverso l’applicazione, il sacrificio e l’allenamento e, soprattutto, deve essere il risultato di tali
componenti, senza callide o pericolose scorciatoie. Ed in tale prospettiva, lo sport diventa anche
formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare, con lo spirito giusto, la grande
competizione della vita che li attende e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove
interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle regole e del prossimo.
La valenza positiva dello sport la si coglie, in modo più vistoso, in chiave sociale, con riferimento
alle discipline di squadra, in quanto al valore del benessere fisico, si accompagna quello della
socializzazione, con evidente ricaduta nella sfera di previsione dell’articolo 2 della Carta
Costituzionale, alla luce del riferimento alle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità,
tra le quali sono certamente da ricomprendere anche le associazioni sportive. Senza dire, poi,
dell’ulteriore profilo di utilità sociale connesso al fatto che lo sport può aiutare le istituzioni a
distogliere i giovani da pericolose forme di devianza.
Funzionale al perseguimento di questi valori è il principio di lealtà e di rispetto dell’avversario,
codificato mediante regole tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta
consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di specifiche sanzioni. Non a caso
tutti i regolamenti delle federazioni sportive annoverano tra i principi fondamentali quello della
lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di ciascun ordinamento.
Orbene, proprio sulla base di tali principi è stata ritagliata la nozione di illecito sportivo, con
riferimento all’inosservanza sia dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina
(ad esempio, determinate tipologie comportamentali anche estranee alla competizione vera e
propria; tesseramenti fraudolenti od iniziative volte ad alterare il regolare svolgimento di una gara
200
ed altro ancora), sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate nell’agone sportivo
e che compongono la parte tecnica del regolamento di ciascuna federazione. L’area del rischio
consentito deve ritenersi coincidente con quella delineata dal rispetto di quest’ultime regole, che
individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal
regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante
deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un
determinato sport. Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l’uso della violenza, intesa come
energia fisica positiva, tale in quanto spiegata in forme corrette al perseguimento di un determinato
obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell’avversario, (quale può essere l’impossessamento
di un pallone conteso o la realizzazione di un goal nel calcio, calcetto, hockey, pallanuoto,
pallamano; di un canestro nel basket o di una meta nel rugby et similia; o ancora il superamento
dell’avversario nel pugilato, nella lotta ed altro ancora).
Posto che l’uso della forza fisica, nel senso anzidetto, può essere causa di pregiudizi per
l’avversario che cerchi di opporre regolare azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il
discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva. Ma neppure in ipotesi di violazione di quelle
norme, tale da configurare illecito sportivo, viene travalicata l’area del rischio consentito, ove la
stessa violazione non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un’azione
che, nella concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta elusione
delle regole anzidette. Tutte le volte in cui quella violazione sia, invece, voluta, e sia
deliberatamente piegata al conseguimento dei risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità
fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni
personali, si entra nell’area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della
colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare
lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (per ragioni. estranee alla gara o
per pregressi risentimenti personali o per ragioni di rivalsa, ritorsione o reazione a falli
precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso).
E’ evidente che, ai fini dell’indagine in questione, risulta decisivo accertare se il fatto si sia o meno
verificato nel corso di una tipica azione di gioco, in quanto in ipotesi alternativa ricorre sempre una
fattispecie dolosa.
Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un’ordinaria situazione di gioco, il
fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare
pregiudizi fisici all’avversario, ma al conseguimento in forma illecita, e dunque antisportiva di un
determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di
un’azione di gioco non sia stato altro che mero pretesto per arrecare, volontariamente, danni
all’avversario.
Orbene, applicando tali principi alla fattispecie in esame, è agevole rilevare che dall’esposizione
della sentenza impugnata, integrata, per quanto di ragione, dalla motivazione di primo grado, non
emerge alcun elemento neppure dalle dichiarazioni della persona offesa che potesse indurre a
ritenere che il F. avesse profittato delle circostanze di tempo e luogo per colpire deliberatamente il
D., sull’impulso di motivazioni estranee allo svolgimento della partita.
E’ risultato, inoltre, che il fatto lesivo ha avuto luogo nel corso di un’ordinaria azione di gioco, sugli
sviluppi di un corner, nella tipica situazione che si verifica quando il pallone, dopo la battuta del
calcio d’angolo, spiove in area avversaria e viene conteso dal portiere e dagli altri giocatori. Nello
specifico, il D., in elevazione, era saltato più in alto degli avversari e, sia pure contrastato, era
riuscito a respingere la sfera e poi, in fase di ricaduta, aveva subito l’azione fallosa del F. che lo
aveva colpito con una gomitata.
201
Quindi, certa la circostanza di gioco, certa l’azione fallosa per violazione di una specifica regola di
gioco (tipico fallo sul portiere) ed altrettanto certo l’effetto lesivo, non risulta indicata prova alcuna
che l’impatto sia stato volontariamente inteso ad arrecare pregiudizio all’integrità fisica
dell’avversario, piuttosto che evento conseguente ad un’intempestiva azione di contrasto (il portiere
aveva già colpito il pallone) caratterizzata da salto scomposto (con le braccia allargate ed i gomiti
alzati) ovvero da volontaria violazione di regole di gioco (fallo da frustrazione) non accompagnata
però da univoca volontà di ledere. In questa logica, la parte motiva della sentenza impugnata offre
un elemento di particolare pregnanza che, riduttivamente, è stato valorizzato dal giudice di merito,
al solo fine di ribadire il giudizio di riconducibilità del fatto lesivo al F.. E cioè la circostanza che, al
termine della partita, l’atleta si sia recato prontamente nello spogliatoio avversario per sincerarsi
delle condizioni del D., ad eloquente riprova, ancorché postuma, non solo che era stato proprio lui
l’autore del fallo, ma, soprattutto, che non v’era stato alcun pregresso risentimento od alcuna
volontà di far male.
2. - Per tutto quanto precede, il fatto lesivo per cui è causa deve essere riqualificato, ai sensi
dell’articolo 590 Cp, come fatto colposo, con conseguente statuizione nei termini indicati in
dispositivo.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto che
qualifica come reato di lesioni colpose. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma il 20 gennaio 2005.
Depositato in cancelleria il 23 maggio 2005.
-Conta la posizione giuridica di fatto e non quella formale.
CASS. PEN. – SEZ. IV - 22 novembre 2006, n. 38428- Pres. Lionello- est. Foti
P. propone ricorso avverso la sentenza della Ca di Messina del 13 luglio 2004 che, in parziale
riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, sezione staccata di Taormina, lo ha
condannato alla pena di un anno e sette mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo. Secondo
l’accusa, il P........, nella qualità di amministratore unico della cartiera di Francavilla Sicilia, avendo
omesso di adottare, secondo il disposto dell’articolo 11 del Dpr 574/55, le opportune precauzioni a
riguardo delle modalità di prelevamento e accatastamento della carta, aveva causato la morte per
schiacciamento di Salvatore, dipendente della cartiera, travolto dalla caduta di una balla di carta, del
peso di circa 600 chilogrammi, mentre era intento a prelevare detta carta servendosi di un
“muletto”.
La corte territoriale, nel confermare, in punto di responsabilità, la sentenza di primo grado, ha,
anzitutto, disatteso la tesi difensiva secondo la quale l’imputato aveva, all’interno dell’azienda, solo
compiti amministrativi che non lo rendevano destinatario delle norme antinfortunistiche. Essa ha
sostenuto, invero, che la posizione dell’imputato, di amministratore unico dell’azienda e di soggetto
che concretamente impartiva disposizioni ai lavoratori ed organizzava l’attività aziendale,
202
consentiva di indicarlo quale titolare della posizione di garanzia all’interno dell’azienda e dunque di
responsabile dell’incolumità dei lavoratori. per il resto, i giudici dell’impugnazione hanno rilevato
come l’incidente fosse stato causato da colpa esclusiva dell’imputato, responsabile di un sistema di
lavoro del tutto errato che prevedeva, da un lato, il confuso accatastamento di pesanti balle senza
che si provvedesse alloro ancoraggio per garantirne la stabilità, dall’altro il prelievo delle stesse
attraverso un sistema del tutto inadeguato ed in condizioni ambientali particolarmente precarie
posto che gli addetti erano costretti a transitare, con grave rischio per la loro incolumità, lungo gli
stretti passaggi lasciati liberi dalle cataste di carta, ammucchiate all’interno di un locale privo di
luce sufficiente, nelle ore notturne, e dal pavimento sdrucciolevole per la presenza di fango.
Confermata la penale responsabilità dell’imputato, la corte territoriale, pur ribadendo il diniego
delle circostanze attenuanti generiche, ha tuttavia ritenuto di ridurre ad un anno e sette mesi di
reclusione la pena inflitta dal primo giudice.
Avverso tale sentenza ricorre, dunque, il P...... che deduce:
a) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione agli articoli 40, 43, 113 Cp e
11 Dpr 547/55, mancanza o contraddittorietà della motivazione, travisamento delle risultanze
processuali.
Sotto un primo profilo rileva il ricorrente che erroneamente la corte territoriale lo ha ritenuto
responsabile della morte del Raiti, in quanto soggetto che, di fatto, provvedeva all’organizzazione
del lavoro aziendale e ad impartire le direttive ai dipendenti. I giudici dell’impugnazione sarebbero,
anzitutto, incorsi in errore nel qualificare la posizione dell’imputato che non era di amministratore
unico dell’azienda, come erroneamente si sostiene nella sentenza impugnata (peraltro in contrasto
con lo stesso capo d’imputazione che tale qualifica attribuisce ad altri e che indica l’odierno
ricorrente quale semplice “dirigente”). L’errore, sostiene ancora il ricorrente, avrebbe indotto i
giudici del merito a non approfondire con attenzione il tema dei compiti ricoperti dall’imputato ed a
travisare le emergenze processuali, poiché nessuno dei testi indicati nella sentenza avrebbe mai
affermato, come si legge nel documento impugnato, che era il Puglisi a provvedere
all’organizzazione aziendale ed a comportarsi come il vero titolare dell’azienda.
Sotto il profilo del vizio di motivazione il ricorrente deduce l’illogicità dell’iter argomentativi
seguito dai giudici del merito in ordine alla condotta omissiva indicata quale antecedente causale
dell’evento. In realtà, si sostiene nel ricorso, non sarebbe stata la mancata osservanza delle
prescrizioni antinfortunistiche dettate dall’articolo 11 del citato Dpr a determinare l’evento, essendo
stato accertato che le cataste erano stabili e che solo l’azione deliberata di chi manovrava il muletto
sollevatore avrebbe potuto provocare la caduta delle balle di carta. Nel caso di specie, era stato
accertato, attraverso l’esame dell’unico teste presente ai fatti, che la caduta non era stata
accidentale, né determinata dal mancato ancoraggio al muro delle balle, bensì provocata da una
manovra abnorme dell’operatore del muletto, cioè della vittima, che aveva volontariamente
abbattuto la catasta per imbracare più facilmente le singole balle, ed alla cui anomala condotta,
quindi, dovevano attribuirsi l’incidente e le sue gravi conseguenze.
b) Mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio in
relazione alla misura della pena inflitta ed al disconoscimento delle circostanze attenuanti
generiche. Sotto tale profilo il ricorrente rileva la mancata indicazione dei criteri seguiti per
l’individuazione della pena e delle ragioni che hanno determinato il diniego delle invocate
circostanze attenuanti.
Conclude, quindi, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
Con note d’udienza il ricorrente ha ribadito le proprie argomentazioni e richieste. Il ricorso è
infondato.
203
Certamente insussistente è il vizio di motivazione, che viene dedotto con riguardo, da un lato,
all’errata indicazione del ricorrente, da parte dei giudici del merito, quale amministratore unico
dell’azienda alle cui dipendenze lavorava il Raiti, dall’altro, all’errata interpretazione delle
dichiarazioni rese dai testi Ferrara e Pafumi.
In realtà, quanto il primo dei due profili censurati, occorre rilevare che se è vero che la corte
d’appello ha erroneamente indicato il Puglisi quale amministratore unico dell’azienda, di cui è
titolare ed amministratore la moglie del ricorrente, è altresì vero che la responsabilità di costui è
stata dalla stessa corte rilevata in vista delle mansioni dirigenziali dallo stesso in concreto ricoperte
ed esercitate all’interno della stessa azienda, secondo quanto emerso dalle acquisizioni probatorie in
atti. In particolare, nella sentenza impugnata si richiamano espressamente le dichiarazioni dei testi
Pafumi e Ferrara che hanno indicato l’imputato come il soggetto che dava le direttive ai dipendenti
e che di fatto si comportava quale effettivo titolare dell’azienda. Del tutto adeguata e coerente
rispetto a tali acquisizioni si presenta, quindi, la motivazione della sentenza impugnata, malgrado
l’errata formale qualifica attribuita all’imputato.
Con riguardo al secondo profilo di censura, rilevato che solo nei motivi di ricorso l’imputato ha
contestato l’interpretazione fornita dai giudici del merito delle dichiarazioni dei testi Ferrara e
Pafumi, del quale ultimo si contesta persino l’identificazione, e sorvolando circa l’ ammissibilità
della censura, anche perché relativa ad una diversa interpretazione di elementi probatori
adeguatamente e coerentemente valutati dal giudice del merito, occorre rilevare la totale
inconsistenza dei rilievi mossi dal ricorrente. Invero, costui, in definitiva, nel contestare
l’interpretazione delle dichiarazioni dei predetti testi, si limita ad adombrare l’ipotesi, senza tuttavia
dame contezza, che il Puglisi al quale il Ferrara si riferiva era persona diversa dall’ odierno
ricorrente e che il Pafumi lavorava, prima di essere licenziato, presso altra cartiera di proprietà della
moglie dell’imputato, quasi che tali circostanze, ove anche veritiere, potessero autorizzare il dubbio
circa la veridicità di quanto dai testi sostenuto.
Ugualmente inesistenti sono i vizi di violazione di legge e di motivazione dedotti con riguardo
all’individuazione della condotta colposa attribuita al ricorrente. In realtà, la corte territoriale ha
chiaramente e coerentemente sostenuto, sulla scorta delle emergenze processuali, che profili di
responsabilità a carico dell’imputato dovevano riscontrarsi nel non essersi egli accertato che le
operazioni di accatastamento e di prelievo delle balle di carta, ciascuna del peso di alcune centinaia
di chilogrammi, fossero eseguite nel rispetto della normativa vigente e, comunque, in condizioni di
totale sicurezza per i lavoratori. In particolare, la stessa corte ha sostenuto che se era pur vero che
non erano emerse carenze nelle protezioni antinfortunistiche in dotazione ai lavoratori, era tuttavia
altrettanto vero che l’ambiente ed il sistema di lavoro della cartiera non era rispettoso delle norme
antinfortunistiche, in particolare dell’articolo 11 del Dpr 547/55; in ragione di ciò, l’uno e l’altro si
presentavano fortemente a rischio sia per l’instabilità delle pesanti ed ingombranti balle di carta
accumulate l’una sull’altra in numero di tre o quattro, e persino cinque, senza essere fissate al muro,
in locali talvolta male illuminati ed inadeguati, sia per il sistema di accatastamento e prelevamento
delle stesse, che non garantiva l’incolumità dei lavoratori. D’altra parte, corretta si presenta la
decisione impugnata anche laddove esclude qualsiasi ipotesi di concorso della vittima nella
produzione dell’evento, posto che la manovra dallo stesso eseguita per il prelievo della carta
rientrava, secondo quanto accertato dai giudici del merito, nel normale sistema operativo previsto
per le operazioni di trasporto, cioè nell’ordinaria esecuzione delle mansioni normalmente svolte dal
cartellista in tali occasioni. I giudici del merito, d’altra parte, hanno anche preso in esame la tesi,
avanzata dal ricorrente, secondo cui la stessa vittima aveva posto in essere una manovra azzardata a
causa della quale si sarebbe verificato il mortale infortunio, e ne hanno segnalato l’inconsistenza,
avendo accertato che il Raiti non si era in alcun modo discostato dagli ordinari metodi lavorativi
generalmente seguiti nell’azienda, di guisa che la caduta della pesante balla di carta che aveva
204
travolto il lavoratore era dovuta all’inosservanza, da parte dell’azienda, delle norme
antinfortunistiche ed al sistema lavorativo che non aveva adeguatamente affrontato i delicati temi
della sicurezza dei lavoratori.
Palesemente infondata, infine, è la censura relativa al regime sanzionatorio, anche con riguardo al
mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Su tali punti, invero, la corte
territoriale ha adeguatamente, seppur sinteticamente, motivato, facendo riferimento alla gravità dei
fatti e della condotta dell’imputato a causa dell’ esposizione a rischio di numerose persone, ed
ancora ai precedenti penali, riguardanti proprio la violazione di norme in materia di lavoro e di
tutela dell’ambiente, che testimoniano, a giudizio del giudice dell’impugnazione, un’ attenzione
assolutamente insufficiente, da parte del P., ai temi della sicurezza e dell’organizzazione aziendale.
Infondato è, dunque, il ricorso proposto da P. nei cui confronti, tuttavia, deve dichiararsi la
prescrizione del reato di cui gli articoli 389 e 11 del Dpr 547/55, con conseguente eliminazione
della pena di mesi uno di reclusione inflitta a titolo di continuazione. Il ricorrente deve essere
condannato alla rifusione, in favore delle parti civili costituite, delle spese del presente grado di
giudizio che liquida in complessivi curo 1.600 per onorari, oltre Iva e Cpa.
PQM
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui agli artt. 11 e 389 del Dpr
547/55, perché estinto per prescrizione, ed elimina l’aumento di pena di un mese di reclusione per la
continuazione. Rigetta il ricorso nel resto e condanna il ricorrente a rifondere alle parti civili Gioè
Calogera, Raiti Vincenza, Raiti Lorena Miranda, Raiti Cristina e Raiti Maria Rosa le spese da
queste sostenute nel presente grado di giudizio; spese che liquida in complessivi euro 1.600,00 per
onorario, più Iva e Cpa.
OMICIDIO PRETERINTENZIONALE
TRACCIA:
Tizio era fortemente adirato con Caio, in quanto quest’ultimo aveva sottratto dalla casa del primo
20,oo euro; Tizio incominciava a schiaffeggiare violentemente Caio, fino a farlo cadere per terra.
Successivamente, Tizio prendeva a calci il viso di Caio, facendolo sanguinare.
Dopo, Tizio, che in alcun modo voleva la morte di Caio, prendeva in mano un coltello molto grande
al fine di spaventare Caio; quest’ultimo, si spaventava tantissimo ed aveva un infarto che lo portava
al decesso.
Il candidato prenda in esame la posizione giuridica di Caio, precisando se ai fini della
configurabilità dell’omicidio preterintenzionale:
-l’evento voluto meno grave deve verificarsi o meno e, in questo caso, se è necessaria almeno
l’integrazione del tentativo punibile;
-è necessaria o meno l’imputazione a titolo di colpa del reato più grave.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario cercare di rispondere ai quesiti proposti dalla traccia.
Caio rischia di rispondere del reato di omicidio preterintenzionale, ex art. 584 c.p.
205
Viene chiesto, poi, nell’ambito dello schema dell’art. 584 c.p., le percosse o lesioni personali
devono necessariamente essere state integrate ovvero può essere sufficiente il tentativo?
Secondo l’impostazione minoritaria, sarebbe necessaria la completa integrazione del reato meno
grave (percosse o lesioni), alla luce del rinvio dell’art. 584 c.p. agli artt. 581 e 582 c.p. e non anche
all’art. 56 c.p.
Secondo l’impostazione prevalente, invece, il problema posto andrebbe risolto in termini diversi;
infatti, non sarebbe necessario il rinvio ad un articolo (come l’art. 56 c.p.) puntualmente
individuato, perché già la lettera della legge deporrebbe nel senso che è sufficiente l’integrazione
del mero tentativo del reato minore, in quanto il legislatore con l’inciso “atti diretti a”, ha voluto
richiamare il dato letterale dell’art. 56 c.p. (anche se non precisamente individuato), con il corollario
applicativo che, ai fini della punibilità per omicidio preterintenzionale, sarà sufficiente
l’integrazione delle tentate lesioni o percosse; diversamente argomentando, non si spiegherebbe la
motivazione per cui il legislatore penale abbia ricalcato lo schema letterale del tentativo punibile.
Successivamente, era fondamentale chiedersi se è necessaria la colpa del reato più grave (omicidio)
ai fini dell’integrazione della preterintenzione.
Secondo l’impostazione minoritaria, la preterintenzione sarebbe dolo misto a responsabilità
oggettiva, alla luce del fatto che la preterintenzione è oltre l’intenzione, ex art. 43 c.p., quasi a voler
dire che non è necessaria la sussistenza di alcun elemento psicologico ulteriore al dolo iniziale.
Secondo l’impostazione prevalente, invece, la preterintenzione sarebbe dolo misto a colpa, in virtù
dell’art. 27 Cost. (personalità della responsabilità penale), per cui sarebbe necessario il dolo relativo
a percosse o lesioni misto alla colpa della morte, con il corollario logico deduttivo che, in questo
caso, l’evento morte deve essere almeno prevedibile e/o evitabile.
Una certa giurisprudenza recente ritiene (invero, sulla falsariga del dolo misto a responsabilità
oggettiva) che sia necessario verificare solo la sussistenza del dolo del fatto minore, in una
prospettiva unitaria dell’elemento psicologico, senza porsi alcun problema interpretativo
dell’elemento psicologico del fatto più grave (morte).
Nel caso di specie, pertanto, accogliendo la tesi prevalente della preterintenzione come dolo misto a
colpa, sarà necessario, ai fini dell’applicabilità dell’art. 584 c.p., dimostrare che Tizio poteva
prevedere che Caio avesse un infarto (ad esempio, se era malato di cuore), diversamente, Tizio
risponderà solo di lesioni (o percosse) aggravate.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-L'art. 584 c.p. (omicidio preterintenzionale) non è costituito da dolo misto a responsabilità
oggettiva oppure da dolo misto a colpa, ma semplicemente dal dolo del fatto minore, che
assorbe la prevedibilita' dell'evento omogeneo piu' grave.
In caso di omicidio preterintenzionale, il giudice non deve verificare se l'evento morte fosse
prevedibile secondo un parametro legale, dettato per la colpa, ma solo se l'agente ha agito con
il dolo di cui all'art. 581 o 582 c.p..
Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 8 marzo 2006 (dep. 14 aprile 2006), n.
13673/2006 (469/2006)
REPUBBLICA ITALIANA
206
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FOSCARINI Bruno - Presidente
Dott. ROTELLA Mario - Consigliere
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere
Dott. FUMO Maurizio - Consigliere
Dott. DIDONE Antonio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da H.A.A., nato il ... avverso la sentenza del 25/10/2004 della Corte d'Assise
d'Appello di Milano;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in publica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Rotella Mario;
udite le conclusioni di rigetto del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Salzano F. e di manifesta
infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale;
udito il difensore, Avv. R. M.
PREMESSO
1 - La Corte di Assise di Appello di Milano ha confermato la condanna inflitta ad H.A.A. dal GUP
di Milano, con generiche e diminuente di rito, ad anni 4 e mesi 6 di reclusione, ai sensi dell'art. 584
cp, per avere cagionato il 4.5.99 la morte di E.D. per tromboembolia polmonare massiva da frattura
pelvica (sx), colpendola ripetutamente con schiaffi e calci in data 28.4.99.
La sentenza ricostruisce che il 28 aprile, secondo le testimonianze acquisite, l'imputata, vista la E.
seduta per via su una panchina con tre amiche, si avvicinava sorridendo e, datole improvvisamente
uno schiaffo, l'afferrava per i capelli e la strattonava piu' volte. Nel "parapiglia" seguito, per
l'intervento delle altre donne, l'offesa cadeva in terra e la H. continuava a colpirla a calci, tra l'altro
uno alla parte destra dell'inguine.
Il movente di questo suo comportamento era dovuto all'insulto, che sosteneva di aver subito dall'E.,
per non aver provveduto a restituirle la somma prestatale di L. 220.000.
Alla E., trasportata in ospedale, veniva riscontrato tra l'altro il trauma di cui imputazione, che le
immobilizzava l'arto
inferiore sinistro. Dimessa, con prognosi di gg. 30-35, era trovata morta in casa 6 giorni dopo.
Il C.T. in sede di autopsia, presente quello per l'imputata, concludeva per il nesso causale
dell'embolia mortale con il trauma pelvico.
Il perito, di seguito nominato dal GIP, confermava.
207
Con l'atto di appello la difesa contestava l'assenza di prova che la E. fosse stata spinta in terra
dall'imputata, e che la
formazione trombotica, cui si rapporta il decesso, fosse dovuta al trauma fratturativo.
La sentenza ha risposto che la E. e' caduta a terra, a seguito della colluttazione originata dalla H.,
che continuato a colpirla tra l'altro con un calcio, che ha cagionato la frattura da cui e' scaturito
l'evento. Ha aggiunto che non era necessaria la previsione dell'evento, altrimenti rilevante ai sensi
dell'art. 61 c.p., n. 3.
Il ricorso denuncia:
1) Vizio di motivazione sul nesso causale: il trauma alla branca ileo-pubica sx e' derivato dalla
caduta, non dal calcio, che concerne la parte destra dell'inguine, e dunque vi e' travisamento della
prova decisiva;
2) Mancata pronuncia di sentenza a norma dell'art. 129 c.p.p., posto che il piu' grave evento non era
prevedibile, e per la configurazione del reato secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti e'
necessario il dolo misto a colpa, nonostante taluna decisione di segno contrario; e solleva:
3) Questione di illegittimita' dell'art. 584 c.p. ai sensi dell'art.27 Cost., se la norma e' intesa nel
senso di implicare attribuzione dell'evento piu' grave a titolo di responsabilita' obiettiva.
Ritenuto:
1 - Il 2^ e 3^ motivo concernono la premessa normativa, e sono infondati.
1.1 - Il delitto di cui all'art. 584 c.p. ha un titolo proprio ed esclusivo di responsabilita'.
L'art. 42 c.p., fondando la regola di responsabilita' nel dolo, prevede quali eccezioni il delitto
preterintenzionale e colposo. E infine afferma che la legge determina i casi in cui l'evento e' posto
altrimenti a carico dell'agente come conseguenza della sua condotta.
Va percio' escluso che l'omicidio preterintenzionale sia punibile a titolo di dolo e responsabilita'
obiettiva insieme.
Si era ritenuto che lo fosse per dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. 5^ n. 10994/1981, rv. 151265;
9294/83 - 161038; 4836/85 - 169259; 2634/93 - 194325).
Ma questa Corte (Sez. 5^, n.13114/02, P.G. in proc. Izzo, rv. 222054), giusta lettera della norma
incriminatrice, afferma che l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale e' costituito
unicamente dalla volonta' di infliggere percosse o provocare lesioni.
Per intendere la ratio normativa, va innanzitutto osservato che l'art.43 c.p. costruisce l'elemento
psicologico quale causalita' morale, in parallelo a quella materiale (art. 40 c.p.), fondandola sul
rapporto tra intenzione, costituita da volonta' e previsione del risultato della condotta, ed evento
conseguente alla stessa condotta.
Definendo il delitto doloso secondo l'intenzione, l'articolo pone la regola di responsabilita' nella
corrispondenza dell'evento, da cui dipende l'esistenza del reato, all'intenzione di risultato.
208
La corrispondenza permane nel delitto preterintenzionale, nel quale e' superata solo dalla maggior
gravita' dell'evento.
La corrispondenza e' invece esclusa nel delitto colposo nel quale l'evento, seppure preveduto, e' in
contrasto con il risultato intenzionale. Ed e' per questa ragione che l'art. 43 c.p., detta quali
parametri di causalita' morale ("quando l'evento ... si verifica a causa di ...") la negligenza,
l'imprudenza, l'imperizia o l'inosservanza di norme da parte dell'agente.
Ciascun parametro si rapporta alla categoria logica di prevedibilita' dell'evento da cui dipende
l'esistenza del reato, come conseguenza della condotta, e serve a dimostrare superabile dall'agente
l'inconsapevolezza dell'esigenza di diverso comportamento.
Tanto basta.
Percio', se nel delitto colposo si agisce nonostante la previsione dell'evento, l'art. 61 c.p., n. 3
prevede un'aggravante:
la possibilita' cognitiva e' superata dalla consapevolezza.
La tassativa limitazione dell'aggravante al delitto colposo conferma che la previsione dell'evento da
cui dipende l'esistenza del reato e' componente necessaria e non circostanziale nel delitto
preterintenzionale, come in quello doloso.
Il sistema dunque significa che quanto al delitto preterintenzionale, la disposizione dell'art.43
assorbe la prevedibilità di evento piu' grave nell'intenzione di risultato, per il quale parametri di
negligenza, imprudenza o imperizia, men che d'inosservanza di norme, sono assolutamente
irrilevanti.
E' per esempio incontroverso che l'essere l'agente privo di conoscenze mediche, tali da consentirgli
di prevedere l'evoluzione nell'evento morte del risultato lesivo intenzionale, non pone questione di
imperizia, pur a fronte di complessa ricostruzione medico - legale del nesso causale.
La ragione evidente e' che chi agisce con dolo di delitto di percosse o lesioni per definizione puo'
prevedere l'evento piu' grave del risultato voluto, indipendentemente dai parametri che servono a
qualificare la colpa.
Il rischio del verificarsi della morte e' implicito nell'offesa dell'incolumita' personale, tant'e' che se
l'agente prevede l'evento morte, il delitto e' secondo l'intenzione, e va qualificato omicidio
volontario.
Difatti, come si e' premesso, la piena corrispondenza dell'intenzione, intesa previsione e volonta' di
risultato, all'evento conseguito alla condotta, integra dolo generico del delitto di cui all'art.575 c.p..
E, secondo diritto vivente, e' irrilevante che alla previsione dell'evento si associ l'opzione di risultato
meno grave perche', agendo, si vuole anche quello piu' grave, secondo causalita' naturale della
209
propria condotta (dolo eventuale o indiretto). Tanto, paradossalmente, riconosce proprio la
giurisprudenza del doppio elemento psicologico.
L'errore ermeneutico e' dunque dovuto al travisamento della categoria (idea) di prevedibilita', per la
colpa (concetto), che e' una specie del genere elemento psicologico. Ma se la prevedibilita' va
codificata in un carattere (negligenza, imprudenza, etc.) necessario del delitto colposo, perche'
l'evento si verifica contro l'intenzione, questa necessita' non esiste nel delitto preterintenzionale, a
fronte dell'intenzione del risultato della condotta.
1.2 - A riprova strutturale, l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale e' unico, perche'
ad esso corrisponde un solo evento, da cui dipende l'esistenza del reato.
Tanto trova conferma, oltre che nella lettera della norma incriminatrice in rapporto al dettato
dell'art. 15 c.p., nelle norme sul concorso di reati. Si ritorni alla lettera delle norma.
Secondo l'art. 584 c.p., la condotta consiste in atti diretti a commettere taluno dei delitti di cui agli
artt. 581o 582 c.p.,
mentre l'evento cagionato, da cui dipende l'esistenza del delitto, e' la morte.
Per diritto vivente (giurisprudenza costante da Cass. 13.10.64, Viti in CPMA 65,488 e v. Sez. 5^,
4793/88, CED rv. 178180) la lettera significa sufficiente il tentativo di percosse, men che di lesione,
per la punibilita' a titolo di omicidio preterintenzionale (se per es. ad un atto aggressivo, che non
attinga il corpo dell'offeso, segua un infarto).
Orbene, se l'agente ha voluto un evento minore omogeneo, quale conseguenza della condotta ai
sensi dell'art. 581 o 582 c.p., la progressivita' del delitto di cui all'art. 584 c.p., implica, giusta la
regola dell'art. 15 c.p., assorbimento del delitto sussidiario di cui all'art. 581 o 582 c.p..
Proprio il riferimento all'art.586 c.p., la cui disposizione parallela e' tratta a conforto dalla teoria del
"doppio elemento
psicologico", lo conferma.
L'art.586 c.p., disciplina un delitto "contro l'intenzione", perche' l'evento mortale, o anche solo
lesivo si badi (e v. oltre, dove si osserva perche' non e' previsto anche il delitto di lesione
preterintenzionale), e' conseguenza non voluta di un delitto doloso non sussidiario.
La disposizione si fonda dunque, al contrario di quella di cui all'art. 584 c.p., sulla disomogeneita'
dell'evento lesivo o mortale, rispetto al risultato prefigurato e voluto dall'agente, tant'e' che rinvia
all'art. 83 c.p., che disciplina l'aberrazione e a sua volta stabilisce bensi' che l'agente risponda a
titolo di colpa del delitto qualificato dall'evento diverso, quando il fatto e' preveduto come delitto
colposo, ma conferma il concorso di reati, se l'agente ha cagionato anche l'evento voluto.
210
L'art. 586 c.p., dunque, non si rifa' alla regola dell'art. 15 c.p., ma a quella del concorso di reati,
perche' i due eventi eterogenei, ovvero rapportabili a norme che disciplinano diversa materia,
implicano ciascuno un proprio elemento psicologico.
Viceversa l'art. 584 c.p., non richiede un ulteriore elemento psicologico oltre il dolo di delitto
sussidiario, perche' l'evento da cui dipende l'esistenza del reato progressivo e' unico.
1.3 - Per concludere sul perche' la prevedibilita' non assurge a carattere distinto dell'omicidio
preterintenzionale, e' necessario verificare il rapporto con la realta' fenomenica.
Orbene, si e' visto, l'esperienza dimostra che il rischio di evento omogeneo piu' grave e' insito nel
danno o pericolo che si arreca alla persona fisica.
E nel sistema l'interesse primario, che accomuna i beni essenziali della persona, e'
complessivamente tutelato in ragione dell'idea (categoria) di inevitabilita' dell'evento piu' grave,
conseguente al processo naturale attivato con la condotta umana.
Si tratta della stessa idea per cui la legge afferma in via generale che la causalita' umana non e'
esclusa da cause concorrenti precedenti, simultanee o sopravvenute, indipendenti dall'azione (art. 41
c.p.).
Su questa premessa si rifletta innanzitutto sul perche' la legge non prevede il delitto di lesione
preterintenzionale: il delitto di percosse e quello di lesione concernono oltre che lo stesso interesse,
lo stesso bene incolumita'. Percio' se, percuotendo una persona, dalla condotta scaturisce un
processo morboso (per es. da trauma), il delitto va qualificato ai sensi dell'art. 582 c.p., e, in ipotesi
di maggior gravita', progressivamente aggravato ai sensi dell'art. 583 c.p..
La ratio di questa disciplina e' incontestata sul piano obiettivo e psicologico.
