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fisica e... - Società Italiana di Fisica
fisica e...
Lucy e le altre
Claudio Tuniz
Centro Internazionale di Fisica Teorica ‘Abdus Salam’, Trieste, Italia
Center for Archaeological Science, University of Wollongong, Australia
I paleoantropologi studiano i resti fossili delle diverse specie umane e pre-umane
per ricostruire la nostra storia evolutiva. Gli strumenti e i metodi sviluppati dai fisici
contribuiscono a queste ricerche rivelando i segreti custoditi in ossa, denti e altri
reperti del passato.
Image courtesy of the
Huston Museum of Natural Sciences
1 Introduzione
Secondo l’arcivescovo irlandese del
Settecento James Ussher, che si basava
sulla genealogia riportata nella Bibbia,
Adamo fu creato il 23 ottobre 4004 a.C.,
alle nove del mattino, 5 giorni dopo la
creazione della Terra; Eva subito dopo.
La maggiore età della Terra era
già stata intuita indirettamente dai
principali geologi del tempo (fra cui
James Hutton). Inoltre, Georges L.
Leclerc de Buffon, fisico-naturalista, e
lo stesso Newton, avevano calcolato
un’età che andava oltre i limiti definiti
da Ussher. L’evidenza di un pianeta
plasmato da lenti e lunghi processi
di trasformazione, ancora operanti
nel presente, era comunque alla
base dell’attualismo di Charles Lyell,
eminente geologo dell’Ottocento e
mentore di Charles Darwin.
Secondo Darwin, l‘origine della
Terra doveva essere così lontana
da permettere l’evoluzione di
“infinite forme estremamente belle e
24 < il nuovo saggiatore
meravigliose” [1]. Né si accontentava dei
venti milioni di anni calcolati da Lord
Kelvin con l’uso della termodinamica.
Il mondo doveva essere più antico. La
scoperta della radioattività, nel 1896, gli
darà ragione, ma ci vorrà oltre mezzo
secolo per avere una risposta definitiva.
Solo nel 1953, infatti, fisici e geologi
riusciranno a dimostrare, misurando
gli isotopi del piombo prodotti nelle
rocce dalla radioattività dell’uranio
naturale, che la Terra si formò dalla
nebulosa primordiale 4,55 miliardi di
anni fa, con un errore di ± 70000 anni.
L’uomo è stato una delle ultime forme ad
evolversi, a partire dai primi cianobatteri,
apparsi circa 3,8 miliardi di anni fa sulla
superficie rovente della Terra1.
Darwin menzionò l’origine dell’uomo
solo verso la fine della sua opera,
quando disse, in un’unica frase
premonitrice: “Si farà luce sull’origine
dell’uomo e sulla sua storia”. E così fu,
come vedremo, attraverso il contributo
di molte discipline scientifiche, fra cui la
genetica (fig. 1).
Attraverso l’analisi del DNA
mitocondriale femminile [3], ad
esempio, un gruppo di biologi
americani suggerì, nel 1987, la nostra
origine comune, riconducibile a un
piccolo gruppo fondatore di H. sapiens
intorno a 200 mila anni fa, dentro il
quale è sopravvissuto un solo DNA
mitocondriale, poi ereditato con
variazioni dai discendenti2. Ma la storia
dell’evoluzione umana è anche scritta
nel DNA degli umani estinti, come nel
caso dei Neanderthal. Recentemente,
la genomica e la paleogenomica sono
1
La temperatura globale durante l’Archeano
è in realtà controversa. Recenti analisi degli
isotopi dell’ossigeno in sedimenti di questo
periodo suggeriscono che la temperatura
oceanica fosse compresa fra 26 °C e 35 °C [2].
2
Tale ipotesi è ancora controversa, soprattutto
alla luce dei recenti risultati sul DNA dei
Neanderthal.
Fig. 1 Diversità umana 50000 anni fa. Da sinistra, H. neanderthalensis, H. floresiensis, Homo sapiens (Australia), H. sapiens
(sud-est asiatico), H. erectus e orangutan (disegni di Tullio Perentin, ZOIC, da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)).
risultate particolarmente preziose,
grazie ai nuovi strumenti per il
sequenziamento genetico.
Perfino il DNA dei pidocchi può
raccontare la storia dell’evoluzione
umana. L’ultimo antenato comune
del pidocchio dello scimpanzé e di
quello umano (Pediculus humanus
capitus) viveva infatti sei milioni di anni
fa: data suggerita per la separazione
di scimpanzé e umani dal loro
comune antenato. Gli ominini – che
comprendono l’umanità attuale e tutti
gli antenati bipedi degli umani fino
alla separazione dallo scimpanzé –
hanno acquisito una seconda specie
di pidocchi (Phthirus pubis), evolutasi
dalla specie presente nel gorilla 3-4
milioni di anni fa; questo suggerisce una
data per la riduzione dei peli corporei
dell’uomo. Il DNA del terzo pidocchio
umano (Pediculus humanus corporis),
che vive nei vestiti e si sposta sulla pelle
per nutrirsi, dimostra che l’antenato
comune del pidocchio del corpo e di
quello del capo viveva oltre 80000
anni fa; questo consente di ipotizzare
quando l’uomo indossò i primi
indumenti [4].
Fino a non molto tempo fa sapevamo
del nostro passato profondo grazie
ai miti e alle religioni. Le ossa di un
ominino estinto potevano essere
considerate, dai cinesi, resti di un
drago, da polverizzare e mettere
nel tè come afrodisiaco; oppure, da
altri, appartenere ad una vittima del
diluvio universale. Ma non erano
certo il prodotto di milioni di anni di
evoluzione. Ora, grazie alla scienza,
non è più così. Fisici, chimici, geologi,
paleontologi, paleoantropologi,
genetisti, biologi, paleoclimatologi e
archeologi consentono di illuminare
il passato profondo, avvalendosi del
metodo scientifico.
Fra le varie discipline, la fisica
ha sicuramente un posto d’onore.
Conoscendo il linguaggio degli isotopi e
con l’uso di radiazioni X ad alta energia
si possono leggere nelle ossa degli
esseri umani del passato i segreti delle
nostre origini. Ecco alcuni esempi.
