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UNA STORIA SBAGLIATA

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UNA STORIA SBAGLIATA
anno VI - VII
numero 59 -60
dicembre 2009 -gennaio 2010
UNA STORIA
SBAGLIATA
UNA STORIA
SBAGLIATA
Non l’avrei mai detto. Visitors, il telefilm anni
‘80 dove alieni rettili travestiti da uomini mangiavano topolini e apparivano smaglianti nelle
loro tutine rosse mentre invadevano la terra con
fare paranazista, altro non sono che la premonizione su piccolo schermo di una delle teorie del
complotto sugli ufo più celebre: quella teorizzata
dal giornalista inglese David Icke. All’idea che
rettiliani occupino posti di potere si accosta la
più generale teoria del complotto secondo la quale tutte le prove dell’esistenza, della presenza,
degli avvistamenti di alieni sono state occultate.
Questo apre una serie di supposizioni e teorie
che coinvolgono i governi e i servizi segreti da
tempi non sospetti e indagano sul perché nascondere. Argomento vasto, almeno quanto i misteriosi cerchi nel grano. La trasposizione in video
del complotto è di moda (X Files, Man in black) e
non solo se si parla di alieni. A pensarci, neanche
troppo bene, il complotto funziona da sempre.
Perché ogni cosa insinua il sospetto, perché nulla, alla fine, è mai chiaro. Ci sono casi in cui il
complotto è innocuo, sviluppa la curiosità. In altri fa male, uccide.
Come nel caso di Pier Paolo Pasolini, vittima di
un complotto mentre cercava di svelarne. A lui
abbiamo dedicato la copertina di questo numero
di Coolclub.it perché in qualche modo racchiude
in sé tutte le arti, la politica, la società.
A Pasolini sono state dedicate pagine meravigliose di letteratura , quella letteratura che a lui
piaceva, quella che non si piega, come Il petrolio
delle stragi di Gianni D’Elia da cui ha preso avvio l’ultima inchiesta giudiziaria. A dimostrare
con forza che la letteratura, quella vera, non è
solo intrattenimento.
A Pasolini sono state dedicate anche canzoni belle e struggenti come il Lamento per la morte di
Pasolini di Giovanna Marini che ripete come un
mantra la frase “Non può più parlare” che è la
cosa più grave quando muore un poeta. Francesco De Gregori ha scritto i versi di A Pa’, mentre
Una storia sbagliata è l’omaggio di De Andrè.
Segno che ci sono cose e persone che sopravvivono ai complotti.
In questo numero abbiamo dato spazio a complotti, più che altro del passato, questo per non
entrare nella bagarre che intasa i media in questi giorni. Abbiamo voluto parlarne scomodando
Gesù Cristo, i cartoni animati, la famiglia Kennedy, Luigi Tenco, il punk. Non ci sono premier e
non ci sono trans, ma le nostre rubriche di sempre. Questo è un numero doppio. Ci rivediamo
l’anno prossimo, a febbraio.
Buona lettura
Osvaldo Piliego
Editoriale 3
CoolClub.it
Via Vecchia Frigole 34
c/o Manifatture Knos
73100 Lecce
Telefono: 0832303707
e-mail: [email protected]
sito: www.coolclub.it
Anno 6 -7 Numero 59 - 60
dicembre 2009 - gennaio 2010
Iscritto al registro della
stampa del tribunale di Lecce
il 15.01.2004 al n.844
Direttore responsabile
Osvaldo Piliego
Collettivo redazionale
Cesare Liaci, Antonietta
Rosato, Dario Goffredo,
Pierpaolo Lala
Hanno collaborato a questo
numero: Roberto Conturso,
Stefania Divertito, Vittorio
Amodio, Marco Chiffi, Nino G.
D’Attis, Francesca Maruccia,
Roberto Cesano, Mariagrazia
Gallù, Tobia D’Onofrio, Ivan
Luprano, Alfonso Fanizza,
Oscar Cacciatore, Dieghost,
Camillo Fasulo, Rino De
Cesare, Dino Amenduni,
Rossano Astremo, Valeria
Blanco, Ennio Ciotta, Daniela
Miticocchio
In copertina: Pier Paolo
Pasolini
Ringraziamo Manifatture
Knos, Officine Cantelmo,
Cooperativa Paz di Lecce e le
redazioni di Blackmailmag.
com, Radio Popolare
Salento, Controradio di Bari,
Mondoradio di Tricase (Le),
Ciccio Riccio di Brindisi,
L’impaziente di Lecce,
quiSalento, Lecceprima,
Salento WebTv, Radiodelcapo,
Musicaround.net.
Progetto grafico
erik chilly
Impaginazione
dario
Stampa
Martano Editrice - Lecce
Chiuso in redazione
nonostante diversi incidenti:
un terremoto, una tremenda
inondazione, le cavallette, ma
non è stata colpa nostra, lo
giuriamo su Dio!
Per inserzioni pubblicitarie e
abbonamenti:
[email protected]
3394313397
UNA STORIA SBAGLIATA
Io so. Ma non ho le prove 6
Personal Jesus 10
Come un noir 16
Santa Moana dei misteri 20
musica
Mùm 26
IamX 28
Recensioni 34
Salto nell’indie - Midfinger Records 42
Libri
L R Carrino 46
Elisabetta Liguori 48
Recensioni 51
Cinema Teatro Arte
Michele Riondino 56
Recensioni 58
Christian Montagna 59
Eventi
Calendario 60
sommario 5
Una tavola di U.W.S. di Sarasso- Duroni
IO SO. MA NON
HO LE PROVE
Di complotti e complottismi dalla morte di Pasolini
ai romanzi di Simone Sarasso
“Io so. Ma non ho le prove” erano le durissime
parole che Pasolini scrisse sul Corriere della
Sera il 14 novembre 1974 in un articolo poi pubblicato in Scritti corsari con il titolo de Il romanzo delle stragi. Pasolini si riferiva al cosiddetto
Golpe bianco dell’agosto 1974, l’ultimo, in ordine
cronologico dei tentativi di colpo di stato che si
sono avuti in Italia tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70.
Agosto 1974. Io ero nato da pochissimi giorni. In
quel mese due stragi tremende insaguinarono il
Paese: Piazza della Loggia a Brescia e il treno
Italicus saltarono in aria con il loro carico di vite
umane a causa degli ordigni piazzati da ignoti
terroristi. Cinque anni prima (il prossimo 12
dicembre quaranta anni fa) l’Italia era entrata
nel suo periodo più buio con la bomba di Piazza Fontana. Pasolini traccia col suo articolo una
linea nera che unisce alcuni degli eventi più assurdi e atroci del nostro passato recente. Ma lo fa
mentre quelli eventi accadono. E lo fa come solo
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UNA STORIA SBAGLIATA
un grande poeta e scrittore può fare: cercando
la verità dove gli altri non hanno il coraggio di
guardare.
E così PPP lavora ad un progetto ambizioso e
grandioso di romanzo: Petrolio. Il libro racconta una vicenda scomoda e avvolta, ancora oggi,
nella nebbia del mistero: la morte di Enrico
Mattei, all’epoca presidente dell’Ente Nazionale
Idrocarburi. Mattei precipita con il suo aereo.
Subito si parla di incidente e così la questione
viene archiviata. Ma Pasolini non ci sta, per lui
la verità è un’altra. E per lui la verità è importante perché è un intellettuale e uno scrittore.
Per Pasolini la verità è che Mattei è stato vittima di un complotto. Il primo di una lunga serie
di tragici complotti nella storia italiana. Pasolini
stesso morirà pochi mesi dopo quell’articolo, senza riuscire a finire il suo romanzo. La sua morte
verrà archiviata come una lite tra omosessuali
finita male. Ma in molti non ci credono: Pasoli-
ni è morto perché era scomodo e inviso al potere
che lui voleva smascherare. L’inchiesta sulla sua
morte è stata aperta e chiusa più volte. L’ultima volta nell’aprile di quest’anno. Ancora non si
sa che cosa verrà fuori da questa inchiesta. Ma
i retroscena sono inquietanti. Si parla di Loggia
P2, ancora una volta. Si parla di Cia, ancora una
volta. Si parla di Mafia, ancora una volta. Si parla non di destabilizzazione dell’ordine costituito,
ma, cosa ancora più inquietante, di salvaguardia
dell’ordine costituito. Si parla di complotto, ancora una volta.
In Italia la parola complotto si usa molto spesso e forse molto spesso a sproposito. Ogni cosa
che accade è un complotto ordito da qualcuno
ai danni di qualcun altro. Ogni cosa può essere
spiegata con una teoria del complotto creata ad
hoc. Se un politico si fa trovare con una donna (o
trans) che non è la sua legittima compagna è un
complotto, ma è un complotto anche se un editore (leggi Feltrinelli) salta in aria mentre cerca di
piazzare un ordigno su un traliccio dell’Enel per
lasciare Milano al buio. Complotto se un pentito
di mafia fa il nome di un politico importante ma
complotto anche se un giovane comunista (leggi
Peppino Impastato) viene trovato morto lo stesso
giorno del presidente del più grande partito (leggi Aldo Moro).
Petrolio è il romanzo delle stragi, scritto in un
momento in cui di certe cose non si poteva parlare. Dopo, anche grazie a Pier Paolo Pasolini, altri
romanzi su stragi e complotti sono arrivati, tra
cui i bellissimi Romanzo Criminale e Nelle mani
giuste di De Cataldo che scavano in profondità in
quei territori del mistero, o Nel nome di Ishmael
di Giuseppe Genna, che proprio dalla morte di
Mattei prende avvio. Simone Sarasso nei suoi
romanzi (Confine di Stato, Settanta e la graphic
novel United We Stand, tutti pubblicati da Marsilio) disegna scenari foschi e cupi per spiegare
alcuni avvenimenti nella storia recente d’Italia,
con un’operazione dichiaratamente à la Ellroy.
Con lui abbiamo fatto due chiacchiere su che
cosa sia e come si possa raccontare il complotto
L’Italia è il Paese degli scandali: sessuali,
giudiziari, politici, golpisti. Ma l’Italia è
anche il Paese della teoria del complotto.
Sembra che ogni evento piccolo o grande,
ogni minimo scossone alla stasi catalettica
in cui versa il Paese sia causato da complotti di ogni genere. Esiste secondo te e
dove sta la “via di mezzo”?
“La via di mezzo” non è cosa italiana. Così come
non sono spiccatamente italiane l’obiettività e
l’onestà intellettuale. In un paese sempre trop-
po occupato ad urlare, mentre sullo sfondo del
televisore opinionisti impomatati boccheggiano
“moderiamo i toni”, non fare confusione è pressoché impossibile. Nel paese della chiacchiera,
nessuna storia è del tutto vera. Né alcuna teoria
del complotto completamente falsa.
Dalle tue pagine emerge chiara e precisa
una componente della tua scrittura che mi
affascina e mi incuriosisce: il divertimento.
Quanto ti sei divertito a tracciare trame e
immaginare orditi tutt’altro che irrealistici
per spiegare e raccontare una parte del nostro passato ancora difficilmente digerita
dai più?
La componente ludica, nella costruzione delle
trame complesse, è sicuramente alta. Il momento più inquietante del procedimento è quando immagini una soluzione narrativa particolarmente
ardita (es: qui servirebbe proprio un esercito
clandestino finanziato con soldi americani…),
vai a guardare sui libri di storia se per caso è
mai esistito qualcosa del genere (figuriamoci…)
e novanta volte su cento scopri che quello che hai
immaginato è molto più all’acqua di rose della
realtà (Occazzo! Non solo c’era; ma è stato in attività per quarant’anni!).
Tu parti da personaggi e fatti reali per poi
creare derive narrative cariche di suggestioni. Sembra che tu ti faccia guidare da
una domanda del tipo “che cosa sarebbe
successo se…?”. È un’impressione corretta
la mia?
La mia narrativa è uno dei possibili approcci al
reale. Io mi occupo quasi sempre di tragedie che
hanno mietuto decine e decine di vittime e per
le quali, dopo anni di processi, non esistono colpevoli. La domanda che sta alla base di tutto è:
“Chi è stato a fare questo?”
Con UWS immagini addirittura una sovversione violenta e antidemocratica dell’ordine costituito da qui a pochi anni. In effetti
in Italia si è più volte sfiorato ciò che tu
dipingi così bene. Perché secondo te tutto
questo si è solo sfiorato?
Non c’erano le condizioni per un reale sbilanciamento a destra del paese e del conseguente
golpe militare in passato. Figurarsi ora. L’Italia,
paese anticomunista di vecchia data, è sempre
stato troppo di centro per le rivolte armate. Quarant’anni di DC hanno salvato lo Stivale dal Colpo di Stato. Vedete ben, però, cos’han prodotto…
Dario Goffredo
UNA STORIA SBAGLIATA 7
In foto: i fratelli Kennedy
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COMPLOTTI
MADE
IN
USA
La paranoia nella storia americana recente
Le teorie del complotto hanno da sempre animato l’immaginario americano, come un sottile velo
capace di offuscare e distorcere ogni singolo evento della giovane storia di questo paese. Gli Stati
Uniti hanno visto nella diversità una minaccia
alla loro fragile identità culturale, dalla caccia alle
streghe di Salem nel 1692, alla congiura comunista degli anni cinquanta. Più di una statistica avvalora questa tradizione e non solo per gli eventi
o tragedie a cui difficilmente sono riusciti a dare
una spiegazione logica e razionale, ma per ogni
singola vicenda che ha scosso l’opinione pubblica
(basti pensare alle numerose ipotesi e congetture
scaturite in seguito alla morte di Michael Jackson).
Richard Hofstadter nel suo celebre saggio The
Paranoid Style in American Politics (1964), partendo da un’analisi sul maccartismo, ha analizzato i celebri complotti che hanno caratterizzato
il dopoguerra americano, come la nevrosi anticomunista che negli anni cinquanta generò il movimento contro l’infiltrazione di fluoro nell’acqua
potabile, al fine di evitare di indebolire i cervelli e
renderli più vulnerabili alle cospirazioni socialiste
(F. Tondelli, Da McCarthy a oggi: rilettura di The
Paranoid Style in American Politics). Da questo
coacervo di psicosi Kubrick trasse ispirazione per
la caratterizzazione del generale Jack D. Ripper
(Dottor Stranamore, 1964), il quale era solito bere
acqua piovana per preservare la purezza dei fluidi
vitali. Kubrick, in questo film, riuscì ad affrontare
un tema come quello della bomba atomica e delle fobie americane in maniera critica e allo stesso
tempo ironica, in un contesto storico caratterizzato dal continuo bombardamento mediatico volto ad
alimentare fra la popolazione il terrore di un’incombente minaccia nucleare. Secondo alcuni studiosi la recente credenza dei cittadini statunitensi
nelle teorie del complotto (il 63% della popolazione
americana ritiene di essere vittima di complotti,
mentre il 43% crede che gli attentati dell’11 settembre siano stati orditi all’interno della nazione)
trova una giustificazione nei fatti che sconvolsero
il paese durante gli anni sessanta e settanta: l’assassinio Kennedy, quello di Martin Luther King e
Malcolm X, per non parlare dello scandalo Watergate. Violenze e cospirazioni delle quali il cinema
ha tentato di dare un’interpretazione, ipotizzando
e instillando macchinosi o ragionevoli dubbi nelle
coscienze americane. Basti citare Oliver Stone con
JFK (1991), in cui i complotti attorno alla morte
del presidente Kennedy arrivarono a coinvolgere
alte sfere dello Stato come il vicepresidente Lyndon Johnson. Oppure il caso Watergate, più volte
trattato nelle pellicole: Tutti gli uomini del Presidente di Pakula (1976), Gli intrighi del potere di
Stone (1995), L’assassinio di Richard Nixon di
Niels Mueller (2004); o gli intrighi politici di The
Manchurian Candidate di John Frankenheimer
(1963), e I tre giorni del Condor di Sydney Pollack (1975). Senza tralasciare i sospetti nei confronti del governo, considerato colpevole di voler
nascondere le prove dell’esistenza degli UFO, che
hanno ispirato molte serie televisive di successo
come X-files (1993), o la più recente Taken (2002)
prodotta da Steven Spielberg, e i film, L’invasione
degli Ultracorpi di Don Siegel (1956), oppure Essi
vivono di John Carpenter (1988). Una pellicola,
quest’ultima, che contrariamente ai film di fantascienza del periodo non utilizzò gli alieni come
rappresentazione della minaccia comunista, ma al
contrario li usò per denunciare il potere manipolatorio dei media e della politica liberale del presidente Reagan. Nella storia degli USA i complotti
sono stati utilizzati anche come strumento di repressione interna, come nel caso degli afroamericani, vittime del piano messo in atto dalla FBI
(Cointelpro) mirato a distruggere il movimento di
liberazione nero degli anni settanta, e in seguito al
quale scaturirono varie ipotesi di congiure governative. Come quella della volontaria immissione
di crack nei ghetti neri a cavallo degli anni settanta e ottanta, per creare una tossicodipendenza
di massa diretta ad annientare la comunità afroamericana: idea, anche questa, ripresa più volte dal
grande schermo e in particolare dal regista John
Singleton nel film Boyz n the Hood (1991). L’abilità dell’industria hollywoodiana è stata quella di
saper sfruttare le recondite paure di una nazione
pronta a nascondere la propria fragilità dietro ipotetiche cospirazioni. Una scorciatoia a cui anche i
nostri governanti hanno fatto spesso ricorso, ma
da cui il nostro cinema non ha saputo trarre ancora la giusta ispirazione.
Roberto Conturso
UNA STORIA SBAGLIATA 9
PERSONAL JESUS
Il più grande complotto della storia
È accaduto tutto all’improvviso. Alla fine della
lezione di acquagym. Non propriamente sudata, ma affaticata sì. Postazione sulle retrolinee,
come sempre. Mi consente di tirare un po’ di
fiato. Ognuno ha le sue debolezze. Alzo la testa,
guardo avanti, poi a sinistra, poi a destra. E me
ne rendo conto.
Capisco in un unico piano sequenza cos’è che mi
differenzia da tutte le altre. E cos’è che per tutta la mia – seppur giovane – vita ha congiurato
contro di me.
Le altre, mano sinistra dietro la nuca a sfilare
i muscoli in un estremo tentativo di stretching,
si allungano e lo mostrano, quel solito cerchietto
d’oro all’anulare (qualcuna con la variante brillantata) che da sempre distingue i due grandi
gruppi in cui è composto il genere femminile. Chi
ce l’ha fatta e chi no, a portare un uomo fin sopra
un altare. Il crampo che sento nello stomaco è
l’appartenenza alla seconda categoria.
Io ho sempre pensato di essere immune dal tic
tac biologico. Di sposarmi e giurare amore eterno
ben cosciente che si tratta di una scommessa su
qualcosa di cui non puoi pienamente predisporre
non me ne frega proprio niente. Eppure. Eppure
c’è quel crampo.
E io decido di indagare.
Individuo subito un primo tipo di passaggio osti-
co al quale mio malgrado sono stata sottoposta.
Il problema è il modello di famiglia di cui si fa
portavoce un certo tipo di sentimento religioso.
Eccolo l’anello di congiunzione, la religione. Varco il mio posto di lavoro, prendo posto alla mia
solita cattedra e noto per la prima volta quella
croce che mi sovrasta ammonendomi giorno dopo
giorno che io sono quella che non l’ha seguito, il
modello su cui l’intera società è permeata. Ma
che dico l’intera società, l’intero ordine mondiale.
Io sono quell’ingranaggio che può mandare tutto
a monte. Quella che considera l’unione un contratto tra due individui in un determinato pezzo
di strada. La mia è una posizione scomoda. Me
ne rendo conto solo ora. E voglio vederci chiaro.
E poi ho la passione per le ricostruzioni giudiziarie e di cronaca nera.
Perché di cronaca nera si parla. Si riaprono i
casi di Emanuela Orlandi e di via Poma dopo più
di vent’anni, e allora perchè non si può riaprire
quello che improvvisamente, chiaramente, appare ai miei occhi come il più grande complotto
della storia?
Lo ammetto, il mio punto di vista è leggermente
egocentrico ma a mia discolpa ho due elementi:
credo nel sapere che da un particolare riesce ad
arrivare all’universale e credo soprattutto che a
indagine ultimata troverei decine, se non centinaia (non dico milioni solo per difendere ancora la categoria) di donne pronte a intentare con
me la più grande delle class action contro il superpotere religioso. L’accusa? Aver manipolato
l’opinione pubblica, l’ordinamento sociopsicologico mondiale, aver forgiato le menti e plasmato
i governi e i governanti per creare un Sistema
basato sull’unione indissolubile uomo donna,
causando micro e macro traumi per tutte noi.
A nulla vale l’obiezione che oggi la società è cambiata. Guardateci. Guardate noi donne. Anche se
siamo bandiere del pensare moderno, dentro di
noi il rigurgito del vorrei ma non posso può sempre emergere con uno stomaco contrito durante
una banalissima lezione di acquagym .
Tutto cominciò duemila anni fa. Giorno più, giorno meno. Un uomo (perché, guardiamo ai fatti, di
questo possiamo dire con certezza) nato in Medioriente, vive circondato da un gruppo di amici, apparentemente non ha un posto fisso, non
si sa di qualche talento professionale particolare
tranne che per il fatto che sia incredibilmente
bravo come oratore. Racconta storie con risvolti
psicologici che colpiscono gli uomini e le donne
che lo ascoltano. Riesce ad affabulare e a individuare il bene che si annida in ognuno di loro.
Una donna dedita al meretricio si commuove fino
alla conversione a uno stile di vita più consono a
una brava ragazza di quei tempi. Quindi sposarsi, in genere con uomini più vecchi, o molto più
vecchi, occuparsi del focolare domestico, coprirsi
il capo con un velo e trasformarsi nell’angelo della casa. Eccola là. La donna che io non sono mai
riuscita a diventare. La vedo lontana anni luce,
quella ex prostituta che ha bevuto l’acqua della
vita, da me che mi nutro di gatorade prima di
andare in palestra. Io che spendo in parrucchiere quanto lei avrà fatto in tutta la sua vita in
anfore dove riporre il sacro liquido. Io che non
mi accontento di trovare un uomo. Ma lo voglio
elegante, dolce, disponibile, che mi faccia ridere,
che mi porti fuori a cena. Che male c’è? C’è qualcuno che mi definirebbe pretenziosa ma la colpa
è di quell’uomo che ha costruito intorno a sé una
comune di discepoli pronti a scattare in qualsiasi
momento. Tranne che nel momento del bisogno.