Ma la vita, che si rapporta bensi' allo stesso interesse, costituisce quel bene diverso ed omogeneo,
sulla cui tutela s'incentra tutto il sistema penale. E, fermo che se si usa violenza fisica alla persona
per cagionare sofferenza o malattia, non si e' per definizione in grado di potere escludere che cause
indipendenti dalla condotta, seppure ignote al momento di agire, possano concorrere a cagionare la
morte, e' evidente perche' il sistema, per sorreggere la disciplina
dell'unica ipotesi di delitto preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p., disciplina una specie autonoma
di responsabilita' morale nell'art. 43 c.p..
E' questa la ragione per cui, in caso di omicidio preterintenzionale, il giudice non deve verificare se
l'evento morte fosse prevedibile secondo un parametro legale, dettato per la colpa, ma solo se
l'agente ha agito con il dolo di cui all'art. 581 o 582 c.p..
La prevedibilita' dell'evento piu' grave è assorbita nell'intenzione di risultato del delitto contro la
persona fisica, mentre la speculazione teorica del doppio elemento psicologico, pone la disciplina
normativa fuori della realta'.
211
1.4 - E' pertanto singolare che la motivazione della sentenza impugnata concluda che la previsione
dell'evento non e' necessaria, altrimenti nella specie sarebbe stata contestata l'aggravante di cui
all'art. 61 c.p., n. 3 esclusa in concreto. In tal modo travisa che l'aggravante si applica solo ai delitti
colposi, e non puo' essere applicata all'omicidio preterintenzionale, ed autorizza l'argomentazione
infondata del ricorso.
All'evidenza era sufficiente la risposta gia' resa che la H. aveva di certo voluto offendere
l'incolumita' personale della E., per dimostrare corretta l'inferenza della sua responsabilita' a titolo
di omicidio preterintenzionale per la morte
cagionata.
2 - Il ricorso e' infine giunto a contestare l'illegittimita' dell'art.584 c.p., in rapporto all'art.27 Cost..
La verifica dell'equivoco dialettico, in cui e' gia' incorso in passato questo Giudice di diritto, a cui
altrimenti si rifa' altrimenti il ricorso, dimostra la manifesta infondatezza della questione.
Questa Corte aveva difatti gia' ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimita'
costituzionale, proprio con l'affermazione che la giurisprudenza configura la preterintenzione come
dolo misto a colpa (Cass. Sez. 5^, n. 2634/93, rv. 194325, cit).
Sennonche' la difesa non ha osservato che, motivandola, tradisce l'equivoco spiegando che l'evento
non si rapporta a responsabilita' oggettiva, ma ad una prevedibilita' di minimo profilo.
In tal modo ammette implicitamente che non si e' in presenza dei parametri posti dall'art.43 c.p.,
circa il delitto colposo, che concernono l'intenzione diretta ad altro risultato della condotta, percio'
contro l'evento.
Ma non trae l'implicazione realistica che la prevedibilita' dell'evento piu' grave e' in caso di delitto
preterintenzionale categoria irrilevante per la struttura dell'elemento psicologico, assorbita nel dolo
di percosse o lesioni.
Orbene, l'art. 27 Cost., non trascura affatto che il disvalore del reato e' segnato oltre che dal nesso di
causalita' tra condotta ed evento (art. 40 c.p.), dal rapporto dell'elemento psicologico con lo stesso
evento (art. 43 c.p.).
E' quanto si evince dall'ordinanza 152/84 e dalla sentenza 364/88 del Giudice di legittimita'
(menzionate da Cass. 13114/02, cit.). In questi provvedimenti si afferma che l'art. 27 Cost., comma
1, propugnando il principio di responsabilita' personale, esclude quella per fatto di terzi (e percio'
stesso gia' riconosce come centrale del
sistema penale il rapporto causale dell'evento con la condotta dell'agente) e non contiene tassativo
divieto di responsabilita' oggettiva (art. 42 c.p., comma u.), perche' il precetto va combinato quello
di cui al comma con il 3 (che si occupa dell'emenda del reo).
Per quanto interessa la responsabilita' morale ai sensi dell'art. 584 c.p., quest'ultima non rileva come
concessiva perche', conclude il Giudice di legittimita', e' l'insieme degli elementi costitutivi di
ciascun reato a significarne la ragione di incriminazione ed il metro di punibilita'.
212
Spetta dunque a questa Corte, per il suo compito nomofilattico, volto alla realizzazione del diritto
vivente, spiegare la ragione di incriminazione, e affermare che nel caso non entra minimamente in
giuoco la responsabilita' obiettiva, men che la colpa, bensi' solo il dolo di evento minore, che
assorbe la prevedibilita' dell'evento omogeneo piu' grave.
La ratio dell'art. 584 c.p., risulta insomma conforme al dettato costituzionale, in quanto si fonda sul
rapporto dell'elemento psicologico di un delitto preveduto e voluto contro l'incolumita', con l'evento
morte come conseguenza percio' stesso prevedibile della condotta.
3 - Passando alle questioni di premessa di fatto della sentenza impugnata, il 1^ motivo e' infondato,
al di la' della lettera della motivazione, che pure afferma: "la frattura e' derivata non dalla caduta,
ma dal violento calcio inflitto alla vittima gia' per terra".
Questa frase a prima vista collega gratuitamente il trauma pelvico fratturativo, che immobilizzava
l'arto inferiore sinistro della E., da cui e' scaturita la morte, al calcio da lei ricevuto in terra a destra
nell'inguine, come pure riferito (pag. 2).
L'asserto denuncia un travisamento, che e' bensi' evidente, ma irrilevante.
La frase difatti va letta nel contesto ricostruttivo, che riassume nella frase precedente a quella
censurata, quanto esposto in dettaglio dalla sentenza di 1^ grado, con il rilievo che se la donna (di
eta' avanzata) "e' caduta a seguito del parapiglia, tale parapiglia e' stato cagionato dall'imputata". Ed
e' incontestato dal ricorso che la H. l'aveva repentinamente percossa, afferrata per i capelli e
strattonata, ed ha continuato nella sua azione violenta con calci, tra cui quello all'inguine, quando e'
caduta in terra nel parapiglia, seguito al tentativo delle altre donne presenti di fermarla nella sua
azione violenta.
Ne segue per quanto interessa che la caduta, men che rapportabile a fatto di terzi, non e' ritenuta
estranea alla condotta dell'imputata dai Giudici di entrambi i gradi di merito, bensi' dovuta proprio
all'azione incriminata.
Essi non hanno percio' rilevato alcun elemento di segno contrario idoneo ad escludere il nesso
causale, posto che l'anziana persona offesa, prima di essere aggredita con violenza da lei e di cadere
durante il "parapiglia" sorto per
fermarla, ovvero consecutivo all'azione, era seduta e sicura sulla panchina.
Pertanto il ragionamento complessivo si sottrae alla censura di manifesta illogicita'
(contraddittorieta' o mancanza di motivazione che si voglia).
Resta l'ultima questione, secondo la quale la Corte di merito individuando, quale causa dell'evento,
un tipico atto diretto a ledere (art. 582 c.p.) e non invece, come correttamente avrebbe dovuto fare,
un insieme di atti diretti ad indurre un altro soggetto a desistere da una condotta gia' oppressiva
dell'offesa (art. 610 c.p.), ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 584 c.p., in luogo della
fattispecie prevista e punita dall'art. 586 c.p..
213
L'argomento e' non consentito per l'implicazione di valutazione alternativa che prospetta in questa
sede.
Secondo la ricostruzione di fatto delle sentenze, l'intento offensivo dell'incolumita' sino a livello di
lesione e' dimostrato dall'insieme della condotta violenta contro la persona, attestato a partire dallo
schiaffo e dell'afferrare la donna per i capelli a finire proprio con quel calcio peraltro non unico,
quale che fosse il movente della condotta.
Ed e' anche manifestamente infondato.
Se i Giudici di merito avessero ritenuto che l'agente aveva anche lo scopo rilevante di costringere
l'offesa ad un non fare, si sarebbero trovati in presenza di concorso di reati, non alla necessita' di
qualificare diversamente lo stesso fatto, insopprimibili gli estremi di delitto di lesione in rapporto al
piu' grave evento cagionato. Il richiamo all'art. 586 c.p., posto a suffragio dal ricorso, percio'
implica altro travisamento degli estremi di reato, stavolta non avallato da alcuna giurisprudenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Cosi' deciso in Roma, il 8 marzo 2006.
Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2006
- La preterintenzione è dolo misto a colpa.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 8 giugno 2006 n. 19611
Presidente Sossi – Relatore Cassano
Pg Viglietta – Ricorrente Grillo
Ritenuto in fatto
Con sentenza del 16 giugno 2004 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cosenza
dichiarava Grillo Giovanni responsabile del delitto di omicidio volontario, commesso in Cosenza
l’8 novembre 2002 in danno della convivente Tullo Carmela ed, esclusa l’aggravante della
premeditazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, applicata la diminuente per il rito
abbreviato, lo condannava alla pena di anni quattordici di reclusione, nonché alle pene accessorie
dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena.
La Corte d’assise d’appello di Catanzaro, con sentenza del 16 giugno 2005, riformava la decisione
di primo grado limitatamente alla determinazione della pena, che riduceva ad anni dodici di
reclusione, confermando per il resto la precedente statuizione.
Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, Grillo,
il quale, anche mediante motivi nuovi, lamenta:
a) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, dovendo il fatto essere qualificato come
omicidio preterintenzionale e non volontario;
b) mancanza e manifesta illogicità della motivazione, tenuto conto dell’impossibilità di conferire
valore di piena prova all’alibi rivelatosi infondato, della patologia psichiatrica da cui è affetto
l’imputato, tale da inficiare la valenza della sua confessione, della inattendibilità delle dichiarazioni
214
rese dal minore, affetto da ritardo mentale, e della incompatibilità tra le dichiarazioni rese da
quest’ultimo e le risultanze medico?legali, dell’omessa valutazione della testimonianza di
Benvenuto che ha escluso la presenza in loco dell’auto di Berardi la sera del fatto.
Osserva in diritto
Il ricorso non è fondato.
1. Con riferimento al primo motivo di censura il Collegio osserva quanto segue.
1.1. Il più stretto nesso psichico fra l’agente e il fatto é espresso dall’elemento del dolo, che secondo
l’articolo 42, comma 2, Cp costituisce l’archetipo dell’imputazione soggettiva per l’attribuzione
della responsabilità nella configurazione delle singole fattispecie incriminatici.
Dalla definizione che di esso offre il successivo articolo 43, comma 1, Cp si evince che la struttura
del dolo risulta normativamente caratterizzata non solo dall’elemento di natura intellettiva della
previsione/rappresentazione, ma anche dall’ulteriore dato della volizione dell’evento.
Per quanto riguarda in particolare l’aspetto della condotta, si avverte che, se per i reati a forma
vincolata oggetto del dolo é la condotta specificamente descritta nella norma incriminatrice, nei
reati a forma libera ? e cioè nelle fattispecie casualmente orientate ? in cui il legislatore pone
l’accento con espressioni come “cagionare”. “determinare” e simili, piuttosto che sul tipo di azione,
sulla produzione di un certo tipo di risultato naturalistico, la possibilità di imputare a titolo di dolo il
fatto nel suo insieme postula che sia effettiva la volontà dell’ultimo atto causalmente idoneo a
produrre l’evento.
Che la rappresentazione e la volizione debbano in realtà avere ad oggetto tutti gli elementi
costitutivi della fattispecie tipica ? condotta, evento inteso in senso naturalistico e nesso di causalità
materiale ? e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta lo si desume chiaramente,
d’altra parte, dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nel primo comma
dell’articolo 47 Cp, secondo cui siffatto errore, facendo venire meno il dolo sotto il profilo della
indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità
dolosa e la punibilità dell’agente.
Costituisce, invero, consolidata affermazione nella giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo,
Cassazione, Sezione prima, 19.11.1999, Denaro, riv. 215521; 1, 11.2.1998, Andreotti, riv. 211534;
20.10.1997, Trovato, riv. 208933; Sezione sesta, 10.5. 1994, Nannarini, riv. 200940) quella secondo
cui, in tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi “diretta” e non “eventuale” la particolare
manifestazione di volontà dolosa definita dolo “alternativo”, che sussiste allorquando l’agente, al
momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, si rappresenta e vuole
indifferentemente e alternativamente che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente
ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, attesa la sostanziale equivalenza
dell’uno o dell’altro evento, egli risponde per quello effettivamente realizzato.
Il dolo eventuale, invece, è caratterizzato dal fatto che chi agisce non ha il proposito di cagionare
l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, ? o anche la semplice possibilità ? che esso si
verifichi e ne accetta il rischio.
Questa Corte ha poi costantemente affermato che la sola presenza fisica di un soggetto allo
svolgimento dei fatti non assume univoca rilevanza, allorquando si mantenga in termini di mera
passività o connivenza, risolvendosi, invece, in forma di cooperazione delittuosa, allorquando la
medesima si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del
reato e da agevolare la sua opera, sempre che il concorrente morale si sia rappresentato l’evento del
reato e abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell’autore
materiale (Sezione prima, 11. 10.2000, ric. Moffa, riv. 217347; Sezione 1, 11.3.1997, ric. Perfetto,
riv. 207582).
215
Pertanto, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso va individuata nel fatto che, mentre
la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, il secondo può
manifestarsi pure in forme che agevolino la condotta illecita, anche solo assicurando all’altro
concorrente stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando
chiara adesione alla condotta delittuosa (Sezione sesta, 3.6.1994, ric. Campostrini, riv. 199162;
4.12.1996, ric. Farniano, riv. 206786).
La circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme
differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del
delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso
di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo
alla realizza ione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova
dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare
sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in
essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa
concorsuale, pure prevista dall’articolo 110 Cp, con l’indifferenza probatoria circa le forme
concrete del suo manifestarsi nella realtà (Su, 45276/03, ric. Pg in proc. Andreotti, riv. 226101).
1.2. Relativamente alla doglianza riguardante l’erronea qualificazione giuridica del fatto come
omicidio volontario (articolo 575 Cp) piuttosto che come omicidio preterintenzionale, il Collegio
osserva quanto segue.
A norma degli articolo 42 comma 2 e 43 comma 1 Cp il delitto é “preterintenzionale o oltre
l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di
quello voluto dall’agente”: elemento costitutivo della preterintenzione é dunque la volontà dolosa
del fatto meno grave, cui faccia seguito, sul piano causale rispetto alla condotta criminosa, la
realizzazione di un evento necessariamente non voluto (neppure nella forma del dolo eventuale o
indiretto, perché altrimenti si verserebbe in altra fattispecie più grave di reato), più grave di quello
perseguito.
In giurisprudenza esiste una duplicità di indirizzo in ordine al problema se con tale modello di
responsabilità si delinei un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva ovvero di dolo misto a
colpa.
Il dominante indirizzo dottrinale e il prevalente orientamento giurisprudenziale, formatosi
quest’ultimo attorno al prototipo dell’omicidio preterintenzionale, ricostruiscono la fattispecie
preterintenzionale come ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo è riferito al
reato?base e la seconda all’evento più grave non voluto, che resta, peraltro, del tutto estraneo alla
proiezione dell’elemento volitivo e viene ascritto all’agente sulla base dell’accertamento del
semplice nesso di causalità materiale con la condotta intenzionalmente diretta alla realizza ione di
un evento diverso e meno grave, quindi in base al criterio d’imputazione della responsabilità
oggettiva.
Alla stregua di questa concezione si prescinde da ogni indagine di carattere psicologico sulla
volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità dell’evento.
Questa linea interpretativa, peraltro, determina problemi d i coerenza costituzionale e sistematica, in
quanto non pare compatibile con l’insegnamento offerto dalla Corte costituzionale in tema di
“colpevolezza “ (v. sentenza 364/88).
La Consulta ha, infatti, affermato che «[..] é da confermare che si risponde soltanto per il fatto
proprio, purché si precisi che per fatto proprio non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione
dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale, ma anche e soprattutto dal momento subiettivo
costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla colpa in
senso stretto ... Va precisato che, se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte
quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri
elementi, non é coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente ?c.d. responsabilità oggettiva spuria o
impropria ? il comma 1 dell’articolo 27 Costituzione non contiene un tassativo divieto di
responsabilità oggettiva. Diversamente va posto il problema per la cosiddetta responsabilità
216
oggettiva pura o propria ... Ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva pura alle
sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente
subiettivo, va, di volta in volta a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli
elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere coperti almeno dalla colpa
dell’agente, perché sia rispettata la parte del disposto di cui all’articolo 2 7 comma 1 Costituzione
relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto [..]».
La Corte osserva, inoltre, che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per l’evento
più grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità, sarebbe incoerente con il
regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravatrici di cui all’articolo 59 comma 2 Cp,
modif. dall’articolo i legge 19/1990.
Secondo un diverso orientamento dottrinale e giurisprudenziale l’elemento psicologico del delitto
preterintenzionale deve essere ravvisato nel dolo misto a colpa, riferito il primo al reato meno grave
e la seconda all’evento più grave in concreto realizzatosi, e, ai fini dell’imputazione, si deve
verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento maggiore (Sezione
prima, 11055/98, ric. D’Agata, rv. 211611).
Questo indirizzo, ad avviso del Collegio, appare maggiormente coerente con il principio di
colpevolezza e con i principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale 368/88, secondo cui
deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli “elementi più
significativi della fattispecie”, fra i quali il “complessivo ultimo risultato vietato” se non si vuole
incorrere nel divieto ex articolo 27, commi 1 e 3, Costituzione della responsabilità oggettiva c.d.
pura o propria.
L’alternativa sarebbe l’inquadramento dogmatico dei delitti dolosi lato sensu aggravati dall’evento
necessariamente non voluto non più fra le figure autonome di reato, bensì fra le figure
circostanziate, con la conseguente operatività per essi del descritto regime di imputazione
soggettiva delle circostanze aggravanti, introdotto dalla legge 19/1990 che ha novellato l’articolo 59
comma 2 Cp, e del giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti (Sezione prima,
11055/98, ric.D’Agata, cit.).
Con riguardo alla problematica relativa al criterio differenziale dell’omicidio preterintenzionale
rispetto al dolo omicidiario tipico ex articolo 575 Cp il Collegio rileva che nell’omicidio
preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno negativo, la
volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere, al contrario,
l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario é proprio l’intenzione di cagionare la
morte della vittima.
Quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’animus necandi, per le difficoltà di
riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono il ragionamento fatti certi che
consentono di provare l’esistenza o meno di altri fatti ignoti attraverso un procedimento logico
d’induzione.
Costituiscono fatti indicativi della volontà omicida i mezzi usati, la direzione, l’intensità e la
reiterazione dei colpi, la distanza dal bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di
luogo che favoriscono l’azione cruenta.
1.3. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi sinora enunciati, ravvisando
nella fattispecie sottoposta al suo esame gli elementi costitutivi del dolo omicidiario ed escludendo
di conseguenza la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale.
In tale ottica ha ritualmente valorizzato la partecipazione attiva di Grillo alla consumazione del
delitto ? compiuto immediatamente dopo un litigio intercorso tra il ricorrente e la Tullo ? consistita
nell’aggressione di parti vitali del corpo della donna, nel procacciamento dei mezzi necessari per la
realizzazione dell’azione, nella rimozione e nella ricomposizione del corpo della vittima dopo I a
precipitazione per le scale, nella sistemazione di taluni effetti personali indossati dalla donna
all’interno dell’appartamento al fine di impedire la ricostruzione dell’accaduto e di simulare una
caduta accidentale. A sostegno di tale conclusione sono state puntualmente richiamate le
dichiarazioni rese dall’imputato in particolare nell’interrogatorio del 30 aprile 2004, la
217
testimonianza di Grillo Francesco, gli esiti degli accertamenti medico?legali, dai quali risultava che
la morte era stata determinata da un’insufficienza cardio respiratoria terminale a genesi
multifattoriale alla quale avevano contribúito con apporto causale vario le lesioni traumatiche
contusive a livello della testa e del torace, l’azione di strangolamento e la probabile concomitanza di
una crisi epilettica temporale.
2. Relativamente alla seconda doglianza difensiva occorre premettere, da un punto di vista
metodologico, che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un
orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato, per
espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui
vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle
argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la
loro rispondenza alle acquisizioni.
Allorché sia denunciato con ricorso per cassazione vizio di motivazione del provvedimento
impugnato, a questa Corte spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del
giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato
adeguatamente conto delle ragioni poste a fondamento della decisione adottata, controllando la
congruenza della motivazione, riguardante la valutazione degli elementi apprezzati rispetto ai
canoni della logica e ai principi di diritto che governano la valutazione delle risultanze processuali
(Su, 11/2000, riv. 215828).
Il controllo della Corte di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento
del giudice di merito, essendo inammissibile in sede di legittimità la prospettazione di una diversa
valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il
testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile A) l’esposizione
delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità
evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento
(Sezione sesta, 3529/99, riv. 212565; 2050/96, riv. 206104).
Esula, pertanto, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto
posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di
merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il
ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Su, 6402/97, ric. Dessimone ed
altri, riv. 207944; 19/1994, riv. 199391).
Il vizio di mancanza e/o illogicità della motivazione non può essere sindacato da questa Corte,
quando non risulti prima facie dal testo del provvedimento impugnato, restando ad essa estranea la
verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Sezione
prima, 1700/98, riv. 210566).
L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale
da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a
rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni
del convincimento (Su, 24/1994, ric Apina, riv. 214794).
Dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è
manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli
atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Su, 16/1996,
ric. Di Francesco, riv. 205621).
In sede di legittimità sono, quindi, rilevabili esclusivamente i vizi argomentativi che incidano sui
requisiti minimi di esistenza e di logicità del discorso motivazionale svolto nel provvedimento e non
sul contenuto della decisione (Sezione prima, 1083/98, riv. 210019).
In altri termini il controllo di questa Corte è diretto semplicemente ad accertare che a base della
pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze e che la motivazione non sia puramente
assertiva o palesemente affetta da errori logicogiuridici; restano escluse da tale sindacato le
218
deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza dei fatti, la valutazione
comparativa della loro rilevanza, la scelta di quelli determinanti.
2.2. Nel caso in esame la sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha
diffusamente spiegato gli elementi su cui ha fondato l’affermazione di penale responsabilità
dell’imputato in ordine a delitti a lui ascritti e le ragioni per le quali essi non sono in alcun modo
inficiati nella loro valenza dalle prospettazioni difensive, che peraltro ripropongono in questa sede
rilievi già ampiamente apprezzati nel precedente grado di giudizio.
Il provvedimento impugnato, come del resto quello di primo grado, è pervenuto alla declaratoria di
colpevolezza del ricorrente sulla base dei seguenti elementi: a) dichiara ioni confessorie rese da
Grillo Giovanni, in particolare in data 30 aprile 2004, dalla quale risultava che l’omicidio era
conseguente ad un litigio causato dai rimproveri della donna che non gradiva la presenza di Berardi,
amico del marito e che ad esso aveva attivamente partecipato il ricorrente, secondo quanto già in
precedenza specificato, aggredendo la convivente in parti vitali del corpo, procurando i mezzi per la
commissione dell’omicidio, rimuovendo e ricomponendo, dopo la precipitazione, il corpo della
vittima sul pianerottolo delle scale con la schiena appoggiata alla parete, le gambe distese e la testa
reclinata di lato, sistemando taluni effetti personali indossati dalla donna all’interno
dell’appartamento al fine di impedire la ricostruzione dell’accaduto e di simulare una caduta
accidentale; b) deposizione del figlio minore Francesco, teste oculare; c) accertamenti
medico?legali dai quali risultava un duplice meccanismo lesivo con forza causale concorrente,
secondo quanto già in precedenza specificato; d) sequestro del giubbotto indossato dalla donna che
presentava uno strappo all’altezza del collo; e) esito della perizia psichiatrica esperita sull’imputato
che escludeva disturbi psicotici che potessero avere intaccato le funzioni psichiche ed il rapporto e
il contatto con la realtà e con gli altri ed evidenziava solo una patologia di tipo frustrazionale e di
tipo conflittuale, esitata in acting?out (passaggio all’atto), di tipo violento, a direzione
eterodistruttiva, la cui rilevanza psichiatrica forense era completamente nulla, non essendo
connotata da una frattura evidente rispetto al peculiare stile di vita del soggetto e non emergendo in
nessun caso la presenza di disturbi dispercettivi o di idee deliranti; f) il fallimento dell’abbi fornito
per la sera del fatto da Berardi, cui in separato procedimento è stato contestato il concorso con
Cirillo nell’omicidio della donna.
I giudici di merito sono pervenuti all’affermazione di penale responsabilità dell’imputato all’esito di
una compiuta valutazione del materiale probatorio acquisito e dell’analisi dei rilievi difensivi (già
prospettati in secondo grado e riproposti in questa sede), fornendo su ciascun profilo, compresi
quelli valorizzati dalla difesa, una motivazione logica ed esauriente e pienamente rispondente ai
principi giuridici in precedenza enunciati.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
CONCORSO DI PERSONE E RESPONSABILITÀ DA LINK
TRACCIA:
219
Tizio è direttore responsabile del sito on-line “Viva la Vita”, che si occupa di mondanità; Caio è
direttore responsabile del sito “W i bambini nudi” che contiene materiale pedopornografico, nonché
un prezzario relativo alle prestazioni sessuali di minorenni.
Caio, tramite e.mail chiedeva a Tizio di inserire sul sito “Viva la Vita” un link al proprio sito
pedopornigrafico.
Tizio assecondava la richiesta di Caio, inserendo il suddetto link nel proprio sito on-line, dopo
averne visto i contenuti ed essersi reso conto del contenuto pedopornografico.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE.
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Tizio è entrato in concorso di reato con Caio?
Al quesito posto bisognava dare risposta positiva, perché la condotta realizzata da Tizio, sia dal
punto di vista oggettivo (ha inserito un link) che dal punto di vista soggettivo (Tizio sapeva del
contenuto pedopornografico del sito linkato) concorre a realizzare il reato di cui all’art. 600 ter c.p.
Si consiglia di leggere la sentenza che segue.
- Mettere un link per segnalare siti che, in qualche modo, realizzano reati, può integrare la
fattispecie del concorso di persone nel reato, anche se la condotta è successiva ed ignorata dai
soggetti attivi del reato principale.
CASS. PEN.- SEZ. – 10 ottobre 2006, n. 33945– Pres. Lupo – est. Squassoni
Motivi della decisione
In data 26 gennaio 2006, il Pm presso il Tribunale di Milano (evidenziando la configurabilità del
eeato previsto dall’articolo 171 comma 1 lettera abis) legge 633/41 a carico di B.) ha disposto di
urgenza il sequestro preventivo di due portali web attraverso i quali, secondo la tesi accusatoria,
erano stati illecitamente diffusi e trasmessi via internet in modalità peer to peer eventi sportivi
(partite di campionato di calcio italiano) rispetto ai quali la Sky vantava un diritto di esclusiva.
Il Giudice per le indagini preliminari non ha convalidato il sequestro, con ordinanza 8 febbraio
2006, avverso la quale il Pm ha proposto appello che è stato respinto con il provvedimento in
epigrafe precisato.
A sostegno della conclusione, il Tribunale ha ritenuto accertato in fatto che mediante una normale
connessione via internet un numero imprecisato di utenti riuscisse a vedere le partite trasmesse dalla
Sky; ciò era consentito non attraverso la elusione delle misure tecnologiche predisposte dalla
società, ma perché le partite erano immesse in rete da alcune emittenti cinesi che avevano acquistato
dalla Sky il diritto di trasmetterle localmente; gli indagati avevano facilitato l’accesso a tale
220
prodotto con la diffusione di informazioni e la predisposizione di un link che permetteva il
collegamento diretto ai server cinesi.
A parere dei Giudici, non sussiste la ipotizzabilità del contestato illecito in quanto la modalità con la
quale deve avvenire la diffusione dell’opera, affinché possa ritenersi integrata la fattispecie
incriminatrice, consiste nella immissione in rete con una connessione di qualsiasi genere; nel caso
in esame, gli indagati si erano limitati a diffondere in via telematica un prodotto che già altri
avevano immesso e la condotta di agevolazione alla consultazione dei siti avveniva in un momento
successivo al perfezionamento del reato.
Oltre a tali rilievi, i Giudici hanno osservato che normalmente la trasmissione di una partita
calcistica, attività di mera documentazione, non può considerarsi una opera di ingegno e che tale
tema non poteva essere accertato perché la visione dei filmati costituisce attività istruttoria preclusa
al Tribunale.
Il contratto di licenza, allegato dalla Sky alla denuncia? querela è stato considerato dai Giudici
inutilizzabile perché redatto in lingua straniera.
Per l’annullamento della ordinanza, ha proposto ricorso in Cassazione il Procuratore della
Repubblica deducendo difetto di motivazione e violazione di legge. Dopo avere sostenuto che la
trasmissione di un evento sportivo calcistico, per le tecniche delle riprese, può considerarsi una
opera di ingegno, ha negato che gli indagati si fossero limitati ad agire come un motore di ricerca
per indirizzare gli utenti in quanto avevano posto in essere una azione causale determinante la
immissione delle trasmissioni nelle reti; ciò in quanto gli indagati avevano messo a disposizione
degli utenti i mezzi tecnici necessari per la visione dello evento sportivo.
Pertanto? ha concluso il Ricorrente? gli indagati avevano tenuto una condotta di immissione che
non è a forma vincolata e può essere diretta o indiretta stante l’inciso, inserito nella norma
contestata, “mediante connessioni di qualsiasi genere”.
Le deduzione sono meritevoli di accoglimento.
Innanzi tutto, i Giudici hanno evidenziato come non sia dimostrato che gli emittenti, cinesi, che
vengono indicati dalla denunciante quali responsabili dell’abusiva diffusione in rete delle immagini
coperte da esclusiva, avessero agito in violazione del contratto di licenza; il Tribunale ha reputato
che il contratto (il cui esame era di fondamentale importanza per la risoluzione del caso) fosse
inutilizzabile perché redatto in inglese.
Sul punto, si rileva come l’obbligo di usare la lingua italiana, tranne che per le minoranza
linguistiche, di cui all’articolo 109 Cpp concerna solo gli atti da compiersi nel procedimento e non
gli atti già formati altrove ed acquisiti nel medesimo i quali, se redatti in lingua straniera, devono
essere, tradotti a sensi dell’articolo 143 comma 2 Cpp.
La nomina di un interprete avrebbe potuto essere effettuata anche dal Tribunale perché non
rappresentava una attività istruttoria che gli era inibita per i suoi limiti cognitivi.
Il principio che i Giudici, in sede di riesame o di appello, devono avere come referente solo gli
elementi probatori offerti dallo organo della accusa, da considerarsi cosi come esposti, non esclude
una valutazione dei documenti la cui traduzione è solo il momento prodromico al loro esame.
Ugualmente non condivisibile è la affermazione dei Giudici secondo i quali era loro impedita la
visione dei filmati degli eventi calcistici perché costituente una attività istruttoria inammissibile in
un procedimento cartolare.
221
La conclusione non tiene conto della nozione di documento fornita dall’articolo 234 comma 1 Cpp
che, in relazione al diffondersi della tecnologia, è solo in parte sovrapponibile con quella del diritto
sostanziale. Essa comprende, oltre ai tradizionali documenti in senso stretto caratterizzati dalla
scrittura, i documenti in senso lato intesi come oggetti rappresentativi di un fatto ed aventi la
attitudine a costituire il fondamento sia di una prova storica sia di una prova critica; tra le cose
preesistenti al processo e considerate prove documentali acquisibili, l’articolo 234 comma 1 Cpp
annovera le riprese cinematografiche.
La diretta visione delle partite calcistiche (altro elemento indispensabile per la valutazione della tesi
accusatoria) avrebbe consentito di verificare, o di squalificare, la prospettazione del Pm secondo il
quale le stesse costituivano, per le scelte tecniche degli operatori, una elaborazione creativa da
considerarsi opera di ingegno. Sullo argomento, le deduzioni del Ricorrente sono in astratto
condivisibili ed i Giudici del rinvio controlleranno se sono di attualità nella ipotesi concreta e
verificheranno se, qualora le trasmissioni non fossero da qualificare come opere di ingegno, possa
trovare applicazione la ipotesi di reato di cui all’articolo 171 lettera f) legge 633/41 nella
interpretazione estensiva fornita dalla giurisprudenza, che tutela i programmi coperti dal diritto di
esclusiva indipendentemente dalla loro qualificazione come opere di ingegno.
Una tale mutatio libelli è consentita al Tribunale che, ai limitati fini del procedimento cautelare, può
dare al materiale investigativo raccolto dal Pm autonome valutazioni in diritto.
Il problema ora da affrontare concerne il perfezionamento della contestata fattispecie di reato sotto
il profilo della abusiva “immissione” nella rete internet; come correttamente evidenziato dai Giudici
di merito, “fra più condotte generiche suscettibili di integrare la messa a disposizione di una serie
indeterminata di soggetti, il legislatore ha inteso sanzionare penalmente soltanto la condotta
specifica di immissione nella rete internet dell’opera protetta”.
Ora è pacifico, in punto di fatto, che gli indagati avevano messo a disposizione degli utenti le
informazioni ed i mezzi tecnici attraverso i quali era possibile installare sul proprio personal
computer tutto il software necessario alla visione delle partite di calcio sulle quali la Sky vantava un
diritto di esclusiva; tale condotta è stata ritenuta dai Giudici come posteriore alla immissione in rete
delle opere protette e, di conseguenza, inserendosi in un momento successivo al perfezionamento
del reato, e stata considerata irrilevante ai fini penali. Tale conclusione merita un approfondimento.
È innegabile che gli attuali indagati hanno agevolato, attraverso un sistema di guida on line, la
connessione e facilitato la sincronizzazione con l’evento sportivo; senza la attività degli indagati,
non ci sarebbe stata, o si sarebbe verificata in misura minore, la diffusione delle opere tutelate.
Le informazioni sul link e sulla modalità per la visione delle partite in Italia, per raggiungere il loro
obiettivo, devono essere state inoltrate agli utenti in epoca antecedente alla immissione delle
trasmissioni in via telematica; tale rilievo, se puntuale in fatto, comporta come conseguenza che, in
base alle generali norme sul concorso nel reato, gli indagati, pur non avendo compiuto l’azione
tipica, hanno posto in essere una condotta consapevole avente efficienza causale sulla lesione del
bene tutelato.
È appena il caso di ricordare come l’attività costitutiva del concorso può essere individuata in
qualsiasi comportamento che fornisca un apprezzabile contributo alla ideazione, organizzazione ed
esecuzione del reato; non è necessario un previo accordo diretto alla causazione dell’evento, ben
potendo il concorso esplicarsi in una condotta estemporanea, sopravvenuta a sostegno della azione
di terzi anche alla insaputa degli altri agenti.
Per le esposte considerazioni la Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di
Milano per una nuova decisione sull’appello del Pm.