I radionuclidi 14C (T1/2 = 5730 anni),
10
Be (1,39 milioni di anni), 27Al (717
mila anni), 40K (1,248 miliardi di anni),
238
U (4,468 miliardi di anni) e molti
altri­– analizzati usando acceleratori
o microsonde a laser e ioniche –
permettono di capire quando gli
ominini erano vissuti o quando si
sono estinti. Anche gli effetti della
radioattività naturale nei denti fossili o
in certi cristalli può fornire informazioni
sulla cronologia della preistoria. Isotopi
stabili, per esempio dell’azoto e del
carbonio, rivelano la dieta degli ominini.
Altri isotopi, per esempio
dell’ossigeno e del deuterio,
permettono di leggere il clima del
passato in sedimenti, stalattiti e altri
archivi geologici. Conoscendo la fisica
del Sistema Terra si possono integrare
tali informazioni con modelli climatici
capaci di ricostruire i paleo-ambienti
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fisica e...
Fig. 2 Percorsi ed epoche della diffusione degli umani moderni secondo le evidenze genetiche
e archeologiche. Le aree emerse durante l’espansione dei ghiacciai sono colorate in beige e rosa
(da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)).
che determinavano le migrazioni
umane e pre-umane (fig. 2). D’altra
parte, le variazioni climatiche, spesso
estreme, alimentavano il motore
dell’evoluzione che preparava
l’entrata in scena della nostra specie,
in contemporanea con altre specie
umane. In effetti, in base ai ritrovamenti
fossili, si dovrebbe parlare di diversi
modi di essere umani (o pre-umani) e
non di “anelli mancanti”. Altre specie
umane nostre contemporanee erano
H. neanderthalensis, H. floresiensis, e
quella recentemente scoperta in Siberia,
dei cosiddetti “Denisoviani”.
Con l’arrivo di H. sapiens in nuovi
continenti, non solo fu rapidamente
ridotta la biodiversità umana, ma si
ridusse anche quella di molte specie
di animali, soprattutto di grandi
dimensioni, la cosiddetta megafauna.
La tigre dai denti a sciabola (Smilodon)
e molte specie di bisonte sono spariti
improvvisamente dalle Americhe 13000
anni fa, mentre il leone marsupiale
Thylacoleo carnifex, il lucertolone
26 < il nuovo saggiatore
Megalania prisca e l’uccello gigante
Genyornis newtoni si sono estinti in
Australia circa 50000 anni fa. Lo stesso è
avvenuto per i Neanderthal, scomparsi
circa 30000 anni fa, in Eurasia. In
tutti i casi le date, determinate con
precisione usando il radiocarbonio,
la luminescenza e le serie dell’uranio,
coincidono con l’arrivo di H. sapiens.
I fisici hanno poi sviluppato nuovi
microscopi, come ad esempio la
microtomografia a luce di sincrotrone,
che permette di effettuare l’istologia
virtuale dello smalto dentario,
rivelando a che età era morto un
ominino e quanto era stata lunga la
sua adolescenza, oppure gli stress
subiti dalla megafauna prima della sua
estinzione.
I denti costituiscono il reperto
fossile più ubiquo e nella loro microarchitettura interna conservano
preziose informazioni su crescita,
sviluppo, dieta, migrazioni e patologie.
In generale, le diverse parti dello
scheletro mantengono nella loro
struttura interna un archivio della
storia biologica e biomeccanica
dell’organismo, associata a specifiche
funzioni.
Questa breve rassegna sulle nostre
origini, basata su famosi personaggi
umani e pre-umani – spesso femminili,
vuole mettere in evidenza i crescenti
apporti dei metodi fisici negli studi
dell’evoluzione umana.
2 Jenny
Jenny, il primo orangutan acquisito
dallo Zoo di Londra nel 1838, era
destinato a provocare fascino e
repulsione nei benpensanti dell’epoca.
La regina Vittoria, per esempio, la trovò
“disgustosamente umana”. Quando
Darwin la vide, invece, vestita con un
grembiulino a fiorellini, esclamò: “è
proprio come una bambina”.
Negli anni successivi Darwin
meditò molto sul nostro rapporto
con le scimmie, in connessione con
la sua teoria dell’evoluzione. Furono
c. tuniz: lucy e le altre
l’abbondanza e la varietà di scimmie
che caratterizzavano certe zone
dell’Africa a fargli dire: “è in certo modo
più probabile che i nostri progenitori
vivessero nel continente africano che
non altrove” [5]. La società di allora,
soprattutto nei settori più vicini al
mondo religioso, non fu certo tenera
con Darwin, il quale fu ridicolizzato sui
giornali con caricature che mostravano
la sua testa barbuta su un corpo di
scimmia. D’altra parte, i naturalisti e gli
avventurieri si misero subito a cercare
il cosiddetto “anello mancante” – un
concetto fuorviante, come abbiamo già
anticipato ­– tra noi e le scimmie. Uno di
questi era il medico olandese Eugene
Dubois, che nel 1891, a Giava, scoprì
Pithecantropus erectus, poi chiamato
H. erectus3. Quindi, nei primi tempi, il
cosiddetto “anello mancante” fu trovato
in Asia e non in Africa. Bisognava
aspettare ancora trent’anni prima che
l’australiano Raymond Dart trovasse in
Sudafrica il bambino di Taung, il primo
australopiteco, confermando così le
idee di Darwin.
Nella teoria dell’evoluzione, la
nostra connessione con le scimmie è
l’aspetto che ha destato più scalpore,
con interpretazioni ingannevoli e
preconcetti che continuano ancora ai
giorni nostri. Nel 2010, in occasione
della scoperta di Australopithecus
sediba in Sudafrica [6], i maggiori
giornali italiani titolavano: “Trovato il
presunto anello mancante tra l’uomo
e la scimmia”. In verità, con le scimmie
antropomorfe spartiamo un antenato
comune che, come vedremo, forse
aveva più caratteri in comune con la
linea degli ominini che ha portato
all’uomo piuttosto che non con le altre
scimmie antropomorfe ancora viventi.