Dov’era l’ex meretrice, dove il Lazzaro sedicente
risorto, quando un tribunale arrogante e superficiale l’ha costretto alla più orrenda delle morti?
Ci raccontano che poi sia risorto, che i discepoli
lo abbiano incontrato sulla strada di Emmaus e
ne abbiano toccato il costato. E che lui non abbia
urlato di dolore. Era un corpo risorto o soltanto
una allucinazione collettiva?
Chi mi dice che quell’uomo dalle sembianze –
pare – piacenti, vista la povera Maddalena piombata ai suoi piedi, intrisa di disperazione e, io
sono pronta a scommetterci, anche di rimpianto,
non si sia trovato in un ingranaggio più grosso
di lui, lui stesso vittima di un nuovo potere che
stava prendendo forma?
No, non scopiazzerò Dan Brown. Non mi richiamerò ad affascinanti teorie circa il Santo Graal,
la discendenza di Gesù Cristo, il suo corpo umano, troppo umano.
Non ne ho bisogno.
Perché, signori della giuria, per emettere un
verdetto occorre l’unanimità. E voi siete disposti
unanimemente ad ammettere che tutto quanto
secoli e secoli di tradizioni orali tramandate e poi
– poi! – scritte vanno sostenendo sia infine vero?
Non c’è la prova, alla base di queste convinzioni
ma, come astutamente ci hanno spiegato, un’insindacabile atto di fede.
Bene. Io vado a sindacarlo. A metterlo in dubbio.
A farlo vacillare.
Lo terrò ben presente, alla prossima lezione in
piscina.
Quella fede, quell’anello, quelle serate in compagnia di docili mariti sui divani, altro non sono
che l’ubbidienza a quell’oscuro precetto nato in
terra lontana e al riparo dal taccuino di un cronista. E pertanto aleatorio.
Lo terrò ben presente. E durante queste vacanze di Natale – forse – riuscirò a non piangere di
malinconia.
Stefania Divertito
11
12
DALLA TERRA
ALLA LUNA
Fu vero sbarco?
Ciclicamente, come in ogni ricorrenza che si rispetti, tornano prepotentemente alla ribalta le
teorie complottiste, la principale delle quali nega
che l’uomo abbia mai messo piede sulla luna il 21
luglio di quarant’anni fa. Da Bart Sibrel, documentarista che per anni ha inseguito gli astronauti dell’Apollo 11 chiedendogli di giurare sulla
Bibbia e che un giorno ricevette un pugno da
Buzz Aldrin, accusato di essere falso e bugiardo,
alle migliaia di blog che costruiscono le argomentazioni più sofisticate per screditare l’allunaggio,
esiste una nutrita schiera di personaggi che
dubitano che l’uomo abbia effettivamente raggiunto il satellite, sostenendo l’ipotesi della simulazione in uno studio cinematografico, con tanto
di effetti speciali, il che divenne poi lo spunto per
il film Capricorn One. Per anni, tutti i dubbi, le
osservazioni, le ipotesi, che hanno persino coinvolto Kubrick, sui fatti intercorsi durante le missioni Apollo sono stati quindi controargomentati
e respinti al mittente. C’è chi sostiene che la tecnologia degli anni ‘60 non potesse permettere
l’allunaggio; che le foto siano state falsificate,
perché non si vedono le stelle, l’orizzonte è troppo lineare, le colline lunari troppo inverosimili;
che gli astronauti morti nelle prime missioni o
negli incidenti stradali siano stati assassinati
su ordine della Nasa per evitare che denunciassero le menzogne ordite; e così via. Perché
l’allunaggio sarebbe stato inscenato? Le risposte
dei complottisti sono molteplici: per distrarre
l’attenzione dalla guerra del Vietnam; per soverchiare definitivamente l’Unione Sovietica nella
corsa spaziale durante la guerra fredda; per con-
tinuare a stornare finanziamenti di miliardi di
dollari verso la Nasa, vista come una lobby di
scienziati affamati di potere e denaro. In realtà,
mentre gli argomenti pseudo-scientifici dei complottisti sono stati smontati uno per uno sia dalle
istituzioni e dalla scienza ufficiale che da fonti
terze, tutte le motivazioni militari o politiche dei
sostenitori della teoria soccombono di fronte alla
domanda: perché la Russia non ha mai denunciato gli americani di aver inscenato lo sbarco
sulla Luna, se avesse potuto farlo? Di recente,
la teoria complottista è tornata di gran moda
per sostenere l’affascinante argomento secondo
cui è strano che l’uomo sia andato sulla Luna
quarant’anni fa grazie a un computer primitivo
e nei successivi quarant’anni non ci sia mai più
tornato, neanche con le potentissime tecnologie
di oggi. Del resto, Obama assomiglia tanto a un
nuovo Kennedy e l’idea di fare un salto sul satellite, estrarne l’acqua, fondere l’elio3 e usare la
Luna come “scalo” verso Marte è davvero affascinante (o assurda), se non fosse per l’immenso
spreco di denaro che occorrerebbe e che, visti i
tempi, neanche gli Usa possono permettersi. E
allora, come la mettiamo con il “Nuovo piano per
la Luna” annunciato prima da Bush, poi dallo
stesso Obama, con l’avallo della Nasa? E come
mai il video originale dell’allunaggio di Armstrong e Aldrin, misteriosamente scomparso nel
1969, salta fuori solo quarant’anni dopo? Complotti, fantascienza o solo ingredienti per il festeggiamento al “piccolo passo per l’uomo, ma
grande passo per l’umanità”?
Vito Lubelli
UNA STORIA SBAGLIATA 13
THE GREAT
COMPLOTTO
Pordenone può essere Londra
ma Londra non può
essere Pordenone
C’era una volta... questa è una delle più
belle favole della storia del rock, al pari
del castello della Virgin, dei Pink Fairies, di Enzo del Re, della Firenze new
wave. Di più, era una favola non solo
musicale. Il primo contatto che presi con
loro fu mediato dall’ufficio immigrazione
di Venezia per ottenere i permessi necessari e raggiungere lo Stato di Naon.
“Non si può immaginare il movimento
punk di Pordenone avulso dal contesto
urbano. Il fenomeno musicale, e non
solo, che passa sotto il nome di Great
Complotto, è lo Stato di Naon (dal nome
latino di Pordenone, Portum Naonis). E
lo Stato di Naon non è altro che la proiezione dello stato d’animo che animava
una parte della nuova generazione pordenonese, una nuova ondata che pensava
sé stessa come una controparte creativa,
moderna e misteriosa di una cittadina
borghese, immobile ed ammuffita. Il profilo di Pordenone assume a poco a poco
quei tratti fumettistici e quasi leggendari che fecero del capoluogo friulano una
delle capitali del rock italiano”.
14
Le prime gesta che ci vengono documentate hanno per scenario il ponte di Aklam a Portobello
Road dove HitlerSS e i Tampax terranno un
concerto “promozionale” con chitarre di cartone
e 1000 copie del loro primo vinile (un quarantacinquino con 2 brani per band) sotto il braccio.
Tra il 1979 e il 1981 la documentazione discografica è limitata alla pubblicazione di pochi vinili
che si contano sulle dita di una mano; oltre al
singolo split già citato, la compilation che cambierà la storia del rock italiano. Un disco con in
copertina il campanile della città, vi partecipano Mess, Fhedolts, Sexy Angels, Andy Warhol
Banana Technicolor, Little Chemists, Mind Invaders, 001100111100011001011101, Musique
Mecanique, Tampax/HitlerSS, Waalt Diisneey,
W.K.W.
“Sul disco del campanile c’era un ordine per una
scatola chiamata Enciclopedic Type, Turistic
Type e un altro che non mi ricordo e a seconda
del tipo mettevo il disco con delle reliquie o altre
cose, e nel Turistic Type mettevo la cassetta Pordenone for Holidays”, ricorda Ado Scaini, uno dei
principali protagonisti. La cassetta venne concepita come una guida fornita dalla Great Complotto Touristic Agency a improbabili visitatori
di una ancor meno probabile città di Naon. Le
voci dei giovani naoniani, intervallate dai suoni
glaciali di un sintetizzatore analogico, evocavano
paesaggi alieni, tecnologici e impersonali, spiegando in lingua inglese le attrazioni, le usanze, i
luoghi, la mitologia dello Stato di Naon.
La Guida ufficiale dello Stato di Naon infatti è
contemporanea alla seconda raccolta su album
IV3SCR del 1983. Al suo interno viene spiegato
il funzionamento dell’intera organizzazione, che
naturalmente corrisponde solo in parte alla realtà. Al centro della copertina nera c’è una delle
città disegnate da Ado Scaini. Aprendo la prima
pagina ci sono informazioni su come arrivare a
Naon, la bandiera - un tricolore rosso, verde e
blu un riferimento evidente al RGB dei televisori in technicolor - e la storia leggendaria della
patria naoniana. Di seguito sono elencate le molteplici attività contemplate all’interno del Great
Complotto, che spaziavano da fantomatici settori, quali il “Servizio Investigativo Naoniano” o il
“Ministero dell’Interno”, garante della difesa della popolazione, ad altri che effettivamente riproducevano consuetudini del gruppo. Ad esempio,
il settore “Finanziario” preposto alla riscossione
delle imposte, ovvero le rette da corrispondere
per suonare nelle sale prove o il settore “Tecnico”
responsabile del funzionamento degli impianti
elettrici alle feste e ai concerti. All’elenco delle
attività svolte nello Stato di Naon non possono
mancare la squadra di calcio Atoms for Energy,
gli Atelier De Montage, la Edit Naon, responsa-
bile delle pubblicazioni del Great Complotto. Segue una sezione riservata alle notizie sul modo
di vestire, di parlare, di atteggiarsi dei naoniani
e infine, un elenco telefonico con i numeri utili
per contattare i diversi responsabili delle band o
dei vari ministeri.
L’anno successivo ancora una compilazione Un
inverno a Pordenone ultimo atto dello Stato di
Naon (l’epitaffio fu la compilation Taranto/Pordenone di cui dirò tra poco). Di loro Vittore Barone scriveva dalle pagine di Rockerilla: “Il Great
Complotto non smentisce la propria vena polemica e fa uscire alle porte della stagione balneare un elegante cofanetto intitolato Un inverno a
Pordenone, contenente tre singoli di altrettante
formazioni Naoniane. Nella confezione è altresì
allegato un mini-romanzo di tale Clark Kent,
adeguatamente orwelliano, che serve bene allo
scopo di rendere il clima dei tre dischetti: una
‘stagione all’inferno’ quale può essere vissuta dodici mesi all’anno nei piccoli e grandi centri di
provincia, apatici, privi di stimoli e strutture per
i giovani, abitati dal conformismo e dall’ottusità.
In una simile situazione stagnante, i ‘ragazzi
meravigliosi’ sono mosche bianche salvate dalla
musica”.
Pordenone-Taranto, una storia che vi racconto
con pudore, per un evidente conflitto d’interesse. Macchinario Retrò era una associazione tarantina che in quel periodo organizzava concerti
ed era l’editore di Urlo Wave (ok, va bene; Urlo
era un mio progetto). Due assessori alla cultura,
due associazione e una manciata di band, concerti nelle due città e un disco a documento. Ado
arrivò a Taranto e per promuovere i concertini
prendemmo a noleggio un camion e sopra con un
gruppo Ado cantava all’ingresso e all’uscita dei
licei locali la sua “Risi Pisi”.
Che delirio. Raccogliemmo chili di rassegna
stampa locale, nazionale ed internazionale.
I dischi pubblicati successivamente perderanno
il fascino della prima ora anche se musicalmente
(Futuritmi su tutti) esprimeranno il meglio.
Nb: L’articolo finisce qui, come vi sarete accorti non ho scritto (o quasi di musica), perché in
tutta questa storia è secondaria. I dischi citati
sono reliquie da collezionisti (e sul mercato hanno valutazioni inaccessibili), ma qualcosa è stata
di recente ristampata. Pubblicata dalla edizioni Shake, il digipack contiene: il cd The Great
Complotto; il video Brucia Tequila; un libro di
68 pagine con fotografie e testi dei vari gruppi
della scena.
Vittorio Amodio
UNA STORIA SBAGLIATA 15
COME UN NOIR
Tutte le incognite sulla morte di Luigi Tenco
In foto: Dalida
16
L’Hotel Savoy a Sanremo è un edificio imponente, quasi monumentale. È situato tra Via Nuvoloni e Corso degli Inglesi ed è distante poche centinaia di metri dalla costa e dal lungomare. Nel
1967 l’Hotel Savoy è considerato il più lussuoso
albergo di Sanremo, al pari forse del vicino Hotel
Londra, capostipite della raffinata scuola alberghiera della città ligure. Proprio per queste caratteristiche l’Hotel Savoy è stato scelto dall’organizzazione del Festival di Sanremo come alloggio per gli artisti e come luogo di riferimento
per tutte le persone che nei giorni del Festival lavorano e ruotano attorno all’evento. La struttura
dell’albergo oltre all’edificio centrale prevede anche delle piccole dependance accessibili direttamente dall’esterno. In una di queste dependance
si può arrivare entrando dal giardino attraverso
una porta di legno bianco. Superata la porta vi è
un corridoio con il pavimento di mattonelle colorate e a pochi passi c’è la stanza 219. La stanza
219 non è il massimo del lusso. Entrandovi trovi
sulla sinistra un grande mobile a cassettoni e poi
uno specchio, due sedie, un letto e una scrivania.
Alla destra del letto c’è la porta del piccolo bagno
privato. Non è una suite, è una stanza umile e
modesta. Le stesse qualità dell’uomo che lì, in
quella stanza, trovò la morte.
È da poco passata la mezzanotte al ristorante
Nostromo. Un lungo tavolo è occupato da gente
rumorosa che mangia, beve e parla ad alta voce.
Seduto a quel tavolo, tra discografici e giornalisti
e artisti, c’è un uomo di 29 anni. È giovane, vestito elegante. Indossa un completo scuro e una camicia bianca. Ha dei capelli neri e ben pettinati
e uno sguardo serio e misterioso. Quello sguardo
fece invaghire tempo prima la ragazza di fronte
a lui, un’artista italo-francese molto bella. Lui si
chiama Luigi. Mentre fuma una sigaretta e butta fuori il fumo dalla bocca gli zigomi marcati del
suo volto si rilassano per un momento. È inquieto Luigi, più inquieto del solito. È un concorrente
del Festival che però per lui e la sua canzone è
finito presto. La sua canzone è intitolata Ciao,
Amore, Ciao e gli era stata fortemente consigliata da quella ragazza, l’artista italo-francese, che
si chiama Dalida. Anche lei è una cantante. E
aveva convinto Luigi a cantare proprio quella
canzone. Ma Luigi avrebbe volentieri evitato
quella canzone (preferendone un’altra) e tutto il
Festival. Quella grande occasione di raggiungere
tutto il pubblico italiano era molto importante,
certo, ma Luigi era sempre stato combattuto
tra la voglia di non scendere a patti con niente e nessuno e di pensare solo alla sua musica,
e raggiungere la fama e il successo. E alla fine
aveva ceduto. Si era fidato. Vada per il Festival.
Vada per Ciao, Amore, Ciao. Ma la canzone non
passò alla fase finale e Luigi rimase da solo con
se stesso.
Così quella sera finisce la sigaretta, si alza dal
tavolo e saluta tutti i commensali. Saluta Dalida. Ed esce.
Luigi Tenco viene ritrovato morto nella stanza
219 dell’Hotel Savoy di Sanremo nella notte tra
il 26 e il 27 gennaio 1967. A trovarlo appoggiato
a letto e riverso in una pozza di sangue è proprio
Dalida. Dopo il ristorante lei torna all’albergo,
si cambia d’abito ed va a trovare Luigi. Sulla
scrivania vicino al letto trova un foglio scritto a
penna. Io ho voluto bene al pubblico italiano e
gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia
vita. Faccio questo non perché sono stanco della
vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro
un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e
ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno.
Ciao. Luigi.
Dalida e il discografico Paolo Dossena sono i primi ad entrare nella stanza prima dell’arrivo della polizia. Pensano ad un malore e inizialmente
cercano un medico. Ma Luigi è morto, si è sparato un colpo di pistola in testa per togliersi la vita.
Si è sparato con la sua pistola, una Walther PPK
calibro 39 che già da qualche mese possedeva legalmente. E poi c’è un biglietto d’addio più che
esplicito. Quando arriva la polizia il commissario
incaricato delle indagini è Arrigo Molinari, questore di Genova. È lui a diramare un comunicato
all’ANSA riguardo la morte di Tenco. La polizia
comunque non fa un gran lavoro. Arrivano, spostano il corpo e lo trasportano all’obitorio e solo
dopo, quando si accorgono di non aver fatto i rilievi opportuni, lo riportano nella stanza 219. È
una lunga notte quella del 27 gennaio.
Il ‘Caso Tenco’ fin da subito suscitò irrequietezza
negli animi degli italiani. Furono Mike Bongiorno e Renata Mauro, presentatori di quell’edizione del Festival, ad annunciare la tragedia in
tv. E fu la prima volta che un giallo di questa
portata colpiva l’evento simbolo della canzone
e della cultura italiana. Un giallo perché poche
cose erano chiare e troppe erano da chiarire.
Trentotto anni dopo, nel dicembre 2005, data la
continua pressione di stampa e pubblico il caso
venne riaperto dalla Procura di Sanremo e dopo
tre mesi nuovamente chiuso sostenendo ancora
la tesi del suicidio, nonostante non fosse stato
trovato il proiettile che aveva ucciso il cantante
e la mancanza della visione di alcune prove. Ma
negli ultimi anni internet ha mobilitato l’opinione pubblica per una nuova ricerca della verità.
Sono state analizzate vecchie foto, documenti,
UNA STORIA SBAGLIATA 17
18
interviste da parte di gruppi di appassionati ed è
stato tracciato un nuovo quadro provando che si
sia trattato di omicidio. Tra il giugno e il settembre del 2009 sono anche stati emessi due esposti
indirizzati alle più alte cariche dello Stato e al
Ministro della Giustizia chiedendo di riesaminare l’intero caso in virtù di nuove prove materiali
raccolte negli ultimi anni.
Ma intanto Luigi non c’è più. Si è sparato. Peccato però che la pistola che ha fatto fuoco non
fosse la sua. Le prime persone ad entrare nella
camera di Tenco non notarono nessuna pistola,
ma dopo l’arrivo della polizia una pistola venne
ritrovata tra le gambe del cantante. Dalle foto
però sembra che quella sia un’altra pistola, una
Beretta calibro 22, e non quella che Luigi possedeva. In più il fratello di Luigi, Valentino Tenco,
smontò la Walther PPK trovandola ben pulita e
oliata, provando così che non aveva mai sparato.
E nessuno quella notte udì uno sparo. Eppure le
stanze adiacenti alla 219 erano occupate. Poi ci
sono le foto. Dalle foto (poche) scattate prima che
il corpo venisse spostato si notano diversi particolari insoliti. Si vede della sabbia sui vestiti
e sul volto di Luigi, e quello stesso volto pieno
di sangue ed ematomi, e ancora il fatto che non
avesse le scarpe ai piedi. Quando il corpo fu riportato in camera per i successivi rilievi, la sabbia e il sangue erano spariti. La sabbia proverebbe secondo alcuni che Luigi sia stato ucciso in
spiaggia. Una di quelle spiagge vicine all’albergo
e distanti poche centinaia di metri. Sabbia che
in alcune foto compare anche sulla macchina del
cantante. Poi c’è il fatto che la stanza 219 fosse
raggiungibile molto facilmente dal garage e dal
giardino senza passare dalla reception. E infine
la lettera d’addio che per molti è un falso. La prima parte infatti sarebbe l’inizio di una lettera
di denuncia che Luigi aveva iniziato a scrivere
giorni prima e solo successivamente completata
ad hoc dai suoi assassini per avvalorare l’ipotesi
del suicidio.
Ma oltre a tutte queste prove vi è un altro elemento molto più ad ampio raggio che porterebbe
l’artista al centro di un vero e proprio complotto internazionale e quindi ad un movente politico dell’omicidio. Nel 1965 Luigi Tenco si recò
in Argentina per tenere dei concerti. Era però
impegnato nel servizio militare e non avrebbe
potuto mai lasciare il Paese senza un’autorizzazione speciale. Secondo la teoria del movente politico tale autorizzazione sarebbe stata rilasciata
dall’allora governo Moro per consentire a Tenco
di portare in Argentina della documentazione
riservata. Ma Luigi non era una spia internazionale. Certo è che al ritorno dall’Argentina qual-
cosa cambiò, Luigi ricevette delle minacce e venne anche speronato mentre si trovava in auto.
Furono questi episodi a convincerlo a procurarsi
una pistola. Quattro giorni dopo la morte di Tenco scoppiò lo scandalo SIFAR. Il SIFAR erano i
servizi segreti nazionali e per anni avevano accumulato dossier privati su varie personalità di
spicco della società italiana. E proprio il SIFAR
si presume fosse legato alla P2, la loggia massonica il cui obiettivo era destabilizzare l’ordine
costituito del Paese. E il questore di Genova,
Arrigo Molinari, che seguì le indagini del ‘Caso
Tenco’, era iscritto alla P2 (morirà nel 2005 in
circostanze ancora tutte da chiarire). E qui si aggancia un’altra pista, quella del Clan dei Marsigliesi, un’organizzazione criminale francese che
avrebbe ‘materialmente’ ucciso il cantante per
un regolamento di conti tra loro e Molinari che
pochi anni prima condusse delle indagini contro
di loro. Lucien Morisse, produttore discografico vicino a Dalida, si ritiene fosse in combutta
con tale organizzazione. Dalida il giorno dopo la
morte di Luigi volle tornare immediatamente
a Parigi. La stessa cantante morirà suicida nel
1987.
Ma ora stiamo forse andando troppo oltre. È
come quando butti un sasso nell’acqua. Le onde
poi si propagano e non sai dove vai a finire. Certo
è che troppi sono i lati oscuri di questa vicenda e
alcune delle prove sopra citate hanno indubbiamente un certo valore. A 42 anni dalla morte di
Luigi Tenco se siamo ancora qui a parlarne però
non è solo per fare i complimenti a chi arriverà per primo alla verità, ma perché quella notte
un ragazzo di 29 anni colmo di inquietudini e
di grande talento ha perso la vita. Ma probabilmente doveva essere così, Luigi doveva lasciarci
in eredità giusto un centinaio di brani inediti e
questo grande mistero.