222
PQM
La Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Milano.
Si consiglia di leggere la legge 6 febbraio 2006, n. 38 (reperibile su
http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l38_06.html ).
ART. 116 C.P. E OMICIDIO PRETERINTENZIONALE
TRACCIA:
Tizio è un delinquente di fama nazionale; Tizio si accordava con Caio per farsi accompagnare a
casa di Francesco per prenderlo a pugni, in quanto aveva violato un patto criminale.
In effetti, Caio accompagnava, con l’auto, Tizio al domicilio di Francesco.
Tizio entrava nella casa di Francesco ed iniziava a prenderlo a pugni; Francesco,
imprevedibilmente, inciampava in un tappeto e urtava la testa ad uno spigolo di comodino,
morendo.
Tizio correva via e raccontava il fatto a Caio.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Caio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente era necessario prendere in esame la posizione di Tizio che voleva cagionare
lesioni e/o percosse a Francesco, ma in concreto ne cagionava la morte.
Il fatto realizzato da Tizio sembra ricalcare lo schema giuridico dell’omicidio preterintenzionale, ex
art. 584 c.p.
Tizio, a rigore, risponderebbe di omicidio preterintenzionale solo se si accogliesse la tesi che
individua nella preterintenzione un dolo misto a responsabilità oggettiva oppure dolo del fatto
minore (come sostenuto dalla giurisprudenza più recente); se, diversamente, si accogliesse la tesi
che ritiene la preterintenzione dolo misto a colpa, Tizio non risponderebbe di omicidio
preterintenzionale perché Francesco muore in modo, sostanzialmente, imprevedibile (per cui non
c’è colpa), con la conseguenza che Tizio risponderebbe solo di lesioni o percosse.
Caio, che voleva in concorso con Tizio le sole lesioni o percosse, di cosa sarà chiamato a
rispondere?
Caio, a rigore, dovrebbe rispondere delle sole lesioni o percosse, in quanto l’art. 110 c.p. non è
applicabile perché si è verificato un fatto diverso da quello voluto e neanche l’art. 116 c.p. potrà
trovare applicazione; in particolare, l’art. 116 c.p. si riferisce alle ipotesi in cui uno dei concorrenti
vuole un evento diverso da quello che, poi, in concreto si verifica, mentre nel caso di specie tale
discrasia non si realizza perché i concorrenti vogliono lo stesso evento (né Tizio e né Caio vogliono
la morte di Francesco, ma le sole lesioni o percosse), diversamente dall’art. 116 c.p. che avrebbe
richiesto una differente volontà tra i concorrenti: l’art. 116 c.p. richiede una difformità di volontà tra
concorrenti che, nel caso di specie, non sussiste.
223
ABERRATIO E DIVERSO OGGETTO MATERIALE DEL REATO
TRACCIA:
Tizio, per un’antica rivalità, decideva di danneggiare la casa di Sempronio, gettando una bomba
carta sulla stessa; invero, lanciando la bomba carta piuttosto che colpire la casa, riusciva solo a
colpire l’autovettura di Sempronio.
Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente era utile chiedersi se poteva trovare applicazione l’art. 82 c.p. oppure 83 c.p..
Infatti, a rigore, le norme in tema di aberratio non potranno trovare applicazione, in quanto
l’aberratio ictus (art. 82 c.p.) si riferisce all’ipotesi di persona offesa diversa da quella a cui l’offesa
era diretta e l’aberratio delicti (art. 83 c.p.) si riferisce all’ipotesi in cui si realizza un reato diverso
da quello che si voleva realizzare, diversamente dal caso di specie dove emerge un diverso oggetto
materiale.
In altri termini, la divergenza tra voluto e realizzato riferita alle forme di aberratio riguardano casi
del tutto difformi da quello di specie, con la conseguenza che difficilmente potrà trovare
applicazione l’art. 82 oppure 83 c.p.
Pertanto, Tizio risponderà di tentato danneggiamento, eventualmente in concorso con altri reati di
tipo colposo che si riescano ad individuare, relativamente alla distruzione dell’autovettura di
Sempronio.
Il discorso può essere approfondito sul testo di Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale.
GESTORE E OMICIDIO COLPOSO DA OMISSIONE
Tizio disabile non vedente, ma autosufficiente, decideva di prendere la metropolitana che lo
avrebbe portato a casa, senza chiedere l’aiuto di personale addetto.
Per salire sulla metro, allungava, alla stazione di fermata della metro stessa, il bastone bianco per
tastare la presenza del convoglio e, trovando il vuoto ma credendo trattarsi del vano di una carrozza
a seguito dell’apertura delle porte automatiche, si sporgeva verso i binari facendo per salire.
Così, accadeva che Tizio cadeva sulle rotaie e veniva travolto, dopo pochissimo tempo, dal
convoglio metro successivo.
Il candidato affronti la questione proposta, alla luce della possibile responsabilità per omicidio
colposo da parte del gestore del servizio di metropolitana.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era necessario chiedersi se vi può essere, nel caso di specie, responsabilità del
224
gestore della metropolitana, per omicidio colposo realizzato in modo omissivo.
Affinché possa sussistere una responsabilità omissiva per omicidio colposo, come noto, vi deve
essere una norma positiva che impone un certo comportamento (si ricorda che l’omissione è un
concetto normativo, che non esiste in rerum natura) e vi deve essere la causalità in concreto con
doppio grado di giudizio (in primis, verificare che tra condotta ed evento c’è un nesso causale, in
secundis, accertarsi che, laddove fosse stata posta in essere la condotta richiesta dalla norma violata,
di certo, l’evento negativo non si sarebbe verificato), oltre ovviamente alla colpa (che in questo caso
vi è sub specie di negligenza ed imperizia).
La norma violata esiste, con specifico riferimento al D.P.R. 503/1996; altresì, regole cautelari del
bonus pater familias avrebbero imposto al gestore di realizzare strumenti di controllo verso soggetti
disabili, ovvero di vietarne l’ingresso, in assenza di strutture idonee.
La causalità tra omissione del gestore e morte di Tizio sussiste, in quanto se fossero state rispettate
le prescrizioni previste dal D.P.R citato Tizio, di certo, non sarebbe morto in quel modo;
l’omissione ha causato la morte di Tizio e, laddove tale omissione non vi fosse stata, di certo,
l’evento negativo non si sarebbe realizzato.
Da questa angolazione prospettica, quindi, sembra sussistere una responsabilità per omicidio
colposo del gestore della metro.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono.
-Sussiste la responsabilità omissiva del gestore per avere omesso l'installazione dei percorsi
tattili (loges) per i non vedenti.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 22 marzo 2007, n.11960 - Pres.
Marini – est. De Grazia Osserva All’esito di indagini in relazione all’avvenuto decesso di Cassio
Giampiero, disabile non vedente autosufficiente, travolto alle ore 8.35 del 15 luglio 2004 da un
convoglio della metropolitana romana (stazione Roma Garbatella) veniva richiesto il rinvio a
giudizio di M.A., C.A.e M. G., individuati quali responsabili dell’evento.La dinamica
dell’infortunio veniva così ricostruita.Il Cassio, alla data e all’ora indicate, accedeva alla Stazione e,
senza richiedere ausilio ai dipendenti in servizio, si portava sulla banchina in attesa del primo treno
in transito, direzione Rebibbia.Giunto il convoglio, il Cassio allungava il bastone bianco di cui era
provvisto per tastare il terreno e, trovando il vuoto ma credendo trattarsi del vano di una carrozza a
seguito dell’apertura delle porte automatiche, si sporgeva verso i binari facendo per salire; infilatosi,
invece, in uno degli spazi esistenti tra le carrozze, cadeva sulla massicciata finendo per essere
dilaniato dal convoglio.Il M., il C.. e il M. erano chiamati a rispondere, sulle rispettive qualità di
Presidente del Consiglio di amministrazione, di direttore generale e di direttore di esercizio della
Spa Me.tro. che gestiva il servizio di trasporto metropolitano per conto dell’Atac, proprietaria del
materiale rotabile, concesso in comodato gratuito alla Me.tro. proprio per lo svolgimento di detto
servizio (v. copia contratto in allegato 2 al f. 343 fasc.).Si addebitava in particolare ai prevenuti la
mancata predisposizione di interventi di natura prevenzionistica sulle stazioni della Me.tro. Spa e,
quindi, nella stazione di Garbatella, malgrado la normativa imponesse gli interventi di
adeguamento; omettendo, tra l’altro l’esame, l’esame anche di misure alternative a quanto
espressamente citato negli articoli 1 e segg. Dpr 503/96 volte comunque alla sicurezza degli utenti
prestatori di handicap; come ad esempio l’installazione di una membrana in gomma a soffietto tra
una vettura e l’altra alle quali rimane ancorata con perni movibili per consentire anche la riduzione
o l’aumento del numero di carrozze all’occorrenza; misura alternativa che avrebbe potuto impedire
che una persona affetta da handicap inavvertitamente potesse precipitare nel vuoto sulle rotaie
invece di accedere all’interno della vettura predisposta per il trasporto di utenti, come verificatosi
per il Cassio.Con sentenza del 5 aprile 2006 il Gip del tribunale di Roma dichiarava non luogo a
procedere nei confronti dei prevenuti in ordine al reato loro ascritto per non avere commesso il
fatto.Avverso la sentenza Barbato Rita e Cassio Simone, costituitosi parti civili, a mezzo del loro
225
difensore, proponevano ricorso per cassazione, deducendo contraddittorietà e manifesta illogicità
della motivazione, evidenziando a tale riguardo, sulla base “di altri atti del processo” espressamente
indicati, che se pure la Me.tro. della quale gli imputati erano a vario titolo rappresentanti, gestiva il
servizio di trasporto metropolitano per conto dell’Atac e questa rimaneva la proprietaria del
materiale rotabile, pure essa Me.tro. assumeva posizione di garanzia nei confronti degli utenti
trasportati predisponendo interventi e accorgimenti che assicurassero la incolumità delle
persone.Specie per i portatori di handicap e cioè, come nel caso in esame, i non vedenti.Con
memoria, ritualmente depositata in cancelleria, la difesa degli imputati eccepiva la inammissibilità
del ricorso per inoppugnabilità della sentenza di non luogo a procedere che non sia anche persona
offesa del reato, ai sensi dell’articolo 428 Cpp novellato dalla legge 46/2006.Eccepiva, inoltre, la
inammissibilità del ricorso dalla parte civile in quanto teso ad ottenere l’annullamento o la riforma
delle statuizioni penali della sentenza di non luogo a procedere, ma privo di richieste in merito agli
effetti civili di poi la inammissibilità perché trattatasi di censure di merito.Per ultimo, eccepiva la
infondatezza nel merito del ricorso. In relazione alle prospettazioni contenute nel ricorso e in quelle
di segno contrario contenute nella memoria della difesa dei prevenuti ritiene questo Collegio di
dovere evidenziare gli argomenti desumibili da risultanze certe e come tali incidenti ai fini della
decisione.L’evento di cui è giudizio si verificò perché il Cassio, non vedente, all’arrivo del
convoglio finì nello spazio vuoto tra una vettura e l’altra e precipitò dalla banchina sulle rotaie.Tale
vuoto per il non vedente costituiva oggettiva fonte di pericolo e alla quale necessariamente
occorreva fare fronte da parte di chi gestiva il servizio di trasporto, nel caso in esame la Me.tro.
rivestendo questa evidente posizione di garanzia in relazione ad eventi di certo prevedibili e che
riguardavano la incolumità delle persone, in particolare i non vedenti.Né può sostenersi che in
relazione alle misure da adottare, queste non avessero base normativa di riferimento
nell’imputazione formulata dall’accusa all’esito delle espletate indagini.Se pure è vero che
l’addebito non può riguardare l’omessa installazione di una membrana in gomma a soffietto tra una
vettura e l’altra eliminando in tal modo il vuoto, operazione strutturalmente questa concernente il
materiale rotabile, pure sarebbero state doverose misure alternative e ciò in applicazione del Dpr
503/96.Come, per altro indicato da consulenti tecnici, del Pm e delle parti civili, che hanno fatto
riferimento per i non vedenti ai percorsi tattili (loges) per l’abbattimento delle barriere
architettoniche. Invero, come suggerito dai consulenti ed evidenziato nel ricorso, per i non vedenti,
una volta impostata una postazione fissa di fermata sarebbe stato possibile riuscire a fare aprire le
porte in corrispondenza di aperture in barriere di protezione lasciando protetti i punti di caduta
nell’intercapedine tra due carrozze.Situazione, questa, che, se introdotta, avrebbe impedito la caduta
dell’utente Cassio e lo avrebbe salvato.Alla stregua dell’indicata circostanza appare logicamente
individuabile la responsabilità dei prevenuti nella determinazione e ciò – è ovvio – vale ai soli
effetti civili ai fini del richiesto risarcimento del danno, specificato nell’atto di citazione alla
udienza preliminare, costituzione affatto contestata alla udienza in camera di consiglio davanti al
Gip.Come per l’appunto emerge dal verbale della camera di consiglio.Rilevata la colpevolezza dei
prevenuti consistente nella omessa realizzazione nella stazione ferroviaria della Garbatella di un
percorso tattile, è evidente che – ripetesi – agli effetti civili – la sentenza di non luogo a procedere
va annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello e ciò ai sensi
dell’articolo 622 Cpp.Di poi è senza fondamento l’argomento difensivo della inammissibilità del
ricorso, perché oggi consentito dall’articolo 428 Cpp, come riformato dall’articolo 4 legge 46/2006
(legge Pecorella), solamente, secondo la difesa, alla parte offesa e non anche ai danneggiati
(Barbato Rita e Cassio Simone, rispettivamente moglie e figlio della persona deceduta).La
interpretazione della difesa è del tutto illogica e si basa su argomento terminologico “parte offesa”
che è assolutamente improprio ed è in chiaro contrasto con quanto disposto dall’articolo 74 Cpp in
relazione a coloro che sono legittimati ad esercitare l’azione civile nel procedimento penale.Questi
sono tutti coloro i quali dal reato hanno ricevuto un danno e precisamente “parte offesa” se resta in
vita e dai suoi successori universali in caso contrario.E’ all’udienza preliminare come successori
universali della vittima moglie e figlio si sono costituiti, senza alcuna opposizione – ripetesi – da
226
parte della difesa degli imputati.Alla stregua di quanto esposto il ricorso è ammissibile e va accolto,
con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.P.Q.M.La Corte di cassazione
annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di
appello.
-La causalità (omissiva) va vista attraverso una valutazione in concreto, verificando, cioè,
l’applicabilità delle leggi di copertura al singolo caso concreto.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 2 febbraio 2007, n. 4177, n.4177 Pres. Coco – est. Piccialli
Fatto e diritto
Il Tribunale di Livorno, in composizione monocratica, con sentenza del 3 aprile 2003 dichiarava i
dottori V. M., B. A. e G. G. colpevoli del reato di omicidio colposo in danno di S. F. e li
condannava ciascuno, concesse le attenuanti generiche, alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al
risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
I sanitari sopra indicati erano stati chiamati a rispondere del reato in questione, in qualità di medici
chirurghi in servizio al 60 reparto dell’Ospedale di Livorno, seconda unità operativa di chirurgia
generale, ove il S. era stato sottoposto il lo giugno 1999, in regime di “day surgery”, ad intervento
chirurgico per ernia inguinale sinistra e testicolo ritenuto.
Risulta inequivocabilmente accertato che nel S., dopo un periodo di convalescenza, emergevano
complicanze post operatorie che lo conducevano al decesso avvenuto verso le ore 23, 45 del 25
giugno 1999, per scompenso cardio-circolatorio acuto a causa di shock settico (infezione da
streptococco B emolitico di gruppo A localizzata al di sotto dei piani muscolo aponeurotici ed in
vicinanza del peritoneo parietale, nella sede in cui era stato inserito il plug in polipropilene).
A carico dei medici erano state formulate le seguenti imputazioni: di avere omesso una tempestiva
ed adeguata valutazione del quadro clinico nella fase post operatoria e della sintomatologia
manifestata con particolare riferimento al dolore segnalato dal paziente ed al siero nella ferita(
quadro sintomatologico ben evidente già il 21.6. 1999); di avere omesso conseguentemente di
adottare tempestivamente alcun provvedimento diagnostico adeguato ( puntura esplorativa e/
ecografia) limitandosi inizialmente ad una terapia antidolorifica; di avere omesso una adeguata e
tempestiva terapia chirurgica e farmacologia, ritardando quindi i necessari interventi diagnostico/
terapeutici sino al 25.6.1999, giorno in cui alle ore 23, 45 si verificava il decesso del paziente, che
alle prime ore di quella mattina, su richiesta del medico del Pronto Soccorso, era stato nuovamente
ricoverato con diagnosi di ammissione infezione da ferita chirurgica” e poi sottoposto nuovamente
ad intervento chirurgico “ in urgenza di toilette peritoneale.e drenaggio retroperitoneo”.
La Corte di appello di Firenze, con la sentenza in data 9 maggio 2005, in parziale riforma della
sentenza in primo grado, assolveva M. V. ed A. B. dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste
e rideterminava la pena inflitta G. G. in mesi quattro di reclusione, tenuto conto che la condotta
colposa ascrivibile allo stesso era da ritenersi inserita nel contesto dell’attività sanitaria non
pienamente adeguata, la quale aveva evidentemente facilitato l’omessa percezione del decorso post
operatorio, e che, in ogni caso, l’origine del processo infettivo, ossia la contaminazione batterica
della protesi, non era ascrivibile all’imputato.
La Corte di appello territoriale, per quanto qui rileva, escludeva la penale responsabilità del dott. B.,
con la formula perché il fatto non sussiste ex articolo 530 cpv.. Cpp. A tal fine, pur ritenendo
227
certamente colposo il comportamento del B., che aveva sottoposto a nuova medicazione il S. in data
23 giugno, ed assimilabile, sul piano della censurabilità a quello del G., richiamava il contenuto del
paragrafo 3 della sentenza, con il quale era stato trattato lo specifico tema della probabilità di
sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo.
I giudici dell’appello escludevano, pertanto, la sussistenza del nesso eziologico tra tale condotta e la
morte del paziente, collocandosi l’operato del B. al limite di una fase cronologica oltre la quale era
stata esclusa la possibilità di un intervento terapeutico idoneo al fine dell’affermazione di
colpevolezza.
Nel confermare il giudizio di responsabilità del dott. G., la Corte di merito evidenziava, invece, che,
in occasione della visita del 21 giugno, in conformità a quanto era emerso dall’interrogatorio dello
stesso imputato e dal tenore letterale del certificato rilasciato, il dott. G. non aveva formulato alcuna
compiuta ipotesi diagnostica e neppure si era attivato per consentirla in futuro, prescrivendo e/o
richiedendo accertamenti e consulenze.
In ordine alle censure di merito dedotte dall’appellante, secondo le quali non sarebbe stata
sufficientemente raggiunta la prova della sua responsabilità, la Corte evidenziava, che non era
addebitabile al G. l’omessa individuazione dello specifico batterio, bensì di avere sottovalutato un
quadro clinico certamente idoneo a destare il concreto sospetto di un processo settico in atto
(persistenza del dolore, rialzi febbrili, la fuoriuscita di siero dalla ferita, che alla data del 21 giugno,
dopo che erano già stati tolti i punti di sutura, era stata riscontrata aperta), tale da indurre i sanitari
ad attuare provvedimenti diagnostici e terapeutici, soprattutto tenuto conto che lo stesso era riferito
a persona per il resto in condizioni di salute integra e di giovane età (37 anni).
La descrizione di tale sintomatologia veniva fondata sulle dichiarazioni rese dalla moglie e dal
padre del S. ed in parte su quelle rese dall’infermiera presente alla visita del 21 giugno, la quale
aveva riferito che il S. lamentava dolore.
L’indagine anamnestica avrebbe consentito, secondo la Corte, al dott. G. di accertare che il S. aveva
subito ripetuti rialzi febbrili e che le sue condizioni generali erano scadute, così palesandosi un
processo evolutivo della lesione chirurgica e delle condizioni generali del paziente da lasciare poco
spazio per diagnosi differenziali, apparendo ragionevolmente praticabile quale unica ipotesi quella
di un processo infettivo conseguente ad intervento chirurgico.
La Corte di merito ha anche affrontato la questione relativa al c.d. giudizio controfattuale (il grado
di probabilità della sopravvivenza del paziente nell’ipotesi di condotta esigibile dal sanitario),
risolvendola in termini positivi. In tal senso ha evidenziato le dichiarazioni rese in dibattimento dal
consulente del Pm, che, a specifica domanda, aveva affermato la certezza di “una discreta
possibilità di salvare il S. con intervento chirurgico precoce del 21 ovvero del 22 giugno”,
indicando successivamente nella stessa sede, sollecitato sul punto, come intervento chirurgico
tempestivo quello che fosse stato eseguito il 22 o al massimo il 23 giugno.
In conclusione, i giudici dell’appello hanno ritenuto di condividere le conclusioni dei consulenti
medico legali, che, alla luce del quadro clinico, hanno sostenuto la sussistenza di una responsabilità
professionale in termini di condotta colposa per imperizia e negligenza.
Avverso la predetta decisione propongono ricorso per cassazione le costituite parti civili e G. G..
Le parti civili lamentano la manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla ritenuta
insussistenza del nesso eziologico tra il comportamento del B. ed il tragico evento, laddove i giudici
dell’appello, rinviando al paragrafo 3 della sentenza, avevano trattato lo specifico tema della
probabilità di sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo.
A tal fine evidenziavano le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di secondo grado: 1) il
comportamento certamente colposo del B., che aveva sottoposto a nuova medicazione il S. in data
23 giugno, assimilabile, sul piano della censurabilità, a quello del G.; 2) la ritenuta differenza tra le
posizioni dei due medici, fondata esclusivamente sulla data in cui il dott. B. aveva sottoposto a
visita il S. ( 23 giugno), corrispondente ad una fase cronologica in cui, secondo le conclusioni del
consulente del Pm, condivise dai giudici di appello, era ormai da escludersi la possibilità di un
intervento terapeutico idoneo al fine ad impedire l’evento mortale.
228
Tale ultima conclusione sarebbe contraddetta proprio dalle dichiarazioni del consulente riportate
nella stessa sentenza, il quale avrebbe sempre riferito l’instaurazione di un processo settico
irreversibile alle ultime ore del giorno 24 ed al giorno 25 e non anche al 23. Inoltre, a fronte di una
sentenza di primo grado che, nell’affrontare il problema relativo al grado di probabilità logica con il
quale i presidi terapeutici colposamente omessi avrebbero scongiurato l’evento, aveva concluso che
il processo settico era divenuto ingovernabile dalle prime ore del 25 giugno o le ultime del 24, i
giudici di secondo grado non avevano adeguatamente corrisposto all’onere motivazionale di
confutare adeguatamente le ragioni posta a base della decisione riformata.
Il dottor G. G. con il ricorso sottoscritto personalmente, lamenta la violazione di legge ed il difetto
di motivazione con riferimento al ritenuto giudizio di responsabilità.
Quanto alla contestata condotta omissiva, la sentenza, non conterrebbe alcun riferimento all’omessa
valutazione del quadro clinico nella fase post operatoria; quanto all’omesso apprezzamento dei
sintomi si sostiene che questi non fossero certi alla data del 21 giugno 1999; quanto alla omissione
di diagnosi e di intervento terapeutico, la Corte di merito, nel disattendere le argomentazioni
difensive, sottolineando che al prevenuto non si imputava la mancata individuazione del batterio ma
la generica omissione di una tempestiva diagnosi, erroneamente ed illogicamente non avrebbe
tenuto conto del carattere particolarmente subdolo dell’infezione e dell’incertezza non dissolta, né
in sede in istruttoria né in sentenza, sul grado di probabilità che la puntura esplorativa o l’ecografia
avessero una efficacia diagnostica contro il batterio che aveva causato il decesso del S.. Sotto
questo profilo la sentenza impugnata non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi fissati
dalla nota sentenza delle Su 10 luglio 2002, Francese, in tema di causalità omissiva, limitandosi a
riportare le conclusioni del consulente del Pm sulla “ discreta possibilità di salvare il S. con
intervento chirurgico precoce del 21 ovvero del 22 giugno”, successivamente puntualizzate
indicando come intervento chirurgico tempestivo quello che fosse stato eseguito il 22 o, al massimo,
il 23 giugno. In tal modo i giudici di appello nella ricostruzione del nesso causale non avrebbero
giustificato adeguatamente il giudizio espresso sul grado di alta probabilità logico razionale tra
l’omessa diagnosi e l’evento, giacchè avrebbero omesso di considerare talune circostanze
incontrovertibili in merito alle caratteristiche specifiche di quel processo infettivo (il decorso di
oltre venti giorni dall’intervento, l’alto tasso di mortalità provocato da quel batterio, l’inesistenza di
una cura antibiotica idonea, la divergenza di opinioni sulla efficacia di un intervento chirurgico).La
censura si articola, in particolare, sulla parte della motivazione laddove i giudici di appello,
riportando le conclusioni del perito del Pm, fanno riferimento ad una “discreta possibilità di salvare
il S. in virtù dell’adozione delle opportune iniziative terapeutiche sino alla data limite del 23
giugno”. Tale giudizio, significando “un discreto numero di possibilità” non supportato dalla
copertura di leggi scientifiche, secondo il ricorrente, reintrodurrebbe inammissibilmente il criterio
statistico, ormai superato dopo l’arresto delle Su di questa Corte.
Quanto all’elemento soggettivo, il ricorrente sostiene che, poiché ciò che rileva ai fini della
responsabilità penale è la riconoscibilità dei sintomi con giudizio ex ante, la sentenza ometterebbe
di considerare che nella fattispecie difetterebbe la certezza sulle manifestazioni esteriori che
avrebbero dovuto allarmare il curante e che giustificherebbero il giudizio sulla sua negligenza: in tal
senso, il dolore non rappresenterebbe un indice univoco di un processo infettivo in corso e non vi
sarebbe prova che là ferita fosse secernente e maleodorante. Inoltre, la sentenza darebbe
contraddittoriamente atto della carenza organizzativa del presidio ospedaliero ai solo fini del più
mite trattamento sanzionatorio, trascurando che nella condotta del G. il quale aveva visitato il S.
solo il 21 giugno 1999, nella qualità di medico di turno al reparto di chirurgia non poteva essere
individuato alcun profilo di colpa né sotto il profilo dell’imprudenza, né sotto quello dell’imperizia
(in quelle condizioni di tempo e di luogo non sarebbe ipotizzabile a carico del singolo medico un
onere di individuare e curare una infezione mortale) né sotto quello della negligenza (alla luce della
prudente e giustificata condotta “attendistica” e della medicazione adottata nell’occasione e delle
altre prescritte).
Infine, difetterebbe qualsiasi considerazione sul coefficiente psicologico caratterizzante la
229
contestata cooperazione colposa ex articolo 113 Cp.
Con il ricorso proposto tramite difensore il G. articola due motivi.
Con il primo censura la sentenza impugnata sotto il profilo della ritenuta responsabilità, assumendo
l’erronea applicazione della normativa di settore e la manifesta illogicità della motivazione. Sul
punto, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente individuato la colpa per negligenza nella
diagnosticabilità dell’infezione attraverso i sintomi esterni che sarebbero già stati presenti in data 21
giugno1999, in conformità a quanto dichiarato dalla moglie e dal padre del S.. Così motivando i
giudici di secondo grado non avrebbero tenuto conto della certificazione emessa dallo stesso
prevenuto (in cui si dava atto esclusivamente di “esiti di plastica erniaria” e venivano prescritte tre
medicazioni) e delle dichiarazioni testimoniali rese dall’infermiera professionale, che aveva
assistito alla visita; avrebbero ignorato che la patologia presentata dal paziente (infezione da
streptococco beta emolitico di gruppo A, annidatasi a livello della protesi in poliprene inserita in
occasione dell’ernia inguinale) secondo la letteratura medica e le conclusioni del consulenti è
riconosciuta come rara, grave, di difficile diagnosticabilità, in quanto silente, resistente a qualsiasi
terapia antibiotica, con un tasso di mortalità elevatissimo, anche se individuata precocemente e
trattata con gli unici presidi attualmente indicati: ossigenoterapia iperbarica e bagno di antibiotici a
larghissimo spettro, previa rimozione della protesi infettata.
Alla luce di tali caratteristiche della malattia, sostiene il ricorrente, che i giudici di merito avrebbero
errato nel ritenere la sussistenza di un quadro sintomatico allarmante ed univoco già al 21 giugno
1999, individuandolo attraverso elementi assolutamente non univoci: un dolore persistente, la
secrezione del siero, l’arrossamento, la diastasi della ferita ed indimostrati episodi febbrili.
Nello stesso senso, la Corte di merito avrebbe illogicamente riconosciuto la responsabilità del G.
anche sotto il profilo della mancata raccolta anamnestica in sede di visita, pur avendo l’infermiera
riferito in sede di testimonianza che il S. aveva parlato solo del dolore e non di altre sintomatologie
quali il rialzo termico o lo spurgo della ferita. La sentenza meriterebbe censura, secondo il
ricorrente, anche laddove individua la responsabilità del sanitario nell’atteggiamento “attendista”,
senza tener conto che nella maggior parte dei casi le infezioni sono provocate da germi più comuni
e non così pericolosi, e non richiedono, pertanto, l’immediata rimozione della protesi. In ogni caso,
si sostiene, anche nell’ipotesi di precoce espianto del plug la probabilità di sopravvivenza non
sarebbero elevate. Dall’eccezionalità della patologia deriverebbe la non prevedibilità della stessa e
quindi l’assenza di rimproverabilità a carico del ricorrente dell’eventuale omessa diagnosi.
La sentenza impugnata avrebbe inoltre erroneamente affermato che le circostanze di fatto ricavabili
dalla istruttoria consentivano di affermare che una diagnosi precoce, accompagnata da presidi
farmacologici o chirurgici, avrebbe avuto probabilità di successo, perché le circostanze del caso
concreto, per quanto sopra esposto, non autorizzavano l’espianto del plug e gli altri rimedi o
presentavano profili di pericolosità (l’ago aspirato) o erano inutili ( l’ecografia e l’esame ematico) o
di esito incerto ( la terapia antibiotica).
Con il secondo motivo censura la sentenza impugnata, sotto il profilo della ritenuta sussistenza del
nesso eziologico tra il suo comportamento e l’evento letale, alla luce di quanto sopra esposto, che
non consentirebbe il riconoscimento della responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò
tenuto anche conto che i consulenti del Pm si erano espressi in termini di mera probabilità di
sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo ed in termini di discreta possibilità di salvare il S..
Il ricorso delle parti civili è fondato.
In via preliminare non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di
merito.
Ai sensi di quanto disposto dall’articolo 606, comma 1, lettera e), Cpp, il controllo di legittimità
sulla motivazione non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di
merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo
rendono insindacabile: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno
determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al
fine giustificativo del provvedimento. Con l’ulteriore precisazione che l’illogicità della
230
motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente (“manifesta illogicità” cioè di spessore
tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato
a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi
disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni
del convincimento (ex pluribus, Cassazione, Sezione prima, 26 settembre 2003, Castellana ed altri).
In altri termini, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’articolo 606, comma 1,
lettera e), Cpp, è solo quella “evidente”, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in
quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte
circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà
del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di
verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (cfr. Cassazione, Sezione
quarta, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri).
Con l’ulteriore precisazione che il vizio della “manifesta illogicità” della motivazione deve risultare
dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato
considerando che la sentenza deve essere logica 91rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti
processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si
presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi
della logica (Cassazione, Sezione quarta, 2 dicembre 2004, Grado ed altri).
I termini della questione non paiono mutati neppure a seguito della nuova formulazione
dell’articolo 606, comma 1, lettera e), Cpp, intervenuta a seguito della legge 46/2006, laddove si
prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento
impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia: a) sia “effettiva” e non
meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a
base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei
suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole
della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero sia esente da insormontabili
incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa
contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (‘indicati in
termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per cassazione) in termini tali
da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico.
Alla Corte di cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione
dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in
termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Così come non sembra affatto consentito
che, attraverso il richiamo agli “atti del processo”, possa esservi spazio per una rivalutazione
dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in
via esclusiva al giudice del merito.
In altri termini, al giudice di legittimità resta tuttora preclusa in sede di controllo della
motivazione la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma
adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli
adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore
capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo
giudice del fatto.
La Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione.
In questa prospettiva, il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli “atti del
processo” rappresenta null’altro che il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede
di legittimità il cosìddetto “travisamento della prova” finora ammesso in via di interpretazione
giurisprudenziale.
È quel vizio in forza del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del
fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde
verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all’interno della
231
decisione.
In questa prospettiva, per chiarire, potendosi apprezzare il travisamento della prova nei casi in cui il
giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, il
testimone indicato in sentenza non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da
quello reale (ad esempio, il testimone ha dichiarato qualcosa di diverso da quello rappresentato in
sentenza oppure nella ricognizione il soggetto ha “riconosciuto” persona diversa da quella indicata
in sentenza) (per utili puntualizzazioni, ex pluribus, Cassazione, Sezione quarta, 25 gennaio 2005,
Napoli; 9 giugno 2004, Proc. gen. App. Trento in proc. Sonazzi).
Mentre, giova ribadirlo, non spetta comunque alla Corte di cassazione “rivalutare” il modo con cui
quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la
verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli
elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri
inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi. Per intenderci, non potrebbe esserci spazio per
una rinnovata considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale,
mentre potrebbero farsi valere la mancata considerazione di altra deposizione testimoniale di segno
opposto esistente in atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita
ad una deposizione testimoniale inesistente o presentante un contenuto diametralmente opposto a
quello recepito dal giudicante.
È ponendosi nella richiamata prospettiva ermeneutica che vanno apprezzate le doglianze dei
ricorrenti.
Or bene, proprio dalla lettura della motivazione della sentenza gravata paiono apprezzarsi gravi ed
evidenti illogicità che ne vulnerano la tenuta complessiva.
La Corte di merito argomenta la conclusione liberatoria a favore del dott. B., il cui comportamento,
sotto il profilo della colpa, equipara a quello dell’odierno ricorrente, pur ritenendo certamente
colposo il comportamento del primo, richiamando il contenuto del paragrafo 3 della stessa sentenza,
con il quale era stato trattato lo specifico tema della probabilità di sopravvivenza nel caso di
intervento tempestivo. In particolare la sentenza riporta dettagliatamente le dichiarazioni rese in
dibattimento dal consulente del Pm, prof. Graev, che aveva indicato come intervento chirurgico
tempestivo quello che fosse stato eseguito il 22 o al massimo il 23 giugno, ulteriormente
specificando, sollecitato in tal senso, che tale poteva ritenersi anche quello eseguito alle ultime ore
del giorno 24.
