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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Repubblica
l’inchiesta
Tutto il mondo nel nostro computer
FEDERICO RAMPINI e MAURIZIO RICCI
il racconto
La magia perduta dei velodromi
LEONARDO COEN e MARIO FOSSATI
Il tesoro
segreto
del dittatore
Milioni di dollari nascosti
all’estero, l’ombra
del narcotraffico:
dopo essersi salvato
da tre processi,
Augusto Pinochet
FOTO REUTERS
rischia di venire
condannato
per furto
ed evasione
OMERO CIAI
C
LUIS SEPÚLVEDA
SANTIAGO DEL CILE
heil generale fosse avido si sapeva. Il giorno dopo il Golpe, nel ‘73, si regalò uno stipendio dieci volte superiore
a quello che percepiva l’anno prima: da 447 mila escudos a cinque milioni e mezzo. L’anno successivo, più
modestamente, lo raddoppiò: undici milioni. Che il generale fosse
avaro si sospettava. Nel corso dei cinquecentotré giorni che fu costretto a trascorrere a Londra, dal mandato di cattura internazionale
del giudice spagnolo Baltazar Garzón, riuscì ad organizzare una colletta per le spese mentre affondava le mani nei fondi riservati dell’esercito cileno che, alla fine, avrebbe pagato sia gli avvocati che l’affitto della villa a Virginia Waters, camerieri compresi. Ma che avesse accumulato una fortuna — fra i 100 e i 150 milioni di dollari — e l’avesse
nascosta all’estero è una sceneggiatura piuttosto indigesta perfino
per una destra dura e pura come quella cilena. Pinochet che occulta il
patrimonio alle tasse e si fa beccare con una truffa al fisco da venti milioni di dollari rischia, dopo essersi salvato grazie agli esami medici da
tre processi per la scomparsa di migliaia di oppositori politici, di finire condannato come un evasore fiscale qualsiasi. Come Al Capone.
(segue nella pagina successiva)
Q
uando Pinochet era detenuto a Londra su ordine
del giudice spagnolo Baltasar Garzón, e in tutte
le capitali finanziarie del mondo arrivava un’ordinanza dello stesso giudice perché congelassero in via cautelare tutti i suoi beni finché non fosse stata appurata la legalità della loro origine,
dalla sua casa-prigione londinese il vecchio satrapo iniziò a
praticare un’inusitata ginnastica bancaria. Con una lucidità
strana per un uomo affetto da «demenza vascolare lieve», trasferì fondi da una banca all’altra, cedette la proprietà di un
lussuoso appartamento nella località balneare di Viña del
Mar a uno dei suoi nipoti, e realizzò dozzine di operazioni che
sicuramente devono aver spaventato i suoi complici statunitensi della Riggs Bank.
Dirigenti e consiglieri di amministrazione della Riggs Bank
sono stati apertamente complici di Pinochet, e per dimostrarlo è sufficiente citare una delle conclusioni a cui è arrivata la commissione di inchiesta del Senato Usa riguardo agli
illeciti commessi dalla succitata banca e ai suoi rapporti con
il dittatore cileno.
(segue nella pagina successiva)
i luoghi
Marcheshire, le colline sottovoce
EMANUELA AUDISIO
cultura
La storia dimenticata degli émigrés russi
SANDRO VIOLA
spettacoli
La rivoluzione di Spielberg&Lucas
SILVIA BIZIO e ANTONIO MONDA
l’incontro
Menotti: “Odio il mio Festival”
LEONETTA BENTIVOGLIO
22 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
la copertina
Scampato a tre processi per i crimini commessi quando
era al potere, il Generale rischia ora di venire condannato
per i soldi rubati allo Stato e, come Al Capone, per evasione
fiscale. Gli investigatori cercano una fortuna accumulata con
ogni mezzo, che ha permesso a lui e a suoi familiari di mettere
in piedi un impero economico. Con l’ombra del narcotraffico
Transizione cilena
Dollari e cocaina, il “cartello” del
OMERO CIAI
(segue dalla copertina)
I
l giudice che indaga, Sergio
Muñoz, ha già ottenuto la revoca
dell’immunità di cui gode come ex
presidente e lo incriminerà nei
prossimi giorni. Eppure, pensano
oggi molti tra i suoi fan delusi, non
s’era fatto mancare proprio niente. In diciassette anni di dittatura, ed in altri otto
come capo dell’esercito, era riuscito a
comprarsi tre case principesche. La villa
in montagna, il Melocoton, al Cajon del
Maipo, sulle Ande; quella in città, in calle
Los Flamencos, a La Dehesa, con tre ettari di giardino, un sistema di sicurezza a
prova di attacco aereo e tunnel d’uscita
segreto; e quella al mare, los Boldos, cinquanta ettari, a Bucalemu, con una sala
per il cinema, la palestra e perfino una
cappella. E poi trenta agenti di scorta,
auto costose, jeep, fuoristrada, una biblioteca
con diecimila volumi,
terreni, mobili d’antiquariato. Scorrendo le
sue denunce dei redditi
si può avere facilmente
l’idea di un capofamiglia in pensione più che
benestante senza alcun
problema finanziario
presente né futuro.
Neppure figli, cognati e
nipoti possono lamentarsi. A parte Augusto jr.
sempre alla prese con
qualche truffa, il resto del clan è florido.
Possiedono un piccolo impero economico, costruito senza scrupoli nei lunghi
anni del potere assoluto, con una cinquantina di aziende che vanno dal legname alla chimica, dall’immobiliare
alle assicurazioni.
Così anche alla Fondazione, il bunker
degli irriducibili nella zona nord di Santiago, con la grande sala dov’è esposto il
suo ritratto a figura intera, c’è sconcerto. Monica Wehrhanh, l’ex portavoce,
ricorda i giorni più duri della mobilitazione a favore di Pinochet quand’era
agli arresti domiciliari a Londra, e dice:
«Io l’amavo Pinochet ma non so cosa farei se me lo trovassi davanti adesso. Se
avessi saputo di questo tesoro allora…».
Si sente tradita Monica, presa in giro,
mentre ricorda le telefonate disperate,
la gente in lacrime e lei che vendeva foto
e distintivi per pagare al generale in difficoltà i migliori avvocati d’Inghilterra.
L’improvvisa scoperta, a marzo, dei
conti segreti grazie alle indagini della
Commissione del Senato americano ha
provocato un terremoto in Cile. Sotto
torchio, per ora, è finita soltanto il sergente Monica Ananias, per trent’anni se-
gretaria particolare dell’ex dittatore,
messa in carcere dal giudice Muñoz con
l’accusa di complicità. Ma rischiano tutti. In particolare rischia Marco Antonio
Pinochet, il secondo maschio della coppia, indicato dalla Commissione Usa come colui che ha assunto la gestione della
fortuna segreta negli ultimi anni. Per un
quarto di secolo Pinochet ha avuto 125
conti correnti nelle banche americane.
Trenta soltanto nel Riggs Bank. Gli altri
nelle filiali del Citigroup a Washington e
a Miami, nel Banco Atlantico e nel Santander Central Hispano. Più numerosi
fondi di investimento nel Coutts&Co.
Tutti i conti vennero aperti con passaporti falsi utilizzando ben dieci identità
diverse: da José Ugarte a Daniel Lopez.
Per Joe Allbritton, l’ex proprietario del
Riggs, Pinochet era uno dei quattro o cinque clienti più importanti. Lui e sua moglie Barbara venivano invitati con una
certa frequenza in Cile per discutere gli
investimenti e, come
dimostra un singolare
carteggio sequestrato
dai giudici, si scambiavano auguri e opinioni
di carattere generale.
Allbritton ammirava
Pinochet e lui lo ricambiava donandogli in
anteprima i suoi noiosissimi volumi di memorie. Curiosamente
Pinochet è rimasto incastrato in un 11 settembre. Non nel suo
ma in quello di New
York. Senza il Patriot Act e le nuove regole antiterrorismo che impongono alle
banche americane di indagare la provenienza dei soldi dei loro clienti, la consuetudine dei corrotti d’America Latina
— narcotrafficanti compresi — di nascondere i tesori negli States non sarebbe stata scoperta e del denaro occultato
da Pinochet non avremmo saputo nulla.
Il “sacco” fa infuriare
anche i suoi sostenitori
che si sentono traditi:
“Io l’ho venerato,
ma non so cosa farei se
lo incontrassi ora”
I conti all’estero
Tutti i conti negli Stati Uniti sono stati cancellati tra il 1998 e il 2000 nei nervosissimi
giorni di Londra. Ma ormai il giudice Sergio Muñoz non è molto lontano dall’individuare la fine che hanno fatto quei soldi.
In questi giorni le rogatorie internazionali stanno dando i loro frutti e nuovi conti di
Pinochet spuntano un po’ dappertutto: in
Argentina, in Spagna, nelle Isole Vergini
britanniche, in Gran Bretagna, alle Bahamas e in Svizzera con una stima approssimativa che supera già i 50 milioni di dollari. Ma il sospetto è che ci sia molto di più tra
investimenti nelle società di comodo offshore e lingotti d’oro in qualche caveau di
banche svizzere. Il primo ad avere l’intuizione sull’esistenza del “tesoro” fu proprio Garzón, che poco dopo l’arresto a
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 23
LA DITTATURA
Il 4 settembre 1970 Salvador Allende vince le elezioni con il
36,6 % dei voti battendo una destra divisa tra due
candidati (Alessandri 34,9 e Tomic 27,8). Tre anni dopo il
capo delle Forze armate, Augusto Pinochet, guida un
golpe che costerà la vita a più di 3000 persone. La dittatura
dura 17 anni. Il 30 agosto 1988 Pinochet perde il plebiscito
(55.2% no; 42% sì) e lascia il potere il 10 marzo 1990
In nome della giustizia
sequestrate quel bottino
LUIS SEPÚLVEDA
(segue dalla copertina)
«L
FOTO AP
SOTTO ACCUSA
CONTI SEGRETI
FOTO ASSOCIATED PRESS
La Corte suprema ha
revocato lo scorso 7 giugno
l’immunità di cui Pinochet
gode come ex presidente
nell’inchiesta sui conti
correnti trovati nella Banca
americana Riggs. Pinochet è
accusato di frode,
arricchimento illecito ed
evasione fiscale
OPERAZIONE CONDOR
la cosiddetta “destra economica” e del
“circolo di ferro” del regime, ex ministri o
ex collaboratori della dittatura, come
Hernan Büchi Buc o Carlos Caceres.
Il giudice ha ottenuto la
revoca dell’immunità:
tra pochi giorni
il tribunale
dovrebbe procedere
con l’incriminazione
CAROVANA DELLA MORTE
Anche in questo caso
Pinochet venne incriminato e
perse l’immunità su
decisione della Corte
suprema che però poi ha
sospeso il processo sulla
base dei referti medici
secondo i quali l’ex dittatore
soffrirebbe di una lieve forma
di “demenza”
FOTO AP
Droga e tortura
L’altra ipotesi gira intorno alla cocaina.
Nel corso degli anni, numerose testimonianze e alcune morti sospette — come
quella del chimico cileno Eugenio Berrios
— hanno messo in relazione la polizia segreta della dittatura, la Dina, con il narcotraffico. Una pista approfondita nel libroinchiesta di Rodrigo de Castro e Juan Gasparini, La delgada linea blanca.Il traffico
di droga sarebbe stato, insieme al saccheggio dei fondi riservati dello Stato, la
forma attraverso la quale venivano finanziati non soltanto i centri di detenzione e tortura degli oppositori politici
come la Colonia Dignidad, la fazenda
degli ex nazi tedeschi in Patagonia, ma
soprattutto i grandi omicidi compiuti su
mandato del dittatore
cileno. L’assassinio del
generale Prats, a Buenos Aires, nel ‘74; o
quello dell’ex ministro
di Allende, Letelier, a
New York nel 1976, realizzato — sarà un caso?
— con la complicità dei
narcos cubani di Miami; o quelli, tantissimi,
di militanti socialisti e
comunisti rifugiatisi all’estero. Così, si sospetta, una parte dei dollari
nascosti nei conti deriverebbe dal riciclaggio di denaro sporco.
Quando nell’ottobre dell’88 perse il referendum che gli avrebbe permesso di
restare al potere per altri otto anni, Pinochet ottenne comunque un 42% di “sì”.
Era l’altro Cile che lo acclamava come un
salvatore, una guida e un padre. Alla vigilia dei novant’anni, li compirà il prossimo 25 novembre, non rischia certo di finire in carcere. Ma l’emergere della sua
fortuna di rapinatore lo condannerà a
passare alla Storia, anche per i fascisti locali, come un truffatore. Così oggi le buone notizie sono due: il Parlamento ha appena approvato una riforma costituzionale che cancella molti dei lacci dittatoriali che Pinochet aveva imposto lasciando il potere. Ripristina l’autorità del presidente di fronte alle Forze armate
perché gli restituisce la possibilità di revocare i comandanti in capo e, nella sostanza, cancella il Consiglio supremo, un
organo civico-militare che aveva poteri
operativi in caso di emergenza nazionale. L’altra buona notizia riguarda i funerali di Stato cui aveva diritto e pretendeva come ex presidente indagato ma non
processato. Sono sospesi. Anzi sono soppressi, per sempre.
CASO PRATS
La giustizia argentina ha
chiesto l’estradizione di
Pinochet per processarlo nel
caso dell’omicidio dell’ex
capo delle Forze armate
cilene, Carlos Prats. Prats
venne ucciso insieme a sua
moglie a Buenos Aires nel
1974 mentre si trovava in
esilio dopo il golpe militare
che aveva condannato
FOTO ANSA
Londra, il 16 ottobre del 1998, emise un ordine di embargo internazionale dei beni
dell’ex dittatore. Pinochet infatti venne
fermato da Scotland Yard nella London
Clinic—avevaapprofittatodelviaggioper
operarsi un’ernia del disco — ma si trovava in Inghilterra con un passaporto diplomatico su invito della Royal Ordnance,
una fabbrica d’armi con sede a Enfield, vicino Londra. Doveva concludere l’acquisto di tre navi da guerra per la Marina cilena. Un affare da 450 milioni di dollari, dal
quale avrebbe ricevuto come bonus un
assegno di 4 milioni per il disturbo. Era
una pratica consueta. Tanto che essere a
Londra per Pinochet era com’essere a casa. Per l’amicizia con Margareth Thatcher
e le buone relazioni con l’esercito inglese.
Tra il ‘90, quando lascia il potere assoluto,
e il ‘98, quando viene acciuffato momentaneamente da Garzón, era andato ogni
anno almeno una volta in Gran Bretagna.
Spesso invitato. Sempre per consulenze e
acquisto di armi per le
Forze armate. Lui prendeva l’uno per cento del
totale e lo girava nei conti all’estero. Perché? Jacqueline, la figlia più piccola e anche la preferita
dell’ex dittatore, ha una
spiegazione che potrebbe anche non essere
troppo lontana dalla verità.«L’hafattopernoi—
dice — . Papà sapeva che
saremmo stati perseguitati per il nostro cognome e ha messo via i
suoi risparmi per i figli e per i nipoti». Altre
fonti vicine al clan raccontano che il vecchio generale negli anni ‘90 avrebbe più
volte accarezzato l’idea di lasciare il Cile e
trasferirsi con tutta la famiglia in un altro
continente. Magari proprio in Gran Bretagna. Nel suo paese cominciava ad avere
paura,sisentivaassediatoetemevalapossibilità che s’aprissero processi penali
contro di lui per le vittime della dittatura.
Così accumulava. Ma cosa accumulava?
Gli investigatori che si sono concentrati sulla costruzione del tesoro pensano
alle privatizzazioni della fine degli anni
‘80. Prima di lasciare il potere, Pinochet
realizzò quello che in Cile è passato alla
storia come “il grande saccheggio dei beni pubblici”. In meno di cinque anni, tra
l’85 e l’89, il regime privatizzò l’elettricità,
l’acqua, il gas, le assicurazioni, i telefoni,
le banche e numerose altre aziende di
Stato. Fu un processo rapido, occulto e
senza regola alcuna. Tanto che, per
esempio, uno dei maggiori beneficiari
dell’epoca risultò essere suo cognato, il
marito di Veronica, Julio Ponce Lerou. Gli
altri, oltre alla sua primogenita, Lucia,
che s’accaparrò un pezzo delle assicurazioni di Stato, furono tutti gli uomini del-
FOTO ASSOCIATED PRESS
boss Pinochet
Era il piano di
coordinamento tra le
dittature latino americane
negli anni Settanta. Istruito
da Guzman il processo è
stato sospeso dalla Corte
Suprema che ha dato
ragione alla difesa di
Pinochet secondo la quale
non sarebbe processabile
per ragioni di salute
OPERAZIONE COLOMBO
E’ l’unico processo ancora
aperto insieme a quello sulla
frode fiscale. Si tratta del
massacro compiuto dalla
polizia segreta di 119
oppositori. Contreras, ex
capo della polizia e braccio
destro di Pinochet, ha
testimoniato che fece
uccidere gli oppositori su
ordine dell’ex dittatore
a Riggs Bank — si legge nel documento — ha aperto, con la conoscenza e il supporto della direzione
dell’istituto, numerosi conti correnti al signor Pinochet, ha accettato milioni di dollari di suoi depositi senza effettuare alcuna seria indagine sull’origine di quelle ricchezze, ha creato società finanziarie offshore, ha aperto
conti correnti a diverse di queste società, per mascherare il
fatto che i fondi depositati in quei conti erano proprietà del
signor Pinochet, e ha alterato i numeri dei suoi conti personali per mascherarne ulteriormente la proprietà».
I ladri sanno che il denaro rubato deve essere trattato
con delicatezza. I soldi rubati allo Stato o guadagnati illecitamente con l’estorsione spesso assomigliano a un placido stagno. Niente e nessuno deve smuovere quelle acque più del necessario, ma Pinochet, «questo farabutto di
limitato acume», come efficacemente lo definì il generale
Carlos Prats (assassinato su ordine di Pinochet in Argentina), è un soggetto che ha creato la sua onnipotenza nella totale impunità. Dalla sua lussuosa prigione londinese
movimentò milioni di dollari, e quello fu l’inizio della sua
definitiva caduta.
Il Cile vive una stranissima transizione alla democrazia,
che teoricamente è iniziata nel 1990 e nessuno sa quando né
come si concluderà. I dirigenti della Concertazione per la
democrazia, coalizione composta da democristiani, radicali e socialisti post-Allende, che governa il Paese da quello
stesso anno, ha trattato con la dittatura il ritorno a una normalità democratica vigilata da Pinochet, e molte altre cose
che noi cileni ignoriamo. Conosciamo alcune delle imposizioni della dittatura: il modello economico che sono riusciti a imporre con sangue e terrore non doveva essere toccato; la Costituzione fatta dal dittatore per garantire l’egemonia delle Forze armate sulla società civile non doveva essere riformata (e in effetti solo tre giorni fa il Senato ha approvato la sua modifica); la sinistra avrebbe dovuto essere tenuta ai margini della partecipazione politica, e qualsiasi
dissidenza dal modello economico liberista avrebbe continuato a essere messa all’indice, perché la nuova democrazia cilena era questo, un prodotto della nuova situazione di
mercato. Tutta la vita sociale, culturale e politica, doveva essere funzionale al modello economico.
Ma furono negoziate anche impunità, le vittime delle violazioni dei diritti umani diventarono «agenti che non comprendevano il modello cileno», e i militari, i criminali, quelli che schiacciarono la tradizione democratica cilena, Pinochet primo fra tutti, erano decisamente intoccabili.
Noi cileni sappiamo che se non fosse stato per gli sforzi
del giudice Garzón, delle vittime che non hanno mai smesso di insistere perché fossero puniti i colpevoli delle sparizioni di persone, degli omicidi e delle torture, Pinochet
avrebbe continuato a tenere sotto tutela la strana democrazia cilena. Era presente come comandante in capo dell’esercito, come senatore designato a vita, come ex presidente autonominato, e per rendere più forte la sua presenza si autodesignò, nella sua ultima dimostrazione di potere, «Capitano generale benemerito».
Una volta, durante i sedici anni di terrore, un giornalista
chiese alla madre di Pinochet se si sentiva orgogliosa di lui.
La cara madre rispose: «Se avessi saputo che era così intelligente, non gli avrei lasciato fare il militare». A Pinochet è
stata fatale l’avarizia e, soprattutto, la sua gigantesca stupidità. Senza dare ascolto ai suoi consiglieri — alcuni sono
sotto processo e altri lo hanno rinnegato — l’ex dittatore
cercò di mettere al sicuro quei milioni di dollari frutto della rapina, del furto, della truffa.
Uno dei suoi stessi consiglieri racconta che, quando si incaricò di aprire il primo conto fraudolento presso la Riggs
Bank, negli Stati Uniti, all’impiegato di banca che per pura
formalità gli chiese il suo nome, rispose: «Il mio nome è López, Daniel López», in una triste parodia della famosa frase
di Sean Connery, «My name is Bond, James Bond».
L’inchiesta avviata dal Senato americano ci ha condotti
a scoprire i suoi conti milionari e fraudolenti, inizialmente 16, poi 25 e successivamente 29. Abbiamo appreso anche della complicità di altre banche: il Banco Atlántico, oggi Banco Sabadell, la Bank of America, la Coutts & Co. International, che oggi fa parte del Banco de Santander, la
Ocean Bank, di Miami, la Pine Bank N. A., di Miami, la filiale del Banco Espíritu Santo della Florida, la filiale statunitense del Banco de Chile negli Stati Uniti, la City Group,
tutti coinvolti nel traffico di fondi neri tra il Cile, le Bahamas, Gibilterra e gli Stati Uniti.
