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GLI ANGELI DELLA PIETÀ Intorno a Giovanni Bellini

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GLI ANGELI DELLA PIETÀ Intorno a Giovanni Bellini
GLI ANGELI DELLA PIETÀ
Intorno a Giovanni Bellini
UMBERTO ALLEMANDI & C.
TORINO ~ LONDRA ~ VENEZIA ~ NEW YORK
GLI ANGELI DELLA PIETÀ,
intorno a Giovanni Bellini
Poche parole di presentazione della mostra
Museo della città, via Tonini, Rimini
19 agosto - 4 novembre 2012
MARCO BONA CASTELLOTTI - MASSIMO PULINI
Mostra realizzata da
Ufficio stampa
Matteo Lessi, Fondazione Meeting per l’Amicizia
fra i popoli
Emilio Salvatori, Ufficio Stampa Comune
di Rimini
Gestione sala espositiva
Museo della Città
Comune di Rimini - Musei Comunali
Servizi assicurativi
Società Lloyd’s
Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli
A cura di
Marco Bona Castellotti
Massimo Pulini
Progetto dell’allestimento
Musei della città – Ufficio Mostre
Partner
Immagine grafica
Segreteria organizzativa
Annamaria Bernucci
Orietta Piolanti
Trasporti
Gianpaolo Gnudi Trasporti Bologna
Catalogo a cura di
Filippo Piazza
Coordinamento promozione
Daniela Schettini
Autori dei saggi
Marco Bona Castellotti
Alessandro Giovanardi
Massimo Pulini
Albo dei prestatori
Pesaro, Musei Civici
Faenza, Pinacoteca Comunale di Arte Antica
e Moderna
Bologna, Pinacoteca Nazionale
Collezionisti privati
Autori delle schede
Marco Bona Castellotti
Giacomo Alberto Calogero
Gianluca del Monaco
Michele Andrea Pistocchi
Massimo Pulini
Maria Rosaria Valazzi
Sezione didattica
Marco Bona Castellotti
Inoltre si ringrazia
Giovanni Agosti
Daniele Benati
Matteo Ceriana
Rosita Copioli
Oreste Delucca
Vincenzo Gheroldi
John Lindsay Opie
Paolo Prosperi
Giulia Semenza
Camillo Tarozzi
Banca popolare Valconca
Moca
Si ringraziano per la gentile collaborazione prestata
Francesca Banini, Gianpiero Cammarota,
Claudio Casadio, Mino Devanna, Luigi Ficacci,
Emanuela Fiori, Mimma Manfredi,
Stefano Mazzotti, Dacia Manto,
Alessandro Marchi, Giulio Oliva,
Adele Pompili, Serenella Santoni, Mario Scaglia,
Maria Rosaria Valazzi.
In copertina
GIOVANNI BELLINI, «Cristo morto con quattro angeli», 1475 circa
(foto Delucca & Casalboni fotografi).
Q
uesta mostra che ha per titolo «Gli angeli della Pietà» si sviluppa intorno a quello che, con ogni probabilità, è il dipinto più importante conservato nel Museo della Città di Rimini: il «Cristo morto con quattro angeli» di Giovanni Bellini. Nonostante la sua notorietà, ci è parso giusto ripresentarlo al pubblico in una rassegna incentrata solo su tale opera, come è
opportuno che avvenga in tempi di strettezze economiche nei quali le grandi mostre si fanno sempre più rare e le grandi mostre
d’argomento non ancora consumato, ancora di più.
Questa rassegna - organizzata dal Comune di Rimini e dal Meeting per l’Amicizia fra i popoli - consegue a quella monografica che si tenne a Roma nelle Scuderie del Quirinale nel 2008, dove il capolavoro del pittore veneziano era esposto, quindi per
molti particolari d’ordine critico e cronologico si rimanda al catalogo curato da Mauro Lucco e Giovanni Carlo Federico Villa. Ciò non toglie che il «Cristo morto con quattro angeli» non finisca mai di stupire e di riaccendere la curiosità tanto degli studiosi specializzati in problemi belliniani, che di singoli critici e storici dell’arte cui è concessa qualche incursione in campi di
non loro specifica competenza; nella fattispecie di noi due che abbiamo concertato insieme, sino dall’inizio, di puntare l’attenzione sul quadro di Giovanni Bellini, senza spostarlo dalla sue sede. Il suo fascino magnetico è tale da attirare molteplici confronti.Ciò si è verificato senza sprechi e in misura essenziale e limitata a opere radunate in numero ridotto, come la situazione
generale impone. L’abbiamo fatto nella certezza che la stupenda tavola di Bellini non abbisogni di folti corteggi per riaffermare sempre la propria bellezza, una bellezza commovente, visibile in ogni sua parte, dalla figura di Cristo a quelle degli angeli, il
cui ««sviluppo» tipologico - come aveva pungentemente osservato Roberto Longhi nel 1914 - la faceva ritenere della maturità e
databile oltre il Polittico di Pesaro.
Le vicende della tavola del Museo della Città di Rimini, in parte ancora da delineare, conoscono un punto fermo nel testamento del febbraio 1499, reso noto da Augusto Campana (1962), nel quale il giureconsulto Rainerio Migliorati, consigliere di Roberto Malatesta, lasciava all’altare della chiesa di Sant’Antonio Abate di Rimini una «tabulam depictam manu Joannis Bellini in qua est depicta imago Domini Nostri Iesu Christi Salvatoris mortui et sublati de cruce in formam pietatis». È pressoché
certo che il dipinto citato nel testamento - e in un inventario successivo - sia lo stesso pervenuto in seguito alle soppressioni napoleoniche in quello che sarebbe poi diventato il Museo della Città, tuttavia non sappiamo con certezza chi ne fosse stato il committente; si avanza soltanto una nuova ipotesi.
Giovanni Bellini non era al primo cimento del tema di Cristo morto con angeli, avendolo già esperimentato nella tavola oggi
al Correr e in quella inserita nel polittico di San Vincenzo Ferreri in Santi Giovanni e Paolo a Venezia e in altri dipinti. Il soggetto di Cristo morto con angeli aveva iniziato a diffondersi a partire dal prototipo di Donatello dell’altare del Santo a Padova,
incontrando grande fortuna a Venezia, per ragioni che lasciano ulteriori margini di ricerca.
Uno dei campi di indagine della mostra riminese verte sulla particolare scelta iconografica, e sullo straordinario sviluppo nei tipi angelici, che Bellini non rese in nessun altro esempio in modo così intenso e toccante. In questa rassegna l’iconografia viene
riconsiderata grazie al paragone con il «Cristo e angeli» di Marco Zoppo del Musei Civici di Pesaro, il rilievo quattrocentesco
in cartapesta del Museo di Faenza, riferito dubitativamente al Bellano e a una insigne derivazione bolognese, vale a dire la tavola di Francesco Francia della Pinacoteca Nazionale di Bologna, mentre all’iter iconografico che si dipana dai prototipi di Donatello la mostra intende contribuire con la segnalazione, sinora rimasta un po’ in ombra, della magnifica medaglia di Matteo
Sommario
de’ Pasti con il «Cristo» di profilo al diritto e il «Cristo morto sostenuto da due angeli e la croce» al rovescio, di cui esiste un indiscutibile modello (quasi certamente un precedente) nei rilievi della seconda cappella a destra, detta «degli Angeli che giocano», nel Tempio Malatestiano.
Sul piano figurativo l’ascendente che il Cristo riminese esercita sulla pittura romagnola - da Benedetto Coda a Marco Palmezzano - rappresenta un altro capitolo di notevole interesse, ma allo «specchio romagnolo» si è potuto accennare solo in catalogo.
Durante il cammino che ci ha condotti sino a qui è tornata alla ribalta l’attribuzione allo stesso Giovanni Bellini della «Testa
di San Giovanni Battista» (presente nella mostra) dei Musei Civici di Pesaro, tradizionalmente riferita dalla critica a Marco
Zoppo (vedi la scheda di Maria Rosaria Valazzi in questo catalogo anche per quanto concerne la provenienza ). L’attribuzione a Bellini non è del tutto inedita, annoverando tra i suoi sostenitori Roberto Longhi, Vittorio Moschini, Rodolfo Pallucchini, Alessandro Conti e altri che ora usciranno allo scoperto. Chi la rilancia è un giovane studioso che lavora all’Università di
Bologna, Giacomo Alberto Calogero, confortato in questa sua niente affatto infondata idea non solo da ragioni di stile, ma anche dal fatto di avere riletto un documento conservato nella Biblioteca Oliveriana di Pesaro nel quale si dice che il tondo con la
«Testa di San Giovanni Battista» fu donato alla chiesa di San Giovanni Battista in Pesaro «dalli SS. Duchi», i Della Rovere,
e che di conseguenza non faceva in origine parte del polittico pesarese dello Zoppo.
L’interessante duplice contributo filologico e critico di Calogero - che sicuramente susciterà discussioni - conferisce alla mostra
un motivo ulteriore per non chiudere il «caso» di Bellini, di Zoppo e del «Cristo morto con quattro angeli» definitivamente, cosa che - del resto - nessuno avrebbe auspicato.
7
Cristo morto con quattro angeli
MASSIMO PULINI
11
Il Re della gloria
MARCO BONA CASTELLOTTI
17
La Docta religio di un dipinto. Erudizione e devozione
nella «Pietà» riminese di Giovanni Bellini
ALESSANDRO GIOVANARDI
20
Lo specchio romagnolo
MASSIMO PULINI
25
Schede
42
Bibliografia
GIOVANNI BELLINI
(Venezia, 1438 circa - 1516)
Cristo morto con quattro angeli
1475 circa
Tempera e olio su tavola,
80,5 x 120 cm.
Rimini, Museo della Città,
inv. 18 PQ.
L
a prima notizia documentaria che
abbiamo di una «tabulam depictam manu Johannis Bellini in qua est depicta imago domini nostri Iesu Christi
Salvatoris mortui et sublati de cruce in
formam pietatis» è del 17 febbraio 1499 e
la dice collocata nella chiesa di Sant’Antonio facente parte dell’allora complesso
di edifici pertinenti al Tempio Malatestiano riminese. È il testamento del giureconsulto Rainerio di Ludovico Migliorati,
consigliere di Pandolfo e di Roberto Malatesta, che la intende legare all’altare del
proprio sepolcro. Malgrado alcuni studiosi abbiano tenuto aperta l’ipotesi che
la citazione si riferisse a un altro dipinto
(cfr. VILLA, in Giovanni Bellini 2008, p.
178), fino a prova contraria va ritenuta
questa la prima collocazione presunta della tavola in parola, nonostante si parli di
un’opera eseguita probabilmente più di
vent’anni prima.
Vasari ricorda, come dipinto da Bellini
per Sigismondo Malatesta, «un quadro di
una Pietà che ha due puttini che la reggono, la quale è oggi in San Francesco in
quella città» (VASARI 1550 e 1568). La
discrasia sul numero degli angeli, non rara nel travaso dagli appunti alla stampa
de Le vite, può considerarsi trascurabile,
meno credibile invece la cronologia che
circoscriverebbe l’opera entro il 1468, anno di morte di Sigismondo, ma Vasari
scrive a quasi un secolo di distanza.
La maturità aulica della composizione e
la cifra classica delle forme fisiche non sono compatibili con una data così precoce, anche se Lucco (2004, p. 91), riprendendo pareri di Fry (1900, pp. 32-33) e
Huse (1972, pp. 17, 18) la ritiene attendibile. Tutti gli altri studiosi concordano
per una prossimità alla pala pesarese (realizzata tra il 1471 e il 1475) e Tempestini
(in Marco Palmezzano 2005, p. 216) la colloca strettamente vicina al 1475. Più ancora della magnifica e sontuosa «Incoronazione» di Pesaro, l’opera si affianca allo stile della «Santa Giustina» del Museo
Bagatti Valsecchi e al «Ritratto di Giovinetto» di Birmingham, che insistono sulle medesime cronologie e che prestano
confronti fisionomici alle figure degli angioletti riminesi. Anche gli analoghi soggetti belliniani del Museo Correr, dell’Accademia Carrara e di Palazzo Ducale mostrano nelle forme un carattere più
arcaico e aspro, per certi versi ancora gotico, mentre nel dipinto del Museo della
Città il disegno degli angeli e del Cristo
acquista un respiro unitario e di misura rinascimentale. «Le masse muscolari contratte cominciano a rilassarsi nel deposto
di Berlino e di Rimini. La fatica dell’eroe
è oramai compiuta, ma davanti all’intatta bellezza delle carni, l’osservatore stupefatto quasi non se ne ricorda più, e alla devozione subentra l’ammirazione» (SARACINO 2007, p. 303).
Nel 1929 Paoletti avanzò l’ipotesi di identificare, quale committente, Carlo Malatesta, nipote di Sigismondo e figlio di Roberto, e fino a poco tempo fa (TEMPESTINI, in Marco Palmezzano 2005, p. 216)
7
continuava a prevalere questa tesi, ben dopo il ritrovamento del testamento Migliorati a opera dello storico Augusto Campana (1962, pp. 405-427). Credo tuttavia vadano meglio considerate le parole
del Vasari: «Né ancora dirò tutto quel che
di suo egli mandò per il dominio di Venezia, et molti ritratti di principi che egli
fece, senza le altre cose spezzate di alcuni
quadroni fatti loro, come in Rimino al s.
Sigismondo Malatesta un quadro di una
Pietà...» (VASARI 1550, ed. 1986, vol.
III, p. 97). Se la tavola riminese era una
«cosa spezzata», parte di un «quadrone»
fatto a uno dei «principi», allora si può
anche immaginare un polittico iniziato
per volere di Sigismondo, di cui la «Pietà» doveva costituire quasi certamente la
cimasa, dunque nulla vieta che questa potesse essere stata eseguita quando il primo
committente era già defunto. Nell’edizione del 1568 non si parla più di «cose spezzate» e il «quadrone» si perfeziona in «un
quadro grande». Restano comunque possibili altre ricostruzioni e di certo merita
un approfondimento di studi la figura del
giureconsulto Migliorati (vedi saggio di
Giovanardi in questo catalogo).
Nella tavola levigata, sottilmente segnata
al centro da una crepa che la percorre in
longitudine, si rappresenta la visione del
corpo umano del figlio di Dio, martoriato e ucciso, ma ancora bello, possente,
proprio come un eroe omerico morto in
battaglia. Sul largo gradino di base, che
imita un marmo rosato, quattro angioletti in piedi lo assistono e uno di loro è impegnato a porre la salma del Cristo in posizione seduta, facendola ruotare sul bacino. A voler seguire la sequenza dei fatti
evangelici quel corpo era già stato mostrato vivo solo qualche giorno prima, vesti-
GIOVANNI BELLINI,
«Cristo morto con quattro angeli»,
particolare in riflettografia. Courtesy Giovanni C. F. Villa.
to di ironici simboli del potere: la canna di
fiume al posto dello scettro, uno straccio
rosso invece del mantello e la corona di
spine a sostituire quella d’oro del vero regnante. L’Ecce Homo nell’iconografia cattolica rappresenta infatti il momento in cui
il popolo giudeo vide, affacciata al balco-
ne del sinedrio, la farsa del proprio re, Gesù il Nazareno venne spinto dai sacerdoti
all’umiliazione e offerto all’ingiuria della
stessa folla, che infine lo condannò al supplizio per acclamazione. Così il momento della pietà, mai raccontato dai vangeli
ma nondimeno raffigurato in infinite va-
8
rianti, seppur per idea simbolica restituisce un ultimo atto di esposizione pubblica del corpo, da un nuovo tragico balcone che è il sepolcro. Allora quel corpo postula la propria divinità attraverso l’invito
a meditare sullo scempio compiuto, sull’involucro fisico dell’uomo svuotato della vita, sull’eroe che stoicamente accetta di
morire per far comprendere un supremo
ideale, anche a chi lo ha vituperato e offeso. A memoria del momento blasfemo resta la corona di rovi che da elemento di tortura diviene cimiero di quello stoicismo regale del Cristo, restano ferite insanguinate
e piaghe, su un corpo umiliato ma fiero,
marmoreo, ellenistico nella forma.
Per quanto possente nel torace, che sembra ancora espanso dal supplizio della
croce e modellato su solidi muscoli, il corpo del Cristo mostra una propria leggerezza, non solo in quanto un unico angioletto basta a sollevarlo, ma perché è reso
attraverso un chiaroscuro privo di contrasti (nel 1900 Fry lo paragonava addirittura a un vaso greco, anche per la scelta del
fondo nero), quasi l’autore volesse imitare un bassorilievo. Viene così da chiedersi se il genio veneziano abbia programmaticamente cercato un rapporto armonico
con questa tecnica, magari pensando allo
stiacciato delle formelle di Agostino di
Duccio che dominano, e dominavano
anche all’epoca, la decorazione del Tempio. Avevo già avuto modo di notare un
analogo indizio nell’affresco riminese di
Piero della Francesca (peraltro più legato
nella cronologia all’intervento di Agostino), la disposizione a profilo del ritratto
malatestiano e l’attenuazione dei toni
d’ombra sembrano muovere da una dimensione medaglistica, stiacciata per eccellenza (PULINI 2008).
Ma è la sublime distrazione degli angeli,
in quest’opera capitale del Bellini, a restare un unicum e insieme un sottile mistero.
I tre giovani inoperosi appaiono obiettivamente distratti dal centro sentimentale
dell’iconografia, ma concentrati ognuno
in sé, quasi stessero ripassando a mente la
propria parte. In fondo il corpo non è ancora pronto nella posizione del «Cristo
Passo» e quasi si può immaginare che
l’angelo dalle ali verdi e rosse, quello che
ne regge la mano sinistra, attenda il perfetto innalzamento del busto per poter sistemare il braccio nella posa conserta, normativa. Intanto, con una eleganza altera,
che si direbbe botticelliana, osserva la ferita. Al suo fianco l’angelo dalla camiciola gialla, quello più centrale e accorato, ha
gli occhi imploranti rivolti verso la parte
sinistra dell’opera, ma non nella precisa
direzione del volto di Gesù, in prospettiva lo oltrepassano da dietro. Meravigliosamente incantato è infine l’ultimo ragazzino alato, la sua posizione di riposo è la
più esplicita, le braccia intrecciate, il peso poggiato su un unico piede e la perdita di fuoco dello sguardo che dona un leggero strabismo da sovra pensiero.
