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La sorpresa di papa Francesco

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La sorpresa di papa Francesco
Il libro
La sera del 13 marzo 2013 su una Chiesa in grave crisi, su un mondo cattolico ancora scosso dalle dimissioni di
Benedetto XVI, si leva improvvisa «una ventata di freschezza umana ed evangelica». Dalla loggia centrale di San
Pietro si affaccia un papa inatteso: il cardinale Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires. Il suo pontificato si
annuncia fortemente innovatore fin dal nome di Francesco, che nessun predecessore, in duemila anni, aveva mai
scelto. Le sue parole e i suoi gesti semplici conquistano subito credenti e non credenti. Non si presenta come il
capo di un’istituzione gerarchica, ma come un vescovo che vuole camminare con il suo popolo. Da allora
continuano a crescere, giorno dopo giorno, l’entusiasmo e la speranza intorno alla sua persona.
Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, riflette sui primi mesi di pontificato e sulle sue
prospettive. Francesco, attraverso il riferimento al Concilio, raccoglie il testimone da Benedetto XVI e porta in dote
la sua intensa esperienza di vescovo della «terza Chiesa», di uomo del Sud del mondo, immerso nella complessa
realtà di una metropoli latinoamericana, a contatto quotidiano con i più bisognosi. «Come vorrei una Chiesa povera
e per i poveri!»: una frase che esprime meglio di qualsiasi documento il programma del nuovo papa. Bergoglio
incarna, fin dai tempi del suo ministero in Argentina, una Chiesa assetata di giustizia, coinvolta nelle «periferie
dell’esistenza», vicina agli ultimi, agli emarginati, come gli anziani abbandonati al loro destino, come i profughi
ricordati nella commovente visita a Lampedusa. Una Chiesa permeata dalla «cultura dell’incontro», che sappia
creare condivisione negli sterminati spazi urbani dove rischia di dissolversi ogni senso di umanità. Una Chiesa
capace di costruire un autentico dialogo in un mondo globalizzato dove persone di diverse religioni e storie
convivono sempre più spesso negli stessi luoghi. Soprattutto, una Chiesa che parli della misericordia di Dio.
Bergoglio, spiega Riccardi, «non ha attaccato il mondo per la sua immoralità o le sue contraddizioni. Non ha
condannato nessuno».
Anche la simpatia che il papa argentino ispira è ben più che un tratto caratteriale; è una disposizione d’animo
evangelica, nel senso etimologico di provare «pathos» per qualcuno, di «sentire» la sofferenza degli altri, rivelando
così il «pathos» di Dio per ogni persona.
È questa la vera scommessa di papa Francesco: non una miracolistica soluzione dei problemi della Chiesa da un
giorno all’altro, non l’annuncio di grandi piani o clamorose riforme, ma la forza mite del credente, che vuole
suscitare quella «rivolta dello Spirito», capace di cambiare il cuore degli uomini e realizzare, a poco a poco, un
mondo migliore.
L’autore
Andrea Riccardi (Roma 1950) è uno dei massimi studiosi della Chiesa e del papato in
età contemporanea e del mondo delle religioni. è noto internazionalmente per essere
stato il fondatore, nel 1968, della Comunità di Sant’Egidio. Ha fatto parte del governo
Monti, in cui ha ricoperto la carica di ministro per la Cooperazione Internazionale e
l’Integrazione. è professore emerito di Storia Contemporanea nell’Università di Roma
Tre.
Andrea Riccardi
LA SORPRESA
DI PAPA FRANCESCO
Crisi e futuro della Chiesa
Prefazione
La crisi della Chiesa cattolica è irreversibile? È la domanda di molti cattolici. Ma anche di tanti altri
preoccupati per l’appannarsi di una presenza storica di rilievo. Molte cose sono state dette in
proposito. Diverse risposte sono state avanzate. Si è soprattutto diffusa la convinzione che l’antica
Chiesa cattolica quasi non avrebbe più le risorse per affrontare la crisi. In questo clima di incertezza
è arrivata, inaspettata, la rinuncia di papa Benedetto, che ha dato adito inizialmente alle più varie
interpretazioni, apparendo come la conferma della gravità della crisi. Molti hanno spiegato la
rinuncia del papa come un arretramento personale di fronte a problemi insolubili. Insomma una
dimostrazione della serietà della situazione, che motivava autorevolmente il pessimismo sul futuro
della Chiesa cattolica. Una crisi che non veniva dall’esterno (persecuzione, misure
discriminatorie...), come tante volte in passato, ma aveva radici nella vita interna della Chiesa stessa.
Alle dimissioni è seguita l’elezione del primo papa latinoamericano nella storia, il cardinale
Jorge Bergoglio, che ha preso il nome di Francesco. Una vera sorpresa: non solo per la scelta
dell’uomo, ma per l’impatto felice e immediato della sua personalità tra i cattolici e i non cattolici.
Si è percepito subito un cambiamento di rilievo.
Sono fatti noti. Ma molte domande restano aperte. Sono finiti i motivi della crisi? Che cosa è
successo in un periodo così cruciale per il cattolicesimo? Sono interrogativi che meritano
un’indagine e una riflessione, se non ancora una ricerca storica. È un periodo delicatissimo, questo
2012-2013, tempo della crisi, delle inedite dimissioni del papa e infine di quella che sembra una
nuova «primavera» del cattolicesimo. Non è troppo presto per provare a capire che cosa sia
successo nelle profondità della vicenda della Chiesa. Ne abbiamo gli strumenti. È una vicenda fatta
di elementi di cui spesso non si tiene conto, al di là delle percezioni, delle impressioni e delle voci.
Quali sono le dimensioni della crisi e come papa Francesco sta rispondendo a essa? Il passaggio
dal tempo della crisi a quello della sorpresa è rivelatore della particolarità della vita del
cattolicesimo (che non sempre viene misurata attentamente), delle sue risorse, dei diversi mondi che
lo compongono, del suo peculiare approccio con il futuro. A me pare particolarmente importante
provare a comprendere la «proposta» di papa Bergoglio, anche seguendo il suo pensiero e la sua
storia prima della sua elezione. È quello che vorrei fare in queste pagine.
La «proposta» del nuovo papa non si trova ancora in un documento programmatico. Anzi
Francesco ha addirittura recepito, con qualche modifica, l’enciclica sulla fede già preparata da
Benedetto XVI. La sua proposta è rappresentata dalla qualità della comunicazione stabilita con la
Chiesa e in genere con la gente. Misurandosi con il pensiero e la personalità di Francesco, si sfatano
i miti semplificatori di un papa populista o sentimentale. La «proposta» di Francesco viene da
lontano. Lo si coglie quando si studia la sua storia e il suo pensiero. Jorge Bergoglio, lungo gli anni,
ha maturato una riflessione articolata sui temi cruciali della vita della Chiesa e sulla sua collocazione
nella società contemporanea. Ha seguito con particolare attenzione il cambiamento degli ultimi due
decenni con l’affermazione indiscussa della globalizzazione e delle sue conseguenze sulla vita
economica e sociale. Si è chiesto quale fosse oggi lo spazio e la missione della Chiesa in un mondo
trasformato, plurale, abitato da grandi città. Lo ha fatto avendo come riferimento il Concilio Vaticano
II e gli anni postconciliari, quelli di Paolo VI e di papa Wojtyła.
Il «laboratorio» di questa riflessione di papa Francesco è stata l’Argentina, con le sue difficoltà e
contraddizioni, connessa com’è – non fosse che dal punto di vista religioso – all’intera America
Latina. Il nuovo papa non è un accademico; è uomo appassionato e dalla forte comunicativa. Ma ha
una visione articolata e meditata del mondo globale, delle sue vicende umane e, soprattutto, dei
problemi e delle sfide della Chiesa cattolica oggi. Ne erano consapevoli i cardinali che lo hanno
eletto papa di Roma nel marzo 2013? Forse non tutti e non in modo puntuale. Forse anche loro, come
tanti, sono rimasti sorpresi da quel loro collega, divenuto papa Francesco. È certo che molti, anche
prima della sua elezione, hanno percepito la carica interiore di Bergoglio: un credente autentico, che
non cede al pessimismo e che nutre una forte aspettativa verso il futuro.
Infatti, nel quadro di diffuso pessimismo, la sua elezione e la sua personalità hanno quasi
rappresentato l’irruzione del futuro. Eletto papa a 76 anni, quest’uomo ha subito manifestato una forte
speranza, anzi – si potrebbe dire – un «sogno» sulla sua Chiesa. È un sogno maturato in una vita
caratterizzata dal gusto dell’incontro con gli altri e del dialogo con loro, ma anche da una dimensione
riflessiva e interiore, contrassegnata in particolare dalla preghiera e dal confronto con la Bibbia.
La sua diversificata esperienza di umanità e le sue idee maturate sulla Chiesa non lo portano però
a un atteggiamento negativo verso il mondo contemporaneo: pur non ignorandone i limiti e le
contraddizioni (anzi rilevandoli), il suo rapporto con la realtà di oggi è marcato da una profonda
simpatia, che si rifrange in un’attenzione personale alle storie delle donne e degli uomini, soprattutto
ai più poveri. È la simpatia che caratterizza in profondità il modo con cui il papa va affrontando i
diversi ambienti e problemi, che si aprono innanzi a lui.
A ripercorrere la vicenda e la riflessione di Francesco, come si prova a fare in queste pagine, si
vede come la sorpresa non è stata solo la sua elezione, quella di un papa che viene dalla fine del
mondo, come ha detto. Francesco continuerà ancora a sorprendere, misurandosi con i nuovi scenari
su cui lo porta la sua responsabilità. Pur non coltivando piani dettagliati o una cultura del progetto, il
nuovo papa ha mostrato appunto di avere un sogno sulla Chiesa e di volerla condurre sulle vie del
futuro. Una Chiesa all’altezza della sua missione è, per lui, il vero contributo per cambiare il mondo
contemporaneo e renderlo più umano.
La Chiesa di papa Francesco non è solo quella delle strutture (pur riconoscendo chiaramente il
valore delle istituzioni): è un «popolo» diffuso in tanti paesi del mondo. È un popolo che il papa
intende guidare, ma anche accompagnare e persino seguire. Il nuovo papa ha il senso del «popolo»,
convinto com’è che abbia risorse umane e spirituali da esprimere, percorsi da indicare, energie da
offrire. Non si sente un riformatore isolato o un leader schiacciato dai problemi. Non è un uomo solo
al comando, ma un vescovo in mezzo a un popolo complesso. L’opinione pubblica lo sta scoprendo
come un interlocutore di rilievo per il futuro e come un leader in questo complicato inizio del XXI
secolo. In questo senso la «sorpresa» di papa Francesco non è l’emozione di un momento.
Andrea Riccardi
La sorpresa di papa Francesco
I
Le dimissioni di Benedetto XVI
La notizia shock
La mattina dell’11 febbraio 2013 l’agenzia di stampa italiana ANSA trasmette una notizia quasi
incredibile, che immediatamente è rilanciata in tutto il mondo. In un concistoro, in tutta apparenza di
routine, per ratificare tre canonizzazioni, Benedetto XVI comunica in latino un’inedita decisione:
«Dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che
le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero
petrino». 1
L’annuncio non è compreso subito da tutti, anche perché comunicato in latino. In quella mattinata,
molti lo considerano un equivoco giornalistico. Qualcuno spera che sia proprio così. Anche se c’era
stato in precedenza qualche cenno in questo senso da parte di papa Ratzinger, nessuno si aspettava
una decisione simile. Quando la notizia è confermata, la sorpresa si intreccia con un diffuso
sconcerto. Il fatto è clamoroso. Molti si chiedono: che sta succedendo nella Chiesa, tanto da spingere
il papa a dimettersi?
Da sempre si è abituati a ricevere la notizia che il papa è morto, non che ha rinunciato. I più
anziani hanno assistito all’agonia dolorosa di Pio XII, il papa della guerra; alla morte corale di papa
Giovanni, accompagnata dalla preghiera in piazza San Pietro; a quella silenziosa di Paolo VI, in
disparte a Castelgandolfo; alla repentina scomparsa di papa Luciani in carica da soli trentatré giorni.
Ma su tutti questi ricordi domina l’immagine recente e drammatica dell’agonia e della morte di
Giovanni Paolo II. Questi ha incarnato il papa per più di una generazione.2 Papa Wojtyła aveva
considerato il suo spegnersi sulla cattedra di Pietro come la croce della sua vita, convinto che dalla
croce un papa non può scendere.
Con questo spirito, Giovanni Paolo II aveva voluto restare fino alla fine al suo posto per
testimoniare quello che chiamava il Vangelo della sofferenza. Uno tra i motivi che l’avevano
convinto a non ritirarsi era stata anche la volontà di non dar luogo a un pericoloso precedente: «…
teme» confida il segretario di Wojtyła a un cardinale che aveva studiato il dossier delle possibili
dimissioni «di creare un pericoloso precedente per i suoi successori, perché qualcuno potrebbe
rimanere esposto a manovre e sottili pressioni da parte di chi desiderasse deporlo». 3
Ma il motivo più profondo della scelta di Giovanni Paolo II è rivelato da lui stesso a un altro
cardinale: «Gesù non è sceso dalla croce». 4 Per Wojtyła il papato è un martirio nel senso profondo
della parola: una testimonianza evangelica che non si ferma nemmeno di fronte al dolore e alla morte.
La vicenda dell’attentato nel 1981, che avrebbe potuto portarlo facilmente alla morte, non gli aveva
fatto cambiare abitudini nel suo offrirsi aperto e amico alla gente, senza reale protezione. Del resto
Giovanni Paolo II era il papa che aveva fatto riscoprire ai cattolici del mondo intero la memoria dei
nuovi martiri, quelli del Novecento, numerosi come quelli dei primi secoli. Papa Wojtyła, durante
l’occupazione tedesca della Polonia, aveva visto da vicino la morte e si era chiesto perché lui fosse
scampato a quella sorte a differenza di tanti altri suoi coetanei.
Joseph Ratzinger aveva vissuto da vicino gli ultimi tempi dolorosi di papa Wojtyła; aveva
ammirato il suo coraggio; forse non aveva condiviso in tutto la gestione e l’esposizione della sua
malattia, anche per il suo carattere pudico e riservato. Ha però sempre parlato del suo predecessore
con immenso rispetto, come di una figura superiore a lui: è un’umiltà che va notata. 5 Da papa si
interrogava spesso su come si era comportato nelle varie circostanze Giovanni Paolo II, misurandosi
con il suo esempio. Così Benedetto XVI non intendeva prendere le distanze dal suo «amato»
predecessore, anche se il suo gesto appariva una rottura con la tradizione, incarnata da Giovanni
Paolo II con grande sacrificio negli ultimi anni della sua vita.
Per lui la lunga malattia di Wojtyła era stata una «catechesi del dolore», significativa in un mondo
dove «si nasconde la sofferenza», mentre questa è «parte dell’essere umano» e soprattutto del
cristianesimo, che è «la religione del crocifisso». 6
Questa riflessione sull’aspetto testimoniale degli ultimi tempi di papa Wojtyła non eliminava però
la domanda se si potesse governare la Chiesa in quelle condizioni. Una questione che Ratzinger
evidentemente si era posto e che aveva anche affrontato in una conversazione concessami. Tuttavia
mi disse che bisognava considerare la scelta del suo predecessore «in una visione retrospettiva».
Anch’io sono convinto che molte scelte della Chiesa e dei cristiani, proprio perché non mirate solo
all’efficacia immediata, abbiano necessità di una considerazione più distaccata. In questa prospettiva
si è mosso papa Ratzinger, il quale mi disse a proposito del predecessore: «si può governare anche
con la sofferenza». 7 Ma introdusse alcuni distinguo che, dopo la sua rinuncia, mi hanno fatto
ulteriormente riflettere.
Il papa disse che si può governare con la sofferenza, tuttavia «non sempre, ma in un lungo
pontificato»: «dopo tanta vita attiva, era giusta una pausa di sofferenza». 8 Quella sofferenza si veniva
a configurare allora come «un tipo di governo». Sono espressioni che, ripensate nella prospettiva
delle scelte di Ratzinger, acquistano grande chiarezza. Egli già introduceva – siamo nel 2011 –
alcune importanti distinzioni tra il lungo e attivissimo pontificato di Giovanni Paolo II e altri
pontificati, come il suo. Per Wojtyła restare da malato aveva un senso, proprio per quanto era
avvenuto negli anni precedenti. Invece, nell’intervista a Peter Seewald, con molta franchezza
Benedetto XVI aveva parlato di diritto e, persino, di dovere di dimettersi da parte del papa, quando
egli «giunge alla consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e
spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli». 9
Pur essendoci queste premesse, nessuno si aspettava la rinuncia di Benedetto XVI, giunta come
una vera bomba mediatica. Il papa ha spiegato ai cardinali la sua decisione, non come
sottovalutazione della testimonianza della vita di un papa anziano, né come enfatizzazione
dell’efficienza del governo:
Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le
opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e
agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di San Pietro e annunciare il
Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in
modo tale da dover riconoscere la mia incapacità ad amministrare il ministero a me affidato. 10
Si deve notare che il termine «incapacità» usato da papa Ratzinger ricorre pure nella rinuncia di
Celestino V, letta ai cardinali nel 1294. Ma, dal lontano Duecento, tanta storia è passata. Nei secoli
successivi, l’abdicazione papale è stata piuttosto connessa alla ricomposizione degli scismi nella
Chiesa di Occidente che portarono all’elezione di più papi allo stesso tempo. Le dimissioni non sono
una scelta praticata nella storia dei papi moderni. Il confessore di Paolo VI, padre Dezza, ha
ricordato: «Paolo VI avrebbe rinunciato, ma mi diceva: “Sarebbe un trauma per la Chiesa”, e quindi
non ebbe il coraggio di farlo». La parola è giusta: anche le dimissioni di papa Ratzinger sono state un
«trauma». 11
Benedetto XVI ha ben presente l’esempio di Giovanni Paolo II e dei suoi predecessori; non
intende rinnegarlo. Ma la sua scelta è differente, senza che questo implichi tuttavia una critica o una
smentita nei confronti di chi l’ha preceduto. Papa Ratzinger sa bene che il ministero del papa è
governo pastorale ma anche testimonianza personale. Sente però che gli viene a mancare il vigore per
governare la Chiesa e per annunciare il Vangelo, soprattutto per compiere i viaggi per il mondo che
ormai sembrano parte integrante della missione del papa (alle porte ci sono le Giornate mondiali dei
giovani in Brasile). Era tornato stanchissimo dal viaggio in Messico e Cuba. Lo stesso era avvenuto
anche dopo il suo coraggioso viaggio in Libano, che aveva dato speranza a cristiani e musulmani.
Anzi, va ricordato che i maggiori servizi segreti del mondo avevano sconsigliato la trasferta
libanese, considerandola densa di incognite se non di pericoli. Ma Benedetto XVI aveva riaffermato
la sua decisione di andare. Rispetto ai viaggi, papa Benedetto sente di dover seguire, almeno in
buona parte, l’esempio del suo predecessore, che aveva reso ormai le visite ai fedeli di tutto il
mondo uno dei tratti caratteristici del papato contemporaneo.
Tante erano le difficoltà per arrivare alla decisione. Ma chi conosce Benedetto XVI da vicino sa
come questo papa abbia voluto l’abdicazione con tutte le forze. L’annuncio è arrivato all’improvviso,
come un’esplosione, in un momento ordinario, mentre si celebrava l’anno della fede indetto proprio
dallo stesso Benedetto XVI. Il papa è un «mite», ma la fermezza dei miti si manifesta pienamente in
lui proprio nell’intransigenza con cui ha perseguito la sua decisione.
L’opinione pubblica ha imparato a conoscere e stimare la sua mitezza. Anzi l’accusa che negli
ambienti ecclesiastici gli è stata rivolta è proprio quella di essere stato troppo remissivo nei
confronti dei collaboratori curiali. È un paradosso perché Ratzinger per anni era stato considerato
dalla stampa come il panzerkardinal, l’anima inquisitoriale del pontificato di Giovanni Paolo II. La
sua elezione era stata vista come quella di un «duro», anche da chi lo aveva sostenuto nel conclave
del 2005. Un esempio è quello del cardinale López Trujillo, che aveva combattuto contro la teologia
della liberazione negli anni di Wojtyła ed era stato grande elettore di Ratzinger nel 2005. Il cardinale
colombiano, dopo qualche anno di pontificato, non nascondeva la sua delusione per un papa troppo
mite.
La mitezza di Ratzinger, da papa, è stata un paradosso a cui l’opinione pubblica si è dovuta
abituare. È stata anche la rivelazione del carattere caricaturale di tante rappresentazioni mediatiche,
su cui conviene riflettere. Benedetto XVI è stato tutt’altro che l’«inquisitore» rappresentato da
alcuni. 12 Eppure, nel 2005, fu considerato – con soddisfazione o contrarietà – proprio come un papa
che avrebbe rimesso a posto la vita della Chiesa con fermezza, dopo gli «eccessi» di Wojtyła.
Questo papa mite ha preso con fermezza la decisione di lasciare il papato, parecchi mesi prima di
manifestarla. Pochi intimi l’hanno saputo, da quel che si capisce. Forse il Segretario di Stato,
Tarcisio Bertone, quello particolare Georg Gänswein, il fratello Georg. I tentativi di dissuaderlo
sono stati inutili. E così si è arrivati alla notizia-bomba, annunziata in latino in una riunione di routine
del collegio cardinalizio. Il papa si dichiarava «incapace» di «amministrare il ministero a me
affidato»: gli mancavano «il vigore sia del corpo, sia dell’animo», diminuiti in modo tale da
obbligarlo a questo gesto. Il papa aveva deciso in «coscienza», obbedendo alla verità della sua
situazione. Dopo questo secco annunzio, si apriva una stagione di interrogativi e domande sui motivi
di una simile decisione.
Perché questa decisione?
Benedetto XVI ha approfondito i fili della tradizione con l’opera del suo magistero di otto anni.
Ha precisato l’ermeneutica secondo cui deve leggersi il Concilio Vaticano II, non come rottura, ma
nel flusso appunto della tradizione. Anche da un punto di vista esteriore, nel mondo vaticano, ha
ripristinato qualche piccola usanza tradizionale, che Giovanni Paolo II sulla scia di Paolo VI aveva
fatto cadere. Lo stesso seggio da cui parla il papa è divenuto di frequente più simile a un trono antico
che a una nobile sedia. Soprattutto Benedetto XVI ha cercato di ripristinare maggiormente il senso
della liturgia cattolica, in linea con la tradizione, aprendo all’uso del latino. Agli abusi della riforma
liturgica postconciliare, egli attribuisce, in buona parte, la frattura avvenuta con i tradizionalisti di
monsignor Lefebvre (che ha cercato invano di ricucire). Che Benedetto XVI sia uomo della
tradizione è peraltro molto apprezzato negli ambienti ortodossi. Specialmente i russi ortodossi hanno
simpatia per questo papa che ha incontrato, tra i primi dopo la sua elezione, il metropolita Kyrill,
divenuto poi patriarca. 13
Le dimissioni del papa, invece, sono una scelta fortemente innovativa, davvero poco tradizionale.
Il papa è consapevole di compiere una scelta nuova, anzi eccezionale, proprio lui che ha voluto
ripristinare alcuni aspetti tradizionali. Tutti i suoi predecessori del Novecento si sono misurati con
l’indebolimento fisico, talvolta ponendosi il problema delle dimissioni, ma alla fine hanno deciso di
non abdicare. Anche Pio XII si era interrogato sulla questione. Ratzinger ha deciso in altro modo
rispetto ai predecessori, dimostrando che, pur essendo uomo della tradizione, ha un senso molto
personale delle responsabilità, tanto da operare cambiamenti di grande portata.
Nell’immaginario cattolico il papa dimissionario per eccellenza è Celestino V, il santo eremita
Pier da Morrone di fine Duecento. Celestino, anche nel clima delle profezie di Gioacchino da Fiore,
era stato considerato il «papa angelico», eletto al termine di un conclave difficilissimo, in cui si
erano rivelate le divisioni della Chiesa. L’eremita, divenuto pontefice, aveva incarnato il sogno di un
papa che riconducesse la Chiesa alla povertà e al Vangelo, liberandola dalle incrostazioni del
potere. La sfida era immensa in quella difficile società medievale. Tanto che il poeta francescano
Jacopone da Todi aveva apostrofato con questi versi il «papa contadino» eletto a una cattedra
occupata generalmente da rampolli di nobili casate, da curiali o dotti:
Che farai, Pier da Morrone?
Éi venuto al paragone.
Vederimo êl lavorato
che en cell’ái contemplato. 14
«Che farai Pier da Morrone?»: il papa angelico non aveva retto all’urto del governo, agli intrighi
della Curia, all’intreccio con la politica. Tolomeo dei Fiadoni da Lucca, un contemporaneo, scrive
che papa Celestino era un santo: «tuttavia veniva raggirato dai suoi funzionari in ordine ai privilegi
che concedeva, dei quali egli non poteva aver notizia sia per la debolezza della vecchiaia sia per
l’inesperienza di governo intorno alle frodi e alle malizie umane nelle quali i curiali sono
particolarmente esperti». 15 La sfida della sua elezione, dopo poche settimane, sembrava persa.
Celestino V visse un travaglio interiore (che forse troppo malevolmente è stato attribuito alle
pressioni del suo successore, Bonifacio VIII), finché non arrivò alla decisione. Così ci viene
rappresentata:
… entrò nel concistoro pronto al passaggio; e sedutosi in trono, impose il silenzio ai cardinali, che non si opponessero
a quanto stava per fare. E prese la pergamena, e cominciò a leggere quella sentenza assai triste e rinunciò al papato.
Poi scese dal trono, e l’anello, e la mitra o corona, e il manto pontificale depose per terra, ed in terra egli stesso si pose
a sedere. 16
La scena della rinuncia di Celestino (che si riveste dell’abito da eremita) è molto più forte sul
piano simbolico di quella di papa Ratzinger, che ha continuato a governare per un periodo dopo
l’annunzio delle dimissioni, e poi ha conservato l’abito bianco papale (senza la mantellina), nonché
il nome da papa e ha assunto il titolo inusuale di «papa emerito». Si sa che, dopo l’abdicazione di
Celestino, ci furono intensi dibattiti: qualche settore della Chiesa non riconobbe l’elezione del nuovo
papa. Per Ubertino da Casale, francescano spirituale (vicino alla sensibilità di Gioacchino da Fiore),
le dimissioni del papa erano una horrenda novitas. 17
Niente di tutto questo ha accompagnato la decisione di papa Benedetto. Anche se molti hanno
ricordato l’antica scelta di papa Celestino, dimessosi perché incapace di reggere, non solo per la
vecchiaia ma anche per gli intrighi e il peso del governo pontificio. Il teologo Ratzinger, uno dei più
grandi intellettuali europei viventi, è ben diverso dal povero eremita, papa contadino. Tuttavia la
fantasia è tornata agli scandali e agli intrighi di Curia di allora, paragonandoli al presente. Cosa è
successo nel centro della Chiesa?
Quali gravi motivi hanno spinto Benedetto XVI a un tale gesto eccezionale? È la domanda che
attraversa l’opinione pubblica e che si appunta sui più o meno recenti «scandali» vaticani, come
quello del cameriere infedele e di Vatileaks, l’inedita pubblicazione di documenti riservati, che
passavano nell’appartamento papale. 18 Gli «scandali» di tanto in tanto sollevati dalla stampa –
notavano alcuni – avevano messo a dura prova la tenuta del papa, che faticava ad allontanare i
collaboratori o a imporre un diverso orientamento al suo governo. La mitezza del pontefice (più
vicino a un «papa angelico» che all’inquisitore preannunciato) aveva giocato male in un periodo
difficile. Nell’emozione suscitata dalla rinuncia papale – un «trauma» secondo Paolo VI – si è avuta
la sensazione dell’esistenza di problemi molto gravi che Benedetto XVI non riusciva ad affrontare. A
ogni modo, la rinuncia sembrava confermare agli occhi dell’opinione pubblica che la crisi della
Chiesa cattolica era tanto grave da non permettere al papa di continuare a governarla, mentre tutti i
suoi predecessori l’avevano fatto sino alla fine.
Chi conosce Ratzinger sa quanto sia acuto il suo senso del dovere: «Quando il pericolo è grande»
ha dichiarato a Seewald nel 2010 «non si può scappare. Ecco perché sicuramente questo non è il
momento di dimettersi. È proprio in momenti come questo che bisogna resistere e superare la
situazione difficile. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la
si fa più. Ma non si può scappare…». 19 A rileggere queste righe si capisce bene come il papa non
sarebbe fuggito di fronte a una situazione critica ma cominciava a sentire di non farcela più ed era
orientato a rinunciare. Nel momento della rinuncia non si facevano, però, queste riflessioni, anzi
dominava un senso di crisi.