Oggi si parla di 18 milioni di dollari identificati, ma le proprietà di Pinochet ripartite tra i suoi familiari superano i
cento milioni di dollari, e il grande interrogativo è: da dove
ha preso tutto questo denaro? Qual è l’origine di una fortuna di tali dimensioni?
Nel 1994, proprio quando Pinochet lasciava il servizio attivo nell’esercito e si trasformava nell’ombra tutelare della
strana democrazia cilena, un dirigente della Riggs Bank si
recò in Cile e convinse l’esercito cileno ad aprire dei conti
presso questa stessa banca. Molti ufficiali sono stati premiati da questa gestione, e tanti, troppi ufficiali con le mani
macchiate di sangue hanno depositato i frutti della rapina,
del bottino di guerra ottenuto in sedici anni di terrore.
Quanti cileni hanno perso l’automobile perché erano stati messi in carcere? Quanti cileni hanno perso le loro case, o
hanno dovuto “venderle” per quattro soldi pur di salvare la
vita a un figlio? Quante cilene hanno consegnato i loro
gioielli per sapere «dove sta mio marito, mio figlio, mio padre», a ufficiali che raccontavano fandonie e chiedevano
sempre di più per conservare la speranza?
L’origine della fortuna di Pinochet sta nel furto. Qualsiasi contabile è in grado di dimostrare che tra quello che ha
guadagnato e quello che ha comprato, i conti non tornano.
Pochissimi cileni credono che Pinochet sarà giudicato per i
suoi crimini, e forse neanche per i suoi furti. Quando era detenuto a Londra, e con reali possibilità di venire estradato in
Spagna, il governo “democratico” lo considerò un affare di
Stato e si diede da fare per evitare l’estradizione. Perfino alcuni scrittori si avventurarono fino a dire che se Pinochet
fosse stato estradato in Spagna, la democrazia cilena sarebbe stata in pericolo. L’allora ministro degli Esteri, José Miguel Insulza, ora segretario dell’Osa (Organizzazione degli
Stati americani), la prese come sfida personale, e in nome
della sovranità cilena fece tutto il possibile per evitare che il
tiranno fosse processato.
E tuttavia, noi cileni crediamo nella giustizia, e proprio
perché crediamo nella giustizia chiediamo un segnale di fiducia, l’unico possibile: il sequestro immediato di tutti i
conti e di tutti i beni del clan Pinochet.
Se non avverrà subito, allora, nei prossimi giorni, con tristezza, ci toccherà dare ragione ai versi di don Francisco de
Quevedo: «Poderoso caballero es don dinero».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’inchiesta
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Cambio d’epoca
Dopo esserci spaventati per le magliette cinesi e indiane,
ci è bastato smontare il pc portatile per capire che quella
è solo la retroguardia dell’invasione. L’avanguardia
è in mezzo a noi ed è scritta nell’elenco dei paesi che
fabbricano i vari pezzi: Corea, Malaysia, Taiwan, Messico,
Singapore. Una lista che racconta la nuova globalizzazione
Il mondo nel nostro computer
MAURIZIO RICCI
I
mmaginiamolo come uno scrigno che, aperto, ci rivela la verità
che avevamo già sotto gli occhi,
ma facevamo fatica a vedere. Il
suo interno è un portolano del
mondo moderno, il mondo della
globalizzazione: un pizzico (solo un
pizzico) di America, una traccia di Germania, un po’ di Giappone, un po’ di
America latina, soprattutto tanta Asia.
Questo scrigno è il mio computer: se
potesse ridere, mi avrebbe seppellito
dalle risate, poche settimane fa, quando mezza Europa si è levata in piedi per
fermare l’invasione dei reggiseni cinesi e delle magliette indiane. Il mio computer può raccontare la storia vera. Se
avete paura del reggiseno cinese, tenetevi forte. Quella che sta arrivando ora
è la parte innocua, la retroguardia. L’avanguardia è già in mezzo a noi: sta
dentro il computer su cui sto scrivendo.
Il mio computer è un Dell. Come quello di Thomas Friedman, il columnist
del New York Times che, nel suo ultimo
libro, uscito da qualche settimana negli Stati Uniti (The World is Flat) lo
smonta e cataloga tutte le parti. Tutto
insieme, il computer arriva da Penang,
in Malaysia, dove l’hanno assemblato,
ma questa è solo la fine della storia. Prima, è la torre di Babele. Il design è stato
realizzato un po’ in Texas, un po’ a
Taiwan. Il microprocessore è Intel, brevetto americano, ma è stato fabbricato
in Costarica. Oppure (la Dell ha più di
un fornitore) nelle Filippine o in Malaysia. La memoria viene dalla Corea o
dalla Germania. La carta grafica dalla
Cina. Il ventilatore è stato costruito a
Taiwan. Idem la scheda madre. La tastiera in Cina. Lo schermo in Corea. La
carta wireless in Malaysia. Il modem
viene dalla Cina o da Taiwan. La batteria l’hanno fatta in Messico. L’hard disk a Singapore. Il lettore cd/dvd in Indonesia. Il trasformatore in Thailandia. La pennetta, come in Italia chiamiamo il memory stick rimuovibile,
viene da Israele. Il filo elettrico l’hanno
fabbricato in India. La borsa per trasportare il tutto arriva dalla Cina.
La sinfonia della produzione
Di fronte ad un prodotto che arriva sul
suo e sul mio tavolo dall’altro capo del
mondo, grazie a componenti che, a loro volta, vengono da tutti i punti cardinali, a migliaia di chilometri di distanza, Friedman paragona questa catena
di assemblaggio ad una sinfonia, in cui
ognuno suona, con precisione da metronomo, lo spartito che gli è stato
chiesto. Volendo, è l’immagine di una Onu in versione
industriale, in cui tutto il
mondo armoniosamente coopera per far arrivare il computer sulla scrivania del consumatore,
nel minor tempo e al minor
prezzo possibile. È una cartolina vera e falsa al tempo
stesso. Perché non dà conto di
una realtà in drammatico e vertiginoso movimento. Ancora nel
1999, quando lo stesso Friedman
con un altro libro (Le radici della globalizzazione) illustrava ai non addetti
ai lavori il fenomeno nascente della
globalizzazione, l’integrazione planetaria delle economie sembrava un processo a senso unico, colorato a stelle e
strisce, con il mondo che guardava tutto insieme Baywatch, mangiava gli
hamburger McDonald’s, digitava i programmi di Silicon Valley. Oggi, nel breve respiro di poco più di cinque anni, gli
esperti — a cominciare dalla Cia — già
intravedono un mondo che, tutto insieme, guarda i film di Bollywood o i
cartoni manga e digita i programmi di
Bangalore. In mezzo, lo sconvolgimento è già avvenuto: l’idea di una divisione internazionale del lavoro con la
mente in Occidente, che crea e disegna
nuovi prodotti, e un braccio in Oriente
che salda i circuiti integrati e imballa i
risultati per la spedizione, è stata spazzata via. Lo scrigno già ce lo può dire. Se
scaviamo e arriviamo fino al suo cervello, il software, troviamo i programmi Microsoft. Presto — l’accordo è di
qualche mese fa — la loro architettura
sarà disegnata non a Seattle, ma in India, dalla Infosys e dalla Satyam. Anche
ora, il catalogo di Friedman ci rivela
quanto gli ex operai della globalizzazione stiano risalendo la scala del valore aggiunto, fornendo, chiavi in mano,
componenti sofisticati come hard disk,
carta wireless, scheda madre.
Del resto, se il computer fosse sempre un Dell, ma un altro modello, non ci
sarebbe neanche bisogno di aprirlo,
quello scrigno. Basterebbe guardare
sotto l’etichetta. Scopriremmo che l’intero prodotto è stato disegnato, sviluppato, assemblato, lucidato e imballato
dalla Qanta Computer di Taipei, che ha
solo avuto lo scrupolo di appiccicare
l’etichetta Dell. Con qualche lieve modifica, ne avrebbe appiccicata un’altra.
La Qanta, nel 2004, ha prodotto 16 milioni di computer portatili, in 50 diversi
modelli, con i marchi Dell, Apple Computer, Sony. Le aziende, soprattutto
quelle che più tengono alla loro immagine high-tech, come Nokia o Nikon, si
rivelano piuttosto schive, quando si
tratta di smontare i loro prodotti. Ma
l’onda investe tutto l’universo dell’elettronica: computer, telefonini, tv ad alta
definizione, lettori Mp3, macchine fotografiche, palmari. Qanta non è l’unico nome da ricordare. Memorizzate anche questi: Htc (telefonini multimediali, Taiwan), Flextronics (cellulari, Singapore), Compal (computer, Taiwan),
Premier Imaging (fotocamere digitali,
Taiwan). Ci sono loro dietro una serie
infinita di prodotti targati, fra gli altri,
Dell, Apple, Sony, Motorola, Philips,
Hp, Xerox, Ericsson, Alcatel, Siemens,
Casio, Vodafone. Secondo gli esperti
del settore, il 65 per cento dei computer
in commercio, il 20 per cento dei telefonini (multimediali compresi), il 30 per
cento delle macchine fotografiche, il 65
per cento dei lettori Mp3, il 70 per cento
dei palmari sono fatti integralmente,
dal design alla confezione, a Taiwan e
nel resto dell’Asia orientale. Non è un
lavoro su commessa, è un prodotto su
commessa. «Quello che è cambiato —
ha dichiarato candidamente a Business
week il presidente di Qanta, Barry Lam
— è che sempre più clienti hanno bisogno di noi per disegnare l’intero prodotto. Anzi è sempre più difficile avere
buone idee dai clienti. Dobbiamo pensarci noi ad innovare».
Lam, riconoscono i suoi stessi colleghi di altre aziende, non va preso alla
lettera. Dietro questo epocale trasferimento di capacità produttive c’è il fat-
Per Thomas
Friedman questa
varietà è come
una sorta di Onu
in versione industriale,
un esempio di come
tutti i paesi lavorino
in armonia
come una grande
orchestra.
È un’analisi vera
e falsa. La realtà
è che i rapporti
di forza tecnologici
stanno mutando
rapidamente
to che l’innovazione cruciale, in elettronica, si va sempre più concentrando
nel suo elemento base, il chip, su cui regnano incontrastati i giganti americani
come Intel e Texas Instruments. Ma,
dal punto di vista economico, lo smottamento resta enorme: lo spazio della
mente occidentale si restringe sempre
più, a favore di un braccio sempre più
autonomo e intelligente. È come se la
bomba atomica fosse stata ideata da
Oppenheimer, Fermi e Bohr in un ufficietto di Los Alamos, mentre gli altri 2
mila scienziati che l’hanno realizzata
erano sparsi fra Bangalore e Taipei.
Senza i primi tre, magari, la bomba non
si faceva, ma, in termini di numeri, i posti di lavoro ad altissima qualificazione
stavano al di là del Pacifico. Chi pensa
che i giovani occidentali possano guardare serenamente ad un futuro in cui si
troveranno, senza scosse, a patto che
studino, in un lavoro di alta qualificazione e alta realizzazione a loro riservato, può ricredersi anche subito: ci sono più ingegneri informatici a Bangalore (150 mila) che nella Silicon Valley
(130 mila). Del resto, anche la rendita culturale al top della ricerca non è garantita: la svolta
nella clonazione terapeutica c’è stata in
L’HARD DISK
I dispositivi magnetici
di memorizzazione
dei dati
vengono progettati
e realizzati
a Singapore
IL MICROPROCESSORE
La Cpu del computer
è progettata
negli Stati Uniti
dalla Intel,
ma è prodotta
in Costa Rica
L’ASSEMBLAGGIO
I pezzi, prodotti in tutto
il mondo, vengono
infine assemblati
nel computer
dai tecnici
della Malaysia
Le immagini in questa
pagina (usate a scopo
puramente illustrativo),
sono tratte dal volume
“Ibm design from Japan”,
edito da Amus Arts Press
Corea. In testa alla corsa al biochip, in
questo momento, c’è CapitalBio, sede
appena fuori Pechino. Anche un altro
elemento che ridimensiona le parole
di Lam non è garantito: la massa dei
computer, delle macchine fotografiche, dei palmari che arrivano da
Taiwan e da Singapore sono, appunto,
prodotti di massa, la fascia bassa dei
gadget dell’elettronica. La Apple si tiene ben stretto design e controllo del
suo iPod, come la Motorola del suo ultimo cellulare, il Razr. Ma è navigare
sulle sabbie mobili: lo ha scoperto la
stessa Motorola che, dopo aver fatto
per anni disegnare e produrre i suoi
cellulari dalla BenQ, adesso si ritrova
l’azienda di Taiwan come marchio in
proprio, rivale sul mercato americano.
L’annuncio, insomma, pochi mesi
fa, che la sconosciuta cinese Lenovo si
comprava quell’icona storica dell’informatica, che sono i computer Ibm
non era un primo campanello d’allarme, ma la sirena del “liberi tutti”. Lo
scrigno del computer Dell già ci diceva
anche questo, con il ritornare insistito,
sulle etichette geografiche, di alcuni
nomi di aziende: Samsung, Lg, Quanta,
Compal. È l’emergere di nuovi protagonisti, di nuove bandiere della globalizzazione: i giganti di domani.
“Infotech 100” è una classifica, stilata ancora da Business weekdelle più importanti aziende del settore (telecom
comprese): nelle prime 20, solo 4 sono
americane e 4 europee. Tre sono indiane, due coreane e due di Taiwan. E sempre meno questi giganti in fasce sono
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25
IL MELTING POT DELL’INFORMATICA
Cina, India, Indonesia, Malaysia, Filippine,
Taiwan, Singapore. Ma anche Messico,
Costa Rica e, più vicino, Russia, Romania
e Ungheria. La Silicon Valley è passata
alla storia come la regione dove è nata
l’industria informatica. Ma oggi più del 70 per
cento dei componenti per computer viene
realizzato nei paesi del Sud del mondo a costi
più bassi. E dalla manifattura il fenomeno
si è esteso allo sviluppo dei software
LO SCHERMO
Il monitor a cristalli
liquidi ad alta
risoluzione
proviene
dalle fabbriche
della Corea del Sud
Le tre svolte che abbiamo mancato
FEDERICO RAMPINI
ristretti nei loro confini nazionali. Se
scorrete l’elenco, preparato dall’Onu,
delle 50 maggiori multinazionali — di
qualsiasi settore — di quello che, una
volta, era il Terzo mondo, solo tre o
quattro sono abbastanza grosse da
rientrare (in fondo, peraltro), nella
classifica generale delle top 100 mondiali. Ma quelle aziende (cinesi, indiane, coreane, brasiliane, sudafricane,
cilene, di Singapore o della Malaysia)
sono, oggi, i protagonisti più attivi, i vascelli più veloci e audaci di questa globalizzazione-arcobaleno: quasi mille
miliardi di dollari investiti all’estero nel
2003, un settimo di quanto hanno investito le multinazionali dei paesi sviluppati. Ma, nel 1990, era un sedicesimo.
Nel farsi largo a spallate, questi nuovi
attori mimano perfettamente i loro
predecessori occidentali. Per tornare a
reggiseni e magliette, non pensata a roba sfornata in qualche sottoscala cinese. L’etichetta “made in China” è soprattutto una disposizione di spirito. Il
maggior produttore mondiale di jeans
(Nien Hsing) è di Taiwan, quello di reggiseni (Top Form) di Hong Kong, ma le
fabbriche stanno in Vietnam, Sri
Lanka, Lesotho e Nicaragua.
Il boom dell’Asia
Lo scrigno ci ha detto che la globalizzazione è sempre più estesa, che i rapporti di forza tecnologici si stanno
spostando, che emergono nuovi paesi e nuovi attori. Ma è presto per dire
che la globalizzazione cambia segno.
A questo, dice un rapporto Cia di qualche mese fa, penseranno i mercati. La
globalizzazione cambia volto, diventa più asiatica, perché non cambia il
suo motore, o la sua anima: il mercato. Nel 2020, Cina, India, Indonesia faranno, insieme, tre miliardi di persone, quasi metà della popolazione
mondiale e una quota assai superiore
di quella con qualche soldo in tasca.
Contemporaneamente, l’economia cinese diventerà, per dimensioni, la seconda
al mondo, quella
indiana raggiungerà la stazza dei
grandi paesi europei. Il reddito pro
capite resterà largamente inferiore
a quello occidentale. Ma le dimensioni complessive
bastano ad annullare lo svantaggio:
già oggi, un reddito medio di 3 mila
dollari l’anno è stato sufficiente ad
aprire la rivoluzione dell’automobile
in Asia. Questa immensa forza di gravità costringerà le grandi corporations a spostare il baricentro della loro attenzione, ad assumere i connotati dei nuovi territori, a modulare i loro
prodotti secondo i gusti, le tendenze,
le psicologie, le culture dei mercati
che crescono più in fretta. E, se non altro per economia di scala, tutto questo tornerà indietro, a cascata, sui
mercati più vecchi e più stanchi. Manga invece di Baywatch, spaghetti di riso invece di hamburger. Aspettate e
tendete l’orecchio: vi arriverà l’urlo di
Calderoli, quando scoprirà che il libretto di istruzioni della sua nuova
auto è in cinese.
I
PECHINO
l protezionismo contro il made in China prescinde da una verità elementare, rivelata dall’operazione “smonta il tuo computer e guarda dov’è fatto”: se
davvero chiudessimo le nostre frontiere, ci condanneremmo a vivere in una specie di Medioevo pretecnologico. Non possiamo proteggerci dall’invasione asiatica perché essa ci fornisce i prodotti essenziali per il nostro lavoro e la qualità della nostra
vita quotidiana. È paradossale che l’allarme sia scattato per la concorrenza cinese nelle scarpe e nei
jeans. La ragione è che in quei settori esiste ancora
un made in Italy. Ma non si può sostenere che il tessile e la pelletteria siano industrie strategiche per il
nostro futuro. Nel frattempo è successo, fra la disattenzione generale, che noi abbiamo smesso da molto tempo di produrre gli oggetti indispensabili del
XXI secolo: il computer, il telefonino, il fax, la stampante, il televisore, il lettore Dvd, la macchina fotografica digitale, gli apparecchi hi-fi. Per questi prodotti non ha senso parlare di “concorrenza” asiatica, perché noi abbiamo smesso di concorrere da un
bel pezzo, siamo inesistenti.
Chiudere le frontiere vorrebbe
dire amputare il nostro stile di
vita, regredire in una situazione
da Corea del Nord. L’alternativa
autarchica non esiste, perché
l’Italia non è in grado di produrre computer né telefonini.
Come siamo arrivati a questo
punto? E senza accorgercene? La
risposta è che abbiamo frainteso
o sottovalutato le tre rivoluzioni
economiche degli ultimi venticinque anni. Cominciamo dagli
anni Ottanta. In quel decennio,
segnato dal neoliberismo reaganiano-thatcheriano, la deregulation investì con forza i mercati
finanziari. Anche l’Italia, adeguandosi all’evoluzione europea, liberalizzò i movimenti dei capitali. Uno degli effetti di quelle riforme
finanziarie fu di accelerare gli investimenti all’estero.
A quell’epoca una visione economica “di sinistra” vedeva il rischio del neocolonialismo, di una conquista
del Terzo mondo da parte del capitalismo occidentale. In realtà si stava creando una premessa – la disponibilità di capitali – per l’ascesa dei paesi emergenti
attraverso la delocalizzazione di attività produttive.
Seconda tappa. Gli anni Novanta sono stati segnati da un formidabile balzo in avanti nella liberalizzazione degli scambi mondiali di merci e servizi.
In Europa si è iniziata la costruzione del mercato unico. Nel mondo intero sono state smantellate molte
barriere doganali e tariffarie, in una serie di accordi
che hanno portato dal Gatt al Wto. Anche qui gli errori di previsione sono stati clamorosi. Questo proFOTO ANSA
LA TASTIERA
La tastiera e gli altri
dispositivi
di puntamento
del portatile
sono di produzione
cinese
cesso di smantellamento graduale delle barriere fu
fortemente voluto dai paesi industrializzati, che decisero le nuove regole del gioco. Fu subìto dai paesi
emergenti, che non avevano la forza per opporsi.
L’opinione più diffusa era che i ricchi avrebbero dominato l’economia globale, invadendo i mercati
emergenti. Nessuno negli anni Novanta immaginava che la Cina e l’India (e tutti i paesi-satelliti) sarebbero diventate le nuove superpotenze economiche
mondiali: neanche i cinesi e gli indiani.
La terza rivoluzione incompresa è stata la New
Economy, cioè quell’ondata di innovazioni tecnologiche legate alla diffusione di Internet, che nacque
nella Silicon Valley californiana a metà degli anni
Novanta e da lì si diffuse nel resto del mondo. Due furono gli errori di valutazione. Da una parte la New
Economy fu vista come un fenomeno essenzialmente limitato alle zone più avanzate dell’America e
dell’Europa. Dall’altra, quando nel marzo 2000 crollò il Nasdaq, tutta quella fase fu liquidata come una
“bolla speculativa”. In realtà il fenomeno Internet si
è diffuso a una velocità impressionante nei paesi
emergenti: alla fine di quest’anno il numero di cinesi collegati online sarà superiore a quello degli americani. Uno degli aspetti apparentemente patologici
della bolla speculativa fu che i colossi delle telecomunicazioni fecero investimenti eccessivi nelle
nuove reti di cavi a fibre ottiche, in previsione di un’esplosione nell’utilizzo della “banda larga” per le connessioni Internet, la trasmissione di dati e immagini.