Ma è proprio attraverso questa «disseminata concentrazione», questa tenera svagatezza dei servi di scena che si esalta, fosse anche per contrasto, il fulcro mistico del
dolore. L’invenzione di una variante iconografica che fissa l’immagine sul momento di allestimento scenico dell’icona
canonica rischia di essere una lettura condizionata dai nostri tempi, ma ben più di
una veggenza compositiva traspare da un
genio come Bellini intenzionato non di
rado ad aprire varchi nel sistema linguistico. Vero è che questi giovani ben pettinati e contemplativi hanno poco a che fa-
re con gli angeli afflitti del bassorilievo donatelliano di Padova, precedente imprescindibile, ma nel quale la disperazione
viene urlata, assolutamente condivisa coi
dolenti. Accordate sulla variabile sono
anche le ali degli angeli riminesi, che appaiono liberamente ispirate a piccoli uccelli variopinti, anche se per almeno due
di questi credo sia possibile giungere a
una identificazione. Molto prossime alle
ali di una Cinciarella (Parus minor) sono
infatti quelle che nel dipinto del Museo
della Città aprono uno spicchio di ruota
attorno alla testa di Cristo. Appartengono all’angelo reggente e mostrano una livrea che dal verde muschio diventa blu alle estremità. Mentre le più bianche, crestate con piume turchesi rigate di nero, si
rifanno al corredo interno della Ghiandaia (Garrulus glandarius). Prossime a quelle di un Gruccione o di un piccolo Pappagallo sono invece le verdi che virano in
rosso, mentre più enigmatiche restano le
ultime, all’estrema sinistra del quadro,
violette con un riverbero rossastro sul crinale dell’articolazione.
Al pari delle ali, anche le camiciole dei
giovani si distinguono tra loro, per colore, scollo e consistenza, dato che ognuna
di queste piega in modo diverso. Quella
dell’angelo in primo piano, di foggia antica, si increspa in tornanti mantegneschi,
mentre le altre scendono più o meno lineari e tornite.
Siamo di fronte a un corredo di sottili declinazioni che cinguettano attorno al Cristo temporaneamente addormentato, allora gli angeli sono inviati a disporre le cose nel modo migliore e svolgono il
compito con una leggera svagatezza liturgica, da chierichetti. C’è qualcosa di favolistico in tutto questo e aleggia una con-
9
sapevolezza della resurrezione che impedisce loro di recitare il dramma senza correre il rischio dell’ipocrisia. Fino a questo
punto era arrivato Giovanni Bellini a tre
quarti del Quattrocento e forse non si
comprende a pieno la portata del suo pensiero se non si procede a uno sforzo di
esclusione di tutto quello che è stato il corso successivo della storia dell’arte. Botticelli non aveva ancora orchestrato l’alterità neoplatonica della «Nascita di Venere» e della «Primavera», Mantegna non
aveva inventato la prospettiva tragica del
«Cristo morto» e Leonardo era ancora alla bottega di Andrea del Verrocchio. A
parte Piero, che aveva già fatto quasi tutto, solo qualche scultore come Donatello
era andato oltre, ma seguendo un’altra
strada di tragedia, una via che spesso dalla materia terrena tendeva al terribile.
Un’opera aulica come quella di Rimini
riesce non solo a parlare la lingua dei più
grandi contemporanei, ma precorre anche
buona parte di quella di Raffaello e perfino di Dürer. Se infatti dagli angeli di Rimini scocca una linea che interseca la grazia raffaellesca e che in prima gittata passa dal dipinto di Francesco Francia,
esposto in mostra, le forme fisiche del Cristo, la loro ossatura nervosa, le curve aristocratiche dei polsi servirono non poco
ad Albrecht Dürer per il proprio alfabeto di contrazioni espressive, di articolazioni sentimentali. Sappiamo con certezza
che il genio tedesco fece visita allo studio
veneziano del grande maestro Giovanni
Bellini, verso la metà dell’ultimo decennio del secolo e da lì scese a Bologna. Forse aveva avuto occasione di vedere una replica del dipinto riminese in laguna altrimenti si è tenuti a ipotizzare un passaggio
costiero che farebbe meglio comprendere
il lascito della «Madonna di Cotignola»
(ora nella Fondazione Magnani Rocca)
o le consistenti influenze dureriane sulla
pala cesenate di Girolamo Genga.
Giovanni C. F. Villa, a preparazione
dell’ultima esposizione monografica su
Giovanni Bellini (Roma, Scuderie del
Quirinale, 2008), ha condotto una campagna di rilievi riflettografici i cui risultati hanno smantellato alcuni luoghi comuni circa il processo esecutivo dell’artista.
Dai dati raccolti dallo studioso emerge
che il Giambellino realizzava, sopra la tavola levigata e preparata con una imprimitura chiara, un attento e ombreggiato
disegno monocromatico. Anche sotto al
dipinto di Rimini si ritrova una dettagliata impalcatura grafica, poi ricoperta da un
colore che ancora seguiva una tecnica mista tra tempera e olio. La stesura pittorica
si discosta raramente da quel sensibile
programma disegnato, si aggiusta sulla
pettinatura di un angioletto o sulle penne
di un’ala, altrimenti rispetta un «primato
del Disegno» che Vasari riteneva essere
prerogativa toscana, avversata dagli artisti veneti. Solo sul finire del Quattrocento Bellini inizierà a tracciare disegni più
sommari, lasciando alla pittura una maggiore autonomia creativa che la porterà fino a sublimi soluzioni atmosferiche.
MASSIMO PULINI
BIBLIOGRAFIA: Vasari 1550, ed. 1986, vol. III,
p. 91; Vasari 1568, ed. 1878-1885, vol. III, p.
170; Adimari 1616, vol. I, p. 68; Marcheselli
1754, p. 31, ed. 1972, pp. 61-62; Costa 1765, p.
50; Battaglini 1794, vol. II, p. 68; Crowe e Cavalcaselle 1871, p. 190; Lermolieff [Morelli]
1886, p. 377; Fry 1900, pp. 32-33; Crowe e Cavalcaselle 1871, ed. 1912, vol. I, p. 188, vol. II,
p. 132; Longhi 1914, p. 244; Venturi 1915, pp.
318-319; Symons 1920, p. 173; Fogolari 1921,
p. 15, fig. 28; Ricci 1924, pp. 225-243; Paoletti
1929, p. 147; Gronau 1930, pp. 43, 202; Dussler
1935, p. 138; Berenson 1936, p. 63; Gamba
1937, pp. 69-70; Moschini 1943, p. 22; Marce-
10
naro 1948, pp. 242-249; Brizio 1949, p. 38; Dussler 1949, p. 89; Giovanni Bellini 1949, pp. 124125; Longhi 1949, p. 281; Marini 1951, p. 29;
Samek-Ludovici 1957, p. 34; Pallucchini 1959,
pp. 137-138; Robertson 1960, pp. 55-56, 58-59;
Campana 1962, pp. 405-427; Heinemann 1962,
vol. I, pp. 49-50; Bottari 1963, vol. I, pp. 14, 40;
Parronchi 1965, pp. 148-150; Quintavalle 1965,
p. 7; Zuffa 1967, p. 118; Robertson 1968, pp.
62-64; L’opera completa 1969, pp. 92, 94, 96; Pasini, in Sigismondo 1970, pp. 100-101; Huse
1972, pp. 17, 18; Robertson 1976, p. 33; Benati, in La pittura a Rimini 1979, pp. 40-41; Pasini
1983, p. 92; Belting 1985, pp. 10-11; Goffen
1989, pp. 83-85, 287, 289; Huse e Wolters 1989,
pp. 215-216; Lucco 1990, p. 432; Olivari 1990,
p. 8; Benedicenti 1992, pp. 3-9; Tempestini
1992, p. 97; Kasten 1994, p. 491; De Marchi
1996a, pp. 57-79; Delucca 1997, pp. 535, 587,
691; Gentili 1998, p. 28; Tempestini 2000, pp.
72-74, 177, 188; Schmidt Arcangeli, in Il potere e le arti 2001, pp. 374-376; Finocchi Ghersi
2003, pp. 34, 86, 140; Armiraglio 2004, pp.
104-105; Humfrey 2004, p. 7; Lucco 2004, p.
91; Tempestini, in Marco Palmezzano 2005, p.
216; Villa, in Antonello 2006, pp. 302-305; Bätschmann 2008, p. 57; Villa, in Giovanni Bellini
2008, pp. 178-180; Agosti 2009, pp. 60-61 nota 32; Passion in Venice 2011, pp. 23-24.
Il Re della gloria
MARCO BONA CASTELLOTTI
N
ella seconda delle due sole note in calce all’illuminato saggio su Piero della Francesca e lo sviluppo della pittura veneziana, Roberto Longhi scrive in poche righe che «non pare possibile che la Pietà di Giovanni Bellini a Rimini sia anteriore alla pala di Pesaro» per la finezza del contrasto pittorico e «lo sviluppo nei tipi angelici»1. La questione del rapporto cronologico che intercorre tra il «Cristo morto con quattro angeli» di Giovanni Bellini - uno dei suoi vertici - e il polittico pesarese si
trascina ancora, ma quel che interessa qui osservare è lo «sviluppo nei tipi angelici», sottolineato da Longhi non solo come evidenza di stile, ma anche per richiamare l’attenzione sulla autonomia dei quattro angioletti rispetto a qualsiasi altro tipo
angelico riscontrabile nelle varie redazioni del tema di «Cristo morto» e della «Pietà» che il pittore veneziano mise in scena nell’arco all’incirca di quarant’anni.
È utile rileggere le parole con cui Vittorio Moschini commenta questo quadro che giudica «mirabile», riconducendolo a
un momento successivo alla pala pesarese per lo «splendore
adamantino delle carni tornite e taluni accenni volumetrici di
sapore antonelliano, in particolare nella testa dell’angelo di
profilo che sembra anticipare il Lotto giovane»2. E prosegue
trovando «geniale» il partito che Bellini seppe ricavare in quella «Pietà» dal «fondo nero, sul quale le figure risaltano non
già nella loro plastica consistenza ma piuttosto in zone di luminoso colore», sì che «quest’opera appare in prima vista di
un gusto per così dire “primitivo”. Uno splendore coloristico raro vive nelle carni dei caldi riflessi, nelle tuniche succinte degli angeletti, nelle loro ali di farfalle». E pensare che l’aveva davanti agli occhi prima dell’ultimo restauro (Ottorino
Nonfarmale 1967-1969). «D’altra parte il doloroso accento
espressivo delle Pietà belliniane s’attenua, mentre l’interesse
più vivo dell’artista si avverte in quei putti, più che angeli genietti». Oltre ad anticipare in questo suo articolato ed essenziale giudizio concetti iconografici di cui la storiografia artistica sembra non riconoscere l’origine, s’avverte una certa cautela nel definire quegli infanti che attorniano il corpo di Cristo
morto seduto sul sepolcro di marmo rosa, di un colore molto
intenso nel contrasto con il fondo nero, da pittura vascolare3,
più classico che primitivo. In verità tutto è classico a partire
GIOVANNI BELLINI,
«Cristo morto con quattro angeli»,
1475 circa, particolare. Rimini, Museo della Città.
11
Le poche informazioni circa questo edificio, di cui non resta pietra su pietra, vennero raccolte dal padre Francesco Antonio Righini poco dopo la metà del Settecento e riportate fedelmente, insieme a varie planimetrie, nella monografia di Corrado Ricci sul
Tempio Malatestiano16. Secondo le deduzioni di Campana, la cappella «instruenda» per volontà del Migliorati in realtà non fu
mai costruita, e nella pianta della chiesa di Sant’Antonio con l’elenco a margine delle cappelle e dei sepolcri esistenti prima della demolizione, resa nota da padre Righini, non compare, almeno sotto il nome del Migliorati. Si sa che la chiesa venne pesante-
mente ristrutturata verso la metà del Cinquecento. Fatto sta che il quadro, nel
1547, si trovava nella sacrestia di San
Francesco.
Migliorati nutriva interesse «alle cose dell’archeologia» condividendole con il
poeta riminese Roberto Orsi17 e nell’inventario dei beni lasciati in eredità dal
giureconsulto compaiono alcune monete antiche18. Esiste poi un documento forse ignoto allo stesso Campana - del 16
settembre 1488, che riguarda Elisabetta
degli Atti, figlia di Antonio fratello di
Isotta. Nel 1488 Elisabetta dispone la
propria sepoltura nella chiesa di Sant’Antonio Abate prossima al convento GIOVANNI BELLINI,
«Cristo morto con quattro angeli»,
di San Francesco «in capella Crucifixi 1475 circa, particolare. Rimini, Museo della Città.
in sepulcro sui patris»19. Elisabetta aveva
sposato Adimari di Nicolò Panzuto degli Adimari consigliere di Sigismondo Pandolfo nonché parente di Rainerio Migliorati20. Certo il documento non offre la soluzione del problema della committenza del «Cristo morto con quattro angeli», tuttavia
ci fa sapere che nella chiesa di Sant’Antonio la cappella degli Atti - a quanto sembra scomparsa dalle piante di padre Righini
- era intitolata al Crocifisso. «Verso lo scorcio del Quattrocento» (C. Ricci) la chiesa perse il titolo di Sant’Antonio e assunse
quello della Croce, poiché vi si era insediata una compagnia così denominata, «che aveva residenza nell’antica chiesa di Santa
Croce detta anche dei SS. Cosma e Damiano», e non scarterei l’ipotesi che lo stesso Migliorati fosse affiliato, da laico, alla compagnia, di cui mi pare si posseggano ben poche notizie21. In tale contesto poteva inserirsi con perfetta corrispondenza concettuale una tavola «in qua est depicta imago» di Cristo «sublati de cruce in formam pietatis». Da chi il Migliorati l’avesse avuta non
si sa. Non escluderei che il committente fosse stato lui in persona, o che per legami diplomatici o di parentela l’avesse acquistata da qualcuno del giro dei discendenti più o meno diretti di Sigismondo Pandolfo.
Sul piano iconografico il tema della rappresentazione dell’«Uomo dei dolori» si complica nell’intrecciarsi in modo spesso insolubile di testi figurativi d’Oriente e d’Occidente. Limitando il campo d’indagine all’arte italiana si direbbe che l’Imago pietatis
si fondi su basi più teologiche che liturgiche, e che, nel XV secolo, di entrambe spesso si siano perduti i riferimenti con la letteratura. In un bel saggio del 1927 Erwin Panofsky22 tracciava un percorso della rappresentazione dell’«Uomo dei dolori» «gregoriano» (termine non accettato da Belting), così chiamato perché derivato da quello che per tradizione apparve a san Gregorio Magno durante la celebrazione della messa, un’icona di devozione in micro mosaico conservata nella basilica romana di
Santa Croce in Gerusalemme, che il Mâle considerava il prototipo di tutte le rappresentazioni di ugual soggetto successive23.
Cristo è ritratto a mezza figura, con le mani trafitte dai chiodi e conserte e il capo volto verso sinistra. È stato ampiamente dimostrato che questa icona non è databile prima del Trecento e che probabilmente proviene dalla Puglia o dal Monte Sinai24. Dopo il restauro apparve in condizioni di leggibilità assai migliori di come si fosse presentata agli occhi di Mâle e di Panofsky; per
rendersene conto basta osservare l’immagine ante restauro che ne evidenzia le diffuse lacune, pubblicata nel saggio di Bertelli.
Già il Millet (1916) aveva segnalato che nell’Oriente cristiano esistevano raffigurazioni dell’«Uomo dei dolori» anteriori al tipo «gregoriano» di Santa Croce di Gerusalemme25, inoltre rendeva nota un’incisione piuttosto rozza di un contemporaneo di
Dürer, Israhel van Meckenem, derivata dall’icona di san Gregorio Magno che sarebbe per Panofsky all’origine del Cristo in
12
13
dal senso di fervida e controllata armonia che da un Cristo sospeso tra la morte e il sonno, tra la morte e la risurrezione, si diffonde negli angeli increduli: l’uno a sinistra, che lo contempla con più di una punta di tristezza, l’altro che nello sforzo di voler sollevare il corpo del Salvatore finisce quasi per scomparire dietro di lui; un altro che tiene stretto un chiodo della croce4 come una
reliquia e negli occhi ha lacrime così trattenute e scintillanti da farci intendere che l’idea di Bellini di imperlarli non nasceva dal
voler registrare un moto puramente sentimentale; infine quello a destra, che si è concentrato sulla piaga impressa nella mano come uno che stenti a capacitarsi che il figlio di Dio possa essere finito così male. Ognuno indossa tuniche succinte e una è chiusa da un fermaglio, specie di cammeo che conferma gli interessi di Bellini - e forse del committente5 - per l’antico. Ciò comunque non giustifica le diverse denominazioni di questi angeli bambini, che preferisco seguitare a ritenere tali piuttosto che «spiritelli» di derivazione pagana6 (con la circospezione dello storico dell’arte che, trovandosi di fronte a complessi casi iconografici,
deve cedere il passo all’iconografo, evitando rischiose invasioni di campo, ma che vi si avventura ugualmente attratto da elementi che velano verità così profonde da legittimare, almeno un po’, un’incorreggibile spericolatezza).