L’umiltà di Ratzinger
Le dimissioni hanno esposto papa Benedetto a una serie di critiche serrate e a una certa freddezza
dell’opinione pubblica, perché in fondo un papa non si è mai dimesso, quindi – si pensa – non si
dovrebbe dimettere. Non sono mancate voci in favore, anche se i perplessi sono stati tantissimi. A
distanza di tempo si è largamente cancellato quel diffuso stato d’animo. C’è stata una rielaborazione
in senso molto positivo, tanto da far dimenticare le perplessità. Papa Francesco, con una battuta, ha
ridimensionato la situazione inedita della contemporanea presenza di un papa in carica e di un papa
dimissionario: «È come avere il nonno a casa, ma il nonno saggio. Quando in una famiglia il nonno è
a casa, è venerato, è amato, è ascoltato. Lui è un uomo di una prudenza! Non si immischia». 20
Tuttavia con la sua rinuncia, papa Benedetto si è sottoposto quasi a un’umiliazione collettiva: il
dissenso verso il suo gesto non è stato sempre espresso, ma era latente. Chi ha vissuto quei giorni in
contatto con la gente e con i fedeli ne è consapevole. Il papa, il maestro della Chiesa cattolica, con
questo passo accetta di essere giudicato anche severamente come un uomo poco coraggioso o più
debole dei suoi predecessori.
Tendenzialmente l’opinione pubblica di fronte alla decisione papale è stata piuttosto contrariata,
silenziosa, preoccupata, eccetto qualche settore. Perché il papa lascia?, è stata la domanda
ricorrente. C’è stato un certo spaesamento per chi, più vicino alla Chiesa o osservatore più lontano,
considerava il papa un punto di riferimento nella crisi del nostro tempo: anche il papato vacilla?
Nella trasmissione della notizia si arriva poi ad amplificazioni caricaturali, anche se si tratta di
fenomeni marginali ma di qualche significato: in alcuni paesi africani circola la voce che papa
Ratzinger abbia lasciato la Chiesa cattolica per protesta, facendosi neoprotestante o addirittura
musulmano. Sono amplificazioni ridicole, ma rivelatrici dello spaesamento. Del resto non sembra
che ovunque i vescovi o i responsabili ecclesiali abbiano avuto la capacità di spiegare alla gente
l’avvenimento della rinuncia papale: sono rimasti sorpresi loro stessi di fronte a un evento a cui non
erano preparati e spesso hanno utilizzato parole generiche. Non era certo facile da spiegare, perché
l’evento si presentava totalmente nuovo nella lunga storia cattolica e totalmente inaspettato.
Non siamo ancora in grado di valutare l’impatto della decisione del papa sui cattolici del mondo
intero, anche perché gli eventi successivi e l’elezione di papa Francesco hanno cancellato i
sentimenti dei giorni delle dimissioni. Di certo, con una scelta inedita, Benedetto XVI si è esposto al
giudizio di tutti, cattolici e non. Lui, il maestro della Chiesa cattolica, nel volgere di qualche giorno
si è sottoposto al vaglio non solo dei media, ma anche dei singoli, sorpresi del suo atto: è divenuto
una sorta di imputato, ma al contempo è stato considerato vittima di un sistema ecclesiastico più forte
di lui. Le parole dedicate dal papa alla spiegazione di questa sua decisione sono state chiare, ma non
molte. È emersa l’umiltà di papa Ratzinger che non si è difeso di fronte a un’opinione pubblica
perplessa. Certo non sono mancate le manifestazioni d’affetto, ma al fondo c’erano dubbi e
incertezze, anche tra le personalità ecclesiastiche e gli stessi cardinali.
È indubbio che, nel complesso, questo atto inaspettato è sembrato confermare l’immagine di una
Chiesa in crisi. Nel passaggio di pontificato del 2013, non c’è stato un lutto, come accade ogni volta
che il papa si spegne (si ricordi il grande dolore corale per la morte di Giovanni Paolo II). Il lutto
univa il popolo cristiano e dal dolore nasceva l’attesa di un nuovo papa con uno slancio di speranza.
Nel lutto maturava anche l’attesa di un futuro migliore per la Chiesa. In questo passaggio di
pontificato, segnato dalle dimissioni, c’è stato piuttosto silenzio, quasi la muta sensazione che la
Chiesa fosse anch’essa un po’ dimissionaria, come il papa.
Una Chiesa in crisi
I cattolici seguono i media e recepiscono l’immagine di crisi della Chiesa riproposta
costantemente. Per i più ci sono tanti elementi che ne mostrano la crisi profonda. Sono gli scandali
più recenti in Vaticano, così come quelli più remoti legati alle vicende della pedofilia. Questo senso
di crisi viene quasi personificato nella figura del papa dimissionario. In fondo la realtà della Chiesa
appare irreformabile, almeno per le forze di un pontefice. La rinuncia di papa Benedetto, che i media
hanno considerato un uomo onesto, sarebbe la definitiva conferma di una crisi che taluni hanno
considerato gravissima.
Un senso autunnale di declino e di grigiore (che covava nelle coscienze e nei pensieri di tanti) ha
trovato l’occasione di esprimersi con le dimissioni. Del resto la Chiesa cattolica, non solo in
Occidente ma anche in America Latina (si pensi alla perdita costante dei fedeli cattolici in Brasile a
favore delle comunità neoprotestanti), appare in grave difficoltà: forse ingrigita come i capelli della
maggioranza delle persone che frequentano le sue liturgie domenicali in Occidente (mentre i giovani
sono più lontani, come denunciano gli stessi vescovi). È la Chiesa degli scandali, ma soprattutto
della scarsa rilevanza nella società. È anche la Chiesa che vede diminuire il numero dei suoi fedeli
per la secolarizzazione. Lo studioso potrà ridimensionare queste affermazioni confrontandole con
altre stagioni storiche, ma è difficile negare che il sentire generale abbia la percezione di un declino
della Chiesa.
Un attento osservatore delle cose vaticane, Massimo Franco, ha dedicato alla perdita di peso
della Chiesa in Occidente un libro dal titolo significativo: C’era una volta un Vaticano. L’autore
inizia la sua esposizione con alcune affermazioni che molti condividono:
Fa un po’ effetto vedere un Vaticano in affanno. È come se vacillasse un punto di riferimento certo, sia per chi lo
ammira sia per chi lo avversa. Eppure si tratta di una novità con la quale bisogna cominciare a fare i conti. Da tempo,
ormai, si percepiscono il difetto di governo, una confusione crescente e perfino conflitti pubblici fra cardinali. Si ha
l’impressione di assistere a un larvato ridimensionamento del profilo internazionale della Santa Sede e, come
conseguenza degli scandali sugli abusi sessuali, al tentativo di colpire la sua credibilità morale. 21
La poca credibilità del Vaticano si intreccia con la crisi della Chiesa alla base, con la
disaffezione dei fedeli, espressa dal calo della pratica religiosa e dalla secolarizzazione, fenomeni
che vengono da lontano. L’affermazione della modernità è stata accompagnata dalla riduzione dello
spazio della Chiesa, considerata una realtà del passato inevitabilmente superata dal progresso della
società. Il declino della Chiesa e la sua irrilevanza sono i sintomi del superamento del cristianesimo
e della religione in una concezione della vita più positiva e razionale. La crescente secolarizzazione
occidentale degli ultimi decenni ne sarebbe una prova evidente. Insomma con lo sviluppo della
modernità (in tutte le sue differenti versioni), si sarebbe verificato un ridimensionamento del
cristianesimo, quasi che la legge della storia fosse: più modernità, meno religione. Il pensiero di
Auguste Comte, quello della legge dei tre stati (stato teologico, metafisico e scientifico o positivo),
in qualche misura, fa da sfondo al comune sentire del nostro tempo, anche se nell’inconsapevolezza
dei più: l’età positiva, attraverso la scienza, è l’approdo di un pensiero maturo e della pienezza della
modernità. Secondo Comte «la teologia si spegnerà necessariamente davanti alla fisica». 22
Il declino della religione sembra scritto in profondità nei cromosomi dell’età moderna. La crisi
del Vaticano e della Chiesa cattolica non sarebbero che conferme di questa convinzione largamente
condivisa. Bisogna dire però che gli ultimi decenni del Novecento sembravano aver smentito la
teoria dell’inevitabile declino della religione con l’avanzata della modernità. È quella revanche de
Dieu di cui ha parlato Gilles Kepel, incarnata dalla ripresa del ruolo pubblico delle religioni, come
nel caso dell’islamismo. 23 Si è riscoperto, anche in un contesto di secolarizzazione, il bisogno di
spiritualità e di religiosità della società moderna. Nello stesso cristianesimo novecentesco si è
assistito alla straordinaria crescita del mondo carismatico e neoprotestante, che ha portato questo
variegato insieme di comunità alla soglia di quasi cinquecento milioni di fedeli. 24
Tuttavia il neoprotestantesimo e il pentecostalismo rappresentano un cristianesimo «nuovo»
rispetto a quello strutturato della Chiesa cattolica. Come molti studiosi osservano, il cristianesimo
neoprotestante ha trovato terreno fertile nella crescita della cultura globale, spesso in nazioni
periferiche o semiperiferiche; si è invece scarsamente affermato in Europa, se non tra gli immigrati. 25
Nello spaesamento umano introdotto dalla globalizzazione ha dato l’opportunità di partecipare a
comunità «calde», che offrono un orizzonte di speranza, che a volte coincide con la promessa di
cambiamenti nella propria situazione personale a breve termine. Tra ineluttabile secolarizzazione e
affermazione delle nuove identità religiose, il declino del cattolicesimo sembra un inevitabile portato
dei tempi. Un piccolo segnale è che le stesse offerte dei fedeli al papa nel corso del 2012 hanno
registrato un calo del 5,4 per cento (non spiegabile solo con la crisi economica). Così le dimissioni
di papa Benedetto sono apparse il simbolo della crisi della Chiesa, anzi quasi la sua somatizzazione
e personificazione. Il cattolicesimo sembrava avvolto da una spirale di inesorabile declino.
II
La sorpresa
Il bisogno della profezia
Nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, il cattolicesimo sembrava esprimere una forte vitalità.
I suoi funerali erano stati una manifestazione di attaccamento alla Chiesa e al suo capo. I grandi del
mondo erano venuti a Roma per rendere un omaggio a questa decisiva figura del Novecento.
Giovanni Paolo II è stato un papa che ha cambiato la storia favorendo la caduta del Muro, ma ha
anche realizzato un rapporto di forte simpatia pastorale e umana con tante singole persone e con interi
popoli. Il cattolicesimo, dopo gli anni di difficoltà postconciliari, aveva rivelato grandi energie e non
solo nell’Est europeo, dove aveva esercitato una funzione storica. Eppure questa condizione felice si
era incrinata nel volgere di qualche anno. La responsabilità poteva essere attribuita al governo di
papa Ratzinger? Per taluni osservatori la forte personalità di papa Wojtyła avrebbe coperto i grandi
problemi irrisolti della Chiesa cattolica. Era l’accusa che il noto teologo svizzero Hans Küng aveva
lanciato, giudicando molto criticamente il pontificato di Giovanni Paolo II. Questi avrebbe governato
in modo trionfalistico, senza affrontare le grandi questioni esistenti tra Chiesa e mondo moderno,
all’origine della recessione cattolica. 1
Come spiegare la crisi della Chiesa? Gli anni di papa Wojtyła non sarebbero stati che una
parentesi (ma che lunga parentesi!) o un occultamento trionfale dei problemi. Talvolta la storia o la
sociologia non sono gli strumenti migliori o gli unici per penetrare in profondità situazioni così
complesse. Qualche volta l’intuizione della poesia va più a fondo. Padre David Maria Turoldo, un
religioso e poeta italiano di fine sensibilità, che aveva vissuto una stagione di grande speranza con
Giovanni XXIII e il Vaticano II, scrive negli anni Ottanta una poesia dedicata a un monaco
camaldolese, Benedetto Calati, studioso di Gregorio Magno, in cui evoca lo stato d’animo di quei
momenti:
… è notte fratello!
Una grande notte incombe sulla Chiesa.
Il Concilio, uno scialo di speranze.
Sempre più rara, dovunque, la Parola;
mentre di inutili parole, a ondate,
rimbomba il mondo.
Non un profeta che alzi il vessillo
della salvezza; gli uccisi della pace
sono subito tutti uccisi:
tutta la terra è un arsenale di morte.
Nel denso smarrimento, che almeno
sopravviva la nostra amicizia:
questo evento salvatore di essere
amici in tanto deserto… 2
Le parole di Turoldo sembrano venate di pessimismo. Sono forse espressione di una generazione
che ha creduto nel Concilio, ma poi ha faticato a saldare le proprie attese agli anni di Giovanni Paolo
II: qui allora avviene lo «scialo di speranze». Ma, forse, c’è qualcosa di più che va al di là di quel
determinato periodo: quasi la percezione che la «profezia» della Chiesa si sia spenta, tanto da
affermare «non un profeta che alzi il vessillo/ della salvezza…». È vero che, negli anni dopo il
Concilio, il termine profeta è stato molto usato e forse abusato: tutto doveva essere profetico, atti,
gesti, prese di posizione… Si conoscono le contraddizioni di questa vicenda, tra cui la
politicizzazione della fede e l’ideologizzazione della vita ecclesiale. Eppure – come dice Turoldo in
un altro verso di questa poesia – ci vuole sempre una nuova energia per dare speranza al mondo:
… componiamo nuovi cantici:
perché la terra torni a sperare.
Nella Chiesa si è vissuta e forse si vive ancora una crisi di speranza. Non va trascurato un
elemento importante, come la prossimità tra la crisi della Chiesa e quella dell’Europa, le cui
speranze sono davvero ridotte. Il declino demografico e politico dell’Europa, di fronte all’emersione
dei giganti asiatici, come l’India e la Cina, ma anche di altri nuovi paesi emergenti, è sotto gli occhi
di tutti. A questo si aggiunge la grande difficoltà di creare un’Europa davvero unita politicamente,
anche se federale. 3 Nei nostri paesi europei, a partire dall’Italia, si respira aria di declino,
soprattutto mancanza di energia creatrice. Questo clima non può non intrecciarsi con la vita della più
antica istituzione del continente, la Chiesa cattolica.
Turoldo parla di ricerca di una profezia cristiana, perché la terra torni a sperare. Certamente il
profetismo è stato inteso anche in modo equivoco negli anni del postconcilio. Si deve notare però
come lo spirito profetico porti un pathos nella comunicazione delle parole e delle esperienze di fede,
che appare necessario. Si è molto scritto che il problema attuale della Chiesa è la comunicazione. Ma
se si riducono i problemi della Chiesa ai rapporti, pur importantissimi, con i media, si fa un
ragionamento ristretto. La comunicazione è qualcosa di più per i cristiani che l’uso dei mezzi di
comunicazione.
Paolo VI nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam, nel 1964, quando intendeva annunciare il
clima nuovo del Vaticano II, fece un’importante affermazione: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa
messaggio; la Chiesa si fa colloquio». 4 La Chiesa vive nel colloquio con il mondo. La sua
convinzione è quella «di chi avverte di non poter più separare la propria salvezza dalla ricerca di
quella altrui, di chi studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositaria, nella
circolazione dell’umano discorso». La parola della Chiesa vive quindi nella circolazione
dell’«umano discorso». 5 Questa è la Chiesa del Concilio. La profezia può essere intesa proprio nel
senso che il Vangelo circola nuovamente nell’«umano discorso». Non è qualcosa di enfatico o di
divinatorio, come ammonisce Karl Barth, per cui non c’è profeta cristiano senza un radicamento
decisivo nell’insegnamento di Gesù:
Nessun uomo annunzia la volontà di Dio, se non è in funzione di Cristo, che è il solo vero profeta. Non si tratta
dunque da parte nostra di immaginarci di essere «profeti» liberi. La nostra partecipazione alla profezia è quella di essere
scolari nella casa di Dio. 6
Ricordo con quale forza un discepolo di Barth, il pastore valdese Valdo Vinay, affermasse negli
anni Settanta, un tempo di turbolenze che si proponevano come profetiche, che i profeti sono
predicatori di Cristo e che Cristo è l’unico vero profeta. Un grande teologo, Yves Congar, in un libro
sulla riforma della Chiesa, pubblicato negli anni Cinquanta, parla dei profeti e del profetismo,
mettendo in luce come i profeti non solo anticipano il senso degli avvenimenti, ma li connettono al
regno di Dio. Per Congar il profeta è «pure colui che conferisce al movimento del tempo il suo vero
rapporto al disegno di Dio»: «Il profeta apre continuamente il popolo di Dio al suo sviluppo…». 7
Il profeta predica la parola di Dio, ma legge anche il proprio tempo e lo apre alla dimensione
futura. Gérard Bessière, in un libro di qualche anno fa, traccia un ritratto dei profeti: «Sono uomini
liberi, radicati in Dio e in vasta umanità. Pastori dell’umana transumanza, vivono al largo e respirano
il soffio dello Spirito. Questi esseri d’incandescenza vedono così profondamente nel loro tempo che
talvolta sembrano mettere a nudo l’avvenire. Lacerano l’orizzonte. Infastidiscono, con una
insopportabile lucidità, gli uomini che vivono in superficie…». 8 La mancanza di senso profetico si
può riscontrare nella vita della Chiesa: da qui forse la fatica a compiere quell’«umana transumanza»
necessaria per avanzare nella storia. Non ha torto Turoldo quando nota come manchi la profezia
«perché la terra torni a sperare».
La profezia si connette al pathos: i profeti comunicano agli uomini e alle donne del loro tempo il
«pathos divino». Ne ha trattato, tra gli altri, con forte convinzione il grande studioso ebraico
Abraham Heschel, un maestro sul profetismo d’Israele: «il pathos significa che Dio non è mai
neutrale…». 9 Per questo grande studioso, il profeta condivide il pathos di Dio e ne fa partecipi altre
persone.
Riguardo al senso di crisi della Chiesa, non tutto si può spiegare con il governo o con le carenze
di comunicazione mediatica. È un giudizio riduttivo, che non tiene conto della profondità della
vicenda ecclesiale. In realtà c’è anche tra i fedeli una domanda di pathos nella comunicazione della
fede, di simpatia verso la condizione umana, che rivela l’attutirsi della dimensione profetica nella
Chiesa.
Il grido e l’invocazione di un poeta
Turoldo sperava in un ritorno dello spirito di profezia. Abbiamo visto come il profeta, portatore
del pathos di Dio, manifesti la simpatia di Dio verso gli uomini. Non bisogna esagerare, ma è emerso
nella crisi qualcosa che era nel profondo del popolo cristiano un po’ ingrigito, senza una chiara
prospettiva per il futuro. Le dimissioni di Benedetto sono state un evento che ha fatto misurare uno
stato d’animo collettivo. Padre David Maria Turoldo, in un’altra stagione storica, aveva espresso
un’invocazione dai toni lirici libera dall’esigenza di dimostrare razionalmente quello che si scrive:
Restituiscimi all’infanzia, Signore, fa’ che ritorni fanciullo, al sapore vero delle cose, al gusto del pane e dell’acqua. Il
tempo ha limitato i sensi fino a renderli impassibili.
Signore, salvami dall’indifferenza, da questa anonimia di uomo adulto. È il male di cui soffriamo senza averne
coscienza …
Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto e fa’ che tutto il popolo sia liberato da questa senilità dello spirito.
Ridonaci la capacità di piangere e di gioire; fa’ che il popolo ritorni a cantare nelle tue chiese. 10
Se ci si sofferma, seppur rapidamente, sulle parole del poeta, si nota come partano dalla
constatazione della perdita dello spirito d’infanzia nei cristiani: questo fenomeno ha reso i credenti –
o l’io del poeta? O il noi di chi si immedesima? – indifferenti, abitati da poca fede e da poca poesia.
È una condizione di senilità dello spirito, che tinge di grigio la vita. La senilità si risolve nella
mancanza di empatia della Chiesa, che non sa piangere e gioire con gli altri (si ricordi invece
l’incipit della Gaudium et spes, la costituzione conciliare sui rapporti con il mondo moderno, per cui
le angosce, le gioie e le speranze dell’umanità sono quelle della Chiesa). Una Chiesa senile non sa
più cantare nelle chiese. La poesia di Turoldo è in realtà una preghiera a Dio per essere liberati dal
grigiore e dalla senilità dello spirito.
Ci si può ritrovare nelle parole di Turoldo o invece respingerle perché non la si pensa in questo
modo. Si può far propria o no la preghiera di Turoldo: dipende dal fatto che se ne condividano o
meno i sentimenti. Ho sentito di poterla far mia in questa stagione di vita della Chiesa, dicendo:
«Signore, salvami dal colore grigio dell’uomo adulto e fa’ che tutto il popolo sia liberato da questa
senilità dello spirito».
Seguendo le parole di Turoldo, si può anche dire che l’ingrigimento non si consuma solo tra le
mura della Chiesa: «l’indifferenza e l’assenza dello spirito» dice il poeta «sono la causa della nostra
schiavitù e della nostra decadenza». L’indifferenza è, per lui, radice delle dittature, che rendono il
popolo «appena una turba senza volto»: «allora il bene è uguale al male; il sacro uguale al profano; e
l’amore è unicamente piacere, un male il sacrificio…». 11 Nella crisi della società europea c’è una
radice spirituale, che va messa in luce. In questo la condizione della Chiesa cattolica, per alcuni
aspetti, si intreccia con quella dell’Europa.
La radice spirituale della crisi è la mancanza di speranza. Infatti l’Europa, negli ultimi decenni,
non crede di poter cambiare se stessa e sa di non riuscire a cambiare il mondo. La crisi economica
degli ultimi anni ha spinto gli europei a concentrarsi su se stessi. Forse il ’68, con tutte le sue
contraddizioni, è stato l’ultima ventata utopica partita dall’Europa, nella prospettiva del
cambiamento. Oggi si tende piuttosto a un atteggiamento di indifferenza e rassegnazione. Non si può
cambiare! Non ci sono le risorse economiche; manca il potere; soprattutto non c’è bisogno di farlo.
Continua Turoldo:
Ora, invece, ho assistito a eventi incalcolabili, a guerre furibonde, alla feroce distruzione di intere città; ho visto
milioni di uomini in catene, ho udito il pianto di migliaia e migliaia di innocenti; e il mio cuore non si è neppure indurito,
non sono stato capace neppure di una radicale e assoluta condanna per questa storia mostruosa e infernale. 12
La condizione soggettiva dell’uomo e della donna indifferenti (europei o cristiani) porta a
rinunciare a sperare in un mondo diverso, ma anche a divenire diversi: «Mi sono invecchiato. Ho
accettato la sorte, l’ho chiamata necessità, fatalità; mi sono creato alibi per sentirmi tranquillo. Sono
appunto uno tra la moltitudine degli indifferenti». 13 Del resto l’esistenza di una moltitudine di
indifferenti non è solo una sensazione soggettiva, ma si rileva anche dall’atteggiamento dell’opinione
pubblica di fronte alle grandi tragedie.
La seconda metà del Novecento è stata una stagione di viva sensibilità di fronte ai paesi
attanagliati dalla guerra: si pensi a come fu seguita la guerra in Vietnam, quale fu la sensibilità di
fronte ai boat people, ma anche all’attenzione e all’indignazione davanti all’assedio di Sarajevo o al
dramma del Ruanda, solo per fare alcuni esempi. Oggi la terribile guerra in Siria, che sta
distruggendo un grande popolo e un meraviglioso paese, non suscita significative reazioni
nell’opinione pubblica e si sviluppa in un quadro di generalizzata indifferenza. È una guerra di fronte
a cui non si può fare niente: così si dice. L’indifferenza e l’impotenza si mescolano. Se non si può
fare niente, allora è meglio non parlarne.
L’indifferenza è frutto dell’ingrigimento. Per Turoldo non è solo una condizione un po’ triste e
rassegnata, difficile da vivere. È una condizione pericolosa per chi la vive e per il resto del mondo,
tanto che scrive:
Ora che la comparsa di Cristo non commuove nessuno, non incute riverenza o terrore, ora possono succedere altre
più mostruose cose e ognuno direbbe: ah, sì, è comparso il Signore?
Ora possiamo ammazzare, rubare, violentare, e tutti continuiamo a dire: è il mondo, è la vita. Ormai siamo uomini
senza rimorso e senza peccati. 14
La giovinezza spirituale di un papa anziano
Forse le parole del poeta possono apparire eccessive: non è troppo parlare di indifferenza di
fronte a grandi dolori e di scomparsa del rimorso e del senso del peccato? Tuttavia colgono in
profondità più di tante analisi. Come spazzare via il grigio che rende senili? Anche quando si parla
di riforma della Chiesa, i progetti di cambiamento non hanno quel respiro di cui ha bisogno ogni
reale riforma ecclesiale – che non sia mero aggiustamento strutturale. Ratzinger ad esempio ha molto
insistito sulla necessità previa di una riforma spirituale. 15 Non è facile trovare la via per uscire da
una simile situazione di ingrigimento o – secondo altri osservatori – da una condizione di crisi e di
declino.
Fino a poco tempo fa, non c’era risposta alla domanda su come liberare la Chiesa dalla sua
senilità. Si poteva negare con alcuni buoni motivi questa condizione, accusare i media, la loro
volontà di svuotare e avvilire la Chiesa, di rimpicciolirla e ridurla ad alcuni fatti marginali o
scandalosi. Ed è anche vero che è in atto un processo alla Chiesa e al cristianesimo in Occidente, che
viene da lontano e continua ai nostri giorni. 16 In realtà però la Chiesa sembrava realmente ammalata.
Anche della stessa malattia dell’Europa, per quell’osmosi che esiste, pur nella distinzione delle
vicende.
Eppure la Chiesa non conosce se stessa fino in fondo. Il Concilio Vaticano II ha richiamato alla
dimensione ineliminabile della Chiesa come mistero. Tuttavia è spesso sembrata un’affermazione
importante ma quasi astratta, senza troppa relazione con la vita e con la storia. Lo ha detto anche
recentemente papa Francesco: «Forse abbiamo ridotto il nostro parlare del mistero ad una
spiegazione razionale». 17 Eppure sono un mistero anche le grandi risorse umane e spirituali di questa
Chiesa, quelle della sua comunione, della comunicazione profonda tra le sue parti. 18 Infatti, dopo le
dimissioni di papa Benedetto e con l’elezione di Jorge Mario Bergoglio, la comunità ecclesiale ha
vissuto una stagione sorprendente. Significativamente, prima del conclave, Bergoglio non è apparso
ai media come un papabile. I cardinali hanno discusso a lungo sui bisogni della Chiesa e sul nome
del successore di papa Ratzinger. Nelle riunioni prima del conclave sono state espresse molte
preoccupazioni, mentre si manifestava la diffusa convinzione di una crisi in corso (e si chiedeva la
riforma della Curia romana). Non c’era un candidato che si imponesse in modo forte, quale era stato
Ratzinger nel 2005.
In un clima di preoccupazione e senza facili vie di uscita, è avvenuta la sorpresa dell’elezione di
papa Francesco. È il primo papa gesuita e il primo papa latinoamericano. Ha subito mostrato una
carica nuova, giovane, piena di speranza. È stata una sorpresa per i cattolici e per l’opinione
pubblica. Ma che cosa era successo? Il papa è apparso nella sua semplicità francescana di fronte alla
gente, forte e umile al tempo stesso. Non ha blandito il suo uditorio, anzi è stato asciutto. Non ha
ribadito principi. La sua proposta è stata semplice: camminiamo insieme verso il futuro! Ha detto
parlando dalla loggia della basilica vaticana:
E adesso cominciamo questo cammino: vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma che è quella che
presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi:
l’uno per l’altro. Preghiamo per questo mondo perché ci sia una grande fratellanza. 19
E poi ha chiesto al popolo di pregare il Signore perché scendesse su di lui la benedizione di Dio.