Il loro ottimismo fu prematuro e alcune di quelle
aziende sono fallite. Ma nel frattempo il crollo nei costi dei collegamenti ha accorciato le distanze tra l’Asia e il resto del mondo. La diffusione di Internet e dei
telefonini ha reso facile, efficiente ed economico delocalizzare ogni sorta di attività industriali e di servizi nei paesi asiatici che hanno infrastrutture moderne, salari bassi, buoni livelli di istruzione e una manodopera altamente produttiva. La New Economy è
stata dichiarata defunta mentre in realtà i suoi effetti sulla globalizzazione sono poderosi, avvicinando
miliardi di lavoratori asiatici ai consumatori europei
e americani. È cambiata la natura delle nostre imprese. Molte aziende sono ormai dei luoghi di produzione virtuali, delle scatole vuote che mantengono solo pochi compiti strategici, delle “cabine di
regìa”: progettano e coordinano operazioni dislocate a decine di migliaia di chilometri di distanza.
Dobbiamo condannare le tre rivoluzioni economiche e rimpiangere il mondo in cui vivevamo negli
anni Settanta? In realtà quello era un periodo di stagnazione e declino. La parola di moda per dipingere
il Vecchio continente era “eurosclerosi”. La disoccupazione era più alta di oggi. L’inflazione italiana
era al 20% (proprio così, non c’è uno zero di troppo).
Avevamo anche la piaga del terrorismo, sia quello di
matrice mediorientale che quello fabbricato in casa
nostra. Sfogliare le prime pagine dei giornali di allora è la migliore cura contro la nostalgia.
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il racconto
Miti del ciclismo
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Erano l’università delle due ruote: sulle curve strette
dell’anello affinavano lo sprint gli uomini migliori che poi
davano spettacolo al Tour o al Giro. Qui andavano
in scena sfide entusiasmanti: dalle riunioni di New York
a quelle di Milano. Uno sport ora in declino, come dimostra
il degrado e la scomparsa degli impianti italiani
La magia perduta dei velodromi
LEONARDO COEN
G
DALMINE (Bergamo)
li sprint del Tour de France una volta
erano chiamati “la fine fleur du sport
cycliste”, mentre i grandi velocisti
erano soprannominati i “signori dell’anello”, ricorda il padovano Silvio Martinello che
oggi ha 42 anni e che ai Giochi di Atlanta del 1996 vinse l’oro olimpico nella corsa a punti (più altri quattro titoli mondiali). Per anni la “parrocchia” del ciclismo, ossia la competenza appassionata delle due
ruote, aspettava trepidante l’ultimo sprint del Giro
e del Tour, per stabilire chi fosse il più nobile ed audace tra gli aristocratici del muscolo, colui che sapeva scattare il più tardi possibile ma sempre un attimo prima degli avversari (la sacra regola): e costui
non poteva non essere che un corridore maturato
tra le curve strette e ripide come muri dei velodromi, autentiche palestre di coraggio, furbizia e spietatezza. L’università del ciclismo: in pista ti allenavi ad affrontare non solo i rivali ma la vita stessa.
Correva gente spregiudicata che sapeva maliziosamente usare i gomiti come lame di spada e sotto
la maglia teneva pronto il coltello, per usare una
U
IL CAMPIONISSIMO
Negli anni ‘40 Fausto
Coppi si allena
al Vigorelli per battere
il record dell’ora
e sfuggire così
al fronte. Ma il primato,
che stabilisce
nel 1942, non gli evita
di partire in guerra
metafora salgariana cara ai “suiveurs”. La filibusta
del parquet. I santuari di questi bucanieri della pedivella erano il sontuoso Madison Square Garden
di New York, il Crystal Palace di Londra, il milanese Vigorelli, il parigino Vel d’Hiv, il tedesco Karl
Marx-Stadt. Una geografia che non c’è più. Negli
ultimi anni la grande pista è traslocata in Giappone ed Australia, mentre in Italia si è sperduta o disintegrata, salvo rifugiarsi in qualche piccolo (e generoso) porto degli hinterland più profondi, lontano dalle rotte principali.
La stagione all’aperto
Per esempio, il velodromo comunale di Dalmine
che circonda, con la sua onesta pista di cemento
lunga 374 metri, il campo di calcio della cittadina
bergamasca famosa per i suoi altiforni. A due passi
l’ormai collassata autostrada Milano-Venezia garantisce smog e rumore, anche adesso che sono le
nove di sera ed è lunedì 4 luglio. Stanno per concludersi i campionati europei di “derny” e “madison”
(l’americana), due specialità della pista.
Il cielo sopra Dalmine si è fatto nero come la pece. Fabio Perega, trentanovenne promotore finanziario che ha faticosamente messo in piedi questa
riunione — costata 40mila euro: per farla vedere in
n vecchio matto sospettava che gli stadi vivessero. Lo stadio deserto non appariva al mio amico come una conchiglia vuota. Gli suggeriva
un’immagine surrealistica: gli offriva la sensazione che la pista e il prato osservassero le tribune. A suo avviso, rimanevano, nello stadio,
nel velodromo, nell’ippodromo deserti un grado di febbre, di
calore, la linea, il tono di un avvenimento vissuto. Ma si può
amare uno stadio? Accade. Lo stadio più amato dai milanesi è
il velodromo Vigorelli. Tre volte il Vigorelli è rinato dalle macerie e dall’incuria degli uomini. Hanno cercato anche di distruggerlo. Sempre, però, qualcosa ha sconfitto i detrattori e
qualcuno ha fatto ricredere i tiepidi.
Quando ero ragazzo (non possedevamo molto negli anni
‘30) l’Europa che ci era negata era per me rappresentata dai treni che sfioravano la città dove sono nato e correvano, per Como e per Chiasso verso i laghi, verso i monti della Svizzera. E
poi dal Vigorelli, dove approdavano campioni di altri Paesi, un
piccolo mondo esotico che potevi quasi toccare con mano. Il
ciclismo, come dire, tattile. Il Vigorelli dall’elegante tettoia, fatto di preziose tessere di legno, illuminato a giorno, era un transatlantico attraccato alla banchina del Sempione.
In occasione del record di Francesco Moser, ho veduto i
“vecchi” della parrocchia, la confraternita degli iniziati, affacciarsi alla sua porta, all’ellisse dal disegno tanto puro. Alcide
Cerato, agente per “viaggi definitivi”, si era dato un gran da fare perché il parquet venisse rappezzato, raschiato, verniciato:
perché una corsia liscia, al limite della scivolosità, si aprisse, a
pelo di corda, davanti alle sue ruote lenticolari. E c’era riuscito. Moser girava, dunque, con la regolarità di un metronomo e
io pensavo che sulla grande pista corrono pure i giorni, le notti, il vento e, ahimé, gli anni. Mezzo secolo.
Urbanizzazioni, manager, suiveurs, soigneur, patiti, folle
avide, entusiaste. Il popolo del Vigorelli, Anteo Carapezzi e Tano Belloni e il suo gran feltro dalla fodera di raso — lui diceva
marezzata — omaggio all’America di Wilson e del Charleston.
Vittorio Strumolo, che gestì indimenticabili stagioni di ciclismo e di boxe. Bordoni stayer e poi conduttore delle motociclettone degli stayers.
Un folklore autentico. Il folklore di oggi è spesso voluto: e,
perciò, nauseante, dolciastro. La rinascita del Vigorelli mi è
stata raccontata da Anteo Carapezzi, il padre di Adone Carapezzi, il noto telecronista. Carapezzi amava la pista e soprattutto amava che altri l’amassero. Credo che per questo mi
avesse preso in simpatia. Carapezzi parlava... parlava. «Ades-
qualche tv locale ha dovuto pagare — ha una smorfia di rabbia: «Se piove, sospendono la gara». Puntuale, comincia a piovere. Passa qualche secondo.
Poi, due colpi di pistola, uno dietro l’altro, annunciano la sospensione (mezz’ora) della “madison”
under 23. Trentasei corridori (diciotto coppie di
tredici Paesi) rallentano di colpo, dirigono alla corda, infilano il sottopassaggio. Almeno lì sono al riparo della pioggia. Il velodromo di Dalmine è allo
scoperto. Non si può correre in pista se piove: ci si
spaccherebbe la testa. Figuriamoci d’inverno. O
d’autunno. Così, la stagione della pista all’aperto
inizia a fine marzo e si conclude ad ottobre. Che assurdità: l’inverno era il tempo delle Sei Giorni, kermesse di straordinaria intensità e di altrettanta
crudeltà agonistica: i corridori si sfidavano a coppie, correndo a turno in continuazione per 144 ore,
in verità pedalavano sei giorni e sette notti consecutive, concedendosi piccole rate di sonno e mangiando il minimo indispensabile. La tournée del
seigiornista esordiva in America: Tano Belloni, l’eterno secondo delle corse su strada d’anteguerra,
a New York si trasformava in eroe e fantasista della pista, piaceva alle “girl” degli show per i suoi riccioli e lo sguardo malandrino, il sorriso semplice.
Lui tornava in Italia sfoggiando un enorme cap-
pellaccio da cow-boy, omaggio ad un Paese in cui
era vincente. I pistard italiani raccoglievano ciò
che Rodolfo Valentino aveva seminato.
In Italia oggi ci sono 49 velodromi: nessuno è coperto. Milano aveva eretto nel 1976 uno splendido
impianto per il ciclismo su pista: il Palasport sembrava un vascello inespugnabile, i corsari di questo sport ne avevano fatto elogi sperticati. Un giorno di gennaio del 1985 nevica con furore sulla città:
cede il vecchio tetto del Vigorelli e crolla pure quello più nuovo del Palasport. Fu come se crollasse il
mito della Milano efficiente e sempre all’avanguardia: il tetto era stato progettato per reggere 125
chili di neve per metro quadro, il peso che dovette
sopportare — anche per la forma concava della copertura — arrivò sino a 300 chili. Un disastro: la
parte centrale del tetto si era abbassata di dieci metri. La Federciclismo dovette sopprimere le edizioni 1985 e 1986 della tradizionale Sei Giorni milanese. Dopo, l’oblìo. Ora, al posto del Palasport c’è un
parcheggio, serve ai tifosi del Meazza. La Sei Giorni venne resuscitata qualche anno fa, ospitata al
Forum di Assago: l’affitto esoso del palazzetto
(mezzo miliardo di lire) e le altrettanto pesanti spese per il montaggio della pista (300 milioni) decretarono la fine della reputata Sei Giorni meneghina.
Addio “Vigorelli”
lo stadio
con l’anima
so le voglio dire una cosa. Questo capolavoro qui, che è bello come un violino, è nato per caso. Hanno abbattuto
il “Sempione” e fu un delitto. Sa perché
hanno abbattuto il “Sempione”? Perché succedeva che il Girardengo, preferisse una mia riunione su pista al Giro di Lombardia. A provocare la distruzione del “Sempione” è stato Emilio
Colombo, patriarca dello sport milanese, direttore della Gazzetta dello
Sport. A Colombo le debolezze verso la
“pista” da parte di Gira e degli altri davano maledettamente sui nervi. Un
bel mattino, al “Sempione”, su ordine
telegrafico giunto da Roma (un esempio di fascismo applicato!) arrivò una
squadra di muratori. I muratori saliroMARIO FOSSATI
no su una curva e ne tagliarono una fetta. Non solo un’infamia, un’infamia irridente! Impraticabile il velodromo “Sempione”, per anni i pistard italiani erano come morti. Io mi ritrovai disoccupato. Per
sbarcare il lunario mi diedero un posto di custode al campo del
Milan (il Meazza di oggidì)».
E poi: «Nel ‘32 ci fu il Mondiale a Roma. Schurmann, un architetto con licenza tedesca, disegnò la pista. La carpenteria
Bonfiglio di Milano la mise in opera. La pista venne alzata
nello stadio del partito (l’attuale Flaminio). Finito il Mondiale venne impacchettata e rispedita a Milano. Eravamo
nel ‘35, l’anno dopo ci sarebbero state le Olimpiadi di Berlino. Quando si trattò di montare la pista però si accorsero che
le tribune le andavano strette».
Ancora Carapezzi: «Io dicevo a Bonfiglio: se questi matti
svuotano l’incavo dello stadio di tanti cubi di terra, se lei ce la
fa a segare le curve al centro, a ridurre e a raccordarle, la pista
ci entra e sotto il livello del suolo, semicoperta, diventa la pista
più scorrevole del mondo. Così fu. Il Vigorelli, affidato al cavalier Giacomo Grassi, era nato».
Adesso, raccontando, mi accorgo che il Vigorelli è stato ed è
più grande dei velocisti che vi lavoravano. Nella stessa misura
in cui la Scala è più grande della Callas o di Pavarotti.
Nel discorso di Anteo Carapezzi la storia del Vigorelli fatalmente sfociava nella terribile notte dell’estate del ‘44,
quando una pioggia di bombe incendiarie cadde su Milano.
Battista, l’antico custode, ricorda, si sentiva chiamato in
causa: «Guardi, un baccano da far saltare le orecchie. Io capisco al volo e li porto via, i miei, dal tunnel in camicia da notte. Mia madre, poveretta, si sveglia e crede di sentire suonare le trombe del Giudizio. Io mi sono voltato un istante: c’erano gocce di fuoco dappertutto. La pista era un anello di
fuoco: illuminava l’erba del prato che sembrava rientrare
nelle sue radici. Un inferno». L’indomani, il Vigorelli pareva
lo scheletro di un enorme mammut.
La guerra, la liberazione. Il cavalier Grassi ammattisce per
trovare una operatore economico, che costruisca e investa
nel Vigorelli. Si rivolge anche a suo figlio, Luigi, che fa il giornalista. «Ma tu — gli domanda — non conosci nessuno che
abbia la grana e che lo voglia?». Luigi Grassi risponde: «C’è un
mio compagno di scuola, Vittorio Strumolo, che sa di sport e
di economia». Un colpo di telefono e appare Strumolo. Un altro colpo di telefono: è Strumolo a chiamare il commendator
Zafferri. L’affare è fatto. Tanti sacchi di cemento, tanto legname: non è più abete degli Urali ma abete delle Alpi, le cui
essenze sono identiche. Ed ecco il nuovo il Vigorelli.
Adesso dovrei fare l’excursus del record dei campionati, dei match ad inseguimento o pugilistici cui ho assistito
anche da vicino. Occorrerebbero cento e cento pagine che
occuperebbero quei 390 metri di pista alla maniera di un
interminabile lenzuolo.
Me ne manca l’animo. Molti protagonisti sono affidati alla
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
LA STORIA
LE ORIGINI
LA GUERRA
LE ESIBIZIONI
IL DECLINO
IL CROLLO
Il Vigorelli nasce
nel 1935.
Nei dieci anni
successivi
l’impianto diventa
un luogo mitico,
vero e proprio
tempio del ciclismo
internazionale
Nell’estate
del 1944 la pista
viene distrutta
dalle bombe
incendiare
che piovono
su Milano. Rimarrà
chiusa più di un
anno
Negli anni ‘60
la struttura del
velodromo viene
utilizzata anche
per ospitare
concerti. Qui,
nel ‘65, l’unica
esibizione in Italia
dei Beatles
Negli anni ‘70 inizia
il lento abbandono
del Vigorelli, che
verrà chiuso nel
1975. Si dovrà
attendere quasi
dieci anni per
rivedere in funzione
la pista
Nel 1985, pochi
mesi dopo la fine
dei lavori
di restauro,
la tettoia
del velodromo
crolla sotto il peso
della neve. È
la fine del Vigorelli
La pista giace e marcisce in un magazzino.
C’era una volta lo stupendo velodromo Olimpico
di Roma, costruito per i Giochi del 1960 in una via proditoriamente battezzata Oceano Pacifico. Oggi di pacifico c’è rimasto ben poco, salvo un cumulo di gloriosi ricordi e di tante roboanti dichiarazioni (politici, amministratori della città e responsabili del Coni
promettevano futuri favolosi) rimasti appesi alle rovine di una mirabile struttura che l’incuria degli uomini e l’usura del tempo hanno condannato a morte. E che squallida morte. Smantellata dai razziatori
di legno, erbacce ovunque. I pistard romani sono
emigrati a Forano. Il velodromo di Civitavecchia, a
sentire Martinello che in questi giorni è diventato supervisore delle nazionali di ciclismo su pista, è «allo
sbando». La pista deve essere costruita a regola d’arte: sia essa in legno, sia essa di più comune cemento.
Bisogna saper rendere perfetta la “raccordatura”
delle varie sezioni e la “legatura”. Bisogna soprattutto garantire la costante manutenzione.
E qui, il quadro è “drammatico”, ammettono in
coro Perego e Martinello. Il giro dei velodromi nostrani è un percorso di guerra: e di rese incondizionate. Pigliamo il “Paolo Borsellino” allo Zen di Palermo, costato 17 miliardi delle vecchie lire. Ricordo che Leoluca Orlando, allora sindaco della città,
mi disse più volte che il velodromo avrebbe avuto
una funzione positiva e catalizzatrice in un quartiere difficile e problematico come lo Zen, regno della
marginalità palermitana e frontiera di scontri di
classe. Stavano per andare in scena i campionati
mondiali di ciclismo del 1994, il velodromo era stato intitolato al magistrato ucciso dalla mafia non solo per dare un segnale “politico”, ma anche perché
Borsellino era un appassionato cicloamatore. Insomma, l’impresa partiva col colpo di pedale giusto
e con significati ancor più corretti. Un anno dopo,
l’attività del Borsellino già languiva. Mancavano i
pistard: marziani in Sicilia, il progetto era rimasto
utopia. È finita che al posto di sprint e di inseguimenti si fanno concerti rock, balli latini, partite di
calcio americano. Rendono più quattrini.
Peggio è andata al bellissimo Velodromo degli
Olivi (1975), in quel di Monteroni provincia di Lecce. Altra cattedrale nel deserto, altra manifestazione di colpevole ignavia. Osvaldo Bettoni, che fu
campione italiano nel quartetto dell’inseguimento e che se la cavava altrettanto bene nella velocità,
è indignato, e addolorato (la pista è come il primo
amore: non si dimentica mai), la ricorda «bellissima e perfetta, forse la più bella tra tutte quelle sulle quali ho corso». Era il fiore all’occhiello della fe-
leggenda. Io so che ora è il Vigorelli ad esaltare le virtù dei campioni. Le vittorie che si ottenevano a Milano, in via Arona, erano il visto, il timbro, la ceralacca del passaporto di un pistaiolo. Gli aristocratici del “muscolo” abbondavano e bastava che
il dottor Strumolo alzasse un dito perché accorressero.
Reg Harris, un caposcuola dello sprint, lo stile di un baronetto, il cui viso aveva il taglio diritto cinico delle sue volate.
Maspes, che al Vigorelli vinse il primo Campionato del mondo italiano dello sprint professionistico, conquistando l’Italia. Maspes sapeva farsi prendere dai muscoli e dai nervi. A
volte era come se non avesse corpo. Volava. Van Vliet con le
sue lenti spesse da miope. Scherens, detto “il poeske”, il gatto, che infilzava l’avversario di un quarto di ruota, all’ultimo
fazzoletto di pista. Gerardin, il cocco di Parigi, che aveva incontrato Edith Piaf, che lo avevo molto incoraggiato. Il Vigorelli facitore di campioni dello sprint da Bergomi (che la guerra ha bruciato) ad Astolfi fino a Gaiardoni, che passava di potenza irresistibilmente.
E ancora il Vigorelli del tedesco Richter che un ordine della
Gestapo, eliminò il primo inverno di guerra, nel ‘39, per sospetta esportazione di valuta. Fu un delitto: «Ti hanno condannato per dare un esempio, gli avevano detto i carcerieri.
Hai vinto un mondiale per il Terzo Reich e stanotte potrai fuggire». Gli aprirono le porte delle celle, lo invitarono a prendere
il volo. Fu un ignobile gioco. La guardia lo abbatté con una fu-
derciclismo, ora i fiori spuntano tra i listelli, «ci pascolano persino le pecore», aggiunge, sconsolato,
«è più che uno scandalo, è una vergogna». Fosse
l’unica. In Campania, negli ultimi anni, il Giro d’Italia faceva tappa o passava a Marcianise. Dove era
sorto un altro stupendo velodromo all’aperto,
sventurato fin da subito. Due giorni dopo la prima
ed unica riunione, sulla pista di San Giuliano si rovesciò un violento nubifragio che allagò i locali sotterranei e rese la pista una gruviera. Per realizzarlo c’erano voluti vent’anni d’attesa.
Sulla via Emilia
Per Martinello, sono pochi i velodromi davvero efficienti. Nel Veneto, le piste più attive sono quelle di
Bassano del Grappa, Padova (la più interessante) e
Portogruaro. In Friuli, Pordenone. In Toscana, alle
Cascine di Firenze il velodromo è nato sbagliato.
Funziona il “Solvay” di San Carlo, a cinque chilometri da San Vincenzo, ma i pistard più esperti non
l’amano «perché è in un buco e c’è troppa umidità».
Il buco sarebbe una conca dentro una pineta. In Piemonte, a due passi dall’aeroporto di Caselle, è sorto
il complesso di San Francesco al Campo. In Lombardia oltre a Dalmine, c’è Mantova, c’è Busto Garolfo che fa molto per i giovanissimi, resiste quella
cilata quasi fosse una lepre, sulla soglia
del carcere. La notizia rimbalzò da Berlino al Vigorelli. Una mano ignota stracciò con un gessetto rosso sul muro della
cabina, che Richter occupava, un “Richter vivrà”, una scritta gigantesca, che
non voleva scomparire sotto la calce).
E gli stayers, artisti sulle due ruote,
Lacque, Lohman, Severgnini, Frosio,
Pizzali, De Lillo, appallottolati al rullo
dei motociclettoni: “Alzani”, con il
conduttore diritto come un derviscio
sulla canna. E gli inseguitori, gli stradisti di grido, Coppi-Bartali-Magni. Il record di Olmo, Richard, Archambaud,
Coppi, Baldini, Anquetil, Rivière: fino
al Moser astrale.