Dal punto di vista figurativo possiamo pervenire al seguente consuntivo basato sui ragionamenti della critica. Il modello al quale in parte si ispira è il rilievo donatelliano oggi al Victoria and Albert Museum di Londra, controverso, ma secondo John Pope-Hennessy - la cui autorevolezza ha conosciuto ben poche flessioni - di Donatello e aiuti7. La ripresa belliniana verte sostanzialmente sulla classica monumentalità del corpo di Cristo e sul gesto compiuto dall’angelo che lo sostiene, non sulle tipologie
degli altri che nel rilievo di Londra indossano soffici camici e sono meno commossi. I quattro di Bellini presentano caratteri di
più stretta parentela con i piccoli cantori della «Pala di santa Caterina» già nella chiesa di San Zanipolo a Venezia, distrutta da
un incendio nel 1867, la cui memoria è sopravvissuta nell’incisione di Francesco Zanetti del Museo Correr, come per primo
aveva osservato Moschini8, seguito da Pallucchini9 e da Robertson10. Per quest’ultimo i cantori di San Zanipolo discenderebbero dagli «Angeli» di Pietro Lombardo, sottostanti i tondi con gli «Evangelisti» nei pennacchi della cupola di San Giobbe,
realizzati probabilmente intorno al 1470. Se fossero di questo momento costituirebbero certamente un precedente per Bellini,
ma la datazione dell’intero complesso plastico di San Giobbe è oggetto di discussione. Si passerebbe quindi dai rilievi di San
Giobbe alla «Pala di santa Caterina» al «Cristo morto» di Rimini, non immune da una folgorazione antonelliana (primo ad
accennarvi Moschini, secondo Pallucchini poi altri), che spicca specialmente nell’angiolino a sinistra, ma non solo in lui. Tali elementi hanno portato la critica negli ultimi anni a stabilire una datazione del dipinto riminese intorno al 147511, che Pallucchini aveva preferito avanzare verso lo scorcio dell’ottavo decennio, a mio avviso a ragione per la complessità della composizione e dello sviluppo nei tipi angelici. La datazione si connette ovviamente con la questione del presunto committente, che si era
aggrovigliata a cominciare dal Vasari, mentre gli studi - e in particolare il saggio fondamentale di Augusto Campana del 196212
- incitano a infoltire la rosa dei candidati che comunque si basa su indizi storico-culturali piuttosto scarsi. Depennato il nome
di Sigismondo Pandolfo Malatesta, morto nel 1468, buttato là da Vasari forse perché il signore di Rimini era il più autorevole
ad assumersi gli onori di simile commissione, venne poi avanzato quello di Roberto Malatesta13, figlio naturale di Sigismondo
Pandolfo, indi quello di Carlo, capitano generale dei veneziani, iscritto alla Scuola di San Marco a Venezia nel 148214. Ma
l’unica notizia certa riguardo il «Cristo morto» è che nel 1499 il giureconsulto Rainerio Migliorati, consigliere di Pandolfo IV,
lasciava il dipinto con testamento alla chiesa di Sant’Antonio Abate che sorgeva nei pressi di San Francesco ed era a sua volta
officiata dai francescani15.
pietà26. Sulla croce alle spalle di Cristo troviamo un’iscrizione «O Basileus tes doxes», il Re della gloria, che venne malamente ricopiata nell’incisione di Van Meckenem dall’esemplare di Santa Croce di Gerusalemme, e si legge molto frequentemente nell’Oriente cristiano e raramente in alcune
crocifissioni duecentesche umbre27. In Italia questa inscrizione venne soppiantata dalla scritta INRI. Secondo Panofsky ed è un passaggio molto significativo e direi incontestato - il
Basileus tes doxes bizantino, che sottolineava il contrasto fra la
morte e la vita, nel Trecento si trasforma in un «uomo morto»28, mentre gli angeli, quando iniziano a comparire, «fungono da intermediari fra l’io e il soggetto», in una «molteplicità di atteggiamenti che destano compassione»29, così che nel
Quattrocento le loro espressioni si intridono di un «pathos doloroso», che - come si è detto - nel «Cristo morto con quattro
angeli» di Bellini è attenuato, mentre il loro rapporto con il
Salvatore «si concentra nell’azione esplicita di appoggio e sostegno» a Lui. Poi prende forma la rappresentazione donatelliana del «Cristo passo», che ormai non rientra nell’azione liturgica, pur richiamando - così almeno nel caso paradigmatico del rilievo di bronzo incastonato nel complesso dell’ altare
della Basilica del Santo a Padova - l’Eucarestia. In chiave eucaristica Belting interpreta anche il «Cristo morto» di Rimini30, ipotesi legittimata dall’angelo che tenta di sollevare il corpo del Salvatore, compiendo un gesto che, almeno dal punGIOVANNI BELLINI,
to di vista simbolico-evocativo, è paragonabile a quello
«Cristo morto con quattro angeli»,
dell’elevazione dell’ostia. L’interessante opinione assumereb1475 circa, particolare. Rimini, Museo della Città.
be un supplemento di verosimiglianza se si potesse dimostrare che la tavola riminese, assolutamente autonoma (per una diversa ipotesi si veda M. Pulini in questo catalogo), venne commissionata per essere collocata su un altare, cosa che credo. Altra suggestiva e più recente idea è che i quattro angeli sarebbero
intenti a preparare il corpo di Cristo per la risurrezione31, ma simile proposta non è giustificata da riferimenti testuali, e al massimo spiega lo sforzo del solito angioletto indaffarato, senza però motivare l’interrogativa contemplazione degli altri tre.
Tutto considerato, ritengo più convincente la lettura che mi accingo a esporre32. La presenza nella tavola di Giovanni Bellini dei
quattro angeli così compunti nella loro triste curiosità riesce a mantenere viva la memoria, ormai lontana e sbiadita, di un «Uomo dei dolori» nonché Re della gloria, Basileus tes doxes, che qui assume uno spessore religioso proporzionale alla loro infantile e
trepidante umanità. Lo stesso impegno d’intensità profuso con evidenza da Bellini in questo quadro mi spinge a reputarlo autonomo e destinato certamente all’altare della cappella che il giureconsulto Migliorati era intenzionato a costruire in Sant’Antonio
Abate, poi intitolata alla Croce; che il Migliorati fosse il «primo proprietario» di questo dipinto per ora non si può affermare33.
Senza indulgere a riflessioni dolciastre torniamo a osservare le espressioni degli angeli che Bellini teneva ad approfondire nella
loro diversità. Stanno guardando Cristo morto come un Dio-uomo umiliato, nei modi che sono propri di un’opera italiana del
secondo Quattrocento e concepita in pieno umanesimo cristiano, non certo nei termini applicabili a un archetipo bizantino come lo si sarebbe potuto trovare raffigurato in relazione agli inni liturgici del venerdì e del sabato santo34, nei quali comparivano
14
grandi angeli alati agli estremi del corpo giacente di Gesù. È plausibile che nel «Cristo morto con quattro angeli» il pittore abbia voluto - per quali vie e in forza di quali suggerimenti non si sa - «tornare al tema dello stupore angelico di fronte alla sofferenza del Logos divino. È in fondo il tema della frixis angelica, lo sbigottimento di fronte all’evento inaspettato e incomprensibile dell’abbassamento del Re della Gloria» (Prosperi) e della sua umiliazione. Certo qui lo stupore degli angeli è come filtrato attraverso una disciplina che governa ogni eccesso doloroso o patetico, disciplina che si fonde nella contemplazione e che
distingue questa «Pietà» di Rimini dalle altre. Nella teologia orientale «l’oggetto dello stupore non è tanto la risurrezione, quanto la croce e l’amara umiliazione del Verbo: “Come? Tu che sei la vita, giaci senza vita? come? Tu che non sei circoscrivibile sei
rinchiuso in una tomba? come? Tu che reggi l’universo sprofondi nell’ade?”». Forse «il significato di questi angeli» - da quello
che guarda la piaga della mano di Cristo, a quello con gli occhi imperlati che tiene il chiodo, a quello che contempla il Salvatore in un trepidante silenzio consiste nel fatto «che essi esprimano la traduzione occidentale del tema dello stupore angelico che
diviene qui una quasi infantile curiosità, fra il timoroso e l’attratto, la curiosità aristotelica di colui che chiede il senso di ciò che
vede per la prima volta, dell’aprosdoketon, l’imprevisto senza precedenti e analogie» (Prosperi).
Tutto ciò non significa che Bellini - o un suo ignoto teologo ispiratore - intendesse riprendere il concetto del Basileus tes doxes, il
Re della gloria, così come lo troviamo espresso nelle scritture e più insistentemente che altrove nel Salmo 23, che di per sé non può
considerarsi una fonte di ispirazione figurativa35, pur tuttavia è legittimo ipotizzare che il tema degli angeli che osservano stupiti
le piaghe fosse ancora vivo, nel Quattrocento, anche in Occidente, data fra l’altro la sua diffusione nella letteratura dei Padri.
Da ultimo: ebbe anche in Occidente un’enorme fortuna l’Omelia sull’Ascensione di Gregorio di Nissa che ruota intorno al fulcro del Basileus tes doxes, risorto e asceso al cielo con le piaghe della Passione che non si rimarginano neppure dopo la sua risurrezione. L’omelia rilegge il Salmo 23, «“Chi è questo re della gloria”, come un dialogo tra Gesù e gli angeli, che non vogliono
lasciar passare il Signore asceso perché non lo riconoscono, essendo ricoperto di inconcepibili piaghe, ma che poi - stupiti - si
arrendono e gli aprono le porte» (Prosperi)36. Lo stupore angelico non svolge un semplice ruolo di contorno, al contrario è consustanziale al trionfo del Re della gloria, così come la triste contemplazione lo era alla sua morte terrena.
Sono grato a tutti quelli che hanno contribuito, in un tempo così ristretto, alle mie ricerche
sul tema del «Cristo morto con angeli», alle traduzioni dal greco di alcuni testi, in particolare a Paolo Prosperi per i suggerimenti sull’interpretazione degli angeli del quadro di Bellini di Rimini. Nella speranza di non avere dimenticato qualcuno: A. Marcheva (La rappresentazione della Pietà nell’arte veneziana tra Trecento e Cinquecento, tesi di laurea magistrale,
a.a. 2010-2011, Università Cattolica, sede di Brescia, relatore M. Bona Castellotti); M. M.
D’Alessio (La Pietà di Rimini di Giovanni Bellini, tesi di laurea triennale, a.a. 2005-2006,
Università degli Studi di Bologna Alma Mater, relatore A. Ottani Cavina); Stefano Candiani, Caterina Vaglio Tessitore, Irene Paruta, Isabella Stoja, Anna Maria Marconi,
Claudia Piantanida, Elena Drufuca, Gabriella Andreatta, Marta Panciera, Giuseppe Belluzzi per le traduzioni e le ricerche.
segna dei testi del catalogo, di compiere ricerche nell’archivio del restauratore bolognese
Nonfarmale mi sento di lasciare momentaneamente aperta la questione, tenendo in considerazione il giudizio di Pulini, e di tornarvi quando avrò altri elementi. In ogni caso che
l’angiolino tenga in mano un chiodo simbolo della Passione o no, non sposta l’interpretazione del soggetto. L’angelo «che nel giorno del Giudizio porta gli strumenti della Passione, è conosciuto nella letteratura già dal IV secolo». Qui si fa riferimento a Ephrem il Syro
(E. PANOFSKY, «Imago Pietatis», Ein Beitrag zur Typengeschichte des Schmerzensmanns des «Maria Mediatrix», in Festschrift für Max J. Friedländer zum 60. Geburtstage, Lipsia 1927, ed. italiana Torino 1998, p. 80 nota 47).
5
Per i riferimenti belliniani al mondo antico G. AGOSTI, Un amore di Giovanni Bellini, in
Ad Alessandro Conti (1946-1994), a cura di F. Caglioti, M. Fileti Mazza e U. Parrini, Pisa 1996, pp. 45-84 (ripubblicato in G. AGOSTI, Un amore di Giovanni Bellini, Milano 2009)
e C. SCHMIDT ARCANGELI, in Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, catalogo della mostra (Rimini, Castel Sismondo, 3 marzo - 15 giugno 2001), a cura di R. Bartoli, A. Donati e E. Gamba, Milano 2001, pp. 374-376.
6
Passion in Venice. Crivelli to Tintoretto and Veronese. The Man of Sorrows in Venetian Art, catalogo della mostra (New York, Museum of Biblical Art, 11 febbraio - 12 giugno 2011)
a cura di C. Puglisi e W. Barcham, New York-Londra 2011, pp. 22-23. Ma quali spiritelli? Riguardo a costoro cfr. C. DEMPSEY, Inventing the Renaissance Putto, Chapel Hill
(NC) 2001, p. 8 sgg.
7
Secondo lo studioso «questo rilievo dal punto di vista iconografico rappresenta un archetipo molto importante e può avere ispirato il dipinto di uguale soggetto di Giovanni Bellini a Rimini e un certo numero di altre opere di Bellini e da Bellini», tuttavia la relazione
figurativa con Bellini potrebbe essere concepibile solo se fosse stato scolpito a Padova o per
Padova e fosse stato eseguito non prima del 1440 o poco dopo il 1443» (J. POPE-HENNESSY, Victoria and Albert Museum. Catalogue of Italian sculpture in the Victoria and Albert Museum, Londra 1964, pp. 73-75).
8
MOSCHINI, Giambellino cit., p. 24.
9
Giovanni Bellini cit., 1949, p. 124.
1
R. LONGHI, Piero dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana, in «L’Arte», XVII
(1914), pp. 198-221, 241-256 (ripubblicato in R. LONGHI, Scritti giovanili, 1912-1922, vol.
I, Firenze 1961, p. 106 nota 2).
2
V. MOSCHINI, Giambellino, Bergamo 1943, p. 22; cfr. anche Giovanni Bellini, catalogo
della mostra (Venezia, Palazzo Ducale, 12 giugno - 5 ottobre 1949), a cura di R. Pallucchini, Venezia 1949, pp. 124-125.
3
R. FRY, Giovanni Bellini, Londra 1900, pp. 32-33, ed. italiana a cura di C. Elam, Milano 2007, p. 49.
4
Secondo Massimo Pulini non si tratta di un chiodo bensì di una lacuna nel pigmento.
Le foto del restauro compiuto da Nonfarmale e pubblicate nel catalogo della mostra curata da Daniele Benati (in La pittura a Rimini tra Gotico e Manierismo. Recupero e restauro del patrimonio artistico riminese. Dipinti su tavola, catalogo della mostra [Rimini, Sala delle Colonne, agosto-ottobre 1979], Rimini 1979) sono troppo poco eloquenti per stabilire quale fosse realmente lo stato del dipinto prima dell’intervento, tuttavia dalle riflettografie pubblicate
da Pulini si capisce che nel punto del chiodo vi sia stato un’intervento invasivo, ma non
essendo stata resa nota la relazione del restauro, né avendo avuto modo, per urgenza di con-
15
10
nianze e riflessi d’arte e cultura bizantina nelle chiese d’Italia, catalogo della mostra (Ravenna,
Convento di San Vitale, 27 luglio - 4 novembre 1990), Milano 1990, p. 110 (con bibliografia precedente in parte desunta da BERTELLI, «The Image of Pity» cit., pp. 197-231).
25
G. MILLET, Recherches sur l’iconographie de l’Evangile aux 14., 15. et 16. siecles: d’apres les monuments de Mistra, de la Macedoine et du Mont-Athos, Parigi 1916, pp. 483-488.
26
PUGLISI e BARCHAM, Gli esordi cit., p. 13
27
J. CANNON, The Stoclet «Man of Sorrows»: a thirteenth-century Italian diptych reunited, in
«The Burlington Magazine», CXLI, 1999, pp. 107-112 (per l’iscrizione «O Basileus tes
doxes» cfr. p. 107 nota 6 e p. 112 nota 38).
28
PANOFSKY, «Imago Pietatis» cit., 1927, p. 66
29
Ibid., p. 67.
30
BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana 1996, pp. 23, 56-57; A. TEMPESTINI, L’iconografia del Cristo morto nelle regioni adriatiche occidentali, in Giovanni Santi, atti del convegno
internazionale di studi (Urbino, Convento di Santa Chiara, 1º-19 marzo 1995), a cura di
R. Varese, Milano 1995, pp. 171-176; H. BELTING, Das Bild und sein Publikum im Mittelalter: Form und Funktion früher Bildtafeln der Passion, Berlino 1981, ed. italiana Bologna 1986,
pp. 87-88.
31
PUGLISI e BARCHAM, Gli esordi cit., p. 23. Secondo gli stessi Puglisi e Barcham il «Cristo morto con quattro angeli», autonomo rispetto a tutte le altre versioni dello stesso tema,
è un «Uomo dei dolori».
32
Mi riferisco a una comunicazione scritta di don Paolo Prosperi del 16 aprile 2012 a commento del quadro di Giovanni Bellini, che gli avevo sottoposto per un parere d’ordine teologico.
33
BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana 1996, p. 14, si tratta evidentemente di una svista.
34
MILLET, Recherches cit., p. 487 nota 2 e anche BELTING, Das Bild cit., ed. italiana 1986,
pp. 118 nota 40, 119 nota 42, 146.
35
Ibid., p. 118.
36
Per l’Omelia «In Ascensionem Christi» cfr. MIGNE, PG, 46, Parigi 1863, pp. 690-694.
Trascrivo qualche passo di questo testo meraviglioso: «È ormai compiuto il mistero della
morte ed è stata riportata una vittoria sui nemici e contro di loro è stato agitato il trofeo della croce. Salì in alto portandosi via la cattiva prigionia [della morte] colui che diede agli
uomini la vita... Le porte chiuse furono di nuovo aperte per Lui. Tuttavia accorsero i nostri custodi [gli angeli] e ordinarono che fossero rinchiuse perché Egli non ottenesse la gloria. Infatti non riconobbero colui che si era vestito della veste imbrattata della nostra vita.
Le sue vesti erano rosse a causa della tribolazione dei mali umani. Così, nuovamente, i
compagni furono interrogati da quelle voci: “Chi è questo Re della gloria?” Si rispose in modo non diverso: “È forte e potente in battaglia”. Il Signore delle virtù, che ottenne il principato del mondo e al culmine raccolse in sé ogni cosa e in ogni cosa detiene il primato e restituì ogni cosa alla stato primigenio, questi è il Re della gloria». Trovo citata l’omelia di Gregorio di Nissa in R. F. TAFT, The Great Entrance. A History of the Transfer of gifts and a other
pre-anaphoral Rites of the Liturgy of St. John Crysostom, Roma 1985, p. 108; citato anche in
BELTING, Das Bild cit., ed. italiana 1986, p. 118 nota 40. Ma il tema dello stupore angelico legato alla morte, e in questo caso alla sepoltura di Cristo, si ritrova anche nella stupenda «Omelia del sabato santo» di autore ignoto (forse del IV secolo o prima) in MIGNE, PG,
43, Parigi 1864, pp. 439-464: «Precedettero i cherubini sollevando su se stessi Dio e trasportandolo. Fatti ministri di Dio precedettero gli angeli dotati di sei ali e non con le ali,
ma con le sindoni avvolsero Dio e lo onorarono. I cherubini lo temono; Giuseppe e Nicodemo lo portano sulle spalle e tutti gli ordini degli spiriti incorporei si stupiscono. Giungono Giuseppe e Nicodemo e accorreva tutto il popolo degli angeli di Dio. I cherubini li
precedono e accorrono insieme ai serafini, mentre i troni portano [il corpo di Cristo] insieme a [Giuseppe e Nicodemo] e quelli dotati di sei ali Lo coprono e inorridiscono gli angeli dotati di molti occhi vedendo che Gesù incarnato è privato della vista. Le potestà lo
ricoprono e i principati cantano e le schiere inorridiscono. Tutti gli eserciti delle torme celesti si stupiscono e attoniti esitano e si domandano: Cos’è questa terribile parola e questa
paura? Cos’è questo tremore? Cos’è questo spettacolo grande, che supera ogni pensiero, incomprensibile? Egli che in cielo per noi esseri incorporei è invisibile come un Dio nudo,
in terra per gli uomini, nudo è veramente visibile».