Non c’è vescovo senza popolo. È sembrata l’incarnazione delle parole di sant’Agostino, vescovo di
Ippona, nel suo famoso discorso 340 per l’anniversario della sua ordinazione: «Mi consola il fatto di
essere con voi. Per voi infatti sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno dell’incarico
ricevuto, questo della grazia». 20 Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Questo papa si è
mostrato fin dall’inizio un cristiano con il suo popolo. Non è retorica ecclesiastica. Come scrisse
Hannah Arendt a proposito di Giovanni XXIII, questo papa è «un cristiano sul trono di Pietro». 21
Da dove viene la sorpresa di questo papa, in una Chiesa un po’ intristita e invecchiata? Come è
stata possibile questa scelta inaspettata? Bisogna guardare agli elettori del papa. La scelta è venuta
da un collegio di cardinali piuttosto vecchi, provenienti da paesi di tutto il mondo (l’età media si
aggirava attorno ai 72 anni). 22 I vecchi hanno indicato la via di una Chiesa sorprendente con la scelta
di Francesco. Il nuovo papa ha detto nella prima Messa ai cardinali:
La metà di noi siamo in età avanzata: la vecchiaia – mi piace dirlo così – è la sede della sapienza della vita. I vecchi
hanno la sapienza di aver camminato nella vita, come il vecchio Simeone, la vecchia Anna al Tempio. È proprio quella
sapienza che ha fatto loro riconoscere Gesù. Doniamo questa sapienza ai giovani: come il buon vino che, con gli anni,
diventa più buono, doniamo ai giovani la sapienza della vita. 23
Sono parole importanti in un mondo che emargina e abbandona al loro destino gli anziani e non
crede alla loro funzione: l’ideale diffuso è l’individuo solo, giovane, autosufficiente. La vecchia
Chiesa di Roma, con un senato di anziani, ha eletto un uomo che porta un messaggio giovane (il
cardinal Bergoglio, che ha 76 anni, peraltro aveva già presentato le sue dimissioni da arcivescovo di
Buenos Aires, per aver superato il limite di 75 anni di età imposto a tutti i vescovi). I cardinali hanno
mostrato la fecondità della vecchiaia, vissuta come esperienza di umanità aperta al futuro. Papa
Francesco – fin dalle prime parole – ha manifestato una ventata di freschezza umana ed evangelica,
quasi una risposta al clima di ingrigimento.
I temi della vecchiaia e della giovinezza sono apparsi immediatamente legati all’elezione di papa
Bergoglio che, fin dal principio, ha suscitato molto consenso tra la gente. Un vecchio papa ha
manifestato subito una grande freschezza, anzi la giovinezza della Chiesa. Un teologo e vescovo,
Bruno Forte, ha richiamato le parole di Giovanni Crisostomo per illustrare la sorpresa del Conclave:
la Chiesa è «più alta del cielo e più grande della terra, e non invecchia mai: la sua giovinezza è
eterna». 24 Il cardinale Newman, parlando della seconda primavera della Chiesa, diceva: «Il mondo
invecchia: la Chiesa è sempre giovane…». 25
Il problema della Chiesa «ingrigita» non è la presenza dei vecchi, ma l’assenza di speranza,
insomma il cedimento al pessimismo. Il pessimismo è la paura dei vecchi o dei meno vecchi di
essere visti invecchiati: è il timore di non riuscire a forgiare il futuro, ma di dover spasmodicamente
allungare il presente. Giuseppe De Rita ha sostenuto che, se il tempo non è abitato dalla storia,
questo diventa vuoto, anzi vecchio. Vivere la vita come storia non fa sentire il tempo pesante. 26 E la
storia è senso del futuro, ma anche un insieme di rapporti, prospettive, obiettivi da raggiungere.
Con l’elezione di un papa anziano, la Chiesa ha compiuto un atto di giovinezza spirituale: ha
mostrato come un uomo considerato al di là dell’età pensionabile possa ancora essere molto utile a
guidarla sulla via del futuro. È un’espressione della differenza della Chiesa dalla società che
abbandona gli anziani o li disprezza. Bisognerebbe che la Chiesa assumesse più coscienza della
propria diversità anche a questo livello. Colpisce molto vedere la sensibilità di Bergoglio al dolore
degli anziani: ad esempio parla di «eutanasia nascosta, ossia la scarsa attenzione agli anziani negli
ospedali e nelle strutture assistenziali, che non prestano loro le cure mediche e l’assistenza di cui
hanno bisogno». 27
Ma perché il disprezzo della vita dell’anziano è divenuto oggi una pratica costante? Bergoglio
risponde con lucidità: «Quando crediamo che la storia abbia inizio con noi, cominciamo a non
rendere onore all’anziano». 28 Questo è il grande problema umano del nostro tempo: la riduzione
della storia a me, che fa dimenticare chi mi ha preceduto nella vita, ma anche chi mi accompagna nel
presente, come sono gli anziani. Si tratta di un insieme di egocentrismo e – vorrei dire – di
«presentismo». Più che di riduzione della storia, alla fine, si dovrebbe infatti parlare di morte della
storia nella sua dimensione primigenia che è la fine della storia familiare.
Giovinezza e vecchiaia si intrecciano nella vita della Chiesa dei primi mesi del 2013. Benedetto
XVI si dimette perché anziano; ma un papa anziano rende la Chiesa più giovane. Questi sono i
passaggi attraverso cui è maturata la sorpresa del marzo 2013, che ha generato un significativo
cambiamento nella Chiesa cattolica.
Che cosa è successo?
Ma è possibile che in pochi mesi tutti i problemi siano stati risolti? Il nuovo papa ha convocato
una commissione di cardinali per discutere di riforme della Curia; quindi ha ammesso che esistono
problemi reali. È innegabile, ma qualcosa è già cambiato in profondità. Lo si coglie molto bene già
dai primi mesi del 2013. Non si tratta solo di un gioco dei media che, oggi, guardano la Chiesa in
modo più favorevole. Come è possibile che una realtà giudicata in drammatico declino sia oggi
considerata positivamente? Che cosa è successo?
Non si può attribuire a Benedetto XVI la responsabilità della crisi della Chiesa e al cambio di
pontificato la sua soluzione. Sarebbe un facile gioco di specchi. Anzi bisogna dar atto a Ratzinger di
aver avuto un grande coraggio nell’affrontare i problemi e nel ritirarsi, presagendo che ci voleva un
nuovo papa – con rinnovate energie – per dar vita a una condizione diversa, consapevole di non
avere le forze fisiche per realizzarla. La storia metterà in luce il valore del suo pontificato. Restano
naturalmente tanti problemi aperti. Né si deve credere che il nuovo papa, in un batter d’occhio, potrà
risolverli. Sono questioni importanti, ma la sfida è ben più profonda: una comunicazione rinnovata e
appassionata del Vangelo.
Per meglio comprendere i primi tempi del pontificato di papa Francesco bisogna riandare a quelli
di Giovanni XXIII, senza forzati parallelismi tra due uomini diversi. Monsignor Capovilla, segretario
di papa Giovanni, scrive di lui: «Egli, il vecchio, senza traumi e forzature seppe invece prendere la
velocità della nostra epoca e rimettere più accentuatamente in circolazione il linguaggio di Cristo». 29
Così non solo i cattolici, ma i cristiani e i non credenti cominciarono a chiedersi: «Cosa dice di
straordinario quest’uomo?». E, mentre se lo chiedevano, si ritrovarono «quasi inavvertitamente con
gli occhi umidi e pieni di commozione…» conclude il segretario. 30 Giovanni XXIII – nota Capovilla
– parlava di cose semplici: amore, perdono, ricerca dell’unità, osservanza della legge di Dio. Ma
qualcosa era successo: si rimetteva in circolazione «il linguaggio di Cristo». Questo è il fatto
decisivo avvenuto nella comunità dei credenti e fuori dalle sue ampie e complesse frontiere.
Che cosa è successo con papa Francesco? Si è stabilito un rapporto nuovo tra il papa e il popolo
cristiano. Non è solo qualcosa di mediatico. Si è realizzata una «simpatia» profonda. Questa simpatia
non è qualcosa di accessorio o sentimentale. Scrive Eugenio Lecaldano, in un libro dedicato alla
Simpatia: «Non è in se stessa un’emozione o un sentimento: in realtà provare simpatia non significa
sentire un contenuto emotivo specifico, ma si prova simpatia solo in quanto si riesce a partecipare e
sentire i contenuti emotivi e affettivi, negativi o positivi, della persona con cui si simpatizza». 31
Amartya Sen, il grande economista indiano, sostiene che, nel mondo globalizzato, solo un
allargamento dei sentimenti di simpatia può portare ad affrontare le nuove e grandi difficoltà che si
presentano, come le immense distanze che si stabiliscono tra le persone e tra le comunità. 32 La
globalizzazione richiede quasi di essere riempita di maggior simpatia.
La simpatia è decisiva nella vita della Chiesa nel mondo. Nel primo ritratto che gli Atti degli
Apostoli fanno della comunità cristiana di Gerusalemme, si scrive che i cristiani godevano «il favore
di tutto il popolo» (2,47). La vecchia traduzione italiana della Bibbia parlava, con più efficacia,
della «simpatia di tutto il popolo». Nell’originale greco del Nuovo Testamento si trova la parola
káris, che significa grazia: quei primi cristiani erano nelle grazie di tutto il popolo. Quella simpatia
non era il frutto di un cedimento al mondo, tanto che gli apostoli furono perseguitati, il diacono
Stefano fu ucciso e «scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme» (Atti 8,1).
La simpatia di quella comunità è simile a quella dei profeti d’Israele. Abraham Heschel, che ha
studiato il messaggio dei profeti, ne parla come di «una religione della simpatia» (nel senso di
provare pathos per qualcuno).
Quando il divino è percepito come misteriosa perfezione, la risposta è timore e tremore; quando viene percepito
come volontà assoluta, la risposta è l’obbedienza incondizionata; quando è percepito come pathos, la risposta è la
simpatia. 33
Il profeta – dice Heschel – è un «homo sympathetikos»:34 percepisce il pathos di Dio, non
memorizza semplicemente il suo messaggio, bensì si lascia scuotere e armonizza la sua vita alla
Parola di Dio, coinvolgendo i suoi sentimenti e quelli di chi lo ascolta. L’uomo di Dio non si
subordina silenziosamente a Dio, ma si identifica con tutto il cuore e con tutta la mente nel messaggio
di Dio: «Essere profeta» conclude «significa identificare la propria sollecitudine con quella di
Dio». 35 La simpatia tocca prima di tutto il rapporto dell’uomo con Dio, ma si allarga verso tutti gli
altri. Scrive Heschel:
Simpatia è uno stato d’animo nel quale la persona è aperta alla presenza di un altro. È un sentimento che percepisce
il sentimento cui reagisce: l’opposto della solitudine emotiva: nella simpatia profetica l’uomo è aperto alla presenza e
all’emozione del Soggetto trascendente. Reca dentro di sé la coscienza di ciò che sta accadendo a Dio. Per questo la
simpatia ha una struttura dialogica. 36
La simpatia verso Dio (prima di tutto) diventa nei profeti un atteggiamento costante, non un
sentimento passeggero o un’estasi: è un amore che permea la vita del profeta e lo porta a Dio.
L’uomo simpatetico con Dio si interessa del mondo, perché il mondo si apra ed entri nel pathos (in
tutte le sue gradazioni, dall’ira alla tenerezza) che Dio ha per l’umanità. «La simpatia apre l’uomo a
Dio» conclude Heschel: «Ma se non ne condividiamo la sollecitudine [per gli uomini], non sappiamo
niente del Dio vivente». 37 Il profeta, secondo Heschel, non si definisce per la ragionevolezza del suo
messaggio, ma perché il pathos di Dio lo ha profondamente coinvolto, anzi gli ha toccato il cuore
(che, come è noto, per la Bibbia è il centro della persona).
Papa Bergoglio, fin dall’inizio, ha mostrato di essere un uomo coinvolto nel pathos di Dio, capace
di manifestare questa realtà in una simpatia comunicativa e, vorrei dire, profetica. Lo stesso papa, in
un suo libro, che raccoglie testi di esercizi spirituali, ha scritto: «Un’altra tentazione è privilegiare i
valori del cervello rispetto a quelli del cuore. Non dimentichiamolo mai: solo il cuore unisce e
integra. La comprensione senza il sentire compassionevole tende a dividere. Il cuore coniuga l’idea
con la realtà, il tempo con lo spazio, la vita con la morte e l’eternità». 38 Il messaggio di Francesco
appare, a chi lo ascolta, qualcosa che sgorga dal cuore e che parla al cuore, unendo e integrando. Il
suo sentire ha creato una nuova comunicazione con la gente. Questa è la realtà che appare agli occhi
di tutti.
Il cardinal Bergoglio, dopo la sua elezione, ha risposto con queste parole alla domanda rivoltagli
«Acceptasne electionem de te canonice factam in Summum Pontificem?»: «Sono peccatore e ne ho
coscienza, ma ho una grande fiducia nella misericordia di Dio. Poiché voi mi avete eletto o,
piuttosto, perché Dio mi ha scelto, io accetto». Poi è seguita un’altra domanda: «Quo nomine vis
vocari?». «Vocabor Franciscus»: mi chiamerò Francesco, così ha detto il cardinal Bergoglio,
facendo allusione al santo di Assisi. Francesco non figura nella lunga lista dei papi di Roma, non è un
nome tradizionalmente papale. Anzi tutti i papi del secondo millennio hanno preso i nomi già usati in
passato da altri pontefici, mai nuovi, con l’eccezione di papa Luciani che ha unito quelli di Giovanni
e di Paolo. Volevano sottolineare la continuità e la tradizione. Bergoglio ha invece comunicato
qualcosa di nuovo e di antico.
Francesco è un nome che suona come un programma, quello del Vangelo per le strade, amico dei
poveri in una Chiesa povera, amica di Cristo e della gente. Francesco è nome della semplicità. Il
papa ha un nome da persona comune, non aulico o papale. Francesco d’Assisi, un uomo totalmente
immerso in Dio, l’alter Christus, era segnato dalla radicalità evangelica e dall’immedesimazione in
Gesù, grande amore della sua vita. Ma Francesco è anche l’uomo della «cortesia»: «generoso e
cortese» lo definisce la Leggenda dei Tre Compagni. 39 La sua cortesia non è la virtù dei ceti alti
medievali, ma l’immedesimazione in Dio. Egli infatti diceva: «Sappi, frate carissimo, che la cortesia
è una delle proprietà di Dio, il quale dà il suo sole e la sua pioggia ai giusti e agli ingiusti; e la
cortesia è sirocchia della carità, la quale spegne l’odio e conserva l’amore». 40
Il Dio di Francesco è cortese e il suo discepolo diventa mite, accogliente, buono,
compassionevole, discreto… 41 La rivoluzione francescana, nella vita della Chiesa del Duecento, ha
significato un Vangelo che ritorna amico degli uomini, per le strade, umano e vicino. Il Vangelo sine
glossa, senza aggiunte, predicato con semplicità, cambia in profondità la vita degli uomini e delle
donne, quindi anche la cultura e le abitudini della società. Non è una riforma politica, ma è
socialmente incisivo, proprio perché semplice e personale. Ancora oggi, in tanta parte del mondo
cattolico, magari solo come prima impressione, il nome di Francesco risuona come un messaggio di
richiamo al Vangelo puro.
Che cosa è successo con l’elezione di papa Francesco? Il nuovo papa ha immediatamente parlato
della misericordia di Dio. Si è rivolto a donne e uomini sotto il peso della crisi economica, inquieti e
infragiliti. La misericordia di Dio è larga, ben più di quanto si possa credere. Francesco ha detto:
«Torniamo al Signore. Il Signore mai si stanca di perdonare: mai! Siamo noi che ci stanchiamo di
chiedergli perdono. E chiediamo la grazia di non stancarci di chiedere perdono, perché Lui mai si
stanca di perdonare. Chiediamo questa grazia». 42 Il suo è stato un messaggio di speranza, sensibile
all’umanità delle persone. Così ha detto per la Pasqua 2013:
Siamo spesso stanchi, delusi, tristi, sentiamo il peso dei nostri peccati, pensiamo di non farcela. Non chiudiamoci in
noi stessi, non perdiamo la fiducia, non rassegniamoci mai: non ci sono situazioni che Dio non possa cambiare, non c’è
peccato che non possa perdonare se ci apriamo a Lui. 43
Le parole e le uscite pubbliche di papa Francesco, senza grandi gesti eclatanti, hanno creato una
simpatia tra lui e la gente. Lo dimostra l’incredibile afflusso di persone ogni volta che il papa parla a
San Pietro o si sposta per Roma e l’Italia o va all’estero. Sembra che la gente ami ascoltarlo, perché
si sente coinvolta in una dimensione diversa. È un uomo che non parla di sé, ma di Dio. Anche fuori
da Roma o dall’Italia il clima di attenzione al messaggio del papa è intenso. Che cosa è successo con
la sua elezione? La Chiesa sembra uscita dal clima di declino. Qualcosa di nuovo può accadere e
qualcosa può cambiare nella vita di chi crede. Non è un programma riformista, ma un messaggio
fondato su di un Vangelo, che impregna la vita del papa che, appunto, si chiama Francesco. L’attesa
si è di nuovo orientata verso la speranza del futuro. Anche i media hanno capito che qualcosa di
profondo è successo nella vita della Chiesa. Infatti papa Bergoglio ha detto: «Fratelli e sorelle, non
chiudiamoci alla novità che Dio vuole portare nella nostra vita». 44
La simpatia del Concilio
Papa Bergoglio non cita molto i testi del Concilio, come talvolta avviene nell’oratoria
ecclesiastica dell’ultimo mezzo secolo. Eppure il suo messaggio e il suo stile sono impregnati del
Vaticano II. In un commento alle letture della Messa della mattina per un gruppo di fedeli, il papa ha
parlato del Concilio:
Vogliamo che lo Spirito Santo si assopisca … vogliamo addomesticare lo Spirito Santo … Questa tentazione ancora
è di oggi. Un solo esempio: pensiamo al Concilio. Il Concilio è stato un’opera bella dello Spirito Santo. Pensate a papa
Giovanni. Sembrava un parroco buono e lui è stato obbediente allo Spirito Santo e ha fatto quello. Ma dopo cinquanta
anni, abbiamo fatto tutto quello che lo Spirito Santo ci ha detto nel Concilio? No. Festeggiamo questo anniversario,
facciamo un monumento, ma che non dia fastidio. Non vogliamo cambiare. Di più: ci sono voci che vogliono andare
indietro. 45
Così ha concluso parlando della resistenza dei cristiani allo Spirito Santo:
Questo si chiama essere testardi, questo si chiama voler addomesticare lo Spirito Santo, questo si chiama diventare
stolti e lenti di cuore. Succede lo stesso anche nella nostra vita personale. Infatti lo Spirito ci spinge a prendere una
strada più evangelica. 46
Abbiamo fatto tutto quello che lo Spirito Santo ci ha detto nel Concilio?, si chiede il papa.
Leggendo alcuni suoi testi, si ha la sensazione che per lui il Concilio sia un appuntamento decisivo
per la vita della Chiesa e per lui stesso. Il Vaticano II non è per Francesco una bandiera progressista
da sventolare contro il conservatorismo della Chiesa, magari notando come i suoi orientamenti non
siano stati recepiti nei decenni postconciliari. Non c’è in lui, d’altra parte, nulla che faccia pensare a
una critica al Concilio, come origine della crisi della Chiesa contemporanea.
Bisogna pensare che Jorge Bergoglio è entrato in seminario nel 1958, all’inizio del pontificato di
papa Giovanni, ed è stato ordinato prete nel 1969, a quattro anni dalla chiusura del Vaticano II. Negli
anni difficili della dittatura militare, senza mai essere un cattolico conservatore, non ha condiviso
l’identificazione della fede con la lotta politica sia nel senso rivoluzionario sia, tantomeno, in quello
della sicurezza nazionale anticomunista. Ha varie volte parlato chiaramente del rischio della
ideologizzazione della fede.
La sua figura e la sua pastorale sembrano imbevute dello spirito del Concilio. Non che si voglia
contrapporre uno spirito del Concilio alla lettera dei suoi testi. Infatti in un importante discorso del
2005, Benedetto XVI ha affermato la necessità di leggere il Concilio in una logica di riforma e di
continuità con la tradizione, non come un evento di rottura. 47 Ha inoltre criticato chi sostiene che lo
spirito del Concilio, che sarebbe solo parzialmente espresso in testi frutto di compromesso, debba
farsi strada con spinte innovatrici e originali. La visione di Benedetto XVI non è diversa da quella
dei papi del Concilio e di Giovanni Paolo II. Tuttavia c’è innegabilmente uno spirito del Concilio,
che si ritrova nei testi elaborati e nel clima vissuto dai padri conciliari e comunicato alla Chiesa
durante e dopo l’evento. In modo molto significativo, Paolo VI, nel discorso di chiusura dell’ultima
sessione conciliare, ha affermato:
Vogliamo piuttosto notare come la religione del nostro Concilio sia stata principalmente la carità: e nessuno potrà
rimproverarlo d’irreligiosità o di infedeltà al Vangelo per tale precipuo orientamento … La Chiesa del Concilio, sì, si è
assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che la unisce a Dio, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta:
l’uomo vivo, l’uomo tutto occupato di sé … L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del
Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (e tanto maggiori sono quanto più
grande si fa il figlio della terra) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo. 48
Paolo VI ha ricordato come nel Concilio, pur nelle tante sfaccettature dei suoi dibattiti e dei suoi
testi, ci sia stato un atteggiamento di fondo verso la realtà del mondo contemporaneo: «Una simpatia
immensa lo ha tutto pervaso». Significativamente il papa ha fatto della parabola del buon samaritano
il paradigma della spiritualità conciliare, con il suo fermarsi accanto all’uomo mezzo morto sulla via,
con il prendersi cura di lui in modo compassionevole e realista, infine con il misurare il proprio
cammino non con gli appuntamenti del levita o del sacerdote, ma con il bisogno dell’uomo ferito. 49
Questo non significa identificare la Chiesa con un’opera sociale o una lotta politica. La Chiesa ha
un suo spessore proprio. Paolo VI lo aveva già detto nella sua enciclica programmatica, Ecclesiam
suam, mostrando come la Chiesa non si identifichi con il mondo, ma si distingua da esso: «Ma questa
distinzione non è separazione. Anzi non è indifferenza, non è timore, non è disprezzo. Quando la
Chiesa si distingue dall’umanità non si oppone ad essa, anzi si congiunge». 50 La Chiesa si congiunge
con grande simpatia all’umanità, anche se si distingue per il suo messaggio.
Questa è la sua missione, che Paolo VI identifica nell’Evangelii nuntiandi, proprio
nell’evangelizzazione. 51 È una linea che parte da Giovanni XXIII, esposta proprio nel suo discorso di
apertura della prima sessione conciliare. Pur avendo presente i tanti concili che avevano condannato
errori ed eresie, papa Giovanni individuò l’orientamento prioritario del Vaticano II, non nella
condanna ma nella misericordia: «Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori: spesso li ha anche
condannati con la massima severità. Ora tuttavia preferisce usare la medicina della misericordia
piuttosto che della severità». 52
La Chiesa del Concilio, come il samaritano della parabola, usa la medicina della misericordia
con l’uomo e la donna contemporanei. Una costituzione, la Gaudium et spes, è interamente dedicata
ai rapporti della Chiesa con il mondo contemporaneo. Questo testo (che per alcuni è segnato
dall’ottimismo degli anni Sessanta, ma che mantiene oggi la sua validità) si conclude con questa
affermazione: i cristiani «niente possono desiderare più ardentemente che servire con maggiore
generosità ed efficacia gli uomini del mondo contemporaneo». Lo fanno aderendo al Vangelo, uniti ai
cercatori di giustizia, convinti che sia «un compito immenso». 53
Al di là del dibattito sul Vaticano II, sulle deformazioni dello spirito del Concilio e del rapporto
tra spirito e lettera, l’evento conciliare ha inaugurato un atteggiamento di simpatia verso la gente da
parte di una Chiesa nuovamente e più radicalmente centrata sul suo Signore: insomma una Chiesa che
ama di più Dio, manifesta con più profondità il suo legame simpatetico con le donne e gli uomini del
proprio tempo. Si è equivocato sul Concilio. Lo si è ridotto a una serie di riforme attuate o inattuate,
ma il Concilio è qualcosa di più. È un ponte, attraverso cui i cristiani di oggi si collegano alla grande
Tradizione che ha nel Vaticano II, un passaggio ineludibile. Ma è anche un fascio di luce che si
proietta sul futuro. Il Concilio ha preparato la Chiesa alle grandi sfide della globalizzazione, anzi
proprio ad abitare in essa con la sua missione.
Giovanni Paolo II ha vissuto tutto lo svolgimento del Vaticano II da padre conciliare e lo ha
recepito a Cracovia in modo originale: è stato il papa della recezione del Concilio dopo Paolo VI.
Nel suo testamento, mentre guarda al nuovo secolo, il ventunesimo, afferma l’attualità del Vaticano
II: «Sono convinto» dice «che ancora a lungo sarà dato alle nuove generazioni di attingere alle
ricchezze che questo Concilio del XX secolo ci ha elargito».54 Papa Bergoglio è un vescovo
conciliare: è stato nominato da Giovanni Paolo II in quell’America Latina dov’è stata forte la lotta tra
la teologia della liberazione e l’autorità della Chiesa, ma anche tra conservatori e progressisti (anche
se i due termini appaiono impropri). 55 Il suo episcopato rappresenta una sintesi creativa che va al di
là delle fratture drammatiche del postconcilio, che hanno coinvolto anche l’Argentina. È l’uomo non
solo dei documenti conciliari, ma di quella simpatia evangelica che rappresenta tanta parte dello
spirito del Concilio. Questo è il papa che, in modo sorprendente, ha voluto il nome di Francesco.
Con un papa, una volta eletto, occorre sintonizzarsi, mentre necessitano tempo e spirito attento per
cogliere la strada da lui indicata. Talvolta ci vuole tempo, non solo per capire. È un esercizio
importante, perché la vita cristiana non è centrata attorno alla propria persona, tutta la Chiesa non si
riduce a un piccolo mondo o a se stessi, bensì è un destino comune di un vasto popolo. Con papa
Francesco però è scoppiata tra molti una sintonia immediata con la sua persona semplice, forse per il
suo nome popolare, per la sua parola forte e chiara. Un papa anziano – come si è detto – ha liberato
la Chiesa da un certo senso di decadenza. Questa non è una trovata giornalistica.
Qualcosa di analogo avvenne più di mezzo secolo fa, nel 1958, quando dopo Pio XII, un pontefice
molto amato (lo si è troppo dimenticato), venne eletto Giovanni XXIII: scoppiò una simpatia
immediata che fece dimenticare il predecessore. Giovanni XXIII (anche lui anziano) era il papa
buono: in quegli anni di guerra fredda offriva la speranza che il clima cupo e grigio finisse presto. 56
Il termine coniato fu «primavera» della Chiesa, che poi ritorna nelle immagini usate durante il
Concilio Vaticano II. Atenagora, patriarca di Costantinopoli, disse: «venne un uomo mandato da Dio,
il suo nome era Giovanni». 57 Che cosa è successo nel 2013 nel mezzo di una Chiesa giudicata
declinante? È venuto un papa che si chiama Francesco…
Liberi di sperare
Era diffuso un forte pessimismo sul futuro della Chiesa, come si è detto. A questo pessimismo
corrispondeva un diverso ma parallelo giudizio piuttosto negativo della Chiesa nei confronti della
società. Era riapparsa anche quella lettura della realtà contemporanea che il Concilio e lo stesso
Giovanni Paolo II non avevano alimentato: le nostre società europee si stavano allontanando
profondamente dalla fede e dai modelli di vita cristiani, mentre nel grande Sud prevalevano le sette e
soprattutto l’islam. Il cristianesimo era sotto scacco nel mondo: bisognava resistere. Ma era una
resistenza generalmente vissuta come un rallentamento del processo di secolarizzazione considerato
ineliminabile. I temi bioetici, le manipolazioni sull’uomo, quelli riguardanti una concezione della
famiglia contraria a quella della Chiesa, sono alcuni aspetti del dibattito. Sembrava questa l’ultima
trincea di una Chiesa che faceva fatica a essere un polo di attrazione nella società.
La critica progressista – si pensi al riferimento più anziano e autorevole in Europa e non solo,
Hans Küng – insisteva sul fatto che la Chiesa era in declino perché aveva perso tutti gli appuntamenti
per aggiornarsi alla modernità, cambiando le sue strutture, l’etica sessuale, il sistema di autorità. 58
Ma la storia del declino di varie Chiese evangeliche europee e di quella anglicana mostra che,
adattandosi, non si esce dalla spirale negativa. 59 Giovanni Paolo II aveva risposto che la Chiesa non
diventava attuale attraverso l’adattamento. L’attualità della Chiesa è infatti la fedeltà alla
comunicazione del Vangelo in un rapporto vivo con le donne e gli uomini contemporanei.
Nei primi anni del XXI secolo, anche con l’affievolirsi dell’azione di papa Wojtyła, la Chiesa
complessivamente (quindi con diversità, eccezioni, misure differenti) rischiava di scivolare verso un
atteggiamento difensivo, venato da un inconfessato pessimismo sul proprio futuro e soprattutto sulla
realtà del mondo. Il pontificato di Benedetto in realtà portava a ben altra scelta, concentrato com’era
su un approfondimento spirituale e sul tentativo di un dialogo con la ragione occidentale. 60 Quella
della Chiesa era una condizione dovuta a molti fattori convergenti, come uno stato dei tempi, una
nuova caratterizzazione del mondo contemporaneo, il sentire europeo...