Gli annali del Vigorelli parlano dei pomeriggi e delle notti di Coppi allorché il
campionissimo con “parziali” da capogiro prendeva di petto il pedalatore folle, Gerrit Schulte, che
correva con incontrollabili brevi raffiche o Patterson l’australiano che era un modello di stile eguagliato dal solo Hugo Koblet (che, diceva Binda, faceva il solletico ai pedali). Oppure
Peeters. La folla premeva paurosamente ai cancelli.
Nei bar della Bullona, ad un passo dal Vigorelli, parlano del
7 novembre del 1942. Un cielo basso sporco carico di insidie,
un cielo di guerra perduta. Sotto la tettoia un pubblico dal cappotto rovesciato, dal bavero sdrucito. Coppi in forza al 38 Fanteria ha strappato una licenza. Il colonnello, che volutamente
lo ignora, lo vuole spedire in Africa: e lui tenta l’ora di Archambaud per commuovere chi di dovere. Una bicicletta avara di
alluminio: una maglia di lana a cinque tasche, un tocco di campana scandisce i tempi di marcia. Coppi batte Archambaud.
Scende di sella che è il crepuscolo. È ammazzato di fatica, non
è assolutamente in grado di assaporare il trionfo. L’atmosfera
di guerra, il freddo, l’improvvisazione, l’insufficienza meccanica lo avevano fatto soffrire come una bestia. Al ritorno in caserma Fausto apprenderà di essere stato aggregato al 36 Fanteria, destinazione Tunisi via Sciacca. Il 23 aprile 1943 Fausto
Coppi era un “prisoner of war”.
La memoria del Vigorelli è di elefante. Gli americanisti Terruzzi (il Nando, un idolo milanese) e Rigoni, Wals-Pellenaers,
Strom-Arnold avevano riempito di folla i vuoti dell’ellisse.
Il gemellaggio del ciclismo con la boxe era divenuto in-
di Varese. Il Vigorelli è stato prestato alla federazione del golf: come dire, l’hanno condannato alla fucilazione. Milano out. La pista di Crema sarebbe da
rifare. A Montichiari, vicino a Brescia, ne stanno costruendo una nuova, sempre all’aperto: luogo strategico, al centro della Padania. Per questo Martinello spera che il Coni tiri fuori altri due milioni di
euro, «la spesa necessaria per aggiungere una copertura, in vista dei Giochi di Pechino 2008». La pista vale dieci medaglie. Perché sperperare la straordinaria eredità della scuola italiana? «Io ci credo e ci
investo, nella pista», afferma Claudio Santi, vicepresidente dell’unione europea del ciclismo, nonché boss della 6 Giorni delle Rose al “Pacciarelli” di
Fiorenzuola, un mix di ciclismo, via Emilia, lambrusco e ballo “lissio”.
Atmosfera ruspante ma corsa blasonata: Juan Llaneras, oro ai Giochi di Sydney, argento ad Atene nella corsa a punti (ma anche 5 titoli iridati). Juan Curuchet, campione mondiale dell’americana 2004.
L’ucraino Volodimir Rybyn, campione mondiale di
quest’anno (Los Angeles). È tornato Marco Villa, un
veterano delle Sei Giorni (ne ha vinte 17 in coppia
con Martinello): svezzerà il giovane compagno Samuele Marzoli, talento emergente. Due anni fa gli
spettatori furono 21mila: «Non piovve mai».
tanto, spontaneo. Turiello-Cerdan, l’ho ancora negli occhi.
Le stivate bassissime a livello di tappeto di Turiello, la forza
grezza di Cerdan, incontenibile vincitore. Il quadro finale:
mille e mille fiamme di accendini, di briquets, che andavano su dritte nella notte. Più che luce tanti piccoli ceri accesi
davanti alle nostre speranze deluse. Eravamo nel giugno del
‘39. I Mondiali di ciclismo al Vigorelli verranno interrotti
dalla guerra. Chi avrebbe voluto trasformare il transatlantico Vigorelli in un cinodromo non ha mai avuto il minimo
sentore di quanto abbia rappresentato e rappresenti per generazioni di milanesi il velodromo Vigorelli. Un brutto giorno ritrovammo il Vigorelli sconciato, con sbarre di ferro
conficcate nel tessuto della pista: e un terrapieno a sfiorare
l’anello. Il pueblo delle zone 6 e 8 di Milano, del Sempione e
del “borgo dei cipollai”, non ebbe esitazione: insorse. I levrieri vennero trasferiti altrove, i lavori bloccati. L’indomani la prima notturna di carattere e tono mondiali.
La notte dei campioni fu la prima sua fatica. Al mondo,
però, è risaputo, si viene puniti per le proprie buone azioni.
Una bufera di neve, una nevicata monstre, nell’85, rovesciò
sulla pista onusta non solamente di gloria e la scaraventò sul
parquet, un colpo terribile, un tuono, come se tutte le saracinesche di Milano fossero calate nello stesso istante. Un
rumore sinistro. Infine, l’irritazione nervosa tutta milanese, di Cerato and company. All’angoscia non si resiste con
l’immobilità. Per la terza volta il Vigorelli venne rifatto. Il record di Moser lo ha cavato fuori da una profondità abissale.
La pista come capita alle botti di eccellente fusto, gemeva,
schiaffeggiata dalla pioggia intrisa di umidità o arsa nel sole. Il Vigorelli era perduto. Il “transatlantico” non è più uscito dal bacino di carenaggio. È divenuto la meta delle mie
passeggiate mattutine meste e ventilate.
Uno della “parrocchia” della confraternita dei pistard mi ha
rimproverato: «Tu hai ottenuto per l’ippica il sigillo delle Belle
arti sull’Ippodromo di San Siro e sui terreni di allenamento di
Trenno e Maura. Ti sei imborghesito. Mi aspettavo che facessi altrettanto per il Vigorelli». Ho risposto: «Sarebbe occorso un
miracolo: e i miracoli, anche Milano non sono ripetibili». Occorrerebbero altre conoscenze municipali e altra cultura.
Il Vigorelli è stato perduto. Non sorprende in un paese dove
si costruisce un autodromo nel parco chiuso più vasto d’Europa. «Nell’ippica rispolveriamo i generali e i militari dei quali (diceva Einstein) non è che non siano intelligenti. Solamente è stata consegnata loro un’intelligenza per sbaglio». Mi
prende una grande malinconia.
IL SIMBOLO
Il velocista milanese
Antonio Maspes
è iniziato al ciclismo
al Vigorelli, ed è qui
che vince gran parte
dei suoi sette titoli
mondiali. Oggi il
velodromo porta
anche il suo nome
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i luoghi
Nuove vie
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Un viaggio tra i poggi e le spiagge alla scoperta
della regione che, senza clamori come il lato “b”
di un vecchio disco, ha mostrato il suo fascino nascosto
e conquistato il cuore degli artisti di tutto il mondo.
Una terra dalle tradizioni antiche dove, secondo il New York
Times, sopravvive l’Italia che non c’è più. Dolce Vita inclusa
Marcheshire, le colline sottovoce
L’
‘‘ ‘‘
EMANUELA AUDISIO
SENIGALLIA
infinito, come no. Prendi
l’A14 e ci arrivi. L’altra
scelta è scavalcare l’Appennino. Te ne sbatti della siepe. Forse Leopardi esagerava o
guardava dalla parte sbagliata. L’infinito
si vede benissimo. È finito e domestico,
come il mare Adriatico. «Ecco l’altro
mondo. In nessun altro luogo
d’Europal’altrove ci è più vicino. L’Adriatico è ilmare dell’intimità», ha detto lo storico Sergio Anselmi. D’inverno la schiuma delle onde sbava sulle colline e arriva
alla gola. L’infinito si inumidisce. La bora,
come ha scritto Paolo Rumiz, fa il resto:
ara, rimescola, ossigena il mare. Le Marche sono l’altra parte: il coast to coast del
Lazio, il “lato b” della Toscana, come certi dischi che sul retro del successo hanno
una versione meno urlata e più dimessa.
Anima gregaria. Ma basta un po’ d’attenzione e scopri che il “lato b” ha una bellezza nascosta, più duratura. Metti Enrico Ruggeri, fuori stagione, a Marotta: sabbia bagnata, alberghi chiusi, gabbiani
stanchi. Gli è uscita la canzone: «Il mare
d’inverno è un concetto che il pensiero
non considera. È poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera. Mare mare, qui non viene mai nessuno a farci compagnia». Nebbia fuori, agitazione dentro.
Le Marche sono così: sembrano placide, incolori, sembrano nulla. Appena un
milione e mezzo di persone, un quartiere di Roma. Una regione che non sta in ginocchio, ma non ci tiene ad alzarsi sulle
punte, gioca a nascondersi dietro colline
e castelli di sabbia. Però la campagna ha
le lucciole, gli orti, le aie, le viti maritate.
Però ha le sagre dell’oca, degli asparagi di
montagna, della tagliatella, della rana,
dei vincisgrassi, dei garagoi, del ciauscolo. Un po’ di modernità, ma non troppa,
e mai vistosa. Marito e moglie con le loro
vecchiaie intrecciate che salgono dalla
campagna sugli Ape Piaggio, di giorno a
vendere la verdura, di domenica alla
messa. I ragazzi come Valentino Rossi sugli “Apetti” truccati a sfidarsi sulle discese ardite e le risalite in una piccola Gioventù Bruciata. Le Marche, una regione
di passaggio. Dove stare un momento,
guardare e andare via. Perché quello che
intravedi, spaventa. Un cuore di tenebra
dolce. Uno spillo che ti ferma per sempre.
Terra di preti e di anarchici. Timida e
scorbutica. Mezzadria e operosità,
un’impresa ogni otto abitanti. Poca
grande letteratura di territorio. I famosi
scrittori francesi, inglesi, tedeschi, qui
mai arrivati. Giravano tutti al bivio prima,
molto prima. Nessun Flaubert, Rilke, Foster a meravigliarsi su schiume del cuore,
onde del destino e camere con vista. Le
Marche, geograficamente sempre difficili da spiegare all’estero. Sotto Rimini,
ouì. Dalla parte opposta di Firenze, yes.
Sopra Bari, ja. Ma oggi, nuova zona di
frontiera nazionale e internazionale, destinazione di una comunità di viaggiatori che ha deciso che la sua Italia è questa
qui: sulle colline dell’Adriatico. Se n’è accorto anche il New York Times che parla
di Marcheshire come nuova Toscana:
correte, bevete, comprate. Se volete essere tra quelli che esplorano territori da sa-
Giacomo Leopardi
Sempre caro mi fu
quest’ermo colle/
e questa siepe,
che da tanta parte/
de l’ultimo orizzonte
il guardo esclude
Giovanni Pascoli
Il colle non è più quello,
essendo stato [...] piantato
e ripulito e pettinato
per diventare un giardino
pubblico, il Pincio; ma “ermo”
era anche quella sera di sabato
Da L’INFINITO (Canti), 1819
Da IL SABATO (Pensieri e discorsi), 1914
ranno famosi. Nuovi e vecchi arrivi: c’è
chi ritorna nel natio borgo selvaggio e chi
prova a metterci radici. Federico Mondeci, sassofonista di fama internazionale,
ha casa a Ostra Vetere, dove anche il pittore Leonardo Cemak si è trasferito in un
pezzo di mura del paese, l’artista della
transavanguardia Enzo Cucchi è a Morro d’Alba, l’architetto statunitense, nato
al Cairo, Hani Rashid, che va pazzo per la
gola del Furlo, è a Pagino, fuori Urbino.
Certo, non è terra, né mare da paparazzi.
Michele Emmer, giornalista, figlio del regista Luciano, sta a Scapezzano, Natasha
Stefanenko a Sant’Elpidio a mare, per via
del marito, Luciano Pavarotti ha una villa sulla panoramica di San Bartolo, fuori
Pesaro, dove sta trascorrendo la sua convalescenza dopo l’operazione all’anca.
Leggi il New York Times e capisci: «A
vanishing Italy still exists», le Marche sono un po’ la Dolce Vita di una volta, quel
neorealismo tranquillo, che piace agli
stranieri, i piccoli paesi con qualità di vita e l’arte di qualità. Il Rinascimento, Piero della Francesca, innaffiato di sera da
un buon Verdicchio. Se in America sono
gli artisti a scoprire e rilanciare zone di
Manhattan, in Italia sono gli stranieri,
quelli che arrivano dal nord. C’è sempre
qualcuno che ti spiega la bellezza che hai
attorno, le lucciole non bastano ad illuminare. Il giornalista tedesco, Peter
Kammerer, insegnante di sociologia ad
Urbino, organizzatore di convegni di filosofia politica all’eremo di Monte Giove, spiega: «Un certo tipo di intellettuale
tedesco, quarantenne, che prima si dirigeva in Toscana e Umbria, e prima ancora sul Lago di Garda, ora per convenienza sceglie le Marche, soprattutto
Urbino e dintorni. E’ un tipo diverso, meno famoso: non è il regista Volker Schlondorff né l’attuale ministro degli interni, Otto Schilly, magari è un alternativo,
che si occupa di agricoltura biologica, o
è attore, attrice, pittore che cerca un ritmo felice di vita a un prezzo giusto. Non
cerca il mare, per quello va in Croazia,
ma la collina». Lo scrittore Andrea De
Carlo ha una proprietà di famiglia, tra
Maciolla e Rancitella, fuori Urbino, dove
Lucio Dalla si è aggiunto come vicino, il
signor Api, Aldo Brachetti Peretti, ha appena inaugurato la sua cantina e fattoria
alle porte di Tolentino.
Sempre caro mi fu quest’erme colle.
Dove Ampelio Bucci è stato tra i primi a
qualificare il Verdicchio, dove Vittorio
Beltrami e la sua famiglia a Cartoceto,
con il recupero dell’antico frantoio della
La sua malinconia
ha ispirato le poesie
di Leopardi e fatto
da sfondo alle foto
di Mario Giacomelli.
E sulle rive
dell’Adriatico
Ruggeri ha scritto
“Mare d’inverno”
PAESAGGI LEOPARDIANI
Al centro: colline al tramonto
vicino a Cingoli.
Nella pagina accanto
campi di grano intorno
a Treia, e altre due vedute
della campagna circostante
Cingoli e il Monte Conero
Rocca del ‘600, ha valorizzato olio e fosse, dove i pastori sardi, come Chessa, a
Montecarotto, hanno rilanciato i formaggi, dove Stefano Mancinelli ha lanciato la Lacrima di Morro d’Alba, prima
che avesse la doc. Antonio Terni della
Fattoria Le Terrazze ha inventato il Planet Waves, una riserva di Rosso Conero
dedicata, oltre che fatta insieme, a Bob
Dylan. Piccoli teatri e progetti culturali
ovunque: a Serra de’ Conti il Museo delle Arti Monastiche; a Montefortino, il
Museo Civico; a Corinaldo, la Pinacoteca, a Castelleone di Suasa, il sito archeologico. La vecchia osteria ora si chiama
«condotta slow-food», la casa della nonna bed and breakfast, le aree industriali
dismesse sono riconvertite, gli outlet
portano un turismo che aiuta a posizionare meglio le Marche sulla cartina. Arrivano olandesi, inglesi, francesi, americani, trovano un piccolo mondo antico che
non spaventa, capace spesso di saltare
nella modernità. Una periferia creativa,
che non perde il sapore di sale: di notte a
Fano si va a bere «la moretta» al porto,
con i pescatori. Questa il New York Times
se l’è persa. Piccole comunità di artisti
crescono, a room of one’s own, scriveva
Virginia Woolf, una stanza tutta per sé,
questo sono le Marche. A Piticchio si è
trasferito Woldemar Nelsson, direttore
d’orchestra russo, sta cercando casa attorno ad Arcevia la violoncellista Natalia
Gutman, Eliseo Mattiacci, scultore, sta
fuori Pesaro, dove è arrivato anche il pittore argentino Abel Zeltman, Patrizia
Molinari, artista, è spesso sulle colline di
Senigallia. Lo sviluppo dell’aeroporto di
Falconara, scalo di voli low-cost, facilita
i trasferimenti e gli inserimenti.
Cambia la collina, ma anche la costa.
Senigallia è una rotonda del 1932 (chiusa) sul mare. Era la vacanza di famiglia,
mare basso e bambini piccoli. Vongole e
bomboloni. La pensione Regina, gli zoccoli di legno, Bibo che insegna a prendere i cannelli. Le partite di pallone al campo degli ebrei con lo slalom tra le vecchie
tombe. Senigallia, mezza ebrea mezza
canaglia. L’ermetica malinconia di Renato Sellani al piano, il minuto felice di
Renato Cesarini che restò alla storia con
la sua zona, anche se lui la vita la fregò solo una volta al 90’. Barche e pescatori come la formazione del Brasile: Baldon, Bibalin, Milon, Muligon. Posto così poco
sospettabile di perversione e di eversione che le Br negli anni Settanta ci facevano le runioni. Casa del cardinale Mastai
Ferretti, Pio IX, papa più longevo della
storia. E del fotografo Mario Giacomelli,
che esponeva con successo a New York i
pretini che giocano sotto la neve, la campagna solcata da rughe, ma campava
con una piccola tipografia dietro al Comune. E diede scandalo con una mostra
all’ospizio che denudava quello che resta della vita: corpi e facce segnati, devastati dai tatuaggi del tempo, titolo preso
in prestito da Pavese «Verrà la morte e
avrà i tuoi occhi». Spersi, malati, lontani.
A Senigallia in vacanza Francesco De
Gregori usciva di notte in mare con i pescatori e al pomeriggio giocava a pingpong e a pallone (senza tirare i calci di rigore) mentre in torneo Adriano Panatta
di notte usciva con le ragazze. L’Adriatico era il mare dell’Italia non aristocratica, quella che non vestiva alla marinara,
gli Agnelli a Forte dei Marmi erano il lato
a, appunto. L’infinito era dei contadini, i
turisti preferivano la sabbia. Ora uomini
e paesaggi sono cambiati. A Senigallia
vai al Lab, un bar che potrebbe stare a
Londra, gestito dal campione di tennistavolo Massimo Costantini e da sua
moglie Paola, dove Romano Bonacossi
serve cocktail a tedeschi, inglesi, americani che fanno notte chiedendo consigli
su orti e vigne. Hanno comprato la terra,
adesso seminano. L’aia lascia il posto all’uliveto. Gli stranieri aggiustano e restaurano, fanno venire le stufe dalla Germania. Non vogliono di più, vogliono
quello: un po’ di dolcezza timida, un posto all’ombra, una buona ragione per restare, a prezzi decenti. Saranno mica tutti pazzi ‘sti stranieri? Così si mettono a risistemare anche gli italiani, vedi la vecchia fornace a Serra dei Conti. Nascono i
centri benessere al posto di alberghi e sanatori. La cucina fa il resto: Moreno Cedroni alla Madonnina del Pescatore,
Mauro Uliassi al porto. Il glamour di alto
livello a tavola, ma anche a servizio degli
altri: il pranzo di Natale per i non vedenti e per i matti. Il “Susci” all’italiana di Cedroni, le sue scatolette partono per il
mondo, con il marchio Anikò (in dialetto senigallese, tutte le cose, ogni cosa)
che è anche un chiosco di cucina con la
tradizione dello street food. Uliassi conferma che la legione straniera è aumentata. «Di un 15 per cento. Sono quelli di
fuori a darci entusiasmo». Cristiana Colli che da anni si occupa di monitorare le
Marche parla di realtà glocal, di qualità
del territorio, innovazione del contenuto, della forma, dell’organizzazione. Senigallia prima era bella solo d’estate, ora
cerca di truccarsi anche fuori stagione.
L’entroterra è cambiato, dalle colline i
nuovi residenti chiedono disponibilità.
Non sempre è dolce naufragare. Tra poco il rinnovato hotel City, aperto tutto
l’anno, aprirà un nuovo ristorante con lo
chef (Paolo Brugiatelli), passato anche
lui dalla scuola alberghiera Panzini. Anche se il direttore Luca Meggiorin dice
che la Toscana ha un’altra mentalità e
cultura, cosa che ripetono anche Andrea
Olivetti e l’architetto Fabio Ceccarelli.
«Le Marche non hanno l’eccellenza. Ci
divide il passato: noi con il papa re, loro
con il granducato di Toscana «. Il lato b,
che prova a rovesciarsi. A cambiare faccia. La collina che sceglie un’altra pettinatura, che prova a non essere più gregaria. Sempre caro mi è.
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Generali che guidano taxi, duchesse che fanno le cameriere, intellettuali
in tuta da operaio al lavoro nelle fabbriche Renault: è la difficile vita
quotidiana delle “canaglie bianche”, gli uomini e le donne arrivati
a Parigi per evitare le persecuzioni bolsceviche dopo la caduta
degli zar. I libri fotografici di André Korliakovriportano
alla luce la loro epopea. Che l’Europa tende a rimuovere
Fugadalla
Rivoluzione
SANDRO VIOLA
A
PARIGI
nche qui, nella cattedrale ortodossa di
rue Daru, il ricordo
degli émigrés — i tre
milioni di russi che fuggirono tra il
1918 e il 1925 dalle fucilazioni bolsceviche — s’è ormai appannato. La
chiesa intitolata ad Alexandr Nevskij
è piena, e la liturgia domenicale resta
solenne come sempre. Gli ori dell’iconostasi brillano alla luce tremolante
delle candele, le voci del coro si fondono con quelle baritonali di sacerdoti e
diaconi, i fedeli vanno e vengono più
volte (prima l’inchino sino a terra, poi il
bacio) dall’icona. Ma dall’ultima volta
che avevo messo piede nell’Alexandr
Nevskij, una trentina d’anni fa, il colpo
d’occhio è molto cambiato.
Allora, era facile riconoscere negli
anziani che affollavano la cattedrale i
discendenti degli émigrés rifugiatisi a
Parigi dopo la rivoluzione d’ottobre.