Secondo ROBERTSON (Giovanni Bellini, Oxford 1968, pp. 57-65) la pala perduta di San
Zanipolo seguirebbe agli «Angeli» di Pietro Lombardo di San Giobbe e anticiperebbe il
«Cristo morto» di Rimini. Su vari pareri della critica riguardo la cronologia delle opere di
San Giobbe cfr. L. FINOCCHI GHERSI, Il Rinascimento veneziano di Giovanni Bellini, Venezia 2003, p. 76 nota 16.
11
Non è qui il caso di ripercorrere l’iter del giudizio della critica riguardo la cronologia di
questo dipinto riminese. Si ricorda che D. BENATI (in La pittura cit., pp. 40-41) giudicava con cautela il quadro precedente la pala di Pesaro ed eseguito negli anni che seguono
immediatamente il 1468. Del 1475 circa lo ritengono A. TEMPESTINI (in Marco Palmezzano e il Rinascimento nelle Romagne, catalogo della mostra [Forlì, Museo San Domenico, 4
dicembre 2005-30 aprile 2006], a cura di A. Paolucci, L. Prati e S. Tumidei, Cinisello
Balsamo 2005, p. 216); G. C. F. VILLA (in Giovanni Bellini, catalogo della mostra [Roma, Scuderie del Quirinale, 30 settembre 2008-11 gennaio 2009], a cura di M. Lucco e
G. C. F. Villa, Cinisello Balsamo 2008, pp. 178-180) e altri.
12
A. CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» riminese di Giovanni Bellini, in Scritti di storia dell’arte
in onore di Mario Salmi, a cura di V. Martinelli, vol. II, Roma 1962, p. 405 sgg.
13
C. GAMBA, Giovanni Bellini, Milano 1937, p. 69; TEMPESTINI, in Marco Palmezzano
cit., p. 216.
14
P. PAOLETTI, La Scuola Grande di San Marco, in «Rivista di Venezia», 8, 1929, p. 147,
nota 1.
15
C. CLEMENTINI, Trattato de’ luoghi pii e de’ magistrati di Rimino, vol. I, Rimini 1617, p.
475 (cfr. A. TURCHINI, Il Tempio Malatestiano. Sigismondo Pandolfo Malatesta e Leon Battista Alberti, Cesena 2000, p. 124 nota 184).
16
C. RICCI, Il Tempio Malatestiano, Milano 1924, pp. 179-188.
17
C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica in Rimini. Dal secolo XIV ai primi del XIX, vol. I,
Rimini 1884, p. 147. Un riferimento al poeta Roberto Orsi è anche in AGOSTI, Un amore cit., 2009, pp. 19, 61; così Alessandro Giovanardi in questo catalogo.
18
CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» cit., p. 425.
19
TURCHINI, Il Tempio Malatestiano cit., p. 165 nota 6; per un’ icona «sanctissimi Crucifixi con imaginibus beate M.V. et S. Ioannis evangeliste», «vicino all’epigrafe detta dei
quattro centenari presso la chiesa di Sant’Antonio detta di Santa Croce» si veda il riferimento in ibid., p. 156 nota 306. Probabilmente non attinente alla cappella degli Atti.
20
Ibid., p. 218 nota 225.
21
RICCI, Il Tempio cit., p. 186 sgg.
22
PANOFSKY, «Imago Pietatis» cit., ed. italiana 1998, pp. 262-308. La letteratura sul tema
della «Pietà» e dell’«Uomo dei dolori» è vastissima, ricordo soltanto alcune delle opere fondamentali: E. VETTER, Iconografia del «Varón de dolores». Su significado y origen, in «Archivio
espanõl de arte», XXXVI, 1963, pp. 197-231; C. BERTELLI, «The Image of Pity» in Santa Croce in Gerusalemme, in Essays in the History of Art Presented to Rudolf Wittkower, a cura
di D. Fraser, H. Hibbard e M. J. Lewine, Londra 1967, pp. 40-55 (con bibliografia relativa alla Messa di san Gregorio, cfr. p. 40 note 1, 3, in parte desunta da VETTER, Iconografia cit.; G. SCHILLER, The Man of Sorrows - «Imago Pietatis», in Id., Iconography of Christian Art , New York 1968, vol. II, pp. 197-228; H. W. VAN OS, The Discovery of an Early Man of Sorrows on a Dominican Triptych, in «Journal of the Warburg and Courtald
Institutes», XLI, 1978; H. BELTING, An Image and its Function in the Liturgy: The Man of
Sorrows in Bithantyum, in «Dumbarton Oaks Papers», XXXIV-XXXV, 1980-1981, pp.
1-16; S. RINGBOM, Icon to Narrative, The Rise of the Dramatic Close-Up in Fifteenth-Century Devotional Painting, Doornspijk 1984, p. 66 sgg.; H. BELTING, Giovanni Bellini: Pietà.
Ikone und Bilderzälung in der venezianischen Malerei, Francoforte sul Meno 1985, ed. italiana
Modena 1996; M. RUBIN, Corpus Christi, the Eucharist in Late Medieval Culture, Cambridge 1991, pp. 308-309; A. DE MARCHI, Un raggio di luce su Filippo Lippi a Padova, in «Nuovi Studi», I, 1996, pp. 5-23; C. PUGLISI e W. BARCHAM, Gli esordi del Cristo passo nell’arte veneziana e la Pala feriale di Paolo Veneziano, in Cose nuove e cose antiche. Scritti per Monsignor Antonio Niero e don Bruno Bertoli, a cura di F. C. Romanelli, M. Leopardi e S. R.
Minelli, Venezia 2006, pp. 403-430.
23
E. MÂLE, L’art religeux de la fin du moyen âge en France, Parigi 1922, p. 98 sgg.
24
Cfr. a proposito del luogo di esecuzione S. ROMANO, in Splendori di Bisanzio. Testimo-
16
La Docta religio di un dipinto. Erudizione e devozione
nella «Pietà» riminese di Giovanni Bellini
ALESSANDRO GIOVANARDI
Se sei sceso nella tomba, o Immortale, hai distrutto il potere dell’Inferno
(Tropario della liturgia pasquale ortodossa)
Q
uasi all’incrocio tra due diversi ellenismi - quello classico che ne caratterizza lo stile e quello bizantino che ne detta le istanze teologiche - la «Pietà» riminese di Giovanni Bellini ha trovato in Augusto Campana l’interprete più acuto dei suoi
fondamenti storici. Nelle brevi, fondamentali Notizie ordinate con la consueta acribia dallo studioso romagnolo e pubblicate in
una miscellanea in onore di Mario Salmi nel 1962, si trova ancora lo spartiacque da cui prendere le mosse per ogni ulteriore affondo critico1, facilitato oggi dall’edizione di una ricca messe di documenti meticolosamente raccolti da Oreste Delucca.
È Campana a indagare con acume paleografico la firma in caratteri gotici «Ioannes bellinus pingebat.» incisa all’estrema destra
del piano (la pietra del sepolcro) dove poggiano le figure di Cristo e dei quattro angeli che ne piangono la morte. Il graffito, quasi nascosto, è inconsueto tra le autografie di Bellini e quindi di poco probabile autenticità2: lo studioso avanza l’ipotesi che potesse trattarsi di un’aggiunta del committente o del possessore, comunque un proprietario ben consapevole del valore artistico
dell’opera posseduta e desideroso di lasciare chiara memoria del suo autore3.
Anche in questo caso la ricerca di Campana risulta dirimente: Giorgio Vasari che risedette a Rimini tra il 1547 e il 1548, mentre Le vite già concluse venivano trascritte in bella copia dal monaco benedettino olivetano Gian Matteo Faetani, testimonia di
aver visto il dipinto nella chiesa di San Francesco a Rimini, il Tempio Malatestiano, attribuendone la committenza a Sigismondo Pandolfo4; una suggestione forse raccolta da una tradizione orale e ancor oggi non del tutto abbandonata dalla critica5, malgrado la maggior parte degli storici ritenga - e Campana con loro - che l’opera vada datata per ragioni stilistiche almeno dopo
il 1475, quando Sigismondo è deceduto da sette anni.
Tuttavia, la tavola non pare fosse destinata al Tempio, dove la vide Vasari, ma a una cappella da costruirsi nella vicina e dipendente chiesa di Sant’Antonio, ora non più esistente, dove desiderava essere seppellito Rainerio di Lodovico Migliorati legum doctor e notabile della corte malatestiana, con la quale fu imparentato6. Già consigliere di Sigismondo e di Roberto Malatesta prima ancora che del figlio di quest’ultimo, Pandolfo IV, ultimo e famigerato signore di Rimini, il Migliorati fu una figura di spicco nella politica e nella cultura del tempo7. È difatti Rainerio nel suo testamento del 17 febbraio 1499 a prescrivere che in tale
luogo sia collocata «unam ipsius testatoris tabulam depictam manu Iohannis Bellini, in qua est depicta imago domini nostri Iesu Christi salvatori mortui et sublati de cruce in formam pietatis»8. Stesso anno, stesso mese l’inventario dei suoi beni redatto in
vernacolo ricorda: «una ancona o vero taula dove è dipinta la imagine del nostro signore Iesu Christo in forma de pietà descese
de la croce»9.
Difficile dire se Rainerio potesse essere il committente o se avesse acquistato oppure ricevuto la tavola per vie indirette. D’altro
canto Migliorati, vicario delle gabelle, sovrintendente dei lavori del palazzo di Elisabetta Aldobrandini madre dell’ultimo signore di Rimini10, residente nel quartiere di Santa Maria in Trivio, ma possessore di un importante podere nell’attuale zona situata tra San Lorenzo in Corregiano e San Martino Monte l’Abate ch’egli destinava alla propria villeggiatura11, fu conosciuto
anche per la sua cultura antiquaria, di «spirito umanistico» come giustamente annota Campana12. È l’erudito settecentesco Angelo Battaglini a ricordarci che Rainerio intrattiene rapporti con l’intellettuale riminese Roberto Orsi che gli dedicò un epigramma latino, accompagnando lo scambievole dono di manufatti antichi13. Rainerio, bibliofilo, fu in vero possessore di un’importante raccolta di codici tra cui un’opera di Roberto Valturio con disegni14; nella sua vita seppe collezionare, pur in modo non
17
sistematico, sculture antiche, medaglie, monete, ceramiche15. Ma Rainerio mantenne stretti contatti con gli artisti del suo tempo: il 22 aprile del 1482 ospitò a casa propria la firma di un contratto d’affitto per l’ultima, infeconda residenza riminese di Piero della Francesca, per cui aveva probabilmente mantenuto i rapporti coi Malatesta; alla firma fu testimone un altro pittore, Gabriele di Stefano16. Sempre nella propria magione, tra il 1482 e il 1485, lavora il miniatore Marco di Giovanni17.
La consuetudine con artisti e opere, il suo stesso ruolo di mediatore culturale accreditatogli dagli storici, rende particolarmente
interessanti le espressioni utilizzate da Rainerio per descrivere la «Pietà» riminese del Giambellino, lì dove il latino e il volgare
si rispondono perfettamente, ma con varianti significative e non casuali. Un interesse che diverrebbe esponenziale se nel Migliorati potessimo scorgere il colto committente e non solo l’erudito collezionista. D’altra parte l’aver destinato a una cappella minuziosamente descritta una pittura di dimensioni non facilmente adattabili a qualsiasi luogo, un dipinto che ha evocato nei commentatori l’idea di un grande frammento, raccolto tra «le altre cose spezzate di alcuni quadroni» come intendono Le vite del Vasari nel 155018 (e come oggi ripropone Massimo Pulini) o che fa pensare a uno studiato antependium, suggeriscono o una
committenza precisa o un’accurata ricerca da intenditore tra le opere belliniane.
Non è, infine, da dimenticare l’elemento devoto che si tende troppo facilmente a trascurare, sottovalutando il nesso fecondo fra
cultura umanistica e desiderio di Dio: nelle raccolte del Migliorati non sono poche le tavole a fondo oro raffiguranti la Vergine,
vere e proprie icone che evocano la dimensione religiosa dell’eredità culturale di Rainiero, in cui s’inserisce e si spiega il possesso della «Pietà» riminese19. Solo in questa dimensione il testo pittorico dischiude in vero i suoi significati: la «taula» del testamento latino diviene, nell’inventario italiano «ancona», termine che discende dalla storpiatura del termine greco «eikóna». Proprio le Imago pietatis in Bellini sembrano conservare, come è stato più volte osservato, la duplice natura di dipinto umanistico,
modernamente colto, e di arcaica immagine sacra20. All’origine della sua pittura le forme iconografiche bizantine sono, in effetti, un percorso assai frequentato fin dagli esordi21. E se le invenzioni del Giambellino saranno spesso oggetto di quella «ripetizione differente» che è sottesa alla pittura d’icone22, non sembra superfluo ricordare che alcuni maestri cretesi tradurranno celebri pietà belliniane nel lessico solenne della loro arte sacra23.
Nell’Imago pietatis riminese le formule del pathos che la caratterizzano come derivanti dalla tradizione figurativa e funeraria antica24 - elementi che avranno indubbiamente sedotto il colto Migliorati - si sovrappongono e si fondono senza soluzione di continuità con le tipologie medioevali del soggetto, che la tradizione gotica veneziana e adriatica ha ereditato direttamente da quella
bizantina: non c’è quasi necessità di citare le tavole di Pietro da Rimini o di Giovanni Baronzio, o di ricordare come il «Cristo
passo» di Paolo Veneziano avesse preso il posto del Pantokrator al centro della «Pala feriale» in San Marco, a sottolinearne l’iconografia sacrificale ed eucaristica25; la discussa tavola belliniana del museo Poldi Pezzoli è la più schietta discendente di questa
serie26. Tutte le «Pietà» di Bellini sono variazioni musicali di questi temi arcaici: operano, come scrive Belting, «una sintesi tra
l’antica icona e la poesia dipinta di nuova concezione»27. L’invenzione riminese miscela la tipologia della «Suprema umiliazione», la perfetta kenosis del Verbo, con quella del Threnos, del «Compianto sul Cristo morto» che dagli affreschi di Nerezi a quelli di Giotto a Padova, mette in scena il pianto celeste degli angeli28; Bellini darà ai suoi il ruolo d’ufficio funebre altrove attribuito ai discepoli di Cristo. «Pietà» e «Lamento», temi strettamente connessi fin dai prototipi bizantini, mantengono una funzione simbolica legata al sacramento della comunione29 da cui non si discosta la cultura figurativa italiana. Non è forse inutile
ricordare l’identificazione tradizionale fra il sacello di Cristo e la tavola del sacrificio, lì dove la tradizione liturgica ricorda che
la parte centrale di un altare cristiano è detta tumba o sepulcrum, per le reliquie ivi custodite30, mentre la cultura popolare chiama
sepolcri gli altari della reposizione del Giovedì Santo. Si guardi alla «Pietà» belliniana di Palazzo Ducale dove i ceri posizionati sulla tomba del Redentore sono autentici lumi d’altare. È celebre la leggendaria visione di san Gregorio Magno, in cui il
Cristo gli apparve proprio sull’ara sacrificale nell’atto di uscire dal sepolcro con i segni della passione, a fugare ogni dubbio sulla sua reale presenza nelle specie eucaristiche31: il Salvatore di Rimini fa sgorgare dalla piaga del costato sangue e acqua, rispet-
18
tando sia il dettato evangelico, sia la liturgia eucaristica che mesce acqua al vino. Il Cristo morto sorretto dagli angeli è paradossalmente il pane vivo «disceso dal cielo» (Gv. 6, 51); le creature celesti, ministranti una liturgia invisibile resa accessibile dal pittore, sono qui quattro secondo un simbolismo cosmico che sottintende la pienezza e l’universalità dell’evento: le stesse ali, rese
con un verismo non letterale, porterebbero a interpretarli secondo una simbologia sofisticata ancora da indagare. Lo sguardo
stupito dei fanciulli celesti (su cui si sofferma l’indagine di Marco Bona Castellotti) contempla un mistero che le Scritture non
narrano: quello del Redentore «sublatus de cruce», dove il termine latino «sublatus», nel testamento del Migliorati - correttamente tradotto col vernacolo «descese de la croce» - evoca di contro anche l’essere «innalzato». L’«Uomo dei dolori» mentre sta
per essere seppellito mantiene la serena bellezza di un eroe classico32, pacificato come nelle icone antiche, come nelle tavole trecentesche riminesi e veneziane, quasi che i gesti quieti degli angeli anticipino ciò che sarà nel più tardo dipinto di Sebastiano
Florigerio al monte di Pietà di Treviso: i «Preparativi della Resurrezione»33. Sul nero intatto dello sfondo, privo di luci terrestri,
Bellini fa sorgere nell’avvenenza della carne di Cristo «l’altra luce, non ancora perduta a Occidente, umilmente trionfale»34.
1
A. CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» riminese di Giovanni Bellini, in Scritti di storia dell’arte
in onore di Mario Salmi, a cura di V. Martinelli, vol. II, Roma 1962, pp. 405-427, cfr. S.
NICOLINI, Augusto Campana per la storia delle arti figurative, in Augusto Campana e la Romagna, a cura di A. Cristiani e M. Ricci, Bologna 2002, pp. 289, 314.
2
Cfr. A. TEMPESTINI, Bellini e belliniani in Romagna, Firenze 1988, p. 34: «firma non autografa ma attendibile».
3
CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» cit., p. 410.
4
G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori, Firenze 1550, ed. a cura di
L. Bellosi e A. Rossi, Torino 1986, p. 437 e ID., Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, Firenze 1568, ed. Roma 2011, p. 460.
5
Cfr. P. G. PASINI, Il Tempio Malatestiano. Splendore cortese e classicismo umanistico, Milano
2000, p. 174; M. CENTANNI, Antichità classica e rivelazione cristiana. Un dialogo con «testo a
fronte» tra le cappelle del Tempio Malatestiano, in «Parola e Tempo», VI, (2007), p. 229.
6
R. COPIOLI, Gli Agolanti e i Malatesti e la Tomba Bianca di Riccione. Orgogli fiorentini nelle
sabbie della Romagna, in Gli Agolanti e il castello di Riccione, a cura di Id., Rimini 2003,
p. 94.
7
O. DELUCCA, Artisti a Rimini tra Gotico e Rinascimento. Rassegna di fonti archivistiche, Rimini 1997, p. 118.
8
Ibid., p. 535.