In questa prospettiva, papa Francesco ha marcato una rottura con i due pessimismi che
caratterizzano l’inizio di secolo: sulla Chiesa e sulla storia umana. Questo atteggiamento non nasce
da un’ingenuità. Bergoglio è consapevole delle ambiguità del presente. Lo si è visto dall’impegno
con cui si è posto nella società argentina, contrastando alcune scelte etiche e legislative, e
intervenendo conseguentemente. Sull’aborto, ha affermato: «Abortire equivale a uccidere chi non ha
modo di difendersi». Si tratta di «un genocidio quotidiano, silenzioso e protetto». 61 Ha poi parlato
dell’aborto nel quadro della cultura della morte, quella che è alla base dell’eutanasia e
dell’eutanasia nascosta che si mette in atto facendo mancare le cure necessarie agli anziani. La lotta
all’aborto – ha affermato – «la pongo all’interno della battaglia in favore della vita dal concepimento
fino a una morte degna e naturale». 62 La Chiesa, per Bergoglio, ha diritto di parlare sulla vita:
A volte il ministro religioso richiama l’attenzione su certi punti della vita privata o pubblica perché è la guida dei
fedeli. Non ha il diritto di intromettersi nella vita privata di nessuno, certo. Se nella creazione Dio ha corso il rischio di
renderci liberi, chi sono io per intromettermi? Condanniamo l’eccesso di pressione spirituale, che si verifica quando un
ministro impone le direttive, la condotta da seguire, in modo da privare l’altro della sua libertà. Dio ci ha lasciato
addirittura la libertà di peccare. 63
Sui temi etici e familiari, sul matrimonio gay e l’adozione dei bambini da parte delle coppie gay,
Bergoglio è convinto che la Chiesa «ha diritto di esprimere la propria opinione poiché è al servizio
della gente»: «se uno mi chiede un consiglio, ho il diritto di darglielo» conclude. 64 Si ritrova nel
cardinale argentino una posizione un poco diversa da quella del suo confratello gesuita, il cardinale
Carlo Maria Martini (che, pure, lui riconosce come uno dei più grandi scrittori spirituali del
Novecento). Martini sentiva la Chiesa «in ritardo» rispetto alla cultura del mondo e agli
appuntamenti della storia. 65
La visione di Bergoglio, pur piena di speranza sul futuro, sente la forza del male. Il male e il
peccato esistono. Sottovalutarli è la grande tentazione dei contemporanei: «Credo nell’esistenza del
Demonio. Forse il suo maggior successo» ha detto «in questi tempi è stato farci credere che non
esiste, che tutto possa essere risolto su un piano meramente umano». 66 Ma parlare della presenza del
signore del male non è demonizzare gli uomini: «una cosa è il Demonio, un’altra è demonizzare le
cose o le persone. L’uomo viene tentato, ma non per questo bisogna demonizzarlo». 67
Questo realismo biblico è ben lontano dal pessimismo sul destino delle persone. La vita degli
uomini e delle donne non è prigioniera del male. La Chiesa non è condannata ad assistere impotente
all’allontanamento dei fedeli dal suo messaggio. C’è una rottura in Bergoglio con il pessimismo che
aleggia nella Chiesa. Eppure l’arcivescovo di Buenos Aires non è un ingenuo. Basti ricordare la sua
analisi sulle conseguenze personali e sociali del processo di globalizzazione. Da pastore, il cardinale
conosce le difficoltà delle parrocchie, l’allontanamento dei fedeli, le condizioni esistenziali difficili
o contraddittorie di tanti.
Il peccato esiste, ma l’esistenza del peccato è anche un terreno su cui si sviluppa la speranza
cristiana: perché sul terreno del peccato fioriscono il perdono e la speranza di una vita diversa. Nel
peccato della persona è nascosta una domanda di Dio. Il peccato ammesso di fronte a Dio è un luogo
privilegiato per incontrarlo e crescere nella coscienza. Anche nelle situazioni peggiori e più lontane
c’è sempre una speranza di avvicinarsi e trovare perdono. 68
Non bisogna allora demonizzare in modo pessimistico gli uomini e le donne del nostro tempo. Non
si deve, d’altra parte, indulgere a una visione ottimistica della realtà o lassista. Il male esiste, ma un
cambiamento è possibile nella misericordia di Dio. La speranza espressa dal messaggio di Bergoglio
ha una sua forza matura, esperta di umanità, libera dal pessimismo, fiduciosa che la Chiesa possa
risorgere nei cuori delle persone. Se c’è stato un divorzio tra il popolo e il messaggio della Chiesa,
non è poi così definitivo, irrimediabile e profondo.
Quella di Bergoglio è la speranza matura del Vaticano II che, fin dal discorso inaugurale di
Giovanni XXIII, prese fortemente le distanze dal pessimismo sul mondo moderno. Le parole di papa
Roncalli espressero la scelta della medicina della misericordia come strumento principe del
Vaticano II. Il pessimismo sembra paradossalmente rendere inutile la misericordia. Così Giovanni
XXIII disse nel suo discorso di apertura ai padri conciliari di tutto il mondo raccolti a San Pietro per
la prima volta:
Nell’esercizio quotidiano del nostro ministero pastorale ci feriscono talora l’orecchio suggestioni di persone, pur
ardenti di zelo, ma non fornite di senso sovrabbondante di discrezione e di misura. Nei tempi moderni esse non vedono
che prevaricazione e rovina; vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando; e
si comportano come se nulla abbiano imparato dalla storia, che pur è maestra di vita, e come se al tempo dei concili
ecumenici precedenti tutto procedesse in pienezza di trionfo dell’idea e della vita cristiana, e della giusta libertà
religiosa. 69
Sono parole che segnano il nuovo clima del Concilio, prendendo le distanze dal pessimismo cupo
sul mondo, che aveva caratterizzato vasti settori del cattolicesimo tra Ottocento e Novecento. Ma
bisogna imparare dalla storia!, affermava papa Giovanni (era tra l’altro uno storico). Anche in altre
età della storia cristiana c’erano state grandi difficoltà, ma questo non condannava al declino né la
Chiesa né la società. Papa Giovanni ebbe parole forti:
A noi sembra di dover dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi che
incombesse la fine del mondo. Nel presente momento storico, la Provvidenza ci sta conducendo a un nuovo ordine di
rapporti umani, che per opera degli uomini e per lo più al di là della loro stessa aspettativa, si volgono verso il
compimento di disegni superiori e inattesi: e tutto, anche nelle umane avversità, dispone per il maggior bene della
Chiesa. 70
È un testo fondatore del corretto atteggiamento della Chiesa del Concilio di fronte al mondo: mette
in luce la speranza, che non si risolve in facile ottimismo, riconosce le difficoltà, ma guarda al futuro.
I profeti di sventura – una categoria su cui si è poco riflettuto – sono persone che hanno paura del
presente e degli altri. E guardano indietro con nostalgia, perché è facile mitizzare il passato sia per le
istituzioni che per le persone. Non così fa Giovanni XXIII, il padre del Concilio. Negli anni
postconciliari l’opinione cattolica ha spesso ondeggiato tra un facile ottimismo («se la Chiesa
cambiasse, il mondo si aprirebbe a lei») e il pessimismo sul futuro.
Bergoglio, che ha conosciuto le difficoltà della sua Chiesa e dell’Argentina, insiste sul fatto che
gli uomini sono peccatori, ma non condannati al male. Questo è l’elemento decisivo: niente può
condannarci al male, se non la nostra scelta. Per il Giovedì santo 2013, papa Francesco ha visitato il
carcere minorile di Casal del Marmo a Roma, dove ha parlato a giovani che hanno già visto la loro
vita segnata dal male. Questo il suo messaggio a quella umanità (sofferente e condannata fin dalla
giovinezza): «E non lasciatevi rubare la speranza, non lasciatevi rubare la speranza!». 71 Del resto il
papa aveva detto ai cardinali: «Non cediamo mai al pessimismo, a quell’amarezza che il diavolo ci
offre ogni giorno; non cediamo al pessimismo e allo scoraggiamento». 72 Per Francesco il pessimismo
che aleggia nella Chiesa (paragonato a una specie di «pane» offerto dal diavolo) è quindi frutto di un
disegno che vuole frammentare e svuotare i cristiani.
III
La cultura dell’incontro
Sperare è incontrare
Ogni uomo e ogni donna sono, al fondo, aperti alla speranza. Chi li considera già perduti finisce
per evitarli. L’incontro invece manifesta speranza verso di loro. Eppure l’incontro non è sempre
facile, quantomeno richiede di cambiare qualcosa in se stessi. Negli anni dell’ingrigimento, le
comunità ecclesiali hanno vissuto la tentazione dell’autoreferenzialità, frutto del pessimismo sul
mondo e sul loro futuro, che le spingeva a una certa inerzia. Non si può certo generalizzare. In tante
parti del mondo, il lavoro nelle comunità ecclesiali è grande. In Africa, ad esempio, le chiese sono
strapiene. Ma ci si dimentica talvolta di chi è fuori. Lo stesso potrebbe dirsi per movimenti cristiani
assorbiti nella loro vita interna. L’autoreferenzialità è una tentazione che viene da lontano, secondo
papa Francesco: rende poco interessati al grande mondo, popolato da donne e uomini di ogni tipo.
Il ministero pastorale di Bergoglio, già prima dell’episcopato, è impostato sull’incontro.
L’arcivescovo di Buenos Aires, che va in metropolitana, non è l’immagine di un prelato
anticonformista, ma di qualcuno che vuole incontrare e che si lascia incontrare. A chi gli chiedeva
cosa gli piacesse di più di Buenos Aires, il cardinale rispondeva nel 2011: «Camminare per la
strada. Ogni angolo di Buenos Aires ha qualcosa da raccontare».1 Il motivo principale di una vita
semplice da parte del papa, vissuta come tutti, non è l’esemplarità o tantomeno la demagogia, ma
appunto la volontà di incontrare gli altri e di lasciarsi incontrare. Il cardinale ha dichiarato con
grande chiarezza:
A una Chiesa che si limita ad amministrare il lavoro parrocchiale, che vive chiusa nella sua comunità, succede
esattamente come a una persona reclusa: si atrofizza fisicamente e mentalmente. O si deteriora come una stanza
chiusa, dove proliferano muffa e umidità. A una Chiesa autoreferenziale succede esattamente come a una persona
autoreferenziale: diventa paranoica, autistica. È ovvio che se uno esce in strada gli può anche succedere di avere un
incidente, ma preferisco mille volte una Chiesa incidentata che una Chiesa malata. 2
È un concetto che Bergoglio ha ripreso più volte dopo l’elezione a papa. Nel suo ragionamento,
c’è l’analisi della situazione difficile della Chiesa: non è il prodotto di un’assenza di riforme o del
bisogno di nuove strutture, ma è proprio una postura assunta nella società in modo autoreferenziale e
chiuso: «… una Chiesa la quale si limita solo a svolgere un lavoro amministrativo, a custodire il suo
piccolo gregge, è una Chiesa che alla lunga si ammala. Il pastore che si isola non è un vero pastore di
pecore, ma un “parrucchiere” di pecore che passa il suo tempo a mettere loro i bigodini, invece che
andare a cercarne altre». 3
Parlando alle riunioni dei cardinali prima del conclave, Bergoglio ha insistito
sull’autoreferenzialità. In quella sede si era discusso delle riforme della Curia romana. Ma la priorità
per il futuro papa stava nella collocazione della Chiesa nel mondo, insomma nel suo rapporto con la
gente e la vita quotidiana. Il testo di questo intervento (che sembra abbia fatto molta impressione ai
cardinali) è stato pubblicato poco dopo l’elezione del papa. 4 Ha continuato il cardinal Bergoglio:
Quando la Chiesa non esce per evangelizzare, diventa autoreferenziale e si ammala (cfr. La donna curva ripiegata
su se stessa di cui parla Luca nel Vangelo, 13,10-17). I mali che, nel tempo, colpiscono le istituzioni ecclesiastiche sono
l’autoreferenzialità e una specie di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse Gesù dice che Lui è alla porta e bussa.
Ovviamente il testo si riferisce al fatto che lui colpisce la porta dal di fuori per entrare ... Ma penso ai momenti in cui
Gesù bussa dall’interno per lasciarlo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Cristo dentro di sé e non lo
fa uscire. Quando la Chiesa è autoreferenziale, crede involontariamente di avere una luce propria … La Chiesa vive
per dare gloria degli uni agli altri. In parole povere ci sono due immagini della Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che
diffonde «Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans» e la Chiesa mondana che vive in sé e per se stessa. 5
Una Chiesa che vive in sé e per sé è spesso una comunità clericalizzata. Gli ecclesiastici, in
questo contesto, si danno gloria l’uno all’altro. Anche i laici – sostiene Bergoglio – vengono
clericalizzati in funzioni e aspirazioni tutte interne. 6 Una Chiesa non clericale e non autoreferenziale
sa uscire da sé. Non c’è una ricetta da applicare, ma una scelta esistenziale da fare: uscire e
incontrare. L’incontro con le persone è essenziale nella visione del papa. Lo si vede anche dalla
pratica del suo ministero. Nelle udienze dedica una parte cospicua del tempo a incontrare la gente,
quasi personalizzando il contatto con la folla. Questa era anche la via scelta da Giovanni Paolo II:
incontrare e farsi incontrare. Quel papa diceva che la gente non vuole solo sentire parole ma anche
«toccare». Francesco ribadisce: «È fondamentale che noi cattolici – sia sacerdoti che laici –
andiamo incontro alla gente». 7 Ci sono ormai novantanove pecore fuori dal recinto e una sola resta
dentro: questa è la sua visione.
In questa stagione della storia i cristiani debbono uscire dai loro recinti: i sacerdoti debbono
uscire dalle parrocchie e dai circoli ecclesiastici (ma anche dal linguaggio interno a questi ambienti).
Nell’incontro con i vescovi brasiliani, Francesco ha parlato criticamente di «pastorali “lontane”,
pastorali disciplinari che privilegiano i princìpi, le condotte, i procedimenti organizzativi ...
ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora» ha concluso «la “rivoluzione
della tenerezza” che provocò l’incarnazione del Verbo». 8 Bisogna percorrere la via della simpatia
per le donne e gli uomini del nostro tempo, vissuta sulla strada, non dietro ai muri della cittadella
ecclesiastica o dall’alto dei suoi spalti. Questo invito viene dal Concilio, dalla scelta prioritaria per
l’evangelizzazione compiuta da Paolo VI dopo il Vaticano II e da Giovanni Paolo II. Viene pure dalla
vita di Bergoglio, che è un uomo che ha fatto esperienza di umanità, perché ha vissuto nella sua
esistenza il gusto dell’incontro.
L’uscita dai recinti ha determinato le stagioni più felici del cristianesimo, come quella del
Duecento, quando il movimento francescano portò il Vangelo fuori dalle grandi cattedrali e dalle
abbazie, che erano le fortezze della fede. Il Vangelo prese, per così dire, a camminare sulla strada e
nella vita quotidiana della gente. Per il papa il compito odierno della Chiesa non è adattarsi alla
pratica della società – come vorrebbero certi progressisti – ma vivere l’arte dell’incontro sulla
strada degli uomini e delle donne. Una Chiesa più attrattiva non è una comunità cedevole, ma una
comunità dell’incontro. L’impegno a incontrare vale prima di tutto per i pastori. Il pastore, per
Bergoglio, «è qualcuno che va incontro alla gente». 9 Incontrare è anche una condizione di
«benessere» della stessa Chiesa:
Sono sinceramente convinto che, al momento, la scelta fondamentale che la Chiesa deve operare non sia di diminuire
o togliere dei precetti, di rendere più facile questo o quello, ma di scendere in strada a cercare la gente, di conoscere le
persone per nome. E non unicamente perché andare ad annunciare il Vangelo è la sua missione, ma perché se non lo fa
danneggia se stessa. 10
È una visione di Chiesa, come popolo di Dio, estroverso, missionario, capace di incontro. Non è
facile realizzare questa visione nelle grandi città anonime, dove la gente vive isolata e ignorata:
acquista però un valore tutto particolare proprio lì cercare la gente e conoscerla per nome, facendo in
modo che le donne e gli uomini della città non siano più anonimi. La Chiesa impara a conoscere i
loro nomi, che vuol dire le loro storie. Questa è la proposta che papa Bergoglio fa alla Chiesa del
XXI secolo: uscire per andare incontro alle donne e agli uomini, conoscerli, chiamarli per nome,
comunicare la speranza che viene dalla fede. È un’idea che il papa ha maturato nel suo ministero
pastorale a Buenos Aires: uscire, incontrare sono espressioni di fedeltà al Vangelo. Ai preti della sua
diocesi l’arcivescovo diceva: «Fate tutto quello che dovete, i vostri doveri ministeriali li sapete,
prendetevi le vostre responsabilità e poi lasciate aperta la porta». 11
La proposta di papa Francesco si presenta in forma semplice, senza il bagaglio di ricette
pastorali, metodologiche o altro. Durante la Settimana Santa del 2013, il papa ha detto:
La Settimana Santa è un tempo di grazia che il Signore ci dona peraprire le porte del nostro cuore, della nostra
vita, delle nostre parrocchie – che pena tante parrocchie chiuse! – dei movimenti, delle associazioni, e “uscire” incontro
agli altri, farci noi vicini per portare la luce e la gioia della nostra fede. Uscire sempre! E questo con amore e con la
tenerezza di Dio, nel rispetto e nella pazienza, sapendo che noi mettiamo le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, ma
poi è Dio che li guida e rende feconda ogni nostra azione. 12
Chi esce e incontra l’altro fa un’esperienza non prevedibile e controllabile. Perché l’incontro fa
esprimere l’altro che si incontra. Nell’incontro l’altro trova un amico. Forse trova pure un testimone
che lo aiuta ad andare verso l’amore misericordioso del Padre, magari a chiedere perdono. Forse
nasce un dialogo che rompe una solitudine profonda e fa stringere i fili di una solidarietà di destino.
Così, incontrando e uscendo, la Chiesa riprende a sperare e si libera dal pessimismo. Bisogna
avvicinarsi davvero agli altri e non sempre è facile, per la cultura di chi cerca di avvicinarsi e per la
realtà di chi ci si trova innanzi. Infatti, sulla strada della vita, si misurano le lontananze maturate negli
anni, esistenziali, culturali, quelle prodotte da un mondo in frammenti. Il poeta brasiliano Vinícius de
Moraes afferma: «la vita, amico, è l’arte dell’incontro, malgrado ci siano tanti disaccordi» (così si
intitolava anche un album pubblicato da questi con Sergio Endrigo e il poeta Ungaretti).
Il papa ha detto ai vescovi brasiliani, parlando di chi è lontano: «Serve una Chiesa che non abbia
paura di entrare nella loro notte». 13 Talvolta si presume che il mondo dell’«altro» sia negativo,
chiuso, ostile. Questa presunzione negativa spinge la Chiesa allo scontro, a quel muro contro muro
che rappresenta sempre una sconfitta per i cristiani, perché questi nello scontro – anche se hanno
ragione – perdono la loro attrattiva. Invece il mondo non è negativo, ma complesso, articolato,
contrassegnato da tante aperture, più o meno evidenti, accanto a chiusure. La speranza matura quando
la fede si misura con la realtà, le persone e i popoli. Dice Bergoglio:
Questa speranza è diversa dall’ottimismo. Non è perturbatrice, non teme il silenzio, si radica come le radici
nell’inverno. La speranza è sicura: ce la dona il Padre di ogni Verità. Discerne il buono dal cattivo. Non dedica un culto
all’ottimo (non cade nell’ottimismo) né si crede sicura nel pessimo (non è pessimista). Perché la speranza distingue il
bene dal male, è combattiva; e lotta senza ansia né accecamento … La proposta è proprio quella di una speranza
combattiva. 14
Miti e arditi nell’incontro
Papa Bergoglio non è un buonista che presenta un Vangelo con sconti e glosse. Il suo non è un
vago aperturismo. Sullo sfondo degli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola, il cardinale Bergoglio
presenta una lettura militare e militante della vita cristiana: «Chiederemo al Signore la grazia di
addentrarci nella dimensione belligerante della vita apostolica; grazia che ci libera
dall’inconcludente atteggiamento infantile che ci porta a “giocare con la pace” come con la guerra». 15
Questa dimensione «belligerante» implica servire Dio in modo radicale e lottare alla ricerca della
croce, «unico luogo teologico di vittoria». La croce è il cuore della vita cristiana, segno del senso
«belligerante» della vita cristiana: «Con la croce non si può negoziare, non si può dialogare: o la si
abbraccia o la si rifiuta». 16
Sulla scorta degli Esercizi Spirituali, in particolare della meditazione dei Due Stendardi,
Bergoglio afferma che «il Signore ci vede come suo popolo che muove il buon combattimento contro
il nemico» (e nel corso di questo ci sostiene e ci consola): «Il Signore è il generale in capo che dà
coraggio ai suoi … perché Egli sa quanto è dura la lotta e quanto il Maligno è senza legge né fede».17
L’incontro e la misericordia sono qualcosa di molto serio e si inquadrano in una visione belligerante
e militante della vita cristiana, che deve fare i conti con la paura di ciascuno. Bergoglio parla di una
«tenerezza combattiva». Aggiunge che nessuno può intraprendere la via del servizio cristiano se non
ha la speranza di vincere. È un’espressione, la «vittoria», che può lasciare perplessi. Conviene
leggere le parole di Bergoglio:
Nessuno può intraprendere una lotta se non è intimamente convinto in precedenza che sarà vincitore. Chi parte
sconfitto ha perduto la prima metà della battaglia. Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce innalzata come
una bandiera di vittoria. Questa fede invincibile si trova tra gli umili e noi l’acquisteremo e l’alimenteremo … Il volto
dell’umile, il viso di chi ha una pietà semplice, è sempre un viso di trionfo, sempre accompagnato da una croce. Invece,
il viso dell’orgoglioso è sempre un viso di sconfitta. Non accetta la croce e vuole una resurrezione senza pagarne il
prezzo. Separa quello che Dio ha unito. 18
Uscire dagli abituali recinti e incontrare è un passaggio che si nutre del desiderio di «vittoria»
cristiana, di cui parla il cardinale. Il sogno del cristiano è che il mondo e gli uomini possano
cambiare. Così cerca la «vittoria» anche attraverso un percorso faticoso. Il cardinale conclude:
«Saremo giudicati sulla scorta di quanto avremo saputo avvicinarci a “tutti gli uomini” riconoscendo
in quella stessa carne il Verbo di Dio». 19 Saremo giudicati da Dio – dice – proprio sull’incontro.
Ritorna in Bergoglio la riflessione sulla parabola del buon samaritano, paradigma della
spiritualità conciliare, tanto presente nel suo pensiero. Come il levita e il sacerdote, «molte persone
hanno disdegnato di avvicinarsi alla carne dei loro fratelli». Altri, secondo Bergoglio, si sono
avvicinati in modo sbagliato; oppure hanno scelto di incontrare solo alcuni in maniera selettiva;
infine troppi hanno gettato la loro vita nel mondo delle frivolezze «per dimenticarsi della
sofferenza». Costoro non hanno né cercato né incontrato nessuno. Infatti, in una vita autocentrata ed
egoista, gli altri divengono come trasparenti, invisibili. L’incontro con l’altro non è intellettuale o
astratto, bensì è contatto con la sua carne e la sua sofferenza. La «carne» dell’altro è una realtà più
volte richiamata nel pensiero del papa. Egli dice proprio sulla scorta della parabola del buon
samaritano:
Avvicinarsi alla carne sofferente significa invece aprire il cuore, lasciarsi commuovere, mettere il dito nella piaga,
portare sulle spalle il ferito, pagare due denari e alla fine farsi carico di tutte le spese. Saremo giudicati secondo quanto
saremo capaci di seguire questo modello. 20
La cultura dell’incontro con l’altro – chiunque esso sia e dovunque lo si incontri – porta a una
pratica impegnativa della vita cristiana. Ci si responsabilizza verso chi si è incontrato, talvolta ce lo
si carica sulle spalle. Il samaritano si fa responsabile del ferito, si affatica e spende le sue risorse
per lui. Eppure quel ferito era una persona con cui non aveva nessun legame, incontrata per caso
lungo la strada. Incontrarsi lega l’uno all’altro. Non si tratta solo di casualità per il cristiano: è
coinvolgersi in una responsabilità. Il rapporto che nasce non è legato a uno statuto specifico di
parentela o altro. Non si diventa responsabili dell’altro, solo perché esistono vincoli riconosciuti che
legano a lui. Gesù dice nel Vangelo: «Infatti se amate quelli che vi amano, che merito ne avete? ... E
se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?» (Matteo 5,46-47).
Ogni uomo diventa «naturalmente» custode (responsabile) di suo fratello, per il fatto che lo ha
incontrato, che lo ha conosciuto per nome. Il papa dice all’inizio del suo pontificato:
La vocazione del custodire, però, non riguarda solamente noi cristiani, ha una dimensione che precede e che è
semplicemente umana, riguarda tutti. È il custodire l’intero creato, la bellezza del creato, come ci viene detto nel Libro
della Genesi e come ci ha mostrato san Francesco d’Assisi: è l’avere rispetto per ogni creatura di Dio e per l’ambiente
in cui viviamo. È il custodire la gente, l’aver cura di tutti, di ogni persona, con amore, specialmente dei bambini, dei
vecchi, di coloro che sono più fragili e che spesso sono nella periferia del nostro cuore. È l’aver cura l’uno dell’altro
nella famiglia: i coniugi si custodiscono reciprocamente, poi come genitori si prendono cura dei figli, e col tempo anche i
figli diventano custodi dei genitori. È il vivere con sincerità le amicizie, che sono un reciproco custodirsi nella confidenza,
nel rispetto e nel bene. In fondo, tutto è affidato alla custodia dell’uomo… 21
La «custodia» manifesta la coscienza della responsabilità verso il creato, verso le persone con cui
si è legati in un modo o nell’altro. La «custodia» esprime anche la responsabilità verso l’altro che si
incontra. Nell’incontro con l’altro, si manifesta la scoperta che nessuno è estraneo agli occhi di un
credente. I cristiani debbono ritornare a incontrare gli altri, i lontani, i diversi, gli indifferenti, gli
ostili, gli estranei, guardandoli con simpatia e sincerità.
La Chiesa non può essere chiusa in se stessa e autocentrata, distratta perché concentrata su di sé,
disinteressata a chi è esterno al suo mondo. Il campo della Chiesa infatti non è il suo mondo, quello
ecclesiale o ecclesiastico, ma è il mondo intero. Questo è il vero spazio della Chiesa. C’è un passo
dell’Ecclesiam suam di Paolo VI, un papa caro a Bergoglio, che dice a proposito della Chiesa:
«Nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico,
che non voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è incaricata di
promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace». 22 Non bisogna aver paura dell’altro, demonizzarlo,
giudicarlo a priori, escluderlo dal nostro orizzonte.
Anzi il nemico stesso va amato, quindi non è un estraneo. Un santo monaco del Monte Athos,
morto negli anni Trenta, Silvano, riassumeva così l’insegnamento cristiano sull’amore per i nemici:
«l’amore per i nemici è criterio della verità». 23 Ma quali sono allora i limiti dell’attività della
Chiesa? Qual è la terra che appartiene al cristiano, lo spazio della sua responsabilità? Altrimenti
sarebbe un campo senza confini, quasi utopico. Non potrà essere il mondo intero! In fondo la Chiesa
traccia sul territorio i confini di una parrocchia o di una diocesi, mentre delimita l’impegno di
un’organizzazione a questo o a quell’ambiente. L’uomo e la donna sono limitati. Ci sono
responsabilità circoscritte a una condizione o a uno stato particolare.
Ma queste responsabilità sono solamente priorità. La parabola del buon samaritano infatti rivela
come l’uomo dal cuore aperto non si chiuda in un itinerario esclusivista o in uno spazio precostituito.
Bisogna ritornare alla figura biblica di Abramo, quell’uomo di fede che partì dalla sua terra verso la
terra che il Signore gli aveva promesso. Divenne nomade e visse lungamente in esilio. Ma, a un certo
punto, dopo la separazione con Lot, Dio si rivolse ad Abramo per rispondere alla domanda che egli
si portava dentro da tempo: quella sul suo futuro e sulla terra che gli sarebbe stata assegnata dopo
tanto vagare. Qual era la terra promessagli, dove cominciava e dove finiva?