Le prime scimmie antropomorfe
(chiamate anche ominoidi) apparvero
circa 30 milioni di anni fa in Africa,
quando questa era completamente
separata dagli altri continenti4. Esse
si erano evolute a partire dai primati
che avevano finito con l’occupare
quasi tutte le terre emerse 55 milioni
di anni fa. Gli isotopi ci dicono che la
temperatura globale era allora salita
di 5–10 °C, probabilmente per l’effetto
serra dovuto ad un aumento di CO2
nell’atmosfera, favorendo così lo
sviluppo di foreste sempreverdi fino alle
alte latitudini.
Quaranta milioni di anni fa la placca
indiana si scontrò con quella del resto
dell’attuale continente eurasiatico,
formando l’Himalaya e innalzando
l’altipiano del Tibet; questo cambiò la
circolazione atmosferica e fece assorbire
l’anidride carbonica dalle rocce appena
formate. Il minore effetto serra, unito
alle variazioni delle correnti oceaniche,
fece così precipitare la temperatura
globale.
Diciannove milioni di anni fa, Africa
ed Eurasia, prima separate, rientrarono
in contatto in seguito allo spostamento
della zolla arabica. Gli ominoidi
poterono così espandersi su un
territorio caratterizzato da fitte foreste,
dove, essendo dotati di uno spesso
smalto dentario, potevano avere una
dieta più flessibile.
Per molti milioni di anni, una grande
varietà di ominoidi (più di 100 specie)
visse così in un’area che andava dalla
penisola iberica, alla Cina e all’Africa
meridionale, con il mare che separava e
ricongiungeva periodicamente l’Africa
e l’Eurasia. Oltre ai gibboni asiatici
(Hylobates), ora sono sopravvissuti
solo 4 generi di ominoidi, Pongo (due
specie di orangutan, nel Borneo e a
4
3
Dubois scoprì Trinil 1 (il molare di P.
erectus) nell’ottobre 1891, Trinil 2 (la calotta)
nell’ottobre 1891, Trinil 3 (il femore I)
nell’agosto 1892, pubblicando i risultati nel
1894.
La divergenza fra ominoidi (Hominoidea)
e “scimmie del Vecchio Mondo”
(Cercopithecoidea) è spesso fatta risalire a
25–23 milioni di anni fa. Recenti scoperte
anticipano questa divergenza a 29–28
milioni di anni fa [7], confermando analoghe
conclusioni ottenute con analisi genomiche.
Sumatra), Pan (bonobo e scimpanzé) e
Gorilla (varie specie) in Africa, e l’ultima
sopravissuta specie di Homo.
3 Ardi
L’ardipiteca Ardi, diventata famosa nel
2009 [8], è la femmina di un ominino
molto vicino al nostro antenato comune
con le scimmie. Con un cervello di
350 cm3, pesava cinquanta chili e
aveva una statura di 120 cm. Le ossa
di Ardipithecus ramidus sono state
scoperte nell’Afar, in Etiopia, tra due
strati di depositi vulcanici.
Ardi è stata datata a 4,4 milioni di
anni con il metodo potassio-argon.
I depositi vulcanici contengono una
grande quantità di potassio, per cui il
decadimento del 40K in 40Ar può essere
utilizzato come un orologio geologico.
Il nuclide figlio è un gas che non esiste
nelle rocce provenienti da eruzioni
vulcaniche, ma si accumula man mano
che il nuclide genitore decade. Si riesce
a risalire alla concentrazione di 40Ar
riscaldando il campione ed effettuando
le analisi con uno spettrometro di
massa. Il metodo richiede anche
di conoscere la concentrazione di
40
K; questa è ottenuta irradiando il
campione in un reattore nucleare.
Le reazioni dei neutroni con 39K
producono 39Ar, che può essere usato
per determinare la concentrazione
di potassio. Alla fine lo spettrometro
misura contemporaneamente 39Ar e
40
Ar, fornendo la data del materiale.
L’accuratezza della datazione è stata
recentemente perfezionata con l’uso
di laser per estrarre l’argon da singoli
granuli di lava. Con il metodo potassioargon si possono misurare età fino a
oltre 4 miliardi di anni fa.
L’analisi con la tomografia ai raggi X
sulle ossa del bacino di Ardi suggerisce
un comportamento locomotorio
“multicomponente”: la quadrupedia
arboricola è infatti integrata con la
presenza di nuove caratteristiche
anatomiche da bipede. Ardi aveva
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fisica e...
lunghe braccia per continuare ad
usare gli alberi mentre esplorava nuovi
habitat camminando.
Andando a ritroso nel tempo, verso
l’antenato comune, i nostri antenati
diventano sempre meno simili agli
umani attuali, ma non è vero che
diventano sempre più simili alle odierne
scimmie antropomorfe. Grazie ad A.
ramidus, sappiamo che il camminare
sulle nocche e la brachiazione sono
specializzazioni di alcune moderne
scimmie antropomorfe. Ardi, e
probabilmente anche l’antenato
comune, erano invece animali di foresta
generalisti, prevalentemente arboricoli.
Non lontano da Ardi è stato
rinvenuto anche un ominino più
antico, Ardipithecus kadabba, con età
argon-argon di 5,8–5,5 milioni di anni.
Secondo molti paleoantropologi, egli
era simile ad altri ominini più arcaici,
come Sahelanthropus tchadensis
(battezzato Toumai dagli scopritori),
trovato in Africa Centrale, con un’età
di 7,0–5,5 milioni di anni, e come
Orrorin tugeniensis, trovato in Kenya,
con un’età argon-argon di circa 6,0
milioni di anni. Queste date, sebbene
riferite a resti fossili ancora controversi,
sembrerebbero compatibili con le
analisi genetiche che indicano un’età di
5–7 milioni di anni per l’ultimo antenato
comune fra gli ominini e gli scimpanzé.
I metodi della fisica sono utili anche
in altre applicazioni. Ad esempio,
il cranio di S. tchadensis, trovato
schiacciato e distorto nel deserto del
28 < il nuovo saggiatore
Chad, era difficile da caratterizzare, ma
la tomografia computerizzata a raggi X
(effettuata con un TAC ospedaliero ) ha
consentito una ricostruzione virtuale [9],
suggerendo che apparteneva ad un
bipede, anche se questa conclusione
risulta ancora controversa. Per dirimere
la questione, una microtomografia ad
alta risoluzione è stata eseguita presso
la European Synchrotron Radiation
Facility di Grenoble, ma non è stata
ancora pubblicata [10].