9
Ibid., p. 691.
10
Ibid., p. 392.
11
O. DELUCCA, L’abitazione riminese nel Quattrocento. La casa rurale, Rimini 1991, pp.
733-734.
12
CAMPANA, Notizie sulla «Pietà» cit., pp. 425-427; G. AGOSTI, Un amore di Giovanni
Bellini, Milano 2009, pp. 19, 60-61 (n. 32).
13
A. BATTAGLINI, Della corte letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta, in Basinii parmensis opera praestantiora, vol. II, Rimini 1794, p. 195.
14
A. CAMPANA, Due note su Roberto Valturio, in Studi riminesi e bibliografici in onore di Carlo Lucchesi, Faenza 1952, pp. 13-14.
15
O. DELUCCA, Ceramisti e vetrai a Rimini in Età Malatestiana. Rassegna di fonti archivistiche,
Rimini 1998, pp. 429-430, 444 e ID., Artisti a Rimini cit., pp. 535, 691.
16
Ibid., pp. 122, 142.
17
Ibid., p. 204.
18
VASARI, Le vite cit., ed. 1986, p. 437.
19
DELUCCA, Artisti a Rimini cit., pp. 535, 691.
20
H. BELTING, Giovanni Bellini: Pietà. Ikone und Bilderzälung in der venezianischen Malerei,
Francoforte sul Meno 1985, ed. italiana Modena 1996, pp. 20-28.
21
Cfr. M. GEORGOPOULOU, Venice and the Byzantine Sphere, in Byzantium. Faith and Power (1261-1557), catalogo della mostra (New York, Metropolitan Museum of Art, 23 marzo - 4 luglio 2004), a cura di H. C. Evans, New Haven-Londra 2004, pp. 494, 503-504;
A. NOVA, Icona, racconto e «dramatic colse-up» nei dipinti devozionali di Giovanni Bellini, in Giovanni Bellini, catalogo della mostra (Roma, Scuderie del Quirinale, 30 settembre 2008-11
gennaio 2009), a cura di M. Lucco e G. C. F. Villa, Cinisello Balsamo 2008, pp. 105115 (vedi anche le schede alle pp. 132-135, 160-163, 164-167).
22
Cfr. A. GIOVANARDI, «Belliniani in Romagna». Benedetto e Bartolomeo Coda nell’arte sacra del primo Cinquecento, «L’Arco», VI, 1 (2008), pp. 28-43.
23
Cfr. ad esempio P. G. PASINI, Il Museo di Stato della Repubblica di San Marino, Milano
2000, pp. 132-135 (scheda su una «Deposizione» belliniana opera di un madonnaro adriatico).
24
Cfr. BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana Modena 1996, pp. 29-32, 49, 55-57.
25
Cfr. C. SCHMIDT ARCANGELI, L’eredità di Costantinopoli. Appunti per una tipologia delle ancone veneziane nella prima metà del Trecento, in Il Trecento adriatico. Paolo Veneziano e la pittura tra Oriente e Occidente, catalogo della mostra (Rimini, Castel Sismondo, 19 agosto 29 dicembre 2002), a cura di P. Flores d’Arcais e G. Gentili, Cinisello Balsamo 2002,
pp. 97-103 (e scheda pp. 170-171); cfr. A. GIOVANARDI, Giovanni Baronzio pittore e «teologo» della Passione di Cristo, in «Parola e Tempo», VI (2007), pp. 140-144, 159-160.
26
BELTING, Giovanni Bellini cit., ed. italiana 1996, p. 21.
27
H. BELTING, Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo, ed.
italiana Roma 2001, p. 575.
28
Cfr. O. DEMUS, L’arte bizantina e l’Occidente, a cura di F. Crivello, Torino 2008, pp.
240-254.
29
Cfr. J. LINDSAY OPIE, Manolis Chatzidakis e l’arte post-bizantina, in Per Manolis Chatzidakis. «In memoriam», a cura di M. Bonfioli, Roma 2000, p. 36.
30
Cfr. T. VERDON, Attraverso il velo. Come leggere un’immagine sacra, Milano 2007, p. 99;
M. SCHMITT, Tipologie e funzioni della pittura senese su tavola, in Duccio. Siena fra tradizione
bizantina e mondo gotico, catalogo della mostra (Siena, 2002), a cura di A. Bagnoli, R. Bartalini, L. Bollosi e M. Laclotte, Cinisello Balsamo 2003, pp. p.532.
31
Cfr. M. G. BALZARINI, in Iconografia e arte cristiana, a cura di R. Cassanelli e E. Guerriero, vol. II, Cinisello Balsamo 2004, p. 1062.
32
F. SARACINO, Cristo a Venezia. Pittura e cristologia nel Rinascimento, Genova-Milano
2007, p. 303.
33
Ibid., pp. 323-324, tav. XXIX.
34
P. P. PASOLINI, Bozzetto, in Id., Tutte le poesie, a cura di W. Siti, vol. II, Milano 2003,
p. 294.
19
Lo specchio romagnolo
MASSIMO PULINI
Q
uando Giovanni Bellini dipinse il «Bacco bambino» (ora a Washington,
National Gallery of Art), si trovava nell’ultima stagione della propria esistenza, ma doveva avere ancora nitidi nella memoria i puttini di Agostino di Duccio visti nel Tempio Malatestiano. Lo sguardo incantato del dio infante, la paciosa
pinguedine e la chioma femminea, la camiciola discinta, il piede sinistro in pieno
profilo, quello destro scorciato in una prospettiva da bassorilievo e infine la mano che
poggia sul masso con un vezzo di pura decorazione, sono tutti elementi che si ritrovano sparsi nel vasto repertorio fisionomico dispiegato nel Tempio riminese dall’ultimo cantore di un gotico felice.
Ma di certo anche la Romagna si ricordava del Giambellino.
Facendo seguito alle riflessioni di Antonio Paolucci a introduzione del libro di Anchise Tempestini Bellini e belliniani in Romagna1, se la storia avesse svoltato diversamente o fosse durata più a lungo quella breve stagione in cui la Romagna di costa era entrata sotto l’egida veneziana (Ravenna già dal 1441 e Rimini dal 1503, dominio che
si concluse per entrambe le città nel 1509), forse leggeremmo anche la «Pietà» belliniana in altro modo. Sicuramente diverrebbe ai nostri occhi un avamposto culturale nella strategia espansiva della Serenissima che, dopo i lontani tempi di Paolo Veneziano e Jacobello del Fiore, tornava a diffondere nella regione la propria egemonia
artistica, prima che politica. Ma le idee culturali veicolate anche dal commercio, hanno da sempre gettato ponti tra sponde diverse e saputo collegare terre lontane. Tra
Quattro e Cinquecento gli artisti siciliani, attraverso la lingua delle immagini, si intendevano coi portoghesi o coi fiamminghi molto meglio di quanto non si potessero
comprendere i rispettivi governanti.
Giovanni Bellini aveva madre pesarese e nella vicina città marchigiana lasciò, intorno al 1475, un monumentale complesso di dipinti che equivale a un arco trionfale
dedicato alla più tersa pittura veneziana.
Non sappiamo invece se la tavola riminese «Cristo morto assistito da quattro angeli» fosse parte di un progetto altrettanto articolato non andato a buon fine. Non striderebbe pensarla a cimasa di un polittico2 e nulla osta che l’idea di una commissione anche più vasta potesse essere venuta allo stesso Sigismondo sul finire della propria vita, a conferma parziale delle parole di Vasari3. Ci sono tuttavia ignoti i motivi
che spinsero il pittore veneziano, pochi anni dopo la morte dello stesso Malatesta, a
realizzare quell’opera. Ma il mancato compimento di un’idea più ambiziosa, destino dello stesso Sigismondo e dell’intera chiesa albertiana, potrebbe giustificare un
passaggio del dipinto nelle mani del giurista Rainerio Migliorati, che nel 1499 lo sap-
20
GIOVANNI BELLINI,
«Bacco bambino».
Washington, National Gallery of Art.
FILIPPO MAZZOLA,
«Cristo morto assistito da quattro angeli».
Baltimora, The Walters Art Museum.
AGOSTINO DI DUCCIO,
«Angioletti alla fontana».
Rimini, Tempio Malatestiano.
piamo disporre di una «Pietà» dipinta da Giovanni Bellini, almeno vent’anni prima (cfr. scheda dell’opera). In ogni caso quell’unica tavola, nei suoi primi due decenni di vita, dovette rimanere esposta in pubblico (nulla vieta immaginarla nello stesso
Tempio Malatestiano) dato che il dipinto del Francia, parte della pala bolognese dei Felicini (cfr. scheda in questo catalogo),
intimamente ispirato alla «Pietà» riminese, è databile con precisione al 1490. Ma alle spalle delle tante «Madonne» di Francesco, disseminate sulla lunga carriera, si ritroveranno volti con la stessa posa degli angioletti di Rimini, portatori di un analogo
incanto e si potrebbe fare ampia cernita pure nel catalogo di Lorenzo Costa. Mentre se si volesse stilare una graduatoria su quale dipinto di fine Quattrocento riverberi maggiormente lo spirito dell’opera romagnola di Bellini credo che il primato spetti a un
altro «Cristo morto assistito da quattro angeli» (Baltimora, The Walters Art Museum, di Filippo Mazzola, anche se c’è da
scommettere su un’esecuzione veneziana, durante il soggiorno lagunare del pittore di Parma. La scena è resa silenziosa da un
medesimo fondo nero, anche il rimugino individuale degli angioletti è percepibile e solo un minore disincanto aleggia sul sepolcro. Anche quest’opera, secondo Federico Zeri, è collocabile intorno al 14904.
21
Ma ancora prima di tutto questo, intorno al 1480, è difficile
pensare che Pedro Berruguete non avesse visto la nostra tavola quando dipinse la sua «Pietà con due angeli», ora alla
pinacoteca milanese di Brera eppure proveniente dalla chiesa di San Girolamo in Sant’Agata Feltria, nell’entroterra riminese.
Sul valico del secolo è invece Antonio Aleotti, che a quel
tempo faceva ancora spola tra Argenta e Cesena, a chiedere
parziale prestito all’icona di Rimini. Il risultato è dialettale e
asprigno, dimesso e tuttavia sincero nella tavoletta, anch’essa
conservata a Brera.
Il forlivese Marco Palmezzano, che svolse un ruolo cardine e
per certi versi primario nella pittura romagnola di inizio Cinquecento, forse va escluso dai belliniani (TEMPESTINI 1998)
a patto che per questo si intenda solo la stretta bottega dei collaboratori, ma belliniano lo fu molto più, nei modi, di quanto fosse melozziano. Il suo soggiorno veneto ci impedisce di
valutare a pieno il lascito di influenze dell’unico dipinto riminese, ma la «Pietà con dolenti» di Colonia5, che vira in
controparte la figura del Cristo, ne è un esplicito richiamo.
Numerose sono le sue opere che muovono dallo stesso tema e
quasi tutte hanno un debito nei confronti del Bellini, per luce o per colore, composizione o stile, fisionomie o disegno.
Anche se Marco non riuscirà mai a superare le forme dell’albero, dei gesti scolpiti nel legno, mai uscirà da quella geometria primaria che disinnesca quasi ogni affetto, ogni morbidezza.
Incide maggiormente su Palmezzano e sugli artisti dell’entroterra ravennate la cimasa pesarese di Bellini (ora conservata nella Pinacoteca Vaticana), nella sua assoluta modernità di sguardo e di sentimento. Il forlivese annulla tuttavia il geniale scorcio da sott’insù, nelle proprie declinazioni
di quell’«Unzione di Cristo» e trasforma la suprema invenzione belliniana in una giostra cromatica, in una tarsia di
panneggi, come è nella tavola del Courtauld Institute di
Londra6.
Taglio e spirito più aderenti al dramma si ritrovano nel cotignolese Girolamo Marchesi, maggiormente disposto a recepire le aperture di ricerca, anche se la sua interpretazione non
tiene il passo del modello pesarese e sente comunque il bisogno di ribaltare la prospettiva mettendo una montagna gotica alle spalle di Nicodemo. Adolfo Venturi diede un’effica-
PEDRO BERRUGUETE,
«Pietà e due angeli».
Milano, Pinacoteca di Brera.
MARCO PALMEZZANO,
«Pietà con dolenti».
Colonia, Wallraf-Richartz Museum.
22
GIOVANNI BELLINI,
«Unzione del corpo morto di Cristo».
Roma, Musei Vaticani.
MARCO PALMEZZANO,
«Unzione del corpo morto di Cristo».
Londra, Courtauld Institute.
GIROLAMO MARCHESI,
«Unzione del corpo morto di Cristo».
Budapest, Szépmüvészeti Múzeum.
ce lettura dell’opera di Budapest, firmata dal Marchesi, parlando di figure cadaveriche e di occhi stretti, che sembrano aver perduto l’anima7. Lo stesso pittore di Cotignola, che lavorò a più riprese per chiese di Rimini e di Pesaro, ci ha lasciato anche un’altra lunetta che interseca il tema dell’«Unzione del corpo morto di Cristo» con la citazione in controparte della pietà riminese
(Lille, Palais des Beaux-Arts,).
Di certo si saranno dispersi nei secoli altri riverberi del capolavoro belliniano sul variegato tessuto romagnolo8, così questo elenco inevitabilmente frammentario trova parziale compimento davanti alle opere di Benedetto Coda, che si firmava «riminese»,
nonostante lo fosse solo d’adozione. Nella sua produzione, talvolta seriale ma mai avulsa da sentimenti, il tema della «Pietà» ricorre con una cadenza e un’attenzione particolare. Il risultato più alto lo si apprezza in un «Cristo morto con quattro dolenti»
riapparso di recente (già Prato, mercato antiquario), che aggiunge al silente impianto originale una intonazione nordica, un nido intrecciato di corpi e di tessuti piegati a tornante. Più esplicita la rielaborazione belliniana nella tavola del museo di Trevi,
GIROLAMO MARCHESI,
«Unzione del corpo morto di Cristo».
Lille, Palais des Beaux-Arts.
BENEDETTO CODA,
«Cristo morto con quattro dolenti».
Già Prato, mercato antiquario.
23
Schede
BENEDETTO CODA,
«Cristo morto con nove dolenti».
Trevi, Museo.
BENEDETTO CODA,
«Testa mozzata del Battista».
Milano, collezione Koelliker.
che segnalai già nel 1993 come opera di Benedetto9. Intorno al «Cristo» riminese, trasformato in una sagoma ormai priva di qualsiasi fierezza, i quattro angioletti pensanti lasciano posto a un funerale di nove figure, nel quale si innestano Compianto e Deposizione. Non si è più in procinto di allestire l’esposizione del corpo sacro in formam pietatis, né vi è sufficiente spazio per la contemplazione, ma appare evidente che l’immagine si sospenda nel concitato momento che precede l’inumazione. Benedetto Coda replicò più volte questa formula, fino agli anni trenta del Cinquecento, fino a farla diventare un’icona. Nella fototeca Zeri si
conservano varie immagini di una lacerata versione su tela, mentre presso la Galleria Altomani di Pesaro si trova un’altra redazione su tavola, pubblicata da chi scrive nel 2008, ma si può dire che anche tutta la sequenza di opere che ritma il tema della
«Testa mozzata del Battista»10, venga da quella sorgente iconografica.
Si troverà un’ultima eco del modello belliniano pure nella produzione dei figli di Benedetto11, a tre generazioni di distanza dalla sua creazione, anche se l’aura magnetica e inestinguibile di quel faro trova ormai uno specchio appannato nelle opere riminesi di metà Cinquecento.
1
8
A. PAOLUCCI, San Marco in Romagna, in A. Tempestini, Bellini e Belliniani in Romagna,
Firenze 1998, pp. 10-24.
2
Tra Quattro e Cinquecento l’iconografia della «Pietà» veniva spesso inserita in cima a
complessi polittici e, malgrado le altre opere belliniane di analogo soggetto e destinazione
presentino uno sfondo di cielo, non è raro trovare anche casi con fondi neri, si pensi alla cimasa del polittico di Recanati di Lorenzo Lotto.
3
G. VASARI, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori, Firenze 1550, ed. a cura di L.
Bellosi e A. Rossi, Torino 1986, p. 437.
4
F. ZERI, Italian Paintings in the Walters Art Gallery, Baltimora 1976, pp. 274-275.
5
Cfr. S. TUMIDEI, Marco Palmezzano (1459-1539). Pittura e prospettiva nelle Romagne, in
Marco Palmezzano e il Rinascimento nelle Romagne, catalogo della mostra (Forlì, Museo San
Domenico, 4 dicembre 2005-30 aprile 2006), a cura di A. Paolucci, L. Prati e S. Tumidei, Cinisello Balsamo 2005, pp. 46-47.
6
Deriva dalla tavola vaticana del Bellini anche l’opera di Palmezzano conservata al Museo Civico di Vicenza.
7
A. VENTURI, I quadri di Scuola italiana, in «L’Arte», III, 1900, pp. 185-240: 206-207.
A. Tempestini, nella scheda dedicata alla «Pietà» riminese del Bellini (in Marco Palmezzano cit., p. 216), affermava di conoscerne una derivazione puntuale eseguita dal cosiddetto Maestro dei Baldraccani e conservata in collezione privata. Purtroppo non ne pubblicava la foto, sarebbe stata un’aggiunta preziosa a questo repertorio entro il quale vanno ricordate altre copie conosciute: una nel Museo Diocesano di Pennabilli, un’altra a Milano
in collezione privata e la terza a Rimini nella chiesa dei Santi Bartolomeo e Marino.
9
Chi scrive segnalò nel 1993, alla Direzione del Museo di Trevi, l’attribuzione dell’opera
a Benedetto Coda. Una foto, estratta dall’archivio Zeri, venne poi pubblicata da S. Tumidei (in Marco Palmezzano cit., pp. 46-47). Vedi anche M. PULINI, La scelta riminese di
Benedetto Coda, in «L’Arco», 6, 1, 2008, pp. 44-53.
10
Sia per quanto riguarda la versione Altomani del Coda che la pubblicazione delle varianti della «Testa mozzata del Battista» cfr. PULINI, La scelta cit., 2008.
11
Per i riflessi del dipinto riminese di Giovanni Bellini sull’attività dei figli di Benedetto
Coda cfr. A. GIOVANARDI, «Belliniani in Romagna». Benedetto e Bartolomeo Coda nell’arte
sacra del primo Cinquecento, «L’Arco», VI, 1 (2008), pp. 28-43.