1 giudici dell’appello escludono la sussistenza del nesso eziologico tra tale condotta e la morte del
paziente, collocandosi l’operato del B., il quale aveva sottoposto a visita il S. in data 23 giugno
2006 al limite di una fase cronologica oltre la quale era stata esclusa la possibilità di un intervento
terapeutico idoneo al fine del l’affermazione di colpevolezza.
In questa sede occorre, pertanto, verificare la logicità e coerenza delle argomentazioni liberatorie
che ha fatto discendere il giudicante dalle dichiarazioni rese dal consulente.
Caratteristiche all’evidenza insussistenti ove si consideri che il giudicante ha escluso la rilevanza
causale del comportamento colposo del sanitario asserendo che era dubbia la tempestività e
l’efficacia dell’intervento terapeutico alla data del 23 giugno.
Tale ricostruzione non si concilia con le conclusioni motivate del consulente del Pm condivise
anche dai giudici di appello, che le hanno trascritte integralmente nel paragrafo 3 della sentenza.
Per l’effetto, è la stessa ricostruzione del giudice di appello che depone per la configurabilità della
rilevanza causale del comportamento colposo contestato al sanitario, il quale, quindi, proprio a
seguire la tesi del giudicante, alla data del 23 giugno, quando ancora non era instaurato un processo
settico irreversibile, poteva ancora effettuare un intervento terapeutico al fine di impedire l’evento
letale.
D’altra parte, tale conclusione era già contenuta nella sentenza di primo grado che, nel definire con
quale grado di probabilità logica e di credibilità razionale i presidi terapeutici colposamente omessi
avrebbero scongiurato l’evento, aveva affermato, in conformità alle conclusioni delle consulenze in
atti, l’ingovernabilità del processo settico dalle prime ore del 25 giugno o le ultime del 24.
232
In altri e decisivi termini, la illogicità della decisione impugnata risiede nell’avere escluso la
rilevanza causale del comportamento omissivo posto in essere dal sanitario in data 23 giugno, pur
dando atto che il processo settico era divenuto ingovernabile dalle prime ore del 25 giugno o le
ultime del 24.
li vizio logico irresolubile in cui è incorsa la Corte, in questa prospettiva è evidente, non potendosi
condividere l’assunto dell’insussistenza del nesso eziologico tra la condotta del sanitario e la morte
del paziente sul rilievo che a quella data non ara dubbia la tempestività ed efficacia dell’evento.
Ciò soprattutto tenuto conto degli esiti dell’elaborato peritale, posti a fondamento della condanna in
primo grado, che il giudicante di secondo grado, pur descrivendoli dettagliaata mente, ha obliterato
ai fini della conclusione liberatoria.
La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio affinché il giudice competente per valore in grado di
appello ex articolo 622 Cpp si attenga ai principi sopra indicati.
La sentenza va, invece, confermata nella parte in cui afferma la penale responsabilità del dott. G.,
essendo il relativo ricorso infondato.
I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla
ritenuta erroneità dell’affermato giudizio di responsabilità.
In sintesi, il ricorrente sostiene, innanzitutto, un profilo di illogicità interna della sentenza, sotto il
profilo della configurabilità della colpa, giacchè i giudici dell’impugnazione avrebbero omesso di
considerare che nella fattispecie il quadro sintomatologico del paziente alla data del 21 giugno non
era allarmante e, comunque, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di merito, non vi sarebbe
stato certezza sulle manifestazioni esteriori che avrebbero dovuto allarmare il curante e che
giustificherebbero il giudizio sulla sua negligenza, fondato su di una colposa sottovalutazione della
patologia infettiva, foriera dell’esito infausto per la salute del paziente.
In tal senso, il dolore non rappresenterebbe un indice univoco di un processo infettivo in corso e
non vi sarebbe la prova che la ferita fosse secernente e maleodorante. Inoltre, la sentenza darebbe
contraddittoria mente atto della carenza organizzativa del presidio ospedaliero ai soli fini del più
mite trattamento sanzionatorio, trascurando che nella condotta del G. che aveva visitato il S. solo
il 12 giugno 1999, nella qualità di medico di turno al reparto di chirurgia non poteva essere
individuato alcun profilo di colpa né sotto il profilo dell’imprudenza, né sotto quello dell’imperizia
(in quelle condizioni di tempo e di luogo non sarebbe ipotizzabile a carico del singolo medico un
onere di individuare e curare una infezione mortale) né sotto quello della negligenza (alla luce della
prudente e giustificata condotta “attendistica” e della medicazione adottata nell’occasione e delle
altre prescritte).
Difetterebbe, infine, qualsiasi considerazione sul coefficiente psicologico caratterizzante la
contestata cooperazione colposa ex articolo 113 Cp.
Alla luce di questi elementi, non sarebbe, pertanto, addebitabile al sanitario la condotta attendista né
la mancata prescrizione di esami, nei termini prospettati in sentenza.
La sentenza sarebbe dunque errata per essersi posta in conflitto con i dati obiettivi emergenti dagli
atti relativi alla sintomatologia del paziente e per avere effettuato una valutazione ex post del tutto
illogica; soltanto a seguito dell’autopsia era stato possibile accertare che la causa della morte era da
ascriversi ad una infezione da streptococco beta emolitico di gruppo A annidatasi a livello della
protesi in prolipene inserita in occasione dell’ernia inguinale.
L’inaccoglibilità di tali doglianze discende dal rilievo evidente che attraverso di esse, dietro
l’apparente schermo dell’asserito vizio di motivazione, sono riproposte questioni sostanzialmente di
fatto già dibattute nelle precedenti fasi del giudizio, tutte tese a dimostrare che il quadro probatorio
esaminato dai giudici di merito non avrebbe fornito sufficiente prova della responsabilità del
ricorrente.
Ritiene infatti il Collegio che i vizi dedotti non sono riscontrabili nella sentenza impugnata con la
quale la Corte di merito ha dimostrato di avere analizzato tutti gli aspetti essenziali della vicenda,
pervenendo, all’esito di un approfondito vaglio di tutta la materia del giudizio, a conclusioni sorrette
da argomentazioni logico giuridico.
233
I giudici del merito, difatti, hanno puntualmente evocato le circostanze fattuali del caso e da esse
non illogicamente hanno desunto la colpa del ricorrente, avendo egli, in sostanza, omesso ogni
dovuto accertamento al momento del ricorso del paziente alla struttura sanitaria, sottovalutando un
quadro clinico certamente idoneo a destare il concreto sospetto di un processo settico in atto ed
omettendo di disporre non solo gli opportuni accertamenti diagnostici, che avrebbero consentito un
intervento tempestivo ed efficace, ma anche una doverosa ed agevole indagine anamnestica, dalla
quale avrebbe rilevato i ripetuti rialzi febbrili subiti dal S. e lo scadimento delle condizioni generali
dello stesso. In particolare, la Corte di merito, con l’ausilio delle prove testimoniali, diversamente
da quanto prospettato dalla difesa, ha convincentemente e motivatamente individuato i sintomi già
presenti nel S. in data 21 giugno, quando era stato sottoposto a visita da parte dell’odierno
ricorrente: oltre i rialzi febbrili, la persistenza del dolore, la secrezione di siero dalla ferita, che, per
ammissione dello stesso imputato, si presentava arrossata e con una parziale diastasi.
La sentenza impugnata rileva che, pur in presenza di tale sintomatogia allarmante, il dott. G., non si
era preoccupato che il quadro fosse significativo di una patologia né tantomeno si era attivato per
svolgere gli esami e le analisi che il caso richiedeva.
Tale motivazione (rinvenibile nel tessuto argomentativo di entrambe le sentenze) dà compiutamente
conto delle ragioni dell’affermazione di sussistenza della colpa omissiva contestata al dott. G..
Trattasi di valutazione incensurabile in sede di legittimità perché logicamente attraverso il G. o alle
deposizioni testimoniali, la cui attendibilità non è stata posta validamente in discussione ed alle
conclusioni del consulente tecnico del Pm, adeguatamente apprezzate e valutate criticamente dai
giudici del merito.
Non potrebbe quindi il giudice di legittimità sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione dei
fatti e nella valutazione dei medesimi, non essendo la sentenza impugnata incorsa in alcun vizio
logico.
In proposito, non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di
merito.
In questa sede, non è possibile una rinnovata valutazione dei fatti e degli elementi di prova.
È principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della motivazione, la Corte di
cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti,
né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia
compatibile con il senso comune e con i limiti di una “plausibile opinabilità di apprezzamento”. Ciò
in quanto l’articolo 606, comma 1, lettera e), del Cpp non consente alla Corte di cassazione una
diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al
giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali
(ex multis, Cassazione, Sezione quinta, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il giudice
di legittimità, che è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire
giudice del contenuto della prova, in particolare non competendogli un controllo sul significato
concreto di ciascun elemento di riscontro probatorio (Cassazione, Sezione sesta, 6 marzo 2003, Di
Folco).
Tenuta presente tale regola e ribadito che la motivazione resa in ordine alla ravvisata colpa
dell’imputato è caratterizzata da un ragionamento coerente e logico, devono ritenersi privi di rilievo
gli argomenti con i quali il ricorrente ripropone una diversa valutazione dei fatti.
Quanto alla censura relativa alla mancanza di considerazione sul coefficiente psicologico
caratterizzante la contestata cooperazione colposa ex articolo 113 Cp, trattasi di doglianza
infondata.
Sul punto va rilevato che la cooperazione nel delitto colposo, di cui all’articolo 113 Cp presuppone
che più persone pongano in essere una autonoma condotta nella consapevolezza di contribuire
all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto, avendosi
altrimenti concorso di cause indipendenti nella produzione dell’evento (cfr. Cassazione, Sezione
quarta, 4 febbraio 2004, Caffaz e altri). Nella specie, per quanto sopra esposto, non appaiono
certamente riscontrabili tali connotazioni di consapevolezza, in capo all’attuale ricorrente, della
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concorrente condotta dei coimputati nella contribuzione alla produzione dell’evento. Ciò che rileva,
comunque, ai fini della contestazione, oltre al nomen iuris del fatto esplicitato nel capo di
imputazione, sono le condotte concretamente contestate e le circostanze fattuali al riguardo
evidenziate, mentre è irrilevante sotto il profilo dell’articolo 521 Cpp, l’erroneo richiamo di una
norma di legge (nella specie, l’articolo 113 Cp).
Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda l’esistenza del rapporto di causalità, la cui
esistenza viene contestata dal ricorrente assumendo, in sostanza, che i giudici di merito non
avrebbero fatto corretta applicazione dei principi fissati dalla sentenza delle Su 10 luglio 2002, F.,
in tema di causalità omissiva, limitandosi a riportare le conclusioni del Pm sulla “ discreta
possibilità di salvare il S. con intervento chirurgico precoce del 21 ovvero del 22 giugno”,
successivamente puntualizzate indicando come intervento chirurgico precoce quello che fosse stato
eseguito il 22 o, al massimo, il 23 giugno. In tal modo i giudici di appello, nella ricostruzione del
nesso causale, non avrebbero giustificato adeguatamente il giudizio espresso sull’alto grado di
probabilità logico razionale tra l’omessa diagnosi e l’evento, giacchè avrebbero omesso di
valutare talune circostanze incontrovertibili in merito alle caratteristiche specifiche di quel processo
infettivo (il decorso di oltre venti giorni dall’intervento, l’alto tasso di mortalità provocato da quel
batterio, l’inesistenza di una cura antibiotica idonea, la divergenza di opinioni nella scienza medica
sulla efficacia di un intervento chirurgico).
li problema che si pone, pertanto, nei presente giudizio è anche quello di verificare se i giudici di
merito abbiano fornito di adeguata motivazione la valutazione sulla efficienza causale della
condotta colposa ricollegandola all’evento in termini di “alto grado” di credibilità razionale, nel
quale si sostanzia la certezza processuale, come affermato dalle Su, nella sentenza ricordata.
La sentenza sembra aver rispettato il principio sopra ricordato, ritenendo che la condotta colposa
costituisse condicio sine qua non del verificarsi dell’evento, che con una corretta e tempestiva
diagnosi non si sarebbe verificato.
Sul punto deve essere puntualizzato che, sul nesso di condizionamento, la dottrina e la
giurisprudenza più convincenti sono unanimi nell’affermare che il giudizio sul nesso di causalità è
giudizio da effettuarsi ex post, ad evento avvenuto e per il tramite del procedimento di eliminazione
mentale (il c.d. giudizio controfattuale), per cui, eliminata mentalmente la condotta, viene meno o
non viene meno anche l’evento con certezza e con alta probabilità scientifica.
La sentenza impugnata nel richiamare la sentenza delle Su F. si sofferma esclusivamente sul
principio secondo il quale nella ricostruzione del nesso eziologico non è consentito dedurre
automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno,
dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, ma lo stesso deve essere accertato alla
stregua di un giudizio di “alta probabilità logica”. Ciò significa che il giudice deve verificarne la
validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che,
all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì esclusa l’interferenza di fattori alternativi,
risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è
stata condizione necessaria dell’evento con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità
logica (v. Su F.).
La corte di merito fa applicazione di questo principio laddove afferma in via generale che
“certamente non pare possibile ritenere la sufficienza, ai fini dell’affermazione del nesso causale, di
una probabilità di successo men che notevole giacché ciò equivarrebbe, in buona sostanza, ad
addebitare l’evento proprio del reato contestato alla condotta omissiva individuata a fronte della
mera possibilità di tale collegamento... e tuttavia, questa probabilità alta o notevole non pare possa
essere ricondotta nell’ambito dei quasi certo ovvero del prossimo a cento, giacché con siffatto
argomentare, in materia oggetto di prognosi incerta ed inevitabilmente aperta all’esito infausto
come a quello infausto, si perverrebbe a svilire l’imponderabilità, se non la singolarità, propria alla
fine di ciascun caso ed a deprimere, infine, l’elevata funzione e la responsabilità del medico, di fatto
destinata ad essere esclusa per la sola difficoltà del caso e quali che siano i livelli di colpa.”
Con riferimento alla fattispecie in esame, i giudici dell’appello, dopo aver richiamato la
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dichiarazione resa dal consulente del Pm in merito alla “ discreta possibilità di salvare il S. in virtù
dell’adozione delle opportune iniziative terapeutiche sino alla data limite del 23 giugno” ed il
significato semantico del termine, riportando, a titolo di esempio, espressioni “quali discreto
guadagno o discreto patrimonio”, concludono per la ricorrenza nella fattispecie di una “elevata o
comunque notevole probabilità di esito positivo conseguente a corretta attivazione del dott. G. nel
momento ( 21 giugno 1999) nel quale essa è stata ritenuta come possibile e doverosa”.
A fondamento di tale conclusione vengono poste le conclusioni dei consulenti medico legali, i
quali” pur fornendo indicazioni per l’abbinamento di terapia farmacologia (mediante antibiotici) e
chirurgica, hanno posto in particolare rilievo l’importanza, ovvero la decisività di quest’ultima.
Può, pertanto, osservarsi che i giudici di merito, recependo le risultanze delle espletate consulenze
medico legali hanno correttamente appezzato il portato della pronuncia delle Su.
In proposito, non può condividersi la censura della difesa che il ragionamento del giudice di merito
avrebbe finito con il contrastare con i principi della sentenza F., laddove questa avrebbe imposto il
superamento delle regole della probabilità statistica nella ricostruzione del nesso di
condizionamento tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento letale verificatosi per il paziente.
Al riguardo, come puntualizzato anche in dottrina, bisogna partire dalla considerazione che la
risposta sulla sussistenza o meno del nesso eziologico non può essere, in effetti, esaustivamente e
semplicisticamente trovata, sempre e comunque, nelle leggi statistiche. È un assunto ormai non più
dubitabile, dopo quanto ampiamente, ed esaustivamente, osservato proprio dalle Su, con la sentenza
F..
Però, non può neppure affermarsi che le leggi statistiche, in precedenza considerate decisive,
debbano essere completamente trascurate.
Le leggi statistiche, in vero, sono solo uno degli elementi che il giudice può e deve considerare,
unitamente a tutte le altre emergenze del caso concreto. Con la conseguenza che il giudizio positivo
sulla sussistenza del nesso eziologico non si baserà più solo sul calcolo aritmeticolstatistico (quale
che sia la percentuale rilevante), ma dovrà trovare il proprio supporto nel l’apprezzamento di tutti
gli specifici fattori che hanno caratterizzato la vicenda concreta.
Il giudice, in buona sostanza, potrà (anzi, dovrà) partire dalle leggi scientifiche di copertura e in
primo luogo da quelle statistiche, che, quando esistano, costituiscono il punto di partenza
dell’indagine giudiziaria. Però, dovrà poi verificare se tali leggi siano adattabili al caso esaminato,
prendendo in esame tutte le caratteristiche specifiche che potrebbero minarne in un senso o
nell’altro il valore di credibilità, e dovrà verificare, altresì, se queste leggi siano compatibili con
l’età, il sesso, le condizioni generali del paziente, con la presenza o l’assenza di altri fenomeni
morbosi interagenti, con la sensibilità individuale ad un determinato trattamento farmacologico e
con tutte le altre condizioni, presenti nella persona nel cui confronti è stato omesso il trattamento
richiesto, che appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica.
In una tale prospettiva, il dato statistico, lungi dall’essere considerato ex se privo di qualsivoglia
rilevanza, ben potrà essere apprezzato dal giudice, nel caso concreto, ai fini della sua decisione, se
riconosciuto come esistente e rilevante, unitamente a tutte le altre emergenze fattuali della specifica
vicenda sub iudice, apprezzando in proposito, laddove concretamente esistenti ed utilizzabili, oltre
alle leggi statistiche, le “regole scientifiche” e quelle dettate dall’esperienza”.
È ovvio poi che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà verificare l’eventuale emergenza
di “fattori alternativi” che possano porsi come causa dell’evento lesivo, tali da non consentire di
poter pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale (“al di là di ogni ragionevole dubbio”)
sulla riconducibilità di tale evento alla condotta omissiva del sanitario.
Ed è altresì ovvio che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà porsi anche il problema dell’
“interruzione del nesso causale”, per l’eventuale, possibile intervento nella fattispecie di una “causa
eccezionale sopravvenuta” rispetto alla condotta sub iudice del medico idonea ad assurgere a sola
causa dell’evento letale (articolo 41, comma 2, Cp).
Nel rispetto di tale approccio metodologico, il giudizio finale, laddove di responsabilità a carico del
sanitario, non potrà che essere un giudizio supportato da un “alto o elevato grado di credibilità
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razionale” ovvero da quella “probabilità logica” pretesa dalle Su F.; mentre l’insufficienza, la
contraddittorietà e/o l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale e,
quindi, il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico,
rispetto ad altri fattori interagenti o eccezionalmente sopravvenuti nella produzione dell’evento
lesivo, non potrà che importare una conclusione liberatoria.
Or bene, il giudice di merito si è mosso nel pieno rispetto di questi principi essendo pervenuto al
giudizio di responsabilità esprimendo il proprio convincimento non solo e non tanto sul dato
statistico percentuale (delle probabilità di salvezza), ma inserendo tale dato in un complessivo
giudizio controfattuale che lo ha portato, in modo convincente e qui incensurabile, a fondare la
responsabilità del sanitario per l’evento letale in modo “processualmente certo”.
In altri termini, la sentenza impugnata, richiamando l’elevato grado di probabilità di sopravvivenza
del paziente (che a seguito di intervento di ernia inguinale, presentava un processo infettivo da
strepto cocco beta emolitico di gruppo A), in caso di intervento tempestivo, dopo avere esaminato
tutte le circostanze del caso concreto ed aver effettuato il giudizio controfattuale, si è posta in linea
con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, come già evidenziato,
il dato statistico deve ricevere conferma nell’apprezzamento di tutti gli elementi che hanno
caratterizzato il caso concreto.
In conclusione, le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee
interpretative enunciate dalla Suprema Corte in tema di rapporto di causalità ed il giudizio espresso
circa il positivo accertamento tra la condotta prevalentemente omissiva e la morte del paziente resta,
pertanto, incensurabile in sede di legittimità con il conseguente rigetto del ricorso.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed
alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili, liquidate come in
dispositivo.
Come già precisato sopra la sentenza va, pertanto, annullata con rinvio limitatamente
all’assoluzione pronunciata nei confronti del dr. B. Aldo con rinvio al giudice civile competente per
valore in grado di appello, affinché si attenga ai principi sopra indicati.
La liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili in questo grado di giudizio si rimette alla
Corte di merito in sede di rinvio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso proposto da G. G. e lo condanna al pagamento delle spese processuali e di quelle
in favore delle parti civili costituite, che liquida in complessivi euro 2375, di cui euro 400 per
esborsi,oltre Iva e CPA; in accoglimento del ricorso proposto dalle parti civili annulla la sentenza
impugnata nei confronti di B. Aldo con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di
appello, al quale rimette anche il regolamento delle relative spese sostenute dalle parti civili per il
giudizio di cassazione.
-In tema di causalità omissiva:
1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale
condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica —
universale o statistica — si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta
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doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si
sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva;
2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla
legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale,
poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del
fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia
altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa
la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento
lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”
3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla
ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile,
sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori
interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi
prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio;
4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità è assegnato il compito di controllare
retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative — la cd. giustificazione
esterna — della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi
di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni:
non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di
merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo
specifico fatto da provare.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
SENTENZA 25.05.2005 – 12-07-05 n. 25233
(Pres. Giovanni Silvio Coco – Cons. est. Vincenzo Romis)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Verso la metà del mese di dicembre del 1997 si verificavano casi di epatite B ad evoluzione grave
tra i pazienti ricoverati nel reparto di ematologia dell’ospedale “San Salvatore” di Pesaro, con nove
decessi per epatite fulminante su undici casi accertati: i primi sette pazienti erano stati ricoverati nel
mese di ottobre (poi tutti deceduti); gli altri quattro erano stati ricoverati nel mese di dicembre 1997
(e due poi deceduti per epatite fulminante).
Il primo caso di infezione da epatite B veniva evidenziato il 15 dicembre 1997 e riguardava la
paziente G.F. la quale decedeva il 29 dicembre 1997. Al decesso della G. seguiva poi la morte del
paziente P. M., ancora per epatite fulminate da virus B, e quindi, sempre per la medesima infezione,
decedeva F.F. Dopo il terzo caso scattava l’allarme e, all’esito dei primi accertamenti, si appurava
che i tre pazienti deceduti erano stati sottoposti all’aferesi delle cellule staminali: sul presupposto
che tale procedura potesse essere stata la causa comune dell’infezione, venivano richiamati tutti i
pazienti ai quali era stata praticata tale terapia, ma l’esame dei relativi prelievi risultava negativo,
cosi come senza esito positivo restava l’esame del liquido di lavaggio della macchina.
Frattanto cominciavano a positivizzarsi altri pazienti che non erano stati sottoposti a
quell’intervento, per cui veniva disposto l’accertamento dello stato immunitario per il virus B di
tutti gli operatori sanitari addetti al reparto di ematologia, e, poichè tutti i pazienti erano stati
trasfusi, veniva attivato anche il controllo di tutti i donatori di sangue che dava esito negativo; si
procedeva quindi all’esame del sangue dei pazienti per individuare le eventuali concordanze del
genoma virale.
All’esito di controlli ed ispezioni ambientali da parte di esperti nominati dai responsabili
dell’ospedale, disposta ed eseguita la sanitificazione del reparto di ematologia, la Direzione
Generale segnalava l’evento all’Autorità Giudiziaria, e la Procura Circondariale della Repubblica di
Pesaro avviava immediatamente le indagini, ordinando l’esame autoptico delle persone decedute, il
sequestro delle cartelle cliniche, l’ispezione dei luoghi, e nominando due collegi di consulenti
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tecnici al fine di accertare l’eziopatogenesi del fenomeno infettivo.
I sopralluoghi in ematologia, eseguiti da componenti del Comitato per le Infezioni Ospedaliere (il
C.I.O.) consentivano di individuare, all’esito della verifica delle procedure e delle pratiche
assistenziali, alcuni punti critici quali possibili fattori di rischio per la trasmissione di agenti infettivi
per via ematica, e cioè:
1) la non corretta conservazione delle provette, contenenti il sangue di scarto dei prelievi effettuati
dalle vene centrali, che erano poste in contenitori aperti sul piano di lavoro dove veniva preparata la
terapia infusiva;
2) l'utilizzo di un sistema per i prelievi di sangue capillare comprendente una lancetta a perdere ed
un supporto fisso portalancette che non veniva sostituito, né decontaminato, dopo ogni procedura;
3) l’utilizzo di flaconi multidose di eparina ed insulina;
4) il riutilizzo delle camicie usate per i prelievi di sangue con il sistema a vuoto vacutainer.
Il consulente del P.M., incaricato di valutare gli aspetti medico-igienistici, evidenziava quanto
segue:
a) i protocolli di interesse igienistico, con riferimento alle procedure di decontaminazione, pulizia,
disinfezione e sterilizzazione, erano risultati insufficienti e carenti;
b) il Comitato per le Infezioni Ospedaliere — previsto dal D.M. Sanità il 13/9/1988 — era stato
costituito tardivamente e riaggiornato solo il 30 dicembre 1997;
c) vi era stato ritardo, ed in due casi omissione, della notifica all’Azienda Sanitaria della malattia
infettiva, accertata o sospettata, da effettuarsi entro due giorni dalla osservazione del caso: in tal
modo impedendo che potessero essere intraprese in tempo utile le dovute azioni profilattiche.
Altro consulente del P.M., cui era stata affidata l’indagine virologica, accertava quanto segue:
a) dallo studio del siero di fase acuta dei pazienti coinvolti, era emerso un grado di omologia con il
genoma virale di C. P. oscillante dal 98 al 99,8%: il che indicava nel C. — il quale era stato
anch’egli ricoverato nel reparto di ematologia di quell’ospedale - il caso indice e la fonte del
contagio degli altri pazienti;
b) sui residui di fondo del contenitore grande da criopreservazione era stata riscontrata la presenza
di quantità estremamente ridotta di sequenze genomiche del virus B, mentre dal materiale del
contenitore piccolo era stato possibile coltivare due ceppi battericidi.
I consulenti tecnici del P.M., chiamati a comporre il collegio incaricato di seguire gli accertamenti
sulle cause della morte dei pazienti deceduti, sulla fonte e sulle modalità del contagio, rassegnavano
le seguenti conclusioni:
a) G.F., P. M., F.F., A.L., F.S., A.M., R.A., B.P. e F.P. erano deceduti a causa di insufficienza
epatica da necrosi epatica massiva da epatite B contratta durante la degenza presso il reparto di
ematologia dell’ospedale di Pesaro;
b) C. P., ricoverato nel settembre 1997, aveva presentato una riattivazione dell’epatite essendo
risultato positivo ad un prelievo del 2 ottobre 1997; era stato quindi nuovamente ricoverato nel
mese dì ottobre di quell’anno ed una biopsia epatica del 17 ottobre 1997 aveva documentato una
epatite cronica attiva; il 13 novembre era stato ricoverato all’ospedale di Fano dove era poi
deceduto il 17 dicembre 1997 per complicanze della patologia neoplastica da cui era affetto e non
per l’epatite;
c) la fonte del contagio era da individuarsi nel C. che era portatore dello specifico stipite virale che
aveva prodotto l’infezione di tutti gli altri soggetti;
d) non era stato possibile individuare in termini di certezza la via di trasmissione del contagio, ma il
dato che non era emersa una singola pratica o procedura eseguita su tutti i soggetti, indicava che la
diffusione del virus aveva seguito una via del tutto casuale; il che induceva a ritenere che il virus
aveva contaminato casualmente i più vari strumenti e materiali, utilizzati in isolati ma ripetuti
episodi di disattenzione nei confronti delle norme precauzionali universali; ciò era potuto derivare
unicamente da una contaminazione ambientale che risultava attestata dalle seguenti circostanze: 1)
la documentata inadeguatezza complessiva dei procedimenti di controllo e prevenzione delle
infezioni; 2) i numerosi punti critici riscontrati; 3) la presenza di batteri e di una debole positività
239
per l’epatite B nei bidoni dell’azoto liquido, significativa per una carenza di adeguati provvedimenti
igienici nel reparto;
e) non erano stati adottati adeguati provvedimenti di isolamento sia nei confronti del C., altamente
infettante durante il ricovero dell’ottobre 1997 sia nei confronti G.F. e P. M. nel dicembre 1997;
f) sul piano cronologico il focolaio epidemico poteva essere distinto in due epoche: un primo
focolaio era individuabile nel mese di ottobre 1997, in cui avevano contratto l’infezione sette dei
pazienti poi deceduti, ed una seconda epoca riconducibile al dicembre 1997 in cui avevano contratto
l’infezione gli altri quattro pazienti deceduti.
I consulenti tecnici, nominati rispettivamente dagli indagati prof. L.G. — Responsabile dell’Unità
Operativa di Ematologia presso l’ospedale “S. Salvatore” di Pesaro — e dottor Giovanni F. —
Direttore Sanitario dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale S. Salvatore” di Pesaro, nonché Direttore
Sanitario di Presidio (anche solo di fatto) del detto nosocomio — con le loro conclusioni
controbattevano le argomentazioni dei consulenti del P.M. e sottolineavano, in particolare, che:
1) erano risultate sostanzialmente corrette le procedure seguite dal personale sanitario operante nel
reparto di ematologia dell’ospedale in questione, anche con riferimento alle modalità di
preparazione e somministrazione dei farmaci per uso parenterale, nonché rispettate le norme di
asepsi;
2) non erano emersi elementi tali da poter far ritenere avvenuta una contaminazione ambientale,
dovendo considerarsi del tutto sicuri, sotto il profilo della idoneità ad impedire eventuali contagi, gli
strumenti adoperati e le metodiche adottate per i prelievi;
3) il concetto di contaminazione ambientale non aveva comunque pratico significato nell’epatite B,
non potendo l’infezione essere trasmessa dall’ambiente esterno;
4) il Comitato Infezioni Ospedaliere era stato costituito dalla USL di Pesaro sin dal 1989 ed
aggiornato, quanto a composizione, nel 1993 ed in data 30/12/1997, quindi prima della conoscenza
(7 gennaio 1998) - da parte dei vertici aziendali - dei casi di epatite virale nel reparto di ematologia;
5) nulla era stato trascurato per assicurare al personale sanitario una adeguata preparazione
professionale ed un costante aggiornamento:
6) erano stati costantemente osservati i protocolli universalmente riconosciuti come efficaci per la
prevenzione delle infezioni in ambiente ospedaliero;
7) la Direzione Sanitaria era venuta a conoscenza dell’insorgenza dei casi di epatite in data 7
gennaio 1998, allorché i contagi dei pazienti erano già avvenuti ed era stato attivato tutto quanto
possibile per identificare la fonte e le modalità del contagio e per prevenire l’insorgenza di nuovi
casi.
Al termine delle indagini il Pubblico Ministero formulava la imputazione di omicidio colposo
plurimo a carico del prof. L. e del dott. F., con la contestazione di plurime omissioni, tutte
dettagliatamente descritte in un articolato capo di imputazione, e riconducibili, in gran parte, alla
mancanza di controllo e vigilanza sulle modalità dei prelievi ematici dai pazienti, sulle procedure
seguite e sugli strumenti adoperati per i prelievi stessi, sulla conservazione e sterilizzazione degli
strumenti sanitari, sulle condizioni di degenza dei pazienti, anche per il mancato isolamento del
paziente C. individuato quale fonte del contagio dei pazienti poi deceduti in conseguenza
dell’infezione contratta nel reparto. Per i fatti dettagliatamente descritti nel capo di imputazione, e
con la contestazione di omicidio colposo plurimo, il prof. L. ed il dottor F. venivano dunque tratti a
giudizio dinanzi al Tribunale di Pesaro.
A seguito dell’intervento risarcitorio della compagnia assicuratrice dell’Azienda Sanitaria Ospedale
San Salvatore il processo si svolgeva con la sola costituzione della parte civile M. Giovanni e con la
partecipazione della medesima Azienda in qualità di responsabile civile.
Il processo veniva celebrato con rito abbreviato, con integrazione probatoria richiesta dagli
imputati, ammissione della prova contraria richiesta dal Pubblico Ministero, istruttoria integrativa,
disposta dal giudice ex art. 441 ,comma 5 cpp., per verificare la prospettata ipotesi di un
“sabotaggio”, e consistita: a) nella trascrizione in forma peritale delle conversazioni telefoniche
intercettate nell’ambito del procedimento n. 233/98 della Procura del Tribunale di Pesaro (Atti
240
relativi alle dichiarazioni dell’indagato L.) i cui brogliacci e le cui trascrizioni di polizia erano
allegati agli atti; b) nell’acquisizione del fascicolo citato e di altri fascicoli concernenti G. Claudio
(atti relativi al suicidio, al furto di provette e cartelle cliniche, peculato di medicinali); c)
nell’ammissione di testi in relazione all’ipotesi del “sabotaggio”.