4 Lucy
Lucy, femmina della specie
A. afarensis, era alta 110 cm, pesava
trenta chili e aveva un cervello di
circa 400 cm3. Datata con il metodo
argon-argon a 3,2 milioni di anni, fu
battezzata così dai suoi scopritori
che, in quella serata etiope del 1974,
stavano ascoltando la canzone Lucy
in the Sky with Diamonds (J. Lennon-P.
Mc Cartney). I resti eccezionalmente
completi di Lucy consentono di capire
importanti dettagli sull’evoluzione
umana, in particolare per quanto
riguarda il sesso femminile.
Lucy aveva l’osso iliaco più largo
e meno appiattito di quello di Pan.
Una leggera curvatura dell’ala
dell’ileo consentiva di aggiungere
un attaccamento anteriore laterale
ai muscoli che agivano sul femore
quando camminava senza far perdere le
caratteristiche che consentivano la vita
arboricola. La maggiore distanza dei
femori, dovuta anche all’allungamento
del collo femorale permetteva
agli australopitechi una migliore
arrampicata sui tronchi degli alberi, utile
per bipedi che volevano mantenere
questa opzione, pur avendo perso le
capacità prensili delle scimmie.
Ma l’ampiezza dell’osso pelvico
di Lucy e di altri pre-umani, mentre
agevolava il bipedismo, cominciava ad
aumentare i rischi della procreazione.
Un piccolo Pan, con un volume
cerebrale inferiore a quello della cavità
pelvica, poteva attraversare il canale
della nascita, di sezione costante, senza
nessuna rotazione, uscendo con la nuca
all’indietro e gli occhi rivolti alla madre.
La nascita è molto più complicata
per il piccolo umano moderno, che
deve superare un canale della nascita
il cui asse maggiore in uscita è
perpendicolare a quello in entrata. Egli
deve prima allineare le spalle con l’asse
maggiore del canale in ingresso, e poi
deve ruotare nuovamente per allinearsi
con l’asse maggiore del canale in uscita.
Alla fine, il piccolo uscirà con la nuca
rivolta alla madre dopo aver operato
due mezze rotazioni. Questo rende
molto difficoltosa l’auto-assistenza al
parto della madre.
In Lucy l’ingombro della testa
è minore della sezione della
cavità pelvica, come in Pan, ma la
ricostruzione delle diverse sezioni della
cavità suggeriscono una dinamica
di nascita a mosaico: pur avendo
bisogno di un allineamento all’ingresso,
c. tuniz: lucy e le altre
come gli umani moderni, il piccolo
Australopitecus poteva scendere
attraverso tutto il canale senza ulteriori
rotazioni, come il Pan. Si ipotizza che
le australopitecine abbiano perciò già
avuto bisogno di una certa assistenza
durante il parto [11] come le umane.
Ma le madri non sono certo le
sole a subire lo stress della nascita.
Poiché gli stress biologici si fissano
nello smalto dentario, è possibile
identificare il trauma della nascita nella
linea neo-natale dei denti decidui.
Con il metodo della microtomografia
in contrasto di fase con luce di
sincrotrone è possibile generare
immagini tridimensionali dei denti
con risoluzioni mille volte superiori a
quelle di una TAC ospedaliera. Questa
tecnica è stata applicata all’ESRF di
Grenoble per studiare i denti del piccolo
australopiteco di Taung. Contando le
linee di crescita dello smalto si può
anche valutare l’età alla morte e la
durata dell’età dello sviluppo, che in
generale è più breve per le scimmie e
i pre-umani e più lunga per gli umani.
Si ottengono così analisi confrontabili
con sezioni istologiche osservate al
microscopio, senza però sezionare il
dente. Le linee di Retzius per i denti
del bambino di Taung (misurate con
una risoluzione spaziale inferiore al
micrometro presso l’ESRF) rivelano che
esso morì a quasi quattro anni, dopo
aver raggiunto uno sviluppo simile a
quello di uno scimpanzé a lui coetaneo.
5 Nutcracker
All’inizio del Quaternario, 2,6 milioni
di anni fa, vaste aree dell’Africa subirono
enormi trasformazioni ambientali,
diventando sempre più secche e
più fredde, e gli animali che non
riuscirono ad adattarsi si estinsero.
Le forze selettive dell’evoluzione
portarono a nuove specie di animali
e questo valse anche per i pre-umani.
Uno di essi, Australopithecus boisei,
apparve nell’Africa orientale di due
milioni di anni fa. ‘Nutcracker’, come
fu soprannominato da Mary Leakey,
aveva denti più piatti e forti di Lucy,
con smalto spesso e mandibole robuste.
Poteva così ampliare la propria dieta da
quella originaria a base di frutta e foglie,
ad una più varia che comprendeva
anche radici, tuberi e noci. L’analisi degli
isotopi stabili del carbonio suggerisce
che la sua dieta era dominata da cibo
vegetale di bassa qualità quali erbe e
carici (piante acquatiche della famiglia
delle Cyperaceae) [12].
Un ominino simile, Australopithecus
robustus, apparve pure nell’Africa
meridionale. Esso aveva potenti
muscoli masticatori, ancorati ad una
caratteristica cresta sagittale sul cranio,
e molari massicci, adatti a una dieta
a base di piante ad alto contenuto
fibroso. L’analisi del rapporto 13C/12C
nello smalto dei denti sembrerebbe
confermare che A. robustus si nutrisse
anche d’insetti vari fra cui le termiti.
La microanalisi degli isotopi del
carbonio e dell’ossigeno nei suoi denti,
effettuata con la spettrometria di massa
ad ablazione laser, mostra che l’ominino
adattava la dieta alle variazioni
stagionali.
Dopo Lucy possiamo quindi osservare
una biforcazione nella sperimentazione
dell’evoluzione. Una direzione viene
seguita dalle varianti di Australopithecus,
come A. boisei e A. robustus, da molti
autori attribuiti al genere Paranthropus,
che dopo aver adattato la loro dieta
per sopravvivere nei nuovi ambienti
africani, si estingueranno comunque.
La seconda direzione, di maggiore
successo, come vedremo, contempla
la crescita del cervello e un notevole
miglioramento nella locomozione
bipede.