24
GIOVANNI BELLINI
(Venezia, 1438 circa - 1516)
Testa di san Giovanni Battista
1465 circa.
Tempera su tavola, diametro 28 cm.
Pesaro, Musei Civici, inv. 4545.
S
econdo una testimonianza riportata
da Marcello Oretti, nel 1777 il tondo con la «Testa mozzata di san Giovanni Battista» si trovava nella sagrestia della chiesa di San Giovanni Battista a Pesaro, costruita a partire dal 1543 su
progetto di Girolamo Genga. Nello stesso luogo, la tavola fu segnalata, insieme a
un «Cristo in pietà fra angeli», da Antonio Becci (1783), che assegnava entrambi i dipinti a Marco Zoppo da Bologna,
autore della grande pala firmata che si vedeva «nel coro dietro l’altar maggiore»,
ma che l’erudito dice provenire dall’«antica chiesa» quattrocentesca, già distrutta
nel 1536. Dopo la soppressione delle congregazioni religiose marchigiane, seguita
all’Unità d’Italia, le due tavole conservate in sagrestia furono incamerate dal municipio pesarese, confluendo prima nelle
raccolte del Museo Oliveriano e in seguito in quelle dell’attuale Pinacoteca Civica. Tenendo conto delle indicazioni settecentesche, la critica ha inizialmente ritenuto il tondo con la «Testa del Battista»
opera certa di Marco Zoppo: così, per
esempio, Crowe e Cavalcaselle (1871),
Berenson (1907), Frizzoni (1913). Già
Venturi (1914) dubitava però che il dipinto, «per la sua sentimentalità come per
la forte quadratura», potesse spettare all’aspro pennello del pittore emiliano.
Come è noto, fu però Roberto Longhi a
sparigliare la questione negando risolutamente la consueta attribuzione e a indicare nel tondo un capolavoro giovanile di
Giovanni Bellini. L’opinione dello studioso fu resa nota per la prima volta, senza essere condivisa, da Giuseppe Fiocco
(1922), per poi essere ribadita dallo stesso Longhi nel 1927. Ancora in Officina
ferrarese lo studioso mostrava disappunto
nel rilevare che il dipinto, «forse il più alto fra tutti quelli presenti» nella grande
mostra del 1933, fosse «esposto senza speciali onori, accanto al polittico bolognese di Marco Zoppo». Contestualmente
Longhi proponeva dei confronti fra la
«Testa» e i brani più arrovellati del polittico di San Zanipolo o della «Pietà» di
Brera, nella speranza che ciò bastasse al
comune riconoscimento della paternità
di Bellini. Lo stesso accostamento fu riproposto da Moschini (1943) e da Pallucchini, che decideva di esporre il tondo di Pesaro fra i capolavori belliniani
della mostra da lui curata nel 1949.
Questa scelta suscitò l’accesa reazione di
Cesare Brandi, che, dopo aver accolto
nel 1935 il parere di Longhi, si era ormai
ricreduto in favore della tradizionale attribuzione a Marco Zoppo. L’opinione
dello studioso, espressa in una recensione
della mostra del 1949, si basava sul confronto tra la «Testa del Battista» e l’«Ecce Homo» di Zoppo allora in collezione
Schiff-Giorgini, ma, soprattutto, su uno
schizzo raffigurante una «Naiade a cavallo di un delfino» da lui scoperto sul retro
della tavola e ritenuto testimonianza della più tipica grafica zoppesca. Nonostante ciò, il dipinto fu esposto come opera di
Bellini ancora alla «Mostra della pittura
veneta nelle Marche» curata da Zampetti (1950) e in quella di Paccagnini su
26
Andrea Mantegna (1961). Nel catalogo,
Paccagnini segnalava peraltro l’estrema
problematicità dell’attribuzione, anche
in virtù della presunta vicinanza tra la
«Testa del Battista» e il «Cristo in Pietà
fra angeli» dello stesso museo, già riconosciuto da Filippini (1939, p. 354) e da
Zeri (1958, p. 40) quale cimasa della pala eseguita dallo Zoppo nel 1471 per gli
Osservanti di Pesaro (ora Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie). Il riferimento allo Zoppo fu dunque ripreso da
Ruhmer (1966) e dalla Armstrong
(1976), ma trovò un fiero oppositore in
Alessandro Conti, che, riproponendo
con forza l’attribuzione a Bellini, adduceva argomentazioni di natura stilistica e
tecnica.
Da questa breve rassegna emerge chiaramente come il riconoscimento dell’autografia del bellissimo tondo pesarese costituisca un problema aperto, su cui la critica si è sempre mostrata divisa. In questo
senso, la posizione più emblematica è forse quella adottata nella sua autorevole
monografia su Giovanni Bellini da Robertson (1968), che, pur optando per lo
Zoppo, ammetteva la plausibilità di una
diversa lettura in favore del maestro veneziano.
Detto ciò, e rilevato che la soluzione di
uno dei più affascinanti problemi attributivi del quattrocento italiano non può
certo dipendere dal confuso schizzo tracciato sul retro della tavola, bisogna rilevare come negli ultimi anni lo stimolante dibattito attributivo abbia subito una
netta battuta d’arresto. Ciò in seguito agli
interventi di Mauro Lucco e Catarina
Schmidt, che nel 1990 hanno suggerito
un’ipotesi ricostruttiva della pala di Pesaro di Zoppo, in cui, oltre agli scompar-
GIOVANNI BELLINI,
«San Cristoforo»
(particolare del Polittico di san Vincenzo Ferrer).
Venezia, chiesa dei Santi Giovanni e Paolo.
GIOVANNI BELLINI,
«Testa di san Giovanni Battista».
Pesaro, Musei Civici.
ti già problematicamente individuati da
Lillian Armstrong, avrebbe trovato posto, al centro della predella, anche il tondo in esame. L’assunto è stato in seguito
condiviso e più distesamente argomentato anche da Peter Humfrey (1993b), secondo il quale la «Testa del Battista» al
centro della predella avrebbe avuto la
funzione di sportello per il tabernacolo
del Santissimo, con una soluzione che
nel 1524, a quanto ci tramanda il contratto, anche Gerolamo Savoldo avrebbe ripreso nella grande pala per l’altare maggiore della chiesa domenicana di Pesaro
(ora Milano, Brera). Il pittore bresciano
avrebbe cioè «deliberatamente tentato di
evocare l’opera monumentale che era stata commissionata dal precedente signore
di Pesaro mezzo secolo prima», ossia la
pala eseguita da Zoppo nel 1471 su probabile commissione di Alessandro Sforza. Nonostante la distanza cronologica
che separa i due dipinti, l’argomentazione è certamente intrigante, ma non può
valere che come pura suggestione, visto
che lo sportello dipinto da Savoldo con
la «Testa di san Pietro Martire» è andato
perduto e dunque non è possibile istituire nessun confronto morfologico con la
presente «Testa del Battista».
Si può inoltre aggiungere che la stessa tipologia dell’oggetto, appartenente al fortunato genere dello Johannesschüssel
(vassoio di Giovanni), sembra indicare
una più probabile funzione autonoma.
A questo proposito, secondo quanto ha
ricordato Isabel Combs Stuebe in un interessante e ancora valido studio su tale tipologia di origine nordica (1968-1969,
p. 1), già Panofsky aveva osservato che
«the head of St. John the Baptist in the
charger was singled out from representations of the Salome episode and transformed into an isolated devotional image
(Andachtsbild) in the northern countries
and North Italy in the fourteenth and fifteenth centuries». Né potrà servire come
prova contraria la presunta appartenenza
della «Testa del Battista» di Palmezzano
28
(ora Milano, Brera) alla pala con l’«Incoronazione della Vergine» (Brera) realizzata dal romagnolo per la chiesa degli
Osservanti di Cotignola, che non risulta in alcun modo documentata (A.
MAZZA, in Pinacoteca 1991, pp. 291292) e anzi viene per lo più motivata proprio sulla base dell’ipotetica ricostruzione del precedente complesso zoppesco (F.
NANNI, in Marco Palmezzano 2005, pp.
236, 240).
L’ipotesi sostenuta da Schmidt, Lucco
e Humfrey non risolve inoltre l’innegabile problema posto dall’accostamento
tra il tondo di Pesaro e gli altri scomparti che la critica ha ricollegato alla predella della pala pesarese di Zoppo, tutti di
formato rettangolare. Né appare possibile ipotizzare una modificazione successiva della tavola, poiché le tracce di doratura che si scorgono sul bordo della superficie dipinta, e in certi punti al di sotto
di essa, sembrano riferirsi alla cornice
originale, pensata dunque fin dall’inizio
per contenere un tondo. Appare inoltre
poco plausibile che, in una predella in
cui dovevano essere riprodotti in maniera simmetrica i santi del registro principale, venisse poi duplicata l’immagine
del Battista. Anche in virtù di quest’ultima considerazione, la Armstrong aveva più coerentemente escluso dalla sua ricostruzione il tondo di Pesaro, avendo
già individuato quale più plausibile
scomparto di predella la tavoletta con il
san Giovanni Battista nel deserto della
collezione Cini, posizionato dalla studiosa in corrispondenza dell’omologo
santo dello scomparto centrale. A dispetto di ciò, l’ipotesi di un’originaria collocazione della «Testa» nella pala di Pesaro è oggi generalmente accettata, anche
in base all’asserita provenienza del tondo dall’antica chiesa di San Giovanni
Battista a Pesaro, che si desumerebbe
dalla testimonianza fornita da Becci nel
1783. Quest’ultimo, in realtà, specifica
una tale provenienza solamente in relazione alla grande ancona posizionata nel
coro del nuovo edificio.
Sorprende perciò che non sia mai stata
presa in debita considerazione un’ulteriore fonte, già pubblicata da padre Ciro Ortolani (1930). Si tratta di un inventario settecentesco, in cui viene specificato che la «Testa», a differenza della pala
già sull’altare maggiore dell’edificio
quattrocentesco, era pervenuta nella
nuova chiesa dei frati zoccolanti in seguito a una donazione ducale. L’importante segnalazione di padre Ortolani è stata
per vero ripresa dalla Armstrong, che
tuttavia ne ha frainteso la natura. La studiosa datava infatti l’inventario al 1535,
riferendolo alla primitiva chiesa abbattuta l’anno successivo, e su questa base
considerava il tondo «a small commission done at the same time as the Pesaro
altarpiece», dunque un lavoro autonomo
rispetto alla pala, ma eseguito negli stessi anni per la medesima chiesa, fatto che
a suo avviso contribuiva a confermarne
l’autografia zoppesca.
Già la parziale trascrizione fornita da padre Ciro Ortolani offriva però elementi
tali da escludere la datazione dell’inventario ipotizzata dalla Armstrong. Basti
dire che nel coro, insieme alla pala di
Zoppo, viene citato un «quadro di San
Giacomo della Marcha di mano di Simone Cantarini da Pesaro». Si tratta
perciò, con ogni evidenza, di una testimonianza ben successiva all’abbattimento della vecchia chiesa sforzesca e
MARCO ZOPPO,
«Madonna col Bambino»,
particolare. Washington, National Gallery of Art.
dunque certamente relativa al nuovo edificio voluto dai Della Rovere. Ciò appare ancora più evidente se si consulta il
manoscritto originale, conservato nella
Biblioteca Oliveriana di Pesaro (ms.
456, II, lettere E-M), che si rivela un’importante memoria manoscritta, redatta
da un anonimo estensore nel 1735. Alla
c. 373 si legge infatti «Notizia dell’antico convento di San Gio. Battista di Pesaro, raccolta da diversi scrittori in quest’anno 1735, e da conservarsi in memoria, non essendovi nell’archivio altra
notizia distinta come la presente». Nella
prima sezione sono tramandate diverse
informazioni relative all’edificio quattrocentesco. Nella seconda parte vengono
narrate le complesse vicende costruttive
della nuova chiesa finanziata da Guido-
29
baldo II. Alle cc. 378 e 379 l’anonimo
fornisce quindi un dettagliato inventario
della chiesa, in cui si legge appunto che
«nel Choro dietro l’altare maggiore vi è
il quadro della chiesa antica del vecchio
convento dipinta da Marco Zoppo da
Bologna, l’anno: 1471 ed è in stima».
Passando alla sagrestia, si segnala la presenza della «testa di San Gio. Battista decollato di mano di Marco Zoppo da Bologna, parimenti stimata e donata dalli
SS. Duchi». Non viene invece citato in
alcun modo il «Cristo fra angeli», a quel
tempo evidentemente ancora posizionato sulla pala.
Ciò che conta è però che l’anonimo specifichi come la «Testa del Battista», a differenza della pala, non provenisse dalla
vecchia chiesa distrutta, ma fosse invece
Ms. 456, II, lettere E-M, c. 379.
Pesaro, Biblioteca Oliveriana.
un dono dei duchi, ossia dei Della Rovere. L’oggetto dovette dunque giungere nella nuova chiesa in una data imprecisata, ma comunque successiva al 1543.
D’altronde, in più di un caso l’inventario fa una distinzione fra dipinti provenienti dall’antico convento e altri donati ai frati dai duchi. È chiaro perciò che
l’estensore della memoria disponesse di
precise indicazioni archivistiche a riguardo, cosa che in effetti egli stesso dichiara nell’incipit del suo resoconto. Non
è certo peregrino pensare che, contestualmente all’edificazione del nuovo San
Giovanni, Guidolbaldo II fornisse arredi d’altare e oggetti liturgici di vario tipo, per risarcire i frati dell’abbattimento
della loro sede originaria. In quest’ottica, un’immagine di forte valenza simbolica e direttamente legata alla rinnovata
intitolazione della chiesa non doveva
certo stonare. Il prezioso inventario indica dunque una diversa provenienza del
tondo e smentisce, in maniere definitiva,
la sua presunta collocazione all’interno
della pala di Zoppo.
A questo punto è possibile riaprire anche il problema attributivo. Per ragioni
stilistiche non sembra infatti che questa
«Testa del Battista», in cui una morbida
luce digradante intesse l’incarnato e ac-
cende di bagliori argentei le ciocche metalliche, possa accostarsi alle forme cristallizzate e di legnosa durezza esibite nei
suoi dipinti da Marco Zoppo. Nemmeno nella sua fase più intensamente belliniana, collocabile negli ultimi anni del
settimo decennio, il pittore si dimostra
infatti capace di un miracolo naturalistico di tal sorta, che si rivela totalmente
estraneo al suo più radicato habitus mentale. Se è vero che i dipinti riferibili a
questa precisa fase dell’artista, come il
«Cristo passo» ora in deposito al Metropolitan Museum di New York o la «Madonna col Bambino» della National
Gallery di Washington, mostrano un
certo ammorbidimento, esso è però sempre smorzato entro uno schema lineare
tagliente e da un manierismo quasi grottesco, che non lascia spazio al libero fluire dei sentimenti di cui trasuda, invece,
la mirabile «Testa» di Pesaro. La stessa
surriscaldata temperatura cromatica poco ha a che vedere con le superfici smaltate così tipiche del pittore emiliano. Come già notava Alessandro Conti (1993),
l’autografia zoppesca è poi smentita dal
tipo di stesura adottata: tutti i dipinti citati, ma lo stesso vale per le parti superstiti della pala di Pesaro, sono accomunati da un’insistita modalità grafica, ri-
30
velata da un fitto tratteggio incrociato,
ben diverso dalla raffinatissima modulazione chiaroscurale che si riscontra nella
tavola in esame. Al di là di taluni innegabili rimandi tipologici e «morelliani»,
non sembra dunque possibile rintracciare nel catalogo di Zoppo nulla che possa reggere il confronto, per qualità esecutiva e di concezione, con il tondo di Pesaro. Si potrebbe però obiettare che la
memoria settecentesca, qui utilizzata per
smentire l’appartenenza della «Testa» alla pala del 1471, tramanda anche un’attribuzione a Marco Zoppo. In merito bisogna precisare che, se l’anonimo estensore si rivela quasi certamente affidabile
riguardo l’origine dei dipinti che erano
conservati nella chiesa, non sembra però
esserlo in merito alla loro esatta paternità: basti citare l’inverosimile attribuzione dello stesso progetto dell’edificio a
Donato Bramante, che nel 1543, allorché fu fondata la chiesa, era ormai scomparso da quasi tre decenni. È chiaro dunque che a molti secoli di distanza si era
ormai perduta la memoria della reale autografia delle opere più antiche e che nel
caso specifico l’anonimo accostava senza
troppe remore la «Testa del Battista» al
nome del pittore che si leggeva sulla pala
ancora posizionata nel coro della chiesa.
Il rilancio della paternità belliniana non
può che partire dalle strette affinità, già
riscontrate da Longhi, tra il tondo e il
polittico di san Vincenzo Ferrer in San
Zanipolo, in cui Robertson leggeva, a
mio parere giustamente, chiari echi zoppeschi. Non vi è dubbio, infatti, che nel
corso degli anni sessanta le formulazioni
di Giovanni Bellini risentano di un teso
plasticismo e di una vigoria espressiva di
chiara impronta padovana, suscitata certo dall’ammirazione per il grande cognato Andrea Mantegna, ma altresì rinfocolata dall’arrivo in laguna di Marco Zoppo intorno alla metà del settimo
decennio. Proprio il dialogo ravvicinato
con quest’ultimo sembra giustificare
l’adozione da parte di Bellini di taluni
caratteri morfologici che, di fatto, hanno
a lungo alimentato la spinosa diatriba attributiva. I capelli come lamine, i lineamenti rigonfi, il risentito contorno del viso si riscontrano in effetti in certi passaggi del polittico dei Santi Giovanni e
Paolo, per esempio nella testa del san
Cristoforo, la cui sottigliezza luministica e chiaroscurale è parimenti confronta-
bile con quella del tondo di Pesaro.
Credo però che avesse ancora una volta
ragione Alessandro Conti nel rilevare
che il confronto con il san Cristoforo,
anche se efficace, non sia pienamente utile ai fini della precisa datazione della
«Testa del Battista». Rispetto a quest’ultima, mi sembra infatti che nel polittico
di San Zanipolo, databile intorno al
1468, Bellini sperimenti ormai un nuovo uso della luce, non più solo sbalzante, ma già plasticamente costruttivo, che
quasi prelude alla grande sintesi cromatico-luministica elaborata nel corso del
decennio successivo. Non riesco peraltro
a condividere la precocissima datazione
proposta dallo stesso Conti e credo che
sia invece più ragionevole riferire il tondo a una fase appena precedente a quella del polittico, ossia intorno al 1465. Si
tratterebbe di un momento più acerbamente padovano, di poco successivo ai
trittici della Carità, in cui di fatto ricorrono tipologie molto simili a quelle della «Testa» di Pesaro.