Proprio come fosse un noir questa storia non ci
lascia con un lieto fine. È un finale che si disperde nel tempo e non si esaurisce in quella notte.
Oltre alle congetture, alle ipotesi, all’amore e
la passione per la sua musica, c’è Luigi, che con
quel suo sguardo misterioso fissa l’orizzonte, poi
si scuote di dosso la sabbia e continua a camminare in solitudine a passi lenti e pensierosi. E
mentre si accende un’altra sigaretta, dopo la prima lunga boccata, butta fuori il fumo dalla bocca
e gli zigomi marcati del suo volto si rilassano. E
sembra la materializzazione di quel verso della
sua canzone che venne bocciata al Festival, in un
mondo di luci sentirsi nessuno.
Marco Chiffi
UNA STORIA SBAGLIATA 19
SANTA
MOANA
DEI
MISTERI
Quindici anni
sono passati
Cosa so di Moana? Quello che sanno tutti, presumo: la sua scomparsa è uno dei tanti enigmi
della dematerializzazione della realtà; il segno
estremo, esaustivo, di come l’alibi della perpetuazione di ogni mito sia destinato puntualmente a cadere, oggi più che in passato, di fronte ai
punti non cicatrizzati del nostro incongruente
immaginario.
Non riesco più a guardare un film con Karen
Lancaume, morta suicida nel gennaio del 2005,
né un singolo fotogramma in cui faccia capolino
Shannon Wilsey, in arte Savannah, suicidatasi
nel 1994 a soli 23 anni dopo un discreto numero
di pellicole e provate frequentazioni nelle alcove
dei Guns N’ Roses e dei Mötley Crüe. E Moana
fa parte del club. Belle e morte: il voyeurismo
necrofilo non fa per me (e neppure i generi ‘kaviar’, ‘hairy’ e ‘grannies’, se ci tenete a saperlo).
Strano, a pensarci bene. Rita Hayworth, Ava
Gardner e Veronica Lake non mi procurano lo
stesso disagio, probabilmente perché il porno,
più del mainstream, è davvero Cinema, ovvero
un pianeta per buona sorte distante dalle malinconiche pippe intellettual-autoriali.
È una riflessione che faccio nel giorno in cui il
20 UNA STORIA SBAGLIATA
Moma di New York rende omaggio a Tim Burton
e nel mio iPod gira da ore Fascinator, una canzone degli Htrk, il gruppo preferito dalla pornostar
Sasha Grey.
Anna Moana Rosa Pozzi, figlia di un ricercatore
nucleare e di una casalinga, era nata a Genova
il 27 aprile 1961. Il suo debutto nell’hard, Valentina, ragazza in calore, lo girò appena ventenne
con lo pseudonimo di Linda Heveret accanto a
Manlio Cersosimo, a.k.a. Mark Shannon. Un
piccolo terremoto nel plasticoso decennio 80 ancora lontano dalla pornografia in alta definizione
dei reality show: il movimento delle casalinghe
chiese immediatamente la testa della ragazza,
perché in quel periodo Moana stava conducendo su Raidue Tip Tap Club, un programma per
bambini. Fu l’alba di una stella, il primo passo
verso una gloria conquistata attraverso altre
pellicole (Fantastica Moana; Moana calda femmina in calore; Cicciolina e Moana ai mondiali),
spettacoli live, un libro in cui dava i voti ai suoi
compagni di letto più famosi: 7 a Francesco Nuti;
6 a Massimo Troisi; 6+ a Renato Pozzetto; 6 a
Renzo Arbore; 5 a Paulo Roberto Falcão.
Diva patria (“Per governare Roma ci vuole più
Amore”, proclamò nel corso della sua breve
esperienza in politica). Musa di stilisti, artisti e
governanti. Potente campo magnetico sessuale
spentosi improvvisamente all’Hotel de Dieu di
Lione quel maledetto 15 settembre 1994.
Tumore fulminante al fegato: una cosa schifosa.
Lei era un corpo desiderabile guidato da una testa intelligente.
Lei era il sogno proibito del grande parco zoologico Italia.
Le avevano dato il nome di un’isola delle Hawaii
che nell’idioma polinesiano significa più o meno
“il punto dove il mare è più profondo”.
Qualcuno sospetta che abbia deciso di tagliare
i ponti col mondo dell’hard per ricominciare da
un’altra parte, con un nuovo nome, dopo aver inscenato una finta morte. Qualcuno dice che era
una spia al soldo del KGB, reclutata per la sua
facilità d’accesso alle stanze segrete del potere,
invischiata in un’operazione che avrebbe mirato
a destabilizzare Bettino Craxi. Teorie che vedono l’attrice affiliata alla Anlivered Corporation
Ltd., una società specializzata nel commercio legale di scorie radioattive iscritta alla Camera di
Commercio di Kiev: Moana è stata assassinata.
Moana era finita in un gioco pericoloso e, come in
una spy-story di Robert Ludlum, se non è morta,
si nasconde da quindici anni in un luogo sicuro.
Tumore di merda. Voci sull’AIDS. Quello che si
credeva il fratello minore di Moana, rivela di essere in realtà suo figlio.
Il cadavere, a sentire i familiari, sarebbe stato
cremato, però l’urna non è stata vista da nessuno. In una prima versione, le ceneri sarebbero
state sparse in mare, in una seconda, in cima al
Cervino.
A nove mesi dalla scomparsa di Moana sarebbe
stato contratto un mutuo ipotecario a suo nome
per l’acquisto di un immobile.
Le icone mandano in brodo di giuggiole i teorici
del complotto.
Le icone non possono morire per un carcinoma
epatocellulare del cazzo.
Nulla nella perdita di un’immagine sacra ci convince, tutto ci rende incerti.
Cosa so di Moana? La mia vecchia videocassetta
di Tua per Sempre è completamente smagnetizzata ma il titolo, col senno di poi, ha un valore
rivelatorio. Lei era e sarà sempre il profumo,
la vertigine, la seduzione che illanguidisce lo
sguardo con un sorriso dopo un copioso cumshot,
l’oggetto non identificato capace di sottrarre tutto alla sua verità per condurci in quel Nirvana
del sogno dove tutto è permesso.
Nino G. D’Attis
IVAN GUERRERIO
Splendido Splendente
Agenzia X
Fu un colpo di fulmine, in tv, a ciel sereno, in piazza con Cicciolina. La malizia,
un certo distacco nobile a differenza
dell’amica con l’orsacchiotto, e io mi
innamorai. Di quegli amori in qualche
modo corrisposti.
In qualche modo perché la vita di Moana sembra rivolta all’altro, all’amore in
senso completo. Lei amava quello che
faceva e tutti noi lo sapevamo. Leggere
Splendido Splendente è emozionante
perché non è un libro su Moana Pozzi, o almeno non solo. È un libro su un
grande amore, quello di Marzio Milani per Moana. La conosce da piccolo,
se ne innamora, ne assaggia l’amore,
e da allora non potrà fare a meno che
seguirne la vita e le gesta. Una vita,
quella di Marzio che pur prendendo
diverse direzioni, finisce di tanto per
incontrarsi con quella di una donna, a
lui sempre legata, che percorre con candore e purezza d’animo un Italia, quella
degli anni ottanta, che Ivan Guerrerio
racconta attraverso le vicende di una
pornodiva. Ed è questa visione a restituirci una Italia inedita, almeno nella
prospettiva. E poi lei, vittima carnale
di un’epoca e di un sistema, mito, “non”
casta certamente, ma diva.
Osvaldo Piliego
21
DARK REIGN
Il complotto è servito in casa Marvel
Norman Osborn è uno dei malvagi più celebri
dell’universo Marvel: influente uomo d’affari di
New York, nelle vesti del verde folletto Goblin
(visto anche nel film di Sam Raimi) ha tormentato per anni il giovane Peter Parker/Spiderman,
arrivando a causare la morte dell’indimenticata Gwen Stacy, storica fidanzata dell’arrampicamuri. Evento tragico che condusse i fumetti
Marvel in una dimensione più adulta e cruda e
che rese Osborn/Goblin, una riuscita incarnazione del male in tutta la sua follia sociopatica
e furia distruttiva. Oggi egli è il direttore della
più importante agenzia di sicurezza governativa degli USA per volontà stessa del presidente
americano, che lo considera, come il resto della
nazione, un eroe e leader dei Vendicatori, il più
potente e riverito team di supereroi della casa
editrice. Questo grazie ad una serie di fortunate
circostanze esaltate dall’eco mediatico e dal crescente clima di sfiducia nei confronti della comunità dei supereroi, Tony Stark/Iron Man in testa;
che non hanno assolutamente a che vedere con
una conversione al bene del magnate criminale,
intenzionato a sfruttare il consenso politico e popolare per i propri scopi. La sua prima mossa,
infatti, è stata quella di convocare contemporaneamente il Dottor Destino (nemesi storica dei
Fantastici Quattro, geniale scienziato e monarca
di uno staterello europeo), Loki (il Dio nordico
della menzogna, recentemente rinato nei panni
di una seducente ed inquietante fanciulla, ma
che continua a covare un odio disperato verso il
fratellastro Thor), Hood (scaltro signore del crimine di NY, controllato da un potente demone)
Namor/Submariner (sovrano di Atlantide e controverso eroe dal carattere superbo ed irascibile)
ed Emma Frost (telepate, leader degli X-men,
che stanno vivendo un momento tremendo da
quando la popolazione mutante è stata decimata quasi del tutto), per proporre loro un macabra alleanza finalizzata alla spartizione di un
mondo, sconvolto da lotte fratricide tra eroi ed
invasioni aliene. Nasce in tal modo Dark Reign
(il regno oscuro) una lunghissima sottotrama che
si dipanerà su tutte le testate della Marvel Comics, apportando un radicale mutamento all’intero status quo del fittizio microcosmo fumetti-
stico e frantumando le vite dei suoi personaggi,
dall’Uomo Ragno agli X-men sino ad Iron Man e
Capitan America. Il che a causa dell’ennesimo
complotto ordito dai malvagi di casa Marvel, apparentemente; in realtà Dark Reign è sì la storia
di una congiura, elemento topico nella storia dei
comics supereroistici, ma contiene in sé tutta
l’innovatività ed i frutti degli ultimi otto anni di
maxi-saghe della casa editrice di Stan Lee. Merito in primis della gestione di Joe Quesada, poco
più che trentenne editore capo, che ha dato allo
sceneggiatore Brian Michael Bendis la possibilità di svecchiare intere serie e character destinati
al declino, attraverso trame che mostrano una
triste aderenza alla realtà. Ecco dunque Civil
War (sceneggiata dall’iconoclasta Mark Millar),
la disperata lotta tra due schieramenti di paladini della giustizia che si sfidano sul tema delle
libertà civili e della sicurezza pubblica e Secret
Invasion il jihhad cosmico degli alieni Skrull, decisi a conquistare la Terra per convertire i suoi
infedeli abitanti al grido “Lui vi ama”. Al termine di quest’ultima è giunto l’avvento di Norman
Osborn e delle sue orde di criminali, camuffati
da eroi, destinato ad avvincere per molto tempo
i Marvel fans. Il complotto ha avuto inizio ed un
“Regno Oscuro” è sorto tra le macerie di un mondo incapace di distinguere i, sempre più labili,
confini tra giusto e sbagliato, tra manipolazione
mediatica e realtà effettiva. Dark Reign è l’ultimo evento editoriale della più famosa e quotata produttrice di fumetti (da poco acquisita dal
colosso Disney), che nel ventunesimo secolo ha
dimostrato una brillante attitudine alla dinamicità ed un sapiente uso delle proprie potenzialità
multimediali, attraverso il cinema, i videogiochi
e i gadgets, in barba alla recessione ed alla profonda crisi del mercato dei comics.
I personaggi Marvel cambiano: si sposano, muoiono ed a volte ritornano (è il caso di Capitan
America/Steve Rogers, ucciso in modalità simili
al delitto Oswald-Kennedy) e si confrontano con
scenari in perpetua evoluzione, appassionando
milioni di persone in tutto il globo. Lunga vita al
congiurante Norman Osborn dunque...
Roberto Cesano
UNA STORIA SBAGLIATA 23
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PICCOLI
COMPLOTTI
ANIMATI
Pikachu e Pollon
tramano contro di noi
Ricordate la puntata in cui Homer Simpson viene rapito da due alieni che gli rivelano il loro piano segreto per controllare la Terra assumendo le
sembianze dei candidati alle presidenziali americane Clinton e Dole? Bene, se vi eravate sbrigati a liquidare il complotto degli alieni mutanti
come l’ennesima allucinazione alcolica di Homer
dovuta a una sosta al bar dell’amico Boe, vi sbagliavate. Il complotto esiste. A rendercelo noto
è David Icke, ex giornalista ed ex attivista del
Partito Verde britannico che a partire dagli anni
’90, illuminato dalla rivelazione di una medium,
si autoproclama “Figlio della Divinità”, prendendo sulle sue fragili spalle di umano il compito di
salvare gli umani suoi fratelli dal complotto dei
rettiliani, specie di lucertole giganti che grazie a
un dna ibrido assumono sembianze umane dopo
aver ingerito sangue. I rettiliani umanoidi mangiano i bambini e sono sulla Terra da millenni:
da qui governano le sorti del nostro pianeta facendo quadrare un po’ tutte le cose- epidemie,
guerre, crisi economiche, attentati terroristici- a
loro uso e consumo, e mentre i poveri ignoranti
si aspettano di vederli planare dal cielo e li immaginano grigi, verdi, o fosforescenti con la testa
tipo urlo di Munch, quelli sono già in mezzo a noi
e hanno la faccia di leader mondiali, quali Bush
padre e figlio, Clinton , Blair, Carlo e sua madre
la regina. David Icke non è un personaggio dei
cartoni animati e i suoi libri che parlano della
cospirazione del Nuovo Ordine Globale sono, nel
loro genere, tra i più venduti al mondo. Se Icke
e Homer se la prendono con i rettiliani, qualcun
altro ha tirato in ballo i Pokémon. In un articolo
apparso su “Il Giornale” alla data del 17 gennaio 2004 Massimo Introvigne riporta alcune frasi
virgolettate tratte da un discorso in cui Yusuf alQaradawi, autorevole predicatore di al-Jazeera e
personaggio di rilievo del movimento “I Fratelli
Musulmani”, spiega le motivazioni che nel 2001
portarono il governo dell’Arabia Saudita a vietare la trasmissione del popolare cartone animato
giapponese. Pikachu & company sarebbero una
sorta di cavallo di Troia per portare nel mondo
islamico la teoria evoluzionista di Darwin e la
sua legge del più forte: i Pokémon, infatti, sono
creature che possono evolversi acquistando
maggiori poteri, e subiscono una selezione naturale, attraverso cui solo chi meglio si adatta
all’ambiente sopravvive. Non bastasse questo,
Yusuf al-Qaradawi aggiunge che in ricorrenti
fotogrammi del cartone incriminato compaiono
triangoli e stelle a sei punte: non si può dubitare, è un complotto giudaico-massonico per trasformare tutti i bambini in ebrei o in atei. Fra
le altre diavolerie con cui i potenti della Terra
cercano di controllarci fin dalla culla, ricordiamo
la polverina magica che la piccola Pollon offre a
dei e semidei dell’Olimpo canticchiando “Sembra
talco ma non è! Serve a darti l’allegria!”: sappiate che è stata lei la prima pusher di tanti futuri
cocainomani. E poi i più grandi successi targati
Walt Disney, da “La Bella e la Bestia”, passando per “La Sirenetta”, “Il Re Leone” e i fumetti
di Topolino: tutto un pullulare di fotogrammi
equivoci, scritte “Sex” e 666 che compaiono capovolgendo e scomponendo ad arte le immagini.
Siamo accerchiati. Si trama alle nostre spalle.
Per fortuna, anche dopo che Dio è morto, non ci
mancano profeti che si adoperano per la nostra
salvezza e semplificano il male, in modo che tutti
lo comprendano e, soprattutto, abbiano ben chiaro chi sono i colpevoli e chi le vittime. I nostri
guru ci ricordano che “A pensar male si fa peccato, ma quasi sempre si azzecca”, perché, si sa,
l’uomo è infido e infidamente agisce. A usare il
caro vecchio senso comune e a fidarsi dell’apparenza, si finisce per far la parte dei disinformati
o dei complici del complotto. Peggio ancora, dei
semplici cretini. Risvegliamoci tutti quanti. E
se al risveglio avremo qualche innocua mania di
persecuzione, pazienza: ogni cura, si sa, ha i suoi
effetti collaterali.
Francesca Maruccia
UNA STORIA SBAGLIATA 25
MUSICA
Foto di Pietro Paciullo
MÙM
Più a nord dei sogni
Circa un mese fa aprendo la mia bella e cadenzata
newsletter della Morr music, ho avuto una
piacevole sorpresa: fra le tappe del tour europeo
dei Mùm, in promozione per presentare il nuovo
cd Sing along to songs you don’t know, c’era anche
il Teatro Royal di Bari. Il concerto era inserito
nel ricco programma del Festival Time Zones,
diretto da Gianluigi Trevisi e giunto ormai alla
ventiduesima edizione. Abbiamo avuto l’occasione
di intervistare Orvar, anima dell’intero mondo
Mùm, acclamata band del variegato panorama
islandese, con all’attivo già cinque album e varie
collaborazioni internazionali, remix ed una
colonna sonora. Ad incontrarli e vederli dal vivo
pare che se la spassino davvero molto, unendo alla
loro esperienza da polistrumentisti un fare molto
divertito nello svolgere quello che amano di più.
Questa vostra nuova avventura musicale,
la quinta per l’esattezza Sing along to songs
you don’t know è prodotta dalla Morr Music,
etichetta tedesca che di solito si concentra
su gruppi con forti identità musicali, e che
molti considerano come una label che ha in26 MUSICA
ventato un genere tutto suo. Dopo il primo
album uscito per la Tmt e i successivi per la
Fat Cat Records, perché questo cambio di
direzione artistica? Tale scelta è dipesa da
una evoluzione, una sorta di crescita della
band?
Dopo che abbiamo fatto il primo cd con l’etichetta islandese di un nostro amico, la TMT, ed altre
locali, con cui però abbiamo avuto un po’ di problemi, ci siamo rivolti all’inglese Fat Cat Records.
Nel frattempo, nel 2005 precisamente, abbiamo
scelto di fare “una capatina” a Berlino, e presso
la sede della Morr Music abbiamo incontrato Thomas (Morr) con cui, oltre a un interesse meramente professionale, abbiamo stretto ben presto una
forte amicizia. Quindi in breve tempo abbiamo
semplicemente preso la decisione di produrre, oltre a Yesterday was dramatic, today is ok, questo
nuovo lavoro con la Morr, perché ci sentivamo
davvero a nostro agio e in sintonia con ciò che vogliamo esprimere attraverso la nostra musica.
Tutti voi avete alle spalle background musicali davvero diversi – punk, musica classica
e addirittura musica a otto bit! Com è stato
fondere assieme tutti questi input sonori?
Avete avuto delle difficoltà ad andare incontro ai gusti d’ognuno?
Non ci sono state grosse difficoltà in realtà, poiché è sì vero che ognuno di noi ha una formazione differente, ma comunque ciascun componente
della band come puoi vedere è prima di tutto un
professionista, e sa e vuole far bene la propria
parte, senza nessuna restrizione. Ognuno suona il
proprio strumento – a vederli in realtà più di uno
- in totale accordo alla scelta musicale che proponiamo. Quindi no, è stato molto più semplice di
quanto si possa credere.
Il vostro show dal vivo è davvero entusiasmante: il sound è così forte, energico, non
perde un colpo, arriva come un’ondata di
piena vita, diretto ai sensi. Per non parlare
poi delle voci: la tua, profonda e potente e
quella di Silla - Sigurlaug Gísladóttir, cantante e polistrumentista anche lei – cristallina, pulita, capace di raggiungere note che
si potrebbero annoverare fra le corde di un
mezzosoprano. Come riuscite a portare le
vostre performance live a tale livello?
In verità non pensiamo, né parliamo molto di
quello che abbiamo in mente prima di suonare,
cioè non vi è nulla di davvero programmato, tranne la scaletta. Cerchiamo di essere il più naturale
possibile, senza analizzare troppo il tutto.
Avete realizzato la colonna sonora della versione restaurata di un classico del cinema
muto La Corazzata Potemkin di Ejzenstèjn.
Certamente deve essere stata un’esperienza
interessante, ma credo di non proprio facile
realizzazione. Com è stato per voi confrontarvi con questa ennesima sfida?
Senza dubbio è stata una magnifica occasione, ma
effettivamente allo stesso tempo non semplice. Ci
sono state altre colonne sonore realizzate per pellicole del cinema muto, come Il vaso di Pandora,
Nosferatu, Un cane andaluso dove fattore portante
della parte musicale era l’improvvisazione. Anche
per La Corazzata Potemkin questo modo di approcciarsi è stato per noi presupposto da dove partire,
ma credo che rispetto a quelli precedentemente citati, qui non è stata una passeggiata dover rendere
il preponderante aspetto politico attraverso la musica. Le immagini erano così potenti, ritmiche, che
dovevano da parte nostra rendere una collocazione musicale giusta. Comunque alla fine è andata
bene, e la pellicola rivisitata è stata proposta ad
un festival cinematografico spagnolo e poi anche a
Brooklyn, a New York.
Ho letto da qualche parte che il nome Mùm
non vuol dire nulla, una soluzione dettata
unicamente da una scelta grafica …
Difatti non ha nessun significato. C’è invece dietro
una spiegazione da associare a immagini: dovresti vedere le due emme come fossero due elefanti
molto stilizzati e la u, come se questi due a loro
volta tenessero fra zanne e proboscide, due tronchi.
Quest’ultima fatica è stato registrata fra
Islanda, Estonia e Finlandia. Siete stati in
un certo qual modo influenzati da realtà musicali così differenti?
Al principio solitamente registriamo sempre le
prime canzoni presso il nostro studio in Islanda,
ma comunque siamo sempre alla ricerca di posti
nuovi dove andare a rilassarci, sperimentare, e
poter mangiare allo stesso tempo. Questo perché
il fare musica con ritmi dettati non ci viene fuori
bene, perciò preferiamo seguire i nostri tempi e
scegliere luoghi dove poter, essendo anche produttivamente parlando molto indipendenti, stare in solitudine, incontrare nuova gente, aprirci
comunque a sempre nuove bellissime esperienze.
Domanda di rito: conoscete qualche artista
italiano?