6 Homo
A causa del deterioramento del
clima globale, vaste aree della massa
continentale comprendente l’Africa,
l’Asia e l’Europa si ricoprirono di tundre
e di steppe. Ed è in quest’ambiente,
nell’Africa orientale, che apparve il
primo rappresentante di un nuovo
genere di ominini, il cui cervello aveva
raggiunto un volume di 600 cm3. Era
compiutamente bipede, con le dita di
mani e piedi più corte e poco adatte ad
arrampicarsi sugli alberi. Resti scheletrici
assegnati ad Homo habilis hanno età
che vanno da 2,3 e a 1,44 milioni di
anni [13]. A Hadar, in Etiopia, sono
Fig. 3 Nell’ordine, ricostruzione
dei crani di H. habilis, H. ergaster,
H. neanderthalensis, H. sapiens
(disegni di M. Tiberio e W. Gregoric,
da “I Lettori di Ossa” (Springer,
Milano)).
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fisica e...
Fig. 4 Ricostruzione di
H. neanderthalensis, Neanderthal
Museum, Mettmann, Germania (foto
C. Tuniz).
stati trovati strumenti litici associati
a quest’ominino in livelli geologici
datati intorno a 2,5 milioni di anni fa;
questo risultato fu ottenuto con vari
metodi, compreso quello delle tracce di
fissione. Quest’ultimo metodo si basa
sull’accumulo, in minerali vulcanici, degli
effetti dovuti alla fissione spontanea
del 238U, presente in traccia nelle rocce.
I frammenti di fissione producono
tracce microscopiche in cristalli come
l’apatite, le quali si possono preservare
per milioni di anni, se rimangono
sotto 120 °C circa. Le tracce sono rese
visibili con attacco di acido fluoridrico
e contate al microscopio. La densità
delle tracce fornisce quindi l’intervallo
trascorso dall’ultima eruzione vulcanica,
ma serve conoscere la concentrazione
di uranio. Questa viene calcolata
irradiando il campione in un reattore
nucleare, i cui neutroni inducono la
fissione dell’ 235U, effetto che viene
misurato contando le tracce di fissione.
Con il metodo delle tracce di fissione si
30 < il nuovo saggiatore
Fig. 5 Microtomografo computerizzato a raggi X, in operazione presso il
Laboratorio Interdisciplinare dell’ICTP e dedicato ad applicazioni in campo
archeologico e paleoantropologico. Il sistema è stato progettato e costruito in
collaborazione con Sincrotrone Trieste, con il supporto finanziario della regione
Friuli-Venezia Giulia (immagine ICTP).
possono ottenere datazioni fino a oltre
un miliardo di anni fa.
H. habilis aveva lunghe braccia e
dimensioni fisiche simili a quelle delle
australopitecine, creando difficoltà
a distinguere i due generi in questa
prima fase di Homo. Recentemente
sono stati scoperti in Africa meridionale
una femmina adulta e un ragazzo di
una nuova specie, A. sediba, datati a
1,977 ± 0,002 Ma [14], utilizzando il
decadimento di 235U in 207Pb e 238U in
206
Pb. Questa specie pre-umana ha un
cervello paragonabile a quello di una
scimmia antropomorfa, ma i denti, le
gambe e la pelvi sono simili a quelli
umani. L’analisi del cranio del giovane
con la microtomografia a luce di
sincrotrone ha permesso di ricostruire
la forma del suo cervello, caratterizzato
da lobi frontali asimmetrici, come
negli umani. I risultati suggeriscono
che la riorganizzazione neurale fosse
iniziata nella linea pre-umana prima
dell’espansione del cervello, con un
possibile aumento di connessioni nella
regione che negli umani è associata al
linguaggio e al comportamento sociale
[15]. Gli scopritori credono che A. sediba
rappresenti una specie che collega
A. africanus e Homo, ma secondo
altri paleoantropologi non abbiamo
abbastanza dati per stabilire se Homo
si sia evoluto da una delle specie di
australopiteco note.
Una nuova specie, Homo ergaster,
apparve in Africa circa due milioni di
anni fa. Il campione di riferimento è
un ragazzo scoperto nel 1984, vicino
al lago Turkana, in Kenya, denominato
‘Nariokotome boy’. Alto 175 centimetri,
con un peso doppio rispetto alle
australopitecine adulte, aveva un
cervello di 900 cm3.
L’analisi del suo scheletro e dei suoi
denti fornisce l’età alla morte, avvenuta
tra 10 e 13 anni. La sua mascella minuta
e i suoi piccoli denti rivelano una dieta
a base di cibi teneri, compresi frutta e
carne. Sua madre aveva probabilmente
c. tuniz: lucy e le altre
Fig. 6 Lo studio con la microtomografia computerizzata ai raggi x del ‘flauto’ scoperto
nella grotta di Divje babe I dimostra che questo osso perforato di orso delle caverne
(Ursus speleus, ora estinto) danno supporto all’ipotesi che sia uno strumento musicale.
è stato rinvenuto in strati geologici corrispondenti a 50-60 mila anni fa, quando l’unica
specie umana presente in Europa era quella di Homo neanderthalensis. Le analisi
sono state effettuate presso i laboratori di Elettra a Trieste, in una collaborazione tra
Sincrotrone Trieste, ICTP e il Museo di Lubiana (immagine ICTP).
ancora una pelvi abbastanza larga e
piatta (platipelloide), che implicava un
meccanismo di parto non rotazionale,
simile alle australopitecine, ma adattata
al parto di figli dal cervello di massa
molto più grande. Questa ipotesi è
supportata dal ritrovamento, nella
zona dell’Afar in Etiopia, di una pelvi
completa di H. erectus appartenente a
una donna adulta risalente a 0,9–1,4
milioni di anni fa [16].
La pelvi arcaica fu probabilmente
mantenuta fino al Pleistocene medio,
negli ominini rappresentati in Europa
da H. heidelbergensis, l’antenato
comune tra noi e i Neanderthal,
forse anch’esso originario dell’Africa.
H. heidelbergensis era ancora presente
in Europa 300–400 mila anni fa, come
confermato dal ritrovamento dell’uomo
di Visogliano, vicino a Trieste. I gruppi
di H. heidelbergensis rimasti in Africa
(H. rodhesiensis) si si sono evoluti invece
in H. sapiens (vedi fig. 3)
7 Neanderthal
H. neanderthalensis (fig. 4) si
evolse almeno 200000 anni fa da
H. heidelbergensis e si estinse 28000
anni fa, quando gli ultimi esemplari
trovarono rifugio vicino a Gibilterra.