GIACOMO A. CALOGERO
31
BIBLIOGRAFIA: Notizie dell’antico convento 1735,
cc. 368-386; Oretti 1777, c. 12; Becci 1783, pp.
60-61; Crowe e Cavalcaselle 1871, p. 349; Berenson 1907, p. 304; Crowe e Cavalcaselle 1912,
p. 52; Frizzoni 1913, pp. 169-170; Venturi
1914, pp. 33-34; Fiocco 1922, p. 41; Longhi
1925-1926, ed. 1995, pp. 381-382; Longhi
1927, ed. 1967, vol. I, p. 181; Ortolani 1930, p.
40; Berenson 1932, p. 608; Catalogo 1933, p. 65;
Serra 1933, p. 583; Longhi 1934, ed. 1956, pp.
27-28, 96-97 n. 54; Filippini 1939, p. 354; Moschini 1943, p. 14; Giovanni Bellini 1949, p. 62 n.
37; Brandi 1949, pp. 288-289; Longhi 1949, ed.
1978, p. 103; Pallucchini 1949, pp. 175-176;
Brandi 1950, pp. 561-562; Robertson 1950, p.
26; La pittura veneta 1950, pp. 10, 30; Pallucchini 1959, pp. 38, 133; Andrea Mantegna 1961, pp.
90-91; Longhi 1962, ried. 1978, p. 152; Ruhmer 1966, p. 88; Robertson 1968, p. 53, tav.
XXVIII; Combs Stuebe 1968-1969, fig. 8; Armstrong 1976, pp. 381-384; Nicolson 1977, p.
292; Conti 1980, pp. 1112-1113; Bacchi 1987,
p. 771; Conti 1987, pp. 283-284; Valazzi 1989,
p. 352 n. 100; Zampatti 1989, p. 194; Lucco
1990, p. 430; Schmidt Arcangeli 1990, p. 707,
fig. 867; Conti 1993, p. 99; Dipinti e disegni 1993,
pp. 53-54 (con bibl. prec.); Humfrey 1993a, pp.
189-192, 344; Humfrey 1993b, pp. 71, 75-78;
Agosti 1996, ed. 2009, p. 9; Valazzi 2000, pp.
101-103; Schmidt Arcangeli, in Il potere, le arti
2001, p. 378; Tempestini, in Marco Palmezzano
2005, pp. 242-243; Facchinetti 2007, pp. 140141; Valazzi, in Arte francescana 2007, pp. 191192; Ceriana 2008, p. 96; Valazzi, in Emozioni
in terracotta 2009, pp. 109-110.
MARCO ZOPPO
(Cento, 1433 - Venezia, 1478)
Cristo morto tra due angeli
1471.
Tempera su tavola, 120 x 95 cm.
Firmata e datata: «1471».
Pesaro, Musei Civici, inv. 4546.
L
a tavola è riconosciuta quale cimasa della grande «macchina»
pittorica che Marco Zoppo dipinse, nel
1471, per la chiesa pesarese di San Giovanni Battista dell’Osservanza. L’ipotesi, formulata nel 1961 dal Paccagnini,
è stata in seguito concordemente accettata (bibliografia, Ambrosini MASSARI, in Dipinti e disegni 1993, pp. 26-27).
Antonio Becci (1783, pp. 60-61) ne segnalò la presenza, alla fine del XVIII secolo, nella sacrestia della chiesa di San
Giovanni Battista «nuovo». Scrive il
Becci: «Nel coro dietro l’altar maggiore vi è il quadro che stava nell’antica
chiesa di Marco Zoppo da Bologna.
Autore assai raro, del quale pure sono
due quadretti nella sagrestia che rappresentano il primo la testa recisa di San
Giovanni, l’altro una mezza figura di
Gesù-Cristo Signor Nostro fra due
Angeli». Il prezioso riferimento all’«antica chiesa» riporta al luogo per il quale
erano stati originariamente realizzati i
dipinti testé citati, tutti ad evidentiam pertinenti a un medesimo complesso pittorico, giunto assai precocemente e assai
precocemente smembrato, nel «nuovo»
San Giovanni Battista. Con la dizione
«nella chiesa Nuova di San Giovanni
Evangelista» (evidentemente con un
fraintendimento del titolo della chiesa)
la pala dello Zoppo era stata già menzionata da Giorgio Vasari (1568, ed.
1878-1885, vol. III, p. 405).
La costruzione del primo San Giovanni dei frati francescani dell’Osservanza
(o zoccolanti) fu voluta da Alessandro
Sforza: l’edificio, collocato extra moenia,
fu destinato a essere il mausoleo della fa-
32
miglia Sforza, la quale, tra il 1445 e il
1513, fu detentrice della signoria di Pesaro. Esso fu demolito circa un secolo e
mezzo più tardi, intorno al 1635, quando fu edificata la nuova e più ampia cinta muraria a opera dei Della Rovere, la
cui casata succedette a quella degli Sforza nel governo della città (nell’occasio-
ne fu ricostruita, spostandone l’ubicazione, anche la chiesa dal medesimo titolo, su progetto di Girolamo Genga).
Alessandro Sforza, signore di Pesaro tra
il 1445 e il 1473, ebbe un rapporto privilegiato con il fratello Francesco, il quale,
nel momento in cui volse i propri interessi verso la signoria milanese, oltre a lasciargli il governo di Pesaro, gli affidò un
ruolo cardine nel gioco politico-militare
dei potentati centro-italiani. Alessandro
strinse un nodo di indissolubile alleanza
con Federico di Montefeltro. Vespasiano da Bisticci scrive che egli era l’unico
signore italiano degno di stare al pari di
Federico e sottolinea le affinità tra i due,
in particolare la creazione da parte di entrambi di splendide biblioteche (malauguratamente scomparsa quella sforzesca). Comune ai due fu anche l’interesse per la città, intesa quale espressione
fondamentale cui affidare, mediante valori fisicamente riscontrabili, la «comunicazione» degli ideali culturali e politici più profondi del Rinascimento, da entrambi vissuti intensamente (VALAZZI
1989, pp. 305-356). È Vespasiano a informare che Alessandro, assai legato alla devozione francescana, promosse la
costruzione della chiesa di San Giovanni Battista con tutti i suoi «ornamenti»
(Vespasiano da Bisticci 1951, p. 229). La
presenza di quest’ultima precisazione ha
fatto ipotizzare che «l’ornamento» dell’altare maggiore - che è stato concordemente identificato nella pala di Marco
Zoppo, trasferita nel «nuovo» San Giovanni - fosse stato anch’esso commissionato dal signore pesarese: certo la complessità e la qualità artistica dell’opera inducono a pensare a un impegno di tipo
formale e programmatico di rilevanza
anche politica (VALAZZI 1989, pp.
317-318).
La grande «macchina», come si è detto,
fu smembrata in tempi assai precoci, certo legati in prima istanza allo spostamento dalla sede originaria, ma sembra che
soltanto in epoca posteriore, presumibilmente nel corso del XIX secolo, le diverse parti, oggi ubicate in sedi assai lontane le une dalle altre, abbiano seguito i
percorsi, spesso tortuosi e tra loro intersecatisi, del collezionismo dei «primitivi»:
del resto soltanto in extremis fu evitata la
vendita alla «R. Pinacoteca di Londra»
della pala che Giovanni Bellini dipinse
- con una evidente e, allo stato attuale,
non pienamente analizzata rispondenza
con la pala dello Zoppo - per l’altra chiesa francescana di Pesaro. A tutt’oggi non
si conosce l’assetto originario del complesso che certamente, per affinità con altre prove dello Zoppo e con opere coeve
- con la pala belliniana in particolare -,
doveva essere di grande impatto. La tavola centrale è oggi a Berlino: vi è raffigurata la «Madonna col Bambino in trono tra i santi Giovanni Battista, Francesco, Paolo e Girolamo. Reca», su un
cartiglio posto al sotto del trono della
Vergine, firma e data: «MARCO ZOPPO
DA BOLO/GNIA PINSIT MCCCCLXXI
IN VINEXIA».
La composizione, che costituisce uno dei
prototipi in area adriatica di un tema iconografico che ebbe poi grandissima diffusione, la «Sacra conversazione», permette di conoscere la cultura pittorica di
Marco Zoppo attraverso tutti i suoi dati.
L’alunnato presso lo Squarcione a Padova dette al pittore emiliano quel gusto per
le superfici delineate dal piegarsi metallico dei profili e delle lumeggiature che crea
33
immagini come di dura materia. Il trono,
in pietra intagliata culminante in un serto di frutta e fiori, si mostra in questa sua
primaria qualità, incorruttibile all’azione della luce che ne investiga le curve e i
meandri. Sulla base squarcionesca si innestano altre aperture: verso i ferraresi e
Mantegna, verso Venezia per l’accezione
del colore (HEINEN 2005, p. 276 con bibliografia), ma anche verso dati di cultura diversi. Nel nucleo centrale della «Madonna col Bambino», nella resa del volume regolare del volto della Madonna,
nella saldezza della massa entro lo spazio
arioso è riconoscibile una specifica adesione alle proposte di Piero della Francesca, all’inizio degli anni settanta certamente attivo a Urbino. È incontrovertibile che quest’opera rappresenti
un’importante evoluzione nel linguaggio
dello Zoppo, una più aperta adesione a
temi di spazio e volume, anche se è stato
sottolineato che fin dalle prime opere - come la «Madonna con il Bambino e angeli» del Louvre - la più libera circolazione, già pierfrancescana, di aria e luce distingue immediatamente il linguaggio
dello Zoppo rispetto a quello degli altri
squarcioneschi (ARMSTRONG 1976,
pp. 379-380; DE NICOLÒ SALMAZO
1990, pp. 522-523; CHAPMAN 1998).
Potrebbe essere comunque un’ipotesi credibile pensare che il pittore abbia immesso nella pala pesarese un rinnovato e più
puntuale interesse per la cultura artistica
dell’Italia centrale, evidente anche nella
concezione eroica del corpo del Cristo
defunto, e in particolare per quella di matrice pierfrancescana. Non vi sono dati
certi, ma è da rilevare che tra il 1468 e il
1471 il pittore non risulta documentato
nella città lagunare (RUHMER 1966, p.
38; ARMSTRONG 1976, pp. 379-380;
DE NICOLÒ SALMAZO 1990).
Sono pressoché concordemente riconosciute quali parti della «macchina» zoppiana altri dipinti - «San Giovanni Battista nel deserto» (Venezia, collezione
Cini); «San Girolamo penitente» (Bologna, Pinacoteca Nazionale; HEINEN
2005, p. 276, con bibliografia) - tra i quali è particolarmente importante la tavoletta (35,6 x 46,7 cm) raffigurante «Le stimmate di san Francesco», pertinente alla
predella come gli altri, oggi conservata,
con numerose altre opere provenienti dalle Marche, nella collezione Walters di
Baltimora. È Federico Zeri, il quale pure negava la pertinenza della tavoletta alla pala pesarese, a sottolinearne il legame
territoriale (ZERI 1976, pp. 208-213).
Eugenio Battisti ne indica invece un elemento di straordinaria importanza: la
raffigurazione dell’edificio alle spalle del
santo. La chiesa, sulla scorta delle parole di Vespasiano da Bisticci e grazie al
confronto con l’immagine perfettamente corrispondente nella mappa lignea
delle tarsie del coro della chiesa di Sant’Agostino a Pesaro, viene riconosciuta
nella stessa San Giovanni Battista, monumento pregno di significati cultuali e
simbolici nella inusuale e nuovissima,
per quegli anni, proposta della pianta
centrale (BATTISTI 1971).
È da considerarsi parte dell’ancona anche il tondo con la «Testa del Battista»,
che da Roberto Longhi era ritenuta opera di Giovanni Bellini (LONGHI 1934,
p. 27). Tuttavia, la scoperta sul retro di
disegni nettamente riconducibili alla
temperie grafica dello Zoppo ha fatto sì
che anche questo piccolo dipinto fosse ricollegato alla pala di San Giovanni: es-
so poteva far parte delle cornici lignee o
di sezioni di raccordo. Le cornici, insieme agli altri elementi della pala, sono allo stato attuale scomparse: è tuttavia significativo che le vicende della tavola
centrale, della cimasa e del tondo siano
state, perlomeno fino alla metà dell’Ottocento, comuni (VALAZZI 2000, pp.
101-103).
La cimasa, rimasta a Pesaro, reca la raffigurazione del «Cristo morto sorretto da
angeli». La versione dello Zoppo risulta a una prima visione in qualche modo
arcaica, nella espressività dolente e rattenuta della figurazione, ma anche in essa
si evidenzia una risentita plasticità volumetrica nel corpo di Cristo, una concezione eroica del nudo, che ne indica la
distanza dal più giovanile disegno di collezione Colville (DE NICOLÒ SALMAZO 1990, p. 512; TEMPESTINI 1995).
Da questi elementi, anche se la ricostruzione del complesso pittorico risulta assai parziale, si può dedurre comunque
che esso mostra stringenti analogie con la
monumentale pala che Giovanni Bellini dipinse qualche anno più tardi, intorno al 1475, per la chiesa dei conventuali
pesaresi: dall’organizzazione architettonica - tavola principale e cimasa di dimensioni pressoché sovrapponibili - e
dalle figurazioni alle rispondenze tematiche secondo una precisa sequenza. Il
dipinto, la cui situazione conservativa
permette di leggerne ancora la raffinata
pratica esecutiva di Marco Zoppo, è stato oggetto di diversi interventi di restauro (AMBROSINI MASSARI 1993, pp.
26-27). Ben documentato quello del
1970 (MULAZZANI 1970).
MARIA ROSARIA VALAZZI
34
BIBLIOGRAFIA: Vasari 1568, ed. 1878-1885,
vol. III, p. 405; Becci 1783, pp. 60-61; Berenson
1907, p. 304; Vaccaj 1909, p. 105; Venturi
1914, p. 32; Serra 1920, pp. 11-12; Serra 1921,
pp. 200-201; Ortolani 1930, p. 40; Berenson
1932, p. 608; Catalogo della esposizione 1933, p.
65, n. 69; Fiocco 1933, p. 304; Longhi 1934, p.
27; Brandi 1949, p. 288; Pallucchini 1949, pp.
175-176; Pallucchini 1950, p. 18; Zampetti, in
La pittura Veneta 1950, p. 19; Polidori 1956, p.
10, n. 18; Paccagnini, in Andrea Mantegna 1961,
p. 97; Michelini Tocci 1965, p. 48; Ruhmer
1966, p. 38; Battisti 1971; Mulazzani 1970, pp.
114-116; Armstrong 1976, pp. 379-380; Bacchi
1987, p. 771; Conti 1987, p. 284; De Nicolò
Salmazo 1990, pp. 521-525; Valazzi 1989, pp.
317-318; Giovannucci Vigi 1993, p. 42 sgg.;
Humfrey 1993b, pp. 189, 344; Tempestini 1995,
pp. 171-176; De Marchi 1996a; Chapman
1998, pp. 51-54; Valazzi 2000, pp. 101-103;
Schmidt Arcangeli, in Il potere, le arti 2001, pp.
378-379; Heinen 2005, p. 276; Arte francescana
2007, pp. XX; Valazzi, in Emozioni in terracotta
2009, p. 109.
«Cristo morto sorretto da due angeli»
scolpito dal maestro toscano per l’altare
del Santo a Padova. Il volto più scorcia(Padova 1437? - post 1496?)
to e le braccia allargate derivano invece
dalla tavola di Bellini con lo stesso sogCristo in Pietà e tre angeli
getto, conservata a Venezia (Museo Coranni sessanta-settanta del XV secolo.
rer, 1460 circa), a sua volta derivazione
Cartapesta su supporto ligneo con
rinforzi in tela, 84 x 88 cm.
dal rilievo donatelliano. Altre ascendenFaenza, Pinacoteca Comunale di Arte ze belliniane si riscontrano nell’Imago pieAntica e Moderna, inv. 204.
tatis, parte sommitale del polittico di San
Vincenzo Ferreri (Venezia, Santi Gio-
BARTOLOMEO BELLANO
attr.
I
l manufatto policromo in cartapesta
proviene dal mercato antiquario; nel
1937 fu acquistato dall’antiquario Monti di Fermo. Il riquadro centrale con la
scena figurata è racchiuso da una cornice architettonica. Alcune soluzioni nella
continuità delle fasce fanno ipotizzare un
montaggio della cornice realizzato con
piccoli moduli decorati già pronti da
comporre a piacere.
Dal punto di vista compositivo il rilievo
è costruito su un quadrato (scena figurata oltre alle lesene), al cui centro è incastonato un esagono (le spalle e le braccia
del Cristo e il bordo del sarcofago). La
testa dell’angelo centrale, in prospettiva,
è il punto culminante della piramide su
cui si dispongono i tre angioletti. I manufatti in cartapesta conoscono in epoca
rinascimentale una discreta fortuna sia
per l’allestimento di scenografie effimere
sia per economizzare e divulgare reiterazioni e varianti di modelli di sicuro successo sul piano estetico e commerciale
(GENTILINI, in Dal Trecento al Seicento
1991, pp. 43-44).
Il rilievo faentino trova perfetta consonanza con le opere del Bellano, collaboratore padovano di Donatello. La figura
del Salvatore è un puntuale richiamo al
35
vanni e Paolo, 1464-1468). Il volto dell’angelo centrale, fortemente scorciato è,
a mio parere, una intelligente traduzione
del sottinsù del «Cristo morto» di Mantegna (1456). All’interno del corpus di
opere simili ricordiamo quelle segnalate
da De Marchi a Parma (Galleria Nazionale), Malatolo (San Lorenzo), Berlino
(Bode-Museum, ex Kaiser Friedrich
Museum), Princeton (University Art
Museum), Verona (Sant’Anastasia, af-
fresco staccato dalla cappella Pellegrini)
e da Gentilini a Washington (National
Gallery) e a Padova (chiesa degli Eremitani).