Beh, fra gli evergreen sicuramente Mina e Fred
Buscaglione, ma abbiamo avuto anche l’occasione
di incontrare Gianna Nannini, perché Silla ha collaborato vocalmente parlando con lei: un’artista
davvero brava e con una forte personalità. Un altro gruppo che ho potuto ascoltare tempo addietro
e che stimo musicalmente sono gli Yuppie Flu.
Hai scritto un libro edito da Scritturapura,
tradotto in italiano con il titolo Scapigliata,
lisciata riscuotendo un discreto successo di
pubblico e critica. Il tuo scritto è stato paragonato ad una sorta di favola scura, un
po’ in linea con lo stile di Lynch. Attraverso
la letteratura, riesci ad esprimere qualcosa
che per mezzo della musica non viene fuori?
Non c’è in genere in tutti i tipi d’arte un movimento interiore troppo differente, lo spirito da cui
scaturisce è il medesimo. La differenza sta nel fattore solitudine: quando scrivi puoi raggiungere attimi di introspezione che il momento musicale non
sempre ti concede. Ma la ricerca e la voglia di fare
qualcosa soli a confronto con se stessi è davvero
tanta. Il confronto è di certo vitale per un artista,
ma spesso molto faticoso. Lo definirei una sorta di
bel compromesso.
Ultimissima: come definite la vostra musica?
Non ci definiamo in nessun modo, né amiamo inquadrarci in un singolo genere. Facciamo quello
che ci piace e che direi, sappiamo fare meglio.
Mariagrazia Gallù
MUSICA 27
IAMX
Creatività tra musica e travestimenti
Molti lo ricordano come leader degli Sneaker
Pimps, una band trip-hop dei 90. Iamx, il nuovo
progetto di Chris Corner, suona un tantino più
personale e decisamente più aggressivo nell’approccio alla composizione. Inoltre qui la varietà
di soluzioni musicali evidenzia una vena più
eclettica e la sua teatralità dark-glam sembra
essere diventata il centro dell’attenzione.
Ti piace essere attore sul palco e nei video? O è soltanto il tuo modo di essere,
un’espressione della tua natura camaleontica, del tuo singolare approccio alla creazione musicale?
L’esibizione e il travestimento sono parti importanti del mio sfogo creativo. Si sono sviluppate
nel tempo e mi hanno permesso di esprimere la
musica in maniera più diretta e realistica. Quando ero piccolo mia sorella mi travestiva sempre,
e questo era diventato un vero e proprio gioco
per lei e i suoi amici. Probabilmente lì è cominciato il mio amore per l’esibizione. Non mi sono
28 MUSICA
mai sentito un attore. È semplicemente un altro
lato della mia personalità. Più brutale, caotico e
rischioso. Mi sentivo meno “reale” quando con gli
Sneaker Pimps non mi travestivo affatto.
Per lungo tempo mi è sfuggito il perché spendessi tanto tempo ed energie nell’immagine, nella
scenografia e negli effetti visivi. Ma col passare
degli anni ho imparato che mi aiuta a “trasportare” la musica e a creare un’atmosfera speciale.
Aggiunge un’altra dimensione alla musica, che
non può essere espressa soltanto leggendo dei testi o ascoltando dei suoni. Sono anche in qualche
modo ricompensato dall’effetto che questa sperimentazione provoca sul pubblico, che è costretto
ad adattarsi e a sviluppare ed allargare le sue
stesse idee. Fa tutto parte del nostro essere una
tribù.
Che musica ascolti e quali dischi credi che
ti abbiano influenzato maggiormente?
Al momento ascolto solo musica classica. Mi piace Chopin, Steve Reich, John Cage, Shubert, Sa-
tie, Wagner… La classica mi rilassa e ripulisce la
mia mente quando sono in pausa durante i tour
ed il lavoro in studio. Sono sempre circondato
da forti rumori e quella musica mi fa staccare la
spina. In passato sono stato influenzato da molti
dischi e artisti. Troppi per essere elencati. Ma se
dovessi tornare ad essere un ragazzino e un fan
sfegatato, allora dovrei nominare David Sylvian
come influenza musicale maggiore. Secrets of the
Beehive era un disco magnifico. Pesante, sofisticato e bellissimo. Ha davvero stimolato la mia
immaginazione.
Cos’è il Kingdom of Welcome Addiction (il
Regno della Gradita Dipendenza)? Una sorta di paradiso in cui ogni dipendenza è ben
accetta, o intendi dire qualcos’altro?
Non credo che tutti i tipi di dipendenza sarebbero graditi in Paradiso. La parola Dipendenza
è spesso considerata con un’accezione molto negativa, solitamente associata a droghe e sesso.
Credo che dipenda da chi sei, da come affronti
la tua dipendenza e, soprattutto, se sei in grado
di uscirne.
Tutte le dipendenze sono estreme, che si tratti di
droga o di un gelato. Ti spingono in situazioni in
cui altrimenti non ti ritroveresti tanto facilmente; ti spingono a prendere decisioni affrettate. Se
impari da queste cose e la dipendenza si trasforma in un’altra esperienza di vita, allora si rivela
un processo produttivo. È un discorso diverso per
ogni individuo; se si riesce o meno a trasformare
la dipendenza in qualcosa di interessante, piuttosto che devastante. La “gradita dipendenza” ti
fa crescere, viaggiare più veloce e lontano fino
a un luogo in cui sei un po’ più saggio di prima.
Dicono che i tuoi testi siano cinici, ambigui, che parlano di sesso, droghe, ossessioni, religione e politica… Io ci vedo anche
dell’ironia. Credi che il modo in cui la stampa percepisce i tuoi testi sia corretto? E che
tipo di messaggio politico stai cercando di
trasmettere?
Tutti hanno un’opinione su ciò che sentono o
vedono; personalmente io ho dovuto imparare a
fregarmene di ciò che la gente pensa. La gente
mi ama e mi odia. È così che va il mondo. IAMX
è un progetto complesso e vorrei mantenerlo
tale. Mi interessano tutti gli argomenti che hai
menzionato, ma anche l’ironia e l’amore. Non è
roba zuccherosa e di facile consumo. In generale,
la gente che ama la musica tende ad esplorarla
in profondità. Quelli che non lo fanno, sembrano sparire. Se mi importasse di ciò che dicono
i critici, avrei smesso di fare questo lavoro da
molto tempo. Sono cinico, auto-critico, ossessivo,
non religioso. Potrei continuare all’infinito….
Cambia spesso anche la mia percezione di ciò
che scrivo. Spesso arrivo a capire quello che in-
tendevo dire veramente, solo dopo molti anni che
eseguo il brano in giro per il mondo; ma cerco
comunque di esprimere le sensazioni che provo
mentre scrivo, nel modo più preciso possibile.
A volte il mio messaggio è emotivamente caotico
e ambiguo, ma in fin dei conti spero che parli alle
persone che pensano in modo diverso.
È da un po’ che vivi a Berlino e ho letto che
ti trovi bene in questa nuova città. Ci diresti che impressioni hai avuto riguardo le
differenze tra Londra e Berlino?
Credo che Berlino sia diversa dal resto della Germania. Ha la sua mentalità, è un gran casino,
se ne strafotte e ti lascia il tempo e lo spazio per
respirare. È tragica per molti aspetti e romantica per altri. Sono affascinato dalle vie buie e
dalla storia buia di questo luogo. È l’orfanotrofio
mondiale degli artisti. Una casa sicura per molti
musicisti, scrittori, pittori. Economica e liberale.
Senza confini. Londra è un bel posto da visitare, ma se ci vivi ti accorgi subito di essere sotto
pressione; la pressione del dover essere qualcuno
a tutti i costi, la pressione di presentarti e spiegare te stesso. Soffocamento da aspettative di
successo. Dopo anni passati a Londra sentivo il
bisogno di un posto in cui potermi rilassare lavorando in pace, guidato dalla creatività, più che
dallo stress.
Non solo hai una schiera di fans in Europa, ma hai anche registrato serate sold-out
negli Stati Uniti. Deve essere stata un’esperienza indimenticabile (visto che Europa e
America sono considerati due pianeti differenti)… Sei venuto in Italia a marzo per
esibirti in due date. Com’è andata, ti piace
l’Italia?
Dovunque mi trovi ad esibirmi, vedo sempre la
stessa tipologia di persone. Gente affamata, che
adora travestirsi ed essere emotiva, gente che
potrebbe essere considerata stramba. Gente che
al concerto può sfogarsi e incontrare altri “freaks”. Trovare la stessa gente in tutto il mondo
è un’esperienza incredibile e dimostra come alla
fine abbiamo tutti gli stessi bisogni e le stesse
sensazioni, a prescindere da dove o come viviamo. Ovviamente ci sono delle differenze tra i vari
paesi, ad esempio Tedeschi e Americani hanno
bisogno di più tempo per aprirsi e lasciarsi andare, rispetto agli Italiani. Mi piacerebbe tornare
in Italia ad esplorare ulteriormente la singolare
follia italiana. I concerti a Roma e Milano sono
stati un’esperienza grandiosa e ci siamo sentiti
molto apprezzati.
Tobia D’Onofrio
MUSICA 29
LANGHORNE SLIM
Musica on the road
Arriva al terzo album, e raggiunge una nuova quadratura nel suono e nella composizione.
Meno ruvido e roots rispetto alle origini Langhorne Slim ci presenta Be set free un album
fatto di canzoni che non abbandonano lo spirito
blues ma riescono a spingersi verso atmosfere
più cinematografiche.
Secondo una tua dichiarazione la musica
folk è musica per il popolo. Hai anche detto
che è tua intenzione comunicare sensazioni
positive. Per di più hai contribuito a crearti
un’immagine da persona comune, viaggian30 MUSICA
do in tour per tutta l’America a bordo della
macchina di tua nonna. Fino a che punto
credi che la musica e la vita possano mescolarsi? Che ne pensi, ad esempio, dell’intreccio tra musica e temi sociali o politici che
sta tornando in voga nel lavoro di artisti
tuoi contemporanei come Brett Dennen?
Credo che tutta la musica sia per il popolo. Riguardo
alla macchina della nonna era solo un modo per viaggiare in tour. È stato un regalo di mia nonna per dimostrarmi il suo sostegno, per aiutarci nel tour: ecco
perché l’abbiamo fatto. Non ho una definizione particolare per la musica folk in sè. Credo che tutti quelli
Sono cresciuto in una famiglia in cui tutti amano
la musica. Mia madre è una cantante di talento e
i miei nonni degli appassionati che hanno saputo
farmi apprezzare alcuni dei loro musicisti preferiti. Mi piace qualsiasi musica con cui riesca
a stabilire una connessione. Non si può catalogare per periodi e generi… è solo un’emozione
a guidarmi. La mia band preferita al momento
sono i Dawes con cui stiamo girando in tour, e
recentemente ho scoperto il grande artista italiano Paolo Conte.
Ti ci è voluto poco più di un anno per pubblicare il tuo terzo album Be Set Free, che è
stato definito il tuo disco più maturo, vario
e organico di sempre. In cosa credi che si
differenzi dai tuoi precedenti lavori?
Ogni volta che crei qualcosa, metti tutto te stesso nel lavoro che stai portando avanti in quel
momento. Non c’è l’intenzione di cambiare, ma
probabilmente una naturale evoluzione che accompagna le nostre vite, mentre invecchiamo e
facciamo nuove esperienze. Non avevo in mente
i vecchi dischi, mentre lavoravo a Be Set Free; mi
sono semplicemente concentrato su ciò che stavo
facendo allora; su dove sono arrivato in questo
momento.
che scrivono musica definiscano le proprie vite e se
stessi. Credo semplicemente che sia tutta musica.
Spesso si parla di te citando i Violent Femmes, ma personalmente direi anche Cat
Stevens e Dave Matthews Band. In effetti
credo che il tuo repertorio sia più vasto e
più orientato verso la musica pop; include
generi come bluegrass, soul, blues e strumenti come tastiere, organo e fiati. Ci puoi
parlare del tuo background musicale e di
quali sono state le influenze più determinanti? Hai qualche band preferita nel panorama odierno?
I tuoi tour sono estenuanti! Suoni ogni singolo giorno spostandoti per tutta l’America
e verrai anche a Londra e a Berlino. Puoi
raccontarci delle tue più recenti esperienze al festival di Newport e al Lollapalooza?
Per noi suonare a Newport è stato davvero eccitante. Anche il Lollapalooza è stato grandioso;
avrei voluto andarci sin da quando ero ragazzino, ma non c’era mai stata l’occasione. È stato fantastico poterci andare per la prima volta
come musicista in scaletta. Amiamo viaggiare,
ci piace stare sempre in giro, è la nostra vita,
è quello che facciamo. È bello suonare in locali
con un pubblico più numeroso, ma ci piace anche
stabilire un contatto con la gente nei posti più
piccoli, sia in America che all’estero.
In alcune riprese girate ai tuoi concerti
suoni insieme a Seth Avett (degli Avett Brothers). Durante i suoi shows, invece, Seth
ha eseguito spesso la cover del tuo brano
Mary. Siete amici? Andrete in tour insieme?
Abbiamo incontrato gli Avett Brothers anni fa, a
New York, grazie ad un amico in comune. Siamo
rimasti amici da allora; abbiamo suonato insieme diverse date e spero che succeda ancora in
futuro.
Tobia D’Onofrio
MUSICA 31
IL TEATRO
DEGLI ORRORI
Torna il carrarmato rock
Sono, a mio parere, la migliore band italiana degli ultimi anni, la perfetta alchimia tra musica e
parole. Il loro nuovo album A sangue freddo è un
carrarmato rock capace di macinare letteratura,
musica d’autore, teatro, atmosfere hard, electro, noise. La band nasce nel 2005 dall’innesto
tra due band esplosive: One dimensional Man
(Pierpaolo Capovilla, Francesco Valente e Giulio
Favero) e Super Elastic Bubble Plastic (Gionata
Mirai). Capace di unire la violenza musicale dei
Melvins a Fabrizio De Andrè il Teatro degli Orrori è il nuovo rock italiano.
Il disco si apre con un brano che mi ha fatto subito pensare a Piero Ciampi. C’ è un
elemento cantautorale molto forte nelle
vostre canzoni, una scrittura che obbliga
all’ascolto, il tutto con un impianto musicale assolutamente dirompente che sembra
non appartenere a nessuna scuola italiana
ma piuttosto ne crea un’altra. Cosa ne pensi?
Wow! Grazie per le belle parole, ma non credo
che Il Teatro degli Orrori abbia inventato niente
di nuovo. Mi piace pensare di esser riusciti a fare
un buon disco, meritevole di essere esso stesso
un piccolo passo in avanti della tradizione, ché
la tradizione è tale solo se la rinnoviamo, guardando verso il futuro. Certo che c’è la canzone
d’autore nella nostra musica, e guai se non fosse
così. Il nostro è un tentativo di coniugare il rock
americano più intransigente, con la tradizione
32 MUSICA
cantautorale italiana: non so se ci siamo mai riusciti, ma almeno ci abbiamo provato. La dimensione teatrale oltre a ispirarvi sul
nascere è un elemento che rende la vostra
musica, e in particolare le vostre esibizioni,
delle esperienze uniche. Quanto la performance, l’atto è parte del vostro fare musica?
Il palcoscenico è la vita. Non c’è finzione in ciò
che facciamo, è tutto maledettamente vero. Non
siamo delle rock star che si pavoneggiano, siamo uomini veri, con tutto ciò che ne consegue. Il
nostro paradigma è il teatro artaudiano proprio
per questo. Il teatro come rappresentazione più
vera del vero. Se non giocassimo la partita nella
convinzione che essa sia sempre una prova grave
e capitale, forse non varrebbe la pena di giocare
tout-court.
C’è nella violenza, nell’urgenza di alcune
liriche anche un senso di solitudine di incapacità di essere parte di questo tutto, c’è
un gusto dolce dietro amarezze gridate in
faccia. Quali sentimenti vi hanno animato
nel comporre il disco?
La disperazione, e la voglia di cambiare il mondo.
Così com’è ci fa schifo. Dobbiamo fare qualcosa.
Fregarsene e pensare ai fatti propri, al tornaconto
personale, non è soltanto inutile, è stupido. Cosa vogliamo lasciare ai nostri figli, un paese governato da
manigoldi sporcaccioni? Non se ne parla proprio.... La letteratura nutre questo album, canzoni che, come non succedeva da tempo nel
rock, hanno senso. Oltre a Majakovskij (titolo di un brano)… quali letture si riversano nella vostra musica?
I riferimenti letterari sono molteplici e sempre
ben meditati. Ognuno di essi vuole esser un’allegoria, che dia ancor più senso al senso della canzone. Vorrei lasciare agli ascoltatori il piacere
di scoprirli da se. Voglio proprio vedere chi e se
qualcuno si accorgerà dove sta Faulkner, e dove
Pino Daniele. A sangue freddo si presenta come alternativo persino all’indie, sembra fare il giro
senza scegliere mai un genere o un’ etichetta in cui collocarsi. Credo appartenga a un
suo profondo senso politico, ma anche al
suo contenuto che è sintesi di esperienze
diverse che sommate superano una scena
un po’ incasellata in alcuni schemi. Che ne
pensi?
Cerchiamo di fuggire dai clichés, qualunque ed
ovunque essi siano. Forse non sempre ci riusciamo, ma con gli stereotipi non si va da nessuna
parte. Quei gruppi “indipendenti” che fanno a
gara ad imitare questo o quell’altro, mi fanno
una gran tristezza.
Oltre alle parole il vostro carrarmato rock
usa armi non convenzionali anche dal punto di vista musicale, rispetto al primo album il vostro sound si arricchisce, per altri
versi si inquadra in una forma nuova e più
limpida.
Abbiamo registrato alle Officine Meccaniche
di Mauro Pagani proprio per questo. Ci serviva uno studio di registrazione d’eccellenza, per
dare un tono alle canzoni più classicamente rock,
più raffinato dunque, e più intelligibile. È stata
un’esperienza avvincente, ne valeva la pena.
In questo disco ci sono una serie di ospiti
e amici.
Non c’è niente di più bello del cooperare insieme
ad altri. Se c’è un furto che ci fa il capitalismo, è
impedirci di fare le cose insieme, deciderle insieme, darsi obiettivi insieme. Nel caso specifico di
A Sangue Freddo gli ospiti li ha scelti Giulio, che
ricordo non è solo il bassista del gruppo, ma anche il produttore artistico. Usando le sue stesse
parole, Giulio ha cercato di creare degli “involucri” musicali ai miei testi, mettendo in atto un
processo di fascinazione reciproca.
Osvaldo Piliego
IL TEATRO DEGLI ORRORI
A sangue freddo
La Tempesta/ Universal
Rock applicato alla canzone d’autore,
testi densi di significato politico non
militante che scavano il quotidiano e
interrogano le coscienze sono gli ingredienti fondamentali che contraddistinguono l’ensemble de Il Teatro Degli
Orrori anche nel loro secondo album, A
sangue freddo.
Un disco che vuole ricordare lo scrittore nigeriano Ken Saro Wiwa (la titletrack) e il declino di un paese socialmente devastato come il nostro, che
scava nel profondo di un sistema malato usando le parole come proiettili che
colpiscono a spada tratta l’ascoltatore
nell’intimo.
Capovilla da libero sfogo alle sue passioni letterarie e nel farlo non risparmia niente e nessuno: violenza poliziesca, populismo straccione ed egocentrismo analfabeta dell’Italia contemporanea sono solo alcuni dei temi trattati
nei brani quali Il Terzo Mondo, Alt e
Mai Dire Mai.
Una band che fa già discutere di sé
per la rivisitazione del Padre nostro in
chiave rock.
Un disco ricco di contenuti e di ospiti
che pone il “karrarmato rock” tra le migliori proposte di questi anni zero.
Alfonso Fanizza
33
DID
Kumar Solarium
Foolica
SHANNON WRIGHT
Honeybee Girls
Vicious Circle
labbra e la voglia di premere il
tasto repeat del lettore.
Tobia D’Onofrio
VLADISLAV DELAY
Tummaa
Leaf
Registrato fra Torino e Bologna, il debutto dei Did si getta a capofitto in un magma di
scosse telluriche da dancefloor.
Se l’iniziale Hello Hello è techno-post-punk senza orpelli, la
successiva Time for Shopping
riporta alla mente il primi passi dei conterranei Subsonica,
anche se qui si canta in inglese.
Lo stesso vale per il terzo brano, che continua a spingere in
direzione di un post-punk elettronico sempre più orientato
verso la canzone pop. Another
Pusher Blues frena la corsa
per una riflessione meno rocambolesca, sempre però sullo
slancio di synth minacciosi che
ricordano i Liars o i TransAM
che furono. Molti brani hanno
l’appeal punk-electro-pop che
ha tutte le potenzialità per
sfoderare ottimi singoli come
Ask U2, dalle strofe biascicate
in classico british-style, oppure Sex Sometimes, sussurrata
fino al semi-ritornello. Purtroppo però suona tutto molto
prevedibile e non si abbandona mai la rigida struttura di
brani costruiti su tre note. Il
disco scorre abbastanza fluido
e non annoia, ma l’hit trascinante non arriva e si attende
un futuro più maturo e carico
di emozioni.
Tobia D’Onofrio
34 MUSICA
Una delle cantautrici underground più interessanti degli
ultimi dieci anni, la polistrumentista Shannon Wright
scrive un nuovo lavoro intenso
e multiforme. Dopo un incipit
confessionale, la Wright sfodera chitarre ruvide e soniche su
cui imbastisce i suoi tormenti
vocali. È Embers in Your Eyes
a colpire nel segno, con quella
sintesi magistrale di Blonde
Redhead, Siouxie e PJ Harvey.
Poi la title track abbraccia atmosfere più oscure, trascinata
da un pianoforte alla Bad Seeds in un brano che ricorda la
PJ di To Bring You My Love.
Subito dopo l’acustica cristallina di Black Rain spiana la
strada ad una copia carbone
di Suzanne Vega appena macchiata di Lisa Germano. Glitch
elettronici che fanno pensare
alla Bjork di Vespertine introducono Father, una preghiera
per acustica e violoncello che
s’impenna all’ingresso del pianoforte. E proprio il piano è il
protagonista delle ultime tracce, nella miglior tradizione di
autrici come Tori Amos e le
già citate Germano e Harvey.