L’ipotesi del “sabotaggio” era emersa dalle iniziali dichiarazioni del prof L. rese ai Carabinieri in
occasione della notifica dell’informazione di garanzia e subito dopo al Pubblico Ministero; il L.
aveva riferito, in proposito, quanto segue: dopo l’esame approfondito della vicenda, fatto con il
personale medico e paramedico, sembrava impossibile che il focolaio infettivo fosse derivato da
errori comportamentali del personale; l’unico comune denominatore terapeutico era da individuarsi
nella somministrazione di soluzioni fisiologiche attraverso le fleboclisi; l’ipotesi che sembrava più
plausibile era che il suo reparto fosse stato oggetto di un sabotaggio ad opera di persone ostili,
attuato iniettando siero infetto nelle flebo somministrate ai pazienti;il siero si otteneva dalle provette
inviate al laboratorio per l’analisi; all’epoca era ricoverato il paziente C. P., portatore sano di epatite
riconosciuto positivo; i flaconi di soluzione fisiologica provenivano dalla farmacia dell’ospedale in
cartoni da n. 25 boccette e addetto alla preparazione e alla consegna era G. Claudio, un portantino in
servizio al reparto fino all’agosto 97 e poi trasferito dal reparto per screzi personali con colleghi di
lavoro. Nel corso delle indagini sul punto, C. Paola, ausiliaria addetta alle pulizie, aveva riferito che
il G. si muoveva molto liberamente nel reparto di ematologia e nutriva antipatia per il prof L.; lo
aveva visto varie volte fotocopiare le cartelle cliniche dei pazienti; e una mattina, verso le ore 5,40,
lo aveva incontrato nel reparto, ove era entrato scavalcando una finestra del tunnel di collegamento
tra la scuola e il reparto, ed il G. le aveva fallo vedere una provetta contenente sangue e recante una
etichetta con il nome di C. scritto a penna; in una successiva conversazione, allorché si era già
diffusa la voce che un personaggio esterno avesse potuto inquinare le flebo, il G. aveva affermato
che con un ago da insulina era possibile iniettare un liquido nelle flebo senza che nessuno se ne
accorgesse, sollevando in maniera impercettibile il lembo di metallo fissato solo in quattro punti. Il
G., dal canto suo, aveva ammesso di avere qualche volta fotocopiato cartelle cliniche sue o del
figlio; aveva però negato di avere fotocopiato cartelle dei pazienti e di avere sottratto provette di
sangue dal reparto di ematologia. Il G. era stato quindi convocato per il giorno 19.6.98 per essere
sottoposto a confronto; ma alle ore 7,30 di quel giorno il suo cadavere era stato rinvenuto nel
magazzino sito al piano interrato della farmacia interna dell’ospedale, appeso al soffitto con una
corda al collo. In data 17.5.2001 il GIP aveva disposto l’archiviazione del procedimento relativo
alle dichiarazioni del Prof. L. sull’ipotesi dell’intervento doloso.
li Tribunale, nel procedere al vaglio della contestazione mossa agli imputati, anche per verificare se
le risultanze acquisite consentissero di individuare in termini di ragionevolezza un processo causale
diverso ed alternativo rispetto a quello delineato nelle imputazioni, evidenziava innanzi tutto che
dovevano ritenersi provati i seguenti punti, sostanzialmente condivisi da tutti gli esperti;
- i nove pazienti erano deceduti a causa di epatite virale fulminante;
- tutti avevano subito il contagio durante il ricovero nel reparto di ematologia;
- l’infezione era stata prodotta dallo stesso stipite virale in quanto dall’esame dei campioni biologici
prelevati dai pazienti deceduti era stata accertata una fortissima omologia della sequenza del DNA
virale;
- la fonte del contagio, portatore dello stipite virale originario, si identificava in C. P.:
- poiché il virus dell’epatite B si trasmette esclusivamente mediante contatto ematico, il contagio
era necessariamente avvenuto mediante comportamenti concreti che avevano comportato il
passaggio per via parenterale di sangue o siero del C. al sangue dei pazienti.
Ciò posto, il Tribunale rilevava poi che, nonostante gli approfondimenti compiuti, non era stato
individuato, invece, il veicolo attraverso cui, in concreto, la trasmissione del virus si era verificata; e
sottolineava, quindi, che solo la individuazione dei comportamenti concreti dei soggetti che li
avevano posti in essere, e delle relative circostanze, poteva consentire una valutazione in termini di
responsabilità dei soggetti coinvolti: la mancata individuazione del veicolo del contagio escludeva
la possibilità di qualsivoglia ulteriore ricerca in ordine alla sequenza causale da cui era derivato
241
l’evento.
Il Tribunale osservava, ancora, che neppure era stata acquisita la prova della contaminazione
ambientale, ipotizzata dall’accusa come una condizione generale del reparto provocata da condotte
e pratiche scorrette su cui si sarebbero innestate ulteriori pratiche scorrette comportanti il finale
contagio dei pazienti, ed indicata dai consulenti del Pubblico Ministero come la causa più probabile,
più plausibile, del contagio. Il Tribunale motivava il proprio convincimento in proposito asserendo
che la prospettata contaminazione ambientale era risultata sfornita di prove non tanto perché, in
conseguenza dei casi di infezione da epatite B, il reparto, dal 13 al 19 gennaio 1998, era stato
interamente “sanitizzato”, e neppure per le notevoli difficoltà nella ricostruzione dei fatti in
relazione a condizioni ambientali mutate (dato il periodo di incubazione della infezione oscillante in
concreto tra 55 e 77 giorni); ma perché tra i possibili fattori di rischio segnalati — singolarmente
richiamati dal Tribunale - nessuno poteva ritenersi, di per sè, causa di contagio, e di contaminazione
ambientale, posto che:
- l’eparina in flacone multidose veniva utilizzata per lavare i cateteri a tre vie;l’uso del flacone
multidose non era di per sé causa di contaminazione; e mancava la prova di una utilizzazione
impropria del flacone (reintroduzione nel flacone di una siringa già utilizzata);
- il protocollo per il lavaggio dei cateteri venosi centrali che era stato formato dal personale, ma non
validato dalla Direzione Sanitaria, non costituiva causa di adozione di procedure scorrette in quanto
era stato esaminato e ritenuto corretto e idoneo e neppure era stato modificato;
- le provette contenenti il sangue di scarto erano di vetro infrangibile e chiuse ermeticamente e
soltanto la rottura e l’apertura accidentali, delle quali non vi era prova, avrebbe potuto cagionare
contaminazione;
- le lancette pungidito (peraltro utilizzate in un solo caso) e il relativo supporto non costituivano
alcuna contaminazione, possibile solo dall’uso scorretto del supporto se attinto dal sangue;
- la riutilizzazione delle camicie utilizzate per il prelievo del sangue con il metodo “vacutainer” era
operazione innocua e inidonea a provocare contaminazione perché la camicia non veniva attinta dal
sangue;
- analoghe considerazioni valevano riguardo alla utilizzazione della stessa stanza per il compimento
di attività invasive sia sui pazienti positivi al virus HBV che su quelli negativi;
- il rinvenimento di tracce di virus B in uno dei contenitori di azoto liquido per la criopreservazione
installati nel laboratorio di ematologia doveva considerarsi assolutamente ininfluente in ordine alla
configurazione di una contaminazione ambientale rilevante, mancando qualsiasi elemento per
ricondurre quelle tracce al virus identificato come letale o a identificare l’epoca e le cause di tale
presenza;
- non esisteva un obbligo di isolamento del C. in senso materiale, mentre era stato realizzato
pienamente il suo isolamento funzionale;
- esattamente, pertanto, il Prof. De Fazio, c.t. del P.M., aveva concluso che la contaminazione
ambientale era una ipotesi investigativa superata dalle acquisizioni processuali, una mera ipotesi
non acclarata da alcun elemento di giudizio:
- del resto correttamente questi comportamenti e pratiche erano da tutti definiti come “possibili”
fattori di rischio e non come cause di contaminazione o contagio.
Secondo il Tribunale, dalla mancata individuazione, sia del veicolo del contagio, sia delle condotte
e delle procedure scorrette che avevano concretamente trasmesso il virus, nonché dei soggetti
operatori, derivava la impossibilità di trarre utili elementi di valutazione in ordine all’accertamento
della causa dell’evento; non essendo conosciuta la condotta scorretta posta in essere, che aveva
cagionato l’evento, risultava impraticabile il ricorso al giudizio logico controfattuale che esigeva,
sotto l’aspetto probatorio, la individuazione della condotta antidoverosa commessa e la sua
sostituzione mentale con la condotta doverosa, al fine di riscontrare, in base a leggi scientifiche o
statistiche, se posta in essere la condotta doverosa omessa, il prodursi dell’ evento si sarebbe evitato
con un grado di sicurezza logica assai elevato, prossimo alla certezza.
Conclusivamente, all’esito del percorso motivazionale seguito, il Tribunale affermava che la
242
mancanza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale comportava l’esito
assolutorio del giudizio nei confronti degli imputati, anche perché non appariva priva di fondamento
quella ipotesi del “sabotaggio” che era emersa sulla scorta delle dichiarazioni rese dal prof. L.; anzi
le risultanze acquisite apparivano tali da far ritenere detta ipotesi ragionevolmente configurabile e,
sotto il profilo probatorio, dotata addirittura di maggiori elementi a sostegno (personalità del G.,
conversazioni telefoniche intercettate e conseguente complessiva attendibilità della teste C.,
compatibilità dell’ipotesi dolosa con l’insorgenza del secondo focolaio ben potendo questo essere
stato causato dall’utilizzo di flebo rimaste in giacenza dall’epoca del primo focolaio), e pertanto in
concreto più probabile di quella colposa oggetto della imputazione.
Avverso detta sentenza proponevano appello: il Procuratore della Repubblica di Pesaro con atto
15.6.02; il Procuratore Generale con atto 20.6.02; la parte civile M. Stefano con atto 18.6.02.
I motivi di gravame addotti dagli appellanti possono riassumersi come segue.
A) In primo luogo venivano impugnate le ordinanze dibattimentali con le quali il Tribunale aveva
disposto d’ufficio la integrazione probatoria ai sensi dell’art. 441, co. 5, c.p.p., riguardante l’ipotesi
del “sabotaggio”; per tale ipotesi dolosa era intervenuto in data 17.5.2001 decreto di archiviazione
che aveva giudicato assolutamente insufficienti le affermazioni del prof. L. e le dichiarazioni della
C. pervenendo ad una affermazione di sostanziale non plausibilità dell’ipotesi ricostruttiva dolosa: e
il giudice del dibattimento, se poteva utilizzare tali atti, non poteva, neppure in via incidentale,
compiere un accertamento sulla sussistenza del diverso reato per il quale era stata disposta
l’archiviazione. L’esercizio del potere officioso di integrazione probatoria era stato, poi, esercitato
fuori dai limiti previsti dagli artt. 438, co. 5, e 441, co 5, c.p.p., perché diretto a verificare ipotesi
ricostruttive diverse e alternative a quelle contestate e , inoltre, di competenza di un giudice diverso.
Quanto alla ordinanza del 5.11.2001, con la quale era stata disposta la trascrizione delle
intercettazioni di conversazioni telefoniche eseguite nel procedimento N. 233/1998, si aggiungeva
che i relativi risultati, ai sensi dell’art. 270 cpp, non potevano essere utilizzati.
B) La tesi della volontaria diffusione dell’infezione appariva insostenibile anche storicamente per la
insufficienza e inconsistenza degli elementi idonei a sostenerla:
- non era stata verificata la possibilità di inserire un ago nel flacone ermeticamente chiuso;
- non erano state verificate le conseguenze di ordine visivo che potevano derivare dalla introduzione
di siero nella soluzione fisiologica, né era stato accertato quando e dove il G. avrebbe potuto
procedere alla introduzione della sostanza contaminante in decine di flaconi che gli venivano
consegnati in scatole confezionate ed alla presenza del conducente del furgone che lo aiutava nella
distribuzione;
- l’ipotesi era poi incompatibile con l’insorgere del secondo focolaio di contagio verificatosi nel
periodo 15/20 dicembre 1997 in quanto la possibilità che fossero utilizzate flebo, rimaste in
giacenza sin dal primo focolaio di due mesi prima, era stata smentita dalla caposala Vergoni Tiziana
che aveva spiegato che le flebo venivano consegnate tutti i giorni dalla farmacia e che qualche
rimanenza della giornata veniva utilizzata prima delle nuove;
- ancora meno consistenti e affidabili erano le dichiarazioni della C.: dichiarazioni che erano sorte
in una situazione di scarsa trasparenza, sembrando non spontanee ma maturate in una serie di
incontri e riunioni tenuti presso lo studio del prof. L.: sospetto coincidente con quello del G. il quale
in un passo della lettera da lui lasciata aveva detto che “le bugie andate a raccontare alla
Magistratura sul suo conto erano state studiate a tavolino”;
- le affermazioni della C. facevano poi ritenere che il G. fosse in possesso della provetta di sangue
già alla ore 540, mentre i prelievi iniziavano alle 6: e tanto meno era possibile che la provetta fosse
munita di una etichetta scritta a mano dato che era stato accertato che le etichette venivano stampate
con il computer;
- nessun serio argomento poteva trarsi dal suicidio del G.: semmai, sulla base dei dati disponibili,
(contenuto della lettera e dichiarazioni della C. che bene lo conosceva e aveva detto di non aver mai
creduto che fosse lui il presunto sabotatore), doveva interpretarsi come una protesta di innocenza e
non come ammissione di colpevolezza.
243
C) L’infezione non aveva riguardato un solo paziente, bensì undici e la stessa si era diffusa tanto
agli uomini quanto alle donne ospitati in camere diverse e, inoltre, vi erano stati due focolai di
infezione a distanza di due mesi sicché era doveroso affermare, e non ipotizzare, che vi era stato un
“veicolo” diffuso e costante che non poteva essere altro che la inosservanza frequente e
generalizzata da parte di più soggetti delle norme universali di precauzione e delle procedure
raccomandate, regole alla cui osservanza avrebbero dovuto, invece, vigilare in diverso modo gli
imputati; e di tali comportamenti scorretti erano stati trovati puntuali riscontri nelle ispezioni,
consulenze e deposizioni: G. Monica e P. Carlo avevano accertato e riferito che il prescritto uso dei
guanti veniva disatteso dal personale; i protocolli di interesse igienistico adottati erano carenti e non
conformi alle procedure raccomandate; le arcelle dove venivano poste le provette di sangue e le
terapie da somministrare, dopo il loro utilizzo, non venivano disinfettate, ma semplicemente lavate,
e lo stesso si verificava per i tavolinetti servi-pranzo.
D) Dimostrata era la contaminazione ambientale del reparto, elemento cardine della catena causale
e considerata quale fattore più importante della trasmissione del contagio: la presenza di materiale
infettante sugli oggetti, sulle suppellettili e sulle superfici di lavoro aveva favorito la
contaminazione dei farmaci, dei materiali e degli strumenti medicali.
Ulteriori circostanze rivelatrici dell’avvenuta contaminazione ambientale e delle condizioni di
carenza dal punto di vista igienico-sanitario nel reparto del prof. L. erano le seguenti:
- rinvenimento nel crioconservatore di tracce di materiale antigenico del virus B;
- conservazione delle provette contenenti il sangue dei prelievi in un contenitore aperto sul piano di
lavoro dove veniva preparata la terapia infusiva;
- porta lancette per i prelievi capillari che non veniva sostituito o decontaminato dopo ogni
procedura;
- presenza di flaconi multidose di eparina, momento di rischio potendo causare la contaminazione
degli strumenti.
E) Il mancato isolamento di C. P., che era stato alla base della diffusione del contagio e, poi, il
tardivo isolamento dei pazienti P. e G., apparivano elementi costitutivi di una condotta medica
impropria e negligente.
Vi era stata, inoltre, l’omessa notifica di malattia infettiva che presentava il C.: una tempestiva
comunicazione in proposito avrebbe consentito, agli organi preposti alla prevenzione delle infezioni
ospedaliere, di mettere in atto gli accorgimenti necessari per evitare il pericolo di contagio nei
confronti degli altri pazienti.
Gli appellanti concludevano, quindi, nel senso che, dichiarate irrituali le ordinanze dibattimentali
del 22.10.2001 e 5.11.2001 - con conseguente inutilizzabilità di tutti gli atti attraverso le stesse
acquisiti e assunti - entrambi gli imputati fossero dichiarati colpevoli in ordine a quanto loro
rispettivamente contestato.
I difensori presentavano memorie a confutazione dei motivi di appello.
L’Azienda Ospedaliera “San Salvatore” di Pesaro, responsabile civile, veniva estromessa dal
giudizio a seguito della rinuncia all’appello della parte civile nel frattempo risarcita.
La Corte d di Ancona, in accoglimento parziale delle censure degli appellanti, affermava la penale
responsabilità del prof. L. — condannandolo, con il riconoscimento delle attenuanti generiche e la
diminuzione per la scelta del rito, e con la concessione dei benefici di legge, alla pena di anni uno e
mesi quattro di reclusione — e confermava l’assoluzione del dottor F..
Quanto alla posizione del prof. L., la Corte distrettuale motivava il proprio convincimento con
argomentazioni che possono riassumersi come segue.
A) Le eccezioni di nullità delle ordinanze dibattimentali e della sentenza, sollevate dagli appellanti,
non apparivano fondate. Nel giudizio abbreviato il giudice è titolare di un amplissimo potere
istruttorio, per cui egli può assumere, anche d’ufficio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari per
la sentenza di merito, quando ritenga di non essere in grado di decidere “allo stato degli atti”.
Questo penetrante potere d’iniziativa probatoria — derivante dal combinato disposto degli artt. 441
e 422 c.p.p. — era stato legittimamente esercitato dal primo giudice che, contrariamente a quanto
244
sostenuto dagli appellanti, non aveva modificato la imputazione, non aveva formulato imputazioni a
carico di terzi estranei al processo (il G., del resto, era già deceduto), ma aveva cercato,
correttamente e doverosamente, di risolvere il problema fondamentale del nesso causale tra la
condotta contestata e gli eventi mortali. Parimenti infondata sembrava l’eccezione di inutilizzabilità
delle risultanze delle intercettazioni di conversazioni telefoniche. Dette intercettazioni erano state
legittimamente disposte nel corso delle indagini, i relativi atti facevano parte del fascicolo del
Pubblico Ministero ed il Tribunale si era limitato a disporre la relativa trascrizione: dunque le parti
non avrebbero potuto dedurre nel corso del giudizio abbreviato eccezioni riguardanti la validità e la
utilizzabilità degli elementi acquisiti mediante tale mezzo di prova nelle indagini preliminari, non
vertendosi in ipotesi di inutilizzabilità cd. patologica concernente esclusivamente atti probatori
assunti “contra legem”.
Destituita di fondamento era poi la tesi, sostenuta dalla difesa in sede di conclusioni, circa l’asserita
inammissibilità dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica per aver questi
precedentemente già presentato ricorso per cassazione. Osservava la Corte territoriale, in proposito,
che detto gravame era stato dalla Suprema Corte convertito in appello con ordinanza del 21/11/2003
ed inoltre presentava lo stesso contenuto e le medesime conclusioni del secondo atto di
impugnazione, onde doveva comunque essere preso in esame dalla Corte d’Appello. Sotto altro
aspetto doveva, ancora, rilevarsi che: il dispositivo della sentenza aveva indicato chiaramente il
termine di novanta giorni per la stesura della motivazione; la sentenza era stata depositata entro
detto termine scadente il 6.5.2002; l’appello era stato tempestivamente presentato il 15/6/2002,
dunque entro i successivi quarantacinque giorni previsti dall’art. 565, comma 1, lett.C, del codice di
rito; anche la seconda impugnazione risultava pertanto tempestiva ed ammissibile in virtù dei
principio secondo cui, mentre continua a decorrere il termine per impugnare, il potere di
impugnazione continua a sussistere fino allo scadere del termine, onde la presentazione di un
ricorso (valido o invalido) non pregiudica il successivo appello presentato ancora tempestivamente
B) Passando al merito, la Corte d’Appello riteneva non condivisibile l’assunto del primo giudice
secondo cui l’ipotesi dolosa del “sabotaggio” sarebbe risultata ragionevolmente configurabile ed
addirittura dotata di maggiori elementi a sostegno sotto il profilo probatorio. A prescindere da
qualsiasi valutazione circa l’attendibilità delle deposizioni testimoniali, la tesi accreditata dal
Tribunale appariva incontrovertibilmente smentita dalla circostanza che l’insorgenza del secondo
focolaio infettivo si era verificata verso la metà del mese di dicembre, cori l’identico ceppo del C.
ma quando ormai quest’ultimo non figurava più tra i pazienti degenti nell’ospedale San Salvatore di
Pesaro, essendo stato ricoverato sin dal 13 novembre 1997 presso l’ospedale di Fano dove era poi
deceduto il 7 dicembre 1997; né era ipotizzabile che nel reparto di ematologia fosse residuata,
perché non utilizzata, qualche flebo risalente all’ottobre precedente (epoca del primo focolaio)
avendo la capo-sala Vergoni Tiziana chiarito che il rifornimento dalla farmacia era quotidiano e che
eventuali rimanenze venivano consumate prima di utilizzare le nuove. In definitiva era da escludere
in assoluto, in termini di certezza, che nel dicembre 1997 nel reparto di ematologia di
quell’ospedale potesse essere disponibile sangue del C. da usare per l’inquinamento di ulteriori
flebo: l’ipotesi del sabotaggio rimaneva una mera congettura del prof. L., processualmente
insostenibile. E l’errore di giudizio del Tribunale — nel ritenere possibile e plausibile l’ipotesi
dolosa — aveva finito con il viziare e condizionare irrimediabilmente il ragionamento giudiziario
del Tribunale stesso, unitamente alla convinzione, parimenti fallace, che solo la individuazione
diretta e concreta del veicolo contaminato, che aveva provocato il contatto ematico tra la fonte ed il
soggetto ricevente, avrebbe potuto legittimare un giudizio di colpevolezza nei confronti di colui il
quale rivestiva una posizione di garanzia nell’ambito del reparto: ed invero, sottolineava la Corte
distrettuale, la dimostrazione della sussistenza di un fatto, non raggiungibile mediante la prova
storica, ben avrebbe potuto essere ottenuta mediante la prova logica ai sensi del secondo comma
dell’art. 192 del codice di rito.
Nella concreta fattispecie, la ricerca della prova storica e diretta degli elementi di fatto indicati dal
Tribunale era destinata a rimanere, come in effetti era rimasta, in gran parte vana. Le indagini,
245
invero, erano iniziate allorché il reparto di ematologia era stato interamente sanitizzato e le sue
condizioni ambientali erano del tutto mutate; a causa del lungo periodo di incubazione
dell’infezione e delle caratteristiche del reparto ove giornalmente venivano praticati innumerevoli
interventi terapeutici, assistenziali e invasivi su innumerevoli pazienti e da innumerevoli operatori,
insormontabile era stata la impossibilità di individuare i singoli e specifici comportamenti e le
modalità operative, i singoli soggetti operanti, i singoli strumenti e presidi contaminati, ormai tutti
eliminati.
Si trattava di circostanze fattuali rimaste ignote, ma la cui esistenza poteva e doveva essere
dimostrata con certezza mediante il procedimento logico disciplinato dal menzionato art. 192,
comma 2, c.p.p. sulla base degli elementi che risultavano accertati sulla scorta delle altre
acquisizioni probatorie.
Sulla base degli accertamenti svolti e delle opinioni di autorevoli esperti la sentenza di primo grado
aveva correttamente ritenuto acclarato le seguenti circostanze: i nove pazienti erano deceduti a
causa di epatite virale fulminante contratta durante il periodo di ricovero nel reparto di ematologia;
poiché il virus dell’epatite B si trasmette esclusivamente mediante contatto ematico, il contagio era
necessariamente avvenuto mediante comportamenti concreti che avevano causato il passaggio per
via ematica di sangue infetto ai pazienti contagiati
Secondo la Corte d’Appello, uno soltanto poteva essere stato il meccanismo che aveva causato il
contagio: vale a dire l’uso di veicoli contaminati per inosservanza delle precauzioni universali, solo
questa e null’altro rendendola possibile (come si legge a pag. 33 della sentenza della Corte
d’Appello). A tale conclusione inducevano le seguenti considerazioni: 1) non poteva prescindersi
dalla legge scientifica, riferita da tutti gli esperti, secondo cui l’infezione ospedaliera da virus B
avviene esclusivamente per via ematica, attraverso un veicolo contaminato e tale trasmissione è
validamente evitata dalla osservanza delle prescritte e note precauzioni universali: 2) doveva
escludersi, per il luogo in cui il contagio era avvenuto, che l’infezione potesse essere stata causata
dall’uso di stupefacenti oppure da rapporti sessuali; 3) tutti i donatori di sangue erano stati
controllati con esito negativo. E se solo detta inosservanza aveva reso possibile il contagio,
bisognava ammettere, per deduzione logica certa - per come si legge testualmente nella sentenza
della Corte d’Appello (pag. 34) – “l’esistenza di queste inosservanze da parte del personale del
reparto di ematologia nello svolgimento delle pratiche assistenziali e terapeutiche dei pazienti:
inosservanza che, per il suo carattere non occasionale ma frequente, ripetuto nel tempo e
generalizzato verso innumerevoli pazienti, non doveva essere tollerata e doveva essere impedita
dall’opera di vigilanza e controllo cui era tenuto per legge il responsabile del reparto”.
Stando così le cose, appariva indubitabile la sussistenza del nesso causale in quanto dal giudizio
controfattuale emergeva con chiarezza che, eliminate mentalmente le addebitate antidoverose
omissioni, e supposta attuata la doverosa condotta di vigilanza e di controllo sull’osservanza, da
parte del personale, delle prescritte precauzioni universali, con elevata credibilità e probabilità
logica le ripetute e innumerevoli condotte operative scorrette non si sarebbero certamente verificate,
l’infezione non sarebbe stata cagionata e gli eventi letali non si sarebbero prodotti.
La Corte territoriale sottolineava, infine, che la ricostruzione del nesso causale, tra la condotta
omissiva addebitata al prof. L. e l’evento, e la sua ritenuta sussistenza, trovavano conforto anche nel
dato statistico.
Precisava infatti in proposito la Corte d’Appello che gli autorevoli esperti della difesa avevano
riferito che nei più qualificati reparti mondiali di ematologia il rischio fisso-inevitabile di contagio
nosocomiale con HBV risulterebbe in genere attestato sull’ 1-2%; mentre il tasso di contagio negli
ultimi cinque anni nel reparto di ematologia dell’Ospedale di Pesaro era stato dello 0,09%. Orbene,
sottolineava quindi la Corte, tra l’agosto 97 e il gennaio 1998 in tale reparto erano stati ricoverati n.
104 pazienti suscettibili al virus dell’epatite B e si erano avute undici infezioni, con un tasso di
contagio pari al 10,6%: la differenza tra il tasso fisso (0,09 ) e il tasso di contagio verificatosi (10,6),
rappresentava dunque il coefficiente di aumento del rischio di infezione da attribuire - esclusa
l’incidenza di fattori causali alternativi - alla condotta antidoverosa del responsabile del reparto per
246
la omessa vigilanza sulla negligente operatività del reparto stesso
Avverso detta sentenza ricorre per cassazione, tramite il difensore, il prof L., deducendo, sotto il
duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, e con articolate e diffuse
argomentazioni, censure che possono riassumersi come segue.
In rito, sulla scorta delle considerazioni già svolte dalla difesa in relazione all’appello presentato dal
P.M. contro la sentenza assolutoria di primo grado, e disattese dalla Corte distrettuale con le
considerazioni sopra ricordate, si ripropone l’eccezione di inammissibilità di detta impugnazione.
I profili di violazione di legge e vizio motivazionale vengono dal ricorrente ravvisati nel percorso
argomentativo seguito dalla Corte territoriale, sull’asserito rilievo che la Corte stessa, pur avendo
dato atto di un assoluto deficit probatorio nella ricostruzione della vicenda in questione, ha poi
tuttavia ritenuto di poter ugualmente addivenire alla pronuncia della penale responsabilità in capo al
prof. L., in tal modo esprimendo un giudizio frutto di un evidente fraintendimento di principi
logico-giuridici che governano la materia del nesso di causalità e fortemente ribaditi nelle
statuizioni della Suprema Corte; in proposito il ricorrente ricorda in particolare la sentenza a Sezioni
Unite, Franzese, osservando chi i criteri in essa indicati sarebbero stati disattesi dalla Corte
distrettuale.
Con il ricorso, attraverso un analitico richiamo delle risultanze acquisite, si deduce altresì la
violazione dell’art. 192 deI codice di rito, atteso che la Corte d’Appello avrebbe fatto malgoverno
delle regole di valutazione probatoria dettate da tale norma, avendo attribuito dignità di prova,
all’esito di un processo asseritamente logico-deduttivo, ad un quadro indiziario caratterizzato da
evidenti connotazioni di equivocità, incompletezza e superficialità, e quindi assolutamente privo dei
necessari presupposti della gravità, concordanza e precisione richiesti per legittimare una pronuncia
di condanna; e la fragilità dell’apparato motivazionale adottato dalla Corte territoriale troverebbe
ulteriore conferma, secondo quanto sostenuto nel ricorso, nello stridente contrasto tra la condanna
del prof. L. e l’assoluzione del dott. F.: sostanzialmente la Corte di merito avrebbe basato la
sentenza di condanna a carico del prof L. su una imputazione riconducibile ad una mera
responsabilità oggettiva del tutto estranea ai principi giuridici che costituiscono i cardini del nostro
diritto penale.
Con l’atto di gravame vengono infine mosse censure anche alla dosimetria della pena, ritenuta
ingiustamente ed immotivatamente eccessiva, posto che la Corte d’Appello non avrebbe attribuito il
dovuto rilievo alla eccezionalità dell’evento ed alla assoluta peculiarità dello svolgimento dei fatti,
ed avrebbe nel contempo trascurato la personalità del prof L., da sempre impegnato con dedizione
nella cura ed assistenza dei pazienti, ed insignito nel 2003 della medaglia d’oro conferitagli dal
Presidente della Repubblica per i risultati conseguiti in campo scientifico e terapeutico.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Per prima, in ordine logico, deve essere esaminata la censura concernente la questione circa
l’ammissibilità dell’appello del Procuratore delta Repubblica avverso la sentenza di primo grado
con la quale il prof. L. era stato assolto.
La doglianza è priva di fondamenta come precisato dalla Corte d’Appello, allorquando il
Procuratore della Repubblica (il quale inizialmente aveva presentato ricorso per cassazione)
propose appello, non era ancora decorso il termine per proporre una valida impugnazione. Orbene,
in ordine alla possibilità di proporre impugnazione valida (comprensiva anche dell’enunciazione dei
motivi) da parte del soggetto legittimato, dopo un primo atto di gravame, nonché di presentare
distintamente ed in momenti successivi la dichiarazione di impugnazione ed i motivi a sostegno del
gravame — ovviamente a condizione che non sia decorso il termine stabilito per l’impugnazione, e
che non sia nel frattempo intervenuta una decisione di merito sull’impugnazione stessa (cfr., a tale
ultimo riguardo, Sez. 5, n. 1638/92, Caporaso, RV. 192336) — si è ripetutamente pronunciata in
senso positivo questa Corte dando vita ad un indirizzo interpretativo che può ormai definirsi
assolutamente consolidato; quali sentenze conformi a tale orientamento si segnalano, “ex plurimis”,
ed a titolo esemplificativo, le seguenti: Sez. 1, n. 6029/00, Creanza, RV. 215328; Sez. 3, n. 7162/93,
Freschi, RV 195151, secondo cui “è ammissibile l’impugnazione (nella specie ricorso per
247
cassazione), quando, pur essendo stata presentata la sola dichiarazione di gravame senza motivi,
l’atto venga rinnovato nei termini integralmente attraverso il deposito di un documento unico,
contenente sia la parte dichiarativa, che quella argomentativa”; Sez. 4, n. 2759/93, Giannoccaro,
RV. 194098, secondo cui mentre continua a decorrere il termine per impugnare, la presentazione di
un ricorso (invalido) non esaurisce il potere di impugnazione, che continua fino allo scadere del
termine”. D’altra parte, in virtù del principio della conservazione degli atti e di quello di
conversione dell’impugnazione (l’uno e l’altro più volte affermati in giurisprudenza ed avallati
anche dall’autorevole intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, con la decisone n. 45371/01,
Bonaventura, RV. 220221) l’iniziale ricorso del P.M. avrebbe comunque comportato la conversione
del gravame in appello: il che è puntualmente avvenuto, avendo questa Corte, con ordinanza del
21/1/2003, disposto appunto la conversione del gravame in appello.
Fondati risultano invece, nei termini che di seguito saranno precisati, gli ulteriori motivi di ricorso
che, sul piano metodologico, ben possono formare oggetto di una globale valutazione, attenendo gli
stessi sostanzialmente, e sia pure nella loro singola formulazione, alla denuncia di profili di
violazione di legge e vizio motivazionale con riferimento, per un verso, alla individuazione della
causa che determinò il diffondersi dell’epatite B tra i pazienti ricoverati nel reparto diretto dal prof.
L., e, per altro verso - avuto riguardo alle condotte addebitate allo stesso prof. L. — alla
riconducibilità dell’evento almeno ad una di tali condotte.
Per un corretto inquadramento della problematica posta con il ricorso, appare indispensabile
soffermarsi preliminarmente sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di nesso di
causalità con specifico riferimento alla condotta omissiva in materia di colpa professionale medica.
In epoca meno recente è stato talora affermato che a far ritenere la sussistenza del rapporto causale,
“quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo..., sono sufficienti” (Sez.
4, n. 4320/83); in altra occasione si è specificato che, pur nel contesto di una “probabilità anche
limitata”, deve trattarsi di serie ed apprezzabili possibilità di successo” (considerandosi rilevante,
alla stregua di tale parametro, una possibilità di successo del 30 %: Sez. 4, n. 371/92); altra volta,
ancora, non aveva mancato la Suprema Corte di affermare che “in tema di responsabilità per colpa
professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine
alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta. ., è necessario che
l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta..
almeno con un grado tale da fondare su basi solide un’affermazione di responsabilità, non essendo
sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza” (Sez. 4, n. 10437/93). In tempi meno
remoti la prevalente giurisprudenza di questa Corte ha costantemente posto l’accento sulle “serie e
rilevanti (o apprezzabili) possibilità di successo”, sull’ “alto grado di possibilità”, ed espressioni
simili (così, Sez. 4, n. 1126/2000: nella circostanza è stata apprezzata, a tali fini, una percentuale del
75 % di probabilità di sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e
cure tempestive).
Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, Musto, e
Sez. 4, 29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto “ex novo” la tematica in
questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che “il
problema del significato da attribuire alla espressione «con alto grado di probabilità».... non può
essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la
scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirgli il diritto”; ed
è stato quindi affermato che “per la scienza” non v’è alcun dubbio che dire «alto grado di
probabilità», «altissima percentuale», «numero sufficientemente alto di casi», voglia dire che, in
tanto il giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto
possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che
«enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento»....”, questa in sostanza
realizzando quella “probabilità vicina alla certezza”. Successivamente (Sez. 4, 231112002, dep.
1O/6 Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica, ed
è stato evidenziato come una percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore eziologico
248
effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e
come, al contrario, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente
suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento,
di cui si sia potuto escludere l’interferenza.
E’ stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto che nel
tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due contrapposti indirizzi
interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con
particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo: secondo
talune decisioni, che hanno dato vita all’orientamento delineatosi più recentemente, sarebbe
necessaria la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un
elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza”, e cioè in una percentuale di casi prossima a
cento”; secondo altre decisioni sarebbero invece sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di
successo” per l’impedimento dell’evento.
Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza Franzese già sopra citata, con la quale
sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la
condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui
sinteticamente ricordare:
1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto
sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica — universale o
statistica — si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa
impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato
ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva;
2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge
statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il
giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e
dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso
l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la
condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato
grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”
3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del
nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia
condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella
produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e
l’esito assolutorio del giudizio;
4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità è assegnato il compito di controllare
retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative — la cd. giustificazione esterna
— della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova,
alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione,
dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel
ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da
provare.
Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia
leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato,
esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura
probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi
sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso
motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce tuttavia a ritenere che le Sezioni Unite, nel
sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale “condicio sine qua non” di
cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza, abbiano inteso riferirsi non alla
certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sè altrettanto
inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla “certezza processuale” che, in quanto tale, non
249
può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue
valutazioni probatorie: “certezza” che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte
le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico - analogo
a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal
secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale - che consenta di poter ricollegare un
evento ad una condotta omissiva “al di là di ogni ragionevole dubbio” (vale a dire, con “alto o
elevato grado di credibilità razionale o logica”) Invero, non pare che possa diversamente intendersi
il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato
che deve risultare «giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del
medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità
razionale” o “probabilità logica”»
Ciò detto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne occupa, l’<> argomentativo seguito dai
giudici di seconda istanza — posto a fondamento del convincimento della responsabilità del prof. L.
- sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle Sezioni Unite.
La risposta è negativa
li primo punto fermo che le Sezioni Unite hanno inteso ribadire — che peraltro ha rappresentato
sempre, a prescindere dall’indirizzo interpretativo di volta in volta seguito, il necessario
presupposto fattuale di partenza, ai finii dell’accertamento della penale responsabilità del medico
per colpa omissiva — è che, nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente
prescindersi dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo
conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione
della malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al sanitario per
effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta,
l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Orbene, al riguardo la sentenza impugnata — all’esame retrospettivo demandato a questa Corte
circa la logicità e razionalità delle argomentazioni giustificative addotte dalla Corte d’Appello di
Pesaro a fondamento della propria statuizione — si presenta frammentaria, incoerente, nonché
illogica anche con riferimento a quel dato statistico che la Corte stessa ha inteso interpretare e
valutare come elemento probatorio a carico dell’imputato e di cui appresso specificamente si dirà.
Ciò che inficia in radice il ragionamento seguito dai giudici dell’appello è proprio la mancata
individuazione delle modalità della trasmissione del virus dell’epatite B ai pazienti ricoverati nel
reparto del prof. L.: quale fu il mezzo o lo strumento di trasmissione del virus? Quale fu la specifica
condotta sanitaria che determinò il contagio? Trasfusione? Somministrazione di terapia? Prelievo di
sangue? A tali interrogativi i giudici di appello non hanno fornito alcuna risposta, né hanno
approfondito l’indagine al riguardo - sulla scorta delle risultanze documentali, scientifiche e
testimoniali acquisite - ma hanno ritenuto appagante, sul piano della ricostruzione del nesso
eziologico ed ai fini dell’attribuibilità dell’evento alla penale responsabilità del prof. L., l’elemento
probatorio costituito dai residui ematici rinvenuti “in loco” (anche in contenitori) in quanto
rivelatori di una prassi scorretta determinatasi nel reparto di ematologia ed addebitabile all’omessa
vigilanza da parte del responsabile del reparto stesso.
Non è condivisibile sul piano metodologico — e nel rispetto dei principi enunciati nella sentenza
Franzese, che, peraltro, come si vedrà, la stessa Corte di merito non ha mancato di evocare —
l’affermazione dei giudici di secondo grado laddove hanno ritenuto erroneo il convincimento del
primo giudice nella parte in cui questi ha sottolineato sia la necessità della individuazione diretta e
concreta del veicolo contaminato, che aveva provocato il contatto ematico tra fonte ed ospite, sia la
necessità, conseguentemente, della individuazione delle circostanze e modalità dei comportamenti
assistenziali e terapeutici scorretti sui pazienti contagiati (nonché dei soggetti che tali
comportamenti avevano posto in essere): al contrario, e come evidenziato nella sentenza di primo
grado, l’accertamento di tali circostanze costituisce proprio la base fattuale necessaria da cui
muovere per una corretta e compiuta valutazione della condotta del prof. L., cui è stato mosso
l’addebito di omicidio colposo plurimo con una contestazione di condotta omissiva che,
250
sostanzialmente, sarebbe risultata connotata, per quanto si rileva dalla motivazione della Corte
distrettuale, principalmente da uno dei profili di colpa contestati con il capo di imputazione: vale a
dire, la omessa vigilanza che avrebbe favorito l’ instaurarsi di una prassi scorretta nell’andamento
del reparto ed il verificarsi di una contaminazione ambientale. E se così è, appare evidente che
soltanto individuando il veicolo dei contagio (o comunque le concrete modalità con le quali il
contagio è avvenuto) è possibile dare un contenuto fattuale alla enunciata omessa vigilanza, tenendo
comunque sempre presente che il responsabile di un reparto ben può fare affidamento sulla
diligenza e professionalità dei suoi collaboratori (cfr., in proposito, Sez. 4, n. 1095/96, RV. 205212)
ove non vi siano motivi per nutrire dubbi sulla diligenza e sulle capacità professionali di costoro (e,
sulla scorta delle sentenze di primo e secondo grado, non risulta accertata la presenza, nel reparto
del prof. L., e nel periodo relativo agli avvenimenti in oggetto, di personale inaffidabile); non può
invero richiedersi al primario — pur attribuendo a costui l’ari 63 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n
761 il potere-dovere di “impartire istruzioni e direttive ed esercitare la verifica inerente
all’attuazione di esse” - di essere costantemente al fianco di ogni singolo operatore sanitario del suo
reparto, ed in occasione di ogni singolo contatto tra l’operatore ed il paziente. Non essendo
consentita nel nostro ordinamento un’imputazione a titolo di responsabilità penale oggettiva solo
l’accertamento della condotta in concreto posta in essere da un operatore di un reparto può
consentire di stabilire se detta condotta possa essere o meno imputabile al primario del reparto sono
il profilo della violazione dell’obbligo di vigilanza o della erroneità delle direttive impartite.
Ciò posto, e ritornando all’esame della concreta fattispecie “de qua”, ne deriva che i giudici di
merito avrebbero dovuto individuare e specificare l’obbligo di vigilanza in concreto violato dal
prof. L.: sulla condotta del personale paramedico, e di chi in particolare? sulla condotta dei medici
del reparto, e di quale medico in particolare? sulle condizioni di sterilizzazione degli specifici
strumenti adoperati di volta in volta nei confronti dei pazienti contagiati?
La Corte d’Appello, da un lato, ha censurato il ragionamento del primo giudice il quale aveva
ritenuto di non poter pervenire ad un’affermazione di colpevolezza del L. in mancanza
dell’accertamento dei dati di fatto appena ricordati, ma poi, per altro verso (non mancando di
evidenziare le ragioni che rendevano comunque arduo dello accertamento), ha dimostrato di
avvertire la necessità della individuazione di tali circostanze fattuali, laddove (pag. 33 della
sentenza) ha affermato testualmente che la esistenza di elementi di fatto rimasti ignoti “poteva e
doveva essere dimostrata con certezza mediante il procedimento logico disciplinato dall’art. 192.
secondo comma, del codice di procedura penale. “sulla base dei fatti che risultavano accertati dalle
altre acquisizioni probatorie”.
Orbene, anche ai fini della ricostruzione del nesso di causalità in ipotesi di reato colposo per
condotta omissiva è certamente corretto, come prima detto, il ricorso allo strumento di cui al
secondo comma dell’art. 192 del codice di rito (ed in tal senso si è pronunciata questa Corte già in
altre occasioni), ma detto procedimento richiede massima cautela e particolare rigore (trattandosi
comunque di ragionamento induttivo) e deve avere come obiettivo proprio l’accertamento di quei
fatti che possono poi condurre all’individuazione in concreto di una condotta colposa omissiva, in
relazione alla quale sia quindi possibile procedere al giudizio controfattuale, e legittimare quindi
un’affermazione di penale responsabilità che abbia un fondamento probatorio, relativamente alla
ritenuta sussistenza del nesso causale, in termini di certezza, intesa, quest’ultima, come innanzi
ricordato, nel significato di certezza processuale
Dunque la Corte d’Appello ha affermato che era possibile pervenire all’individuazione di fatti
ignoti (perché evidentemente considerati indispensabili ai fini della valutazione della posizione del
prof. L.), utilizzando lo strumento probatorio previsto dal secondo comma dell’art. 192 c.p., “sulla
base dei fatti che risultavano accertati dalle altre acquisizioni probatorie” (per come si legge
testualmente a pag. 33 della sentenza impugnata) La Corte di merito ha quindi elencato le
circostanze fattuali ritenute pacificamente acquisite, ed in particolare: a) nove pazienti erano
deceduti a causa di epatite virale fulminante contratta durante il periodo di ricovero nel reparto del
251
prof. L.; b) il contagio era avvenuto necessariamente mediante comportamenti concreti che avevano
comportato il passaggio per via ematica di sangue infetto ai pazienti contagiati, posto che il virus
dell’epatite B si trasmette mediante contatto ematico o per via sessuale, e dovendosi escludere
questa seconda ipotesi tenuto conto della situazione ambientale in cui il fatto era avvenuto; c)
doveva escludersi la contaminazione delle flebo perché tutti i donatori di sangue erano stati
controllati con esito negativo. Muovendo da tali premesse fattuali, la Corte d’Appello ha ritenuto di
poter poi trarre le seguenti conclusioni: 1) non essendo pensabili vari e molteplici meccanismi
dell’infezione, un solo meccanismo poteva averla causata: l’uso di veicoli contaminati per
l’inosservanza delle precauzioni universali, “solo questo e null’altro rendendola possibile”; 2) sì
doveva dunque ammettere per “deduzione logica certa” l’esistenza di questa inosservanza da parte
del personale del reparto di ematologia nelle pratiche assistenziali e terapeutiche dei pazienti,
inosservanza che per il suo carattere non occasionale ma frequente, ripetuta nel tempo e
generalizzata verso innumerevoli pazienti, “non doveva essere tollerata e doveva essere impedita
dall’opera di vigilanza e di controllo cui era tenuto per legge il responsabile del reparto” (pag. 34
della sentenza).
Il percorso argomentativo seguito dalla Corte distrettuale presenta evidenti connotazioni di
contraddittorietà ed illogicità, posto che le conclusioni cui la stessa è pervenuta non appaiono in
sintonia con le premesse. Ed invero, all’esito del procedimento di valutazione probatoria, condotto per affermazione della stessa Corte — alla stregua dei criteri di cui al secondo comma dell’ad. 192
c.p.p., non pare possano dirsi accertati quegli elementi fattuali che il primo giudice aveva ritenuto
non individuabili (in particolare, condotte di operatori sanitari del reparto e/o strumenti quali
possibili occasioni o veicoli di trasmissione del virus, etc.) e la cui esistenza, ad avviso della Corte
di merito, sarebbe stato invece possibile accertare.
La Corte d’Appello è pervenuta alla affermazione della colpevolezza del prof. L. basandosi
essenzialmente su quelle che notoriamente, sulla scorta delle nozioni scientifiche acquisite nel
patrimonio conoscitivo della scienza medica, sono le condizioni che, in generale, rendono possibile
un contagio da virus dell’epatite B: contatto ematico e, quindi, inosservanza di precauzioni e cautele
nelle manovre che comportano l’utilizzo del sangue; condizioni che la Corte stessa ha ritenuto
essersi verificate nel reparto del prof. L. a causa della inosservanza delle dette cautele e precauzioni
- inosservanza non occasionale ma frequente e ripetuta nel tempo — da parte del personale sanitario
in attività in quel reparto. Ma ciò non può essere ritenuto sufficiente - alla luce dei principi da
osservare in tema di ricostruzione del nesso causale in ipotesi di condotta colposa omissiva - per
ricondurre i decessi, verificatisi nel reparto diretto dal prof L., ad omissioni di quest’ultimo, se non
viene innanzi tutto individuata, all’esito di un approfondito esame del materiale probatorio acquisito
(ed ovviamente ove possibile), la causa mater del contagio: elemento che rappresenta il dato
fondamentale ed indispensabile per poter prima individuare in concreto l’omissione in cui i! prof. L.
sarebbe incorso e poi procedere al giudizio controfattuale e verificare se ipotizzandosi come
realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe
verificato.
E vi è di più. Nel procedere all’accertamento della sussistenza del nesso di causalità, il giudice è
chiamato — come precisato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza Franzese più volte richiamata
— a verificare anche che non vi sia stata l’interferenza di fattori alternativi a quella causa
dell’evento ipotizzata come riconducibile alla condotta colposa addebitata all’agente. Nella concreta
fattispecie, il primo giudice (la cui sentenza assolutoria, anche perché riformata in secondo grado,
ben può essere oggetto di esame da parte di questo Collegio in relazione ai motivi di censura dedotti
dal ricorrente) aveva motivatamente ritenuto non del tutto infondata - considerandola ipotesi
ragionevole, pur se priva di adeguato conforto probatorio - la tesi del sabotaggio, prospettata dallo
stesso prof. L. nella fase delle indagini preliminari (ed oggetto di attività investigativa, poi rimasta
peraltro senza sbocchi positivi appunto per la mancanza di concreti ed inequivoci elementi probatori
cui poter ancorare tale ipotesi); ed il Tribunale aveva dato conto del proprio convincimento al
252
riguardo richiamando analiticamente e specificamente deposizioni testimoniali (addirittura
riportandone parzialmente il contenuto), dati cronologici ed ulteriori risultanze processuali anche
con riferimento a perquisizione eseguita presso l’abitazione di Claudio G. (un portantino già
allontanato dal reparto, e sospettato quale possibile autore dell’ipotizzato sabotaggio e poi
suicidatosi), non mancando di sottolineare altresì il collegamento tra la convocazione del G., per
essere posto a confronto con persone già esaminate, ed il suo suicidio, nonché l’atteggiamento,
rivelatore di preoccupazione e mutamento di umore, assunto dal G. stesso dopo aver ricevuto la
notifica dell’avviso di quella convocazione (pag. 87 della sentenza di primo grado). Ebbene, al
riguardo la Corte d’Appello ha omesso di confutare le specifiche argomentazioni addotte dal primo
giudice e di neutralizzare analiticamente quegli elementi (privi, si, di connotazioni di significativo
spessore probatorio, ma pur sempre indiziari e deduttivi) che il Tribunale aveva tratto dalle
risultanze processuali utilizzandoli per corroborare il proprio percorso motivazionale. La Corte
territoriale ha ritenuto priva di fondamento la tesi del sabotaggio, argomentando sulla scorta di dati
che scaturiscono però da circostanze fattuali e temporali riconducibili a condizioni di normalità
circa l’attività del reparto, vale a dire: a) sarebbe inverosimile che il G. potesse avere tra le mani una
provetta riferibile al C. con il nome di costui scritto a penna, perché le etichette con i nominativi
venivano stampate a computer; b) sarebbe da escludere che il G. potesse essere in possesso di detta
provetta alle ore 5,40 perché i prelievi non iniziavano prima delle 6; c) sarebbe impossibile che
quella provetta potesse essere riferibile ai prelievi del giorno precedente, tenuto conto che le
provette dei prelievi, se non richieste dal laboratorio di analisi, venivano eliminate entro le ore
11,30 dello stesso giorno: d) l’insorgenza del secondo focolaio si era verificata verso la metà del
mese di dicembre, allorquando il C. non era più ricoverato in quell’ospedale, essendo stato
ricoverato sin dal 13 novembre 1997 all’ospedale di Fano dove era poi deceduto il 7 dicembre 1997;
e) non era possibile che nel reparto di ematologia fosse residuata qualche flebo non utilizzata
risalente all’ottobre precedente (epoca del primo focolaio) avendo la capo-sala chiarito che il
reparto veniva rifornito ogni giorno dalla farmacia delle flebo occorrenti e che eventuali rimanenze
potevano permanere in reparto solo pochissimi giorni. Orbene, non sembra che tali circostanze
(singolarmente o globalmente considerate), indicate dalla Corte distrettuale come idonee a smentire
l’ipotesi dolosa di un sabotaggio, rivestano quell’assoluta efficacia probatoria tale da indurre ad
escludere che sangue infetto, una volta acquisito, possa essere stato custodito al di fuori
dell’ambiente ospedaliero per essere poi di volta in volta utilizzato per gli atti di sabotaggio da
compiere; d’altra parte atti dolosi di sabotaggio non potevano certo essere compiuti se non al di
fuori dell’osservanza del corretto protocollo di comportamento. Di tal che, le diffuse
argomentazioni del primo giudice, relativamente all’ipotesi del sabotaggio, non risultano
adeguatamente contrastate e neutralizzate dalla motivazione adottata dalla Corte d’Appello in
proposito. E trattasi di questione che riveste non poca importanza, vertendosi in tema di
ricostruzione del nesso di causalità in presenza di reato colposo contestato su presupposto di una
condotta omissiva. Infatti, come innanzi ricordato nel richiamare i principi enunciati da questa
Corte in materia (in particolare dalle Sezioni Unite), il giudice del merito deve verificare la validità
dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, nel caso concreto, sulla base delle
circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito dei ragionamento probatorio che
abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi risulti giustificata e processualmente certa la
conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo
con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” con la conseguenza che
l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del
nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia
condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella
produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e
l’esito assolutorio del giudizio. E giova sottolineare che il Tribunale, dopo aver ritenuto sfornito di
prova il modello ricostruttivo proposto dai consulenti tecnici del Pubblico Ministero, e nel
rimandare ad un momento successivo del suo percorso motivazionale l’esame dell’ipotesi del
253
sabotaggio (poi, come sopra detto, dettagliatamente analizzata), aveva sottolineato che detto
modello non appariva comunque idoneo “ad escludere ipotesi diverse ed altrettanto ragionevoli
quale ad esempio quella di comportamenti posti in essere da un singolo operatore, o da singoli
operatori in dispregio delle precauzioni elementari, quelle note a tutti perché costituiscono l’A.B.C.
della professione sanitaria, quali l’utilizzo di siringhe monouso o il cambio dei guanti da paziente a
paziente, a prescindere da qualsiasi ulteriore istruzione o protocollo, o comunque in dispregio delle
istruzioni dei medici o della caposala”, aggiungendo poi che “il già rilevato carattere eccezionale
degli accadimenti oggetto del processo rispetto ad una normale e non contaminata vita del reparto,
non soltanto dopo la sanitizzazione ma anche negli anni precedenti, rende plausibile anche questa
seconda ipotesi interpretativa” (così testualmente si legge a pag. 56 della sentenza di primo grado).
Come già accennato, ulteriori connotazioni di illogicità, e contraddittorietà, presenta l’impugnata
sentenza nella parte relativa alla valutazione del dato statistico concernente il tasso di contagio nel
reparto di ematologia dell’ospedale di Pesaro. La Corte d’Appello ha richiamato i dati forniti dalla
difesa secondo cui negli ultimi cinque anni (prima del 1997), il rischio fisso-inevitabile di contagio
nosocomiale con epatite B, nei più qualificati reparti mondiali di ematologia, era risultato dell’12%, a fronte dello 0,09% registrato nello stesso periodo nel reparto di ematologia dell’ospedale di
Pesaro. La Corte d’Appello, dopo aver evidenziato che nel breve periodo dall’agosto 1997 aI
gennaio 1998 erano stati registrati undici casi di infezione, con un tasso di contagio pari al 10,6%
(essendo stati ricoverati 104 pazienti suscettibili all’HBV), ha ritenuto, considerando evidentemente
attendibili e condivisibili i dati forniti dalla difesa, che la differenza tra il tasso fisso (0,09%) ed il
tasso di contagio verificatosi (10,6%), pari al 10,5%, fosse riconducibile alla condotta antidoverosa
del responsabile del reparto (per la omessa vigilanza sulla negligente operatività del reparto stesso)
ed offrisse dunque la verifica aggiuntiva della sussistenza del nesso causale omissivo. Orbene,
appare contraddittorio il ragionamento della Corte territoriale, laddove attribuisce la responsabilità
al L. di fatti verificatisi in un breve arco temporale (agosto i 997-gennaio 1998), dopo aver
precedentemente affermato che la colpa del L. era ravvisabile nella omessa vigilanza su condotte
scorrette del personale medico e paramedico del reparto caratterizzate dall’inosservanza di doverose
precauzioni e cautele, inosservanza non occasionale ma frequente e ripetuta nel tempo:
affermazione quest’ultima assolutamente contraddittoria con il dato statistico (accettato dalla Corte
di merito) secondo cui addirittura in un significativo arco di tempo, pari ad un quinquennio, nel
reparto di ematologia dell’ospedale di Pesaro era stato registrato un tasso di contagio per l’epatite B
inferiore persino ai più qualificati reparti mondiali di ematologia.
Proprio il dato statistico evidenziato dalla Corte distrettuale avrebbe dovuto indurre ad un esame
particolarmente approfondito alla ricerca di quel “quid” che aveva improvvisamente determinato un
innalzamento del tasso di contagio nel reparto, assolutamente al di fuori dell’ordinario standard che
per anni si era mantenuto costante ed in linea con i più qualificati ospedali del mondo.
Da ultimo, va sottolineato che il ricorrente, nel contesto delle sue articolate censure mosse alla
sentenza di secondo grado, ha esaminato, allo scopo di dimostrarne l’insussistenza secondo l’ottica
difensiva, anche gli ulteriori profili di colpa, addebitati al prof. L. con il capo di imputazione e
richiamati dal Pubblico Ministero con l’atto di appello, vale a dire l’asserito mancato isolamento
funzionale del paziente C. (fonte del contagio) e le condotte omissive successive al contagio
(contestate ai capi e e k del capo di imputazione) ivi compresa la mancata notifica dell’insorgenza
della malattia infettiva. Su tali punti non ha mancato di soffermarsi specificamente e diffusamente il
Tribunale il quale, in ordine alla prima questione, ha escluso che potesse considerarsi acquisita la
prova di un mancato isolamento funzionale del C. (non essendo prescritto l’isolamento fisico), e,
quanto alle condotte successive all’avvenuto contagio, ha precisato, in particolare, che gli stessi
consulenti tecnici nominati dal Pubblico Ministero avevano precisato che ritardi e carenze — sia sul
piano terapeutico che sanitario — non avevano assunto rilevanza causale in ordine al decesso dei
pazienti, non essendo possibile sostenere che una diagnosi più tempestiva, l’adozione di
immunoprofilassi attiva e passiva, l’adozione di terapie anche nuove, avrebbero evitato la morte dei
pazienti contagiati. Orbene. questi peculiari elementi di colpa risultano trascurati nel percorso
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motivazionale seguito dalla Corte distrettuale che ha ritenuto, per dar conto del suo convincimento
di colpevolezza del prof. L., dì soffermarsi esclusivamente sulla (addebitata) omessa vigilanza, da
parte del prof. L. stesso, sull’attività del personale medico e paramedico presente nel reparto,
nonché sulle condizioni del reparto, ritenendo provata tale condotta omissiva, e considerandola
quale causa dell’evento in base alle argomentazioni innanzi ampiamente ricordate e ritenute da
questo Collegio inficiate dai vizi motivazionali quali sopra evidenziati. Ne deriva che qualsiasi
esame, in ordine a profili di colpa non valutati dalla Corte distrettuale, è in questa sede superfluo,
non essendo state specificamente contrastate, con la sentenza di secondo grado, le considerazioni in
chiave assolutoria svolte in proposito dal Tribunale (pur oggetto di censura nell’atto di appello del
P.M.. come peraltro ricordato anche dalla Corte territoriale nella parte descrittiva dello
“svolgimento del processo”).
Alla stregua di tutte le suesposte considerazioni, l’impugnata sentenza deve essere annullata, con
rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Perugia (essendo la Corte d’Appello di Ancona
composta da un’unica sezione penale) che terrà conto dei principi di diritto e dei rilievi
motivazionali di cui sopra.
Resta ovviamente assorbita la doglianza del ricorrente in ordine al trattamento sanzionatorio
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte
Roma, 25 maggio 2005
Depositata in cancelleria il 12 luglio 2005.
-Datore di lavoro ed infortunio sul luogo di lavoro: perché l’agente possa essere ritenuto
colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è
necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il
verificarsi dell’evento. Se dunque quella conseguenza dell’azione non è stata prevista perchè
non era prevedibile non vi è responsabilità per colpa. E’ sempre necessaria una prevedibilità
in concreto dell’evento negativo.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 23 marzo 2007, n.12246 - Presidente
Marzano ¨C Relatore Brusco
La Corte osserva:
1) Il tribunale di Palmi, sez. dist. di Cinquefrondi, con sentenza 8 giugno 2005, ha assolto Scarf¨°
Giuseppe dai reati di cui agli articoli 11 comma 1 e 389 lett. b del Dpr 547/55 e 589 Cp in danno di
Napoli Massimo.
I fatti che hanno dato origine al processo sono avvenuti in Taurianova il 3 maggio 2002. La Srl
Cannat¨¤ Vincenzo aveva appaltato alla ditta Italsud di cui era titolare l¡¯ odierno imputato
Scarf¨° Giuseppe i lavori di costruzione di un muro di recinzione di un capannone che doveva
avvenire mediante l¡¯ assemblamento di blocchi di cemento prefabbricati. Mentre erano in corso i
lavori di costruzione del muro, si legge nella sentenza impugnata, ¡°una folata di vento provocava il
crollo di un pannello, eretto qualche giorno prima, addosso all¡¯ operaio di 2¡ã livello Napoli
Massimo che, schiacciato dal peso dei blocchi di cemento, nonostante il pronto intervento dei
colleghi di lavoro, della Polizia e del 118, giungeva all¡¯ Ospedale cadavere.¡±
La sentenza impugnata riferisce che il perito nominato dal Gip aveva concluso nel senso che la
metodologia ottimale per la costruzione sarebbe stata quella di realizzare prima i pilastri per ridurre
il rischio di crollo dei pannelli. In ogni caso, poich¨¦ si era scelto di realizzare preliminarmente la
struttura costituita dai pannelli, sarebbe stato necessario, fino alla realizzazione dei pilastri
irrigidenti in cemento armato e fino alla completa maturazione della malta cementizia (che non
poteva avvenire prima del quarto quinto giorno) allestire opere provvisionali di sostegno dei
pannelli.
255
La sentenza peraltro rileva che il Pm ha contestato soltanto la violazione della seconda regola
cautelare (mancato allestimento delle opere provvisionali di sostegno) e non anche la scelta di
realizzare prima i pannelli e poi i pilastri di sostegno. Il giudice rileva comunque che, poich¨¦ il
ribaltamento dei pannelli ¨¨ stato reso possibile dalla mancata completa maturazione della malta,
non ¨¨ possibile affermare, al di l¨¤ di ogni ragionevole dubbio, che, se anche fossero stati realizzati
prima i pilastri, si sarebbe evitato il ribaltamento del muro.
Ci¨° premesso, la sentenza si pone il problema se possa applicarsi al caso in esame il contestato
articolo 11 del Dpr 547/55 e lo risolve nel senso che pur ammettendone l¡¯ applicabilit¨¤ con un¡¯
interpretazione estensiva ovvero in virt¨´ ¡°delle generali norme di diligenza, prudenza e perizia¡±
le caratteristiche dell¡¯ opera non imponessero l¡¯ adoz¨ªone di opere provvisionali in considerazione
della semplicit¨¤ della struttura e facilit¨¤ della sua realizzazione, della rapidit¨¤ dei tempi di
solidificazione, delle ridotte dimensioni dell¡¯ opera (i pannelli misuravano mt. 1,90 x 2,70),
dell¡¯ assenza, ¡°in base ad un legittimo giudizio prognostico, di condizioni atmosferiche locali
avverse o pericolose¡±.
Con una valutazione ex ante le opere provvisionali non erano dunque richieste e il loro
approntamento era ¡°assolutamente spropositato¡± r¨spetto alle dimensioni dell¡¯ opera.
Vista la natura e le caratteristiche dell¡¯ opera la sentenza si chiede poi se incombesse su Scarf¨°
l¡¯ obbligo di vigilare nel cantiere per evitare, nel caso si fosse alzato un forte vento, che qualcuno
operasse in prossimit¨¤ della struttura ancora instabile. E afferma che, in assenza di Scarf¨° (cosa
che avveniva frequentemente) il preposto era la persona offesa che dunque o avrebbe operato
imprudentemente presso la struttura malgrado il forte vento ovvero (come rit¨ene pi¨´ probabile il
giudice anche sulla base delle testimonianze di cui riporta la sintesi) la folata che ha provocato il
crollo della struttura ¨¨ stata tanto violenta quanto improvvisa.
In conclusione la sentenza impugnata ritiene che la folata di vento che ha provocato la caduta della
struttura vada giuridicamente inquadrata nel caso fortuito trattandosi di ¡°un avvenimento
imprevisto ed imprevedibile che si inserisce improvvisamente nell¡¯ azione del soggetto e che non
pu¨° farsi risalire all¡¯ attivit¨¤ psichica dell¡¯ agente, neppure a titolo di colpa. Si tratta dunque di un
fattore causale sopravvenuto, concomitante o preesistente alla condotta dell¡¯ agente ed
indipendente dalla condotta medesima¡±.
In conclusione il giudice ha ritenuto che la provata esistenza del caso fortuito escludesse la
colpevolezza e ha assolto l¡¯ imputato dal reato ascrittogli (in realt¨¤ la decisione ¨¨ da riferire ad
entrambi i reati) perch¨¦ il fatto non costituisce reato.
2) Contro questa sentenza ha proposto appello (dichiarato inammissibile dalla Corte d¡¯ Appello di
Reggio Calabria) e, successivamente, ricorso in cassazione, ai sensi dell¡¯ articolo 10 legge 46/2006,
il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d¡¯ Appello d¨ Reggio Calabria che ha
dedotto i vizi di manifesta illogicit¨¤ della motivazione e violazione dell¡¯ articolo 45 Cp.
Sotto il primo profilo (viz¨o di motivazione) il ricorrente si duole dell¡¯ affermazione (ritenuta
illogica e contradditoria), contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui le opere provvisionali
non erano necessarie fino all¡¯ irrigidimento della struttura per la completa maturazione della malta
cementizia in contrasto con gli esiti della perizia d¡¯ ufficio.
Il ricorrente contesta poi l¡¯ affermazione sull¡¯ esistenza del caso fortuito da ravvisarsi, secondo la
sua opinione, in un avvenimento eccezionale ¡°del tutto improvviso, imprevisto e imprevedibile che
esula dalla volont¨¤ dell¡¯ agente e che non pu¨° in nessun modo, nemmeno a titolo di colpa, essere
fatto risalire all¡¯ attivit¨¤ psichica dello stesso.¡± Alla luce di questi principi nel ricorso si sottolinea
che la struttura realizzata era ¡°instabile e staticamente insicura fino alla maturazione della malta
cementizia e alla realizzazione degli elementi irrigidenti tanto ¨¨ vero che ¨¨ crollata per il vento e
non in conseguenza di un urto con altra struttura.
Sussiste dunque, secondo il ricorrente, l¡¯ elemento della colpa ed in particolare la prevedibilit¨¤
dell¡¯ evento proprio per l¡¯ instabilit¨¤ derivante dalla circostanza della non avvenuta maturazione
della malta cementizia.
Ai motivi di ricorso del Procuratore generale ha replicato il difensore di Scarf¨° Giuseppe con una
256
memoria con la quale si chiede la dichiarazione di inammissibilit¨¤ del ricorso (che si risolverebbe
in una richiesta di rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito) e
comunque il rigetto per infondatezza essendo adeguatamente motivata l¡¯ affermazione che
l¡¯ evento si ¨¨ verificato per un fatto configurabile come caso fortuito.
3) La soluzione dei temi proposti con il ricorso richiede alcune considerazioni preliminari sul
concetto di ¡°caso fortuito¡± su cui il giudice di merito ha fondato la sua decisione.
Del caso fortuito non ¨¨ facile neppure dare una definizione perch¨¦, a seconda dell¡¯ inquadramento
teorico che ne viene dato, muta anche la definizione. Si spiega cos¨ che dai pi¨´ autorevoli studiosi
di diritto penale venga, di volta in volta, definito il caso fortuito come il caso in cui ¡°nell¡¯ operato
dell¡¯ agente non pu¨° ravvisarsi n¨¦ dolo, n¨¦ colpa, non avendo egli voluto l¡¯ evento, n¨¦ avendolo
causato per negligenza o imprudenza¡± mentre altri lo riconducono a ¡°tutti quel fattori causali, non
solo sopravvenuti ma anche preesistenti o concomitanti, che hanno reso eccezionalmente possibile
il verificarsi di un evento che si presenta come conseguenza del tutto improbabile secondo la
miglior scienza ed esperienza¡±.
La diversit¨¤ nelle definizioni proposte individua con immediatezza la ragione della diversa
impostazione teorica che caratterizza i diversi orientamenti: il primo lo riconduce alla colpa il
secondo alla causalit¨¤. Ma non manca neppure chi ritiene che l¡¯ istituto sia ¡°dogmaticamente
¡®polivalente¡±, come pure si ¨¨ sostenuto in dottrina, e che sia necessario, nei singoli casi concreti,
verificare se il caso fortuito valga ad escludere la colpa o la causalit¨¤.
Queste divergenze si riflettono puntualmente negli orientamenti giurisprudenziali che si sono
formati su questo tema ai quali si ¨¨ aggiunto anche un diverso orientamento, quello che sostiene
che il caso fortuito sia idoneo ad escludere la coscienza e volont¨¤ nel soggetto agente.
La sentenza impugnata non elude questo tema, riporta i termini del dibattito e propende per la
soluzione che fa riferimento alla mancanza di colpa di cui ¨¨ espressione la formula di assoluzione
adottata anche se in alcuni passaggi della motivazione sembra invece riferirsi alla teoria che
inquadra il caso fortuito nella causalit¨¤ quando parla di ¡°un fattore causale sopravvenuto,
concomitante o prees¨ªstente alla condotta dell¡¯ agente ed indipendente dalla condotta medesima¡±
(p. 13 della sentenza).
4) Non ¨¨ certo questa la sede per risolvere il problema prospettato su cui dottrina e giurisprudenza
da vari decenni esprimono i contrastanti orientamenti prima sintetizzati. E del resto ci¨° non ¨¨
neppure necessario nel caso in esame nel quale il caso fortuito, secondo la ricostruzione di fatto
operata dal giudice di merito e che in questa sede ¨¨ incensurabile non ¨¨ astrattamente
ipotizzabile qualunque sia l¡¯ inquadramento teorico accolto.
Prima di affrontare il tema proposto con il ricorso va per¨° subito detto che non sono condivisibili i
dubbi espressi nella sentenza impugnata sull¡¯ applicabilit¨¤ dell¡¯ articolo 11 del Dpr 547/55 al caso
in esame. Questa norma ha infatti carattere generalissimo ed ¨¨ diretta ad evitare che i lavoratori
subiscano danni per la caduta o l¡¯ investimento di materiali in dipendenza dell¡¯ attivit¨¤ lavorativa
senza operare alcuna distinzione tra la caduta di materiali dall¡¯ alto e quella delle strutture laterali e
costituisce un¡¯ inammissibile lettura riduttiva dell¡¯ ambito di applicazione della norma operare
questa distinzione. Anzi l¡¯ uso del termine ¡°investimento¡± convalida proprio una lettura
omnicomprensiva della norma perch¨¦ l¡¯ investimento, a differenza della presuppone proprio che i
materiali non cadano dall¡¯ alto.