Ma dire totalmente non è corretto,
visto che probabilmente una piccola
frazione di Neanderthal è in quasi
tutti noi. Mentre le prime analisi del
DNA mitocondriale dei Neanderthal
non avevano evidenziato alcuna
connessione genetica tra H. sapiens e
H. neanderthalensis, recenti analisi del
DNA nucleare, eseguite al Max Plank
Institute di Lipsia, dimostrano che i
Neanderthal contribuiscono per circa
il 4% al DNA degli umani oggi esistenti
fuori dall’Africa. Tali risultati derivano
dall’analisi del genoma nelle ossa di
Neanderthal di circa 45 mila anni fa
trovati nelle grotte di Vindija in Croazia.
I dati indicano un’ibridazione avvenuta
non in Europa, ma più probabilmente
nel Medio Oriente. L’orologio molecolare
suggerisce che i Neanderthal e gli
umani moderni si sono separati prima
di 350 mila anni fa, forse verso mezzo
milione di anni fa [17].
La cultura di H. neanderthalensis è un
problema ancora aperto. Nella caverna
di Divje Babe, in Slovenia, in uno strato
di 60000 anni fa, è stato trovato un
osso di femore d’orso con quattro
buchi che non sembrano casuali,
prodotti per esempio dal morso di un
animale. Molti sostengono che si tratti
di un flauto costruito dai Neanderthal.
L’analisi con la microtomografia a
raggi X – sviluppata nell’ambito di una
collaborazione tra ICTP, Sincrotrone
Trieste e museo di Lubiana –
sembrerebbe confermare quest’ultima
ipotesi [18] (vedi fig. 5 e fig. 6).
Altri aspetti del pacchetto culturale
che associamo con H. sapiens
potrebbero essere stati presenti in
H. neanderthalensis. Si è scoperto che i
Neanderthal si dipingevano il corpo e si
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fisica e...
Fig. 7 Cerimonia di cremazione della Donna di Mungo, Australia, 50000 anni fa
(disegno di Tullio Perentin, ZOIC, da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)).
adornavano con collane di conchiglie e
con penne d’uccello [19], cercando forse
di competere sessualmente con i loro
rivali sapiens.
È possibile che i Neanderthal, i cui
resti sono stati trovati in un’area che
si estendeva dalla Spagna alla Siberia
meridionale, avessero una qualche
forma di linguaggio articolato. Ma
esso è apparso improvvisamente o
gradualmente?
Finora questo tema è stato studiato
solo indirettamente e da diversi punti
di vista. Certi studiosi presumono
che l’organizzazione della caccia ai
grandi animali avesse bisogno di
comunicazione verbale. Altri hanno
studiato la struttura alla base del cranio
e la morfologia del cervello collegata
con l’area di Broca. Altri ancora hanno
usato la paleogenetica, analizzando
il gene FOX-P2, responsabile
dell’articolazione fonetica. L’osso
ioide ha un ruolo importante nella
vocalizzazione in quanto la struttura
istologica può essere collegata alla
32 < il nuovo saggiatore
fonazione. La struttura di tale osso ha
una grande variabilità tra i primati,
le scimmie, i pre-umani e gli umani.
L’osso ioide dell’austrolapiteco ha
una superficie liscia come quella
delle scimmie, indicando che vi erano
attaccati pochi muscoli. Quello degli
umani arcaici, dei Neanderthal e
dei sapiens ha una superficie molto
scolpita, adatta per governare diversi
muscoli, per modulare la lunghezza del
tratto vocale e le corde vocali stesse.
La microstruttura dello ioide potrebbe
fornire nuove informazioni sull’origine
del linguaggio articolato. Sono
disponibili alcuni ioidi fossili di umani
non sapiens e pre-umani, analizzabili
con l’istologia virtuale basata sulla
luce di sincrotrone. Tali metodi sono
utilizzati dal nostro gruppo per
analizzare l’osso ioide del Neanderthal
di Kebara, Israele, in collaborazione con
l’Università di Chieti, Sincrotrone Elettra,
e l’Università di Tel Aviv.
Altri gruppi hanno recentemente
utilizzato la microtomografia a luce di
sincrotrone per studi sistematici sulla
microstruttura dei denti di Neanderthal.
È stato possibile determinare che le
loro corone dentarie crescevano più
rapidamente di quelle dei denti di
H. sapiens. La stessa analisi effettuata
su denti di giovani H. sapiens dello
stesso periodo dimostra che i denti
crescevano in modo simile a quelli
degli umani attuali. Confrontando
la microstruttura dei loro denti con
umani più arcaici e con pre-umani, si
conferma che entrambi presentano
un’età dello sviluppo più prolungata,
particolarmente H. sapiens [20].
8 Mungo Lady
Homo sapiens arrivò in Australia
almeno quarantamila anni fa, come
testimoniano i resti trovati nei Laghi
Willandra, a ottocento chilometri da
Sydney. È qui che nel 1969 è stata
trovata la donna di Mungo, morta
quando aveva circa vent’anni. Il modo
in cui gli antichi abitanti di Mungo
c. tuniz: lucy e le altre
Fig. 8 Sistema miniaturizzato per l’analisi del radiocarbonio con la spettrometria di massa
usando un acceleratore di ioni a 250 kV. Per gentile concessione della National Electrostatics
Corporation, USA.
avevano preparato il corpo della donna
per la cerimonia funebre ha dello
straordinario. Prima la cremarono,
poi tolsero lo scheletro dalle ceneri e
ne frantumarono le ossa, prestando
particolare attenzione al cranio, ed
infine lo seppellirono definitivamente,
dopo averlo cosparso di polvere di ocra
(fig. 7). Le ossa di altri individui, incluso
l’intero scheletro di un maschio adulto
e di un bambino, vennero trovate negli
anni seguenti.
La prima datazione delle ossa con
il radiocarbonio rivelò età di 29000
anni fa. Ma ulteriori analisi sembrano
suggerire una data più antica. A questo
punto è bene ricordare brevemente
le caratteristiche delle diverse
metodologie utilizzate.