Strings Of An Epileptic Revival
è il fiore all’occhiello, un valzer che non sfigurerebbe tra le
Murder Ballads di Nick Cave,
mentre la cover di Asleep degli Smiths manda tutti a nanna con un tenero sorriso sulle
Sasu Ripatti lavora da dieci
anni come musicista elettronico d’avanguardia e le sue
originali textures sono devote
alla sperimentazione ambient.
Questo nuovo lavoro a nome
Vladislav
Delay
s’intitola
“oscurità” ed è stato registrato
nella natìa Finlandia durante
i sei mesi di “buio”. Con l’aiuto
di Craig Armstrong (compositore di colonne sonore) Sasu
ci trasporta in un denso mare
di rumori e pulsazioni, in cui
risulta determinante la componente strumentale. L’elettronica pura, infatti, è messa da
parte in favore di un cospicuo
utilizzo di percussioni, fiati
e pianoforte, in composizioni
che occasionalmente presentano ritmiche compiute, altre
volte si perdono nella fluidità
del battito irregolare. Se in
molti casi lo sfondo si tinge di
pianismo classico, più spesso i
collage evocano atmosfere jazz,
in un susseguirsi di suggestioni free-form destrutturate alla
maniera dei primi Gastr Del
Sol. Un lavoro organico ed intenso che presenta anche momenti più “immediati”, come
l’iniziale Melancholia, costruita su evocativi stralci di piano,
e la trance robotica di Toive
che fermenta inesorabilmente.
Musica che dovrebbe agire sulla mente a livello subliminale,
ma che spesso si impadronisce
anche del corpo generando piacevoli scariche elettrostatiche.
Tobia D’Onofrio
VV. AA.
The Twilight Saga: New moon original motion
picture soundtrack
Atlantic
CATS ON FIRE
Our Temperance
Movement
Johanna Kustannus
Siete nella vostra stanza in
preda all’ascolto di quattro ragazzi finlandesi che vi propongono di scappare in allegria
nella vostra auto, d’estate senza condizionatore…
Sicuramente un bel disco, che
arriva da un precedente interessante, infatti il quartetto
nordico, cresciuto tra il più
raffinato pop britannico e una
serie di demo ed Ep prodotte
e distribuite fra le periferie
underground dell’indie, riesce
ad avere una certa visibilità
già con il loro primo disco The
Province Complains nel 2007.
Continuano sulle stesse linee
con Our Temperance Movement
che a differenza del precedente lavoro ha una forma più
semplice ed efficace, o semplicemente più pop. Quel che ne
viene fuori è un affascinante
crogiuolo d’influenze, tra tutte
lo spettro dei The Smith; infatti come non si potrebbe associare la calda e penetrante voce di
Mattias Bjorkas a quella di un
giovanissimo Morrisey, o non
sentirne l’influenza post punk
Ci cattura al volo la colonna sonora del vampire-teen-movie New
moon (secondo film tratto dall’acclamata serie di libri Twilight)
perché raccoglie insieme una nutrita schiera di ottimi musicisti:
non si sono ‘ripresentati’ all’appello i Paramore (giustificato il loro
timore di vedersi affibbiata per sempre la targhetta di ‘band dei
vampiri’) ma troviamo gradita la riconferma dei Muse con un remix alternativo di I belong to you (già nell’ultimo The Resistance); altri pezzi sono affidati ad ottimi cantatutori (e cantautrici) e
già possiamo apprezzare all’ascolto le linee compositive morbide
e raffinate del grandissimo Thom Yorke, della svedese Lykke Li
e della californiana Anya Marina (con la dolcissima Satellite heart). Il meglio però deve ancora arrivare, con la presenza nella
tracklist del fior fiore della scena indie rock newyorkese e internazionale: ecco allora i dirompenti e avvolgenti riff di Hurricane
bells e Band of skulls mentre di ottima fattura sonora le prove di
Sea wolf, Ok go, degli Editors (bellissima e struggente No sound
but the wind) e dei Grizzly bear. Ancora (come se non fossimo già
abbastanza soddisfatti) troviamo i Black rebel Motorcycle club,
i Killers e, ‘last but not least’, la ending credit song Meet me on
the equinox affidata agli immensi Death cab for cutie. Che altro
dire? Ben vengano i teen movie se accompagnati da una ricerca
musicale di tale qualità!
Oscar Cacciatore
che va dai The Felt ai The Jam,
con echi pop anni 80 un po’
ovunque… Un album dal gusto fluido e leggero che regala
anche quel sapore malinconico con chitarre mai monotone
e ricche di melodie, variegato
nelle sonorità anche dall’utili-
zo di strumenti come ukulele,
banjo clarinetto ed organo.
Questi “gatti sul fuoco” sanno
far ballare ma al tempo stesso
anche far pensare a ciò che si
vuole veramente essere.
Ivan Luprano
MUSICA 35
HOPE SANDOVAL &
THE WARM
INVENTIONS
Through The Devil Softly
Nettwerk
finale con voce filtrata e organo
che si sovrappongono al rumore delle onde del mare. Davvero
un disco senza tempo.
Tobia D’Onofrio
Elisabeth Kontomanou
Siren Song – Live At
Arsenal
Plus Loin Music
Dal revival psichedelico dei
primi anni ’80 nacquero a Los
Angeles gli Opal, un gruppo seminale in ambito dream-folk e
slo-core, che avrebbe poi cambiato nome in Mazzy Star in
seguito all’ingresso della nuova
cantante Hope Sandoval. Era il
1996 quando il mondo del rock
ascoltava gli ultimi sussurri
della mitica band artefice di
una musica dilatata, sognante
e sonnolenta. Hope Sandoval,
in veste di solista, avrebbe poi
ripreso il discorso lasciato in
sospeso con i Mazzy Star, accompagnata dai Warm Inventions tra cui figura l’ex My Bloody Valentine Colm O’Ciosoig.
Dopo il disco del 2001 la cantante collabora con artisti del
calibro di Air e Chemical Brothers e solo adesso, a otto anni
dal precedente, arriva il nuovo
album. L’inizio ha un piglio
deciso che ricorda PJ Harvey;
poi si passa ai brani confessionali con tonnellate di riverbero
alla voce; un tappeto acido alla
Pink Floyd con un cantato fra
Kate Bush e Jim Morrison (For
The Rest Of); un country-blues
sommesso; un valzer acustico
su arrangiamenti classicheggianti; il memorabile crescendo elettrico di Trouble; ancora
ballate country-folk ed un gran
36 MUSICA
Elisabeth Kontomanou è una
dea. Sensuale, intransigente, ammaliatrice. Nella sua
anima, soul e r’n’b; nel suo
background Billie Holiday, Ella
Fitzgerald, Bessie Smith, Louis
Armstrong. Nella sua voce, tutte le profondità della terra. Nel
suo canto, il racconto di tutti gli
abbandoni, gli amori assoluti,
le malinconie più struggenti.
E soprattutto, quel dettaglio
indispensabile, rarissimo, che
la rende così diversa da tutte le
altre, che dà alla sua voce quei
colori consolatori o devastanti,
a seconda dei casi, che sono
appartenuti solo alle più grandi cantanti jazz della storia: il
blues. Elisabeth canta il blues
con un’intensità che strappa
la pelle. Basta accostarsi alla
sua versione di Come Sunday,
contenuta in questo bellissimo
Siren Song, per essere colti da
un’irrefrenabile voglia di credere in dio, e cantare con lei
lode al Signore, proprio come
accade ascoltando Mahalia
Jackson che incise questo infinito brano di Duke Ellington
nel ‘58. Ma se ne trovano altre,
di perle nascoste, in questo
primo live della cantante afroellenica, vissuta a lungo a New
York, passata attraverso privatissimi drammi, e poi tornata
in Europa, per dividersi tra la
Francia, dov’è nata, e la Svezia, dove vive. La registrazione
testimonia del concerto tenuto
all’Arsenal di Metz nel gennaio
2008. Con lei, una sezione ritmica che l’accompagna ormai
da tempo, con il figlio Donald
alla batteria, il fedele pianista
Laurent Courthaliac, e Thomas Bramerie al contrabbasso.
Ma, soprattutto, una compagine orchestrale di 76 elementi,
l’Orchestre National de Lorraine diretta da Jacques Mercier,
che illumina la sua voce e la
esalta; e tre arrangiatori, tra
cui l’altro figlio della cantante,
Gustav Karlström, che è anche
autore del bellissimo Farewell e
di Dreams of Gold in cui duetta
con la madre, sfoderando una
nerissima voce soul. Elementi
che insieme ai celeberrimi A
Flower Is A Lovesome Thing, At
Last, I Put A Spell On You regalano poco meno di cinquanta
minuti di purissima gioia.
Lori Albanese
JÓNSI & ALEX
Riceboy sleeps
Parlophone
Guardando il documentario
Heima (A casa), il racconto del
free-tour casalingo dei Sigur
Rós, sono rimasto ammalia-
to dalla magia visuale-sonora
dell’Islanda, vulcano di band e
musicisti in continua eruzione,
tisana per l’animo. Le stesse
sensazioni provo ora ascoltando Riceboy Sleeps, il cd della
coppia Jón þór Birgisson (Jónsi
dei S.R.) e l’americano Alex Somers. L’eclettismo dell’intero
percorso dei Sigur non arriva a
questo lavoro (solo Von vi si avvicina in parte); è l’esaltazione
di tempi lenti e note dilatate.
Suoni eterei per pezzi esclusivamente strumentali, lunghi e
sinuosamente ridondanti sullo
stesso tema sonoro. Questo disco è come quei libri animati
per bambini: lo apri, lo ascolti,
sfogli pagine su un mondo che è
nordico, come l’Islanda, ma allo
stesso tempo tolto da ogni punto cardinale. Riceboy Sleeps
parte dalle viscere della terra
ed unisce il giorno alla notte.
Un must per Sigur-fans.
Dieghost
regala” un lavoro… Maturo?
Forse. Ben definito direi. Melodie suggestive, voci oltre i limiti
nazionali e ritmi elettro-folk; un’
armoniosa alternanza di strumenti tipicamente islandese.
Dopo esperimenti d’elettronica,
il precedente e godibile Go Go
Smear the Poison Ivy, i Múm acchiappano un senso al loro sempre vivo vagar sonoro, tra ballate e riusciti esperimenti, il tutto
condito con un tocco “geografico”
e poetico. Sento e risento Sing
Along, Hullabbalabbalúú o Kayray-kú-kó-kex e vago tra Islanda,
Estonia e Finlandia. Sono in studio con loro.
Dieghost
MARK KNOFLER
Get Lucky
Mercury
MÚM
Sing along to songs you
don’t know
Morr Music
Mettiamoci in fila, in mano
strumenti da antiquariato; accenniamo in tondo strane note.
Cantiamo canzoni sconosciute,
strane litanie venute lì per lì. Potremmo farlo. Ma senza riuscire
a beccare il suono della non tanto piccola orchestra Múm, (sono
nove a questo giro!) Il gruppo
che amo da sempre, del cui nome
ancora ignoro la pronuncia, “ci
In concerto continuano a chiedergli Sultans of swing e Romeo and Juliet, Money for
nothing e Walk of life. Lui acconsente, ma è chiaro che ormai abita altrove, in un mondo
sfuocato e color seppia come in
una fotografia di inizi ‘900, nostalgico e in chiaroscuro come
un film in bianco e nero. Ma se
c’è un musicista che ha fatto
della coerenza artistica un valore, quello è Mark Knopfler:
uno che se ne frega di chi lo
vorrebbe ancora una volta riunito agli Straits proponendogli
somme indicibili; uno che non
si cura di chi brontola che dovrebbe suonare più chitarra nei
dischi e se ne infischia di chi lo
ritiene datato e poco radiofonico. Ciò che più conta è che
Mark Knopfler, nel 2009, abbia
sfornato il suo miglior disco solista (insieme a Golden Heart
del ‘96 e Sailing To Philadelphia del 2000). E non importa
se qua e là riemergono passaggi musicali evidentemente
identici a qualcosa di già fatto
o se alcune strofe, atmosfere
e melodie ricalcano altre “vecchie” canzoni. Perché in fondo
si tratta di autoplagi: bazzecole
per uno che a sessanta anni, fa
un disco così. Un consiglio: Get
Lucky va ascoltato e riascoltato
senza fretta, non nell’i-Pod ma
nello stereo, magari la sera con
un buon bicchiere di vino. Sarà
un autunno più dolce!
Rino De Cesare
LEMMINGS
Lemmings
La grande onda
“Schizofrenia sicura” recita
il testo della loro Mai e credo
rappresenti bene il caleidoscopio di generi dei Lemmings.
Ispirati dai piccoli roditori per
il loro nome o dal videogioco
anni 80 poco importa. Quel
che balza subito all’ascolto
è l’attitudine al gioco che la
band ha nell’utilizzare i generi
più disparati per comporre
i brani. Ci sono un’evidente
fascinazio-ne per alcuni suoni
e atmosfere sixties (citazioni
surf, ballad bubblegum), un
trascorso punk, la tentazione
per i ritmi in levare (ska, reggae) e un’attitudine rock. Tutto
questo è sotto un cappello pop.
Basta aggiungere che la cover
scelta per questo disco di esordio è Tanz Bambolina di
Alberto Camerini. La firma di
Ra-b, gia’ autore e producer per
numerosi artisti come Piotta e
Cor Veleno è un sigillo di garanzia.
Osvaldo Piliego
MUSICA 37
38
AVANTI POP
Cinque brani di successo che piacciono anche a Coolclub
Jay-z + Alicia Keys – Empire state of mind
Dicono sia la nuova
“New York, New York”
di Frank Sinatra. Una
specie di inno postmoderno dalla Grande
Mela. Scomodare certi
paragoni è sempre antipatico e addirittura
pericoloso. Un brano
come questo, onestissimo, solido, composto da due talenti contemporanei, non deve essere paragonato a niente, diventare figlio più o meno illegittimo dei classici.
Siamo in un altro mondo, in un’altra generazione,
in un altro mercato. La musica si brucia in molto
meno tempo. E proprio per questo, è troppo presto
per dire se questo brano diventerà anthem. Domanda voyeuristica: ma perché Alicia Keys, nel
video, suona il piano piegata, manco fosse afflitta
da un’ernia?
Calvin Harris – Flashback
Uno dei musicisti meno
originali di sempre, un
campione dei campionamenti, sia in entrata
che in uscita: leggenda
vuole che anche Madonna si sia scomodata
per recuperare i suoni di questo scozzese
classe ’84. Il suo nome
d’arte è il modesto “The
King of Electropop”. A 23 anni ha prodotto Kylie
Minogue, a 24 Dizzee Rascal. Ha già mandato al
diavolo una superstar del pop, Lady Gaga, dicendole che il demo faceva così tanto schifo da non
meritare nemmeno un minuto del suo tempo. Non
si sa per quanto tempo riuscirà ad arrampicarsi
sugli specchi, ma nel frattempo saremo costretti a
ballare. Questa Flashback è una trappola, soprattutto quando la turnista di giornata, Ayah Marar,
inizia a cantare ruffiana. Bene, bravo. Bis?
Whitney Houston – Million dollar bill
Stiamo parlando di una donna vincente. Non si
può spiegare altrimenti l’inarrestabile (ri-)ascesa
di una delle voci più importanti del rhythm and
blues americano. I tempi del suo nuovo lancio
discografico sono completamente sballati: c’è da
elaborare il lutto globale per Michael Jackson,
l’immagine personale è sbiadita e distrutta (an-
che fisicamente), il matrimonio burrascoso con
Bobby Brown si è chiuso in malo modo e le brutte
storie con la marijuana hanno rappresentato l’ultimo avvenimento degno di nota. 11 anni senza
un brano inedito. Poi così, dal nulla ed in sordina,
lei inizia a far capolino nelle radio, poi sempre più
forte anche in TV, in un video che ripaga la Houston, in un colpo solo, di tante sofferenze. A 46
anni si fa scrivere il capolavoro della rinascita da
Alicia Keys, e si fa produrre dall’uomo che sta dietro Beyoncè, Swiss Beatz. E ora, chi la ferma più?
Daniel Merriweather – Impossible
Non sappiamo se Daniel ha ascoltato Whitney da giovane, ma
di certo non si sposta
tanto da quel mondo.
E’ un ragazzo di 27
anni; è originario di
Melbourne, Australia,
dove spopola; è profondamente
sottovalutato (eccezion fatta
per Mark Ronson, uno che di musica ne capisce,
a tal punto da lanciarlo come voce nel suo primo
singolo); continua a fondere classico e innovativo,
blues ed elettronica. Ha sensibilità nelle liriche e
senso del tempo. Ogni tanto lo si ascolta anche nei
media mainstream. Speriamo per lui che non sia
impossibile vederlo cantare per grandi platee.
Kings of Convenience – Boat behind
Non so dirvi se Erlend
Oye ed Eirik Boe, duo
di Bergen, Norvegia,
potranno mai godere di
buona stampa. Attaccarli è troppo semplice.
Sono i sosia scemi di
Simon e Garfunkel. Ci
hanno messo 5 anni per
scrivere un album perfettamente identico al precedente. Non vendono
più nemmeno nella loro Norvegia (mentre in Italia tengono, a tal punto che non è assurdo definire
il Belpaese come il loro primo mercato). Eppure,
è così difficile staccarsi dalla solita melodia, dai
soliti giri di chitarra, da quei suoni melensi, dal
coretto…qualunque cosa la critica dirà dei KoC,
sappiate che di nascosto tutti li ascoltano. Perché
sono irresistibili.
Dino Amnduni
39
40
DAMMI UNA SPINTA
Cinque artisti che ascolteremo in radio. Forse...
Pink Martini – Tuca Tuca
Raffaella Carrà sbarca
nell’Oregon. A questo
punto molti lettori si
saranno
allontanati
sbraitando, tutti gli altri proseguiranno nella
lettura, con un tasso
di curiosità diventato
ingestibile. Avete letto bene, un’orchestra
(sono in 11) distinta ed elegante, come i Pink
Martini sanno essere da oramai 15 anni, decide
di riproporre un classico trash, o cult, o kitsch, o
semplicemente pop. Con spirito ardentemente filologico e con una pronuncia italiana invidiabile
rielaborano il brano del 1970 in chiave esterofila. La chicca è nel bridge: un impossibile banjo fa capolino in una delle cose più interessanti
che un 2009 musicalmente mediocre ha saputo
esprimere.
Antony – Nessun dorma
Ancora un brano cantato in italiano, ancora il gusto del rispetto
filologico, ma i punti
in comune tra i Pink
Martini ed Antony finiscono qua, e sono
comunque molti di più
di quelli che sarebbe
possibile individuare
facendo un parallelismo tra Raffaella Carrà e
Puccini. L’italiano è simpaticamente stentato,
tipicamente anglosassone. L’interpretazione è
però lodevole e non è possibile escludere che questa “cover”, colonna sonora del prossimo spot Lavazza, non diventi una hit. Tanto, se Giusy Ferreri reinterpreta Rino Gaetano, allora vale tutto.
Yeasayer – Ambling alp
Attenzione a questa formazione semisconosciuta
proveniente dalla Grande Mela. Sono al secondo album, che uscirà nel 2010, e in questo primo singolo riescono a condensare ispirazioni (in
verità più europee che statunitensi) di diversi
registri musicali. Sono tanto eclettici da avere
problemi nell’autodefinirsi: il terzetto, infatti,
parla di sé come di un gruppo psico-snap-gospel
dell’America centro-orientale. E i voli pindarici
non finiscono qui: i live sono un’esperienza fat-
ta di progressioni rock e di allucinazioni visive
piuttosto vivide. Lontano dall’Italia ne parlano
un gran bene, e questo singolo fa effettivamente
ben sperare.
Rezophonic – Nell’acqua
Mentre l’Italia vince
i Grammy con Laura
Pausini e batte i grandi musicisti pop con
Alessandra Amoroso,
esiste una nazione
subacquea. Ed è proprio nell’acqua che si
nasconde il nuovo singolo dei Rezophonic,
super-collettivo di musicisti “alternativi” guidati
da Mario Riso, da sempre impegnato nel trasformare la passione comune in una forza creativa
che sia in grado di spostare l’opinione pubblica
(e i suoi soldi) verso cause spesso dimenticate.
Come il titolo suggerisce, il tema di questo brano
è lo spreco delle risorse idriche da parte dell’Occidente, ingenuamente inconsapevole della sete
che gran parte del mondo continua a provare.
Canta Caparezza, Roy Paci alla tromba, collaborano Cristina Scabbia (Lacuna Coil) e Livio
Magnini (Bluvertigo). Ah, i Bluvertigo. Ah, XFactor…
J Majik + Wickaman – Feel about you
Brancoliamo nel buio.
L’unica cosa certa di
questo brano è che la
BBC lo inserisce con
disinvoltura tra le varie Rihanne e Shakire.
Nemmeno Wikipedia
giunge in soccorso. Di
Wickaman si sa molto poco, ma possiamo certamente parlare di nuove (vecchie) tendenze nella musica britannica: sta tornando il
drum’n’bass, seppur in forme molto più addomesticate e radio-friendly. Chase and Status produce musicisti pop ed è ambitissimo, Wickaman
remixa, produce, edita, e si fa vedere in classifica. Vedremo se sarà un fuoco di paglia che dura
pochi mesi o se stiamo assistendo al più improbabile dei revival.
Dino Amenduni
41
SALTO NELL’INDIE
In foto: Mimes of Wine
MIDFINGER
RECORDS
Questa volta il nostro viaggio alla scoperta delle
etichette italiane sconfina per incontrare Midfingers records. Italiani ma con casa e attività a
Londra questa nuova etichetta sembra non avere neanche di genere.
Midfinger è pioniera in Italia per una serie
di cose, ci racconti come nasce, perché, che
anni erano?
Midfinger è nata da una esigenza dei suoi fondatori per la ricerca di strade alternative a quelle
convenzionali riguardo gli aspetti legati al mondo della produzione, della distribuzione e della
promozione della musica. Un ruolo abbastanza
rischioso ed inizialmente messo in discussione
dai media di settore e dai concorrenti. Erano gli
ultimi anni della inconsapevole new economy,
la scena alternative caratterizzava la grande offerta di musica mainstream alternativa al pop,
l’indie nostrano iniziava ad essere una concreta
realtà di nicchia, tutto questo mentre le prime
città venivano silenziosamente cablate in fibra
ottica. Stiamo parlando dei primi anni 2000. Midfinger nasce in questi anni tra Varese e Milano,
per aiutare band esordienti nello sviluppo arti42 MUSICA
stico, prevalentemente in studio. Visto il periodo
storico in cui abbiamo mosso i primi passi, ci è
sembrato logico avere una visione innovativa e
di ricerca, se non altro per differenziarci dalla
massa di etichette già presenti sul mercato. Un
mercato che iniziava già a mostrare una prima
importante flessione. Così nel 2002, Midfinger
e la sua costola Rumorerosa (booking) cercano e
siglano un accordo con un colosso di quel periodo, Vitaminic S.p.a. In quegli anni Vitaminic era
l’unica strada percorribile per vendere musica
on-line ed una partnership con loro ci ha garantito una buona visibilità in una fase importante
come quella di lancio per essere forse la prima
vera net-label in Italia. Negli anni a venire ci
siamo inventati gli ep ed i promo digitali per promuovere le nostre band esordienti, il Ghost Day
a Varese ed i Midfinger Party in Europa.