Settantenni nati in Russia e giunti bambini o addirittura in fasce con i genitori
fuggiaschi, e cinquantenni nati nell’esilio e poi divenuti, insieme ai figli e ai
nipoti, di nazionalità francese. Le
schiene erette, le barbe alla Nicola II e
gli abiti dignitosi degli uomini, i bei
profili e le pettinature composte delle
donne ancora evocavano gli anni Venti e Trenta, quando la domenica i russi
di Parigi convenivano in folla a rue Daru (compresi i laici come Stravinskij)
per ritrovare una traccia, un’immagine
della patria perduta. Mentre adesso le
figure riconducibili a quel mondo, a
quella specie di “nazione ombra” che
fu la Russia dei profughi dal comunismo, sono rare. E il resto dei volti che
vedo sono di ben altri russi — nouveaux
riches, trafficanti — e soprattutto d’altri ortodossi: uomini di fatica e cameriere ucraini, bulgari, rumeni.
Se si sono appannate persino sotto le
cupole dell’Alexandr Nevskij, è segno
che le memorie dell’emigrazione russa, una delle grandi tragedie del Novecento, rischiano ormai di svanire. E’ vero che in Russia, dove nel settantennio
sovietico l’argomento non poteva neppure essere nominato, un gruppo di
giovani storici sta adesso lavorando a
ricostruire la vicenda: e in particolare
quello che per i russi è il suo aspetto più
catastrofico e lacerante, vale a dire l’esodo, dinanzi all’incalzare del Terrore
leninista, dei due terzi dell’intelligencija pietroburghese e moscovita del
tempo, esodo che lasciò tramortita per
molti decenni la cultura russa. Ed è vero che un certo interesse storico c’è anche negli Stati Uniti, dove nelle biblioteche di due o tre università si continuano a raccogliere documenti, memorie e testimonianze.
Ma in Europa gli studi languono, l’interesse declina. Ne parlo qui a Parigi
con Nikita Struve, slavista all’università
di Nanterre e nipote di una delle figure
di maggiore spicco nell’emigrazione, lo
storico Petr Berngardovic Struve. E insieme conveniamo su un punto: in Europa non s’è ancora del tutto cancellato
il marchio d’infamia con cui i partiti co-
La storia dimenticata degli émigrés russi
munisti, e gli intellettuali che ne battevano la grancassa, bollarono già negli
anni Venti, imbeccati da Mosca, gli émigrés. Per i comunisti europei gli émigrés
furono infatti da subito, e tali restarono
sin verso i Settanta, “la canaglia Bianca”. Bande di reazionari e “affamatori
del popolo” attorno ai quali alzare un
muro di sospetti e di silenzio, così da
non consentire a chi era stato testimone della catastrofe abbattutasi sulla
Russia di smascherare la propaganda
sovietica. E, stranamente, quel silenzio
dura ancora. Infatti in Italia, volendo fare un esempio, nei cataloghi delle maggiori case editrici non figura un solo libro sull’emigrazione russa.
Sì, in Europa le memorie di quella
tragedia sono in gran parte svanite. A
Berlino, a Praga e a Belgrado, che con
Parigi furono i centri dell’emigrazione
in Occidente, non resta più nulla o quasi. La guerra, e poi l’avvento dei comunisti in Cecoslovacchia e in Jugoslavia,
hanno quasi completamente disperso
l’enorme quantità di documenti che vi
era rimasta sino ai Quaranta. I giornali,
le riviste letterarie, i libri che gli émigrés
pubblicavano in russo, i diari e memoriali dei singoli, gli elenchi delle associazioni politiche e culturali. E se qualcosa resta, bisogna cercarla nei cimiteri. Come a Praga, dove al cimitero di Olsany, di fianco al settore ebraico, c’è un
settore russo: una piccola chiesa ortodossa, e tutt’attorno tombe di ufficiali
Bianchi e maestri di canto, docenti di fisica e medievalisti, sino al cippo di pietra grigia su cui un paio di mesi fa ho visto inciso il nome di Helena Nabokova,
la madre di Vladimir Nabokov.
Così, è solo a Parigi che la memoria
dell’emigrazione, benché sbiadita, ancora sopravvive. Ancora vi rimangono
— tra ristrettezze finanziarie e canizie
dei curatori — pochi superstiti ritagli di
quella che fu chiamata la “Piccola Russia”, i luoghi più frequentati dagli esuli.
La cattedrale di rue Daru, la libreria Ymca a rue de la Montagne Sainte-Geneviève, la biblioteca Turgeniev, e soprattutto il commovente cimitero di SainteGeneviève-des-bois, dove sono sepolti
granduchi e grandi scrittori, uomini di
stato e attori dei teatri Imperiali, atamani cosacchi e colonnelli delle Armate Bianche, il comandante delle Guardie a cavallo dell’imperatrice Maria e il
principe Yussupov, dame di corte e filosofi, danzatori, musicisti, coreografi.
Non a caso è a Parigi che sono apparsi nell’ultimo paio d’anni i libri fotografici di André Korliakov. La storia di Korliakov, come lui stesso me la racconta,
è singolare. Cittadino sovietico (l’Urss
non era ancora crollata), giunge a Parigi nel 1990 a specializzarsi in lingua e
letteratura spagnola. Ha una trentina
d’anni, è laureato all’università di Eka-
terinenburg, ma degli émigrés e delle
loro sventure non ha mai sentito parlare. Poi, un giorno, qualcuno lo conduce
al cimitero di Sainte-Geneviève, e la vista di quelle tombe lo sconvolge. Comincia a visitare gli ultimi ottantenni
dell’emigrazione, guarda le fotografie
ingiallite che essi cavano dai cassetti,
ne ascolta i ricordi. E a quel punto decide di dedicarsi alla storia — o meglio,
all’iconografia — dei profughi russi in
Francia. Si stabilisce a Parigi, man mano copia tutte le fotografie disponibili,
e ne compone tre libri stupendi.
In nessuno dei testi sugli émigrés che
ho letto negli ultimi vent’anni (neppure nel più ricco e vivo di tutti, “Il corsivo
è mio” di Nina Berberova), si colgono
infatti i lineamenti antropologici dell’emigrazione russa post-17, e il pathos
dell’esilio, in modo così nitido e quasi
palpabile come li si può cogliere nelle
fotografie raccolte da Korliakov. Intanto, la diversità della composizione sociale nei confronti delle altre grandi migrazioni dell’Otto e Novecento. Perché
la maggioranza degli émigrés era formata da borghesi d’istruzione superiore, universitari, funzionari pubblici,
grossi, medi e piccoli commercianti,
imprenditori, tecnici e contabili, intellettuali, artisti, aristocratici. Gente,
gruppi sociali che di solito non emigrano, e quando succede che lo facciano
per ragioni politiche, lo fanno in numero assai ridotto e non in massa.
Certo, tra gli esuli c’erano anche molte decine di migliaia di cosacchi ed ex
contadini semianalfabeti, che avevano
combattuto nelle Armate Bianche, e
poi evacuati dalla Crimea — con la disfatta dell’esercito di Wrangel alla fine
del 1920 — su navi inglesi, francesi, italiane: e costoro possono essere paragonati ai braccianti che nei decenni appe-
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
na precedenti s’erano riversati dall’Europa nelle Americhe. Ma la norma,
quando nei paesi dell’esilio i profughi
russi entravano in contatto prima con
un funzionario di frontiera o un poliziotto, e poi con gli abitanti dei quartieri poveri dove andavano a stabilirsi, era
che il profugo fosse socialmente e culturalmente superiore rispetto alla piccola burocrazia locale e alle altre famiglie del proprio caseggiato. Dal che discendeva un’altra norma: vale a dire
che oltre all’indigenza e allo strazio dello sradicamento, gli esuli dovettero subire la pena inconsolabile dei declassati. “Pas de chiens, pas de chats, pas de
russes”, dicevano i cartelli esposti in
molti androni dei caseggiati popolari.
L’esodo degli profughi ebbe dunque
due effetti disastrosi, uno per la Russia
e l’altro per gli émigrés stessi: da un lato
la terribile emorragia di competenze e
talenti, una perdita da cui la società
russa non si è mai più ripresa; e dall’altro lato il calvario d’una intera generazione di professionisti, docenti, artisti e
pensatori dispersi nei paesi di mezzo
mondo, dalla Manciuria all’Europa
centro-occidentale e al Canada. Un
universo di declassati, appunto, costretti ad ogni sorta di mestieri che non
avevano mai immaginato di fare: la
prostituzione delle donne compresa,
come si legge nelle pagine di Kessel,
Morand, Cendrars, Benoit e Tanizaki.
Eccoli, nelle foto dei libri di Korliakov, quei mestieri. I generali e colonnelli al volante dei taxi parigini, i camerieri, le ballerine e i corpi di ballo cosacchi nei cabarets russi a Pigalle (il Caveau caucasien, lo Sherahazade, la
Troika, lo Yar), le contesse divenute entraineuses, i medici delle Armate di Denikin, Kolciak e Wrangel degradati a infermieri, i brillanti ufficiali della Guardia della Zarina divenuti operai alla Renault di Billancourt. E si tratta soltanto
d’un campionario delle attività degli
emigrati, perché di tante altre non esistono, o si sono perdute, le fotografie.
La cosa certa è che la miseria non con-
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
‘‘
Nina Berberova
Io non ho i resti di una casa distrutta,
nel cui ricordo trovare conforto
nei momenti difficili […] vivo senza
basi, senza armi, senza essere allenata
né alla difesa né all’attacco, senza
tribù, senza terra natia, senza partito
politico, senza dei né tombe degli avi
Da Il CORSIVO È MIO, Adelphi edizioni
LA VITA IN ESILIO
Qui sopra, una
cerimonia russa a
Menton. Nella foto
grande,
l’orchestra
“domra”. In alto
a destra, cosacchi
in posa prima di
uno spettacolo e,
più sotto, la
contessa
Hagondokoff,
indossatrice.
Nell’altra pagina,
la locandina del
“Shéhérazade”, il
cabaret degli
“émigrés”
sentiva agli émigrésdi rifiutare alcun lavoro. Il pianista uscito dai corsi di Rimskij-Korsakov al conservatorio di Pietroburgo suonava nei cinema del film
muto, a dirigere la sala da tè Tierem
Boyard c’erano la granduchessa Xenia
e la figlia del granduca Paolo assassinato dai bolscevichi, Elsa Triolet infilava
collane, Nina Berberova cuciva tovaglie col punto a croce.
Ma l’emigrazione russa dei Venti e
Trenta ebbe un’altra caratteristica, e
anche questa emerge dalle foto dei libri di André Korliakov. Proprio per la
varietà della sua composizione, essa
formò nei paesi dell’esilio — a Costantinopoli, Berlino e Praga nella prima
fase, ma soprattutto e più durevolmente a Parigi, dove i profughi erano
circa 50.000 — una costellazione di
piccole “società” russe. Non solo spicchi di patria con le loro cerimonie religiose, orchestrine e salumerie, che è
cosa comune in tutte le emigrazioni:
bensì vita sociale, circoli culturali,
scuole, librerie, letture di poesia,
esposizioni di pittura. E soprattutto
editoria. Quotidiani, settimanali, riviste letterarie mensili e trimestrali: ben
160 periodici apparsi tra il ‘25 e il ‘31,
per non parlare dei libri.
Vladimir Nabokov fu severo, nei confronti della tenacia con cui gli émigrés si
sforzavano di conservare intatta l’identità russa: in patria il comunismo
aveva definitivamente trionfato, e
dunque quei «tentativi di far rivivere
una civiltà ormai morta» erano vacui,
velleitari. Ma credo che il giudizio sia
inesatto. I profughi della “piccola Russia” parigina intendevano dimostrare
che il senso della tradizione, i valori, la
dignità russi — in Russia essendo stati
stravolti o cancellati dalla barbarie comunista — sopravvivevano adesso soltanto nell’esilio. Sicché la sola, vera
Russia ancora in vita era quella abroad,
fuori dai suoi confini geografici.
Almeno in termini di continuità e
omogeneità culturale, quest’ambizione si realizzò. Precarie, a volte di
breve durata, quattro o cinque case
editrici varate dagli émigrés pubblicavano i classici russi, e saggi filosofici,
romanzi, poesie degli autori in esilio.
Quanto ai giornali, ne nascevano e
morivano continuamente: ma due
durarono — consentendo a tanti
scrittori ed intellettuali dell’emigrazione (Nabokov incluso) di ricavare
dai loro articoli il po’ con cui sfamarsi
— sino al ‘40. Il liberale Poslednie novosti (Ultime notizie) diretto da Pavel
Miliukov, e il Vozroshdenie (Rinascita) della destra monarchica.
Poslednie novosti vendeva 25.000
copie e l’altro 15.000. Erano i soli giornali a dare notizie certe su quel che stava avvenendo nell’Urss — le carestie, i
crimini della polizia politica, i processi staliniani — ma per l’Humanité e
l’altra stampa comunista erano “covi
fascisti”, “centrali della propaganda
zarista”. Ambedue i quotidiani avevano un supplemento letterario settimanale con le firme illustri della generazione di scrittori, poeti e saggisti che
avevano fatto parte dell’“età d’argento”, la grande stagione culturale della
Russia anteguerra: Bunin, Aldanov,
Balmont, Cvetaeva, Chodasevic, Remizov, Berdiaev, Merezhkovskij. Ma
la pubblicazione culturale più prestigiosa era poi Sovremennye zapiski
(Annali contemporanei), anch’essa
durata un intero ventennio.
La vita associativa degli émigrés era
intensa. Gli ufficiali dei vari reggimenti, gli scrittori, i giornalisti, i docenti
universitari, i cosacchi, i pensatori religiosi, gli operai della Renault e quelli
della Citroen, gli autisti dei taxi (che
erano circa duemila, raccolti nell’Union des chauffeurs russes de Paris),
tutti avevano i loro circoli, riunioni,
pranzi sociali. Altri pranzi venivano organizzati per le attività di beneficenza a
favore di vedove e orfani di ufficiali e
soldati. Infine c’erano i balli della Croce Rossa, quelli per finanziare gli ospizi
dei vecchi e quelli per soccorrere i poeti e pittori più poveri. Una sottile fetta
dell’emigrazione era composta infatti
da persone ancora abbienti (qualche
aristocratico, i coreografi, scenografi e
danzatori dei Ballets russes, i petrolieri
Montasev e Cernoev) che accorrevano
puntuali ad assicurare un buon incasso alle feste di beneficenza.
Qual era il sentimento che spingeva
gli émigrés — malgrado le divisioni politiche e le polemiche letterarie — a
mantenersi così ostinatamente russi, a
mimare nell’esilio la vita di Pietroburgo e Mosca? Lo chiedo a Korliakov, al
professor Struve e alla curatrice della
biblioteca Turgenev, madame Tania
Glaskova. E le loro risposte sono simili:
era il pensiero, la speranza del ritorno.
«In un certo senso», dice Korliakov,
«vissero seduti sulle loro valigie, aspettando il momento di rientrare in patria.
Arrivato a Parigi dopo la disfatta di Crimea, il generale barone Wrangel li aveva rincuorati: il bolscevismo morirà,
disse, ma la Russia continuerà a vivere.
Sostanzialmente aveva ragione. Solo
che il comunismo ci mise, per morire,
ancora settant’anni».
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Tribù lontane
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Il Mali custodisce il segreto dei Dogon, l’etnia che abita
in un luogo incantato del continente nero, ai piedi della falesia
di Bandiagara. E che è depositaria di una cultura così
straordinaria, nonostante secoli di isolamento assoluto,
da attirare generazioni di antropologi. Una stirpe “magica”
a cui il fotografo Alain Volut dedica il suo nuovo libro
Il popolo nascosto
PIETRO VERONESE
M
olti bei libri sono stati scritti per spiegare perché, nella storia dell’umanità, alcune civiltà hanno avuto più successo
delle altre nel liberare l’uomo dal bisogno, nell’assicurarne il benessere e allontanarne la morte. Nessuno però, che
io conosca, spiega perché un popolo ha più cultura di un
altro. Perché si spinge più in là nel creare parole per indicare le cose; nello spiegare a se stesso l’origine del mondo
e della vita; nel rappresentare un Dio complesso e grandioso; nell’osservare l’universo, le leggi occulte che lo governano, le misteriose corrispondenze che esso sembra
rivelare a chi l’osserva con profondità; nell’imporre all’uomo complessi rituali che meglio lo aiutino a capire il
proprio posto nel creato.
Se un simile libro esistesse, di certo dovrebbe indagare
il segreto dei Dogon, etnia africana che abita uno dei luoghi più impressionanti e incantati del continente ed è — o
forse dovremmo dire “è stata”, considerata la rapidità con
cui tutto oggi si trasforma e si perde — depositaria di una
cultura straordinaria.
I Dogon sono oggi circa 250 mila persone. Molti secoli fa,
intorno al volgere del trascorso millennio, essi si stabilirono ai piedi della grande falesia di Bandiagara, all’interno
dei confini del moderno Mali. Già la scelta di questo luogo,
che peraltro essi trovarono già abitato, è straordinaria.
La storia degli uomini nell’immenso bacino del Niger è
da sempre abbracciata, cullata, scandita, segnata dalle cicliche piene del fiume, che attraversa il Mali da sud a nord
disegnando la vastissima ansa dopo la quale torna a volgere verso il Golfo di Guinea. L’acqua, col suo lentissimo battito, col suo andare e venire due volte ogni anno, dispensa
la vita e ha plasmato la società umana a sua immagine. I bozo pescano, i bambara coltivano, i peul allevano, i songhai
commerciano. Ciascun gruppo inchinandosi al volere del
fiume, lasciando che il suo fluire determini il tempo del gettare e levare le reti, della semina e del raccolto, del pascolo
e della transumanza, della navigazione verso il mare oppure, a seguire la corrente, verso il deserto.
Ma i Dogon si posero a margine di tutto questo. Forse vedendo nella difesa, piuttosto che nei frutti della natura, il
principale fattore di sopravvivenza — o forse nell’estetica,
prima che nell’economia — presero dimora in un luogo che
colpisce per la sua bellezza e per la sua inospitalità. Rimasero al bordo della vasta comunità saheliana, lontani dalle
fertili pianure e dalla grande, liquida via di comunicazione,
in un rifugio roccioso isolato, pressoché inaccessibile.
Quando si arriva a Bandiagara da occidente, cioè dalla
piana del fiume, la presenza della sua grande falesia è insospettabile. Il terreno si eleva a poco a poco, facendosi roccioso e caldo sotto i raggi del sole. Il paese dei Dogon si presenta piuttosto come un altopiano. E poi, d’un tratto, è come se la terra sprofondasse e lo sguardo, che fino a un attimo prima seguiva verso l’alto la pendenza del terreno, tracolla in un lontano infinito, un verde punteggiato d’acacie
che si perde in un orizzonte vastissimo. Il mondo scompare sotto i piedi e quel precipizio, quella voragine del mondo, è la falesia di Bandiagara.
La strada si fa adesso ripidissima e si incunea, si avvolge tra gole e ammassi pietrosi. In breve scende alla base
della falesia e i villaggi dei Dogon appaiono come una
shangri-la di campi di miglio e di orti nascosti tra le curve
dell’incombente parete rocciosa. Stanno acquattati al riparo delle sue pieghe, come addossati ad essa, in una posizione estrema, senza ulteriore via di fuga. Ma così non è,
perché quel baluardo naturale è solcato da mille fessure,
U
na Genesi africana, una mitologia illustrata. È il senso
profondo del viaggio compiuto dal fotografo francese Alain
Volut tra i Dogon del Mali, il popolo
più famoso della storia dell’antropologia. Schiacciati sulla terra da
una natura ostile, arida, lunare,
condannati apparentemente a non
essere altro che nuda vita, questi
uomini hanno concepito una cosmogonia degna di Esiodo, un pensiero capace di altezze vertiginose
come la falesia di Bandiagara, l’abisso di pietra che sovrasta la loro
terra. Fotografare una filosofia sembra impossibile. Eppure Volut riesce a farlo, il suo obiettivo cattura i
principi stessi dell’animismo africano. Dove il divino si nasconde in
ogni essere, animato e inanimato. E
dove il senso ultimo della realtà non
è mai astratto e trascendente ma
profondamente concreto, perché
nasce dalla materia stessa. Una lente eraclitea sembra ispirare lo
sguardo di Alain Volut nel suo viaggio alle sorgenti della vita Dogon,
dove una circolarità perpetua abbraccia uomini e cose, vita e morte
in una catena infinita di metamorfosi che termina proprio lì dove
tutto inizia, in quel punto del circolo in cui, come diceva Eraclito,
«principio e fine fanno uno». In
quella curvatura senza intervalli la
madre materia assoggetta alle sue
leggi imperiose uomini e dei. È proprio il segreto della generazione che
gli scatti del fotografo francese fissano al di là di ogni spiegazione. Un
bambino con alle spalle le statue degli antenati, sembra suggerire l’appartenenza di ogni nascita alla morte, un’ancestralizzazione del vivente incisa nelle pieghe di una natura
custode e maestra di forme. Come
Immagini
che catturano
una Genesi
africana
MARINO NIOLA
nell’immagine di un bambino che
dorme sotto gli occhi di una madre
di scuro basalto o l’altra del piccolo
che viene alla luce aggrappandosi
alle pieghe fossili di un immenso,
gulliveriano seno di pietra. L’occhio
dell’artista si addentra in questo intrico scomponendo la metafora della generazione in figure che hanno
la potenza iconica degli enigmi.