La datazione al radiocarbonio si basa
sul decadimento del 14C, prodotto
dalle reazioni nucleari dei raggi
cosmici con gli atomi dell’atmosfera.
La concentrazione di 14C raggiunge
un valore di equilibrio di un atomo
su circa 1012 atomi di 12C. Il ritmo di
produzione del radiocarbonio e la
sua concentrazione nell’atmosfera
dipendono dall’intensità del campo
magnetico terrestre e di quello solare,
che schermano il pianeta dai raggi
cosmici. Di ciò si può tener conto con
opportuni metodi di calibrazione.
Il 14C entra a far parte della catena
alimentare attraverso la respirazione
e la fotosintesi. La concentrazione
di 14C negli organismi viventi è circa
uguale a quella dell’atmosfera.
Dopo la formazione dei tessuti, la
concentrazione di 14C inizia a diminuire
a un ritmo conosciuto, in seguito al
suo decadimento in 14N. Quindi, la
concentrazione residua di 14C nei
materiali organici è in grado di rivelarne
l’età, fino a un limite massimo di circa
55000 anni (fig. 8).
Analisi effettuate nel 1999 con
l’uso della risonanza paramagnetica
elettronica (EPR), per uno scheletro
trovato a Mungo, diedero età superiori
a 60 mila anni. L’EPR si basa sull’effetto
degli elementi radioattivi naturali,
soprattutto uranio, e dei raggi cosmici,
sulla struttura elettronica dei cristalli,
per esempio nello smalto dentario. Gli
elettroni occupano in coppia lo stesso
livello energetico di un atomo, ma se
uno dei due viene intrappolato in una
“vacanza” per effetto della radioattività
naturale, l’altro resta spaiato. C’è
quindi una correlazione lineare tra il
numero di elettroni intrappolati e il
tempo di esposizione alla radioattività
naturale. Nel metodo EPR, gli spin di
questi singoli elettroni sono allineati
da un forte campo magnetico esterno.
Quando il campione è irradiato
con microonde, gli elettroni spaiati
cambiano livello energetico assorbendo
energia. La quantità di energia assorbita
permette di stabilire il numero totale
di elettroni spaiati e, di conseguenza,
l’età del campione, fino a oltre 500000
anni fa. Tuttavia è essenziale avere una
buona stima della dose di radiazione
annuale cui è stato sottoposto il
campione durante il periodo in cui è
rimasto sepolto nel terreno.
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fisica e...
Fig. 9 I cristalli di quarzo delle rocce che si trovano sulla superficie terrestre sono bombardati
dai raggi cosmici secondari (principalmente muoni e neutroni), le cui reazioni nucleari
producono isotopi radioattivi di berillio-10 e alluminio-26. Quando i cristalli vengono sepolti
a diversi metri di profondità, la produzione di radioisotopi cessa. Il decadimento radioattivo
impoverisce la concentrazione degli isotopi cosmogenici, che fungono così da cronometri
e la loro abbondanza misura il tempo trascorso dall’ultima esposizione ai raggi cosmici.
Per contare questi atomi rari si deve usare la spettrometria di massa con acceleratore. La
concentrazione degli atomi di berillio-10 e di alluminio-26 permette di datare la “sepoltura”
dei sedimenti e di stimare l’età di reperti fossili risalenti anche ad alcuni milioni di anni fa.
Le stime ottenute tramite la serie
dell’uranio, basate sull’analisi diretta
della radioattività gamma del cranio
dell’uomo di Mungo, oscillano tra 60000
e 74000 anni. Per condurre questo
esame, la parte del cranio rinvenuta, del
peso di 305 grammi, fu collocata in una
camera, schermata al piombo e munita
di rivelatori per contare la radiazione
gamma ad alta energia emessa dal
decadimento dell’uranio e dei suoi
prodotti. I sedimenti in cui sono stati
trovati gli scheletri sono stati infine
datati con la tecnica della luminescenza
stimolata otticamente (OSL), fornendo
invece età tra 38000 e 42000 anni. OSL
si basa sugli stessi principi di EPR, ma gli
elettroni sono fatti ritornare al loro stato
fondamentale irradiando il cristallo con
un laser. Si misura la radiazione emessa,
la cui intensità è proporzionale alla
dose accumulata nel cristallo in seguito
all’effetto della radioattività naturale nel
tempo. OSL può fornire datazioni fino
34 < il nuovo saggiatore
ad oltre 500000 anni fa.
In conclusione, possiamo dire che
le ossa più antiche di Homo sapiens
ritrovate in Australia hanno almeno
40000 anni. L’ipotesi che l’uomo sia
arrivato in Australia già 60000 anni fa
è comunque plausibile, anche in base
a datazioni con la luminescenza di siti
archeologici nel nord del continente.
È invece ancora acceso il dibattito sul
ruolo dell’uomo e dei cambiamenti
climatici nell’estinzione della
megafauna australiana del Pleistocene.
Solo nuove datazioni e analisi avanzate
con metodi fisici risolveranno il
problema (fig. 9, fig. 10).
9 Hobbit
Una donna appartenente ad una
nuova specie umana fu scoperta
dall’archeologo australiano Mike
Morwood nel 2003 nella caverna
di Liang Bua, nell’isola di Flores in
Indonesia. Classificata come Homo
floresiensis, per il pubblico e i media,
essa ha assunto il nome di ‘hobbit’: il
noto personaggio di Tolkien (fig. 11).
L’hobbit, la cui conformazione pelvica
suggeriva fosse di sesso femminile,
pareva simile, anche se più minuta, a
Homo georgicus, datato a 1,8 milioni di
anni, una specie intermedia tra H. habilis
e H. ergaster/erectus. Inizialmente il
paleo-antroplogo australiano Peter
Brown ipotizzò che gli hobbit si fossero
evoluti da Homo erectus e che le loro
dimensioni fisiche si fossero ridotte in
seguito al lungo isolamento sull’isola di
Flores. Questa ipotesi si basava sul fatto
che nel 1998 Morwood e i suoi colleghi,
datando alcuni strumenti litici rinvenuti
a Mata Menge, al centro dell’isola,
avevano ottenuto, con il metodo delle
tracce di fissione, età di oltre 840000
anni. Questo li attribuiva appunto a
Homo erectus.