Sulle valutazioni di merito, contenute nella sentenza impugnata e relative alla necessit¨¤ o meno di
predisporre l¡¯ installazione delle opere provvisionali, in parte non pu¨° che rilevarsene
l¡¯ insindacabilit¨¤ nel giudizio di legittimit¨¤ (la semplicit¨¤ della struttura e la complessiva
facilit¨¤ della sua realizzazione).
Per altre valutazioni deve invece condividersi il giudizio di manifesta illogicit¨¤ espresso dal
ricorrente: ci¨° per quanto riguarda la rapidit¨¤ dei tempi di solidificazione (nella medesima
sentenza si afferma che questi tempi potevano durare fino a cinque giorni
l¡¯ evento si ¨¨
verificato prima: semmai era proprio la durata della stabilizzazione del manufatto che imponeva
l¡¯ adozione delle necessarie cautele).
257
Parimenti illogico ¨¨ il giudizio sulle ridotte dimensioni dei pannelli: senza sovrapporre a quelle
utilizzate dal giudice di merito massime di esperienza elaborate dal giudice di legittimit¨¤ una
valutazione come quella indicata secondo cui pannelli di cemento delle dimensioni gi¨¤ ricordate
(mt. 2,90 x 2,70) possano essere considerati di ridotte dimensioni andava effettuata in relazione
alle loro caratteristiche, al loro peso e stabilit¨¤ nonch¨¦ alla loro potenzialit¨¤ lesiva e non
apoditticamente come ha fatto il giudice di merito.
5) L¡¯ astratta ravvisabilit¨¤ della violazione della regola cautelare prevista dall¡¯ articolo 11 del Dpr
547 nel duplice senso di aver consentito ai dipendenti di lavorare nell¡¯ ambito della zona di
possibile caduta delle strutture in via di consolidamento ma non ancora consolidate e nell¡¯ aver
omesso di adottare le strutture provvisionali cui si ¨¨ in precedenza fatto riferimento potrebbero
gi¨¤ condurre ad escludere l¡¯ esistenza del caso fortuito.
Secondo l¡¯ orientamento seguito da numerosi precedenti giurisprudenziali di legittimit¨¤ non ¨¨
infatti configurabile il caso fortuito quando la violazione della regola cautelare abbia avuto efficacia
causale sul verificarsi dell¡¯ evento (si vedano sul tema, anche se da diverse prospettive, Cassazione,
Sezione terza, 1814/97, Rosati, rv. 209868; Sezione terza, 6954/96, Paggiu, rv. 205721; Sezione
quarta, 2983/92, Deodori, rv. 189647; Sezione quarta, 4220/88, Savelli, rv. 180850).
Ma, indipendentemente dall¡¯ accoglimento di questa soluzione, si osserva che in ogni caso,
qualunque teoria sul concetto di caso fortuito si accolga, la soluzione accolta dal giudice di merito
non pu¨° essere condivisa.
Se si inquadra il problema del caso fortuito all¡¯ interno della colpevolezza il criterio cui occorre
fare riferimento ¨¨ quello della prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento.
La prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento ¨¨ riferibile all¡¯ elemento soggettivo, la colpa, perch¨¦ attiene al
processo cognitivo dell¡¯ agente (ma non nel senso meramente psicologico) che ¨¨ tenuto a prendere
in considerazione le conseguenze della sua condotta.
Naturalmente, da questo angolo visuale, l¡¯ agente sar¨¤ ritenuto in colpa solo se non ha tenuto
conto delle conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua
professione e alla sua condizione (eiusdem condicionis et professionis).
Il fondamento della prevedibilit¨¤ sotto il profilo soggettivo risiede nella necessit¨¤ di evitare forme
di responsabilit¨¤ oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato
dall¡¯ agente, pur con l¡¯ adozione delle necessarie cautele, sembra evidente che il risultato non
possa essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Perch¨¦ l¡¯ agente possa essere ritenuto
colpevole non ¨¨ sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma ¨¨ necessario
che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi
dell¡¯ evento. Se dunque quella conseguenza dell¡¯ azione non ¨¨ stata prevista perch¨¦ non era
prevedibile non v¡¯ ¨¨ responsabilit¨¤ per colpa.
Ma qual¡¯ ¨¨ il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilit¨¤ (o, come taluni si
esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere) ? E¡¯ evidente che se si adottasse un criterio che fa
riferimento all¡¯ agente concreto si ricadrebbe negli orientamenti che riferiscono la colpa
all¡¯ elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della
prevedibilit¨¤ da parte dell¡¯ homo ejusdem professionis et condicionis non diversamente da quanto
avviene per l¡¯ individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari.
Sull¡¯ esistenza della prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento dal punto di vista soggettivo va osservato che il
caso descritto nella sentenza impugnata, per poterne affermare l¡¯ esistenza, avrebbe dovuto
accertare che l¡¯ evento atmosferico ricordato aveva avuto caratteristiche di assoluta eccezionalit¨¤
tale da impedire ogni difesa anche con l¡¯ apposizione delle strutture di protezione. Anche nella
logica soggettiva del caso fortuito l¡¯ uscita dall¡¯ ambito della possibilit¨¤ di previsione deve infatti
assumere un carattere di straordinariet¨¤ tale da rendere l¡¯ evento assolutamente imprevedibile.
Insomma il caso fortuito deve avere caratteristiche tali da fuoriuscire totalmente dalla possibilit¨¤ di
previsione dell¡¯ agente proprio per le caratteristiche di straordinariet¨¤ che lo caratterizzano. Anzi
pu¨° affermarsi che non in tutti i casi in cui difetta la prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento ci si trova in
presenza di un caso fortuito perch¨¦ l¡¯ evento deve essere completamente avulso dalle possibilit¨¤
258
conoscitive dell¡¯ agente (caso fortuito ¨¨ l¡¯ investimento di una persona caduta dalla finestra non
l¡¯ investimento del ciclista autore di un¡¯ imprevedibile deviazione).
Orbene come ¨¨ possibile inquadrare nel caso fortuito l¡¯ aver consentito che una struttura insicura,
perch¨¦ formata da grandi pannelli di cemento non ancora interamente saldati tra di loro, possa
crollare per le pi¨´ svariate ragioni quali un forte urto con un veicolo o con un¡¯ altra struttura, un
evento atmosferico di particolare violenza ecc.) ? E, al di l¨¤ dell¡¯ obbligo di sostenere altrimenti la
struttura, non ¨¨ astrattamente prevedibile che una struttura di tal fatta possa crollare con la
conseguente insorgenza dell¡¯ obbligo di evitare, ove si scelga di non costruire strutture provvisorie,
che i lavoratori operino nell¡¯ ambito che potrebbe essere colpito dalla caduta del manufatto fino a
che il medesimo non acquisisca carattere di stabilit¨¤ ?
6) Ma la prevedibilit¨¤ ha anche un risvolto oggettivo che attiene alla causalit¨¤: secondo la teoria
della causalit¨¤ umana, le cause sopravvenute cui fanno espresso riferimento le teorie che
inquadrano il caso fortuito nella causalit¨¤ con la precisazione che in questo caso vengono
ricomprese in questo istituto anche le cause preesistenti e quelle concomitanti sono infatti idonee
ad escludere il rapporto di causalit¨¤ (articolo 41 comma 2, Cpp) solo quando abbiano carattere di
eccezionalit¨¤ ed imprevedibilit¨¤.
Naturalmente, sotto questo profilo, trattandosi dell¡¯ elemento oggettivo, l¡¯ accertamento deve
essere condotto con criteri ex post (e tenendo anche conto delle conoscenze non disponibili
all¡¯ epoca della condotta) a differenza della prevedibilit¨¤ che riguarda l¡¯ elemento soggettivo la
cui esistenza va invece accertata con criteri ex ante non potendo essere addebitato all¡¯ agente di
non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non
poteva prevedere.
Orbene anche da questo punto di vista ex post le conclusioni non possono essere diverse perch¨¦ le
caratteristiche della struttura causa preesistente rendevano oggettivamente prevedibile un
evento di caduta della medesima che dunque non potevano essere ritenute avere carattere di
straordinariet¨¤, eccezionalit¨¤ ed imprevedibilit¨¤ tali da interrompere il rapporto di causalit¨¤.
Qualunque sia l¡¯ inquadramento teorico sul caso fortuito va dunque affermato che il caso
incensurabilmente accertato in fatto dal giudice di merito non pu¨° essere ascritto all¡¯ istituto del
caso fortuito.
7) Consegue alle considerazioni svolte l¡¯ annullamento della sentenza impugnata con rinvio al
giudice competente per l¡¯ appello ai sensi dell¡¯ articolo 569 comma Cpp dovendosi equiparare il
caso in esame a quello del ricorso diretto in cassazione ai sensi del lo comma del medesimo articolo
569.
P.Q.M.
La Corte suprema di Cassazione, Sezione quarta penale, annulla la sentenza impugnata con rinvio,
per nuovo esame,alla Corte d¡¯ appello di Reggio Calabria.
DIRETTORI DI LAVORI, DIPENDENTI E RESPONSABILITÀ
TRACCIA:
Francesco, direttore dei lavori, faceva costruire ai propri dipendenti, tra cui Marcello e Sandro, un
immobile in prossimità del mare, nelle vicinanze di Porto Rotondo in Sardegna.
Marcello e Sandro eseguivano i lavori senza informarsi in alcun modo di eventuali concessioni o
titoli abilitativi.
Successivamente, Francesco veniva coinvolto in un processo penale per aver compiuto alcuni reati
edilizi.
259
Il candidato prenda in esame la posizione giuridica di Marcello e Sandro in relazione al caso
ipotizzato, soffermandosi anche sulla loro posizione nel diverso caso di difformità dell’opera
realizzata rispetto al titolo abilitativo.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA:
In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente era necessario individuare la normativa relativa all’edilizia ed urbanistica (D.P.R.
380/2001), da leggere in combinato disposto con gli artt. 110 c.p. e 40 c.p..
Marcello e Sandro, risponderanno in concorso con Francesco?
In linea generale, è possibile dare risposta positiva, in quanto anche i dipendenti di un’azienda
laddove agiscono per realizzare un’opera (an) devono essere informati sulla legittimità della loro
condotta, oltre al fatto che era facilmente ipotizzabile l’illegittimità della realizzazione di un
immobile in prossimità del mare; diversamente, se viene realizzata un’opera diversa parzialmente
dal progetto, ne risponderà il solo direttore dei lavori, essendo quest’ultimo deputato a tale
controllo.
Si consiglia di leggere con molta attenzione la sentenza che segue, la quale ricalca il caso assegnato.
In tema di reati edilizi, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano la loro attività alle
dipendenze del costruttore:
-possono concorrere, per colpa, nella commissione dell’illecito nell’ipotesi di assenza di
permesso di costruire o titolo abilitativi (che attengono all’an)
-non possono concorrere nell’illecito in caso di difformità dell’opera rispetto al titolo (la
responsabilità, in questo caso, è solo del direttore dei lavori)
-non possono concorrere nell’illecito nell’ipotesi di mancato rispetto di norme urbanistiche
generali ( che attengono, in concreto, al quommodo).
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - SENTENZA 28 febbraio 2007, n.8407 - Pres. G.
De Maio-est. FialeSVOLGIMENTO DEL PROCESSOLa Cotte di Appello di Lecce, con sentenza
del 29.12006, confermava la sentenza 19.5.2005 del Tribunale di Lecce - Sezione distaccata di
Tricase, che aveva affermato la penale responsabilità penale di R.B., L. U. e P. D. N. in ordine ai
reati di cui:» all'art. 44, lett. e), D.P.R. n. 380/2001 (per avere - nella qualità di esecutori dei lavori
ed in concorso con la committente degli stessi - realizzato, in zona costiera assoggettata a vincolo
paesaggistico poiché situata entro i trecento metri dalla linea di battigia, in assenza del prescritto
permesso di costruire, la costruzione di un fabbricato e di un terrazzamento - acc. in Corsano, il
30.6.2002);- all'art. 163 D.Lgs. n. 490/1999 (per avere eseguito le opere anzidette in assènza della
prescritta autorizzazione paesistica) e, riconosciute a tutti circostanze attenuanti generiche, unificati
i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., aveva condannato ciascuno alla
pena complessiva -condizionalmente sospesa - di mesi uno di arresto ed euro 13.000,00 di
ammenda, ordinando la demolizione delle opere abusive e la rimessione in pristino dello stato
originario dei luoghi,Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, i quali - sotto i
profili della violazione di legge e del vizio di motivazione - hanno eccepito:- che essi "sono
semplici manovali avventizi con la qualifica di operaio generico" e che, nella specie, la loro
corresponsabilità nell'esecuzione totale delle opere edilizie abusive era stata incongruamente
affermata in base alla sola circostanza che "erano stati trovati intenti ad eseguire opere di
rivestimento in pietra dell'immobile", sul presupposto che avrebbero dovuto preventivamente
accertarsi della esistenza, in capo al proprietario, del titolo abilitativo per la realizzazione dell'intero
fabbricato.Il toro intervento si era limitato alla sola fase del rivestimento in pietrame locale e, con
indebita supposizione, priva di qualsiasi riscontro probatorio, era stato considerato esteso invece "a
260
tutte le fasi della costruzione" medesima e pure ad attività di completamento degli impianti non
rientranti nella loro competenza specifica.I giudici del merito, inoltre, non avevano adeguatamente
valutato la questione della sussistenza "della loro piena consapevolezza dell'abusività dei
lavori".MOTIVI DELLA DECISIONEIl ricorso è fondato e deve essere accolto.1. Esso si connette
alla dibattuta questione della individuazione della natura "propria" o "comune" delle
contravvenzioni edilizie previste dall'art. 44, lett. b) e e), del DPR. n. 380/2001 (ad eccezione del
reato di lottizzazione abusiva, che pone problematiche diverse quanto ai soggetti che possono
rendersene responsabili).Questa Sezione, con la sentenza 26.8.2004, n. 35084, Barreca - ha
affermato che "il carattere proprio dei reati di violazione della legge edilizia non impedisce che,
oltre ai soggetti individuati dall'art. 6 della legge n. 47/1985 (ed attualmente dall'art. 29, 1° comma,
del T.U. n. 380/2001), persone diverse si inseriscano, con la loro condotta, nella consumazione dei
reati stessi, svolgendo un'attività che comunque contribuisca a dare vita al fatto di costruzione
abusiva.L'esecutore dei lavori, pertanto, anche se muratore od operaio, ben può rispondere - in
applicazione degli ordinari criteri del concorso di persona ex art. 110 cod. pen. ed anche a tìtolo di
colpa quanto alla consapevolezza dell'abusività dei lavori - delle contravvenzioni di cui all'art. 44,
leti, b) e e), del T.U. n. 380/2001, qualora sia accertata la sua materiale collaborazione alla
realizzazione dell"illecito"'.Tale principio si conforma all'indirizzo prevalente di questa Corte
Suprema (vedi Cass., Sez. HI: 14.6.1999, n. 7626, Iacovelli; 12.3.1999, n. 201, Quaranta;
24.8.1988, n. 9053, Di Santo; 27.3.1980, n. 4216, Tibollo) ed in particolare questa III Sezione - con
la sentenza 15.10.1988, n. 9961, Maglione - ha affermato che "sussiste una stretta correlazione tra
l'obbligo di condotta imposto dall'art. 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ai soggetti in esso
indicati e le sanzioni di cui all'art. 20 sì da configurare il reato di costruzione senza la concessione
edilizia» o in contrasto con le prescrizioni urbanistiche o edilizie, come reato "proprio"; invero il
precetto penale è diretto non a "chiunque", ma soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia,
rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto. Tale figura di reato non esclude il concorso
di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art. 6 compreso il sindaco che con la
concessione illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli
obblighi".Diverso orientamento risulta espresso, invece, in una isolata sentenza (Cass., Sez. IH,
1.7.1983, n. 6181, Tornabene) ove è stato affermato che "in tema di destinatari del precetto di cui
all'art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, sull'edificabilità dei suoli, la norma predetta
incrimina "i casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o in assenza della concessione
edilizia", senza apposita qualificazione dell'agente. Pertanto deve essere compreso nella sfera dei
destinatari qualunque operatore che comunque esplichi una condotta causalmente rilevante nella
modificazione della realtà proibita dalla norma, con la consapevolezza della mancanza o della
difformità del titolo legittimativo o con colpevole omissione del relativo accertamento".2. Trattasi
di problematica che impone un più ampio approfondimento.2.1 "Reato proprio" è quello per la cui
sussistenza la legge esige una determinataposizione giuridica o di fatto dell'agente: esso, pertanto,
non può essere commesso da qualùnquesoggetto, ma soltanto da determinate persone, che rivestano
una data qualità o si trovino in unacerta situazione.Autorevole dottrina rileva, al riguardo, che "il
reato proprio trova la propria ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano
differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità. In
base alla sua qualifica il soggetto viene posto in un particolare rapporto con il bene giuridico
tutelato, che gli consente di arrecare adesso offesa, onde la norma si rivolge non più a tutti i
consociati, ma soltanto alle persone che rivestono tale qualifica".2.2 La teoria che riconosce alle
contravvenzioni edilizie la natura di "reati propri" ponele previsioni sanzionatone dell'art. 44 dei
T.U. n. 380/2001 (ma già degli artt: 41 della leggen. 1150/1942, 17 della legge n. 10/1977, 20 della
legge n. 47/1985) in stretta connessione conla disposizione dell'art. 29 dello stesso T.U. (già degli
artt.: 31, ultimo comma, della legge n.1150/1942 e 6 della legge n. 47/1985), che individua nel
titolare del permesso di costruire^ nelcommittente, nel costruttore e nel direttore dei lavori (con
peculiari specificazioni in relazione atale ultima figura) i soggetti responsabili della conformità
delle opere alla normativa urbanistica,alle previsioni di piano, al permesso di costruire ed alle
261
modalità esecutive da esso stabilite.Solo tali soggetti, individuati per il possesso di particolare
qualità, potrebbero rispondere penalmente dell'esecuzione di un'opera non conforme alla disciplina
urbanistico-edilizia, salvo l'eventuale concorso di altre persone secondo i principi che regolano la
partecipazione dell'extraneus al reato proprio commesso da chi riveste la qualifica richiesta dalla
norma incriminatrice.Gli argomenti principali posti a sostegno di tale tesi:a) si incentrano anzitutto
sul presupposto che l'oggetto giuridico tutelato dai reati edilizi sarebbe da individuarsi nell’interesse
formale della pubblica amministrazione al controllo delle attività che comportano trasformazione
urbanistica ed edilizia del territorio. I reati medesimi, dunque, integrerebbero fattispecie
incriminatrici di comportamenti inosservanti di obblighi amministrativi e, poiché i soggetti costituiti
dal legislatore "garanti" del rispetto delle modalità di esercizio dell'attività edilizia sarebbero quelli
indicati nell'art. 29 del T.U. dell'edilizia, solamente questi potrebbero essere considerati soggetti
attivi delle contravvenzioni previste dall'art. 44, lett. a) e b), dello stesso testo unico;b) si
riferiscono, inoltre, alla stessa dogmatica del reato proprio, rilevando che in esso la norma
incriminatrice, attraverso il riferimento al soggetto qualificato, attribuisce rilevanza ad una
situazione che mette detto soggetto nelle condizioni di aggredire il bene Melato in modo
particolarmente intenso ovvero secondo modalità che ad altri soggetti non sono accessibili. In
particolare, per le contravvenzioni edilizie, sì assume che "il riferimento alla particolare qualità
soggettiva sembra rispondere all'esigenza di individuare un centro di imputazione di obblighi"
finalizzati alla tutela dell'interesse protetto. Il legislatore sarebbe così pervenuto alla delimitazione
dì specifici soggetti dotati dei poteri necessari ad assicurare detta tutela effettiva.Sì afferma, altresì,
che "il principio di personalità della responsabilità penale, previsto dall'art. 27 della Costituzione,
verrebbe seriamente compromesso qualora tali obblighi di tutela venissero imposti a chiunque, a
prescindere dalla disponibilità degli effettivi poteri di tutela",2.J Trattasi di argomentazioni che
questo Collegio non condivide, rilevando che i reati edilizi attualmente previsti dall'art. 44, lett. b) e
e), del T.U. n. 380/2001 (il cui regime era anteriormente posto dall'art. 20 della legge n. 47/1985,
dall'art. 17 della legge n. 10/1977 e dall'art. 41 della legge n. 1150/1942) sono per lo più reati
comuni - con le eccezioni di seguito indicate – e in quanto tali, possono essere commessi da
qualsiasi soggetto.a) Significativo è, anzitutto, lo stesso testo delle norme incriminatrici,
formulatoimpersonalmente, ma (non essendo sufficiente arrestarsi alla espressione della legge)
anche unaccurato esame del complessivo sistema sanzionatone penale porta ad escludere
unageneralizzata configurazione quali "reati propri" delle contravvenzioni in esame. Si pensi,
adesempio, che non può essere considerato "committente" né "costruttore" colui che
eseguapersonalmente i lavori abusivi (realizzazione monosoggettiva dell'illecito nei casi di più
modestetrasformazioni urbanistiche).b) Deve rilevarsi, poi, che l'attuale formulazione dell'art. 29
del T.U. n. 380/2001, purindividuando nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel
costruttore i soggetti"responsabili... della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle
previsioni di piano..." e, unitamente al direttore dei lavori, alle previsioni "del permesso di costruire
e alle modalitàesecutive stabilite dal medesimo" - limita comunque l'ambito della loro
responsabilità "ai fini eper gli effetti delle norme contenute nel presente capo''' (il capo I del tìtolo
TV), dove non èprevista la disciplina penale, che è collocata, invece, nel capo II.e) L'oggetto della
tutela penale apprestata dalle norme incriminatrici in esame, infine, non va individuato
esclusivamente nell'interesse strumentale della P. A. al controllo delle attività che comportano
trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, bensì e principalmente nella "salvaguardia degli
usi pubblici e sociali del territorio" medesimo, e tale bene giuridico può essere indifferentemente
offéso da chiunque compia attività siffatte e non soltanto da determinati soggetti che si trovino in
possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall'art. 29 del T.U. dell'edilizia.2.4 La natura
di "reati propri" (ovvero di "reati a soggettività ristretta", secondo unaprospettazione dottrinaria)
non può escludersi, invece:— per alcune delle molteplici possibili violazioni riconducibili alle
previsioni della lettera a) dell'art. 44 del T.U. n. 380/2001;— per la contravvenzione di
inottemperanza all'ordine di sospensione dei lavori, di cui alla lèttera b), ultima previsione, dell'art.
44 del T.U. n. 380/2001, che può essere commessa soltanto da colui o da coloro cui il
262
provvedimento amministrativo è rivolto (con eventuale possibilità di concorso ed applicazione dei
principi di cui all'art. 117 cod. pen.);— per le violazioni ascrivibili al direttore dei lavori, la cui
responsabilità è limitata alle sole difformità fra l'opera eseguita e le previsioni e le modalità
esecutive stabilite dal permesso di costruire e per il quale la legge ritiene pienamente scriminante
l'effettivo recesso tempestivo e formalmente comunicato.2.5 Ritiene, inoltre, il Collegio che non
possa giungersi ad affermare che la previsionedell'art. 29 del T.U. n. 380/2001 addirittura estenda
l'ambito dei possibili responsabili dei reatiedilizi, configurando, pei: i soggetti qualificati ivi
indicati, l'obbligo di intervenire quali garantidel bene tutelato e, conseguentemente, una autonoma
forma di responsabilità colposa per omessoimpedimento dei comportamenti descritti nelle
fattispecie incriminatrici, fino a giungere aravvisare, per essi, un reato omissivo improprio colposo
anche quando non siano consapevoli diconcorrere con la propria condotta omissiva alla condotta
altrui integrante gli estremi di unacontravvenzione edilizia.Al riguardo non può mancarsi di rilevare
che la giurisprudenza ormai assolutamente prevalente di questa Corte Suprema è orientata nel senso
che il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario del terreno (o comunque della
superficie) sul quale vengono svolti lavori illeciti di edificazione, pur potendo costituire un indizio
grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, nemmeno qualora il soggetto
che riveste tali qualità sia a conoscenza che altri eseguano opere abusive sul suo fondo, essendo
necessario, a tal fine, rinvenire altri elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che
egli abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei
lavori abusivi.Occorre considerare, in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l'attività
incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, della
superficie edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui
prodesf) bensì pure: dei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il
proprietario; dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori;
dello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; della richiesta di
provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e,
in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano
trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale,
all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale delle stesse [vedi, tra le
decisioni più recenti, Cass., Sez. Ili: 27.9.2000, n. 10284, Cutaia ed altro; 3.5.2001, n. 17752, Zorzi
ed altri; 10.8.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.4.2003, n. 18756, Capasso ed altro; 2.3.2004, n. 9536,
Mancuso ed altro; 28.5.2004, n. 24319, Rizzuto ed altro; 12.1.2005, n. 216, Fucciolo; 15.7.2005, n.
26121, Rosato; 2.9.2005, n. 32856, Farzone].3. Nel contesto dianzi delineato va esaminata la
condotta degli esecutori materiali dei lavori: quei soggetti, cioè, la cui attività si svolga alle
dipendenze dell'imprenditore che abbia assunto la qualifica di costruttore.Al riguardo deve
osservarsi che se l'atteggiamento psichico di coloro che collaborano alla realizzazione dell'illecito,
fornendo un contributo morale o materiale alla costruzione abusiva siapure nella mera qualità di
dipendenti, consiste nella volontà di commettere un abuso edilizio, stante la consapevolezza che
l'attività posta in essere viene effettuata in assenza o in difformità dal prescritto titolo abilitativo,
ciascuno debba rispondere, a titolo di dolo, della relativa contravvenzione, ricorrendo tutti gli
estremi (oggettivi e soggettivi) del concorso di persone nel reato.In questo Caso neppure può valere
ad escludere la responsabilità dei meri prestatori d'opera il fatto che essi abbiano realizzato la
condotta illecita per ottemperare alle disposizioni impartite dal datore di lavoro, in quanto l'efficacia
scriminante riconducibile alle previsioni dell'art. 51 cod. pen. non afferisce a rapporti, sia pure
gerarchici, di natura privatistica.Più delicata è la questione se l'omesso, negligente accertamento
dell'esistenza del provvedimento edilizio abilitante, anche da parte degli esecutori materiali
dell'opera Che non rivestono la qualifica di costruttore, integri gli estremi della colpa e possa
configurare un'ipotesi di concorso colposo nell'illecito urbanistico.Rileva al riguardo il Collegio che
la giurisprudenza pressoché unanime considera configurabile il concorso colposo nelle
contravvenzioni e - stabilendo l'art. 42, 4° comma, cod. pen. la loro punibilità indifferentemente a
titolo di dolo o di colpa [si ricordi che dottrina e giurisprudenza considerano altresì ammissibile, in
263
linea di principio, pure il concorso dell'estraneo nel reato proprio] - deve ammettersi che più
persone possano partecipare alla commissione di una contravvenzione anche se la loro condotta è
sorretta da atteggiamenti psichici eterogenei.In caso di mancanza del permesso di costruire, pertanto
** a giudizio del Collegio - anche i meri esecutori materiali possono rispondere direttamente per
colpa con riferimento alla disciplina posta dall'art. 110 cod. pen. (salvi i casi di erroneo
convincimento scusabile), dovendo essi sottostare all'onere di accertare l'intervenuto rilascio del
provvedimento abilitante, onere che - come si detto - non incombe soltanto sui soggetti indicati
dall'art. 29 del TU. n. 380/2001. Non è in questione, pertanto, la individuazione della sussistenza di
un obbligo giuridico di impedimento dei reati ai sensi dell'art. 40 cpv. cod. pen..Per i lavori eseguiti
in difformità dal titolo, invece, deve rilevarsi che la legge ha attribuito espressamente ài direttore
dei lavori l'obbligo dì Curare la corrispondenza dell'Opera al progetto, sicché la diligenza richiesta
agli operai non può estendersi alla verifica dell'osservanza puntuale delle previsioni e prescrizioni
assentite (fatti salvi i casi di realizzazione dì piani ulteriori o parti aggiuntive rilevanti, nonché
quelli di opere assolutamente non riferibili a quelle assentite).Deve escludersi, infine, la
responsabilità degli esecutori materiali per il mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di
piano, laddove si consideri che da tale responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è
organo tecnico ben più qualificato.4. Alla strégua dei principi dianzi enunciati va rilevato che, nella
fattispecie in esame, gli attuali ricorrenti sono stati condannati perché sorpresi ad occuparsi del
mero "rivestimento in pietra locale" del manufatto abusivo e che i giudici del merito, con
argomentazioni puramente ipotetiche e suppositive, non ancorate ad alcun elemento probatorio,
hanno individuato in essi coloro che avrebbero proseguito l'attività di ultimazione dell'immobile
(consistita nella messa in opera del pavimento ma anche in interventi normalmente non rientranti
nella competenza dei muratori quali l'apposizione degli infissi e l'ultimazione dell'impianto
elettrico) anche dopo il controllo effettuato dai Carabinieri il 26.6.2002 evidenziarne l'abusività
della costruzione in atto.Per la solo attività effettivamente constatata (di carattere estremamente
circoscritto e meramente frammentaria del fatto illecito tipico) non è configurabile, invece, la
violazione di alcun obbligo di diligenza - anche in relazione alla verifica della sussistenza
dell'autorizzazione paesaggistica - e non può sicuramente configurarsi il ravvisato concorso nella
complessiva attività di edificazione abusiva.La sentenza impugnata, conseguentemente, deve essere
annullata senza rinvio perché gli imputati non hanno commesso i fatti ad essi contestati.P.Q.M.la
Corte Suprema di Cassazione,visti gli àrtt. 607, 615 e 620 c.p.p.,annulla senza rinvio la sentenza
impugnata, perché gli imputati non hanno commesso il fatto.
DELEGA DI FUNZIONI ED APPALTO
TRACCIA:
Tizio è medico e direttore generale di una clinica privata, di ampie dimensioni, denominata
Lavitabella.
Caio, lavoratore dipendente presso la Italca, veniva ricoverato d’urgenza presso Lavitabella; Caio
veniva operato d’urgenza con esito positivo.
Durante la fase post-operatoria, tuttavia, Caio moriva improvvisamente a causa del cibo che veniva
fornito presso la clinica privata, contaminato da sostanze tossiche.
Tizio si recava da un legale, facendo presente di aver appaltato il servizio di ristorazione
interamente alla società MangiarBene s.r.l. e di non aver mai controllato in concreto il suo operato.
Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione, redigendo
parere favorevole a Tizio.
POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE:
264
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, il problema posto dalla traccia andava inquadrato nell’ambito della delega di
funzioni: è responsabile Tizio per l’operato della società MangiarBene s.r.l.?
Al quesito posto era fondamentale dare risposta negativa (il parere doveva essere redatto in modo
favorevole a Tizio).
In particolare, Tizio non potrebbe rispondere della morte di Caio, sub specie di omicidio colposo,
perché aveva appaltato il servizio di ristorazione, con conseguente trasferimento della responsabilità
correlata all’attività di ristorazione, tanto più che lo stesso Tizio svolgeva la propria attività in una
clinica di ampie dimensioni rivestendo la qualifica di medico; né sarebbe ipotizzabile una
responsabilità a titolo di culpa in vigilando, in quanto le dimensioni ampie della clinica rendevano
impossibile una vigilanza costante.
Diversamente argomentando, si individuerebbe un vulnus all’art. 27 Cost., con conseguente
attribuzione di responsabilità in capo a Tizio a titolo di responsabilità oggettiva (non ammessa,
secondo l’impostazione prevalente, nel nostro ordinamento).
Da questa angolazione prospettica, Tizio non può essere ritenuto responsabile, a titolo di omicidio
colposo, di quanto accaduto a Caio.
Per approfondimenti sul problema si consiglia di leggere:
-Gullo, La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto, in Riv.
It. Dir. Proc. Pen., 1999, pag. 1508 ;
-Gutierrez, Le deleghe di poteri, Giuffrè, 2004.
- La problematica della delega di funzioni può essere riassunta nei termini che seguono:
-secondo un primo orientamento, noto come funzionalistico (oppure della delega in concreto), il
responsabile di un evento negativo va individuato in base alla funzione di fatto esercitata all'interno
dell'impresa, in omaggio al principio della corrispondenza tra poteri e funzioni e fra obblighi e
responsabilità; tale tesi è criticata perché privilegiare le funzioni di fatto rispetto alle qualifiche
formali, se può giustificare esigenze repressive non trascurabili, rischia di porsi in conflitto col
principio di legalità; inoltre, se così fosse si correrebbe il rischio che l’istituto della delega sia
strumentalizzato dall'imprenditore per liberarsi delle sue responsabilità trasferendole su soggetti
sprovvisti di effettivi poteri e di sufficienti risorse;
-secondo un secondo orientamento (formale), delega non libera il delegante da ogni responsabilità,
perché quest’ultimo manterrebbe un generale obbligo di vigilanza sull'adempimento delle
incombenze affidate al delegato, con la conseguenza che, in caso di inadempimento del soggetto
delegato, il delegante continua a rispondere, eventualmente in concorso, sotto forma di mancato
impedimento del reato ex art. 40 C.p., purché l'adempimento dell'obbligo di vigilanza risulti
esigibile sulla base dei criteri che guidano l'imputazione colposa; questo secondo orientamento è
criticato perché si espone a rischi opposti rispetto a quelli tipici della teoria funzionalistica, giacché
potrebbe condurre alla concentrazione della responsabilità verso i vertici aziendali pur in presenza
di delega, sulla base di posizioni di garanzia inderogabili e obblighi di vigilanza assoluti, con
conseguente rischio di addebitare una responsabilità ai vertici aziendali a titolo di responsabilità
oggettiva, in contrasto con l’art. 27 Cost. e la ratio sottesa.
Si consiglia di leggere le sentenze che seguono, seppur non riguardanti la problematica posta dalla
traccia.
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-La delega delle funzioni non solleva da responsabilità il datore di lavoro se questi non
conferisce l’incarico a persona idonea, non gli fornisce i mezzi per approntare e attuare il
piano di sicurezza e non sorvegli che ciò sia predisposto.