Una donna con in mano un fuso fila
il destino del figlio, quasi a misurarne l’arco vitale, la distanza tra la culla e la tomba. O ancora un bambino
che sembra far corpo con un anziano, formando quasi un blocco unico scolpito nel legno: qui l’obiettivo
di Volut fotografa letteralmente la
discendenza facendo balenare l’unità dimenticata tra una parola
astratta come lignaggio e la materialità della linea, ovvero la cordicella di lino che serviva come strumento di misura. L’uno e l’altra
scansioni di un tempo che si consuma proprio come il legno delle statue dei feticci o la fibra intrecciata
delle cordicelle sacre che per i Do-
Sono rimasti indisturbati,
in un rifugio di rocce
quasi inaccessibile. Solo
negli anni ’30 l’uomo bianco
li ha “scoperti” e ha iniziato
a interrogarsi sul loro mistero
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
SULLE SPONDE DEL NIGER
Il Mali si trova alle porte dell’Africa nera, ma è il deserto
che occupa la maggior parte del territorio. Si possono contare
almeno 20 etnie, oltre ai Dogon, che conservano ciascuna
il proprio idioma e i propri costumi. Tra questi, i Bamana
o Bambara sono il gruppo più numeroso; i Tuareg si muovono
lungo le piste del Sahara, mentre i Bozo, dediti alla pesca,
occupano il delta del Niger e i Songhai vivono di agricoltura.
(Le foto in queste pagine sono tratte dal libro fotografico
di Alain Volut, “Terra Natale”, edito da Peliti Associati)
nel cuore della terra
gon simboleggiano la vita. Volut
sembra addirittura mettersi dal
punto di vista della morte quando,
nel funerale di un dignitario, con un
solo scatto rivela in un vecchio che
regge il ramo biforcato quella che
per questi uomini è la forma segreta della realtà, la vita che nasce dalla terra e si apre in infiniti rami.
Simbolo di una divisione che unisce, così come la stessa falesia di
Bandiagara, la faglia che incide
profondamente la terra e l’anima
Dogon. Qui tutto suggerisce una
parentela segreta tra l’abitare e l’essere. Le fenditure che tagliano la
roccia, le figure umane che le ridiscendono e le risalgono incessantemente. Le arterie di questo organismo di pietra vivente sono i cunicoli di roccia che servono insieme da
sentieri e da cimiteri, connessioni
dello spazio e del tempo. Queste cavità sono dei passages che mettono
in comunicazione i vivi senza dimenticare quanto essi siano cosa
dei morti. In Mali il tempo è materia
che si consuma e Volut riesce a far-
ci vedere le fibre stesse della sostanza temporale. Il braccio raggrinzito di una vecchia disseccata,
neanche più donna, esibisce il residuo ormai fossile della vita. Un vecchio dignitario rugoso come una
corteccia d’albero, di una decrepitezza allegorica da san Girolamo
africano, fotografa la mortalità costitutiva del vivente. Come le Kanaga, le celebri maschere che rappresentano insieme l’umano e l’inumano. E i granai antropomorfi che
evocano il volto e insieme lo negano, o meglio lo svisano. Riconducendo la condizione umana alle impalcature ultime dell’essere dalle
quali la vita riprende a farsi strada.
Simbolo di un nuovo inizio è proprio una bambina che sembra uscire dalle porte dell’ombra portando
sulla testa una scodella piena di
Nommo, l’acqua che, secondo la
credenza Dogon, fa rinascere gli dei
e ridà anime alla terra. Alain Volut si
cala nel mistero di questa cultura
con il fiuto dell’antropologo messo
al servizio di uno stupore poetico
capace di fissare l’attimo fuggente
in cui la verità scintilla in un volto o
in un corpo. Per poi tornare a rinchiudersi nel suo velo. In questo
modo Volut fa sua la lezione di Ogotemmeli, il profeta cieco che negli
anni trenta rivelò a Marcel Griaule i
segreti di questa cosmogonia. All’antropologo che gli chiedeva perché nel santuario dei feticci gli oggetti fossero così sparpagliati da
renderne indecifrabile il senso, l’Omero africano rispondeva: «Il disordine degli oggetti serve per nasconderne il segreto a coloro che
vorrebbero comprenderlo».
L’autore insegna antropologia
culturale all’Università
Suor Orsola Benincasa di Napoli
Non sanno scrivere
ma si trasmettono un sapere molto
complesso. La loro conoscenza
astronomica è stata spiegata
da alcuni addirittura ipotizzando
un remoto sbarco di extraterrestri
canyon, passaggi segreti che danno accesso al mondo nascosto dei Dogon. Essi vivono in prossimità delle viscere
della terra, in un habitat che sembra mettere in comunicazione il mondo degli inferi con quello dei viventi e continuamente trapassa dalla luce abbagliante del sole all’umida oscurità del sottosuolo.
Quando i Dogon si insediarono qui ne scacciarono — o
forse trovarono la falesia già abbandonata — un popolo cavernicolo, che aveva avuto costume di seppellire i propri
defunti in anfratti rocciosi sospesi a circa metà altezza della strapiombante parete. Quelle necropoli a mezz’aria vennero integrate nella visione del mondo che hanno i Dogon,
la quale è rovesciata rispetto alla nostra. Per loro il mondo
dei morti non è sotterraneo, bensì interposto tra i vivi e i
grandi spazi celesti.
Per circa mille anni i Dogon abitarono la falesia di Bandiagara indisturbati dal resto del mondo. Furono tra gli ultimi popoli africani ad essere “scoperti” dall’uomo bianco e
forse questo è un segno della loro lungimiranza nello scegliere per dimora quel luogo remoto. Tra i primi europei ad
arrivare alla falesia furono i membri della spedizione DakarGibuti, la quale si proponeva di attraversare quella che era
all’epoca l’Africa occidentale francese partendo dalla costa
atlantica e raggiungendo a est l’Oceano Indiano.
Così l’antropologo Marcel Griaule, negli anni ‘30 del secolo scorso, conobbe i Dogon e dedicò a loro il resto della
sua vita. Ne indagò usi, costumi, credenze, le straordinarie conoscenze astronomiche, la complessa cosmogonia,
la religione monoteistica che ha al suo vertice un Dio antropomorfo il quale dà forma all’intero creato. Scoprì il
simbolismo universale che accompagna ed ispira tutto il
loro stare al mondo, dai gesti all’architettura, al continuo
parallelismo tra uomo e natura. Studiò tutto questo e solo alla fine, dopo molti e molti anni interrotti solo dal secondo conflitto mondiale, fu ammesso alla confidenza di
Ogotemmeli, l’anziano cacciatore cieco che aveva deciso
di svelargli i segreti dei Dogon. Ne nacque il celebre libro
Dio d’acqua, capolavoro delle scienze umane, pubblicato
nel 1948 e sempre ristampato.
Oggi i Dogon sono meta turistica. La loro povertà imbarazza, lo sporco dei giacigli che offrono al viandante fa un
poco spavento, ma la loro identità, minacciata da ogni lato, ancora resiste. I loro villaggi ai piedi della falesia restano vivi. La maestosa bellezza dei luoghi che essi abitano è
intatta. Sono diventati un mito per i cacciatori di Ufo, i
quali non sanno spiegarsi la loro sapienza astrologica (i
Dogon conoscono da sempre una stella, Sirio B, che solo
in epoca moderna i telescopi sono riusciti a vedere) se non
ipotizzando l’atterraggio tra di loro di un’astronave in secoli remoti. Poveri Dogon.
Noi crediamo oggi di sapere tutto di loro, ma il mistero
della loro cultura rimane insoluto. Perché i Dogon si sono
tramandati di generazione in generazione, di bocca in bocca (essi non conoscono la scrittura) un sapere così sofisticato e complesso? Ma siamo poi così sicuri che i tellem, i
precedenti abitanti della falesia, fossero più rozzi e primitivi? E che non ci siano per l’Africa ancor oggi cosmogonie
non meno raffinate, simbolismi non meno profondi, lingue non meno ricche, che stanno semplicemente andando per sempre perdute prima di aver avuto la fortuna di imbattersi nel rispetto di un Marcel Griaule? O magari non è
stata fortuna, ma un attimo preparato da secoli, fin dal giorno in cui la saggezza degli antenati li portò ai piedi della falesia, di quel luogo unico al mondo, scegliendolo come il
posto migliore nel quale porsi in attesa dell’arrivo dell’altro. Forse il mistero dei Dogon è soltanto questo, un insondabile, molto umano mistero: aver saputo ispirare lo
sguardo con il quale li abbiamo infine guardati.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
FOTO JAWS/STEVEN SPIELBERG PRODUCTION
Trent’anni fa usciva nelle sale “Lo Squalo”, seguito poco
dopo da “Guerre Stellari”. Erano nati i primi
“blockbuster”: film estivi, distribuiti a tappeto,
accompagnati da gadget e campagne pubblicitarie, destinati a fare incassi
da capogiro. Ma soprattutto capaci di rivoluzionare il cinema. Che i due registi,
non a caso, dominano ancora con i loro ultimi lavori
Hollywood
Nato a Cincinnati nel 1946, è uno
dei registi più famosi del mondo. Nella
sua lunga carriera (Duel, il suo primo
film, è del ‘72) ha diretto parecchi
di kolossal campioni d’incasso
ANTONIO MONDA
S
NEW YORK
ono passati trent’anni da
quando la musica di John
Williams ha accompagnato
gli assalti dello squalo bianco sulle spiagge di una tranquilla cittadina del New England, e ventotto da
quando ha celebrato per la prima volta
il trionfo di Luke Skywalker su Darth
Vader ed il lato oscuro della forza. Il clamoroso successo commerciale che salutò sin dal debutto Lo Squalo
e Guerre Stellari cambiò per
sempre, e in maniera irreversibile, l’industria hollywoodiana, ridisegnando la strategia dei “summer movies” e
originando il concetto di
“blockbuster”.
Steven Spielberg e George
Lucas, entrambi al terzo film,
diventarono nel giro di poche
settimane gli indiscussi imperatori di Hollywood, e continuarono ad avvalersi della collaborazione di Williams, che
ha raggiunto in seguito un totale di quarantadue candidature all’Oscar e cinque vittorie.
Sono molteplici le considerazioni che si possono fare a margine di
quella evoluzione industriale che mutò
geneticamente Hollywood, ma il dato
che risulta oggi maggiormente impressionante è che a distanza di tre decenni
sono ancora gli stessi due registi a proporre i film più attesi della stagione: se
Spielberg realizza il remake di un classico di fantascienza come La guerra dei
mondi dopo aver affrontato temi disparati quali l’Olocausto, la schiavitù e la Seconda guerra mondiale, Lucas continua
a riproporre il continuo ritorno dell’identico, con il sesto e (forse) ultimo episodio della sua saga infinita, che nel suo
LO SQUALO
E.T.
SCHINDLER’S LIST
THE TERMINAL
Nel ’75 il primo grande
successo al box office
Nel 1982 enormi
incassi e tre Oscar
1993. Per molti, il suo
miglior film: 7 Oscar
Storia d’amore
aeroportuale, del 2004
INCONTRI RAVVICINATI
INDIANA JONES
IL SOLDATO RYAN
LA GUERRA DEI MONDI
Due Oscar, nel ’77, per
un film di fantascienza
Tra l’82 e l’89 dirige la
trilogia scritta da Lucas
Nel ’98 il film sullo
sbarco in Normandia
Attualmente nelle sale,
dal romanzo di Wells
astruso ordine temporale è da inserire
cronologicamente al terzo posto.
Una serie di libri usciti in America raccontano il momento cruciale in cui la
“fabbrica dei sogni” ha deciso di esaltare
l’elemento prettamente industriale della
propria anima, sottolineando tuttavia
come alcuni dei responsabili principali
di questa mutazione, a cominciare da
Spielberg, abbiano continuato a realizzare film straordinari, dimostrandosi geniali sia sul piano creativo che su quello
finanziario. Assolutamente eloquenti i
titoli scelti dagli autori Tom Shone ed
‘‘
Steven Spielberg
Molti dei film che ho girato
avrebbero funzionato
anche cinquanta anni fa,
e questo perché i miei valori
sono molto “old fashion”
FOTO ASSOCIATED PRESS
STEVEN SPIELBERG
Così Lucas & Spielberg
cambiarono i nostri sogni
Edward Jay Epstein: Blockbuster: How
Hollywood learned to stop worrying and
love the summer (Come Hollywood ha
imparato a smettere di preoccuparsi e ad
amare l’estate), e The Big Picture: The new
logic of money and power in Hollywood.
Spielberg racconta di aver compreso
che la sua vita sarebbe cambiata per
sempre quando si avvicinò incuriosito a
una fila gigantesca di fronte a un cinema
e si accorse che si trattava di gente in attesa di vedere Lo Squalo. Era il primo
giorno di programmazione, e tornato a
casa, vide in televisione che ogni notiziario parlava della “squalomania”. La lavorazione del
film era stata un incubo, e la
speranza di tutte le persone
coinvolte nel finanziamento
era quella di non perderci la
faccia, e, soprattutto, i soldi.
Non molto differenti le attese relative a Guerre Stellari:
la prima proiezione finì tra gli
sberleffi, e perfino amici
competenti come Brian De
Palma misero in guardia Lucas di prepararsi ad un fiasco
che avrebbe compromesso la
sua carriera. Se Lo Squalo
cambiò il modo di programmare il lancio dei “popcorn
movies” puntando sulla distribuzione a tappeto e su tattiche pubblicitarie basate sull’allusione e la ripetizione, Guerre Stellari inaugurò la stagione del merchandising, ed enfatizzò
le infinite potenzialità di sequel, prequel e storie parallele da sfruttare su
ogni possibile medium.
Ma per comprendere questa svolta,
non prevista dagli autori, e fortemente
auspicata dai produttori hollywoodiani,
è necessario andare indietro di qualche
anno, all’epoca della caduta dello “studio
system”. Tra la metà e la fine degli anni
sessanta non ci fu major che non ebbe la
propria razione di fiaschi colossali, dovu-
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
IERI E OGGI
A sinistra, Lucas
durante le riprese
di “Star Wars
Episode I”. Sotto,
sul set de “La
vendetta dei
Sith”. Nella
pagina a fianco,
Spielberg ai tempi
de “Lo Squalo”. In
basso con Cruise
in “Minority
Report”
Linklater: “Via col vento” era atteso quanto “Star Wars”
“Ma l’arte dei kolossal
non l’hanno inventata loro”
SILVIA BIZIO
Dunque non è cambiato niente
LOS ANGELES
rispetto agli anni Trenta?
«Molto è cambiato, ma non in riichard Linklater, il regista
ferimento ai blockbuster estivi e i
texano che dodici anni fa lanciò
kolossal popcorn. Il mutamento fa
Matthew McConaughey e Ben Afperno intorno a una nuova generafleck con il cult indipendente La vizione di registi, tra cui mi ci metto
ta è un sogno, autore di Prima delio, capaci di fare film commerciali
l’alba e Prima del tramonto sa cosenza seguire necessariamente le
me muoversi dentro e fuori lo “stuformule, o sintetizzando elementi
dio system”. Gli attori, anche quelda altri mezzi. Un film come Three
li di prima fila, fanno a gara per laKings di David O. Russell non savorare con lui.
rebbe stato possibile senza lo stile
Concorda con la teoria che il
lanciato da Mtv».
grande “blockbuster” estivo sia
Lo stesso si potrebbe
stato inventato da Spieldire di un successo degli
berg e Lucas?
anni ’60 come Easy Rider,
«No. Hollywood è semnon le sembra?
pre stata attenta e attratta
«Easy Rider catturò lo
dai grandi film. Si pensi a
spirito del tempo, facenVia col vento: quando
do confluire tutta una seuscì, con tutti quei grandi
rie di istanze politiche e
attori, c’era già un pubblisociali, la ribellione accuco pronto ad accoglierlo,
mulata nel corso del deera “pre-venduto” quancennio, la rabbia della
to La guerra dei mondi o
guerra in Vietnam, il
La vendetta dei Sith. Di
nuovo oggi c’è semmai la Richard Linklater trionfo dell’essere hippie.
È un film che ha toccato
pratica del merchandiun nervo scoperto. Un’anomalia
sing. Ma una volta i nomi di Clark
che succede di tanto in tanto a HolGable e Vivian Leigh venivano
lywood, ma non un caso clinico».
sfruttati e pompati all’inverosimile
Non pensa che film con Lo Squadagli studios, con gli stessi risultalo e il primo Guerre Stellari abbiati. E anche allora c’erano costosi
no “infantilizzato” i gusti del pubfallimenti, come Cleopatra».
blico ed esasperato le formule?
C’era la stessa attesa alla vigilia
«Niente affatto, erano originali
dell’uscita di un film?
allora come oggi, anche se in mo«Certo, Hollywood ha sempre
do diverso, sono certi film indiprodotto i film-evento, che si suppendenti come Lost in Translapone possano sorreggere l’intero
tion. La responsabilità va attribuiimpianto finanziario di uno stuta anche al grosso pubblico, che si
dio. Si va da Quo Vadis a Ben Hur:
accalca a vedere un I fantastici
grossi film con centinaia di comquattro nonostante le pessime reparse, battaglie, grande spettacocensioni e la puerilità di fondo di
lo, realizzati senza badare a spese.
un film-fumetto. In fin dei conti
Anzi, una cosa buona di oggi è che
Hollywood dà al pubblico quello
se un solo film va male non manda
che il pubblico richiede a gran voun intero studio in bancarotta, coce. È qualcosa che, chissà perché,
me è successo con I cancelli del cienon viene mai detto».
lo di Michael Cimino».
FOTO CONTRASTO/LUCAS FILM LTD
R
Nato a Modesto, in California, nel
1944. Inventore e in parte regista della
saga di Star Wars, è autore di altri
soggetti. Sua, fra l’altro, l’idea
dell’archeologo Indiana Jones
ti all’incapacità di adattamento ai nuovi
gusti del pubblico: era l’epoca del Vietnam, della rivoluzione sessuale e dell’impegno politico, ma le major, gestite ancora da mogul inesorabilmente invecchiati,
continuarono a proporre per un periodo
troppo lungo prodotti, star, generi e soprattutto idee di un’epoca passata.
Nello stesso anno di un disastro commerciale come Paint your wagon, diretto da un veterano come Joshua Logan, si
registrò il clamoroso successo internazionale di Easy Rider, realizzato da un attore che non nascondeva la propria passione per le droghe come Dennis Hopper, il figlio ribelle di un’icona hollywoodiana come Peter Fonda, e un giovane
con lo sguardo seducente e allucinato
che rispondeva al nome di Jack Nicholson. Il film entrò in sintonia con i giovani di tutto il mondo, convincendo anche
i produttori più conservatori che era necessario cambiare radicalmente direzione e adeguasi al clima dell’epoca. Archiviata definitivamente l’era degli artisti sotto contratto, gli studios si affidarono a una nuova generazione di cineasti
diversi per talento e personalità, ma accomunati dalla capacità di dialogare con
il pubblico giovane.
Nel giro di pochi anni, insieme a Spielberg (Duel) e Lucas (L’uomo che fuggì dal
futuro) ebbero finalmente la grande occasione Martin Scorsese, William
Friedkin, Bob Rafelson, Francis Ford
Coppola, Paul Mazursky, John Milius,
Michael Cimino, Hal Ashby, Brian De
Palma, Peter Bogdanovich e molti altri,
che riconobbero in John Cassavetes il
maestro indiscusso di questo spirito indipendente, e lanciarono a loro volta
un’intera generazione di attori straordinari (da Al Pacino a Robert De Niro), sceneggiatori in grado di conciliare la grande lezione hollywoodiana con il linguaggio dell’epoca (Robert Towne), e fotografi, scenografi, costumisti, montatori
e musicisti di altissimo livello. Hol-
L’UOMO CHE FUGGÌ...
AMERICAN GRAFFITI
GUERRE STELLARI
STAR WARS III
È la prima opera di
Lucas e risale al
’71: il futuro è
popolato da uomini
alienati
Nel 1973 il regista
affronta il tema
del passaggio
dell’adolescenza
all’età adulta
Sei Oscar per la
trilogia, che a
partire dal ’77,
rivoluziona il genere
fantascientifico
Nel 2005 l’ultimo
atto della seconda
trilogia di Guerre
Stellari 28 anni
dopo il primo film
lywood cambiò letteralmente pelle, e
per la prima volta dalle origini della “fabbrica dei sogni” il potere venne accentrato nelle mani degli autori e non più dei
produttori.
La rivoluzione finì per coinvolgere anche cineasti nati in teatro (Mike Nichols),
in televisione (Robert Altman) o geneticamente antitetici alle concezioni mainstream (Sam Peckinpah), che realizzarono alcuni dei film che simbolizzano
più efficacemente quell’epoca: Il Laureato, Mash e Il Mucchio Selvaggio. Come raccontano il bel libro di Peter Biskind Easy Riders, Raging Bulls, furono prodotti nel giro di
poco tempo una lunga serie di
capolavori che vanno da Taxi
Driver al Cacciatore fino a un
film su commissione come Il
Padrino. Ma la “hybris” di giovani registi improvvisamente
troppo potenti portò con sé il
seme della rovina: la fiducia
assoluta accordata generò una
serie di pellicole incomprensibili come The Last Movie di
Dennis Hopper, e, cosa ben
più grave per la mentalità hollywoodiana, fiaschi irrimediabili. Il remake del Salario della
paura di Clouzot realizzato da
Friedkin è ancora citato dai
produttori come esempio di
scandalosa presunzione registica, e lo
stesso viene detto di At last long love e
Daisy Miller di Bogdanovich, che pure
veniva da tre grandi successi di fila.