La vostra attività è caratterizzata da un
forte legame con l’estero, ce lo spieghi?
Gigi Piscitelli, mio socio in Midfinger, ad un certo punto ha deciso di trasferirsi a Londra. Dopo
poco anche Giorgio Pona lo ha seguito. Grazie a
questa decisione ci siamo ritrovati, non senza
difficoltà ma con grande dedizione e lavoro da
parte di tutti, ad avere una presenza importante
a Londra, con anche uno studio di registrazione.
La vera svolta verso l’estero è arrivata anche dai
Midfinger Party, una serie di eventi organizzati in Europa dove band di vari paesi avevano la
possibilità di esibirsi e collaborare alla promozione ed alla realizzazione. Abbiamo organizzato
diversi Midfinger Party a Londra, due sono stati
organizzati per i 60 anni di David Bowie contemporaneamente a Milano e Roma, grazie anche
all’aiuto di DNA concerti. Il primo Midfinger
Party organizzato a Berlino ha visto più di 2.000
spettatori paganti. Insomma, come dovrebbe essere per ogni progetto agli esordi, le radici sono
state ben piantate grazie alla concretezza di argomenti come Live e Produzione, ovvero nel nostro caso, i Party e lo studio.
In catalogo anche piccole perle di indie
italiano, ci ha particolarmente colpito il
lavoro di Mimes of wine ma ci sarebbe l’imbarazzo della scelta, quali sono le vostre
direttive artistiche?
Non abbiamo un genere di riferimento, piuttosto
delle coordinate emozionali che devono spiccare
nei dischi degli Artisti con cui collaboriamo. Parlo di originalità e capacità di emozionare. Imprescindibile invece un’alta qualità della proposta
live. Nel caso di Mimes of wine tutte e tre, dal
nostro punto di vista, sono state da subito evidenti.
Midfinger Rercords non è la sola attività di
Midfinger, o sbaglio?
A Midfinger Records, da dicembre 2008, abbiamo affiancato anche un magazine on-line pubblicato a cadenza mensile. Midfinger Mag. Con
questo magazine fotografico diamo sfogo alle nostre “altre” attività lavorative, mantenendo però
una direzione creativa e di contenuti in linea con
quello che è l’immaginario Midfinger. Musica
live, moda, arte, illustrazioni, architettura, fotografia, party, cinema sono messe sullo stesso
piano grazie all’assenza di grafica ed alla predominanza dell’immagine fotografica. Insomma un
giornale on-line che racconta l’arte e la cultura
ad immagini. Midfinger Records e Midfinger
Mag poggiano su una solida struttura di creativi
e societaria che è Souldesigner®, un laboratorio
di ricerca che collabora con le maggiori agenzie
ed aziende nel cercare le nuove tendenze dell’immagine fotografica, video e interattiva.
Quali sono, secondo te, le differenze più
grandi tra il mercato italiano e quello in-
glese?
Trovo che il mercato Italiano sia ancora caratterizzato dal prodotto mainstream inteso nel
senso più conservativo e pop del termine. Vuoi
per l’attenzione che i programmatori artistici
delle radio e tv dedicano ai contenuti musicali,
vuoi per la poca voglia di rischiare delle etichette
che detengono le grandi quote di mercato. L’indie è ancora una nicchia da sviluppare, ma che
soffre le ambizioni personali dei musicisti, dei
discografici e degli addetti ai lavori, che troppo
spesso cedono alle lusinghe della scorciatoia televisa o della major di turno, perdendo così fascino, identità e in certi casi addirittura forza
verso il pubblico dei sostenitori fondamentali.
In UK invece capita molto più spesso che una
band emergente faccia il cross-over in un mercato mainstream, entrando in classifica ma proponendo musica molto diversa da quella programmata in precedenza dalle radio. L’innovazione
viene premiata dagli addetti ai lavori, che in
qualche modo educano così il pubblico all’ascolto
e ad amare le novità. Trovo sia inutile piangersi addosso, credo piuttosto che per un’etichetta
Indie che produce musica con testi in inglese sia
importante pensare di fare le valigie e spostarsi
all’estero. L’Inghilterra ha un mercato discografico duro, pieno di grandi investimenti e di nomi
importanti, dove è davvero difficile avere visibilità. Penso che Midfinger, dopo anni, si stia ancora
muovendo a piccoli passi tra i punti di riferimento della discografia mondiale, ma trovo che sia
stato fondamentale per noi questo passaggio, che
ci ha dato la credibilità per firmare artisti come
Agaskodo Teliverek e Jeniferever o per collaborare con Andy Savours alla produzione del primo
disco dei Drink To Me. Piccoli passi dicevo, ma
sul suolo inglese.
Questo numero di Coolclub.it è dedicato ai
“complotti”. Qual è secondo te il più grande
complotto della storia della musica?
Non saprei di preciso, come prima cosa ti direi
Payola negli USA. Ovvero l’uso comune tra emittenti radiofoniche nel chiedere soldi alle etichette discografiche, o forse viceversa, l’uso comune
delle etichette discografiche di pagare i dj delle
emittenti per programmare determinati brani.
Non so se si possa parlare di complotto ma sicuramente fu un grande scandalo che evidenziò
uno dei principali mali del sistema musica. Per
restare nel nostro paese forse quello della casa
editrice che vendeva enciclopedie da acquistare
come biglietto d’ingresso per potersi accreditare
alle selezioni tv dello zecchino d’oro.
Antonietta Rosato
MUSICA 43
44
In foto: Tori Amos
ON
THE
ROCK
Un regalo per Natale
Consigli per gli acquisti 1.0
Christmas In The Heart è il disco natalizio di
Bob Dylan. Quindici tracce a sostegno di alcune associazioni che lottano contro la povertà e la
fame: “ognuno di noi deve fare tutto il possibile
per sostenere chi soffre. Sono onorato di collaborare con il Programma alimentare mondiale”
ha risposto al cronista del Daily Mirror; “È una
tragedia che più 35 milioni di persone, dodici
milioni di questi bambini, spesso vanno a letto
affamati e si svegliano al mattino senza sapere
quando sarà il loro prossimo pasto. Mi unisco a
questo Progetto nella speranza che i nostri sforzi
possano portare un po’ di sicurezza alimentare
ad alcune persone almeno nei giorni di festa”.
L’album è già schizzato in testa alle classifiche
di Billboard. Bellissimo e spassoso il video che in
questi gioni è disponibile sul sito (www.bobdylan.com) che ha per tema Must Be Santa.
Consigli per gli acquisti 2.0
I Los Lobos cantano Walt Disney. Anche in questo un mix gustosissimo e festaiolo di tex mex.
Due icone della cultura di L.A., i Lupi e il padre
di Topolino, insieme per fare baldoria. “siamo
onorati che i Los Lobos abbiano scelto di celebrare l’eredità musicale della Disney, in modo gioioso e bello”, ha detto il Presidente della casa ame-
ricana David Agnew. Alcuni brani sono davvero
irriconoscibili, ma cattureranno gli appassionati
come gli originali conquistano i bambini.
Consigli per gli acquisti 3.0
È arrivato nei negozi solo da qualche giorno Midwinter Graces il tributo natalizio di Tori Amos.
Come la figlia devota di un reverendo reinterpreta vecchi inni religiosi. Dodici brani con un
sound accessibile, cantati come solo lei sa fare.
Una celebrazione della tradizione festa del solistizio d’inverno e del Natale. L’album è molto
bello, vabbhé io amo Tori Amos...
Consigli per gli acquisti 4.0
Ed ora magari per completare i nostri acquisti
sempre in tema di album musicali ci rivolgiamo
a quanto pubblicato in passato. Solo per i super
appassionati dei Beatles. Dal 1963 al 1969 i Beatles registrarono ogni anno dei corti messaggi
natalizi per i loro fan. Le registrazioni venivano
salvate su LP e spedite gratuitamente ai membri inglesi del loro Fan Club. Nel 1970 la Apple
Records pubblicò una raccolta di tutti i sette
messaggi.
Vittorio Amodio
MUSICA 45
LIBRI
L.
R.
CARRINO
Intervista con l’autore dell’imperdibile Pozzoromolo
Ci sono libri che sanno entrarti sotto la pelle,
come un tatuaggio e da lì non li cancelli più. Ci
sono libri, poi, fra quelli che ti entrano sotto pelle che si meritano un posto speciale. Pozzoromolo di Luigi Romolo Carrino, pubblicato da Meridiano Zero, io me lo sono tatuato vicino al cuore.
Ci sono libri che quando li leggi pensi che chi li
ha scritti deve aver sofferto molto nel farlo, perché andare a toccare certi punti dell’anima non
può che essere doloroso. Ci sono certi personaggi, come Gioia, il transessuale rinchiuso tra le
mura di un ospedale psichiatrico giudiziario per
un delitto che non ricorda di aver commesso, e
di cui le pagine di Pozzoromolo sono le memorie,
distorte, rubate agli stati di incoscienza e sonnolenza dati dagli psicofarmaci, ci sono certi personaggi indimenticabili, per spessore e grandezza.
Lo dico senza retorica: Pozzoromolo è senza
dubbio la cosa migliore che ho letto negli ultimi
anni. Non leggo moltissimo, forse, ma di bei libri ne ho letti, e questo certamente è il migliore.
Leggetelo, piangete, innamoratevene e fatelo
leggere a tutte le persone che reputate intelligenti. Ve ne saranno grate.
La cosa più straordinaria di Pozzoromolo,
il tuo capolavoro in questo libro, è senza
46 LIBRI
dubbio la lingua. Il tuo personaggio, Gioia,
usa un lingua che non è italiano e non è
dialetto, non è linguaggio comune e non è
linguaggio poetico ma tutto questo insieme. Che tipo di lavoro hai fatto sulla lingua?
Il mio personaggio utilizza diversi registri a
seconda dei momenti del libro. C’è il registro
dettato dalla terapia farmacologica, che è questo italiano misto al dialetto, poi c’è il Remerol
che la riporta ad uno stato quasi infantile con
il giochino del c’era c’era, poi a metà romanzo
diventa tutto più lucido per Gioia e quindi anche
il suo linguaggio si adegua. E infine, nella parte
finale quando lei viene completamente fuori c’è
questo linguaggio altissimo, poetico, quasi shakespeariano, senza voler fare paragoni. Però
quando Gioia dice la padre “Torna a saldare al
buio tutte le braccia che non mi hai aperto” è
il suo momento più alto, più poetico e forse più
autentico.
Io credo che ogni storia, ogni personaggio, abbia
bisogno della sua lingua. Nel mio prossimo libro utilizzerò un altro registro linguistico. Così
come è stato in Acqua storta. Non mi interessa
rifarmi, ripetermi. Non è questa la mia idea di
letteratura. Gioia è un misto di infanzia conta-
dina, vive a Roma per due anni dopo essere scappata da un manicomio e poi vive per 23 anni in
una cella a studiare, a leggere. Ho cercato di seguire io stesso il percorso di Gioia, di immedesimarmi con lei. Il libro è stato scritto in vent’anni
e si vede, o almeno spero.
Già con Acqua storta ci hai abituati a personaggi non convenzionali, molto originali
e qui con Pozzoromolo, tiri fuori Gioia, un
personaggio unico e meraviglioso. Ma chi
è Gioia?
Intendi dire se Gioia sono io? Se c’è dell’autobiografismo? Gioia è sicuramente una parte di me
che mi è sempre appartenuta, per il suo processo
identitario, quello che i redattori di Meridiano
Zero hanno definito ambiguità sessuale. E poi
anch’io come Gioia in un lungo periodo della mia
vita utilizzavo la scrittura come catarsi, come
cura. Ero praticamente muto, non parlavo. Insomma, molte delle cose di Gioia sono mie come
la paura di non riconoscersi, di non sapersi rappresentare per come ci viene detto di rappresentarci, l’incapacità di pensarsi.
Ovviamente nel libro confluiscono tantissime
esperienze e tantissime passioni come la psicologia o gli studi sul ricordo di Stern. Ancora, ci
sono vari esorcismi, i rapporti con miei genitori,
il nodo parentale. Detto come va detto sono contento che ‘sto libro sia finalmente uscito, che mi
abbia liberato da alcuni fantasmi.
Mi rendo conto che questo libro mi ha aiutato
davvero a “guarire” da certi mali, me ne rendo
conto adesso che sto quasi finendo il mio terzo
romanzo col quale vado a toccare i calciatori gay.
Mi ammazzeranno. Non mi ha ammazzato la Camorra, mi ammazzerà tutta l’Italia.
Ci sono dei maestri ai quali in qualche
modo ti rifai?
Certo e sono tantissimi. Sicuramente Pasolini.
Non voglio fare paragoni, però credo che tra Acqua storta e Una vita violenta le affinità siano
tante. E poi Elsa Morante. Lei è straordinaria,
certo è molto descrittiva, ma ha scritto delle pagine bellissime dalle quali non si può prescindere.
E poi la trilogia di Agota Krsitof, un vero pugno
nello stomaco, Il profumo di Suskind, e poi autori immensi come Proust, Emily Dickinson, o le
poesie di Mariangela Gualtieri, una parte, verso
la fine di Pozzoromolo è ispirata al suo Monologo
del non so. Ma ci sono anche scrittori giovani,
contemporanei come Giorgio Vasta o Alessio
Arena. Nel finale del libro cito i loro lavori. Alessio è un mio caro amico, Giorgio Vasta invece
non lo conosco e spero che non se la prenda a
male, ma il suo libro è stata una delle cose più
interessanti che ho letto nel 2009.
Quello che invece mi annoia nei contemporanei è
la ripetitività: il sessantesimo commissario simpatico che ha un vezzo particolare che lo distingue dagli altri. Dove l’unica cosa che conta è la
storia, a volte nemmeno così originale. Per carità
ci vuole talento anche per serializzare un personaggio ma non è quella la parte che mi interessa,
non è quella per me la letteratura.
Ti capita mai, mentre scrivi di pensare
come avrebbe scritto questa frase Pasolini,
o la Dickinson (per citare due autori che
hai nominati)?
Il mio motto è leggi e dimentica. Certo mi capita
di riconoscere in quello che scrivo echi di quello che ho letto, ma questo è normale perché poi
quello leggiamo entra a fare parte del nostro bagaglio di esperienze. Quindi se mi capita di richiamare con la mia scrittura altri autori è fatto
sempre senza intenzionalità. Poi c’è un altro livello che è quello della citazione voluta e cercata.
In Pozzoromolo faccio una serie di citazioni che
vanno dalle canzoni sceme ai poeti che amo di
più. Il disocrso qui sarebbe lunghissimo, perché
ovviamente se saccheggi un autore poco noto è
disonesto, se citi un grande autore è un omaggio
che tu fai. Qualcuno per esempio dopo aver letto
Pozzoromolo mi ha detto “ma questa è Alda Merini!” E certo che è Alda Merini, è citata. Ecco,
secondo me il discrimine tra il lecito e l’illecito
sta nel citare la fonte.
Acqua storta ha avuto un bel successo di
pubblico. Te l’aspettavi e che cosa ti aspetti
con Pozzoromolo?
Il mio primo libro ha venduto veramente tanto
per essere un esordio e con una casa editrice medio piccola come Meridiano Zero. Quando abbiamo avuto i dati delle vendite ho detto: “Devo dire
a mia madre di smetterla di comprare copie del
mio libro!”. Battute a parte è stata davvero un
abella sorpresa, ma non penso di bissare il successo con questo secondo romanzo. Con questo
libro non penso di superare le duemila copie. I
motivi sono tanti: l’utenza di Acqua storta è stata molto di genere, quasi il 70/80 per cento erano
lettori omosessuali o donne. E poi Pozzoromolo è
un libro molto più difficile, più duro, più pesante
forse. Quello che vorrei è che chi ha apprezzato
Acqua storta leggendo questo dica “Wow ma Carrino è uno scrittore!”.
Dario Goffredo
LIBRI 47
ELISABETTA LIGUORI
Rossano Astremo intervista la coautrice
del suo ultimo libro Tutto questo silenzio
La genesi di Tutto questo silenzio, romanzo pubblicato da pochi giorni da Besa e scritto da me
ed Elisabetta Liguori è da far risalire a una mia
idea che mi ha ossessionato per un po’ di tempo
un po’ di anni fa: quella di scrivere un romanzo
sulla caduta e la rinascita di una famiglia italiana. L’idea sarebbe rimasta tale se non fosse intervenuta nella stesura del romanzo Elisabetta
Liguori, la quale ha deciso di farsi intervistare
dal sottoscritto per svelare alcuni aneddoti sul
libro.
Dopo quasi quattro anni dall’inizio della
scrittura di Tutto questo silenzio, finalmen48 LIBRI
te il nostro romanzo arriva nelle librerie.
Vuoi raccontare ai lettori di Coolclub.it
perché agli inizi del 2006 hai accettato di
scrivere la storia della famiglia Bordini assieme a me?
Perché mi fidavo di te. Ero certa che dietro il
soggetto letterario del quale mi avevi parlato la
prima volta ci fosse un’urgenza autentica. Ho
accettato da lettrice, per una specie di patto implicito, d’intesa già esistente tra la tua scrittura
e la mia lettura, tra la mia scrittura e la tua lettura. Non credo che sarebbe stato possibile altrimenti. Inoltre la tua storia mi rassomigliava.
Sfiorava pericolosamente quelle che da sempre
sono le mie paure, i miei demoni, i miei temi. La
famiglia cioè, il suo decadere, la deriva del tempo
che la rende opaca, che la sfinisce, il senso di fallimento personale che ne può derivare e al quale
la maggior parte di noi continua ad opporsi con
risultati i più diversi. Ma non solo. Ho accettato
anche perché l’idea di violare l’apparente isolamento che fa parte dell’immaginario dello scrittore mi divertiva molto.
Molti si chiederanno come abbiamo fatto a
scrivere un romanzo a quattro mani. Diciamo subito che non è totalmente impossibile. Dimenticate la visione romantica dello
scrittore colto dall’ispirazione repentina.
Noi siamo stati molto più razionali. O, almeno, così mi sembra. Che dici al riguardo?
Tu sei stato razionale!?! Curioso parlare di razionalità per una storia come la nostra, che ha
tratti di tipo surrealista. Ma in fondo non ti sbagli: abbiamo scelto di costruire per immagini la
nostra storia per dare maggior forza alle ragioni
psichiche e d emotive dei nostri personaggi. Lo
abbiamo fatto con convinzione. Abbiamo utilizzato tecniche rigorose, talvolta di tipo cinematografico, per suddividere passato e presente,
sogno e veglia, desideri e ricordi, in scene. Abbiamo costruito con metodo quasi scientifico la
discesa che porta la famiglia Bordini all’attimo
di follia e poi la sua risalita. Abbiamo ragionato,
programmato, scandito, scritto e riscritto. Abbiamo sempre equamente diviso il lavoro, ci siamo
confrontati spesso in corso d’opera e corretti reciprocamente alla fine, ma abbiamo lasciato che
le nostre voci narrative rimanessero distinte,
pur mescolandosi. Ecco, in verità, lavorare sulle nostre voci per avvicinarle senza confonderle,
sentire che pagina dopo pagina si trasformavano
naturalmente, credo sia stata per me la parte
più emozionante del lavoro. E forse anche quella
meno razionale.
Più andavamo avanti con la scrittura più
ciascuno di noi si affezionava ad uno dei
personaggi. Io, ad esempio, ho preso una
cotta per Paola, la figlia maggiore di Mirko e Federica. Non so, ha quell’aria fragile e decadente che apprezzavo molto nelle
ragazze quando ero adolescente. Infatti,
molti dei capitoli su Paola li ho scritti io.
Tu, invece, a quale dei personaggi sei più
legata?
È Federica la mia preferita. La moglie, la madre, l’infermiera. Lei è quella che non riesce a
perdonarsi nulla, alla quale nessuno perdona
nulla. Lei è volontariamente crudele, perché crede di non aver altra scelta. Il silenzio è la qualità
imposta alla sua vita, il colore e la temperatura,
ed è per quello che soffre. Vorrebbe aver voce,
dire, essere, poter scegliere ancora, ma non ci
riesce. Eppure è certa di meritarlo, di avere un
credito nei confronti della sua esistenza, e quindi l’indifferenza, la precarietà, il malessere del
suo universo, le risulta ancora più inspiegabile.
Federica è il fallimento che diventa energia, senza trovare la giusta canalizzazione. Mirko, suo
marito, pur desiderando le medesime cose, non
le è di alcun aiuto. Vivono ciascuno nel proprio
altrove e non si incontrano più. Hanno progressivamente smesso di fare gli stessi progetti, di
guardare insieme al futuro. Il futuro non c’è più,
cancellato da un presente eterno, da un buco
nero, avulso dallo scorrere reale del tempo. Sì.
Mi piace Federica e mi fa paura: vive in un “bosco di vetro”, proprio come nel manifesto del surrealismo di Andrè Breton.
Diciamolo subito. Il nostro romanzo non è
un giallo. Ok, c’è una vittima e c’è un colpevole. Dimenticate, però, le storie di Conan
Doyle o Agata Christie. Il nostro libro è più
simile alle storie del Tenente Colombo in
cui si capovolgono le regole del giallo e vittima e colpevole si conoscono sin da subito.
Ancora una volta tu, dopo “Il correttore” ti
trovi a rompere gli ingranaggi della scrittura di genere per utilizzarla per fini altri.
C’è una ragione specifica?
La ragione è sempre quella: comunicare, comunicare, comunicare. Creare coscienza comune
intorno ad un tema che sento importante. I generi narrativi sono i ferri del mestiere di quegli
strambi artigiani che siamo, costretti ad usare
(e ben felici di farlo!) come materia prima noi
stessi, frammenti di anima, pelle, ossa, memoria. Nel nostro romanzo la struttura di genere,
come dicevi, è stata forzata. La vicenda è divisa
in due parti ed ai miei occhi appare ora come una
linea retta aspramente spezzata verso il basso.