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 21 dicembre 2006, n. 41943,
n.41943 - Pres. ed est. Lionello(A) e (B), la prima in qualità di legale rappresentante della (C) di
Barletta, ed il secondo quale responsabile della sicurezza del cantiere di lavoro della predetta
società ex artt. 4 ed 8 D.L.vo 626/94, venivano tratti a giudizio avanti il Tribunale di Bari per
rispondere di varie contravvenzioni alle norme antinfortunistiche e di omicidio colposo in danno di
(D), dipendente della (C).Nel procedimento si costituivano parti civili la moglie e le figlie della
vittima.Con sentenza datata 21 gennaio 2004 le contravvenzioni venivano dichiarate prescritte,
mentre per il delitto entrambi gli imputati venivano condannati alla pena di un anno e quattro mesi
di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche, nonché al risarcimento del danno alle
parti civili cui veniva concessa una provvisionale di € 15.000 per ciascuna di esse.Proposto appello,
la Corte di Bari confermava la condanna e riduceva la pena a mesi dieci di reclusione per ciascun
imputato che veniva dichiarato tenuto anche al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili.Il
giudice d’appello individuava tre temi di discussione:l’inquadramento giuridico degli eventi nei
paradigmi di colpa dell’art. 589 c.p. ascrivibile ai due imputati;la individuazione dei soggetti
responsabili;la sovrapposizione del separato giudizio a carico di alcuni medici per la medesima
ipotesi di omicidio colposo in termini di interruzione del nesso di causa tra la loro condotta e
l’evento morte, addebitabile all’imperizia e negligenza dei medici intervenuti nelle cure della
vittima.In ordine alle modalità del fatto la corte precisava che esso era molto lineare e non lasciava
margini di dubbio sulla sua ricostruzione: il giorno 31/8/98 il (D), autista, si trovava con la propria
squadra nel cantiere sito in Triggiano, dove era in atto l’attività di posa di cavi elettrici in uno scavo
della lunghezza di circa 400 metri, recintato con una retina sostenuta da bacchette di ferro;
scendendo dal camion per fumare una sigaretta perdeva l’equilibrio e finiva con le parti basse del
corpo su uno di questi tondini che si infiggeva nella zona perineale, ferendolo.Ricoverato
all’Ospedale di Triggiano, gli veniva praticata una sutura e veniva dimesso con una prognosi di otto
giorni. Nonostante le cure con cortisonici e tachipirina (solo dal giorno 2 al giorno 4 settembre gli
erano stati somministrati antibiotici), il giorno otto, all’altezza del ginocchio destro comparivano
delle bolle gassose, per cui veniva inviato al Policlinico di Bari, ove una terapia d’urto a base di
ossigeno iperbarico non riusciva ad impedire il suo decesso, avvenuto il giorno 14
settembre.Secondo la corte costituiva colpa l’avere posto in opera una recinzione dello scavo tanto
pericolosa, dato che la reticella era sorretta da tondini alti circa un metro, normalmente utilizzati per
armare il cemento, mancavano di protezione a tappo ed erano in parte arrugginiti: essi costituivano
dei veri e propri offendicula sia per i lavoratori che per i terzi.Quanto al secondo punto, vale a dire
la riconducibilità della colpa agli imputati, la corte affermava che il datore di lavoro che sceglie un
professionista e lo designa come responsabile della sicurezza non si libera dalle conseguenze
connesse alla sua posizione di garanzia se non sceglie un professionista idoneo, non elabora assieme
a questi un piano di sicurezza, non gli mette a disposizione i mezzi necessari per attuarlo, non vigila
su tale attuazione.Specularmente il rappresentante del servizio di prevenzione deve essere capace,
deve predisporre il piano di sicurezza, deve richiedere ed ottenere dall’imprenditore i mezzi per
attuarlo, non deve mettere in atto condotte elusive, impedendo la vigilanza del titolare delegante.Ciò
non era avvenuto nel caso di specie perché la (A) si era preoccupata di comunicare all’ispettorato
dell’ASL il nome del delegato alla sicurezza del quale trasmetteva il curriculum in cui questi si
dichiarava esperto in materia di prevenzione nell’ambiente di lavoro ed affermava di occuparsi di
tale settore presso la (C), ma non curava affatto l’aspetto attuativo della prevenzione omettendo di
richiedere la predisposizione del relativo piano e del pari (B) forniva il curriculum e non apprestava
la sua opera per assolvere tali compiti.Quanto al terzo aspetto innanzi elencato, relativo alla
sovrapposizione della responsabilità dei medici che ebbero in cura il (D) che vennero dapprima
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prosciolti e dopo l’appello del Procuratore Generale rinviati a giudizio, la corte concorda con la
decisione del primo giudice che ha negato il lungo rinvio richiesto per celebrare un processo
unitario, rilevando che la colpa addebitata ai medici non configura una causa sopravvenuta idonea
ad interrompere l’efficienza causale delle condotte precedenti in ordine all’evento morte.Avverso
detta decisione entrambi gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione.La (A) con il primo
motivo deduce la non corretta applicazione della normativa antinfortunistica e contesta che l’art. 68
DPR 164/56 sia riferibile ai mezzi di tutela del cunicolo di scavo presente nel cantiere, perché la
norma riguarda una tipologia di costruzioni in quota, mentre gli operai lavoravano ad un livello
inferiore rispetto a quello della strada, all’interno dello stesso cunicolo e non sopra di esso. Si
doveva perciò escludere che esistesse un pericolo di caduta ed era forviante la prospettiva
accusatoria che pretendeva l’uso di un parapetto.Inoltre questo sarebbe stato di intralcio al lavoro
che prevedeva il contestuale avanzamento del camion avvolgicavo con il lavoro di scavo che era
destinato all’alloggio di cavidotteria.Le caratteristiche del cantiere, insistente su manto stradale,
imponevano, invece, un altro tipo di protezione diretta a segnalarne la presenza in ossequio al
disposto dell’art. 32 CdS. a tutela degli utenti, cosa cui la (A) aveva provveduto con la posa della
reticella arancione.Con il secondo motivo la ricorrente deduce illogicità della motivazione perché
da una parte la corte d’appello riconosceva che essa imputata aveva delegato (B) al compito di
responsabile della sicurezza e su tale presupposto affermava la colpevolezza di quest’ultimo e
dall’altra non sollevava il datore di lavoro dalle responsabilità inerenti alla sua posizione di
garanzia.Con il terzo motivo la (A) denuncia erronea applicazione della legge penale e
contraddittorietà della motivazione in ordine al nesso di causa.Anzitutto la ricorrente contesta che
siano state chiarite le dinamiche dell’infortunio, non essendo state rinvenute tracce di sangue in loco
e mancando testi oculari del fatto; in secondo luogo sostiene che il lavoratore aveva dimesso le sue
mansioni lavorative perché si stava accendendo una sigaretta e quindi il suo comportamento
esonerava il datore di lavoro da ogni responsabilità, dovendosi ritenere diretto al compimento di
un’attività autonoma estranea al lavoro e comunque abnorme.Infine, richiamando la più recente
giurisprudenza di questa Corte in tema di causalità sostiene che il dubbio sussiste non solo in ordine
all’antigiuridicità del suo comportamento, ma anche in ordine alla sussistenza del nesso
causale.Addebita alla corte territoriale la contraddittorietà della motivazione perché da una parte il
giudice d’appello riconosce la responsabilità del delegato alla sicurezza e l’imperizia dei medici e
dall’altra considera come causa dell’evento anche la condotta della datrice di lavoro, mentre si
potrebbe ravvisare solo - al più - il reato di lesioni colpose, essendo interrotto il nesso di causa con
l’evento morte.Con i motivi aggiunti approfondisce il tema della incompatibilità tra la ritenuta
responsabilità del (B), delegato alla sicurezza, ed il permanere della sua responsabilità, nonché il
tema della interruzione del nesso di causa.(B) contesta di avere assunto la posizione di delegato alla
sicurezza, non essendogli mai stato comunicato tale incarico.A sua volta sostiene che non era
applicabile la normativa antinfortunistica richiamata dal capo di imputazione, mentre andava fatto
riferimento all’art. 32 CDS in base alla quale norma la recinzione adottata era perfettamente
regolare, né poteva essere ritenuta pericolosa per gli addetti ai lavori.Denuncia inoltre la manifesta
illogicità della motivazione sul punto, anche perché la stessa non tiene conto che esisteva un piano
di sicurezza dell’(X) che non prevedeva misure di recinzione diverse da quella posta in
opera.Sostiene che non vi era la prova dell’esistenza di ruggine sui paletti perché il teste (Y) aveva
affermato che solo qualcuno di quelli adoperati poteva essere arrugginito.Infine deduce la
violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. per il passaggio dalla contestazione di colpa specifica a quella
di colpa generica, nonché dell’art. 41 secondo comma c.p. assumendo che la condotta contestata e
la lesione riportata rimane nell’ambito della semplice occasione, inidonea a determinare l’evento
letale, mentre l’incuria dei medici avrebbe da sola prodotto la morte per l’errore riconosciuto dal
prof. (E) della mancata somministrazione di antibiotici.Con memoria aggiuntiva (B) ammette di
avere firmato il curriculum (circostanza negata in ricorso), ma afferma di avere sconosciuto la
circostanza che lo stesso sarebbe servito alla società per designarlo come responsabile della
prevenzione e che pertanto la firma apposta non corrispondeva alla coscienza e volontà di accettare
267
tale ruolo.Il procuratore Generale ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.Risulta dalle
dichiarazioni delle parti che i medici sono stati prosciolti per prescrizione, mentre il reato contestato
ai ricorrenti non risulta prescritto, nemmeno tenendo conto delle attenuanti generiche concesse con
conteggio della pena con giudizio di prevalenza perché si deve tenere conto del periodo di
sospensione dichiarato dalla corte d’appello di mesi sette e giorni otto (dal 21/4 al 29/11/05) che si
deve aggiungere al termine massimo di anni sette e mesi sei decorrenti dal fatto scadente al
14/3/06.I ricorrenti sostengono che non sono stati chiariti i termini dell’infortunio, ma dalla
sentenza si apprende che certamente il (D) si ferì scendendo dal cassone dal camion e precipitando
su uno dei tondini che reggevano la rete che delimitava lo scavo.Dalla sentenza di primo grado si
apprende che la vittima si trovava sul cassone del camion perché doveva aiutare a svolgere la
bobina, mentre il teste (J) si trovava sul piano della strada a tirare il cavo. Giunti alla punta dello
stesso il teste aveva invitato il collega a scendere dal cassone e a portarsi nella cabina del camion
perché era necessario metterlo in moto e partire per svolgere l’altra metà. Fu poco dopo che il (D) si
diresse verso detto teste affermando che si «era rotto l’ano», presentando i pantaloni inzuppati di
sangue.Pertanto non vi è dubbio che la vittima stava svolgendo un lavoro cui era stata preposta e si
adeguava alle richieste del collega con il quale era addetto allo svolgimento del cavo che doveva
essere posizionato nello scavo.Sia in primo che in secondo grado si è discusso in ordine alle cautele
che la ditta doveva adottare per proteggere i lavoratori nel cantiere in cui operavano e la stessa
questione viene riproposta in questa sede attraverso la contestazione del dovere di posizionare un
parapetto come previsto nelle norme antinfortunistiche citate nel capo di imputazione.Dalle indagini
dell’Ispettore della Direzione Generale del Lavoro risulta che sul luogo del fatto era stato realizzato
uno scavo profondo m 50, largo m 1,20 e lungo m 400 che veniva richiuso mano a mano che la
collocazione dei cavi elettrici procedeva.La profondità dello scavo richiedeva una protezione per il
rischio di caduta.Sul punto la ricorrente (A) afferma che gli operai lavoravano all’interno dello
scavo per cui non correvano tale pericolo, ma questo ragionamento non è fondato perché vi erano
operai come il (D) che non entravano nello scavo e comunque, i lavoratori, prima di scendere al suo
interno, erano esposti alla caduta, provenendo necessariamente dal piano stradale posto ad un metro
e mezzo sopra il fondo della trincea.La protezione apprestata non serviva a tale scopo, ma solo a
delimitare l’area e a rendere visibile il cantiere a terzi utenti della strada, mentre per l’altezza
insufficiente dei tondini, per le loro dimensioni, per la punta lasciata libera, per essere alcuni
arrugginiti la rete non funzionava da barriera atta ad evitare il rischio di caduta all’interno della
buca e nello stesso tempo presentava per le sue caratteristiche un pericolo imminente.Il tribunale ha
distinto le tutele a favore degli utenti della strada, posto che il cantiere insisteva sulla sede stradale,
da quelle a favore dei lavori e per queste ultime ha richiamato la normativa del DPR 164/56 e quella
di cui al D.L.vo 626/94, di attuazione delle direttive CEE riguardanti il miglioramento della
sicurezza dei lavoratori che impone al datore di lavoro di valutare i rischi a cui sono esposti i suoi
subordinati, di individuare le misure di prevenzione e predisporre il programma per attuarle,
designando il tecnico responsabile del servizio di prevenzione e protezione nominativo che va
comunicato all’Ispettorato del Lavoro ed alle unità sanitarie competenti per territorio.Entrambe le
normative trovano applicazione per i lavori effettuati in cantieri temporanei o mobili, come quello
in esame. La relativa disciplina è contenuta nel D.L.vo 494/96.I ricorrenti sostengono che esisteva il
piano di sicurezza dell’(X), ma questo piano prendeva in considerazione i rischi per gli utenti della
strada e non quelli afferenti l’organizzazione del cantiere, essendo questo un aspetto che riguardava
espressamente l’impresa esecutrice dei lavori cui venivano rimesse le specifiche prescrizioni.L’art.
68 del DPR 164/56 imponeva l’adozione di opere protettive per il pericolo di caduta rispetto ad una
profondità superiore a 0,50 cm, mentre lo scavo arrivava anche ad un metro e mezzo e le opere
dovevano essere eseguite con buon materiale ed a regola d’arte.Pertanto, anche a tenere conto che il
lavoratore non si fece male perché non venne protetto dalla caduta, il tribunale sottolinea che se la
protezione fosse stata eseguita a regola d’arte e soprattutto se non fosse stato utilizzato materiale
arrugginito ed appuntito, l’incidente non si sarebbe verificato e che pertanto era questa presenza
pericolosa, inidonea ad ogni effetto ed insidiosa, che radicava la responsabilità del datore di lavoro
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e del preposto alla sicurezza.La corte d’appello non abbandona tale ragionamento ed anzi richiama i
doveri di predisporre il piano di sicurezza, giungendo ad affermare che in ogni caso la rete posta a
delimitazione dello scavo era assolutamente inidonea ed essa stessa un grave pericolo presentando
dei tondini «rizzati come tante baionette».Con ciò il giudice d’appello non intende abbandonare il
tema della colpa specifica per addebitare solo quella generica in quanto è sempre in base ai doveri
dettati dalle citate norme antinfortunistiche che discende l’inadempimento e la grave imprudenza
dei ricorrenti affermati a chiare lettere. Quanto all’esonero da responsabilità del datore di lavoro,
una volta che vi sia stata la nomina della persona designata per la sicurezza gli argomenti esposti
dalla corte non sono viziati da illogicità. Correttamente e secondo i principi più volte affermati da
questa Corte entrambi i giudici di merito hanno affermato che la delega delle funzioni non solleva
da responsabilità il datore di lavoro se questi non conferisce l’incarico a persona idonea, non gli
fornisce i mezzi per approntare e attuare il piano di sicurezza e non sorvegli che ciò sia
predisposto.Dalla sentenza risulta che la (A) con dichiarazione in data 24/11/95 comunicò a norma
dell’art. 8 c. 11 D.Lvo 626/94 all’Ispettorato del Lavoro ed alla ASL competente per territorio la
nomina del (B), soggetto in possesso dei requisiti necessari, allegando il curriculum firmato dal
tecnico.Nonostante le diverse affermazioni del predetto, l’apprestamento di tale documento e la
sottoscrizione non poteva che significare l’accettazione dell’incarico.Peraltro nello stesso
curriculum (B) dichiarava di svolgere già per la (C) il compito di addetto alla sicurezza, ma non
poteva sfuggire alla titolare della società che tale delega non era stata utilizzata per predisporre
alcun piano di sicurezza e avrebbe dovuto richiamarlo all’esercizio di tale dovere al quale era stato
espressamente delegato.Ne discende che entrambi gli imputati rispondono delle omissioni loro
contestate che non hanno consentito di rendere sicuro il cantiere ove il (D) lavorava.Quanto al fatto
che questi stesse compiendo attività diverse da quella lavorativa, si apprestasse a fumare una
sigaretta e quindi avesse compiuto un atto abnorme, risulta che egli era stato invitato dal collega di
lavoro a scendere dal cassone del camion per spostarlo in avanti onde consentire lo srotolamento del
cavo, per cui non è ravvisabile alcuna attività estranea al rapporto di lavoro che esuli dal diritto alla
tutela antinfortunistica.In relazione al terzo tema di indagine riproposto da entrambi i ricorrenti,
vale a dire la sussistenza del nesso di causa tra la condotta loro contestata ed il verificarsi
dell’evento morte, nonostante le espressioni utilizzate dalla corte d’appello a riguardo dell’imperizia
e negligenza di alcuni medici, si osserva che riconosciuta l’inosservanza delle disposizioni
antinfortunistiche come causa delle lesioni per il principio dell’equivalenza delle condizioni e
quindi dell’efficienza causale di ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento,
il nesso eziologico viene meno solo se è interrotto da un fattore sufficiente a produrre da solo
l’evento.In particolare nel caso di lesioni personali cui sia seguito il decesso della vittima la colpa
dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente rispetto al
comportamento dell’agente perché questi provocando tale evento (le lesioni) ha reso necessario
l’intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed
atipico, ma un’ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale.Inoltre, mentre è possibile
escludere il nesso di causa in situazioni di colpa commissiva, nel caso di omissioni di terapie che
dovevano essere applicate per impedire le complicanze, l’errore del medico non può prescindere
dall’evento che ha fatto sorgere la necessità della prestazione sanitaria, per cui la catena causale
resta integra.Nel caso in esame risulta che il (D) riportò una ferita penetrante alla natica sinistra in
regione perianale e che causa della morte fu un’infezione gangrenosa dell’arto inferiore destro con
fascite necrotizzante.Il Prof. (E), consulente del PM, ha affermato che non vi è contrasto tra la
localizzazione della ferita a sinistra ed il manifestarsi della gangrena a destra, perché non esistono
barriere difensive tra le due regioni del corpo, tenuto conto della ristrettezza della zona interessata
dalla ferita. Pertanto fu certamente questa a produrre la patologia letale, la quale è compatibile con
la presenza di ruggine nel tondino e secondo il predetto consulente che si espresse in ordine anche
all’imperizia dei medici, la somministrazione dell’antibiotico, che in ogni caso andava prescritto,
non avrebbe con certezza evitato la morte del paziente, in considerazione del fatto che la terapia
iperbarica, ritenuta specifica per la patologia in atto, non portò alcun miglioramento.La corte
269
d’appello nel riferire le conclusioni del prof. (E) correttamente ritiene che la catena causale non sia
stata interrotta dalla cattiva pratica terapeutica e che resterebbe del tutto ipotetica una valutazione di
efficienza causale esclusiva di quest’ultima.Ciò premesso non essendo, ravvisabili né i dedotti errori
di applicazione di norme penali, né alcuna carenza o illogicità della sentenza, né mancanza di
correlazione tra il contestato ed il ritenuto a sostegno della colpa, i ricorsi vanno rigettati con la
condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali e di quelle sostenute dalle
parti civili, liquidate come da dispositivo.P.Q.M.Rigetta i ricorsi.
- La responsabilità del medico si estende alla fase post-operatoria
Cassazione penale , sez. IV, sentenza 08.02.2005 n° 12275
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. COCO Giovanni Silvio – PresidenteDott. TUCCIO Giuseppe – ConsigliereDott. MARINI
Lionello – ConsigliereDott. CHILIBERTI Alfonso - Consigliere
Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA 30-03-2005 n. 12275
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con separati atti Francesco A., Giacomo C. e Benedetto Z. hanno proposto a mezzo dei rispettivi
difensori ricorso avverso la sentenza in data 13.12.2002 della Corte d'appello di Catania, che ha
confermato la sentenza 10.7.2001 del Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Lentini, con la
quale ciascuno è stato condannato con le attenuanti generiche alla pena di un anno di reclusione per
il reato di cui agli artt. 40 cpv. e 589 c.p., commesso il 4.10.1995.
Gli imputati, costituenti l'equipe chirurgica che effettuò l'intervento operatorio su Bordarmi Eugenio
il 2.10.1995, sono statiritenuti responsabili del detto reato per aver omesso di effettuare su di un
soggetto con fratture costali multiple e doppie l'intervento di stabilizzazione di dette fratture o di
applicargli un tubo oro- tracheale allo scopo di ovviare all'insufficienza respiratoria, per averlo fatto
rientrare al reparto dopo l'intervento anzichè sottoporlo a terapia intensiva, e per aver sottovalutato
elementi significativi che rendevano prevedibile un'insufficienza respiratoria, quali l'incremento
progressivo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, provocando così la morte del
paziente per insufficienza respiratoria acuta. La corte di merito non dava rilievo ad una discrasia tra
cartella clinica e cartellino anestesiologico, che non parlavano d'intervento di osteosintesi, e registro
di sala operatoria, che ne attestava l'esecuzione, sul rilievo che era senz'altro da escludersi che vi
fosse stata un'osteosintesi completa, relativa a tutte le 24 fratture costali, mache non poteva
escludersi che l'intervento avesse interessato le costole prossime alla ferita chirurgica, sì che ben
poteva esservi stata un'osteosintesi parziale. Rilevava invece come la ventilazione forzata cui si era
fatto ricorso durante l'intervento operatorio era stata interrotta dopo l'esecuzione di questo e nulla
era stato fatto per consentire la respirazione del paziente, e ravvisava la responsabilità di tutti detti
medici, che avevano partecipato o assistito all'intervento e che erano o dovevano essere a
conoscenza delle condizioni del ricoverato, e quindi avevano l'obbligo giuridico, sulla scorta dei
270
D.P.R. 761/79 e 128/69 (che comporta che primari, aiuti ed assistenti assumono tutti e per intero,
salve le eccezioni che non sono qui ravvisabili, la responsabilità del caso concreto) di impedire
l'evento indicando, promovendo, imponendo odoperando direttamente i necessari presidi,
accertamenti ed interventi.
All'udienza del 17.3.2004 si celebrava il giudizio di Cassazione a carico dell'A. e del C., e veniva
straciata per difetto di notifica la posizione dello Z., il giudizio nei cui confronti si è celebrato in
data odierna.
Osserva questa Corte che il reato è prescritto: il termine di prescrizione, infatti, per effetto delle
attenuanti generiche e compresa l'interruzione, è di anni sette e mesi sei, per cui - pur tenendosi
conto della sospensione per mesi 11 e gg. 25 - esso si è interamente consumato.
Lamenta il ricorrente vizi che non sono idonei a far apparire evidente che il fatto non sussiste, che
l'imputato non l'ha commesso, che il fatto non è preveduto dalla legge come reato, si che non è
consentito un proscioglimento ai sensi dell'art. 129, co. 2^, c.p.p.La stessa esclusione del reato di
falso ideologico, dimostrata dalla sentenza 7.2.2003 esibita, non dimostra che vi è stata
un'osteosintesi completa, e prevalentemente i motivi si fondano su risultanze processuali che non
emergono dal testo della sentenza impugnata, nè si può dubitare del fatto che, se l'intervento
operatorio in senso stretto può ritenersi concluso con l'uscita del paziente dalla camera operatoria,
sul sanitario grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche
nella fase post-operatoria; tale obbligo, rientrante tra quelli di garanzia, discende non solo da norme,
scritte e non, ma anche dal contratto d'opera professionale, di tal che la violazione dell'obbligo
comporta responsabilità civile e penale per un evento casualmente connesso ad un comportamento
omissivo ex art. 40, co. 2 c.p. (cfr. Cass. 3492/02).
L'impugnata sentenza va dunque annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione.
Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2005.
Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2005.
ASSOCIAZIONE CON FINALITÀ DI TERRORISMO:
TRACCIA:
MaziOmar è membro di un’associazione che si prefigge lo scopo formale di diffondere il Corano in
tutto il mondo.
Caia fa parte della stessa associazione di MaziOmar, insieme al marito Pino.
Un giorno, MaziOmar, di comune accordo con gli altri associati (tra cui Caia e Pino), si faceva
esplodere nei pressi di una base militare italiana, in Roma, causando vari feriti.
Il candidato affronti la questione giuridica posta, con riferimento all’applicabilità dell’art. 270bis
c.p. nel caso di specie.
POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA:
In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto.
Successivamente, era fondamentale prendere in esame la lettera dell’art. 270bis c.p., con particolare
riferimento all’inciso “finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”.
Tale finalità può dirsi sussistente nel caso di specie, dove vi è, nella sostanza, un atto di violenza
diretto verso una base militare?
Premesso che lo scopo reale dell’associazione di cui fanno parte Caia e Pino non è semplicemente
quello formale di diffondere il Corano, perché tale associazione ha promosso condotte violente, è
271
compatibile il concetto di finalità di terrorismo o eversione con un attacco ad una base militare?
Al quesito posto bisognerebbe dare risposta positiva, perché qualsiasi attacco, ex se, fatto con
violenza, soprattutto se in una città che non è in guerra (come nel caso di specie), è atto che può
essere finalizzato al terrorismo o eversione.
Vi può essere anche terrorismo verso basi militari e non solo verso civili, come chiarito dalla
giurisprudenza più recente.
In questo senso, allora, ben potrebbero Caia e Pino rispondere del reato associativo, ex art. 270 bis
c.p.
Si consiglia di leggere attentamente la sentenza che segue.
-E’ atto terroristico anche quello contro un obiettivo militare quando le peculiari e concrete
situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della
vita e dell’incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella
collettività paura e panico (in specie, azioni suicide dei c.d. kamikaze compiute contro
obiettivi militari).
CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 17 gennaio 2007, n. 1072, n.1072 Pres. Torquato – est. Silvestri
Svolgimento del processo
Con sentenza del 24.1.2005, all’esito di giudizio abbreviato il GUP del Tribunale di Milano
assolveva Bouyahia Maher Ben Abdelaziz, Toumi Ali Ben Sassi e Daki Moliamed dalla
imputazione di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale di cui al
capo 1 con la formula “perché il fatto non sussiste” e dichiarava gli stessi imputati responsabili dei
delitti, uniti dal vincolo della continuazione, contestati al capo 2 (ricettazione di documenti di
identità falsi) e al capo 3 (atti, a fine di profitto, diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio
dello Stato italiano o di altri Stati), esclusa l’aggravante della finalità di terrorismo prevista
dall’articolo 1 della legge 15/1980.
In data 28.11.2005,, a seguito di appello del Pm e degli imputati, la Corte di Assise di Appello di
Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado, assolveva Daki Mobamed da tutti i
delitti a lui ascritti: inoltre, dall’imputazione di ricettazione di cui al capo 2 venivano assolti anche il
Bouyahia e il Toumi, i quali venivano, invece, condannati per il delitto di cui all’articolo 416 Cp
così modificato il capo 1 della rubrica per avere fatto parte di un’associazione finalizzata al
compimento di delitti di falsificazione di documenti d’identità e di procurato ingresso illegale in
Stati europei ed extraeuropei, con la conferma nel resto dell’impugnata sentenza.
Dopo avere ricostruito gli antefatti e le vicende del processo ed avere esaminato in generale il
fenomeno del terrorismo di matrice islamica, la Corte territoriale riteneva che, nell’ottica della
contestazione del reato associativo ex articolo 270bis Cp, l’oggetto dell’indagine non fosse
costituito dall’attività asseritamente di appoggio al terrorismo internazionale realizzata a Milano e
in altre città a partire dal 1999, ma dalle specifiche condotte poste in essere dagli imputati, dalle
272
finalità da loro perseguite e dal programma dagli stessi condiviso, tenendo presente che nel capo 1
dell’imputazione risulta delineata una struttura associativa sopranazionale operante in Italia e
all’estero sotto l’egida di varie sigle, delle quali non erano, tuttavia, accertabili, alla stregua delle
risultanze processuali, né la natura unitaria né l’esistenza di un unico centro decisionale. Espressa
l’esigenza di definire la nozione di terrorismo alla luce dei principi costituzionali di legalità e di
determinatezza della legge penale, la Corte di merito riteneva applicabile la disposizione di cui
all’articolo 270sexies Cp, inserita dall’articolo 15, comma 1, del Dl 144/05, convertito nella legge
155/05, recante la definizione delle condotte con finalità di terrorismo”, in quanto, pur essendo
entrata in vigore dopo i fatti di causa, detta disposizione era priva di contenuto sanzionatorio e
precisava in senso restrittivo il concetto di terrorismo. La Corte, poi, esaminava il contenuto delle
convenzioni internazionali vincolanti per l’Italia in materia di terrorismo, passando in rassegna
l’articolo 2 lettera b) della Convenzione per la repressione del finanziamento del terrorismo,
adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu il 9.12.1999 e resa esecutiva con legge 7/2003, la
Decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 13.6.2002, concernente l’attività di
terrorismo in tempo di pace, e le quattro Convenzioni di Ginevra del 128.1949, rese esecutive con
legge 1739/51, con i due Protocolli aggiuntivi, resi esecutivi con legge 762/85, le cui disposizioni,
facenti parte del diritto internazionale umanitario, contengono la definizione di conflitto armato e
degli obblighi dei combattenti anche se non inquadrati in truppe regolari, nonché il divieto di
colpire intenzionalmente la popolazione civile e di dirigere attacchi militari contro obiettivi civili.
A giudizio della Corte, dalle fonti normative internazionali inequivocamente emerge che un atto
può definirsi terroristico quando sia costituito da un determinato fatto delittuoso capace di
diffondere terrore nella popolazione e di provocare un grave danno ad uno Stato o ad
un’organizzazione internazionale, sempreché sia diretto contro un obiettivo civile, sia stato
commesso nel corso di un conflitto armato o di una situazione equiparata, quale l’occupazione
militare ad opera di uno Stato straniero, e sia qualificato da una finalità politica o ideologica. Ciò
posto, nella sentenza impugnata veniva accertato che i fatti oggetto del processo si erano svolti
prevalentemente nei mesi di febbraio e di marzo 2003 quando era in preparazione l’intervento degli
Stati Uniti in Iraq, avvenuto il 20.3.2003, e che all’inizio, fino ai primi di agosto 2003, l’azione di
kamikaze aveva avuto esclusivamente obiettivi militari, estendendosi solo successivamente a tale
epoca contro la popolazione civile.
La Corte territoriale passava, quindi, ad esaminare il ruolo svolto da Mera’j (El Ayashi Radi Abd El
Samie), arrestato in data 1.4.2003 ed estraneo al presente processo, che, in collegamento con il
Mullah Fouad del gruppo Ansar Al Islam, era stato il principale referente delle attività contestate
agli imputati nel reclutamento e nell’invio di volontari in campi di addestramento siriani prima di
essere trasferiti in Iraq per combattere contro gli americani e i loro alleati. In particolare, veniva
rilevato che queste attività risultavano chiaramente dalle intercettazioni telefoniche; che in una delle
conversazioni si accennava alla ricerca di kamikaze, impiegati in quel periodo, però, soltanto contro
obiettivi militari; che era giustificato ritenere che Mera’j appartenesse all’area del fondamentalismo
islamico e che, tuttavia, mancava qualsiasi concreto elemento di prova per affermare che egli fosse
coinvolto in un programma di azioni terroristiche nel senso sopra specificato.
La Corte reputava, poi, di scarsa consistenza gli elementi di prova a carico di Daki Mohamed,
incaricato di procurare un passaporto falso a Ciise Maxamed Cabdullaak, dovendosi quest’ultimo
recare in Iraq per combattere contro gli americani, osservando che le intercettazioni offrivano
elementi comprovanti l’estraneità del Daki al gruppo che aveva richiesto il suo intervento a favore
del Ciise e che indizi a carico dell’imputato non potevano trarsi né dalle informative della polizia
giudiziaria tedesca né dai documenti sequestrati a seguito di perquisizione nella sua abitazione.
Quanto alla posizione di Bouyahia Maher, premesso che questi era rimasto in Italia dall’aprile
all’ottobre 2002 e che gli erano stati sequestrati un manuale intitolato “Elementi di base per la
preparazione della Jihad per la causa di Allah”, un permesso di soggiorno francese falso, foto
tessere tra cui quella di F’radi il libico, la somma di 8.625 euro e numerose musicassette contenenti
preghiere arabe, la Corte osservava che nella predetta pubblicazione non si faceva riferimento al
273
compimento di azioni terroristiche in senso proprio e che dal complesso delle emergenze probatorie
poteva ricavarsi la conclusione che Bouyahia, nel periodo in considerazione, aveva collaborato con
Mera’j nel procurare documenti falsi destinati ai volontari diretti in Iraq per combattere contro gli
americani e non per compiere attentati terroristici contro la popolazione civile, il cui inizio doveva
farsi risalire a parecchi mesi dopo l’intervento degli Stati Uniti in quel Paese.
Riguardo alla posizione di Toumi Ali, la Corte distrettuale riteneva accertati i suoi rapporti con
Mera’j e con Maher e lo svolgimento di attività illecite nel rilascio, attraverso la cooperativa di cui
era presidente, di false attestazioni di lavoro a extracomunitari che cercavano di ottenere il
permesso di soggiorno in Italia, non potendosi attribuire al Toumi Ali, sulla base dalle numerose
conversazioni telefoniche intercettate e dalle restanti risultanze probatorie, condotte riconducibili
alla nozione di terrorismo in senso proprio.
Infine, nella sentenza impugnata veniva escluso che gli imputati potessero considerarsi responsabili
del delitto associativo contestato al capo 1 a causa dell’assenza di attività riconducibili nella
nozione di terrorismo e, comunque, della mancanza di prove della consapevolezza di tale finalità,
tanto più che, per quanto concerne Daki Mohamed, questi risultava coinvolto nel fatti di causa
unicamente per l’episodio della cessione, poi non avvenuta, del suo passaporto al Ciise,
intenzionato ad andare a combattere in Iraq. La Corte riteneva che i fatti indicati dal Pm risultassero
irrilevanti in ordine alla prova della partecipazione degli imputati ad una associazione terroristica e
che nessun utile argomento potesse trarsi dagli elementi acquisiti sul gruppo Ansar Al Islam perché
riferiti a contesti geografici, temporali e politici del tutto differenti da quelli del presente processo,
essendo rimasta sfornita di prova la tesi della Pubblica Accusa relativa all’esistenza di attività
terroristiche parallele a quella di reclutamento e di addestramento di volontari per combattere contro
gli americani.
La Corte di merito concludeva ritenendo che il Daki dovesse essere assolto da tutti i delitti
ascrittigli e che il Bouyahia e il Toumi dovessero essere dichiarati responsabili del delitto di
associazione per delinquere di cui all’articolo 416 Cp, così modificata l’imputazione al capo 1,
nonché del delitto al capo 3 per avere favorito l’ingresso illegale e il passaggio di stranieri
extracomunitari munendoli di documenti d’identità falsi, mentre l’assol
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