I comportamenti e le abitudini personali dei registi acuirono la crisi con i finanziatori sempre più sconcertati e insofferenti: Biskind si dilunga a parlare di
droghe e festini, ma ciò che all’epoca apparve maggiormente insopportabile fu
l’arroganza: Hopper urlò in una festa a
un esterrefatto George Cukor che presto
lo avrebbe sepolto insieme ai suoi compagni (una versione differente attribui-
sce la battuta a Friedkin), e per un intero
decennio furono i registi a farsi inseguire e corteggiare dai mogul. Ma a Hollywood nessun peccato è grave come
quello dell’insuccesso economico, e in
meno di un decennio i produttori delle
major cominciarono a riconquistare il
terreno perduto, attendendo il momento del definito riscatto.
L’occasione venne offerta da I cancelli del cielo, il film che decuplicò il proprio
budget durante le riprese e incassò talmente poco da far fallire la United Artists. Il fiasco planetario di quel grande
‘‘
George Lucas
Devi trovare qualcosa che ami
così tanto da voler assumere
i rischi, saltare gli ostacoli
e sfondare i muri che sempre
ti troverai di fronte
FOTO REUTERS
GEORGE LUCAS
film che risultava blasfemo anche per il
coraggio di raccontare che la storia americana è costellata sin dalle origini da violenze e soprusi, segnò la fine della concezione autoriale di quella Hollywood.
Cimino disse sin dall’inizio che lui e il suo
film sarebbero diventati il capro espiatorio di una vera e propria lotta di potere,
ma il vento ormai era cambiato, e non
c’era regista che aveva giurato fedeltà
agli insegnamenti di Cassavetes che non
realizzasse film allineati ai dettami degli
studios. Mentre Lucas e Spielberg realizzavano i prototipi dei blockbuster cominciarono le inevitabili epurazioni (Cimino), gli ostracismi (Bogdanovich), ed i graduali riassorbimenti, che hanno visto alcuni dei protagonisti dell’epoca recitare in
prodotti puramente commerciali come Speed e Waterworld
(Dennis Hopper) o convolare
a nozze con potentissimi presidenti di major e ottenerne discussi finanziamenti (William
Friedkin con Sherry Lansing,
fino a qualche mese fa a capo
della Paramount).
La nascita del nuovo tipo di
“summer movies” ha portato
non solo alla realizzazione di
film enormi e bruttissimi quali ad esempio Godzilla e Pearl Harbour,
ma soprattutto a una serie di degenerazioni quali l’abuso del merchandising, e
una costruzione narrativa impostata sin
dal nascere su un potenziale franchising, che rende i film sempre più anonimi ed artificiali. Nella concezione prettamente industriale di una Hollywood in
cui le major sono diventate proprietà di
potentissimi conglomerati internazionali quali Sony, Viacom e Time Warner,
nessuna obiezione qualitativa è valida di
fronte a incassi importanti: la cifra raggiunta al solo botteghino da Godzilla è di
375 milioni di dollari. Il gigantismo che
ha portato alla crisi degli studios sembra
riproporsi ancora una volta per motivi
squisitamente commerciali: ai compensi miliardari richiesti dagli attori e i registi si assommano costi di lavorazione a
dir poco improbabili: il budget di Terminator 3 dichiara più di mezzo milione di
dollari per le sole spese di trucco e 691mila dollari per il “lavoro di rifinitura per i
dialoghi” (Neil Genzlinger si è chiesto sul
New York Times: «Da quando c’è anche il
dialogo in un film di Schwarzenegger?»).
Come sempre accade nel mondo del
cinema, tutto ciò non ha impedito la realizzazione anche di film di eccellente livello, ma all’energia ribelle di quel periodo si è sostituita una graduale normalizzazione, caratterizzata tuttavia dall’ascesa di molte donne nei ruoli di potere
delle majors e, più recentemente, dalla
nascita di una nuova generazione di autori, i quali stanno rivoluzionando per
l’ennesima volta Hollywood: Paul Thomas Anderson, Sofia Coppola, Spike Jonze, Wes Anderson, Alexander Payne, David O. Russell, Todd Solondz e Richard
Linklater. È un avvicendamento molto
più dolce del precedente, e sull’iconoclastia della generazione degli anni Settanta prevale l’ammirazione e la gratitudine:
Paul Thomas Anderson riconosce senza
esitazione che Magnolianon esisterebbe
senza America oggi di Altman, e Wes Anderson ammira sia Ashby (Rushmore è
evidente ispirato ad Harold & Maude)
che Cukor. E se Sofia Coppola è riuscita
ad imporre un personale e notevole segno d’autrice anche per emanciparsi dall’impegnativa eredità del cognome, Three Kings di David O’Russell risulta
un’ammiccante versione “light” del Il
Mucchio selvaggio, mentre Solondz e
Payne riconoscono le proprie influenze
perfino in Italia: se il primo ha girato una
sequenza di Storytellingche deriva direttamente da Bellissima, il secondo dichiara tra i suoi fari ispiratori Il Sorpassodi Dino Risi e Il Posto di Ermanno Olmi.
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
i sapori
Sono il simbolo stesso della tavola nei mesi caldi, la base
di mille ricette classiche, dagli spaghetti con le vongole
all’impepata di cozze. Ma danno il meglio crudi,
accompagnati da pane bianco, burro, pepe, limone
e nient’altro. I pericoli però non mancano. Ecco i consigli
per affrontare, senza rischi, questa esplosione di sapore
Delizie estive
Frutti mare
di
La grande tentazione
da gustare al naturale
LICIA GRANELLO
Carmelo Chiaramonte
Chef de “Il
Cuciniere”
(hotel Katane
Palace
di Catania)
è uno dei più innovativi
protagonisti della cucina
siciliana. Il suo modo
di cucinare “rivisita”
in maniera creativa le materie
prime isolane, a cominciare
proprio dai frutti di mare
PASSAMI L’ACETO
240 gr capelli d’angelo
12 fragole piccole ben mature
2 cucchiai di fragoline di bosco
60 gr robiola fresca di capra
8 cozze freschissime
2 ciuffi di menta
4 cucchiai di aceto vecchio o di Jerez
20 cubetti di ghiaccio
Sale marino, cannella,
extravergine intenso
Cuocere e scolare i capellini
passandoli nel ghiaccio. Condirli
con menta, cannella, sale, olio e le
fragole tagliuzzate. Mettere nei
piatti una cucchiaiata di robiola, le
fragoline e le cozze. Aggiungere la
pasta. Arricchire con l’aceto
Marco Fadiga
Allievo
geniale
e mattocchio
di Gualtiero
Marchesi,
gestisce nel cuore di Bologna
insieme alla moglie francese
Hélène il “Marco Fadiga
Bistrot”, emporiooyster bar-ristorante ,
con il plateau di frutti di mare
come fiore all’occhiello
INSALATA “MIZUNA”
CON MANDORLE DI MARE
200 gr insalata Mizuna (una sorta
di rucola giapponese vellutata)
20 mandorle di mare, 1 pompelmo
rosa pelato a vivo, 100 gr pinoli,
90 gr lardo, 2 pomodori di
Pantelleria essiccati, tagliati a
cubettini fini, Sale grezzo di Cervia,
Pepe rosa macinato al momento ,
Coriandolo fresco tritato grosso
Tostare i pinoli in forno a 140 gradi.
Tagliare il lardo sottilissimo e
rosolarlo in antiaderente.
Miscelare olio, sale, succo di
pompelmo, coriandolo, pomodori.
Disporre nei piatti l’insalata con
mandorle di mare e pinoli. Rifinire
con vinaigrette e julienne di lardo
calda, senza grasso di cottura
C
he cosa sarebbe una vacanza
al mare senza la consistenza
sugosa degli spaghetti con le
vongole? Quanto soffriremmo se dai menù scomparisse
la goduriosa speziatura dell’impepata di cozze?
I frutti di mare sono il simbolo stesso dell’estate a tavola: a rischio di estinzione come i datteri di Punta Campanella, avvelenati come i mitili della laguna veneziana, a rischio di allergie come le ostriche. Però irresistibili: a patto, appunto, di poterli gustare
senza rischi. Perché il frutto di mare vero,
quello che si porta il mare dentro e sprigiona iodio puro, al primo morso, è allergico —
lui sì — alla cottura.
Non a caso, per molti anni la trasgressione gourmand applicata ai molluschi ha parlato, e in parte continua
a parlare, francese. Chiunque
abbia un debole per le ostriche
lo sa bene: basta girare l’angolo di una strada, una qualsiasi
strada di città o stradina di
paese dalla Normandia alla
Provenza — passando per Parigi, bien sure — per imbattersi in un banchetto che vende
Belon e Fines de Claires, così,
senz’altri accessori che qualche
spicchio di limone e ghiaccio tritato in quantità. Da noi, con questa
semplicità, dietro cui la freschezza è a
dir poco esemplare, non vendono più
nemmeno i cocomeri.
La nostra “lettura” delle ostriche, come
della barca a vela o del ristorante gourmand, è inquinata: quello che in Francia è
passione da coltivare a nudo, senza orpelli
— niente tazzine in nuance con l’accappatoio a bordo, niente vestito firmato per accedere a una supercena, le ostriche ingollate amorosamente per strada, con un bicchiere di Sancerre ben freddo — qui è prova
provata di uno status sociale (o della pretesa di appartenervi).
Certo, da noi le Asl metterebbero l’“ostricaro” alla gogna alla prima “dozzina” venduta: ma se uno dei traguardi dell’Europa
unita è uniformare il maggior numero possibile di normative in uso negli stati membri, e i numeri di patologie su base alimentare premiano la Francia da decenni, forse
vale la pena di copiare il loro approccio apparentemente disinvolto (avete presente la
baguette portata sotto il braccio?).
Nell’attesa, individuiamo chef o rivenditore di fiducia, indispensabili, e chiediamo
di prepararci un bel plateau da assaporare a
mani nude (ovviamente) e soprattutto con
pochissimi dettagli a coté: pane bianco a
fettine, qualche ricciolo di burro, pepe, limone “dolce” — come quelli della Costiera
— per evitare che l’eccessiva acidità uccida
il sapore. Il nome “frutti di mare” sottintende esattamente questo: se sono buoni, ma
buoni davvero, vanno gustati al naturale, in
modo da inebriarci narici e palato di mare.
Per fortuna, dopo le stagioni orribili del
colera, dei metalli pesanti, dell’epatite, anche in Italia si possono trovare molluschi di
alta qualità: basta pensare ai “moscioli” che
popolano le scogliere di Portonovo, difesi
dallo Slow Food e preparati in cento modi
squisiti su tutto il litorale marchigiano.
Se ne sono accorti i cuochi, che integrano
sempre più i frutti di mare nelle loro ricette,
salvandone il sapore originario ed esaltandone la consistenza: è il caso dell’insalata di
mozzarella di bufala e ostriche di Vittorio Fusari, delle cozze ripiene di Gennaro Esposito,
dell’ostrica con schiuma di birra Guinness
(rivisitazione del piatto tradizionale di Capodanno in Irlanda) di Marco Fadiga.
Se siete ecogourmet, rifiutate recisamente chi vi propone i proibitissimi datteri di mare: impiegano 80 anni per arrivare a
8 cm di lunghezza. E siccome crescono all’interno delle rocce, per pescarli usano
dalle picozze alle cariche esplosive, massacrando coste e fondali. Ripieghiamo — si fa
per dire — sugli spaghetti con i ricci di mare: delicati, seducenti e facilissimi da trovare. Soprattutto sui fondali bassi nelle zone
dove il mare è più pulito.
OSTRICA MON AMOUR
Il più lussuoso dei molluschi era già
conosciuto dai greci. Ai Romani si
devono i primi allevamenti, mutuati poi
dai francesi, quando, a metà ‘800, i
banchi naturali della Normandia
cominciarono a esaurirsi. Le varietà
sono ascrivibili alle tre tipologie-base:
piatta (tonda), lunga e concava. Il
consumo è principalmente crudo: una
volta aperte inserendo la punta
dell’apposito coltello, corto e
largo, nella cerniera della
conchiglia, e liberate della
valva convessa, si
appoggiano su ghiaccio
tritato. Per gustarle al meglio,
niente più che fettine di pane,
qualche ricciolo di burro, spicchi di
limone e pepe a piacere. La scelta del
vino spazia dalla storica flute di
Champagne ai vini bianchi aromatici e
fruttati. In Irlanda, il piatto tipico di
Capodanno è costituito da ostriche
lunghe e birra Guinness
Tellina
Tartufo
La sorella minore della
vongola, ha forma quasi
triangolare e dimensioni
ridotte. È facile trovarla
nella sabbia del
bagnasciuga. È la base
di una zuppa delicata
La conchiglia è ruvida,
con sfumature dal giallo
al grigio. Perfetto da
gustare crudo (ma anche
in sautée è buonissimo),
ha sapore delicato,
carne elastica e soda
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
Codigoro (Fe)
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
itinerari
Anzio (Rm)
Marina del Cantone (Na)
Fiorente porto
commerciale in epoca
etrusca, subì le prime
bonifiche importanti a
metà del Cinquecento
grazie ai Duchi d’Este. È
sede di una delle più
ampie e popolari aree
faunistiche italiane, la
“Città degli aironi”, che è
diventata un vero paradiso dei birdwatchers
Costruita sul
promontorio che
domina il porto
Innocenziano, è stata
uno dei luoghi di
vacanze preferiti dai
protagonisti della dolce
vita romana. Lungo i 12
chilometri di litorale si
affacciano parchi e
pinete. È luogo d’elezione per la cucina di pesce
Lo sbocco sul mare
di Sant’Agata sui due
golfi è affacciato
sul golfo di Salerno
tra la baia di Jeranto
e Recommone. Luogo
di vacanze e
commercio dei Romani,
vanta una bella spiaggia
in ciottoli ed è approdo
di golosi tra i più importanti della Campania
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
AGRITURISMO CAMPELLO
Via Zarabotta, 3
Tel. 0533-713665
Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa
HOTEL MAROCCA
Via della Liberazione, Nettuno
Tel. 06-9854241
Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa
TAVERNA DEL CAPITANO (CON CUCINA)
Piazza delle Sirene 10
Tel. 081-8081028
Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
LA CAPANNA DA ERACLIO
Loc. Ponte Vicini Nord-Ovest
Tel. 0533-712154
Chiuso mercoledì e giovedì, menù da 40 euro
DA ALCESTE AL BUON GUSTO
Piazzale Sant'Antonio 6
Tel. 06-9846744
Chiuso martedì, menù da 40 euro
I QUATTRO PASSI (CON CAMERE)
Via Vespucci 13/n
Tel. 081-8082800
Senza chiusura estiva, menù da 50 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
MERCATO ITTICO
Via del Mercato
Nuovo 18 - Goro
PESCHERIA DEL GATTO
Via Gramsci 21
06-9848167
IRSVEM
Via Lucullo 43, Baia-Bacoli
Tel. 081-8687633
Cappasanta
La conchiglia di San
Giacomo, simbolo del
pellegrinaggio a Santiago
de Compostela viene
chiamata anche pettine.
All’interno, si scarta la
parte marroncina
Lumachina
È piccola, con una
conchiglia a spirale
chiusa da un piccolo
coperchio duro. Dopo la
cottura, e tolto l’opercolo,
si estrae la carne con uno
spillo o uno stuzzicadenti
Fasolaro
È un Veneride di grandi
dimensioni, fino a 10
cm di larghezza, dalla
conchiglia liscia e
rossastra. Trionfa
crudo nel plateau, o si
cucina come le vongole
Vongola
Sotto questo nome sono
intesi diversi esemplari
della famiglia dei
Veneridi. Il più pregiato è
la Venere (vongola verace
o cornuta). Va cotta
pochissimo o s’indurisce
Cozza
Riccio
Il più popolare mollusco
deve essere venduto vivo,
con sigillo d’origine e data
di produzione. Tra le
varietà migliori, oltre alla
cosiddetta comune,
la spagnola e la pelosa
Ha aculei robusti, colore
da nero a viola secondo
le varietà, e un inimitabile
gusto dolce-salmastro,
accentuato in primavera,
quando la parte rossa
(gonadi) è gonfia e ricca
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
le tendenze
Prodotti d’eccellenza
È tempo di premi per i creativi di tutto il mondo:
le riviste più prestigiose hanno già stilato o stanno
per pubblicare le classifiche, fatte per orientare
il mercato e offrire una ribalta alle idee vincenti:
che quest’anno sono quelle capaci di rispondere
al bisogno di conforto emotivo dei consumatori
Design
IN ATTESA DI ALTRO TROFEO
Pensilina di attesa bus,
progettata da Fausto
Colombo e Lorenzo
Forges Davanzati
per il Consorzio Arredo Urbano.
È stata premiata al Compasso
d’Oro dell’Adi
Il trionfo delle emozioni
AURELIO MAGISTÀ
C
i sarà pur qualche ragione
se il mondo del design ha
tanta voglia di mettersi
sotto esame: premi, classifiche e selezioni di prodotti sono un’infinità in tutto
il mondo. Tanto per avere un dato puramente indicativo, cercando su Google
“fashion award”, vengono selezionati
meno di 7 milioni di siti. Con “design
award” ne risultano oltre 47 milioni. È
come se il sistema design soffrisse di ansia da prestazione permanente, avesse
sempre bisogno di mettersi sotto esame
per confermarsi la propria eccellenza
come un mantra. Al punto da giudicare perfino i prototipi e i
progetti degli studenti di
design.
L’interrogativo arriva nella congiuntura
giusta: BusinessWeek
ha da poco pubblicato i risultati di Idea,
acronimo che sta per
Industrial Design Excellence Awards, è
uscito The Annual Design Directory, numero speciale della rivista
Wallpaper, e intanto sono in
preparazione l’Annual Design
Review, numero unico di I.D. — International Design e il 2005 Student Design
Review, in cui la rivista fa il talent scout e
va nelle scuole a scovare le creazioni più
interessanti. In Italia c’è uno dei premi
più importanti: il Compasso d’oro dell’Associazione Industriale Design, ideato da Giò Ponti e creato dalla Rinascente
nel 1954, prima ancora della nascita dell’Adi. Il presidente Carlo Forcolini ha le
idee chiare: «Non so a che cosa servano i
premi, ma so a che cosa è servito il Compasso d’oro. Nato per migliorare la qualità dei prodotti della grande distribuzione, e proprio per incoraggiare la produzione, dava anche un’importante
somma di denaro. Tra le altre cose ha
contribuito nel corso del tempo a dare
notorietà e respiro internazionale al design italiano, selezionando e divulgando tanti prodotti creati per aziende italiane da designer stranieri». Superati i
cinquant’anni di attività, il Compasso
d’oro resta tra i riconoscimenti di eccellenza internazionale. E intanto si reinventa una seconda giovinezza. «Stiamo organizzando una metodologia
di lavoro», precisa Forcolini, «attraverso la creazione di osser-
La fredda razionalità
non basta più.
Oggi si affermano
oggetti che
coinvolgono
e stimolano
i nostri sentimenti
vatori permanenti su scala regionale,
per realizzare una selezione approfondita della produzione italiana. Vogliamo far emergere i prodotti davvero originali, ma anche aiutare il settore a fare
sistema, come va di moda dire oggi».
In realtà chiedersi a che cosa servano
i premi è una domanda pericolosamente generica, considerato che sono davvero tanti e molto diversi tra loro. Tuttavia, si può provare a dare qualche risposta. Naturalmente, dinanzi a tanta abbondanza di riconoscimenti, viene il
pensiero malignetto che in fondo un
premio non si nega a nessuno. Pensiero
fondato, come d’altra parte accade con i
premi letterari e perfino con l’Auto dell’Anno, distribuiti regolarmente fra i
grandi secondo la più ortodossa par
condicio. Come editori e scrittori, anche
designer e produttori costituiscono una
comunità, solo che è più internazionale
e, soprattutto, meno velenosa. Tra i
marchi di vertice corre una non celata
stima reciproca e, confermando quell’ansia da prestazione che forma il sentimento generale, si osservano per ammi-
L’INNOVAZIONE IN SALOTTO
Premiato con l’Interior
Innovation Award di Colonia,
è Facett dei fratelli Bouroullec.
Per Ligne Roset
rarsi, ma anche per valutarsi e avvistare
qualsiasi significativa novità altrui, scongiurando il rischio di
restare indietro.
Questa è infatti una delle prime
ragioni del bisogno di competere e
premiare proprio del design: una sana voglia di misurarsi, il desiderio di
emulazione che tiene viva la gara permanente verso il meglio, il nuovo e il sorprendente. Il design ha un motore sempre su di giri. La competizione stimola la
ricerca e garantisce il progresso.
Altre due ragioni che aiutano a spiegare la proliferazione di premi derivano
dai principali problemi dell’arredamento di qualità, sintetizzati da Peter
Hefti, di Molteni & C. «Spiegare
al pubblico le ragioni di prezzi non proprio popolari e
raccontare l’identità e i
cambiamenti del marchio come una coerente idea materiale dell’innovazione. Informazioni che la gente
dovrebbe avere nei negozi». Invece i negozi
spiegano poco o tacciono. I premi e, ancor più, le
selezioni delle riviste più
autorevoli, servono anche a
spiegare i contenuti di innovazione e gli elevati standard qualitativi
che fanno la differenza di prezzo dei
prodotti di design.
Mettere a fuoco le tendenze è un’altra
importante funzione dei concorsi: materiali, forme, colori, nuovi designer,
stili abitativi emergenti affiorano agli
occhi del grande pubblico grazie al lavoro certosino di giurie e redazioni
specializzate. Perché, anche se si sceglie ogni oggetto in sé per sé, esiste
poi uno spirito del tempo, un comune sentire che conduce i creativi a muoversi più o meno misteriosamente con una coerenza
complessiva, secondo tratti distintivi comuni. In questo periodo, per esempio, lo spirito
del tempo si ribadisce nel forte desiderio di oggetti emozionanti. Nelle ceneri del
2001 è finito anche il minimalismo, e da allora il valore
funzionale, per quanto importante, è diventato meno
essenziale.