Egualmente sorprendente fu l’età
c. tuniz: lucy e le altre
Fig. 10 Metodi di datazione basati sulla radioattività
naturale forniscono cronologie dalle migliaia ai
milioni di anni.
recente dell’hobbit. I gruppi australiani
hanno datato grani di quarzo e
feldspato associati ai resti di hobbit
con la tecnica della luminescenza,
ottenendo età inferiori a 30 mila anni.
La datazione di frammenti di carbone
contigui allo scheletro ha fornito invece
un’età di 18000 anni. In seguito il
gruppo di ricerca raccolse resti di altri
6–9 esemplari di hobbit (il numero
variava secondo l’assemblaggio degli
scheletri), che avevano età comprese
tra 20000 e 12000 anni. Gli strumenti
litici associati a questi resti coprivano un
periodo che andava da 95000 a 12000
anni fa e assomigliavano ai manufatti di
Mata Menge.
A Liang Bua sono stati impiegati
quasi tutti i metodi di geocronologia
disponibili (dal radiocarbonio alla
termoluminescenza, all’OSL, alla serie
dell’uranio e all’EPR), applicati su una
gamma di materiali (carbone, feldspato,
carbonato di calcio e dentina).
Fig. 11 L’autore con il cranio di Homo floresiensis,
presso il l’Istituto di Archeologia di Giacarta in
Indonesia (foto C. Tuniz).
Esistono quindi prove convincenti che
H. floresiensis sia vissuto per un lungo
periodo in una regione frequentata da
H. sapiens. Più incerta è la sua posizione
filogenetica e recentemente è stata
considerata una possibile connessione
con specie pre-umane. Esiste tuttavia
una piccola minoranza di studiosi che
insiste sulla tesi che l’hobbit non fosse
nient’altro che un H. sapiens malato di
microcefalia.
10 Conclusioni
L’albero dell’evoluzione umana è ricco
di fronde. Un’incredibile biodiversità di
specie emerge dai fossili, mostrando
i diversi modi in cui si possa essere
umani. Come succede sempre in natura,
non siamo in presenza di un’evoluzione
‘lineare’, da grezzi proto o pre-umani
a perfetti H. sapiens. Ci sono invece
molti rami che crescono in parallelo,
poi potati dalla selezione naturale,
anche attraverso variazioni climatiche
e ambientali. Un ruolo importante
è giocato dal caso, che opera sulle
mutazioni genetiche: alcune risultano di
successo, altre no.
I resti di individui di sesso femminile
consentono di far luce su elementi
importanti della funzionalità
riproduttiva, chiave di volta
dell’evoluzione. Gli studi sulle origini
dell’umanità si basano su diverse aree
disciplinari, compresi gli strumenti
e i metodi che derivano dalla fisica
e che qui si sono voluti brevemente
richiamare.
Tutti i primati viventi, compresi gli
umani attuali, non rappresentano
ovviamente gli stadi finali dei loro
rispettivi processi evolutivi. In fin dei
conti, le sole specie che raggiungono lo
stadio evolutivo finale sono quelle che
si estinguono.
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Ringraziamenti
Molte grazie a Roberto Macchiarelli, Giorgio Manzi e Telmo
Pievani per i loro preziosi suggerimenti, e ai miei colleghi,
con cui spartisco la passione per la scienza del passato, tra cui
Federico Bernardini, Luca Bondioli, Giovanni Boschian, Luigi
Capasso, Julian Chela-Flores, Andres Cicuttin, Alfredo Coppa,
Maria Liz Crespo, Ruggero D’Anastasio, Diego Dreossi, Richard
Gillespie, Colin Groves, Cheryl Jones, Lucia Mancini, Ariadna
Mendoza Cuevas, Mike Morwood, Bert Roberts, Giuliana
Tromba, Gerrit van den Bergh, Steve Wroe, Franco Zanini e
molti altri.
Bibliografia
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(Murray, Londra) 1859.
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Letture di approfondimento
J. L. Arsuaga, “Luce si farà sull’origine dell’uomo” (Feltrinelli, Milano) 2006.
G. Manzi, “Homo Sapiens” (Il Mulino, Bologna) 2006.
G. Manzi, “L’evoluzione umana” (Il Mulino, Bologna) 2007.
G. Manzi & A. Vienna, “Uomini e ambienti” (Il Mulino, Bologna) 2009.
T. Pievani, “La Vita Inaspettata” (Raffaello Cortina Editore, Milano) 2011.
C. Tuniz, R. Gillespie and C. Jones, “The Bone Readers” (Allan and Unwin,
Sydney, Left Coast Press, USA) 2009.
C. Tuniz, R. Gillespie and C. Jones, “I Lettori di Ossa”, (Springer-Verlag,
Milano) 2009.
C. Tuniz, J. R. Bird, D. Fink and G. F. Herzog “Accelerator Mass Spectrometry”
(CRC Press, LLC, USA) 1998.
C. Tuniz, U. Zoppi and M. Barbetti, “AMS dating in archaeology, history
and art”, in Radiation in Art and Archaeometry, a cura di D. C. Creagh,
D. A. Bradley (Elsevier, Amsterdam) 2000, pp. 444-471.
Claudio Tuniz
Claudio Tuniz è noto a livello internazionale per gli studi di geocronologia applicati al passato dell’uomo e del
suo ambiente, che ha condotto in vari laboratori negli Stati Uniti, in Australia e in Europa. Ha diretto per dieci anni
i laboratori di radiodatazione di Sydney dove si è occupato dei programmi di ricerca sulla preistoria australiana.
È stato Assistant Director del Centro Internazionale Fisica Teorica “Abdus Salam” (ICTP) di Trieste dal 2004 al 2010.
È stato anche direttore del Laboratorio Multidisciplinare dell’ICTP, dove attualmente promuove l’applicazione di
metodologie analitiche avanzate in studi di paleoantropologia. Coordina un progetto finanziato dalla Regione
Friuli Venezia Giulia per lo sviluppo di strumenti portatili a raggi X per studi di paleoantropologia e archeologia.
È membro della commissione scientifica istituita dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici della Lombardia per
le indagini sul frammento di cranio di uomo di Neanderthal rinvenuto sugli argini del Po nel 2009 e noto come
Paus.
36 < il nuovo saggiatore
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