L’attribuzione al Bellano è sostenuta da
un’indicazione verbale di Fiocco (CORBARA 1951 [1951-1957], n. 81; CASADEI 1991, p. 40). Chi scrive ha in precedenza rilevato tratti di forte congruenza a
livello scultoreo tra l’opera faentina e i
pannelli dei pulpiti realizzati da Bellano
per la chiesa di San Lorenzo a Firenze
(«Martirio di San Lorenzo» e «Discesa
di Cristo al Limbo»; PISTOCCHI, in La
forma del Rinascimento 2010, p. 228). Propongo in questa sede un’origine marchigiana del rilievo faentino. Si riscontrano
alcune congruenze stilistiche tra l’angelo
piangente faentino e quello di Carlo Crivelli nella pala di Montalto. L’intreccio
tra il braccio dell’angelo a sinistra e quello di Cristo è identico sia nel rilievo di
Berlino (DE MARCHI 2008, p. 85) sia
nell’esemplare in questione. Questo particolare - sconosciuto ad altri modelli di
Imago pietatis - passerà nel «Cristo morto
sorretto da due angeli» nel polittico di
Serrapetrona (Macerata, 1496; VASTANO, in I pittori del Rinascimento 2001, pp.
188-199). La profusione di materia pre-
ziosa all’interno del manufatto faentino oro e finto damasco - è un richiamo alla
produzione dei Crivelli e dei Vivarini secondo il gusto ereditato da Gentile da Fabriano.
Su un piano semantico l’opera di Bellano è prossima alla cultura ermetica tipica dell’Umanesimo. Le due colonne delimitano lo spazio dell’azione sacra.
L’evento è posto al di là di una porta
ideale, un «gradino» costituito dal sarcofago: un gradino al di là del quale esiste
il «sacro». L’oro del drappo assume il valore di a-temporalità e a-spazialità; siamo
quindi spettatori di un evento eterno e
universale a cui l’uomo può assistere senza accedervi. Il materiale con cui è realizzato il sepolcro è il porfido, pietra «imperiale» per eccellenza. L’interno candido
del sarcofago dove avviene l’«immersione» di Cristo simboleggia il rinnovato
battesimo purificatore. Il fianco della
tomba è scandito in due riquadri contornati d’oro, identici per misura; è l’unione tra il maschile e il femminile (così come avviene per le lesene laterali), che crea
e delimita il luogo dove avverrà il miracolo della risurrezione.
MICHELE ANDREA PISTOCCHI
36
BIBLIOGRAFIA: Moschetti 1909-1910, ed.
1992, vol. III, pp. 233-236; Corbara 1951-1957,
n. 81; Cessi 1965, vol. VII, pp. 589-591; Ghiotto 1969, pp. 87, 91; Draper, in Donatello e i Suoi
1986, pp. 257-258; Gentilini, in Dal Trecento al
Seicento 1991, pp. 43-44; Casadei 1991, p. 40;
Rosenauer 1993, pp. 146, 228, 236-237, 268269, 272-273; De Marchi 1996a, p. 72; De Marchi 1996b, p. 19; Tempestini 1997, pp. 88-93,
196-197; Petrucci, in Il potere, le arti 2001, pp.
332-333, 372-373; De Marchi 2008, pp. 84-85;
Gentilini 2008, p. 29 fig. 3, p. 32; Pistocchi, in
La forma del Rinascimento 2010, pp. 228-229;
Weyl, in Passion in Venice 2011, pp. 72-73.
FRANCESCO RAIBOLINI,
DETTO «IL FRANCIA»
(Bologna, 1447 circa - 1517)
Gesù Cristo in pietà fra due angeli
1494 (?)
Olio su tavola, 82,5 x 62 cm.
Bologna, Pinacoteca Nazionale, inv. 573.
L
a tavola ha subito un restauro nel
1967-1968 da parte di Rosalia Alliana Montroni, che ha rivelato l’originaria stesura. La pulitura ha infatti eliminato una ridipintura autografa databile intorno al 1511, quando la chiesa
subì ingenti danni a causa dei tumulti
della primavera contro i Bentivoglio (vedi Negro e Roio 1998, pp. 137-138). Il
rifacimento, di cui già si accorse Cavalcaselle (1871), è ancora visibile nelle figure della tavola principale, escluso il
gruppo della Madonna con il Bambino.
Il dipinto rappresenta Cristo morto seduto su un sarcofago classico sostenuto
da due angeli fanciulli su fondo scuro.
L’immagine riprende in una versione
più concentrata ed essenziale la splendida invenzione di Giovanni Bellini del
«Cristo morto con quattro angeli» di Rimini. Come questo capolavoro belliniano, l’opera di Francia invita a una meditazione intensa sul mistero del dolore per
la morte del Salvatore. In origine essa costituiva la cimasa della pala d’altare di
Bartolomeo Felicini in Santa Maria della Misericordia a Bologna, retta dagli
Eremitani di sant’Agostino. Il pannello
centrale era costituito dalla «Madonna
col Bambino in trono e i santi Agostino,
Francesco, Giovanni Battista, Procolo,
Sebastiano, Monica, il donatore e un an-
gelo suonatore», anch’essa oggi nella Pinacoteca Nazionale di Bologna (inv.
583), mentre la predella era formata dalle «Stigmate di san Francesco» (collezione privata), dalla «Natività» del Kelvingrove Museum di Glasgow (inv. 146) e
dal «Battesimo» del Museu Calouste
Gulbenkian di Lisbona (inv. 2358).
L’abbinamento dell’immagine del Cristo in forma pietatis nella cimasa con una
«Sacra Conversazione» nella tavola
principale deriva dalle pale d’altare di
Marco Zoppo (1471) e Giovanni Bellini (Pesaro, ante 1475 circa).
La pala in cui la tavola in esame fungeva da cimasa, detta anche «del Gioiello»
per il pendente con una perla appeso al
di sopra del capo della Vergine, fu voluta per la cappella fatta erigere nella chiesa della Misericordia subito dopo le nozze fra Dorotea Ringhieri e Bartolomeo
Felicini (1481). Rimase in situ fino al
1799, quando, in seguito alle soppressioni napoleoniche del 1797, venne acquisita dall’Accademia Clementina. Nel
1818 la predella fu venduta a Roma,
mentre la cimasa e l’immagine principale rimasero nella quadreria dell’Accademia di Belle Arti, antenata della Pinacoteca Nazionale.
L’attribuzione a Francesco Francia non
è mai stata messa in discussione grazie alla firma apposta dal pittore in un cartiglio
in basso nell’immagine principale: OPVS
FRANCIAE AURIFICIS. È stata invece oggetto di letture differenti la data in cifre romane dipinta al di sotto della firma, che
attualmente risulta: MCCCCLXXXXIIII.
Giorgio Vasari (1568), e dopo di lui tutti gli scrittori antichi, datava l’opera al
1490 e presentava la «Pala Felicini» come la prima importante prova in pittura
37
dell’artista, ma apparentemente senza
leggere l’iscrizione sul cartiglio. D’altra
parte, già Carlo Cesare Malvasia affermava di non sapere cosa vi fosse scritto
in passato sotto la firma dell’artista nei
suoi appunti preparatori per la Felsina
pittrice (Bologna, Biblioteca Comunale
dell’Archiginnasio, ms. B 16, c. 318). È
significativo rilevare che la data «1490»
era effettivamente letta nel XVI secolo sulla «Pala Manzuoli», anch’essa del Francia e conservata in Pinacoteca a Bologna
(inv. 589), posta nella cappella prospiciente la Felicini nella chiesa della Misericordia (cfr.: LAMO 1560, ed. 1996, p.
65; DELBIANCO 1995, pp. 253-257).
Più tardi, Jacopo Alessandro Calvi
(1812) riportava che la data della «Pala
Felicini» era stata abrasa con un coltello.
Ancora Bolognini Amorini (1841) non
dava attestazione dell’esistenza della data, che si trova invece nelle guide di Gaetano Giordani (1826, 1827, 1835) come
«1490». Cavalcaselle (CROWE e CAVALCASELLE 1871) leggeva la data come «1494». Questi faceva notare però
che le astine verticali del «IIII» dovevano essere state aggiunte in seguito, quindi accoglieva ancora la datazione del
Vasari. In realtà, probabilmente la data
era stata interamente riscritta. Poco dopo, Giulio Cantalamessa (1890) riferiva che le quattro astine erano originarie
ed erano state anzi coperte dall’allora direttore della Pinacoteca Gaetano Giordani per non contraddire il Vasari; tuttavia asportata la ridipintura posticcia
erano ricomparse. In effetti, in una copia
del libro di Calvi di sua proprietà (Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, ms. Giordani, cartone XV),
Giordani ha annotato a pagina 16 che la
data venne riscritta come «1490», seguendo il Vasari, ma, vedendosi le tracce di
quattro aste verticali, queste ultime erano
state coperte dipingendovi sopra un ornato di fiori e foglie. Anche Giuseppe
Lipparini (1913) e Adolfo Venturi
(1914) ritenevano la data integra e consideravano dunque preferibile leggere
«1494». Questa nuova opzione si è mantenuta per alcuni anni fino a che il restauro del 1967-1968 offrì ulteriori elementi
stilistici per la datazione. Anna Ottani
Cavina (1967), su suggerimento di
Maurice Poirier, pur non pronunciandosi sull’autenticità dell’iscrizione con la
data, al seguito di Vasari proponeva di
anticipare al 1490 la datazione della «Pala Felicini», in virtù dell’esame della cimasa. La Rossi Manaresi (1977) tornava a considerare la data «1494» falsa.
Anche Carlo Volpe (1984) sosteneva la
datazione vasariana, seguito più tardi da
Nicosetta Roio (NEGRO e ROIO 1998),
la quale ha giustificato la sua lettura sulla base di una possibile anticipazione rispetto alla pala della cappella Bentivoglio in San Giacomo Maggiore a Bologna, eseguita entro il 1494, quando fu
consacrata la cappella. La medesima
(Pinacoteca Nazionale 2004) ha inoltre
menzionato alcuni dipinti che preludono alla cimasa della «Pala Felicini», tra
cui la «Sacra Famiglia» di Berlino (Ge-
mäldegalerie, inv. 125), la piccola «Crocifissione» delle Collezioni Comunali di
Bologna, il «Santo Stefano» Borghese
(inv. 65) e il «Ritratto di Bartolomeo
Bianchini» della National Gallery di
Londra (inv. 2487).
Il «Cristo in pietà» di Bologna è mirabile esempio dei modi classici, quasi «attici» si potrebbe dire parafrasando Roberto Longhi (1934, ed. 1956, p. 58),
che Francia presenta tra gli anni ottanta
e novanta in parallelo alla contemporanea produzione fiorentina di Perugino e
Lorenzo di Credi, dei quali appare un
parente più prossimo di quanto non fosse debitore alla stessa cultura figurativa
bolognese, legata a Francesco del Cossa
ed Ercole dei Roberti. La riconsiderazione della vicenda relativa all’iscrizione con la data del dipinto spinge a guardare di nuovo con interesse l’eventualità che la pala fosse originariamente
datata «1494». D’altra parte la cimasa
mostra di essere vicina alla «Pala Bentivoglio» nell’espressività composta dei
personaggi e nella qualità tersa e cristallina del lume, così come una parentela è
riscontrabile anche tra le due aperture
paesistiche della pala di San Giacomo
con i paesaggi dipinti della predella Felicini.
GIANLUCA DEL MONACO
39
BIBLIOGRAFIA: Vasari 1568, ed. 1878-1885,
vol. III, p. 537, n. 537; Malvasia 1686, ed. 1969,
p. 319; Oretti, ms. B 110, c. 8; Oretti, ms. B 123,
c. 168; Malvasia 1782, p. 353; Malvasia 1792, p.
387; Calvi 1812, p. 15; Bassani 1816, p. 85;
Giordani 1826, p. 59, n. 83; Giordani 1827, p.
14; Giordani 1835, p. 70; Bolognini Amorini
1841, p. 47; Crowe e Cavalcaselle 1871, ed.
1912, vol. II, p. 275, n. 2; Cartwright 1881, p.
114; Cantalamessa 1890, pp. 36-37; Guadagnini 1899, p. 65; Williamson 1901, p. 149; Guadagnini 1906, p. 65; Lipparini 1913, p. 36 sgg;
Venturi 1914, pp. 880, 881, fig. 647, 884; Gronau 1916, p. 321; Piazzi 1925, p. 29; Malaguzzi Valeri 1928, p. 61; Berenson 1932, p. 206; La
regia Pinacoteca 1935, p. 51; Berenson 1936, p.
178; Rodriquez 1957, p. 44; Raule 1961, p. 38;
La Pinacoteca Nazionale 1967, p. 201, n. 104; Ottani Cavina 1967, p. 127; Berenson 1968, p.
146; La Pinacoteca Nazionale 1968, pp. 8-9, n. 7;
Rapporto 1968, pp. 8-10; Emiliani, in Malvasia
1686, ed. 1969, p. 319/10; La Pinacoteca Nazionale 1969, p. 160; Rossi Manaresi 1971, p. 45;
L’opera dell’Accademia 1971, pp. 45, 71, 117, 129,
164; Conti 1973, pp. 45-46, figg. 44-45; Bacchelli De Maria 1974, p. 134; Rossi Manaresi
1977, p. 342; La Pinacoteca Nazionale 1979, p. 84;
L’arredo sacro e profano 1979, pp. 395-427; Bacchi
1984, p. 323; Volpe 1984, p. 281, fig. 270; Stagni 1986, p. 7; Bernardini, in La Pinacoteca Nazionale 1987, p. 80, n. 116; Bernardini, in La Pinacoteca Nazionale 1997, n. 114; Cammarota
1997, pp. 151, 207, 636, 680; Negro e Roio
1998, pp. 134-135, 137-138, n. 8.a; Roio, in Pinacoteca Nazionale 2004, pp. 356-360, n. 156a;
Sampaio 2009, p. 32; Humfrey 2012, p. 69.
MATTEO DE’ PASTI
(Verona, 1420 circa - Rimini, 1467-1468)
D/ Cristo rivolto a sinistra
con manto e nimbo.
JESUS.CHRISTUS.DEUS.DEI.FILIUS.H
MANI.GENERIS.SALVATOR
R/ Cristo a mezzo busto nel sepolcro
davanti alla croce con due angeli uno dei
quali gli sorregge la testa, mentre l’altro piange levando le braccia.
MATTHAEI.PASTII.VERONENSIS.OPUS
Bronzo fuso, diametro 94 mm.
Collezione privata.
D
i questa rara medaglia Hill (1930,
vol. I, p. 39) elenca alcuni esemplari fra i quali ritiene originali soltanto
quelli di Berlino (diametro 93 mm), Bologna (93,5 mm), Dreyfus (93 mm),
Oppenheimer (94 mm). Questo presente in mostra è di qualità superiore all’esemplare Kress (HILL e POLLARD
1967, p. 16). Secondo Hill sarebbe da
inserire tra le opere giovanili di Matteo
de’ Pasti insieme alle medaglie di Guarino Veronese e Leon Battista Alberti e
pertanto databile fra il 1446 e il 1450. Per
A. Calabi e G. Cornaggia (1927, p. 24
n. 3) il diritto è incongruo rispetto alla figurazione del rovescio, giudizio inaccettabile e respinto anche da Hill (1920, p.
11). Il volto di Cristo di profilo è stato
messo a confronto con un disegno a penna del codice Vallardi (Parigi, Louvre,
inv. 2305) che M. Fossi Todorow
(1966, p. 153) descrive come «studio di
medaglia con l’effigie di Cristo di profilo verso destra e l’iscrizione “JESUS
CHRISTUS FILIUS DEI”» e che ritiene
giustamente «non di mano di Pisanello»
bensì «di un seguace imitatore del Pisa-
40
nello». Degenhart (1945, p. 44) invece
lo attribuisce a Pisanello «nel periodo napoletano», mentre Hill lo dice «presumibilmente» di Matteo de’ Pasti. Le analogie fra medaglia e disegno sono evidenti,
ma è verosimile che quest’ultimo derivi
dalla medaglia dato il carattere assai meno vibrato del volto. P. G. Pasini (1987,
pp. 152-154; 2009, pp. 92, 94) sposta la
datazione della medaglia al periodo tardo o estremo dell’attività di Matteo, fra il
1464 e il 1466, in concomitanza con il ritorno di Sigismondo Pandolfo Malatesta dalla guerra di Morea contro i turchi
e la volontà di Sigismondo Pandolfo di
riprendere i lavori del Tempio Malatestiano che si erano interrotti. Per Turchini (2000, p. 488) forse conseguente alle
vicende e al precipitare della situazione
politica negli anni 1461-1463 e in tal senso concepita dal Malatesta come «strumento di propaganda» data la legenda
«humani.generis.salvator.». Sul piano
dei riferimenti figurativi sono stati genericamente proposti i nomi di Piero della
Francesca, Desiderio da Settignano e ovviamente Donatello. Entrerebbe nel novero anche il «Cristo morto con quattro
angeli» di Giovanni Bellini, mentre i due
putti che piangono al rovescio ricorderebbero (PASINI 1987, pp. 143-159;
2009, pp. 92, 94) il codice delle Esperidi
di Basinio conservato a Oxford. A mio
avviso la rappresentazione che compare
sulla medaglia non è riconducibile a nessun esempio belliniano, mentre presenta
una stretta parentela con i «Putti che giocano» della seconda cappella a destra del
Tempio Malatestiano (TURCHINI 2000,
pp. 488-489), databili poco dopo il 1450
o al più tardi nel 1454. Sull’attribuzione
di questa decorazione mi sembra opportuno riprendere in mano quanto afferma
J. Pope-Hennessy (1964a, pp. 89-90,
328-329) anche alla luce della medaglia.
Una volta attenuate - come ritengo - le
supposte motivazioni politiche di Sigi-
smondo Pandolfo e per converso affermata una certa autonomia concettuale e religiosa, questa medaglia - visti i soggetti
al diritto e al rovescio - si stringe al «Cristo morto» riminese di Bellini per un legame essenzialmente culturale, ma significativo grazie a Matteo de’ Pasti impegnato nel Tempio Malatestiano. Pertanto
mi viene da avvicinarla cronologicamente proprio a quei «Putti che giocano»,
senza necessariamente ritardarla alla metà degli anni sessanta del Quattrocento.
La croce alla spalle di Cristo nel sepolcro, raffigurato a sinistra con un taglio essenziale e intensamente simbolico, è una
palese evocazione della deposizione del
Signore.
MARCO BONA CASTELLOTTI
«Putti». Rimini, Tempio Malatestiano,
seconda cappella destra.
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La casa editrice è a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non identificate
e si scusa per eventuali inesattezze e omissioni.
© 2012 UMBERTO ALLEMANDI & C. SPA, TORINO
FINITO DI STAMPARE IN TORINO NEL MESE DI LUGLIO 2012
PER I TIPI DELLA SOCIETÀ EDITRICE UMBERTO ALLEMANDI & C.
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