Continua a propagarsi
l’onda lunga del bisogno di
conforto emotivo. Secondo
Donald Norman, autore del libro Emotional Design, questo
bisogno non è solo contingente, legato al difficile momento di
crisi economica e di grande tensione internazionale, ma più
profondo. «La nostra civiltà ha
sempre dato il primo posto alla razionalità — dice — ma le emozioni
riguardano la nostra natura profonda
e sono essenziali per regolarsi nelle basilari scelte della vita quotidiana: questo è sicuro o pericoloso, buono o cattivo? Sono domande che coinvolgono le
nostre emozioni prima della ragione.
Oggi stiamo imparando ad ammettere
l’importanza, per la sopravvivenza del
genere umano, dell’intelligenza emotiva. Che naturalmente deve lavorare insieme al raziocinio».
FRUTTI DELLA CREATIVITÀ
A sinistra, Fruit Loop
di Lisa Vincitorio per Alessi,
la fruttiera premiata all’ultimo
Salone Satellite di Milano. Sopra,
dosatori di sale e pepe a colonna i Sapidi,
di Alessandro Loschiavo
per Aliantedizioni. Sono stati
anche selezionati dalla rivista I.D.
I RICONOSCIMENTI
Tutti i paesi più importanti
hanno almeno un premio
di design. Da segnalare, gli
Industrial Design Excellence
Awards (Idea) della Industrial
Designers Society of America,
che seleziona progetti in grado
di migliorare la qualità della vita,
l’Interior Innovation Award
di Colonia, i Design Awards
del Design Museum
di Londra, e, per allargare
un po’ gli orizzonti,
l’Australian Design Award,
il giapponese Good Design
Award. In Italia il più importante
è il Compasso d’Oro della
Associazione Disegno Industriale
e il Promosedia International Design
Competion. Da ricordare i premi,
le selezioni e le classifiche
di autorevoli riviste come I.D. International Design Magazine,
WallPaper e, per gli oggetti
tecnologici, Wired, che ogni
anno dedicano un numero
speciale all’argomento.
(eva grippa)
PIETRE MILIARI
MORBIDE CURVE
MUSIC BOX
CAFFÈ COI BAFFI
RIGORE E AROMA
PRONTO, GRILLO?
CARATTERI NOBILI
Questa sedia
Thonet del 1902
è un limpido
esempio
della difficile arte
di curvare
il legno, ancor
oggi esemplare
La radio
Brionvega Ls
502, chiusa
sembrava
una scatola.
Di Richard
Sapper e Marco
Zanuso, 1964
La Moka
Express,
progettata
da Alfonso
Bialetti
negli anni Trenta,
è in alluminio
e bachelite
Con modifiche,
resta quello:
il flacone,
esemplare
nel suo rigore,
dello Chanel N.5,
creato da Coco
nel 1921
Grillo, telefono
bello e molto più
piccolo dei suoi
coevi (1965).
Anche lui
è una creazione
di Sapper
e Zanuso
La plastica
si nobilita:
la portatile
Valentina (1969)
è di Ettore
Sottsass
e Perry A. King
per Olivetti
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
GRANDI CREATIVI
MICHAEL THONET
WALTER GROPIUS
LE CORBUSIER
ALVAR AALTO
VICO MAGISTRETT
PHILIPPE STARCK
Dall’artigianato
alla prima
industria: nel
1841 brevetta
la tecnica
di curvare
il legno
con il vapore
Nel 1919 fonda
il Bauhaus.
Essenziale
il rilievo dato
all’integrazione
fra aspetti teorici
e pratici
del design
Impressionante
la sua capacità di
dedicarsi
con la stessa
facilità
all’urbanistica
e alle chaises
longues
Maestro
della scuola
scandinava,
ha riscoperto
il valore del legno
curvato,
ispirandosi
a Thonet
Decano dei
designer italiani,
eclettico come
pochi, esibisce
ancor oggi
una curiosità
creativa
invidiabile
Sapiente
comunicatore,
mescolando
provocazioni
e bellezza
è diventato
la prima vera star
del design
ORA MOBILE
Il display del MINI_motion
Watch si muove
da orizzontale
a verticale per facilitare
la lettura, per esempio in bici.
Premiato da Idea
Sottsass: no allo show del benessere
“Dobbiamoriscoprire
l’anima delle cose”
SEDOTTI DALLA MOTO
Sopra, la Wraith di Confederate
Motorcycles, la moto “più sexy del mondo”
secondo I.D. Ne verranno relizzati
solo sessanta esemplari l’anno
ALESSANDRA RETICO
ARTIGIANATO ARDITO
Don’Do coniuga spirito
artigianale e arditezze
di design. Di Jean-Marie
Massaud per Poltrona
Frau. Selezionata
dalla rivista I.D.
IN PUNTA DI PIEDI
NELL’AMBIENTE
Il contributo di Nike al rispetto
ambientale. La Considered
Boot, in pelle, canapa e altri
materiali assemblati senza uso
di colle, è tutta riciclabile.
Nella produzione, fa
risparmiare il 61 per cento di
scarti di materia prima, il 35 per
cento di energia e l’89 per
cento di solventi rispetto alla
media. Primo premio Idea,
categoria Consumer Products
IL TRICICLO
TRASFORMISTA
Pensata per chi
deve imparare
ad andare in bici,
la Shift Bike sta
in equilibrio come
un triciclo grazie
alle ruote posteriori
che, aumentando
l’andatura,
si avvicinano
e diventano
parallele.
Primo premio
di Idea per la
categoria
Design Explorations
«È
un bene che tutti abbiano l’auto per
andare con la famiglia al mare. Ma se
poi lì trovi diecimila altre auto, quello
che vedi è un parcheggio, non il mare». A Ettore
Sottsass piace fare questi paragoni, gli piace
raccontare il mondo con le piccole cose. È la
poetica che ha ispirato i suoi lavori da designer
e architetto tra i più lucidi e puri del Novecento,
tra quelli che pensano ancora che «gli oggetti
debbano essere utili e umani, non prodotti
senz’anima il cui unico scopo è essere venduti».
Si riferisce agli eccessi del design industriale?
«Parlo della degenerazione del design industriale. Agli inizi non era così, si sperava di
migliorare il mondo producendo oggetti utili. Dalla Seconda guerra mondiale a oggi, con
l’aumento della popolazione e del benessere,
sono cresciuti bisogni e desideri. L’industria
li ha soddisfatti, ma ne anche creati di nuovi,
fittizi, introducendo nel mercato e nella gente un’ossessione del possesso. Merce che è
spettacolare e nient’altro, deprivata di quel
senso civile ed etico che era nel linguaggio del
design del primo Novecento. E come era nel
design della preistoria, dopotutto: si disegnava sugli ossi per dire “esisto” o “sogno”. Oggi
gli oggetti dicono solo se stessi».
Lo spettacolo della merce.
«Sì, uno show del benessere che
però non porta ma sottrae benefici. Si pensi solo alla presenza del
petrolio per produrre le plastiche.
Le case si riempiono di simulacri
del bene, il mondo si ammala e si
svuota. La tecnologia non è responsabile della corsa e della furia
che ci ha presi. Come al solito, se
usata bene, è utile e buona, persino
poetica, come piace a me. Di recente ho detto no a un’industria
che mi ha chiesto di realizzare proIL MAESTRO
getti aberranti, scandalosi dal
Nella foto qui sopra,
punto di vista civile, della dignità e
Ettore Sottsass,
della nobiltà dell’essere umano.
pittore, architetto
Ecco quello che vogliono, prodotti
e designer
che sono deformazioni della natura. No, l’avrà capito: non sono così
fatalmente ottimista sul futuro. Paura, crisi, attese e solitudini. Quello che si crede benessere, gli oggetti che lo dovrebbero rappresentare, complicano il reale, autoalimentano l’ansia
così moderna di dover avere».
Ha parlato di linguaggio del design. Non crede che quello contemporaneo, per quanto discutibile in certi casi, risponda a una necessità
di incantarsi, di anestetizzare la paura?
«Un tempo si disegnavano oggetti che avevano a che fare col sogno, con un’idea di stare nel
reale con fantasia e corpo. Oggi invece si producono illusioni, involucri vuoti, senza poesia e
senza messaggi. Belli, spettacolari, stupefacenti anche nel senso di assopire la coscienza critica, placare l’ansia e mistificare il reale. Quindi
sì, forse l’obiettivo è anche quello di reagire con
lo spettacolo alla guerra, ai massacri, alle bugie.
Ma così non si va lontano. Sarò datato, ma mi
manca l’etica, manca nelle cose che si fanno oggi quell’aura magica ma anche così concreta e
materica della dimensione umana e sociale. Ecco: il design di oggi è un gesto individualistico,
narcisistico, è un’emozione privata. Scollegato
dalla vita quotidiana, senza forza poetica e politica, anche».
Adesso dove si trovano quelle energie?
«Per esempio nell’arte africana, classica e
contemporanea. Ho curato l’allestimento delle
mostre contenute in Arts of Africa al Forum Grimaldi di Montecarlo (fino al 4 settembre, n.d.r.)
perché me l’ha chiesto un amico collezionista,
Gianni Pigozzi. Vederla è farsi un bagno di purezza, di coscienza, di responsabilità. Certi oggetti dell’arte tradizionale africana non li capiamo nemmeno, ci sembrano opere e invece magari sono strumenti pratici di cerimonie e riti. Si
sente che c’è del mistero, questo sì, un qualcosa di magico che anche l’arte africana contemporanea conserva. E quel magico, quell’aura di
cui parlavo prima, non viene solo dall’essere
oggetti legati alla religione, ma al territorio, alla
terra, alle mani che li hanno fatti, alle relazioni
umane che l’hanno reso possibile, alla febbre di
un bambino o alla casa da riparare del vicino. La
forza dell’oggetto sta nel somigliare a una strada, all’ora assolata che lo ha maturato».
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 LUGLIO 2005
l’incontro
Stasera a Spoleto si chiude il Festival
dei Due Mondi. E su una terrazza
della città umbra l’uomo che l’ha
inventato si confessa. Rinnegando la
sua creatura. “È l’errore della mia
vita, mi ha preso
soldi, energia
e concentrazione”.
Ma non c’è solo
amarezza nei ricordi
di questo magnifico
94enne. C’è l’amicizia
con i personaggi più
geniali del secolo, da Ionesco
a Neruda, ci sono amori, passioni,
peccati. E due autentici miracoli
Grandi maestri
Gian Carlo Menotti
ovantaquattro
anni: li ho compiuti qualche
giorno fa qui a
Spoleto, come al solito durante il festival. Un’età davvero incoraggiante».
Prego, maestro? Ha detto incoraggiante? «Più invecchio e più mi sento bene.
Come se mi alleggerissi. E al tempo
stesso mi fortificassi. L’anno scorso ero
in sedia a rotelle. Brutta sensazione.
Perciò decisi di lavorare sul problema
per mio conto. Adesso guardi, faccio le
scale da solo. So amministrare questo
mio vecchio corpo. Evitando i medici e
curandomi con tante vitamine e con
l’erboristeria. Ho un’intera biblioteca
di libri sulle erbe, e continuo a scoprirvi miracoli nuovi, come il Chapparal,
un’erba indiana prodigiosa».
Altro che Chapparal, altro che vitamine. L’autentico prodigio è lui, Gian
Carlo Menotti, aristocratico e sottile,
elegantissimo, pieno di fascino nel
suo pallore levigato, nella calma ironica e vagamente assente, nella sensualità dolce del vivere che ancora lo coinvolge, e gli fa bere champagne alle due
del pomeriggio, davanti a un piatto di
gnocchi alla romana fatti in casa, talmente buoni che il maestro chiede il
bis. Il caldo è confortato appena dalla
brezza che entra dalle finestre della
bella casa terrazzata dove il compositore e fondatore del Festival dei Due
Mondi si trasferisce in estate con il figlio Francis, proprio di fronte a Piazza
Duomo, con le vetrate del salotto che
guardano la facciata rosea della chiesa. È su questa piazza che si chiuderà
stasera, con il consueto appuntamento del concerto conclusivo (stavolta
tocca alla Filarmonica di San Pietroburgo diretta da Temirkanov, con musiche di Ciaikovskij e Rachmaninov),
Santuario della Madonna del Sacro
Monte a Varese: la mia gamba ne uscì
completamente guarita. Poi ci fu il
miracolo di Padre Pio».
Lo ha conosciuto? «Andai a trovarlo
quando scrissi l’opera La Santa di
Blecker Street, volevo farmi ispirare da
qualcuno in odore di santità. Emanava un profumo inebriante di viole, e ho
visto da vicino le sue stimmate, doveva tenere sempre accanto a sé una salvietta, andavano asciugate di continuo. Mi diede la sua benedizione e
disse: Dio ti ha dato grandi doni, devi
usarli per la sua gloria. Con me c’era
una giovane principessa, una donna
birichina. Padre Pio le diede uno
schiaffo sulla guancia e la mandò via».
E lei, Menotti? Non era birichino? «Sì
che lo ero. Ma Padre Pio preferì non tenerne conto. Ho sprecato anni in birichinate. Per vanità, leggerezza, egoismo. Per via del festival, a cui ho dato
troppo. Alla morte di mia madre ereditai un appartamento di quattordici
stanze a Milano. Soffocato dai debiti
dovetti venderlo subito. Ero dispera-
“La morte non mi fa
paura perché credo
in Dio”, dice
il compositore. “Ma
devo deludere chi mi
vuole sottoterra. Non
me ne andrò tanto
presto: alla mia età
guardo serenamente
al futuro”
FOTO ANSA
«N
SPOLETO
la 48esima edizione del Due Mondi.
Il festival nacque mezzo secolo fa
come un’utopia meravigliosa, o almeno così pareva al suo inventore: «All’epoca ero un musicista innamorato
dell’arte e animato da grandi slanci sociali. Volevo rendermi necessario a
una comunità, dimostrare che l’arte
non è solo piacere e cultura, ma può
essere il pane di un paese. Avevo un
tremendo bisogno di rendermi utile e
sentirmi amato. Forse, se non mi fossi
impicciato qui a Spoleto, avrei fatto
l’infermiere. Negli anni ho visto crescere una città ideale dove musica e
teatro, arte e poesia, si mescolavano in
un cocktail speciale, e i giovani artisti
potevano esprimersi senza pagare
balzelli o scendere a compromessi».
Per molto tempo il festival fu spassoso
e innovativo, mondano e preveggente,
punteggiato da scandali eccitanti e capace di cambiare il volto delle arti sceniche in Italia: il Due Mondi seppe scoprire, svelare, lanciare nomi e tendenze. Facendosi attraversare dalle provocazioni di Allen Ginsberg e dal fuoco flamenco di Antonio Gades, dalle
architetture fredde di Bob Wilson e
dall’esoterico teatro di Grotowski.
Ospitando il glorioso periodo Visconti-Schippers e dando i natali a capolavori come la Napoli milionaria di
Eduardo-Rota, l’Orlando Furioso di
Ronconi e La Gatta Cenerentola di De
Simone. Accogliendo personaggi come Ezra Pound e Roman Polanski, Jerome Robbins e Romolo Valli, Lila De
Nobili e Nureyev. «Scovavo gli artisti e
soprattutto i creatori, li tampinavo, li
inseguivo per farli venire a Spoleto. Ho
sempre avuto un’ammirazione sconfinata per il genio creativo, e di autori
ne ho conosciuti tanti. Ionesco, Neruda, Stravinskij, Cocteau, Thomas
Mann, l’adorabile Ungaretti. E
Beckett, che quando gli chiesi di scrivere un testo per Spoleto mi propose la
storia di un respiro a sipario chiuso,
che s’intensifica in un crescendo sempre più affannoso, mentre s’alza il sipario. Poi si accendono di colpo le luci, illuminando un enorme cumulo di
merda al centro della scena. Fine della
pièce. Gli dissi grazie, idea geniale. E
naturalmente non mi feci più sentire».
Vista da casa Menotti, Spoleto si offre allo sguardo come uno squarcio di
paradiso. «Invece per me è diventata
un inferno, da tempo mi sono reso
conto che il festival è stato l’errore
della mia vita. Mi ha preso soldi, energia, concentrazione. Mi ha distolto
dall’unica cosa che avrebbe dovuto
assorbirmi veramente: la creazione
musicale. Che esige rigore e fedeltà.
Non ho composto abbastanza, non
quanto avrei potuto e dovuto. Morirò
pieno di rimorsi nei confronti della
mia musa. Per il resto la morte non mi
fa paura. Credo in Dio perché credo ai
miracoli: sono stato miracolato due
volte. La prima quand’ero piccolo.
Ero zoppo, e la mia balia mi portò al
to. Fu allora che Padre Pio accorse in
mio aiuto, e fui premiato dal secondo
miracolo». Ce lo racconti. «Da Philadelphia mi chiamò una sconosciuta
che mi disse: sono una suora di clausura, vorrei commissionarle un lavoro. Mi chiese di comporre una cantata
su Santa Teresa. Suo padre era a capo
di una grande banca americana, potevo essere pagato bene. E lei si chiamava Suor Pia. Le chiesi come mai aveva
pensato a me. Perché sono devota a
Padre Pio, rispose: è stato lui a comunicarmi il tuo bisogno d’aiuto».
Menotti birichino, Menotti mistico.
Non c’è vita senza doppia vita. «Credo
nell’anima. L’ho percepita quando ho
visto morire Samuel Barber, un’amicizia tra le più profonde e durature
della mia vita. Lo conobbi quando, negli anni Venti, andai a studiare musica
a Philadelphia. Avevo solo 16 anni. Fu
per consiglio di Arturo Toscanini che
mia madre, disperata per quest’enfant prodige che non combinava nulla, mi spedì coraggiosamente negli
Stati Uniti. Fuori da Milano!, le ingiunse Toscanini. Lo lasci solo! Lo
butti in America! Gli faccia studiare la
musica sul serio! E lei, che era musicista e donna temeraria, mi iscrisse al
Curtis Institute of Music di Philadelphia, dove ebbi come insegnante
Rosario Scalero. Uomo straordinario
e crudele, ci faceva sgobbare sul serio.
Fu al suo corso che conobbi Barber,
che divenne per me l’amico più amato. Quando lo vidi morire mi fu chiarissimo che la sua anima abbandonava il corpo, volandogli via dal volto nel
momento del trapasso. Ora Samuel
sta in una delle quattro tombe che mi
aspettano in giro per il mondo». Quattro? «Una è a Cadegliano, vicino a Varese, dove sono nato e c’è la mia cappella di famiglia. La seconda è a Westchester, ed è quella dove riposa Samuel, che prima di morire comprò un
po’ di terra anche per me. La terza è in
Scozia, dove vivo adesso. Poi c’è Spoleto, l’ingrata Spoleto. Dicono che qui
vorrebbero farmi i funerali».
Parla della morte soavemente, senza
affanno: guardare indietro, maestro,
non le fa male? Ripensare agli amori,
per esempio? «Io, nella vita, ho sempre
amato troppo. In modo possessivo,
travolgente, passionale. Quante volte
mi sono fatto accecare dall’amore sessuale. È stata la mia grande debolezza.
Ora, però, il sesso è solo un ricordo strano. Inevitabile che sia così, oggi il mio
basso ventre è in ribasso».
Lo dice sorridendo, divertito e pacifico. Nonostante lo champagne e l’afa
del primo pomeriggio, neanche una
goccia di sudore altera la compostezza di questo formidabile charmeur,
mani bellissime, presenza delicata,
conversazione venata da sfumature
inglesi. «Ho vissuto tanto in America,
dove le mie opere hanno riscosso i
maggiori successi. In Italia non hanno
mai capito veramente la mia musica,
ho sempre scontato la colpa di non
aver militato nell’avanguardia, di
amare la melodia, di essere rimasto
fedele al linguaggio tonale. Da molti
anni ho scelto di abitare in Scozia, a
Yester House, dimora settecentesca a
pochi chilometri da Edimburgo, dove
sono circondato da vicini deliziosi,
come la Duchessa di Hamilton. E mai
che questi amici scozzesi, quando arrivano in vacanza a Spoleto, mi abbiano chiesto un favore, per esempio di
far lavorare un figlio o una figlia. Sono
così discreti! Invece gli italiani vivono
di clan e mafie, non fanno che chiedere raccomandazioni. Anche per questo in Italia torno malvolentieri. Arrivo solo per il festival, di cui ormai si occupa mio figlio Francis, e lo fa benissimo, a dispetto dei nemici. Qui a Spoleto tutti ci sono contro, dopo tanti
anni stiamo ancora a supplicare per
avere gli spazi, dobbiamo pagare l’affitto delle sedi, dare soldi al Comune,
all’Arcivescovado... «.
La storia della querelle tra i Menotti
e Spoleto circola ogni estate, come un
consunto e prevedibile tormentone
stagionale. Che si ripete almeno dal
‘99, anno in cui Gian Carlo, con decisione contestata e discutibile (può un
festival alimentato da sovvenzioni
pubbliche considerarsi un titolo ereditario?), decise di cederne la direzione artistica al figlio Francis, ex attore,
nato a Philadelphia nel ‘38, adottato
dal maestro a 17 anni e sposatosi con
un’americana di stirpe illustre (Rockfeller), che gli ha dato due figli, Claudio
e Cosimo, adorati dal nonno. «Checché ne dicano fa magistralmente il suo
lavoro, trova gli sponsor, ha imparato
da me cosa vuol dire organizzare un
buon programma. Invece qui, da troppi anni, mi vorrebbero morto per dare
il festival in pasto a chissà chi, magari
per farne una specie di Sanremo. Che
aspettino pure, non me ne andrò tanto presto, a novantaquattro anni guardo serenamente il mio futuro».
‘‘
LEONETTA BENTIVOGLIO
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