Dio disse ad Abramo: «Alza gli occhi e dal luogo dove tu stai spingi lo sguardo verso il
settentrione e il mezzogiorno, verso l’oriente e l’occidente. Tutto il paese che vedi, io lo darò a te e
alla tua discendenza per sempre…» (Genesi 13,14-15). La terra di Abramo sarebbe stata vasta
quanto il suo sguardo si poteva inoltrare verso il Nord e il Sud, l’Est e l’Ovest. Non c’erano confini
predeterminati. Quello che Abramo poteva vedere era suo. Niente è estraneo all’uomo di Dio: basta
che lo veda! Nessuno gli è estraneo, se alza lo sguardo e lo vede. Non ci sono confini alla terra di
Abramo, a quella dei credenti, se non quelli imposti dal loro sguardo. Il loro rapporto, con la terra
che possono vedere, non è la proprietà o la sovranità, bensì la responsabilità. Nessuno è estraneo
alla loro responsabilità, se essi lo vedono. Tutto quel che vedi sarà tuo: è la «sovranità dell’amore
semplice e profondo», secondo le parole di Bergoglio. Verso nessuno il credente può dire, come
Caino: sono forse il custode di mio fratello? Verso nessuna terra, il credente può dire: sono straniero,
non mi riguarda…
Tutto quello che è umano riguarda il discepolo di Gesù. Bisogna vedere l’altro. Per questo
occorre uscire e incontrare, ma anche alzare lo sguardo che, invece, spesso abbiamo ripiegato su noi
stessi. Benedetto XVI ha scritto acutamente nella Deus caritas est: «Il programma del cristiano – il
programma del Buon Samaritano, il programma di Gesù – è un “cuore che vede”. Questo cuore vede
dove c’è bisogno di amore e agisce in conseguenza». 24 Uscire è un imperativo interiore della crescita
della fede: «se si rimane nel Signore si esce da se stessi. Paradossalmente proprio perché si rimane,
proprio se si è fedeli, si cambia» dice papa Bergoglio. La fedeltà non è tradizionalismo o
fondamentalismo, bloccato alla lettera. Chi prega alza gli occhi incontro all’altro con maggiore
apertura e perspicacia, uscendo da sé. Jorge Bergoglio ha scritto: «Intraprendere il cammino della
preghiera significa saper uscire da sé». 25 Sì, chi prega esce più naturalmente da sé, alza lo sguardo,
vede l’altro e vede con il cuore. La fede sorregge lo sguardo del cristiano:
Si può dire che lo sguardo della fede ci porta a uscire ogni giorno e sempre più incontro al prossimo che abita nella
città. Ci porta a uscire incontro all’altro perché si alimenta con la prossimità. Non tollera la distanza, poiché percepisce
che essa rende confuso ciò che vuol vedere; e la fede vuol vedere per servire e amare, non per constatare o dominare.
Uscendo per le strade, la fede limita l’avidità dello sguardo di dominio e aiuta il prossimo – quel prossimo concreto, che
guarda con il desiderio di servirlo … Chi dice di credere in Dio e “non vede” suo fratello, inganna se stesso. 26
Gesù insegna a vedere l’altro. Fu lui a mostrare ai discepoli distratti – dice il cardinale – che una
vedova aveva gettato il suo piccolo obolo nel tesoro del tempio: «l’unico che se ne accorse fu
Gesù». 27 È un tale sguardo che Gesù chiede ai suoi discepoli. Così il cristiano diventa responsabile
di chi vede e di chi incontra. Il suo «dominio» sulla terra si esercita attraverso una responsabilità
piena d’amore. La responsabilità è l’esercizio dell’amore, quindi la caduta della normale estraneità.
È un «dominio» molto particolare. Il possesso della terra da parte dei cristiani si ottiene, in realtà,
non con la conquista o con l’acquisto degli spazi, ma con un mite senso di responsabilità.
È il paradosso delle Beatitudini: «Beati i miti, perché erediteranno la terra» (Matteo 5,5). Il
possesso della terra non è dei ricchi (che possono comprarla), dei violenti e degli aggressivi (che
possono conquistarla), dei fortunati (che la ricevono in eredità dai loro padri): il possesso della terra
è dei miti. Questi, infatti, alzano il loro sguardo misericordioso e vedono l’altro, si legano a lui, se ne
sentono affettuosamente responsabili. Il mite del Vangelo non è colui che scivola nell’irrilevanza, ma
colui che si assume la responsabilità dell’altro con cura e senza spirito di dominio.
I cristiani miti non si ritraggono di fronte alle difficoltà, ai conflitti, alla complessità delle storie
umane. Bergoglio ama usare l’espressione «mansuetudine» («non è sinonimo di debolezza» precisa).
I miti non sono gli spaventati né gli spettatori irrilevanti. Sono coloro che affrontano la vita
quotidiana con la mansuetudine del loro Maestro. Sono coloro che lo ascoltano e lo pregano: lui ha
detto «imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Matteo 11,29). Per questo l’ascolto della
Parola di Gesù, il radicamento in lui formano un uomo e una donna miti che però posseggono la terra.
Possesso e mitezza possono andare insieme: questo è un paradosso cristiano.
Paolo lo spiega con molta efficacia nella Prima Lettera ai Corinti a cristiani preoccupati della
loro collocazione nella città di Corinto, ma anche dei problemi interni alla comunità: «… tutto è
vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi
siete di Cristo e Cristo è di Dio!» (3,22-23). In quel grido «tutto è vostro!», c’è la dimensione
belligerante della vita cristiana, ardita ma mite. «Tutto è vostro» vuol dire che i cristiani possiedono
tutto. I cristiani non sono estranei a niente e a nessuno, si interessano di quanti incontrano: tutto è
loro. Ma l’esercizio del loro dominio avviene in modo davvero particolare, senza titolo di proprietà,
con grande libertà, con rispettoso e responsabile coinvolgimento.
Un «orizzonte utopico»
Il cardinal Bergoglio ha molto insistito sul fatto che bisogna vedere in modo rinnovato la città:
Se partiamo dalla constatazione che l’anticittà cresce con lo sguardo e che la più grande esclusione consiste nel non
riuscire neanche a «vedere» l’escluso – quello che dorme per strada non viene visto come una persona, ma come parte
della sporcizia e dell’abbandono del paesaggio urbano, della cultura dello scarto, del rifiuto – la città umana cresce con
lo sguardo che «vede» l’altro come concittadino. 28
La pratica dello «sguardo della fede» sulla città diventa «fermento per uno sguardo civico». È la
proposta di quella che il cardinal Bergoglio chiama la cultura dell’incontro: così la Chiesa
contribuisce al vivere comune. Egli afferma: «La cultura dell’incontro è l’unico modo per far andare
avanti la famiglia e i popoli…». Per lui infatti l’Argentina vive purtroppo «in un clima permanente di
incontro mancato», attraverso fratture, scontri o processi di frammentazione, fino alla pratica
dell’individualismo quotidiano: «… gli argentini» sostiene «fanno gran fatica a incontrarsi. Siamo
molto individualisti, pensiamo subito agli affari nostri … l’incontro non è nelle nostre corde;
preferiamo notare quello che ci separa, anziché quello che ci unisce; tendiamo a potenziare il
conflitto, anziché l’accordo. Mi azzarderei a dire che ci piace farci la guerra a vicenda».
La storia del Novecento, secondo Bergoglio, con le sue proposte totalitarie (e accanto al
fascismo, nazismo e comunismo, egli colloca anche un certo liberalismo), ha teso ad atomizzare la
società. Infatti quella che Mosse ha chiamato la «nazionalizzazione delle masse» non produce una
crescita di legame comunitario tra persone. 29 In Argentina il mancato incontro è divenuto una
patologia sociale che genera inimicizie e un muro di pregiudizi. 30 Bisogna aprire nel paese una
riflessione sulla cultura dell’incontro: la diversità delle posizioni deve portare alla scoperta che è
possibile uno scambio nell’incontro. È la proposta del cardinale, avanzata, nel 2001, in quello che è
stato chiamato il «dialogo argentino», aperto alle forze sociali e alle religioni. 31 Bergoglio l’ha
rilanciata per il Bicentenario dell’Indipendenza. La situazione argentina è difficile, perché la società
sta perdendo l’identità collettiva: «Non si dice mai “io sono”, ma “io non sono”. Arriviamo a
sminuire l’altro per sembrare più grandi. Dobbiamo riconoscere che la mancanza di identità è
mancanza di appartenenza». 32
La situazione è resa più difficile dal gioco dei media, dalla disinformazione e dalla calunnia.
Anche la politica è divenuta estetica, forse teatro. Uno studioso italiano, Mario Perniola, ha notato
come, specie dopo il ’68 e con lo sviluppo della televisione, la politica abbia preso le distanze dal
mondo della cultura o almeno dalle idee, per incamminarsi in un legame stretto e condizionante con
l’estetica dell’immagine, tanto da divenire una politica estetica. 33 Il rabbino Abraham Skorka, in un
libro di conversazioni con Bergoglio, Il cielo e la terra, afferma che troppo spesso in Argentina le
grandi questioni nazionali sono gestite dai media come fossero una partita di calcio, «con fanatismo,
con argomentazioni fallaci, con approcci superficiali»: «l’unica cosa che si vuole è aizzare gli animi,
fomentare l’ira, agire in base a impulsi momentanei». 34 La società e la politica vivono in un conflitto
permanente (e non solo in Argentina). Parlando agli esponenti della classe dirigente brasiliana, papa
Francesco ha insistito sul dialogo, tenendo presente anche le tensioni sociali manifestatesi proprio
prima del suo viaggio nel paese:
Tra l’indifferenza egoista e la protesta violenta c’è un’opzione sempre possibile: il dialogo. Il dialogo tra le
generazioni, il dialogo nel popolo, perché tutti siamo popolo … Un Paese cresce quando dialogano in modo costruttivo le
sue diverse ricchezze culturali: la cultura popolare, la cultura universitaria, la cultura giovanile, la cultura artistica e la
cultura tecnologica, la cultura economica e la cultura della famiglia, e la cultura dei media, quando dialogano. È
impossibile immaginare un futuro per la società senza un forte contributo di energie morali in una democrazia che
rimanga chiusa nella pura logica o nel mero equilibrio di rappresentanza di interessi costituiti. Considero anche
fondamentale in questo dialogo il contributo delle grandi tradizioni religiose, che svolgono un fecondo ruolo di lievito della
vita sociale e di animazione della democrazia. Favorevole alla pacifica convivenza tra religioni diverse è la laicità dello
Stato, che, senza assumere come propria nessuna posizione confessionale, rispetta e valorizza la presenza della
dimensione religiosa nella società… 35
È una pagina significativa della proposta di Bergoglio alla società: la cultura dell’incontro nella
pratica del dialogo. Ma l’incontro è anche la chiave vera per affrontare i conflitti. Per un paese come
l’Argentina, la democrazia è il luogo dove le diversità e i conflitti si compongono e si risolvono. Il
cardinal Bergoglio dedica un ampio saggio alla rinascita politica e democratica dell’Argentina, Noi
come cittadini, noi come popolo, nell’occasione dei duecento anni dell’indipendenza nazionale.
Dopo le dolorose vicende dei regimi autoritari, il cardinale afferma la scelta della Chiesa per la
democrazia: «Riappropriandoci della democrazia abbiamo accarezzato la speranza che il nostro
paese potesse finalmente instaurare e riuscire a delineare un progetto comune. Abbiamo creduto di
poter risolvere le nostre divergenze e le tensioni interne con gli strumenti che ci offre la
politica…». 36
Si deve costruire un’unità superiore. La pace è la scoperta di un’unità superiore, quando si è presi
in ostaggio dalle diverse posizioni conflittuali. Qui Bergoglio riprende le ipotesi del teologo
protestante Oscar Cullmann avanzate in campo ecumenico: una differenza riconciliata, non abolita o
irriducibilmente condannata alla separazione. La chiave per la costruzione dell’unità è incontrarsi e
camminare insieme: «non scagliarci delle pietre, ma … continuare a camminare fianco a fianco. È
questo il modo giusto di procedere» conclude «nella risoluzione di un conflitto, sfruttando le
potenzialità di tutti, senza annullare le diverse tradizioni o cadere nel sincretismo». 37 Si debbono
affrontare i conflitti, senza restarne prigionieri. I cristiani sono davvero capaci di incontro e, per
questo, sono costruttori di unità: il loro compito è «immergersi nel conflitto, compatire il conflitto,
risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo». 38 In questo – lo si vedrà dopo –
i cristiani per Bergoglio hanno la loro funzione di «mediatori» e di artigiani di pace.
Per l’Argentina la grande questione è «consolidare una cultura dell’incontro e un orizzonte utopico
condiviso». 39 Solo così si supera una società in frammenti o conflittuale all’estremo. È vero che la
storia argentina è complessa e le radici del paese sono molteplici. Ma, attraverso la cultura
dell’incontro, è possibile costruire un’unità superiore. E occorre – egli nota – non solo intendersi tra
concittadini, ma guardare insieme al futuro del paese. Il cardinale parla di un comune progetto
nazionale da condividere. E usa l’espressione «orizzonte utopico». 40 Non ha infatti paura di questa
espressione che preoccupa di più il pensiero cattolico europeo, laddove l’utopia richiama tra l’altro
il ’68. L’utopia è una finestra sul futuro. «Le utopie» afferma Bergoglio «sono il frutto
dell’immaginazione, la proiezione verso il futuro di una costellazione di desideri e di aspirazioni.
L’utopia prende la sua forza da due elementi: da un lato … il malessere che genera la realtà attuale;
dall’altro, l’incrollabile convinzione che un altro mondo è possibile. Da qui la sua forza
mobilizzatrice». 41 Per questo il cardinale conclude:
Ogni patrimonio dev’essere utopico: se ne devono conservare le radici, ma bisogna consegnarlo ai figli con la
speranza che continuino a svilupparlo. Non dimentichiamoci che le utopie fanno crescere. Certo il pericolo non è solo di
cadere nella chiusura della riflessione patriottica … nella cieca fedeltà a ciò che si è ricevuto, ma anche nell’utopia
astorica, senza radici, nell’utopia dissennata, nell’utopia pura e semplice. 42
Coltivare la storia di una comunità, aprirla utopicamente al futuro nella speranza, è compito di
tutti. La cultura dell’incontro è una proposta cristiana e umana: è quanto la Chiesa ha da dire al
popolo, frutto della sua lunga esperienza di umanità e di amore sviluppatasi nei secoli e nel contatto
con gli uomini. La Chiesa ricorda che non ci sono né comunità né nazioni senza storia: «Noi argentini
abbiamo la pericolosa tendenza a pensare che tutto cominci oggi, a dimenticare che niente nasce dalla
zucca, né cade dal cielo come una meteorite». 43 La soppressione del senso della storia non riguarda
tanto il mondo dell’erudizione, ma qualcosa di più profondo. Per andarsi incontro, gli uomini e le
donne hanno bisogno di essere consapevoli della storia che hanno alle spalle e, allo stesso tempo,
necessitano di una speranza, di una visione utopica del futuro comune. Storia e speranza sono
connesse tra di loro.
Colorare la vita di amore e speranza
Per Bergoglio cercare quello che unisce e mettere da parte quello che divide – come insegnava
Giovanni XXIII – è una via maestra per realizzare un incontro vero. Giovanni Paolo II ha
approfondito il metodo (pastorale e diplomatico) proposto da papa Roncalli, non considerandolo
come frutto di buonismo o di irenismo facile. Proprio papa Wojtyła appare a Bergoglio un grande
testimone del valore del dialogo. Il cardinale ha curato una pubblicazione sull’incontro tra Giovanni
Paolo II e Fidel Castro, in cui osserva come il papa si sia fatto «pellegrino del dialogo, nell’intento
di apertura della Chiesa verso l’umanità, per invitare l’umanità all’apertura alla verità…». Per
Bergoglio papa Wojtyła ha quasi modellato il ministero del papa sul dialogo: «Il ruolo della Chiesa,
e specialmente del Vicario di Cristo, è quello di liberare, dialogare e partecipare, per costruire la
comunione tra gli uomini e la Chiesa. In questo modo, il dialogo, inteso come canale di
comunicazione tra la Chiesa e i popoli, si erge a strumento basilare per costruire la pace,
promuovere la conversione e creare fraternità». 44
La Chiesa di Bergoglio vive «una cultura dell’incontro che privilegi il dialogo come metodo, la
ricerca condivisa di consensi, di accordi, di ciò che unisce invece di ciò che divide e
contrappone…». 45 Incontrarsi e dialogare è ricostruire un tessuto comune di cultura. Il dialogo nasce
autenticamente quando si crede che l’altro abbia da dire qualcosa di significativo, che insomma si
possa imparare da lui. Una delle radici profonde dell’indifferenza nei rapporti umani è la mancanza
di interesse verso l’altro, quasi non significasse niente per me e non potesse dirmi nulla. La mentalità
utilitaristica accresce la mancanza di interesse per l’altro, qualora non venga identificato un qualche
tornaconto nel rapporto con lui. C’è nel futuro papa una ferma convinzione: ciascuno è portatore di un
valore, di un motivo di interesse, di qualcosa di positivo. Infatti afferma: «Dobbiamo essere coerenti
con il messaggio che riceviamo dalla Bibbia: ogni uomo è a immagine di Dio, che sia o non sia
credente. Per questa semplice ragione conta su una serie di virtù, qualità, grandezze». 46
Non è un’affermazione teorica, quella che ogni uomo è immagine di Dio; ma è una sapienza da
vivere, che ci fa scoprire il valore degli altri, che ci fa arricchire nei contatti, che esprime rispetto
per il significato della vita altrui. La ricerca del valore dell’altro è un’arte della vita, non sempre
facile, se si resta esterni al suo mondo o indifferenti alla sua persona. Il valore dell’altro, infatti, va
scoperto nella propria esperienza esistenziale e non è un principio da proclamare. Uno storico, il
vescovo Cataldo Naro, ha scritto in proposito: «Per amare è necessario ammirare. Si ama ciò che si
ammira, perché ci attrae e lo si trova bello». 47 Ciascuno ha qualcosa che può essere ammirato, anche
se a prima vista non appare. Questa è l’arte dell’incontro e del dialogo: «l’altro ha molto da darmi»,
è la fiducia di Bergoglio.
Ma c’è un rifiuto nei confronti del dialogo: dopo tanti anni – ci si chiede – quali sono i suoi frutti?
Anche guardando alla vita della Chiesa, dopo gli entusiasmi ecumenici e «dialoghisti» successivi al
Vaticano II, molta passione è svanita. Che risultati ha dato tanto impegno nel dialogare? Alla fine ci
si accomoda in un orizzonte ristretto, in cui gli «altri» (qualunque sia la loro alterità) impallidiscono
e perdono significato. Ci si concentra nel proprio mondo. Gli altri diventano troppi, invadenti e di
scarsa utilità allo stesso tempo, senza interesse per me. Se non si pratica il dialogo, si smarrisce il
senso dell’altro. Questo è vero per le singole persone come per le comunità. Nel mondo globale,
nella città globale, a fronte della perdita di senso e dello smarrimento culturale, bisogna investire
molto sul dialogo e sull’incontro.
Un aspetto tanto trascurato dal dialogo tra i cristiani è stato proprio quello dei «poveri». Che
c’entra con il dialogo, quando i poveri sono una questione sociale?, ci si potrebbe chiedere. L’amore
per i poveri unisce i cristiani tra di loro, ma anche gli uomini di buona volontà: c’è un indubitabile
ecumenismo della carità che avvicina i cristiani separati anche nel servizio ai deboli. Francesco ha
parlato espressamente di non cattolici o non cristiani che fanno il bene, suscitando la reazione
negativa di taluni cattolici, perché loro non sono «dei nostri». E il papa ha aggiunto: «fare il bene
tutti, credo che sia una bella strada verso la pace. Se noi, ciascuno per la sua parte, facciamo il bene
agli altri ci incontriamo là, facendo il bene, facciamo lentamente, adagio adagio, piano piano, quella
cultura dell’incontro: ne abbiamo tanto bisogno…». 48 Fare del bene insieme costruisce unità.
Scoprire il valore del bene fatto da chi non è dei nostri ci fa crescere nella stima e nell’interesse.
Il dialogo non è una strategia per ottenere qualcosa o per esercitare un dominio morale, bensì il
riconoscimento che l’altro ha qualcosa da dare, che siamo destinati a vivere insieme, quindi prima di
tutto a parlare. Attraverso il dialogo, senza uno scadenzario precostituito, si ricostruisce nel
quotidiano o su orizzonti più vasti il senso di un destino comune. Il dialogo si manifesta attraverso
tanti incontri, percorsi di simpatia e legami, un fascio di esperienze diverse che non possono essere
programmate o guidate. Ma tutto questo è efficace? Qualche volta, anche nella Chiesa, come ho detto,
ci si interroga sui risultati o sull’utilità di dialogare. Di incontro e di dialogo c’è stato sempre
bisogno, perché la presenza dell’altro si smarrisce nel nostro orizzonte. In un mondo vasto, anonimo,
scoppiano allora improvvise le ostilità, crescono i pregiudizi. Oggi, di fronte alla mondializzazione,
all’abolizione delle distanze geografiche (ma non culturali e umane), c’è ancor più bisogno di
incontro e di dialogo. Infatti gli uomini, i gruppi umani e le comunità talvolta sono separati da
distanze siderali, che sono fatte di ignoranza, diffidenza, anche se si vive non più tanto lontano. Nel
grande spazio della distanza (culturale, umana o geografica che sia) crescono pericolose estraneità o
inimicizie.
Marc Chagall, pittore russo di origine ebraica dalle vibrazioni religiose (che ha reso familiari le
immagini del mondo ebraico dell’Est, scomparso con la seconda guerra mondiale, quasi come Martin
Buber ha fatto con la letteratura dei chassidim), ha affermato all’inaugurazione del museo a lui
dedicato nel 1973: «Se tutta la vita va inevitabilmente verso la sua fine … dobbiamo colorarla con i
nostri colori di amore e di speranza». 49 Esercitando l’arte dell’incontro, ciascuno – anche una
persona semplice – «colora» il grigio della vita, riempie con un legame le distanze, talvolta
immense, che si creano tra ambienti, persone, mondi. Sembrano percorsi individuali, non connessi,
diversi e addirittura divergenti. In realtà corrispondono a un intimo disegno: fanno crescere il colore
di amore e di speranza, fanno salire la temperatura di umanità, insomma rendono più familiare e
umano il mondo.
Perché ci sia un effetto convergente di tante e diverse azioni umane nell’incontro, non è necessario
un progetto o un coordinamento. Ma tanti incontri fanno crescere l’unità dei mondi e degli uomini.
Teilhard de Chardin, ne L’ambiente divino, forse in una prospettiva un poco diversa, osserva
qualcosa di importante sulla missione del cristiano: questi «avrebbe ancora da collegare la sua opera
individuale a quella di tutti gli operai che lo circondano. Accanto a lui si accalcherebbero
innumerevoli mondi parziali … Egli deve far crescere il proprio calore grazie a quello di tutti quei
focolai». La carità, «principio e effetto di ogni legame spirituale», fa esplodere «le nicchie entro cui
i nostri microcosmi individuali gelosi tendono a isolarsi e a vegetare». 50 Nessun incontro con l’altro,
nessun dialogo, anche piccolo o episodico, va perduto.
Amicizia ed ebraismo
L’incontro tra le religioni ha un valore tutto particolare per la realizzazione della coscienza di un
comune destino dell’umanità. Si realizza in tanti distinti percorsi. Il libro-dialogo del cardinal
Bergoglio con il rabbino argentino Abraham Skorka mostra uno di questi percorsi. In questo testo si
percepisce la vibrazione amicale che accompagna lo scambio personale tra due uomini con storie e
tradizioni religiose differenti, mentre due itinerari umani e spirituali si incrociano. Infatti uno dei
grandi limiti dei dialoghi, intessuti dopo il Concilio, chiaramente non di tutti, è stata la riduzione alla
dimensione teorica e accademica, con una penalizzazione di quella personale. C’è un’amicizia tra
credenti di diverse religioni che si risolve nel dialogo spirituale. Senza amicizia è difficile far
progredire il dialogo a tutti i livelli. Un pensatore musulmano africano, Amadou Hampâté Bâ, figura
eminente dell’africanistica (scomparso nel 1990), scriveva in base alla sua esperienza di dialogo
interreligioso:
Talvolta uomini di diversa fede sono percorsi, senza saperlo, da una medesima vibrazione, anche se poi ognuno si
serve di parole sue proprie per esprimerla: misteriosa identità di sentimento, destinata a restare per sempre nascosta agli
intolleranti e ai bigotti di tutte le religioni. Ciò che ci unisce al nostro prossimo, Dio l’ha deposto nel fondo del nostro
cuore. Cerchiamo dunque di scoprire questa comune identità interiore… 51
Giovanni Paolo II, nel testamento, ha ricordato, oltre al nome del suo segretario privato,
solamente quello del rabbino capo di Roma, Elio Toaff, malgrado i tanti che gli sono stati vicini.
Questo ricordo nei confronti del rabbino della sua città ha un valore esemplare, perché sottolinea
allo stesso tempo il significato dell’amicizia e l’importanza del dialogo tra ebrei e cristiani. Toaff è
il rabbino che nel 1986 accolse il papa durante la sua visita al tempio maggiore degli ebrei di Roma,
la prima effettuata da un pontefice in una sinagoga. 52 Anche Bergoglio è amico di Skorka. Una foto
che li ritrae insieme sta a casa sua, quasi a raffigurare «un’esperienza di dialogo,» scrive il futuro
papa «un’esperienza ricca che aveva consolidato un’amicizia e che sarebbe stata la testimonianza del
nostro camminare insieme a partire dalle nostre diverse identità religiose». 53
L’amicizia non è negoziare le diverse identità religiose per creare una sintesi, ma camminare
vicini alla presenza di Dio «con rispetto e affetto». Per questo Bergoglio può definire Skorka, «un
fratello e un amico». Non sono parole retoriche. Nel loro dialogo i temi religiosi, le diversità delle
proprie tradizioni di credenti, le questioni esistenziali, i problemi sociali e politici si intrecciano.
Infatti il dialogo non può ridursi solo alle questioni teologiche o religiose; dialogare vuol dire
guardare insieme la società, il futuro, i problemi. Dialogo è anche guardare assieme il mondo e non
solo guardarsi in modo più benevolo tra chi parla.
L’amicizia tra due leader religiosi fa scaturire una comprensione comune, anche se differenziata,
della realtà umana. L’amicizia è una dimensione vitale nella pratica di un dialogo, che non sia un
negoziato ideologico o un’occasione accademica: «La parola ci mette in comunicazione e ci vincola
l’uno all’altro, permettendoci di condividere idee e sentimenti, purché parliamo a partire dalla
verità, sempre, senza eccezioni» 54 dice il cardinale. Il quale insiste sul fatto che la parola crea
l’amicizia: non è un vago sentimento filantropico, ma essere amici è imitazione di Gesù che «non
mise su casa a parte; si fece amico nostro». 55
Del resto, siamo in una stagione in cui non esistono più grandi passioni per l’ecumenismo o per il
dialogo ebraicocristiano. Tutti i grandi processi «unitivi» (per usare una parola cara a Giorgio La
Pira), tra cui quelli ecumenici, sono in difficoltà e soprattutto non suscitano grande interesse. Olivier
Clément osserva che l’ecumenismo istituzionale è diventato opaco e si trova in difficoltà: «In questa
situazione così difficile c’è da chiedersi: che cosa rimane? L’amicizia. Questo è veramente il dialogo
dell’amore – un amore che è anche conoscenza, vera conoscenza». 56
Il fine del dialogo – lo dico dopo decenni di cammino nello spirito di Assisi – è la costruzione di
una vera amicizia tra credenti. Questo cambia la cultura e la mentalità, creando legami (che
sembravano talvolta impossibili). Tanti incontri, tante amicizie fanno crescere il «calore» umano e
religioso dell’ambiente in cui si vive e del mondo stesso. Il senso di comune appartenenza
all’umanità, la partecipazione alle vibrazioni spirituali e alla profondità della fede altrui fanno
crescere l’amicizia tra chi dialoga. Tale amicizia diventa una rete preziosa in tante situazioni di
tensione. Ho in mente l’esperienza drammatica di un quartiere di Abidjan in Costa d’Avorio, durante
la guerra civile, quando fu bruciata una moschea e, per ritorsione, la folla musulmana minacciava
l’incendio delle chiese: l’amicizia della Comunità di Sant’Egidio locale con gli imam e i leader
cristiani fece sì che insieme potessero calmare gli animi ed evitare che si precipitasse in una spirale
di odio religioso.