Non c’è nulla da scoprire, ma molto da condividere. E se il Tenente Colombo ogni tanto viene
in mente anche a me ( lo amavo tanto!) è forse
perché anche lui, come i personaggi del nostro
romanzo, rientra in quella categoria di uomini
comuni, perdenti dal cuore guizzante, destinati
a grandi sfighe, benché dotati di enorme sensibilità e visionarietà.
Ultima cosa. Se dovessi definire Tutto questo silenzio con una frase? Che romanzo abbiamo scritto?
Un romanzo sulla difficoltà di vivere nel mondo, così come lo immaginiamo oggi. Ma, tu lo sai,
una frase non mi basta. Un romanzo non mi basta. Non mi basta mai.
Rossano Astremo
LIBRI 49
50 LIBRI
MAYUMI HATTORI
L’oscurità e la luce
Edizioni Controluce
Il titolo è L’oscurità e la luce,
scritto dall’autrice giapponese
Mayumi Hattori e pubblicato
dall’editore pugliese Controluce. Un libro pubblicato molti
mesi orsono ma che, ora, grazie
ai forum, ai social network, al
passaparola e alla lungimiranza di qualche critico, fa
parlare di sé. Una prassi poco
usata nel mondo dei libri di
oggi, pura merce con data di
scadenza sopra impressa. Dopo
pochi mesi se un libro non
fa il botto cessa di interessare, le librerie lo accantonano,
lasciando spazio alle nuove
uscite. Loredana Lipperini,
la giornalista di Repubblica e
della trasmissione radiofonica
Fahreneit nelle pagine del suo
blog ha definito L’oscurità e la
luce un “romanzo bellissimo”,
che consiglia vivamente “per
la grazia e la forza con cui la
storia viene narrata, senza un
alito di autocompiacimento nonostante la maestria con cui la
scrittrice cambia registro man
mano che Reia/Rei cresce”. Sì,
Reia è il nome della bambina
cieca che all’inizio della storia
ha tre anni, è prigioniera e le
uniche presenze che le sono a
fianco sono quelle di suo padre
e della sua custode, la feroce
Dafne. Quando compie tredici
anni, tutto cambia. Reia viene
lasciata da suo padre in un cimitero, viene ritrovata dalla
polizia e portata in ospedale.
Verrà operata e le sarà restitui.
ta la vista. E scoprirà di essere
un maschio, rapito ai suoi veri
genitori e racchiuso in una favola. Favola moderna che si colora di tinte noir per un romanzo dalla trama coinvolgente,
scritto magistralmente da una
scrittrice, la Hattori, scomparsa nel 2007, in Italia del tutto
sconosciuta. La Hattori non ha
nulla da invidiare alla Yoshimoto o a Murakami, solo per
citare due scrittori giapponesi
da noi molto noti e L’oscurità e
la luce è una storia che riscalda
e coinvolge.
Rossano Astremo
LUCA RICCI
Come scrivere un best
seller in 57 giorni
Laterza
La definizione migliore per catalogare Come scrivere un best
seller in 57 giorni, nuovo libro
dello scrittore pisano Luca
Ricci, l’ha data Emilio Marre-
se, giornalista del Venerdì di
Repubblica. Siamo in presenza di un romanzo-pamphlet.
Romanzo perché racconta una
storia, che presenta un inizio,
uno sviluppo ed una fine. Pamphlet perché tutta la storia è a
sostegno di un’argomentazione
d’ampio respiro, nel caso specifico un puntellato attacco nei
confronti della mercificazione
dell’oggetto libro, sempre più
vittima dei numeri e non dei
contenuti. In sintesi la storia:
quattro blatte (John, Paul,
George e Ringo, inutile dire
chi ricordano questi nomi) decidono di salvare le finanze del
padrone della casa sotto sfratto dove abitano, uno scrittore
sfigato senza una lira bucata,
sostituendosi a lui alla tastiera per scrivere un romanzo con
tutti gli ingredienti necessari
a scalare le classifiche di vendita. Perché, sostengono gli
scarafaggi, “oggigiorno si riproduce sempre la stessa opera, gli
editori pubblicano sempre lo
stesso libro”. Come scrivere un
best seller in 57 giorni mette in
scena lo scontro tra letteratura
come impegno etico e letteratura come prodotto tecnico, riproducibile, di consumo. Ricci, alla
ribalta della scena editoriale
italiana grazie ai due libri einaudiani L’amore e altre forme
d’odio e La persecuzione del
rigorista, se la prende non solo
con il sistema editoriale, ma
anche con i suoi stessi colleghi,
i quali dimenticano di scrivere
per i lettori, poiché succubi del
loro pubblico. Il bestseller non
è più una categoria di mercato, bensì un genere. Gli ingredienti di successo incidono
sulla creatività, e in certi casi
è più importante saper pianificare che saper scrivere. La
pietra scagliata da Ricci contro
il mainstream editoriale sarà
di certo fagocitato dallo stesso
senza lasciare tracce. È troppo
radicato il binomio libro-merLIBRI 51
cato per riuscire ad invertire
la rotta. Gli editori, in fondo,
sono degli imprenditori e se,
pur di incrementare le proprie
rendicontazioni annuali sono
costretti a pubblicare volumi
che il compianto Vittorini mai
avrebbe preso in considerazione diari d’adolescenti erotizzate o cupe storie vampiresche.
Erano altri tempi, appunto. A
noi toccano in sorte questi. Che
Ricci si rassegni!
Rossano Astremo
NICK CAVE
La morte di Bunny Munro
Feltrinelli
Venti anni separano E l’asina
vide l’angelo, primo romanzo
di Cave, da questa seconda,
attesissima uscita. In mezzo,
naturalmente, ci sono state le
incursioni cinematografiche (in
veste di sceneggiatore, oltre che
di compositore) ed i dischi insieme ai Bad Seeds, oppure sotto la sigla Grinderman. Nicolas
Edward Cave, australiano di
Warracknabeal, non si è fatto
mancare niente, insomma. E di
certo conferma le doti cardinali
dell’ottimo narratore intraviste
nell’esordio, dal momento che
il Bunny del titolo, commesso
52 LIBRI
viaggiatore sessodipendente e
con figlio a carico dopo il suicidio della consorte, è un cialtrone di razza alle prese con
una deriva tragicomica raccontata attraverso una prosa ricca
e duttile che alterna una vivida
intonazione poetica alla più
schietta espressione sboccata.
Nelle prime pagine troviamo
il protagonista in mutande, in
una stanza d’albergo di quarta
categoria, con la moglie Libby
che gli parla al telefono e una
prostituta tossica dalla pelle
color cioccolato pronta a portare a termine la sua missione.
Se incombe la morte, il sesso
è un esorcismo ossessivo-compulsivo che smentisce la possibilità di una vita migliore. A
bordo di una Punto gialla, Bunny e Bunny Jr. viaggiano verso
il nulla a sud del Regno Unito.
Tra incontri bislacchi e visioni
oscure, Bunny sfiora il ridicolo,
poi ci passa attraverso: ecco il
grottesco di un uomo e di un
mondo intero che diventano
una sorta di leit motiv della storia, la ferita più profonda che
uno scrittore possa procurare
ai suoi lettori. Perché si ride a
denti stretti perfino quando impazzano i tormentoni su Avril
Lavigne, Kylie Minogue, Britney Spears e Beyoncé oggetti
di desiderio Pop, santuari celesti della pippa (e a pagina
51 si cita perfino il famigerato
video delle nozze hard di Tommy Lee e Pamela Anderson!).
Il riso, ne La morte di Bunny
Munro rimanda puntualmente
agli scenari infernali dipinti
da Hieronymus Bosch, almeno
quanto l’immagine del serial
killer che si pittura di rosso,
indossa corna di plastica e infilza le donne con un forcone da
giardino. Cave allestisce il palcoscenico ideale per un gotico
del XXI secolo. Un dedalo senza varchi, una torva murder
ballad camuffata da farsa.
Nino G. D’Attis
IRVINE WELSH
Crime
Guanda
Un uomo, una donna, una bambina e una banda di mostri.
L’ultimo romanzo dell’autore
di Trainspotting, nell’ottima
traduzione di Massimo Bocchiola riprende Ray Lennox,
personaggio secondario de Il
Lercio e lo mette su un Boeing
747 che dalla Scozia lo porterà
negli States insieme a Trudi,
sua promessa sposa. Ray è in
vacanza. Ray è in convalescenza dopo l’indagine (finita male)
su un serial killer pedofilo.
Prende pillole, vede fantasmi,
ha una mano fracassata, la sua
ragazza gli sembra un’aliena
intenzionata a coinvolgerlo
in un matrimonio extraterrestre. Ray è una minaccia per
se stesso, però cerca di tenere
duro. La sua vita è al fatidico
bivio che separa la luce dalle
tenebre: marchiato a fuoco dai
sensi di colpa per non essere
riuscito a salvare l’ultima vittima, in via di riabilitazione da
una dipendenza dalla cocaina,
il poliziotto perde la testa durante una lite con Trudi e nel
giro di un’ottantina di pagine,
subito dopo l’incontro con due
tipe strambe in un localaccio,
finisce in un grosso guaio a
Miami. A centrocampo, il destino ci mette un’altra bambina
ridotta a giocattolo sessuale
da una rete di maiali, così il
nostro antieroe alla frutta non
ci pensa due volte e si lancia
a testa bassa verso il pericolo. Il resto? Be’, cercate di
non perdervelo per nessuna
ragione al mondo, insieme a
tutto ciò che gravita intorno
all’opera migliore di Welsh da
molto tempo a questa parte.
Un libro che parla di ombre
scavando bene in profondità.
Un romanzo parecchio lontano
dalla satira sociale con gruppo
di tossici scozzesi in prima fila.
Ray, Trudi e la piccola Tianna
sono personaggi che non si dimenticano facilmente: umanità
pestata dai cattivi pensieri,
dalle occasioni perdute. I paesaggi americani visti dallo
scrittore europeo hanno ben
poco di patinato, proprio come
le pagine di Perfect Bride (la
rivista che Trudi sta leggendo
per prepararsi al grande passo) dopo quattro interminabili
giorni all’inferno.
N. G. D’A.
Elio Grazioli
Kurt Schwitters
Marcos y Marcos
A Kurt Schwitters, uno dei
maestri delle avanguardie
LA LETTURA TI FA
GRANDE
Festival dei piccoli
lettori a Calimera (Le)
case editrici tra le più importanti nell’ambito della letteratura per ragazzi: El, Mondadori, Piemme (Battello a vapore),
Fabbri, Editoriale scienza,
Gallucci, Salani, Nuove edizioni romane e molte altre.
Tra gli autori ospiti di questa
edizione (che incontreranno i
giovani lettori nella mattina di
venerdì e sabato) Pina Varriale, Francesca Longo, Emanuela Da Ros, Francesco Gungui,
Daniela Morelli, Fabrizio Silei,
Luisa Mattia, Laura Walter.
Info www.comune.calimera.
le.it – www.ildado.it
storiche del Novecento, è dedicata l’ultima monografia di
“Riga”, la collana diretta da
Elio Grazioli e Marco Belpoliti
per le edizioni Marcos y Marcos. Il bel volume contiene alcuni testi autografi dell’artista
tedesco, tradotti in italiano
per la prima volta, come la
descrizione della “macchina
raddadista”, capace di trasformare qualsiasi capitalista in
un “anti-borghesuccio”; oppure
come il brano del 1924 che spiega le potenzialità della “poesia
consequenziale”, fatta di lettere anziché di parole. Seguono
le testimonianze degli amici
“dada”: Hans Arp, Tristan
Tzara e Hans Richter delineano il profilo di un genio difficilmente classificabile. Numerosi
gli approfondimenti e i saggi,
dove compaiono, tra le altre, le
firme dello stesso Grazioli, di
Isabelle Ewig e di Hanne Bergius. “Gridare con la spazzatura” per combattere una lotta
pacifica contro le perversioni di
una società opulenta: questo
il fondamento della poetica di
Schwitters, la cui opera più
rappresentativa, il Merzbau, è
andata distrutta sotto i bombardamenti di Hannover nel
1943. L’imponente assemblag-
gio di materiali di recupero e di
oggetti “banali” (biglietti usati
del tram, ritagli di giornale,
mozziconi di sigarette) era il
frutto di anni di lavoro e aveva
riempito un appartamento intero, fino a sfondarne le finestre. Sullo sfondo, i rapporti
tra il pensiero di Schwitters e
il Dada berlinese, l’importanza
della comunicazione, il dibattito sul ruolo sociale e politico
dell’arte. Poeta visivo e sonoro
(con la sua “Ursonate”, la sonata primordiale), ma anche
grafico pubblicitario, Schwitters aveva il dono di una creatività “totale”, rivoluzionaria
quanto libera. “L’arte è ai miei
occhi troppo preziosa, perché
me ne serva come di un semplice strumento”, affermava il
genio sregolato originario di
Hannover, che “ritagliò una
sillaba da una parola e su di
essa basò il suo sistema: Merz”.
Il volume si chiude con gli
omaggi a Schwitters di alcuni
artisti: Luca Vitone con “Opificio biografico”, “Andare verso
le cose” di Luca Scarabelli e
“Nero su bianco” del gruppo
Warburghiana.
Alessandra Guareschi
Da venerdì 11 a domenica 13
dicembre torna a Calimera
(Le) La lettura ti fa grande,
Festival dei Piccoli Lettori,
giunto alla decima edizione.
Tre giorni di incontri, mostre,
spettacoli, laboratori dedicati al mondo dei piccoli lettori.
Nella grande libreria allestita
presso la Sala Polifunzionale
dell’Istituto Comprensivo saranno presenti oltre quaranta
53
54
HACCA EDITRICE
Ancora libri e ancora case editrici, perché di leggere nuove storie non se ne ha mai abbastanza.
Questo mese abbiamo incontrato Hacca, casa
editrice giovane ma con le idee ben chiare.
Le piccole case editrici riescono sempre di
più a farsi strada in un mercato monopolizzato da gruppi giganti. È una questione
di qualità?
È una questione di qualità, certo, e di progettualità. La piccola casa editrice indipendente parte da un preciso progetto editoriale: narrativa
scandinava, narrativa di genere, saggistica…
Questo specializza il catalogo della casa editrice,
divenendo prima di tutto punto di riferimento
culturale. In questo modo è possibile occupare
uno spazio preciso del mercato, lasciato libero
dalla grande casa editrice, che offre un catalogo
generalista.
Le case editrici più o meno piccole sono caratterizzate dal rapporto umano tra scrittore e chi lavora ai suoi scritti, dalla passione e la tenacia. Cosa ne pensi?
Ogni anno nascono decine di case editrici, ognuna è il frutto di una passione o di una urgenza
nel fare libri. Si sa che è un mercato difficile,
eppure a un certo punto una persona o un gruppo di persone decidono di fare libri. È indispensabile, per sviluppare fino in fondo un progetto
editoriale, di tanta, tanta tenacia. Se non ci fosse
dietro una grandissima passione per i libri che
si fanno, sarebbe troppo difficile, troppo faticoso,
e a volte, davvero troppo desolante. L’editore è
come un contadino, semina per raccogliere solo
molto tempo dopo. Nel frattempo deve curare il
terreno, dare acqua, e aspettare.
Un casa editrice deve distinguersi in qual-
che modo per essere identificabile sul mercato. Quali sono i tratti distintivi di Hacca?
Il nostro progetto editoriale sta tutto nella ricerca e nella cura. Nel catalogo Hacca trova spazio
soprattutto la narrativa italiana contemporanea. Romanzi e racconti che tentano di rappresentare la contemporaneità, che danno parole
alle fratture del presente.
Narrativa italiana e straniera, Novecento.0
e saggistica, ci racconti un po’ le vostre collane?
Hacca sta tutta nella collana Novecento.0, la
collana di narrativa nata insieme ad Andrea Di
Consoli, che mira a portare in libreria voci autorevoli ma anche voci nuove della letteratura contemporanea. Questa è la collana che al momento
stiamo sviluppando con maggiore attenzione. Ci
sono state delle incursioni all’estero, e ora stiamo guardando alla narrativa romena contemporanea: speriamo di portare in Italia due romanzi
nel 2010, per conoscere una letteratura che gioca
con il passato e la magia.
Tra le vostre novità il libro di Dora Albanese, un libro crudo e appassionato che racconta la donna e la madre da una prospettiva spogliata di orpelli e molto intima… Ce
ne parli?
Non dire madre è il libro d’esordio di una giovanissima autrice, Dora Albanese. I racconti che lo
compongono attraversano la memoria della sua
terra, e delle donne che la hanno abitata, con parole nuove eppure ancestrali. Dora racconta la
maternità con coraggio e senza menzogne. Racconta le donne, l’amore, il perdono e i sogni. I
loro odori e i sapori. Racconta la fuga e la riconciliazione.
Antonietta Rosato
LIBRI 55
CINEMA TEATRO ARTE
MICHELE RIONDINO
Intervista al protagonista di marPiccolo
“Taranto è la polvere che si nasconde sotto il
tappeto, è la coscienza sporca dell’Italia”. Nato e
cresciuto nel quartiere Paolo VI di Taranto, dov’è
ambientato marPiccolo - ultimo film di Alessandro di Robilant – Michele Riondino non usa mezzi termini per denunciarne il degrado. Nel film,
presentato in concorso nella sezione “Alice nelle
56 cinema teatro arte
città” del Festival internazionale del cinema di
Roma, è Tonio, un boss spietato. Un altro ruolo
da “cattivo” dopo quello di Il passato è una terra
straniera di Daniele Vicari, che ha lanciato Riondino, diplomato all’Accademia d’arte drammatica “Silvio d’Amico”, nel panorama delle giovani
promesse del cinema nostrano. marPiccolo, trat-
to dal romanzo Stupido di Andrea Cotti, è la storia di Tiziano (l’esordiente Giulio Beranek), ragazzo ribelle che lavora per la criminalità locale
e sogna di scappare da quel quartiere dove non ci
sono negozi né librerie, dove le strade sono rotte
e quel poco che c’è è abusivo o illegale. Una soddisfazione, per Riondino, tornare a Taranto da
attore e, soprattutto, dar voce alle sofferenze di
una città che chiede di non essere dimenticata.
Il quartiere Paolo VI è descritto come il
Bronx di Taranto. Come lo vede chi ci ha
vissuto?
Paolo VI è l’anima operaia e popolare della città.
La criminalità, quella delle faide tra famiglie o
del grosso spaccio di droga, c’è stata fino a quindici anni fa. Allora Paolo VI era il deposito delle
refurtive, il primo posto dove andavi a cercare se
ti rubavano la macchina. Oggi è diverso.
Cos’è cambiato?
Oggi la criminalità è quella dei colletti bianchi: è
il ricatto occupazionale che costringe chi ci vive a
lavorare in una fabbrica che ti toglie tutto, anche
l’aria. A Taranto la politica è dettata dall’acciaio: la voce grossa la fa l’Ilva e i politici devono
assecondare.
Molti giovani tarantini, compreso il protagonista del film, crescono col sogno di andare via. Tu sei uno che ce l’ha fatta...
Come per Tiziano, una serie di faccende poco
piacevoli mi teneva legato a una terra che non
mi rappresentava. Andare via, nel mio caso, non
significa scappare, ma allontanarsi dal problema
per crearsi una coscienza e poi tornare.
Se fossi rimasto a Taranto, oggi chi saresti?
Forse un operaio dell’Ilva, come più del cinquanta per cento dei tarantini, oppure un militare.
Questo futuro non mi andava.
Com’è stato, invece, il ritorno da attore?
Intanto una fortuna perché il regista, quando mi
ha scelto, non sapeva io fossi di Taranto. Tornare
a casa col baraccone del cinema è il ritorno che
ho sempre desiderato: a pausa pranzo andavo a
mangiare dalla mamma, oppure si improvvisavano tavolate lunghissime per strada.
Che accoglienza vi hanno riservato i tarantini?
Dalle comparse agli abitanti del quartiere, tutti
si sono sentiti parte del progetto. Prima del ciak,
in strada c’era un silenzio religioso. La gente è
stata favolosa: se ci serviva una maglia blu, c’era
sempre qualcuno pronto a tirarcene una dal balcone. Cose del genere non accadono a Roma.
Avete girato poco dopo l’increscioso episodio della richiesta di “pizzo” a Lina Wertmuller. A voi com’è andata?
Abbiamo girato senza problemi e senza protezioni “speciali” in un quartiere malfamato, nel
periodo in cui Taranto veniva additata come Far
west. Questo dimostra che si fa presto a fare terrorismo in un posto che già soffre di per sé.
Torniamo al film. Di nuovo nei panni del
“cattivo”?
A noi attori piace fare i “cattivi” e dopo Il passato
è una terra straniera non ci sono ruoli che mi inquietano. Anzi, l’ho fatto bene perché conoscevo
la materia.
Ti sei ispirato a un personaggio di memoria, a un conoscente?
Il mio Tonio è tutta invenzione. Ho evitato il cliché del cattivo facendo leva su una chiave ambigua: il mio è un boss fuori dagli schemi, che
ha un rapporto così fisico con i protagonisti da
risultare ambiguo anche sessualmente.
Cerchiamo di anticipare le polemiche: è
giusto che un film faccia vedere i lati oscuri
di un territorio o dovrebbe piuttosto svolgere le funzioni di un depliant turistico?
Se un film fosse una vetrina di bei paesaggi, la
crisi del cinema nemmeno esisterebbe: ci finanzierebbero le aziende di promozione turistica. Il
cinema deve essere lo specchio della realtà e non
deve avere paura di parlare del marcio in casa.
La diplomazia lasciamola ai politici.
Piacerà, marPiccolo, ai tarantini?
Spero di sì. A Taranto respiriamo un’aria irrespirabile e le tv nazionali non dicono niente, quando si parla di diossina si cita solo la Campania.
Questo fa rabbia: bisogna dare voce al nostro disagio e questo film alimenta una fiammella che
rimane accesa solo perché, purtroppo, ci sono i
casi clinici. E poi, non si vede solo degrado.
C’è anche qualche aspetto positivo?
Il direttore della fotografia è rimasto a bocca
aperta di fronte a un tramonto unico al mondo.
Nelle immagini, Taranto vien fuori come una
città bellissima e il film fa emergere tutta la positività di un popolo che non si piange addosso,
nonostante abbia a che fare con drammi umani
quotidiani.