Naturalmente il dialogo tra il cardinale e il rabbino, anzi la loro amicizia, ha la valenza
particolare dei rapporti tra ebrei e cristiani. Bergoglio conosce la storia del cattolicesimo antisemita
in Argentina (che ancora sopravvive). Del resto questo paese è stato una terra di rifugio per tanti
ebrei europei in fuga dalla persecuzione (il noto giornalista italiano Arrigo Levi ricorda il ruolo del
cardinale Copello, arcivescovo di Buenos Aires, nel salvare la sua famiglia dalla persecuzione
antisemita), 57 ma è stato anche la terra dove si sono rifugiati e hanno vissuto indisturbati parecchi
criminali nazisti. Bergoglio ha chiaro il grande dolore che ha segnato la storia ebraica, la
predicazione del disprezzo nei loro confronti, l’odio, fino alla drammatica vicenda
dell’antisemitismo nazista. Osserva:
La Shoah è un genocidio come tanti altri nel XX secolo, ma ha una peculiarità. Con questo non intendo dire che si
tratti di un genocidio di rilevanza primaria e che gli altri passino in secondo piano, ma sicuramente rivela una
particolarità: la costruzione di un’idolatria contro il popolo ebraico. La razza pura e il superuomo sono gli idoli sui quali è
stato edificato il nazismo. Non si tratta solo di un problema geopolitico, c’è anche una questione religioso-culturale. Ogni
ebreo ucciso fu uno schiaffo al Dio vivente. 58
Il cardinale sottolinea l’aspetto idolatrico del nazismo. Non ci furono ragioni politiche o militari
per lo sterminio degli ebrei – osserva Skorka a sua volta – ma fu una sfida al Dio d’Israele, alla fede
in lui e all’identità del suo popolo che andava cancellato: «I nazisti hanno cercato di radere al suolo
la concezione giudaico-cristiana della vita» conclude il rabbino. 59
Giuseppe Dossetti, introducendo un libro di memorie sulla strage nazista di Monte Sole, aveva
osservato giustamente una ventina di anni fa che «bisogna rimeditare tutta la dottrina sugli idoli nel
libro dell’Esodo e del Deuteronomio, nei Salmi, nel libro della Sapienza e nei profeti … la
prostituzione idolatrica è per sé inevitabilmente sempre sanguinaria». 60 Il tema dell’idolatria – nel
caso della Shoah, ma anche in altri aspetti della storia – è molto caro al futuro papa Francesco.
Auschwitz, dove si misura l’abisso del male, non è stato solo il punto più tremendo della storia
europea o del mondo, bensì la svolta in cui si è rivelata definitivamente la capacità umana (e
industriale) di uccidere senza alcun motivo. Non si può ridurre Auschwitz a una lezione morale per
l’umanità, perché sarebbe un modo di riassorbirne la drammatica unicità. Tuttavia proprio Auschwitz
pone la coscienza umana e cristiana davanti alla potenza del male, alla responsabilità
dell’indifferenza (la banalizzazione del male, secondo Hannah Arendt) 61 e al ruolo della
predicazione del disprezzo nel preparare la tragedia. Dopo questa terribile storia, le comunità
religiose non possono più vivere come prima, autocentrate, preoccupate di sé, chiuse. Dalla svolta di
Auschwitz, nasce una responsabilità: non si può più essere indifferenti e autoreferenziali, non si può
dimenticare e non si può più permettere che la distanza e l’incomprensione si insinuino nei rapporti
tra cristiani ed ebrei.
Si comprende quindi il valore dei tanti percorsi di amicizia tra cristiani ed ebrei, così personali e
profondi, come quello tra Skorka e Bergoglio. È un’amicizia che non evita di misurarsi anche sulla
dolorosa storia degli ebrei nel Novecento. Il cardinale non è difensivo nei confronti delle posizioni
della Chiesa durante la seconda guerra mondiale. Spiega alcuni motivi dei «silenzi» di Pio XII,
ricorda l’impegno dei cristiani per nascondere gli ebrei, ma auspica anche che gli Archivi vaticani
vengano aperti perché meglio si possa conoscere la posizione della Santa Sede durante i tempi della
caccia all’ebreo da parte dei nazisti a Roma e in Europa. Il paragone corre con i tempi della dittatura
in Argentina: «All’inizio» dice il cardinale «forse ci fu qualche vescovo un po’ ingenuo, convinto
che la situazione non fosse così preoccupante. È accaduto anche nel nostro paese: alcuni corsero
immediatamente a denunciare, altri ci misero più tempo, non lo capirono». 62 La storia di Bergoglio
non è drammatica come quella di Karol Wojtyła, compagno di scuola di tanti ebrei in larga parte
sterminati e testimone diretto della Shoah. Tuttavia Francesco è un papa che porta in profondità la
memoria partecipe della Shoah e il gusto personale dell’amicizia ebraico-cristiana.
L’incontro tra le religioni
L’Argentina è un paese plurale ben prima della globalizzazione. Oltre all’importante
immigrazione italiana e spagnola, nel paese si trovano immigrati di molte nazioni europee, non solo
occidentali ma anche dell’Est (e non mancano russi e ucraini). Gli amerindi sono solo lo 0,6 per
cento. C’è pure un’immigrazione araba (3,8 per cento). Oggi gli immigrati non vengono più
dall’Europa, ma da paesi vicini come il Paraguay e la Bolivia (sono i più poveri e i meno inseriti).
Dopo gli Stati Uniti, l’Argentina è il paese americano che ha accolto il maggior numero di immigrati:
è una caratteristica che ne ha segnato la storia.
Il cardinal Bergoglio conosce la storia dolorosa di tanti popoli, non solo degli ebrei. Anche per i
suoi contatti con la comunità armena in Argentina, sa quello che ha significato Metz Yeghérn, il
Grande Male, il genocidio degli armeni nell’impero ottomano durante la prima guerra mondiale, che
fece circa un milione e mezzo di morti, il primo genocidio del Novecento. Va anche ricordato che
quel genocidio riguardò principalmente gli armeni ottomani, ma non soltanto. Le povere comunità
cristiane orientali, immerse nella società ottomana, come i siriaci e i caldei, vi perdettero decine di
migliaia di fedeli. 63 La cultura europea non ha saputo fare i conti con la memoria di quel martirio. Il
cardinale conosce anche il dramma del genocidio ucraino, Holodomor, la strage conseguente alle
politiche economiche staliniane nei primi anni Trenta che provocò tre milioni e mezzo di morti in
Ucraina per fame. L’immigrazione in Argentina di armeni, di altri popoli dell’impero ottomano
(chiamati paradossalmente «turcos», mentre fuggivano proprio i turchi), degli ucraini e di altre
popolazioni dell’Est europeo ha preceduto la globalizzazione. Queste genti hanno conservato la loro
memoria dolorosa, portandola con sé in Argentina dalle loro terre.
L’identità argentina nasce dal meticciato di differenti ondate migratorie: «Un aspetto caratteristico
della nostra storia» dice il cardinale «è la capacità di favorire mescolanze delle razze. Ciò dimostra
un certo universalismo e rispetto nei confronti dell’identità altrui». 64 Questo meticciato è stato un
vero «incontro di culture». Tuttavia – il cardinale lo ribadisce durante i festeggiamenti per il
Bicentenario dell’Indipendenza – esiste un’identità argentina, che integra le differenti culture. Senza
identità, non c’è né armonia né dialogo. Le sue posizioni su una globalizzazione livellatrice sono
molto critiche: «Nella sfera globale che annulla, tutti sono uguali, ogni punto è equidistante dal centro
della sfera. Non c’è differenza tra i diversi punti della sfera. Questa globalizzazione non la vogliamo,
essa annulla. Questa globalizzazione non fa crescere». 65
Pur essendo una nazione prevalentemente cattolica, in Argentina ci sono varie comunità non
cattoliche. Innanzi tutto si registra la più grande comunità ebraica del Sud America (che subì un
sanguinoso attentato terroristico nel 1994 dopo quello all’ambasciata israeliana della capitale). Ma
ci sono pure comunità cristiane ortodosse, russe, ucraine, arabe, accanto alla comunità armena e a
quelle cattoliche orientali. La complessità argentina nasce dalla stratificazione delle ondate
migratorie, ma anche dalle differenti identità etniche e religiose. Il cardinal Bergoglio è stato un
uomo dell’incontro in una metropoli dai caratteri molteplici e complessi (come meglio si dirà in
seguito, egli riflette anche sul cristianesimo nell’orizzonte urbano). In questa situazione si manifesta
come uomo di dialogo tra comunità religiose. Significativamente ha trasformato il tradizionale Te
Deum nazionale, legato al carattere di «nazione cattolica» dell’Argentina, in una manifestazione in
cui si esprimono anche i rappresentanti delle altre religioni e confessioni.
Una volta l’arcivescovo è stato invitato a un grande raduno di evangelici, in cui il pastore ha
chiesto di pregare per lui. Allora Bergoglio si è inginocchiato per «ricevere» la preghiera, con un
gesto molto cattolico. Qualcosa di simile ha fatto sulla loggia di San Pietro alla sua prima
apparizione da papa, quando ha chiesto al popolo di pregare perché scendesse su di lui la
benedizione. Ma, con gli evangelici, era un contesto diverso, che suscitò polemiche, tanto che
l’arcivescovo fu accusato di apostasia. Così riferisce lui stesso: «Per loro [i tradizionalisti], pregare
insieme ad altri era apostasia. Perfino con un agnostico, perfino dal suo dubbio, possiamo guardare
insieme verso l’alto e cercare insieme la trascendenza. Ognuno prega secondo la sua tradizione: qual
è il problema?». 66
Dopo la preghiera per la pace ad Assisi, nel 1986, ci furono pesanti polemiche tradizionaliste
contro Giovanni Paolo II, che avrebbe messo – con quella giornata – il cattolicesimo sullo stesso
piano delle altre religioni, annacquando l’identità cristiana e legittimando le altre fedi. Che senso
avrebbe avuto allora l’evangelizzazione dopo Assisi, quando le religioni erano state riconosciute
tutte uguali? In realtà, il vero logorio dell’identità cristiana nasce dalla fragilità della fede, messa a
dura prova dal contatto con una società svuotata di senso religioso. Stare con gli altri, anche in una
dimensione religiosa, non mette in crisi la propria fede, anzi la rafforza. Del resto, nel mondo
odierno, gente di differente religione vive negli stessi quartieri e frequenta gli stessi ambienti.
Papa Wojtyła era convinto che la presenza ad Assisi della Chiesa cattolica, nel ruolo di chi
convocava e invitava, facesse emergere con più chiarezza la sua vocazione a servire l’umanità alla
ricerca della pace e dell’unità, compiendo il mandato ricevuto da Cristo. La Nostra Aetate, la
dichiarazione conciliare sulle religioni, colloca il dialogo tra le religioni nella prospettiva dell’unità
delle genti: «Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini, ed anzi tra i popoli, [la
Chiesa] … esamina tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro
comune destino. Una sola comunità costituiscono infatti i vari popoli». 67 L’idea di un destino comune
dei popoli, cara alla tradizione cristiana e rilanciata dal Concilio, va oggi nuovamente collocata
sullo scenario del mondo globalizzato e su quello delle metropoli globali. E il dialogo tra le religioni
è un appuntamento decisivo in questa prospettiva. La preghiera di Assisi nel 1986 fu la recezione
creativa della Nostra Aetate da parte di papa Wojtyła.
Era sua intenzione che da Assisi scaturisse quasi un movimento di dialogo e di ricerca della pace,
che coinvolgesse permanentemente le religioni. E lo disse in uno dei suoi discorsi pubblici. Per
questo Giovanni Paolo II volle che la preghiera di Assisi fosse continuata e ne affidò il compito alla
Comunità di Sant’Egidio che, anno dopo anno, ha convocato i leader religiosi in varie città del
mondo. Ai leader religiosi si sono via via uniti anche laici e umanisti in un atteggiamento meditativo
e di silenzio interiore, oltre che di dialogo. Le manifestazioni nello spirito di Assisi sono un momento
di «festa» e di incontro, in cui i leader religiosi si presentano gli uni accanto agli altri in pace. 68
Il cardinal Bergoglio, anche nei suoi contatti con le religioni, non è stato un irenista, ma la sua
azione è stata fondata su una fede radicata. L’irenismo è, per lui, «non accettare il carattere
combattivo della vocazione»: questa posizione non crea una vera pace. Non si scherza con le diverse
tradizioni religiose dell’umanità, che esprimono qualcosa di radicato. Non le si può manipolare a
proprio piacimento, anche con le migliori intenzioni. La «religione» è, per lui, espressione
dell’inquietudine profonda del cuore umano alla ricerca di qualcosa che trascende davvero: «Finché
quell’inquietudine continuerà a esistere, esisterà la religione e ci saranno modi di legarsi a Dio». 69
Sono parole che fanno eco alla dichiarazione conciliare sulle religioni non cristiane: «Gli uomini
delle varie religioni attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come
oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo…». 70
Introducendo un libro di Marco Gallo, El espíritu de Asís (1986-2007), il cardinale scrive in
proposito: «Non già gli uni contro gli altri, ma gli uni vicino agli altri per pregare per la pace.
Un’icona preziosa del XX secolo che deve essere approfondita nel cuore e nelle coscienze di tanti
uomini e donne…». 71 La preghiera per la pace voluta da Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 si
svolse nel quadro della guerra fredda; ma oggi, con la mondializzazione, lo spirito di Assisi ha una
funzione decisiva, forse più di ieri. Scrive il futuro papa Francesco nel 2007:
L’imperativo di Assisi è, ancora oggi, dopo vent’anni, profondamente attuale, con la sfida della convivenza tra culture
e religioni diverse, che richiedono uomini di fede profonda che sappiano scrutare e interpretare i segni dei tempi … In
tempo di crisi, di frammentazione delle società contemporanee, dove sembra prevalere la cultura del conflitto, nasce
imperiosa la sfida di una convivenza rinnovata e fraterna. 72
Anche l’Argentina ha bisogno dello «spirito di Assisi». In questa prospettiva – scrive il cardinale
– è significativo ripensare «la costruzione di una società multiculturale e multireligiosa». 73 Infatti il
paese è un «mosaico di religioni», dove le diverse comunità si stanno aprendo al dialogo. Lo spirito
di Assisi è definito dal cardinale come «spirito di pace, spirito di riconciliazione, spirito di
discernimento che sa accogliere l’altro nella ricerca di una sintesi feconda». Questo spirito spinge gli
uomini, le donne, i popoli, pur nella loro diversità, a riconoscersi figli dello stesso Padre.
La tessitura del dialogo è decisiva in un mondo segnato da conflitti e culture del conflitto. Il
mondo globale infatti non è una pacifica cosmopoli, ma è attraversato da una conflittualità tra culture
e da scontri e atti terroristici, giustificati in nome della religione e della civiltà. L’11 settembre 2001
è sembrato offrire la prova concreta che il conflitto di civiltà e di religione esista drammaticamente.
Era certamente il disegno di chi ha provocato quel terribile attentato. Religioni e civiltà – ci si
chiede – non sono destinate allo scontro, quasi per la loro profonda vocazione o per la loro storia?
Huntington (che riprende una linea di pensiero novecentesca) sostiene che il conflitto è quasi un
destino iscritto nei cromosomi di alcune civiltà. È la teoria del conflitto di civiltà (e di religione) con
cui è stato spiegato troppo spesso il mondo del XX e del XXI secolo: una tesi applicata in
particolare ai rapporti tra islam e mondo occidentale.
Il mondo globalizzato non può essere spiegato con le semplificazioni dello scontro di civiltà.
Tuttavia manchiamo troppo spesso di visioni e interpretazioni di fronte agli orizzonti globali, non
facilmente leggibili. La Chiesa, dopo l’11 settembre, grazie al suo senso della storia e alla sua
esperienza di umanità, non ha accettato la logica dello scontro di civiltà, ma ha ribadito una
posizione favorevole al dialogo e alla comprensione. Così si spiega l’opposizione di papa Wojtyła
alla guerra in Iraq. Proprio dopo l’11 settembre 2001, Giovanni Paolo II volle che le religioni
tornassero ad Assisi per pregare per la pace e impegnarsi contro la violenza. Per la seconda volta,
dopo il 1986, nel 2002 tornò a «presiedere» la preghiera di Assisi.
Il Concilio Vaticano II ha preparato la Chiesa a vivere nella complessità contemporanea,
offrendole una prospettiva in cui esiste lo statuto dell’altro: fosse il cristiano di altra confessione,
fosse l’ebreo o l’appartenente ad altra religione non cristiana, ma anche l’umanista e il non credente.
Con il Concilio l’altro entra nell’orizzonte della Chiesa. Stare con l’altro, non contro l’altro né
accanto in modo indifferente, diventa un’arte, quella del dialogo e dell’incontro. La Chiesa del
Concilio ha approfondito questi percorsi. Taluni sono divenuti creativi di amicizia, di prossimità, di
intrecci spirituali, di legami di pace. C’è però ancora tantissimo da esplorare e da costruire, per cui è
necessario un nuovo fervore.
La Chiesa di Bergoglio non è spaventata di essere tra gente diversa nella megalopoli e di abitare
in un mondo senza frontiere. Non si protegge dalle tante diversità, ricordando a sé e a un mondo
distratto una serie di principi. Non ignora gli altri. Diceva monsignor Mulla, un turco convertito al
cristianesimo, morto nel 1959 dopo un difficile cammino tra mondi diversi: i cristiani non sono mai
contro gli altri, casomai sono tutt’altro! La Chiesa di Bergoglio si colloca sulla strada e incontra gli
uomini e le donne che hanno storie differenti. Non è chiusa nel ghetto delle sue sicurezze e delle sue
paure, anche se Bergoglio stesso non teme di definire tragicamente Buenos Aires come una città
pagana. Non è nemmeno una Chiesa che vuole dominare: «Quando la comunità cristiana si lascia
prendere da manie di grandezza» afferma il futuro papa Francesco «e vuole trasformarsi in potere
temporale, corre il rischio di perdere la sua essenza religiosa». 74
La diplomazia di un papa non diplomatico
L’arcivescovo di Buenos Aires ha rappresentato nella capitale argentina l’uomo dell’incontro. Il
rabbino Skorka ha detto che Bergoglio è un uomo di unità.75 L’unità, secondo il cardinale, non è
uniformità o assorbimento dell’altro, ma costruzione di un’armonia e di un’amicizia tra diversi.
Questa costruzione è un’arte di pace, che i cristiani hanno nelle loro corde. Papa Francesco non ha
esperienza diretta della diplomazia vaticana, se non quella dei contatti con vari nunzi. Del resto
questo è un momento in cui comprendere e rilanciare la funzione della diplomazia della Santa Sede,
che stenta a trovare un suo ruolo nel mondo globalizzato, dopo il grande lavoro al tempo della guerra
fredda. Francesco ha però un chiaro riferimento in questo campo: il cardinale Agostino Casaroli,
collaboratore di Giovanni XXIII e Paolo VI, Segretario di Stato di Giovanni Paolo II, un grande
diplomatico. In questa prospettiva si può leggere anche la scelta del papa di restituire la guida della
Segreteria di Stato a un esperto diplomatico, come Pietro Parolin, che ha cominciato a lavorare in
Vaticano con il cardinale Casaroli e con Achille Silvestrini, entrambi espressione della grande
tradizione diplomatica della Santa Sede.
Il papa ha letto le memorie di Casaroli pubblicate con un titolo significativo, Il martirio della
pazienza. 76 Per lui Casaroli è stato un cristiano capace di costruire pazientemente la pace. Bergoglio
nota come il cardinale non abbia mai abbandonato il suo lavoro presso i ragazzi del carcere minorile
di Roma, nonostante l’intenso impegno della vita diplomatica. Parlando alla Comunità di Sant’Egidio
a Buenos Aires, Bergoglio ha richiamato la figura di Casaroli. E ha aggiunto qualcosa di significativo
sull’arte di costruire la pace:
C’è bisogno di una laboriosità artigianale. Instaurare l’amore è un lavoro di artigiani, di pazienti, di persone che
spendono tutto quello che hanno per persuadere, per ascoltare, per avvicinare. E questo lavoro artigianale ha pacifici e
magici creatori d’amore … È il mediatore. Il significato di mediatore lo confondiamo con il termine di intermediario e
non è la stessa cosa. Il mediatore è colui che, per unire le parti, paga con il suo stipendio, paga con il suo, si consuma lui
stesso. L’intermediario è quel dettagliante, che fa sconti ad ambedue le parti per avere il suo meritato guadagno.
L’amore ci colloca nel ruolo di mediatori, non di intermediari. E il mediatore perde sempre, perché la logica della carità
è arrivare a perdere tutto perché vinca l’unità, perché vinca l’amore… 77
Essere mediatori è una scelta personale che richiede un reale orientamento nella propria vita:
«Per un cristiano progredire non è scalare posti, avere una buona reputazione, essere considerato, per
un cristiano progredire è “abbassarsi” in questo compito di essere mediatori. Abbassarsi … Come è
stata la condizione di abbassamento e di umiliazione (facendosi nulla) che ha vissuto Gesù. E da lì
cambia tutto». 78 Nel mondo globalizzato, nel grande mercato, si moltiplicano gli intermediari che
operano per interesse economico o personale. Mancano i mediatori veri, che si abbassano nell’amore
e da lì cambiano tutto come artigiani di un grande disegno di pace. Il mondo globalizzato, con la sua
complessità, ha ancor più bisogno di mediatori e di artigiani di pace. L’uomo è infatti un essere
conflittuale, ma non per questo destinato a restare prigioniero dell’odio o dell’aggressività. La
diplomazia dei «mediatori», «veri artigiani di pace», ricerca quello che unisce e libera dalla spirale
dell’odio. Bergoglio lo dice anche guardando alla situazione mediorientale, insistendo su come la
guerra non risolva nulla:
Credo che la soluzione non debba mai essere la guerra, perché questa implicherebbe che uno dei due poli della
tensione venisse assorbito dall’altro. E non è nemmeno una sintesi, che è una mescolanza dei due estremi, un ibrido
senza futuro. I poli in tensione si risolvono solo su un piano superiore, guardando verso l’orizzonte, non in una sintesi, ma
in una nuova unità … Una vera filosofia del conflitto presuppone la forza e il coraggio di provare a risolverlo, sia a
livello personale sia a livello sociale, cercando quell’unità capace di riunire le potenzialità di entrambe le parti. 79
Il futuro papa, parlando alla Comunità di Sant’Egidio nella cattedrale di Buenos Aires, ha insistito
sul valore della «diplomazia» dei cristiani, come arte dell’incontro:
In questo brano evangelico (che non è stato scelto a proposito ma è il brano che corrisponde a oggi, la Domenica
XXIIIa), in questo artigianale lavoro di instaurare l’amore vedo riflesso il lavoro e la vocazione della Comunità di
Sant’Egidio: è paziente questa gente, gente che ascolta e fa piccoli passi. Si potrebbe applicare a loro quella frase di
quel grande cardinale che ha avuto la Chiesa, il cardinale Casaroli, «questi vanno per la strada della pazienza, vanno per
il martirio della pazienza». 80
La pazienza è la forza dei mediatori, che non hanno alcun interesse che quello della pace. Il
cardinale Casaroli, da parte sua, notava che queste sono le virtù del diplomatico, parlando di
Roncalli, che pure non aveva avuto nessuna preparazione professionale in proposito: «Una maggiore
prontezza alla comprensione dell’“altro”; una carica di “simpatia” nello sforzarsi di valutare la
mentalità e gli atteggiamenti anche dei più lontani; una capacità di rendersi conto delle loro difficoltà
obbiettive e l’arte di saper creare un clima di fiducia, nonostante la distanza, o addirittura
l’opposizione frontale … la cura di non offendere le persone pur dicendo la verità». 81 L’arte del
dialogo «diplomatico» dei cristiani si forgia anche nella preghiera e nell’amicizia con le persone più
deboli. Non è il prodotto di un’educazione elitaria. Così infatti il futuro papa Francesco conclude:
La grande diplomazia che ha dato tanti frutti alla Chiesa si alimenta con la carità, con la penitenza. Uno dei tratti di
questa Comunità [di Sant’Egidio] che si riunisce a celebrare, è la vicinanza alle periferie dell’esistenza, ai più poveri, ai
più emarginati, ai più abbandonati. Forse è per questa stessa vicinanza, come lo fece Gesù, che trova forza per
abbassarsi e per portare avanti il compito artigianale della pacificazione, di avvicinamento e di instaurazione dell’amore.
Rendiamo grazie a Dio per questa Comunità che si riunisce a cantare le preghiere nella basilica di Santa Maria in
Trastevere. Chiediamo a questo Cristo che, con i suoi occhi così appassionati, presiede quella basilica, uniti a tanti
uomini e donne della Comunità di Sant’Egidio, che continuino a germinare in mezzo alla società, emanando compassione
amorosa, con il desiderio di abbassarsi e con una carità artigianale che li porti fino alla periferia dell’esistenza. 82
Significativamente l’arcivescovo parla di «artigianato» nell’omelia sopra citata: è «il compito
artigianale della pacificazione, di avvicinamento e di instaurazione dell’amore». La Chiesa non è
un’industria, una grande organizzazione internazionale, ma l’insieme grandioso di tanti artigiani. La
Chiesa lavora bene artigianalmente, perché la sua è opera di uomini che vivono l’incontro con altri
uomini. L’artigianato dà la misura del valore dell’umanità nella vita cristiana. L’immagine della
Chiesa che va incontro agli uomini, anzi che si tuffa in mezzo a essi, si trova nelle seguenti parole del
cardinal Bergoglio, quando sottolinea come la carica umana dei cristiani parta dall’esperienza
spirituale:
Il legame religioso comporta un impegno, non una fuga. Ci fu un’epoca nella storia della spiritualità cattolica segnata
dalla cosiddetta “fuga dal mondo”; oggi vige una concezione completamente diversa: dobbiamo tuffarci nel mondo, ma
sempre a partire dall’esperienza religiosa … Il problema si fa serio quando la spiritualità viene ridotta all’ideologia,
quando l’esperienza religiosa perde forza e, per colmare il vuoto, si ricorre al mondo delle idee. L’altro rischio è quello di
fare beneficenza per la beneficenza in sé, di agire come una ONG anziché partecipare dell’esperienza religiosa. Ci sono
comunità religiose che inconsapevolmente rischiano di trasformarsi in una ONG. Non si tratta solo di fare questo o quello
per aiutare il prossimo. Come preghi? Cosa fai per aiutare la tua comunità ad accedere all’esperienza di Dio? Sono
queste le domande chiave. 83
Il papa dell’incontro
Jorge Bergoglio, nel cuore di una vita tanto impegnata, resta un uomo di preghiera. Lo si sente
nelle omelie, non scritte, che ogni mattina tiene nella cappella della residenza, Santa Marta, il
pensionato ecclesiastico nelle mura vaticane dove ha scelto di vivere dopo la sua elezione. Si coglie
bene come le omelie nascano da un confronto costante e profondo con la Bibbia, a cui dedica molto
spazio la mattina presto. Come uomo della Bibbia, aiuta chi lo ascolta a fare l’esperienza di Dio,
attraverso una predicazione sapida, viva, breve, piena di interrogativi. Ci si interroga molto sulle
scelte dei dirigenti vaticani o sulle riforme, che stanno caratterizzando il suo pontificato. Una simile
lettura, pur giusta, non spiega appieno la sua personalità e le sue scelte. Va ascoltato in modo
particolare quando parla di Dio e quando predica.
Francesco si è qualificato come un papa che vuole incontrare gli altri. La scelta di abitare a Santa
Marta è motivata dalla volontà di non essere isolato, di stare in una casa dove vivono altri, dove c’è
possibilità di incrociare persone differenti. Così, nelle udienze, anche di massa, sembra aver sempre
tempo da dedicare all’incontro con le persone, anche se le domande di vederlo si sono enormemente
moltiplicate. Di lui dice il rabbino Skorka: «L’ossessione di Bergoglio … si può definire con i
vocaboli: incontro e unità». 84 In questo senso, il papa va incontro alla gente e si fa incontrare. È una
risposta a un’aspirazione antica che abita da tempo nel popolo cattolico: un papa vicino alla gente e
ai dolori della vita.
Antonio Fogazzaro, nel romanzo Il Santo (pubblicato nel 1905 e condannato dalla Congregazione
dell’Indice un anno dopo perché considerato modernista), immagina l’incontro del papa (ormai
vecchio) con uno spirituale che veste l’abito benedettino con il nome di Benedetto. Questi gli
esprime l’attesa di un rinnovamento della Chiesa che giudica inferma per il dominio e l’immobilismo
del clero. Dice tra l’altro Benedetto: «Sono idolatri del passato, sino alle forme del linguaggio
pontificio, sino ai flabelli … sino alle tradizioni stolte per le quali non è lecito a un cardinale di
uscire a piedi e che sarebbe scandaloso che visitasse i poveri nelle loro case». 85 L’appello è in linea
con un’attesa verso il papa che attraversa il Novecento:
… io scongiuro Vostra Santità di uscire dal Vaticano. Uscite, santo Padre, ma la prima volta, almeno la prima volta,
uscite per un’opera del vostro ministero! Lazzaro soffre e muore ogni giorno, andate a vedere Lazzaro. Cristo chiama
soccorso in tutte le povere creature umane che soffrono. 86
Il papa confessa di aver pensato lui stesso a quanto gli suggerisce Benedetto, ma gli ribatte: «te la
intendi col Signore solo; io devo intendermela anche cogli uomini che il Signore ha posto intorno a
me perché io governi con essi secondo carità e prudenza, e devo soprattutto misurare i miei consigli,
i miei comandi, alle capacità diverse, alle mentalità diverse di tanti milioni di uomini. Io sono un
povero maestro di scuola che di settanta scolari ne ha venti meno che mediocri, quaranta mediocri e
dieci soli buoni. Egli non può governare la scuola per i soli dieci buoni…». 87 Così il papa risponde
allo spirituale, che interpreta l’attesa di un pontefice tra la gente e vicino ai poveri.