Valeria Blanco
cinema teatro arte 57
FRANCIS FORD
COPPOLA
Segreti di famiglia
“C’è spazio per un genio soltanto in questa famiglia”, si sente
dire un giorno Angelo da suo
padre, il grande compositore
Carlo Tetrocini, e sa che quel
genio non potrà mai essere lui.
Sa che con un padre del genere
per lui non c’è posto. Va via da
casa e dalla sua famiglia, interrompe i contatti con tutti. Dieci
anni dopo, suo fratello Benjamin lo cerca in una Buenos Aires di artisti e di teatro, di belle
donne disinibite e di musica.
Ma al posto di Angelo trova un
uomo nuovo, che si fa chiamare
Tetro e non ha voglia né di ricordi né di domande.
In questo raffinato dramma di
Coppola sulla rivalità familiare
e artistica, tutto ruota intorno
ai contrasti di luce e ombra,
sottolineati dall’evidente simbologia dei nomi Tetro e Angelo e dall’uso del bianco e nero,
sfumato e abbagliante al contempo, che domina la pellicola.
Il colore cola in frammenti intermittenti e isolati: è la tinta
del passato e del ricordo, o della fantasia allucinata e nutrita
di letteratura, da cui emergono
bambole ballerine smembrate
come manichini, su uno sfondo
surreale che strizza l’occhio a
Hoffmann.
Al centro, un personaggio che
cattura, Tetro: lunatico e ag58 cinema teatro arte
gressivo, respingente ed ermetico, impossibile immaginarlo
con una faccia diversa da quella
di Vincent Gallo. Suo padre gli
ha portato via tutto - la donna,
il sogno di scrivere e la “brama
di vagare”- trasformandolo in
un uomo irrisolto e in uno scrittore che non sa trovare finali
per le sue storie. Tetro ha ucciso Angelo e vorrebbe saltare
a piè pari il passato, che tiene
chiuso in una vecchia valigia
piena zeppa di fogli scritti in
codice. Il potere dell’arte potrebbe salvarlo, ma tra finzione
e realtà esiste un diaframma
che ovatta e deforma l’immagine. Una zona d’ombra che acceca chi pretende di illuminarla.
Un capolavoro ipnotico e poetico.
Francesca Maruccis
ROLAND EMMERICH
2012
Da mesi i media non fanno altro
che torturarci con la profezia
della fine del mondo, prevista
il 21 dicembre 2012. In questa
data, infatti, secondo l’antico,
e male interpretato, calendario
Maya e secondo le previsioni di
alcuni presunti “esperti in materia”, l’amato mondo giungerà
al suo termine a causa di probabili collisioni con meteoriti,
di un allineamento della Terra
con il Sole e l’Universo (che avviene ogni anno) e di un’ipotetica inversione delle quattro
stagioni. Insomma, come dire,
saremo spacciati! Ovviamente
il cinema non è rimasto impassibile al fascino di tali teorie e
il padre dei disaster movies per
eccellenza, Roland Emmerich,
ci ha voluto mostrare ciò che ci
potrebbe accadere fra circa tre
anni. Uno scenario a dir poco
apocalittico, quello che prospetta il regista, in cui solo pochissimi “eletti”, soprattutto i più
ricchi e i più potenti, avranno la
possibilità di salvarsi mediante
una costruzione gigantesca, che
richiama la biblica memoria
dell’arca di Noé, con tanto di
animali e di diluvio universale.
Al di là di una produzione costosissima e dell’uso largamente
profuso di pannelli blue screen,
l’opera di Emmerich, che abbiamo avuto modo di conoscere
bene con pellicole del calibro di
Independence Day e The Day after Tomorrow, risulta banale e,
a tratti, ridicola e paradossale,
se si pensa, ad esempio, che in
una sequenza vediamo i figli del
protagonista, interpretato da
John Cusack, in shorts sull’Everest o che l’intera umanità,
rappresentata dai “fortunati”
superstiti presenti nell’arca, riesca a salvarsi grazie all’eroico
gesto del papà e del suo bravo
bambino, che sigillano un portellone, immersi tanto tempo
sott’acqua. Inoltre, il regista tedesco non si risparmia nell’ironizzare sulla scelta del Primo
Ministro italiano che, invece di
salvarsi, decide di rimanere in
Vaticano e di affidarsi, insieme
al pontefice, ai cardinali e al devotissimo popolo di fedeli accorsi da ogni parte, alla preghiera
anche se, secondo quanto dimostra il film, risulterebbe tutto
vano. Chi ama il divertimento
e gli effetti speciali, dunque,
non rimarrà certamente deluso dalle catastrofiche tre ore di
2012 e in futuro, speriamo non
si verifichi mai, potrà dire a noi
scettici che dopotutto eravamo
stati avvisati.
Daniela Miticocchio
UN SOLE CHE NON
TRAMONTA MAI
Christian Montagna ci racconta la sua arte
Il pittore salentino Christian Montagna, già cantante del gruppo hardcore Cast Thy Eye, torna ad
esporre nella terra del sole del mare e del vento,
consegnandoci una visione delle cose più vera,
lontana dai pregiudizi ma anche dalle vanità facili di una terra bella ma amara, attenta ma crudele, viva ma pronta ad uccidere.
Christian, sono passati tre anni dal ritorno nel
Salento dopo il tuo periodo pittorico a Bologna e
due anni dalla tua ultima personale. Vuoi dirci
cosa è successo nel frattempo...
È passato troppo tempo dalla mia ultima personale, decisamente più di quanto avrei voluto. Due
anni di transizione, dove ho spinto me stesso in
una situazione vorticosa di forte instabilità mentale. Quando poi è stato il momento di iniziare a
dipingere nuovamente, ho vissuto una vera e propria catarsi percettiva e creativa. Ritrovare quel
luogo nascosto, qualcosa di profondo su cui lavorare che non si è mai perso strada “crescendo”. Il
mio è un viaggio verso l’origine di tutto. La catarsi
nasce, si evolve, si trasforma come un’embrione.
Rispetto alle tue produzioni precedenti in
bianco e nero, ora ti trovi assorbito in una
cromia di forte impatto e colori avvampati
che descrivono nota per nota le singole parti del dipinto. Ho potuto notare che si tratta
comunque di un discorso pittorico davvero
complesso, con molti livelli spazio/temporali...
Con la nuova serie pittorica Suite of Sunset, traspare attraverso il colore una intensa cromia tagliente. Sono ambientazioni spazio/temporali non
riconducibili alla realtà diretta. Immaginari di
una realtà tangibile, è un viaggio di risalita alle
origini dell’impulso, dell’inconscio. Mi risulta difficile delineare e spiegare il nuovo percorso pittorico a colori che ho intrapreso, è un lavoro in fase
di partenza. In questo momento tutto è ancora
vivo, nuovo, pulsante nella mia mente e non riesco
ad averne un distacco completo.
Pennellate taglienti, decise, pastose formano il blocco del tuo nuovo immaginario. Un
denso accumulare di sfumature e forme di
colore che impresse anche su diversi materiali di scarto danno un violentissimo impatto emotivo. L’estasi visionaria corre al “sottrarre” ciò che non serve all’immagine in se.
Tutto sta nel togliere il superfluo?
È probabilmente la serie pittorica più difficile ed
angosciante della mia intera produzione. Il passo
per lo spettatore/fruitore è molto lento, ed il colore
è un “latrato” sommerso e disperato. Sono pennellate violente e cromature che si estendono da toni
freddi a caldi con una forza acida di trasmissione. I particolari si evidenziano col tempo e tutto
agisce sul sistema nervoso, intorpidendo i sensi
e provocando un forte stato di trance e disagio
emotivo che rende impotenti dinanzi alla realtà
“vera” che ho cercato di cogliere in questi scenari. Dico questo non per presunzione, ma solo dopo
aver seguito i dieci giorni della mia mostra alle
Officine Ergot di Lecce. I volti di chi è diventato
parte dell’esposizione sono ancora impressi nella
mia mente, e le parole, commenti che mi sono stati riservati ne danno un unico e sincero ritratto.
Tutto questo, sono certo, dovuto anche alle grandi
dimensioni di alcuni dipinti e ai suoni scelti come
cornice all’esposizione.
Ennio Ciotta
cinema teatro arte 59
EVENTI
MUSICA
SABATO 5 DICEMBRE Istanbul Cafè di Squinzano
(Le)
Martin Hagfords
SABATO 5 – San Franciscu di
Alessano (Le)
Miranda
SABATO 5 – Gabba Gabba di
Taranto
Adels
SABATO 5 – Spazio Off di
Trani
Alibia
SABATO 5 - Villanova di
Pulsano (Ta)
Rock 2 Disco
SABATO 5 – Officine
Cantelmo di Lecce
Bunda Move
DOMENICA 6 – Teatro
Comunale di Novoli (Le)
Elisir
DOMENICA 6 – Sotterranei di
Copertino (Le)
Miranda
LUNEDÌ 7 – Cantieri Koreja
di Lecce
Dente
LUNEDÌ 7 – Teatro Team di
Bari
Ivano Fossati
LUNEDÌ 7 – Gabba Gabba di
Taranto
Sciamano
LUNEDÌ 7 - Masseria Valente
di Crispiano (Ta)
Carlos Dunga + Alfatec
MARTEDÌ 8 – Teatro
Politeama Greco di Lecce
Ivano Fossati
MARTEDÌ 8 – Campi (Le)
Apres La Classe
MERCOLEDÌ 9 – Teatro
Nuovo di Martina Franca
(Ta)
Ivano Fossati
MERCOLEDÌ 9 – Cloro Rosso
di Taranto
Wednesday No Babylon
GIOVEDÌ 10 – Molly Malone
di Lecce
Giovanni Ottini Dj Set
GIOVEDÌ 10 - Tuscè di
Galatina
Reading Sotto la luna accesa,
omaggio ad Alda Merini
VENERDÌ 11 - Teatro
Comunale di Novoli (Le)
Max Manfredi
VENERDÌ 11 – Molly Malone
di Lecce
60 EVENTI
Monroe
VENERDÌ 11 – – Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Bud Spencer Blues Explosion
VENERDÌ 11 – Sotterranei di
Copertino (Le)
Chemical Friday
VENERDÌ 11 – Gabba Gabba
di Taranto
Thee Piatcions
SABATO 12 – Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Nordgarden
SABATO 12 – Teatro Tenda di
Novoli (Le)
Mannarino
SABATO 12 – Gabba Gabba di
Taranto
Cadabra e Amnesia
SABATO 12 – Sotterranei di
Copertino (Le)
Thee Piatcions
SABATO 12 – Petra di Ceglie
Messapica (Br)
Raffaele Casarano & Locomotive
SABATO 12 – Cloro Rosso di
Taranto
I-Militant Sound System
SABATO 12 – Spazio Off di
Trani
Polar for the masses
SABATO 12 Villanova di
Pulsano (Ta)
Rock 2 Disco
SABATO 12 – Arena Live
Music di Carpignano (Le)
Anthony Johnson
SABATO 12 – Calema Caffè di
Muro Leccese
Mascarimirì
SABATO 12 - Arci 37 di
Giovinazzo (Ba)
Calorifer is very Hot
LUNEDÌ 14 – Castello di
Copertino (Le)
La canzone di Nanda con Giulio
Casale
MERCOLEDÌ 16 - – Cloro
Rosso di Taranto
Wednesday No Babylon
GIOVEDÌ 17 – Molly Malone
di Lecce
Valeriana Dj Set
GIOVEDÌ 17 - Tuscè di
Galatina
Vj set Davide Faggiano
VENERDÌ 18 – Gabba Gabba
di Taranto
The Strange Flowers
VENERDÌ 18 – Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Bad Love
VENERDÌ 18 - Arci 37 di
Giovinazzo di Bari
Big Charlie
VENERDÌ 18 – Molly Malone
di Lecce
Amerigo Verardi e Marco Ancona
VENERDÌ 18 / SABATO 19 –
Zei di Lecce
Progetto Collettivo Pink Room
SABATO 19 - Masseria
Valente di Crispiano (Ta)
Hot Water Discovery
+Phasedown
SABATO 19 – Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Ballarock
SABATO 19 – New Demodè di
Modugno (Ba)
Marta sui tubi
SABATO 19 - Teatro Traetta
di Bitonto (Ba)
Parole e Musiche per i Grandi
della Terra
SABATO 19 - Sotterranei di
Copertino (Le)
The Strange Flowers
SABATO 19 - Cloro Rosso di
Taranto
Bizzarri Sound, Lion D & Ras
Tewelde,Flag Sound, Sos Positive
Vibration
SABATO 19 - Villanova di
Pulsano (Ta)
Rock 2 Disco
SABATO 19 – Calema di Muro
Leccese
Adria
SABATO 19 – Officine
Cantelmo di Lecce
Color’s la band degli anni ‘60
MARTEDÌ 22 – Istanbul Cafè
di Squinzano (le)
Tobia Lamare & The Sellers
MARTEDÌ 22 – Cantieri
Koreja di Lecce
Cesare Dell’Anna Quintet
MERCOLEDÌ 23 - Cloro Rosso
di Taranto
Ska Night: Rudy&Crudy
MERCOLEDÌ 23 – Istanbul
Cafè di Squinzano (le)
Metal Night
MERCOLEDÌ 23 – Gabba
Gabba di Taranto
The Sovran
MERCOLEDÌ 23 – Arena Live
Music
Treble/Boomdabash/Dany Silk
GIOVEDÌ 24 – Villanova di
Taranto
Fidoguido & Mad Kid
GIOVEDÌ 24 – Istanbul Cafè
di Squinzano (le)
La Natività con i Mostri
GIOVEDÌ 24 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Pleo + Ennio Ciotta
VENERDÌ 25 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Chemical Friday
VENERDÌ 25 - – Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Postman Ultrachic
VENERDÌ 25 - Masseria
Valente di Crispiano (Ta)
Festival “Nulla da festeggiare”
VENERDÌ 25 - Villanova di
Pulsano (Ta)
Christmas Party
DA SABATO 26 DICEMBRE
AL 6 GENNAIO – Fondo Verri
di Lecce
Le mani e l’ascolto
SABATO 26 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Terron Rebel Sound
SABATO 26 – Officine
Cantelmo
Winter Party - Coolclub
SABATO 26 - – Gabba Gabba
di Taranto
The Hacienda + The Nudo
SABATO 26 - Villanova di
Taranto
Don Ciccio, Mama Marjas &
More
SABATO 26 – Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Hip Hop Night
SABATO 26 – Spazio Off di
Trani
I Hate ‘80
DOMENICA 27 – Arci 37 di
Giovinazzo (Ba)
Z.E.D. + Nemophonica
DOMENICA 27 – Villanoca di
Pulsano (Ta)
99 Posse
DOMENICA 27 - Sotterranei
di Copertino (Le)
Gronge
DOMENICA 27 – Istanbul
Cafè di Squinzano (Le)
Radio Flo
DOMENICA 27 - Tuscè di
Galatina (Le)
Interstellar free jazz
DOMENICA 27 – Bari
The Styles
LUNEDÌ 28 – Arci 37 di
Giovinazzo (Ba)
Roberto Angelini
LUNEDÌ 28 - Sotterranei di
Copertino (Le)
2Pigeons
LUNEDÌ 28- Villanova di
Taranto
99 Posse
LUNEDÌ 28 – Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Studio Davoli
LUNEDÌ 28 – Teatro Aurora a
Melissano (Le)
Francesca Romana Perrotta
LUNEDÌ 28 - Zollino
Kamafei, Mascarimirì, Mimmo
Epifani
LUNEDÌ 28 – Convento di
Santa Chiara di Brindisi
Fabrizio Bosso
MARTEDÌ 29 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Bardoscia-Leucci Duo
MARTEDÌ 29 – Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Mama Roots
FUORI TEMPO AL KISMET DI BARI
Una nuova idea si affaccia sul panorama degli
spettacoli, una rassegna di circa quattro mesi,
organizzata dal circolo arci Tressett di Giovinazzo (Ba),
in collaborazione con il Teatro Kismet di Bari, dal titolo
Fuori Tempo. Un nome sicuramente poco ortodosso
se associato alla musica, ma che trova la sua ragione
nell’idea generale che ha spinto l’arci Tressett, anche
organizzatore del Giovinazzo Rock, a elaborare una
rassegna molto interessante. L’idea della rassegna
Fuori Tempo nasce dall’esigenza di riportare la musica
e la fruizione musicale al centro dell’interesse, perché
secondo Nico Bavaro, uno degli organizzatori, anche
nel mondo culturale e degli spettacoli “si registra
l’ingresso delle logiche di impresa, orientate al concetto
dell’eventismo usa e getta, con poca attenzione al
contesto e agli spazi di fruizione”. L’idea alla base di
Fuori Tempo è quella invece di mutuare dall’esperienza
teatrale l’organizzazione dello spazio e le modalità di
fruizione, per cui anche gli spazi scenici e l’uso delle luci
si annunciano molto interessanti, considerata anche
la collaborazione con lo staff del Teatro Kismet, che
MARTEDÌ 29 – Spazio Off di
Trani
Vegetable G
MARTEDÌ 29 - Cloro Rosso di
Taranto
I Rinoplastici
MARTEDÌ 29 – H25 di Bari
Inaugurazione
MERCOLEDÌ 30- Cloro Rosso
di Taranto
Pushman, Flag Sound & S.o.s.
MERCOLEDÌ 30 - Sotterranei
di Copertino (Le)
The Shoes
MERCOLEDÌ 30 – Gabba
Gabba di Taranto
Hobophobic
MERCOLEDÌ 30 – Zei di
Lecce
La mela e Newton
GIOVEDÌ 31 - Villanova di
Pulsano (Ta)
Happy New Year Party
GIOVEDÌ 31 – Otranto (Le)
Giuliano Palma & The
Bluebeaters
GIOVEDÌ 31 – Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Tobia Lamare e Populous
GIOVEDÌ 31 – Gabba Gabba
di Taranto
Party di fine anno
SABATO 2 GENNAIO – Teatro
Kismet di Bari
Zu
SABATO 2 - Otranto
Goran Bregovic
SABATO 2 – Istanbul Cafè
Zion train
SABATO 2 – Gabba Gabba di
ospiterà gli spettacoli, coinvolgendo tutti gli spazi che la
struttura propone, dalla sala teatrale, al foyer, fino alla
sala danza, per eventi più intimi e orientati a creare un
rapporto più diretto fra gli artisti e il pubblico. L’apertura
della rassegna, sabato 2 gennaio, è affidata a un nome
di culto del panorama musicale italiano, e non solo, gli
Zu. Attivi dal 1997, il trio jazz-core vanta collaborazioni
importanti, come Steve Albini, o Mike Patton, con cui
ha registrato l’ ultimo album, Carboniferous. Il 30
Gennaio, secondo appuntamento della rassegna, sarà
la volta dei salentini Amerigo Verardi e Marco Ancona,
entrambi con grande esperienza alle spalle (Lotus
e Bludinvidia), hanno dato vita a un interessante
progetto, sospeso fra atmosfere acustiche dall’aria
spiccatamente psichedelica e un nervosismo elettrico di
matrice british con melodie e testi dalla vena surreale
che da sempre hanno contraddistinto i loro rispettivi
percorsi artistici. Verardi&Ancona presenteranno
Bootleg – Oliando la macchina Live Tour 2009, dopo
aver passato l’estate a scorazzare sui palchi di tutta
Italia in compagnia di Manuel Agnelli e gli Afterhours.
Info su www.rassegnafuoritempo.it
61
Taranto
Mr.Nomoney
SABATO 2 - Villanova di
Pulsano (Ta)
Rock 2 Disco
SABATO 2 – Teatro Tenda di
Novoli (Le)
Ms Triniti e Boo Vibration
DOMENICA 3 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Heike Has The Giggles
DOMENICA 3 – Istanbul Cafè
di Squinzano (Le)
Sunword + Thousend Milion
LUNEDÌ 4 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Irene Scardia e Emanuele
Coluccia
LUNEDÌ 4 – Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Missiva
LUNEDÌ 4 - Cloro Rosso di
Taranto
Assalti Frontali
LUNEDÌ 4 – Istanbul Cafè di
Squinzano (Le)
Cat’s Joe + Qck
MARTEDÌ 5 – Gabba Gabba
di Taranto
Los Fastidios
MARTEDÌ 5 - Sotterranei di
Copertino (Le)
Francesco Giannico
MARTEDÌ 5 – Arci 37 di
Giovinazzo (Ba)
Canemorto
MARTEDÌ 5 – Officine
Cantelmo di Lecce
Adel’s
GIOVEDÌ 7 – Gabba Gabba di
Taranto
Alix
GIOVEDÌ 7 - Tuscè di
Galatina (Le)
Corpi d’arco & Glass Project
VENERDÌ 8 – Target Club di
Bari
Secret Sphere
SABATO 9 – Spazio Off di
Trani
Alix
TEATRO
VENERDÌ 4 DICEMBRE –
Teatro Koreja di Lecce
Made in Italy
DAL 5 ALL’8 – Puglia
Puglia Show Time –
SABATO 5 – Teatro Crest di
Taranto
Qualibò in Partitura
Pivata e Dueperdue www.
teatropubblicopugliese.it
SABATO 5 – Teatro Koreja di
Lecce
Pornobboy
DOMENICA 6 – Palazzo
Ducale di San Cesario
Lover’s Song con Iida Shigemi
LUNEDÌ 7 – Palazzo Baronale
di Martano (Le)
Le mille e una notte di Bertuccia
VENERDÌ 18 e SABATO 19 –
Teatro Koreja di Lecce
Glimpse
VENERDÌ 18 e SABATO 19 –
Teatro Kismet di Bari
Il mercante di Venezia
SABATO 19 – Teatro Crest di
Taranto
Circo Bordeaux in Dittico
dell’attesa
VENERDÌ 15 GENNAIO - Il
Centro Del Discorso
Dopo il successo della prima edizione, con la pubblicazione del
nuovo bando prende il via la seconda edizione del Premio nazionale di drammaturgia contemporanea “Il Centro del Discorso”.
Il premio è parte integrante di
un articolato progetto culturale
che si svolgerà in un periodo di
un anno, attraverso una serie di
appuntamenti, eventi, laboratori,
incontri, a cui saranno invitati a
partecipare scrittori, registi, attori, artisti, ma anche spettatori e
cittadini interessati ad un percorso aperto di ricerca e sperimentazione sul senso del teatro e della
parola drammaturgica oggi. La
scadenza del bando, scaricabile
dal sito www.manifattureknos.
org, è fissata per il 15 Gennaio
2010.
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