Questo romanzo si colloca negli anni in cui è papa Pio X, severo nei confronti dei modernisti, che
vive chiuso in Vaticano per l’irrisolta questione romana. L’invito rivolto al papa è quello di uscire e
incontrare i poveri («Lazzaro»). La sensibilità dei cattolici – e non solo – è sempre rimasta molto
colpita dalle uscite del papa, come quella di Pio XII nel luglio 1943, quando senza scorta né
accompagnamento andò immediatamente dopo il bombardamento nel quartiere romano di San
Lorenzo per incontrare gli scampati. Lo stesso deve dirsi di Giovanni XXIII, che si mosse per Roma
e cominciò i viaggi fuori dalla città. Bergoglio, fin dall’inizio, si è caratterizzato come un papa che
vuole uscire da un quadro protocollare e raggiungere la gente. Non vuole essere separato. Così si è
espresso a proposito delle ridotte misure di sicurezza da lui volute, durante il suo viaggio in Brasile:
Con meno sicurezza, io ho potuto stare con la gente, abbracciarla, salutarla, senza macchine blindate … è la
sicurezza di fidarsi di un popolo. È vero che sempre c’è il pericolo che ci sia un pazzo … eh, sì, che ci sia un pazzo che
faccia qualcosa; ma anche c’è il Signore! Ma, fare uno spazio di blindaggio tra il vescovo e il popolo è una pazzia, e io
preferisco questa pazzia: fuori, e correre il rischio dell’altra pazzia. Preferisco questa pazzia: fuori. La vicinanza fa bene
a tutti. 88
Non solo il suo importante viaggio in Brasile, per celebrare la Giornata mondiale della gioventù e
visitare il più grande paese cattolico del mondo, ma tutti i suoi passi sono caratterizzati dalla volontà
di incontro. Basterebbe pensare al viaggio – nel luglio 2013 – nella piccola isola mediterranea di
Lampedusa, dove sono approdati dal 1999 al 2012 più di 200.000 rifugiati in gran parte dall’Africa.
Nonostante Francesco, in questo caso, non sia andato fuori dai confini italiani, da Lampedusa si è
affacciato sul grande Sud e sul Mediterraneo, divenuto un mare di morte per troppi migranti: con un
gesto reale e simbolico è andato incontro a un mondo di problemi e di popoli. Francesco è il papa
dell’incontro. La gente sembra percepire in lui una risposta a un’attesa profonda.
IV
La Chiesa dei poveri
«Come vorrei una Chiesa povera e per i poveri!»
Il nome del papa e la sua origine latinoamericana sono due caratteristiche che hanno evidenziato
subito l’originalità del pontificato. Perché Francesco? Il papa ha spiegato il motivo per cui ha
assunto questo nome, che non figura nella serie dei pontefici romani:
Nell’elezione, io avevo accanto a me l’arcivescovo emerito di San Paolo e anche prefetto emerito della
Congregazione per il Clero, il cardinale Claudio Hummes: un grande amico, un grande amico! Quando la cosa diveniva
un po’ pericolosa, lui mi confortava. E quando i voti sono saliti a due terzi, viene l’applauso consueto, perché è stato
eletto il Papa. E lui mi abbracciò, mi baciò e mi disse: «Non dimenticarti dei poveri!». E quella parola è entrata qui: i
poveri, i poveri. Poi, subito, in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle guerre, mentre lo
scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore:
Francesco d’Assisi. È per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato; in questo
momento anche noi abbiamo con il creato una relazione non tanto buona, no? È l’uomo che ci dà questo spirito di pace,
l’uomo povero … Ah, come vorrei una Chiesa povera e per i poveri! 1
La spiegazione illumina la visione di papa Bergoglio. L’attenzione generale è stata attratta dalla
scelta del nome. Questo nome è stato voluto in relazione ai poveri, alla lotta contro la guerra e per la
pace, infine alla custodia del creato. La sottolineatura principale riguarda i poveri: «Ah, come vorrei
una Chiesa povera e per i poveri!» ha esclamato il papa. A un’opinione pubblica un po’ distratta
sulle cose della Chiesa, quella dei poveri sembrerebbe una tematica da teologia della liberazione o
tutt’al più da volontariato sociale. Ma è ben altra cosa. Il cardinale Hummes appartiene alla
generazione di vescovi collocatasi al di là della polemica sulla teologia della liberazione che ha
diviso la Chiesa brasiliana. Il cardinale ha osservato: «la teologia della liberazione è stata una fase
storica che … privilegia … la necessità di essere solidali in termini costruttivi della giustizia
sociale». E ha aggiunto: non si deve «trasportare il passato, che non è più una risposta per l’oggi. Il
mondo è cambiato, e le risposte sono diverse». 2
Le parole sulla Chiesa dei poveri rinviano immediatamente al Concilio, anzi all’espressione di
Giovanni XXIII, quell’11 settembre 1962, nel radiomessaggio che precedeva l’apertura del Vaticano
II, in cui il papa disse: «… la Chiesa si presenta qual è e quale vuole essere, come la Chiesa di tutti,
e particolarmente la Chiesa dei poveri». 3 Di fronte al grande mondo povero (era il tempo in cui si
parlava di Terzo Mondo o di sottosviluppo), la Chiesa del Concilio si presenta come la Chiesa dei
poveri. Il Concilio parla di Chiesa dei poveri. È stato anche un tema importante nella recezione del
Vaticano II. Fin dalla prima sessione del Concilio, il cardinale Lercaro, arcivescovo di Bologna,
aveva detto: «Non renderemo giustizia al nostro compito se non facciamo del mistero di Cristo nei
poveri e dell’evangelizzazione dei poveri il centro, l’anima del lavoro dottrinale e legislativo di
questo Concilio. Non può essere un tema del Concilio tra gli altri, ma deve diventare la questione
centrale. Tema di questo Concilio è la Chiesa in quanto Chiesa dei poveri». 4
Nella Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, si legge un’affermazione significativa su
quella che è stata chiamata successivamente l’opzione preferenziale per i poveri: «La Chiesa
circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei
sofferenti l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente, anzi si premura di sollevarne
l’indigenza e in loro intende servire Cristo». 5 L’attenzione ai poveri ha un fondamento cristologico. I
temi della Chiesa amica dei poveri, della povertà della Chiesa e dei mezzi poveri per compiere la
sua missione, attraversano i lavori del Concilio e si riversano nel postconcilio in un movimento
multiforme e complesso.
In una conferenza ai padri conciliari, a Roma nel 1964, il teologo francese padre Yves Congar
parlò del mistero dei poveri nella Chiesa, a partire dall’incarnazione di Gesù: «Dio si rivela nella
povertà. Gesù, che ha umiliato se stesso fino al punto estremo, spinge i suoi discepoli all’amicizia
con i poveri e a guardare la povertà in modo differente da come la guarda la società. Questo non
significa condannare i miseri ad essere tali per sempre e, al massimo, dare ad essi un’elemosina».
Padre Congar sostenne con convinzione il significato evangelico dell’incontro con i poveri: «I poveri
possono essere rivelatori di Dio. Possono essere un mezzo o una via per trovare Cristo».6 Questa fu
una convinzione diffusa tra molti padri conciliari. Ma come viverla nelle differenti realtà sociali del
mondo e negli anni che seguono il Concilio?
Con il povero, che ha poco o niente da dare e talvolta poco da dire, il cristiano fa un’esperienza
particolare: umana certamente, ma anche religiosa. Esperienza umana ed esperienza spirituale si
fondono insieme. Nel povero si conosce il Signore Gesù, presente in lui. Infatti nel Vangelo di
Matteo al capitolo 25 si legge questa parola di Gesù: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno di
questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatta a me» (25,40). Dice ancora Gesù: «Io ho avuto fame e mi
avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere…» (25,35). In un piccolo libro di tanti
anni fa, La fraternità cristiana, Joseph Ratzinger osservava come Gesù non si identifichi in nessuno
se non negli affamati, gli assetati, i carcerati, gli stranieri… e nei cristiani perseguitati (tanto da
chiedere a Paolo: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», Atti 9,4).7 Il rapporto con il povero ha un
innegabile fondo spirituale e religioso, che non riduce lo spessore drammatico della sua realtà, ma
anzi lo illumina in modo particolare.
Questo è l’insegnamento di Giovanni Crisostomo, un padre della Chiesa che dedica tanta parte
della sua predicazione ai poveri e al rapporto dei cristiani con loro. Per lui aiutare i poveri è, con
grande realismo, aiutare Gesù stesso; mentre rifiutare di soccorrere i bisognosi significa respingere
la persona di Gesù. È un realismo che si fonda sulle parole del capitolo 25 del Vangelo di Matteo, le
cui conseguenze non sono state ancora tratte fino in fondo nell’esperienza dei cristiani. Olivier
Clément, proprio sulla scia del realismo cristologico di Crisostomo, parla dell’esistenza di un vero e
proprio «sacramento del povero», che deve essere avvicinato al «sacramento dell’altare». Anzi
spiega la storia del cristianesimo otto-novecentesco come il divorzio drammatico tra il sacramento
dell’altare e quello del povero. 8
Chi incontra il povero trova Cristo stesso. Questa è la radice di quell’umanesimo spirituale che
cresce nella preghiera e, allo stesso tempo, nell’amore per i poveri. Del resto, secondo la
predicazione di Crisostomo, l’amore per i poveri è una soglia di umanesimo: chi non ama i poveri
non è un uomo vero. Infatti afferma il santo: «Se vuol bene ai poveri, è un uomo; se si occupa solo
dei commerci, è una quercia; se ha un animo feroce, è un leone; se è rapace, è un lupo…». La
misericordia rende l’uomo umano. Continua Giovanni Crisostomo: «… se si elimina l’eloquenza, la
vita non ne avrà alcun danno … se invece sopprimi la misericordia, tutto perisce e va in rovina».
Anzi l’amicizia con i poveri «divinizza» l’uomo, rendendolo simile al Signore: «difatti nulla ci rende
pari a Dio, come il beneficare». 9
La via dell’umanesimo spirituale è stata battuta nei decenni dopo il Vaticano II. Tuttavia in questo
periodo l’impegno per i poveri si è spesso ideologizzato o politicizzato, mettendone da parte le
radici religiose. C’è qui anche la vicenda dell’ideologizzazione e della politicizzazione del
cristianesimo, forte in America Latina, con cui il gesuita Bergoglio si è misurato. D’altra parte,
seguendo differenti percorsi, l’impegno per i poveri ha talora smarrito il suo spessore religioso,
divenendo qualcosa di esclusivamente sociale e di professionale. Non basta costruire istituzioni o
organizzazioni in favore dei poveri o che lottano contro la povertà. Non basta creare una capacità
professionale e organizzativa. Almeno nella prospettiva della Chiesa. Papa Francesco insiste proprio
sul fatto che la Chiesa non è una ONG e il suo impegno per i poveri non può essere ridotto ai moduli
delle ONG. Si è verificato, negli ultimi decenni, un ingrigimento dello spessore religioso e profetico
delle organizzazioni cristiane al servizio dei poveri, che hanno poco riflettuto sul mistero dei poveri.
Pur più efficaci e professionali delle vecchie associazioni di beneficenza, non hanno portato alle
estreme conseguenze il messaggio della Chiesa dei poveri; talvolta si sono secolarizzate. La realtà
dei poveri non ha risuonato in modo profondo e profetico nella vita cristiana, ma è stata avviluppata
dall’ideologia, dalla politica, dalla sociologia o dalla professionalizzazione. Oppure questa realtà è
stata ignorata o rimossa tout court dal dibattito pubblico e marginalizzata nella vita della Chiesa.
Il distacco dai poveri ha ingenerato un ingrigimento nella Chiesa stessa. La crisi della Chiesa
viene anche dalla sua distanza dal mondo dei poveri, dalla distanza personale dei suoi uomini e delle
sue donne dalla «carne» dei poveri, direbbe Bergoglio. Se si distanzia dai poveri, la Chiesa finisce
stretta nelle sue istituzioni. Ha scritto padre Congar, in un fondamentale libro su Chiesa e povertà,
pubblicato dopo il Vaticano II, che esprime quel clima di scoperta della Chiesa dei poveri:
I poveri sono cosa della Chiesa. Non sono soltanto la sua clientela o beneficiari delle sue sostanze: la Chiesa non
vive appieno il suo mistero se ne sono assenti i poveri … La cura dei poveri, degli sradicati, dei deboli, degli umili, degli
oppressi, è un obbligo che ha le sue radici nel cuore stesso del cristianesimo inteso quale comunione. Non può più
esistere comunità cristiana senza «diaconia», cioè servizio di carità, che a sua volta non può esistere senza celebrazione
dell’Eucarestia. Le tre realtà sono legate tra di loro: comunità, Eucarestia, diaconia dei poveri e degli umili. L’esperienza
dimostra che esse vivono o languono insieme; ma spesso fanno difetto l’immaginazione che rende inventiva la carità, e
l’audacia, il coraggio per superare ogni esitazione e prendere l’iniziativa. 10
Questa pagina del grande teologo francese (che ha tanto riproposto nei suoi studi le dimensioni
storiche e spirituali del cristianesimo) disegna un’immagine della Chiesa del futuro, attorno
all’Eucarestia, amica dei poveri e degli umili. Le tre realtà, Eucarestia, comunità e servizio ai
poveri, stanno insieme, si sostengono o invece languiscono quando una di esse si deteriora o si
distacca. Se non si amano i poveri, c’è poca fede eucaristica. L’amore per i poveri rende la comunità
cristiana più coesa e piena d’amore. Senza Eucarestia e senza senso comunitario, anche l’amore per i
poveri diventa episodico, la buona azione di un momento, la professione di qualcuno.
Qui c’è anche una chiave per capire le difficoltà e le crisi del presente. Questa lettura è
confermata pure dall’esperienza del cardinal Bergoglio, il quale riprende le parole del diacono
Lorenzo riguardo ai poveri: «I poveri sono il tesoro della Chiesa e bisogna proteggerli; se non
abbiamo questa visione, costruiamo una Chiesa mediocre, tiepida, priva di forza. Il nostro vero
potere deve essere il servizio. Non si può adorare Dio se il nostro spirito non accoglie il
bisognoso». 11 Per questo papa Francesco ha esclamato all’inizio del suo ministero: «Ah, come vorrei
una Chiesa povera e per i poveri!».
Liberare i poveri
La Chiesa dei poveri non è solo una tematica da teologia della liberazione. Del resto, anche in
questo filone teologico, bisogna avere la capacità di distinguere le domande, le attese, i risultati, le
commistioni con il marxismo, i differenti percorsi di pensiero e di vita. Benedetto XVI, in
un’intervista concessami, interrogato sulla teologia della liberazione, mi ha risposto:
Giovanni Paolo II insisteva sul fatto che si pensasse a una teologia della liberazione anche in modo positivo, dopo
aver chiarificato gli aspetti negativi e le commistioni indebite. Non so quanto ci siamo riusciti in seguito a formularla in
senso positivo. Tuttavia la seconda istruzione sulla teologia della liberazione vuole muoversi proprio in questa linea,
toccando un problema e una prospettiva che sono reali e che Giovanni Paolo II sentiva molto. 12
Il cardinal Bergoglio offre in un’intervista un giudizio equilibrato sulla vicenda della teologia
della liberazione: «Sicuramente ci sono state delle deviazioni, ma ci sono stati migliaia di agenti
pastorali … che si sono impegnati, come desiderava la Chiesa e che costituiscono il fiore
all’occhiello del nostro lavoro, che sono fonte della nostra gioia». 13 Bergoglio ha vissuto la vicenda
postconciliare della ricerca di una Chiesa vicina ai poveri, sia nei suoi aspetti concreti che nelle sue
ideologizzazioni. Conviene misurarsi con questa sua riflessione sulla teologia della liberazione:
Si è trattato di un effetto interpretativo del Concilio Vaticano II. E, come ogni conseguenza di un cambiamento della
Chiesa, ha avuto i suoi lati positivi e negativi, il suo equilibrio e i suoi eccessi. Come si ricorderà Giovanni Paolo II affidò
all’allora cardinale Ratzinger il compito di studiare la teologia della liberazione, che portò alla stesura di due successivi
libricini in cui la si descrive, si segnalano i suoi limiti (tra cui il suo rifarsi all’ermeneutica marxista della realtà), ma se ne
dimostrano anche i lati positivi. In altre parole, la posizione della Chiesa al riguardo è molto varia. 14
La storia della Chiesa con i poveri, dopo il Vaticano II, è ricca e complessa: attende, a mio
avviso, una nuova sintesi. Il percorso di Jorge Bergoglio è di grande interesse, proprio perché ha
attraversato in Argentina e in America Latina le fasi più tempestose della teologia della liberazione e
dell’impegno cristiano per i poveri. Egli ribadisce che «la particolare attenzione nei confronti dei
poveri è un messaggio molto forte del postconcilio». La polemica sulla teologia della liberazione non
può farlo dimenticare perché è un orientamento di fondo del Vaticano II:
La maggiore preoccupazione per i poveri, che negli anni Sessanta irruppe nel cattolicesimo, costituiva un brodo di
coltura perfetto per qualunque ideologia. Il rischio era snaturare una cosa che la Chiesa ha chiesto nel Concilio
Vaticano II e che da allora non ha mai smesso di ripetere: bisogna trovare il cammino giusto per rispondere alla
preoccupazione per i poveri, esigenza evangelica imprescindibile e centrale… 15
Il clima incandescente degli anni Sessanta-Ottanta è stato superato. Ritorna il rischio di una
visione minimalista dell’impegno per i poveri, che lo riduca alla beneficenza o all’organizzazione
assistenziale. Ma soprattutto con la crisi economica mondiale siamo entrati in una stagione in cui
l’interesse per i poveri è in calo. Forse c’è una coscienza vittimistica dei propri bisogni, troppo
diffusa, per cui non sembra più il tempo di pensare agli altri. Questo è un atteggiamento che si
riscontra nella vita personale, ma anche nelle politiche delle grandi istituzioni o degli Stati, che
riducono i bilanci della cooperazione allo sviluppo o dell’impegno sociale. La crisi economica
spinge a smantellare il welfare state; con esso si incrina la coscienza della responsabilità sociale. Un
elemento importante della crisi è il declino di una sinistra, socialista o comunista, impegnata per
decenni nelle lotte sociali, la cui azione era stata anche di stimolo per i cristiani, perché non
abbandonassero il campo sociale. La sinistra è oggi tendenzialmente più concentrata sulle lotte per i
diritti civili che nel contrasto alla povertà.
Del resto la coscienza sociale ha perso sensibilmente il senso di indignazione morale di fronte ai
casi drammatici. La morte di una persona senza fissa dimora, al freddo, non genera scandalo: diventa
spesso un caso di decoro urbano. L’indignazione morale si indirizza sullo sperpero delle risorse
dello Stato o sugli sprechi, più che sul dramma e il dolore dei poveri. Papa Bergoglio insiste su
questi temi, quasi con il medesimo esempio:
Se una notte di inverno, qui vicino in via Ottaviano, per esempio, muore una persona, quella non è notizia. Se in tante
parti del mondo ci sono bambini che non hanno da mangiare, quella non è notizia, sembra normale. Non può essere così!
... Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città costituisce una tragedia … Così le persone
vengono scartate, come se fossero rifiuti. Questa «cultura dello scarto» tende a diventare una mentalità comune». 16
È avvenuta quella che Luigi Zoja chiama, in un suo libro, La morte del prossimo: «entrati nel XXI
secolo,» egli nota «sembra invece che i bisogni individuali siano l’aspirazione universale e la
solidarietà l’eccezione». 17 E aggiunge efficacemente: «La solidarietà conosce il sonno, il desiderio
non dorme mai. Dioniso è un dio insonne». 18 Per Zoja, lo svuotamento delle chiese è un aspetto fisico
della morte metafisica di Dio, mentre lo svuotamento delle associazioni sociali lo è della morte del
prossimo.
Non è compito dei cristiani aiutare a rifondare una coscienza di solidarietà e di legame sociale? È
una coscienza che nasce dal senso di un debito verso i poveri proprio in quest’ora difficile. Anche
Bergoglio insiste sul concetto di «debito sociale»: «In tutti i casi di beneficio economico bisogna
considerare la dimensione del debito sociale». Si tratta dei rapporti all’interno della città o della
società nazionale, ma anche delle relazioni tra il Nord e il Sud del mondo (anche se oggi in questa
parte del globo la geografia della povertà è molto cambiata e conosce aree e settori di grandissima
miseria accanto a punte di estrema ricchezza). Attualmente, a differenza degli anni subito dopo il
Concilio, la miseria di tanti non fa più troppo scandalo. Alla vigilia di Pentecoste, il papa ha detto:
«Oggi – questo fa male al cuore dirlo – oggi, trovare un barbone morto di freddo non fa notizia. Oggi
è notizia forse uno scandalo. Uno scandalo: ah, quello è notizia!». 19
L’uomo, la donna, il loro dolore non sono al centro dell’interesse generale. Si passa oltre, come il
levita e il sacerdote della parabola del buon samaritano, forse perché si crede di avere buoni motivi
per pensare a se stessi e proseguire o invece perché la povertà non è più percepita come una
domanda. Una ricerca del marzo 2013 sugli italiani e la carità mostra come i donatori sono crollati
dal 33 per cento del 2005 al 20 per cento attuale, mentre la quota di chi fa l’elemosina è scesa dal 41
per cento del 2005 al 20 per cento di oggi. Il 53,9 per cento degli italiani è invece ostile o
indifferente ai temi della carità. 20 Si può pensare che le difficoltà economiche siano a monte di
questo atteggiamento, ma c’è sicuramente anche lo smarrimento profondo del senso di solidarietà.
C’è una coscienza sociale da rifondare. Ha affermato il papa: «Se gli investimenti nelle banche
calano un po’… tragedia… come si fa? Ma se muoiono di fame le persone, se non hanno da
mangiare, se non hanno salute, non fa niente!». 21 Non si tratta certo di recuperare – secondo
Bergoglio – i vecchi schemi della lotta di classe. Ma non si può indulgere a credere che il mercato
porti provvidenzialmente il benessere e la giustizia per tutti. Da cardinale, nella linea della dottrina
sociale della Chiesa, ha avuto accenti severi sul comunismo, ma non ha risparmiato il capitalismo
globalizzato.
Oggi il dramma del mondo contemporaneo – Bergoglio parla dell’Argentina, ma guarda anche agli
altri paesi – è la forbice tra inclusione ed esclusione, che rischia di allargarsi sempre più, facendo
aumentare il numero degli esclusi. Spesso, ad esempio, la vecchiaia esclude coloro che avevano
passato una parte della loro vita da inclusi. Anche partendo dalla condizione degli anziani, il
cardinale ha parlato di «civiltà dello scarto». Nel maggio 2013, già papa, Bergoglio dice ai
diplomatici:
… va anche riconosciuto che la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo continuano a vivere in una
precarietà quotidiana con conseguenze funeste. Alcune patologie aumentano, con le loro conseguenze psicologiche; la
paura e la disperazione prendono i cuori di numerose persone, anche nei Paesi cosiddetti ricchi; la gioia di vivere va
diminuendo; l’indecenza e la violenza sono in aumento; la povertà diventa più evidente. Si deve lottare per vivere, e
spesso per vivere in modo non dignitoso. Una delle cause di questa situazione, a mio parere, sta nel rapporto che
abbiamo con il denaro, nell’accettare il suo dominio su di noi e sulle nostre società. Così la crisi finanziaria che stiamo
attraversando ci fa dimenticare la sua prima origine, situata in una profonda crisi antropologica. Nella negazione del
primato dell’uomo! Abbiamo creato nuovi idoli. L’adorazione dell’antico vitello d’oro (cfr E s 32,15-34) ha trovato una
nuova e spietata immagine nel feticismo del denaro e nella dittatura dell’economia senza volto né scopo realmente
umano.
La dittatura dell’economia, secondo il papa, va rimessa in discussione, perché «riduce l’uomo a
una sola delle sue esigenze: il consumo». In questo quadro, Francesco osserva anche la crisi della
dimensione della solidarietà:
… oggi l’essere umano è considerato egli stesso come un bene di consumo che si può usare e poi gettare. Abbiamo
incominciato questa cultura dello scarto … In un tale contesto, la solidarietà, che è il tesoro dei poveri, è spesso
considerata controproducente, contraria alla razionalità finanziaria ed economica. Mentre il reddito di una minoranza
cresce in maniera esponenziale, quello della maggioranza si indebolisce. Questo squilibrio deriva da ideologie che
promuovono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria, negando così il diritto di controllo agli Stati
pur incaricati di provvedere al bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone
unilateralmente e senza rimedio possibile le sue leggi e le sue regole. Inoltre, l’indebitamento e il credito allontanano i
Paesi dalla loro economia reale ed i cittadini dal loro potere d’acquisto reale. A ciò si aggiungono, oltretutto, una
corruzione tentacolare e un’evasione fiscale egoista che hanno assunto dimensioni mondiali. La volontà di potenza e di
possesso è diventata senza limiti. 22
Quale la causa di questa situazione? Il rifiuto di Dio è a monte del rifiuto dell’etica e della
solidarietà: «Proprio come la solidarietà, l’etica dà fastidio! È considerata controproducente: come
troppo umana, perché relativizza il denaro e il potere; come una minaccia, perché rifiuta la
manipolazione e la sottomissione della persona». Con parole severe il papa continua: «Dio è
considerato da questi finanzieri, economisti e politici, come non gestibile, Dio non gestibile,
addirittura pericoloso perché chiama l’uomo alla sua piena realizzazione e all’indipendenza da ogni
genere di schiavitù». E conclude con un invito ai politici e al mondo della finanza «a considerare le
parole di san Giovanni Crisostomo: “Non condividere con i poveri i propri beni è derubarli e
togliere loro la vita. Non sono i nostri beni che noi possediamo, ma i loro”». Questo sistema va
cambiato: «Sarebbe auspicabile realizzare una riforma finanziaria che sia etica e che produca a sua
volta una riforma economica salutare per tutti».
I politici debbono riprendersi le loro responsabilità di fronte all’economia, di fronte a una
«tirannia invisibile». Proclama papa Bergoglio: «Il denaro deve servire e non governare! Il Papa
ama tutti, ricchi e poveri; ma il Papa ha il dovere, in nome di Cristo, di ricordare al ricco che deve
aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo. Il Papa esorta alla solidarietà disinteressata e a un ritorno
dell’etica in favore dell’uomo nella realtà finanziaria ed economica … Si formerà allora una nuova
mentalità politica ed economica che contribuirà a trasformare la dicotomia assoluta tra la sfera
economica e quella sociale in una sana convivenza». 23
Una simile situazione è intollerabile, secondo una visione che Bergoglio nutre da tempo. Dichiara
il documento dei vescovi argentini per il Bicentenario, nel 2010: il paese «ha troppi poveri e esclusi
che abbiamo saputo creare durante gli ultimi decenni. Dietro i numeri ci sono persone, uomini, donne,
anziani, giovani, bambini». 24 Questi sono i poveri da aiutare e da liberare. Il futuro papa Francesco è
quasi «utopico» nei suoi intenti: «Non devono esserci poveri e non c’è peggiore povertà – mi preme
sottolinearlo – di quella che non ci permette di guadagnare il pane, che ci priva della dignità del
lavoro». 25 L’uguaglianza resta sempre un ideale che, realisticamente, va perseguito. Anzi Bergoglio
si lascia andare a una riflessione di grande rilievo, sulla scia dell’affermazione di Giovanni Paolo II
all’UNESCO: se la fede non diventa cultura resta irrilevante. Questa idea ha molto colpito Bergoglio,
tanto che la ricorda spesso. La proposta del futuro papa Francesco è che la fede generi una cultura
condivisa della giustizia. Se la fede non diventa cultura della giustizia, è irrilevante. Questa è la sfida
della creazione di una nuova coscienza sociale condivisa – fresca e vitale, non dottrinaria – della
giustizia e della solidarietà:
… l’uomo religioso integro è chiamato uomo giusto, perché porta giustizia agli altri. In questo senso la giustizia del
religioso o della religiosa creano cultura. Non è la stessa cosa la cultura dell’idolatria rispetto alla cultura creata da una
donna o da un uomo che adorano il Dio vivo. Giovanni Paolo II diceva una cosa molto coraggiosa: una fede che non si
fa cultura non è una vera fede. Sottolineava il creare cultura. 26
La fede vissuta genera una cultura (che ha i suoi limiti storici), ma è anche creatrice di un senso
condiviso di giustizia. Questa è la grande differenza dalle «culture idolatriche», centrate sul culto di
sé e del proprio interesse, attraverso il liberismo sfrenato, il consumismo, l’edonismo, i vari tipi di
relativismo. La cultura della giustizia ha al centro l’uomo, anzi ha un rapporto privilegiato con i
poveri. Il senso di giustizia guida a liberare i poveri dalla loro condizione periferica e di esclusione
sociale. Bisogna ricreare una nuova mentalità, perché la pratica della cultura dello scarto ha reso
insensibili – è un aspetto importante – allo spreco degli scarti alimentari in una parte del mondo,
mentre in un’altra molti soffrono la fame. Il consumismo ha creato un’assuefazione a questa pratica
immorale: «Ricordiamoci bene, però,» ammonisce il papa «che il cibo che si butta via è come se
venisse rubato dalla mensa di chi è povero, di chi ha fame!». 27
Per Bergoglio bisogna lottare contro la povertà, trovando i percorsi di inclusione e di liberazione
dal peso della miseria. In questo senso la sua parola stimola un pensiero ormai rassegnato al fatto che
non si possono discutere l’economia e le sue leggi. Per un cristiano che vede Gesù presente nei
poveri, non ci può essere rassegnazione nel sostenerli concretamente e nel liberarli da una
condizione ingiusta.
Una Chiesa amica dei poveri
I poveri non sono utenti dei servizi sociali della Chiesa, bensì quei «piccoli fratelli» di Gesù che
fanno parte in modo tutto particolare della famiglia della comunità cristiana. Come non considerare
nostri fratelli coloro in cui Gesù si riconosce? Questa coscienza modella il rapporto tra i cristiani e i
poveri: la cura dei poveri diventa simile a quella che si presterebbe a qualcuno della propria
famiglia (non solo aiuto materiale, ma affetto, parole, interessamento, amicizia). Parlando delle
persone della Comunità di Sant’Egidio a Buenos Aires, che si avvicinano ai poveri in modo
familiare, il cardinal Bergoglio ha detto: loro si preoccupano «continuamente di aprire strade a quelli
che si sentono indegni, perché credono che ci sia posto per loro e sono i preferiti». 28 Il papa ha una
visione chiara della presenza dei poveri nella vita del cristiano e della Chiesa. Nella conversazione
con il rabbino Skorka, c’è una pagina importante in proposito:
Nel cristianesimo l’attitudine nei confronti della povertà e del povero è – essenzialmente – di autentico impegno. E
aggiungo l’impegno deve essere corpo a corpo. Non basta che sia mediato dalle istituzioni; benché queste ultime siano
utili perché moltiplicano l’azione, non è sufficiente, siamo obbligati a stabilire un contatto con il bisognoso. Bisogna
curare il malato – anche quando suscita una certa repulsione –, visitare il carcerato … Mi fa orrore andare in carcere,
perché quello che si vede è molto duro, ma vado comunque, perché il Signore desidera che mi trovi a contatto con il
bisognoso, il povero, il sofferente. 29
L’amore per i poveri è una storia di contatto personale – «corpo a corpo» dice Bergoglio – e non
solo di impegno istituzionale o organizzativo. Questo contatto personale diventa legame e amicizia:
«la compassione si converte in comunione» 30 afferma il cardinale in un’omelia del 2003. Ogni
cristiano deve essere amico dei poveri, e di un povero come persona concreta. Questa familiarità
impegna i credenti a liberare il povero dall’esclusione, perché gli manca il lavoro o un luogo dove
vivere: «la persona amata mi chiede di mettermi al suo servizio» dice Bergoglio. Il cristiano è
tutt’altro che rassegnato di fronte alla povertà. Ricordando i mendicanti, il cardinale chiede ai
cristiani se parlino personalmente con loro, se li tocchino o diano loro solo l’elemosina: «molti
gettano la moneta e voltano la testa». 31 I poveri chiedono amicizia e possono dare amicizia.
Nel discorso pronunciato alla mensa per i poveri della Comunità di Sant’Egidio, Benedetto XVI
ebbe un’espressione felice sul rapporto tra chi è accolto e chi accoglie: «Qui oggi si realizza quanto
avviene a casa: chi serve e aiuta si confonde con chi è aiutato e servito, e al primo posto si trova chi
ha maggiormente bisogno». 32 E, dopo la visita alla casa per gli anziani di questa Comunità, Benedetto
XVI avrebbe avuto un’espressione analoga: «Questo è importante in ogni fase della vita: nessuno può
vivere solo e senza aiuto; l’essere umano è relazionale. E in questa casa vedo, con piacere, che
quanti aiutano e quanti sono aiutati formano un’unica famiglia, che ha come linfa vitale l’amore». 33
La Chiesa dei poveri è una comunità che include i poveri come una famiglia, insomma una comunità
che non solo parla dei poveri, ma è loro amica.
Una Chiesa amica dei poveri, che considera i poveri come suoi fratelli, sceglie di realizzare la
sua missione con mezzi poveri. Non si tratta di quel pauperismo utopico o estetico, che ebbe nel
postconcilio qualche vivace espressione (contrapposta a un trionfalismo barocco). I mezzi poveri non
sono una scelta rinunciataria. Privilegiare i mezzi poveri non è negarsi a grandi imprese di
liberazione o di servizio, ma è capire quale sia la forza, umile e debole, del cristianesimo: la parola,
la misericordia, l’insegnamento, il consiglio, l’amore, il contatto, la fedeltà, la presenza personale, le
idee… È la forza debole del Vangelo, che cambia i cuori e il mondo, ma non si impone e non domina.
Dice il cardinal Bergoglio: «La forza della Chiesa è la comunione, la sua debolezza è la
divisione». 34
Il mondo si cambia, quando il cuore delle donne e degli uomini si apre al Vangelo. Così il primo
impegno di papa Francesco è la predicazione, la «stoltezza» della predicazione per dirla con
l’apostolo Paolo. Una Chiesa povera è una Chiesa della Parola. Una Chiesa povera è però soprattutto
amica dei poveri. Il cardinal Bergoglio, nella relazione al Sinodo del 2001, ha detto sulla figura del
vescovo:
La sua fedeltà al Vangelo e il suo amore per lo spirito di povertà portano il vescovo a una particolare predilezione per
i poveri, che sono il nucleo centrale della Buona Novella di Gesù, a camminare con loro. Non dimentica che nel giorno
della sua consacrazione episcopale è stato interrogato sulla sua intenzione di guidare i poveri. Sta imparando a guardare
alla gente come la guardava Gesù. È padre e fratello dei poveri della sua diocesi. Il suo essere contemplativo e la sua
carità pastorale lo portano a scoprire i nuovi volti che oggi, nella vita moderna, hanno assunto «la vedova, l’orfano e lo
straniero» della Scrittura… 35
Nel contatto con la gente – come si percepisce bene dalle immagini delle udienze – papa
Francesco ha riservato una particolare attenzione ai poveri, soprattutto alle persone con disabilità. La
Chiesa amica dei poveri è una comunità di uomini e donne che non ha paura della tenerezza verso i
deboli. Il volto di questo papa, il suo aspetto, i suoi gesti, divengono una proposta di pastoralità alla
Chiesa, in particolare ai vescovi. È un esempio che si propone, non una direttiva. Il vescovo di una
Chiesa amica dei poveri, vicino ai poveri, che cammina come tutti, è la vera risposta alla mondanità
ecclesiastica. Bergoglio ricorda le parole di Gregorio Magno sui pastori che vivono una vita
mondana, cercando onore e prestigio. 36 Il papa ha presente in modo particolare una delle ultime
pagine del libro di Henri de Lubac, Meditazione sulla Chiesa (a lui molto caro), dove si legge:
E il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre
rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste stesse vittorie, è quella che dom
Vonier chiamava «mondanità spirituale». 37
Papa Francesco insiste sulla «mondanità spirituale», che significa «mettere al centro se stessi».38
La mondanità spirituale nella vita ecclesiastica diventa carrierismo: «La parola carriera suggerisce
l’immagine di una gerarchia, come se fosse un’azienda. Al contrario: tutto parte dal fatto che si è
chiamati, convocati, toccati da Dio». 39 Da papa, più volte, insiste sul tema del carrierismo e del
ministero ecclesiastico concepito come carriera: è una mentalità che deve cambiare a suo avviso. Di
fronte alla mondanità spirituale, si lascia andare a un’espressione che può sembrare eccessiva: «Se
ciò riguardasse la Chiesa intera, sarebbe una situazione molto peggiore rispetto a quelle epoche
vergognose di pastori libertini. Il peggio che ci può accadere nella vita sacerdotale» conclude «è
essere mondani, vescovi o preti light, “leggeri”». 40
Una Chiesa amica dei poveri è lontana dalla mondanità spirituale. I poveri aiutano la Chiesa, i
preti e i vescovi a essere migliori e a vivere meglio il loro ministero. Aiutano chi si avvicina per
aiutarli. I poveri portano vicino al dolore della croce: «Quando camminiamo senza la croce,» ha
detto il papa ai cardinali «quando edifichiamo senza la croce e quando confessiamo un Cristo senza
croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non
discepoli del Signore». 41 La vicinanza ai poveri ha un profondo effetto di cambiamento nella vita
ecclesiale e personale.
Nel 1946, la rivista cattolica francese «Esprit» interrogò alcuni credenti sul rapporto tra mondo
moderno e cristiani. Il filosofo Étienne Gilson rispose invitando a non avere nostalgia del passato
mondo cristiano. Tra l’altro, spiegò perché la Chiesa «s’intende» meglio con i poveri che con le altre
categorie di persone: «La Chiesa ha sempre evangelizzato i ricchi come i poveri, ma essa si è sempre
fatta più facilmente capire dai poveri che dai ricchi, la beatitudine che promette ai poveri è la stessa
che promette ai ricchi, e la miseria che minaccia ai ricchi è la stessa che minaccia a tutti gli uomini,
eccetto i poveri…». 42
I poveri, secondo Gilson, ricordano ai ricchi e alla Chiesa che questo mondo è incompiuto.
Richiamano alla fragilità della vita umana, da cui è impossibile fuggire, nonostante i tentativi di
cosmesi e di eternizzazione del presente. Una Chiesa che frequenta i poveri e parla con loro non sarà
tentata dalla mondanità spirituale, dall’ammirazione e dall’imitazione dei ricchi, dalla ricerca di
influenza sulla società o sui suoi dirigenti. Non sarà una Chiesa antipatica, ma porrà la misericordia
come fermento dei suoi rapporti con la gente.
La cultura della rottamazione
La Chiesa, ingrigita negli anni, è anche una comunità che non ha saputo affrontare il tema della
vecchiaia e dell’aumentato numero di anziani. È il grande dramma umano dell’Europa e ormai di tutte
quelle società, laddove lo sviluppo e la medicina hanno prodotto un allungamento della vita media.
Paradosso del progresso: in Occidente non si capisce se l’aumento della popolazione anziana sia un
valore o un peso sociale. La vita degli anziani diventa difficile con il passare degli anni, segnata dal
marchio dell’inutilità. Spesso i vecchi non possono restare nelle loro case (perché non
opportunamente sostenuti o impossibilitati a rimanere). Si crea quel popolo di vecchi che,
tristemente, affolla gli istituti dove si aspetta di morire. La famiglia, sempre più assottigliata, non
sopporta il numero crescente di anziani. La società non riesce a gestire in modo adeguato il gran
numero degli anziani, aiutandoli a restare a casa. C’è una mancanza di pensiero, prima che di
strategia sociale, peraltro tanto carente. È la grande contraddizione di una società che ha compiuto
quasi un miracolo (atteso da secoli), allungare la vita, ma non riesce a gestire questo suo indubitabile
successo e a goderne.
Che cosa significa spiritualmente invecchiare? C’è, nelle nostre società, un vero continente
anziano da evangelizzare e a cui parlare di speranza, mentre cade sovente nella disperazione o è
dominato da un diffuso senso di inutilità. Spesso la pastorale ecclesiale ha preferito dedicarsi ai
giovani, voltando le spalle agli anziani che sono «vecchi clienti» della Chiesa. Il mondo degli anziani
resta non evangelizzato. Spesso non accolto nella Chiesa. È un grande e doloroso problema.
La vita dell’anziano, nella sua fragilità, è più vulnerabile in un sistema sociale che non è alla sua
misura. In Africa, l’anziano fino a ieri era considerato come un valore per la società (si diceva che
quando moriva un anziano era come se bruciasse una biblioteca); ma oggi, con l’aumento del numero
dei vecchi, la vita dell’anziano significa molto poco da un punto di vista sociale, anzi ci sono taluni
casi di eliminazione violenta degli anziani, talvolta considerati stregoni perché «ruberebbero» la vita
ai giovani. Questo atteggiamento negativo è il frutto, anche nei paesi africani, di un cambiamento
umano, dell’aumento del numero dei vecchi e di una profonda impreparazione culturale e sociale.
Papa Bergoglio ha condotto una riflessione originale sugli anziani, che nasce dalla sua esperienza
pastorale nella società argentina. Infatti questo papa è un uomo dalla grande esperienza umana,
maturata nell’incontro con gli altri. Ha anche avuto un felice rapporto con gli anziani nella sua
famiglia. Il suo pensiero spicca nel mondo della Chiesa, dove sono carenti le riflessioni su questa
età. Per Bergoglio la società non si divide in oppressi e oppressori come voleva una certa visione
marxista: oggi ci sono gli inclusi e gli esclusi. I primi e più evidenti esclusi sono gli anziani. Afferma
il cardinale:
In molte famiglie, i genitori devono lavorare e allora bisogna ricorrere a un ospizio che si prenda cura del nonno.
Spesso, però, non si tratta di impegni di lavoro, bensì di mero egoismo: in casa i vecchi danno fastidio, magari hanno
cattivo odore. E allora si finisce per destinarli a una casa di riposo, con la stessa facilità con cui in estate si ripone il
cappotto nell’armadio … Sovente, però, quando mi reco in visita in un istituto geriatrico e domando agli anziani dei loro
figli, mi rispondono che non li vedono perché devono lavorare, ossia cercano di giustificarli. E non sono pochi quelli che
abbandonano chi ha dato loro da mangiare… 43
È frequente sentire gli anziani negli istituti che giustificano i loro figli e i loro parenti per la
mancanza di visite: così difendono la loro dignità e nascondono il loro dolore. Ma soprattutto
colpisce l’espressione di Bergoglio: si decide di mettere un anziano in istituto, come si ripone,
d’estate, un cappotto nell’armadio. Si è verificata una frattura profonda nella nostra società,
manifestata dal distacco dagli anziani: «Ogni volta» dice il futuro papa «che abbandoniamo i nostri
vecchi nelle case di riposo con tre palline di naftalina in tasca, come se fossero un soprabito o un
cappotto, vuol dire che c’è qualcosa che non va nella nostra dimensione nostalgica, perché mantenere
il contatto con i propri nonni vuol dire tornare a incontrare il nostro passato». 44
Il disprezzo degli anziani è sintomo di una vita sociale non più concepita sulla misura delle
famiglie, come storia e continuità tra generazioni. Si esalta il presente e si butta via il passato: la vita
non è né storia né famiglia. In realtà la questione degli anziani è, secondo il cardinale, rivelatrice
della malattia profonda della società. Ricostruire il rapporto con gli anziani vuol dire sanare questo
male profondo: «Perché nell’avidità insaziabile del potere, del consumismo e della falsa eternagiovinezza, gli estremi più deboli sono esclusi in quanto materiale a perdere in una società che
diventa ipocrita, tutta presa a soddisfare il proprio “vivere come si vuole” (come se ciò fosse
possibile), con il solo criterio dei capricci adolescenziali non risolti. Sembra che il bene politico e
comune poco importi finché sentiamo l’“ego” soddisfatto». 45
L’abbandono degli anziani è ormai divenuto un fenomeno socialmente accettato, talvolta
introiettato dagli anziani stessi. Afferma Bergoglio:
… gli anziani sono abbandonati, e non solo nella precarietà materiale. Sono abbandonati nella egoistica incapacità di
accettare i loro limiti che riflettono i nostri limiti, nelle numerose difficoltà che oggi debbono superare per sopravvivere in
una civiltà che non gli permette di partecipare, di dire la propria, né di essere referenti secondo il modello consumistico
del «soltanto i giovani possono essere utili e possono godere». Questi anziani dovrebbero invece essere, per tutta la
società, la riserva sapienziale del nostro popolo. Con quanta facilità si mette a dormire la coscienza quando non c’è
amore! 46
Un problema nel rapporto con gli anziani è proprio la paura della loro debolezza, ossia il timore
di vedere e toccare i deboli, quasi possa avvenire un contagio che ruba la giovinezza o la salute.
Anche perché la lotta dell’esistenza sembra spesso quella di negare gli anni che passano, nasconderli
nell’idea di una giovinezza senza fine. Gli anziani sono rivelatori del limite e della fragilità: meglio
allontanarli. Invece chi li avvicina ne scopre il valore. 47
In una società dalle rapide innovazioni, sembra retorico affermare, come fa il cardinale, che il
valore degli anziani consiste nell’essere una riserva di sapienza. Che cosa possono insegnare ai
giovani? Il gap tra generazioni è rapido e profondo. In realtà, alla luce di un rapporto personale, fatto
di attenzione e di amore, si scopre il vero valore degli anziani. Basti pensare all’importante ruolo dei
nonni verso i nipoti. Ma non solo. Una società privata dei suoi anziani è senza storia e senza famiglia.
In una logica consumista e narcisista, dice Bergoglio, gli anziani «sono materiale a perdere»: «li
gettiamo nella spazzatura». Il cardinale ha un’espressione efficace: la nostra è diventata la «cultura
della rottamazione». Per concludere: «Quello che non serve si butta via». 48
Il cardinal Bergoglio si interroga sul domani: «Sapremo preservare questi giovani dalla cultura
della “rottamazione” che si sta diffondendo?». La Chiesa deve parlare alla gente, anche perché è la
voce dei senza voce. Anche degli anziani. E gli anziani, nella loro debolezza e povertà, rivelano la
disumanità della nostra società: «I gerontocomi e le case di riposo per anziani sono sempre più
numerosi» afferma Bergoglio. «Il loro affollamento e abbandono, come il trascurare la salute degli
ospiti, fanno di questi luoghi veri e propri “depositi di vecchi”. Sebbene l’eutanasia non sia
consentita in molti paesi, con questi atteggiamenti di esclusione e abbandono, di fatto essa viene
attuata in maniera occulta». 49
La Chiesa può proporre un’altra strada, difendendo gli anziani, aiutando la società e le altre
generazioni a non essere deprivate della loro presenza. Per questo, in sintonia con il documento di
Aparecida (l’ultima conferenza dei vescovi latinoamericani), l’arcivescovo di Buenos Aires afferma
con forza: «La vecchiaia è un bene e non una disgrazia». Ma bisogna aiutare a scoprire e vivere
questa realtà. Per questo Bergoglio propone un itinerario di riconciliazione tra le generazioni, basato
sul rispetto e la gratitudine per gli anziani e sulla riconoscenza per le loro fatiche in favore della
società e delle famiglie.
Poche comunità ecclesiali hanno avuto la maturità di riflettere sull’inclusione degli anziani,
sebbene la povertà della terza età finisca con il passare del tempo per toccare inevitabilmente tutti.
Eppure gli anziani sono una parte cospicua dei partecipanti alle liturgie, si dedicano ai bisognosi e
alle attività della Chiesa, mentre, dice il cardinale, «la loro preghiera sostiene la Chiesa».50 Per
questo l’itinerario di inclusione proposto da Bergoglio ha un particolare significato. Una comunità
cristiana non riconciliata con i suoi anziani non è certo amica dei poveri. L’amicizia con gli anziani è
una proposta di umanesimo che la Chiesa può fare alla città: «Si tratta di costruire uno spazio comune
con tutti i membri della società e non solo della costruzione di “ricoveri” perché i nostri vecchi non
disturbino». 51
La Chiesa e le famiglie debbono nutrire rispetto per gli anziani: «noi vogliamo alzarci in piedi
dinanzi ai nostri anziani e fargli sentire che sono importanti agli occhi di Dio e che sono ancora utili
alla famiglia e alla società». Eppure il messaggio subliminale della società è che rappresentano un
peso e rubano spazio ai giovani. Bisogna praticare l’attenzione personale agli anziani, per combattere
il messaggio di morte che viene loro inviato. L’attenzione passa attraverso il dialogo con loro,
accettando il loro modo di esprimersi (sono lenti? poco concisi? ripetitivi?), tipico di un’altra
generazione e di un’altra età. La vera considerazione per un anziano è parlargli con attenzione. E si
scopre il valore della memoria assieme a una grande capacità di affetto.
Fare spazio agli anziani nella Chiesa, peraltro, vuol dire anche proporre loro il senso religioso
della vita: una compagnia «che mitighi l’angoscia che produce la vicinanza della morte», che aiuti a
vivere la sofferenza, a pregare, a scoprire l’utilità di una vita meno abile che nel passato. Una Chiesa
amica dei poveri non può non essere una Chiesa che fa spazio agli anziani e che aiuta i giovani, le
famiglie e la società a scoprire il valore di una lunga vita. Una Chiesa povera è anche una comunità
che si serve dell’impegno degli anziani, scartati dalla società, la cui preghiera sorregge tutti i
credenti. Nella Chiesa non c’è spazio per la cultura della rottamazione. Un uomo non è mai un
rottame. E la Chiesa non si vergogna di essere comunità di chi è considerato scarto o rottame.
Un uomo come tutti
La povertà della Chiesa deve riflettersi nello stile povero della Chiesa stessa e del vescovo. È un
tema toccato, durante il Vaticano II, dal gruppo di lavoro dei vescovi sulla Chiesa e i poveri. Al
termine del Concilio, un nutrito gruppo di padri conciliari firmò un documento, frutto di questo
lavoro, che voleva essere una proposta alla Chiesa e un impegno personale. È un testo chiamato
«Patto delle catacombe», perché firmato nei pressi di quelle di Domitilla a Roma. Vi si legge:
Cercheremo di vivere secondo il livello di vita ordinario delle nostre popolazioni per quel che riguarda l’abitazione, il
cibo, i mezzi di comunicazione e tutto ciò che vi è connesso … Rinunziamo per sempre all’apparenza e alla realtà della
ricchezza, specialmente nelle vesti (stoffe di pregio, colori vistosi) e nelle insegne di metalli preziosi … Non avremo
proprietà né di immobili né di beni mobili né conti in banca o cose del genere a titolo personale … Rifiutiamo di lasciarci
chiamare oralmente o per iscritto con nomi e titoli che esprimano concetti di grandezza o di potenza (per esempio:
eminenza, eccellenza, monsignore). Preferiamo essere chiamati con l’appellativo evangelico di «padre» … nelle nostre
relazioni sociali, eviteremo ciò che può procurarci privilegi, precedenze o anche di dare una qualsiasi preferenza ai ricchi
e ai potenti … Dedicheremo tutto il tempo necessario al servizio apostolico e pastorale delle persone o dei gruppi di
lavoratori che sono in condizione economica debole o sottosviluppata, senza che questo nuoccia ad altre persone o
gruppi della diocesi. 52
Questo testo includeva un impegno a insistere presso i governi per la promozione dei più poveri;
affermava anche la responsabilità dei vescovi nei confronti del mondo povero del Sud. L’esercizio
della solidarietà veniva considerato come un aspetto della collegialità episcopale: «Poiché la
collegialità episcopale trova la sua attuazione più evangelica nell’assumersi in comune l’onere delle
masse umane in stato di miseria ... (due terzi dell’umanità) … ci impegniamo a raggiungere insieme
… lo stabilimento di strutture economiche e culturali che non accrescano il numero delle nazioni
proletarie in seno a un mondo sempre più ricco, ma permettano alle masse povere di uscire dalla loro
miseria». 53
Lo stile di vita dei vescovi, in genere, pur semplificato dalle riforme e dalle scelte personali, ha
conservato alcuni tratti che forse quei vescovi del «Patto delle catacombe» intendevano invece
cambiare. Quando il cardinal Bergoglio parla di uno stile semplice e povero del vescovo ha
presente, oltre la sua scelta personale, la spiritualità del Vaticano II. In una relazione al Sinodo dei
vescovi del 2001 ha infatti detto:
Uno degli aspetti più segnalati dai Padri sinodali riguardo alla santità del vescovo è la sua povertà. Uomo di cuore
povero, è immagine di Cristo povero, imita Cristo povero, essendo povero con discernimento. La sua semplicità e
austerità di vita gli conferiscono una completa libertà in Dio. 54
La Chiesa del postconcilio ha cercato di identificare il significato della povertà nello stile e nei
mezzi per la sua missione. Non è stato facile, perché non si trattava di compiere gesti eclatanti né di
operare riforme radicali. C’è uno stile da realizzare nella vita degli uomini di Chiesa, dei vescovi e
dei cristiani. Bergoglio lo ha incarnato da arcivescovo di Buenos Aires e lo ha mantenuto, pur in un
contesto complicato come quello del papato. Il fatto che Bergoglio, per esempio, amasse usare, per
gli spostamenti nella capitale argentina, i mezzi pubblici, non era frutto di esibizionismo
pauperistico, ma della sua scelta di camminare in mezzo alla gente e di essere come tutti. Vorrei dire
che il cardinale si sentiva più a suo agio in questo modo. Così ha spiegato la sua modesta abitazione
da arcivescovo: «la mia gente è povera e io sono uno di loro». D’altronde trovava che essere come
tutti lo aprisse al contatto e lo rendesse accessibile.
La semplicità nella vita da papa mostra un uomo, divenuto successore di Pietro, che non vuole
perdere il contatto umano, smettere di essere uno tra gli altri. Il papa è un prete e un vescovo.
Francesco non vuole esercitare il suo ministero nelle forme della «sovranità», che hanno
accompagnato i papi per molti secoli e che, pur fortemente ridotte dai suoi predecessori, non sono
del tutto scomparse. Del resto, anche dopo la fine del potere temporale, con accentuazioni diverse, i
papi hanno creduto che la sovranità di uno Stato, per quanto simbolica, fosse garanzia della loro
libertà. Qualcosa delle forme sovrane è quindi rimasto anche per scelta consapevole, sebbene Paolo
VI abbia fatto cadere quasi tutti gli aspetti della corte pontificia. Benedetto XVI ha restaurato qualche
forma, non sovrana, ma di solennità tradizionale, che il suo successore ha lasciato cadere. L’idea
della sovranità è legata all’antica concezione della monarchia papale.
Scriveva Bernardo di Chiaravalle al suo discepolo Eugenio III: il papa è successore dell’apostolo
Pietro e non di Costantino. Vale la pena ripercorrere una pagina del suo De consideratione:
Costui è Pietro, del quale nessuno racconta che camminasse ornato di gemme, vestito di seta, coperto d’oro,
cavalcando un cavallo bianco, circondato da soldati, accompagnato da un rumoroso seguito di servi. Eppure egli, senza
alcuno di questi ornamenti, credette di poter adempiere la missione salvifica che gli era stata affidata con queste parole:
«Se mi ami, pasci i miei agnelli». In tutte queste cose, invece, tu sembri essere succeduto non a Pietro ma a
Costantino. 55
Significativamente Bernardo di Chiaravalle pensa che, dati i tempi, taluni aspetti esteriori
debbano essere tollerati. Ma Eugenio III non deve considerare gli onori come tributati a lui. In realtà,
nella storia del papato, non si può giudicare una lontana stagione storica con la sensibilità odierna.
Anche il cardinal Bergoglio insiste sul fatto che non si può capire il passato senza rifarsi alla
mentalità e ai problemi di quel periodo. Ma oggi Bergoglio vuol essere un papa semplice e povero:
non un monarca della Chiesa, ma il vescovo di Roma. La proposta che il papa fa a tutti i vescovi è un
modello pastorale ben lontano da quello del «principe» e dalla logica della carriera. Ha detto ai
vescovi latinoamericani: «I Vescovi devono essere pastori, vicini alla gente, padri e fratelli, con
molta mansuetudine; pazienti e misericordiosi. Uomini che amano la povertà, tanto la povertà
interiore come libertà davanti al Signore, quanto la povertà esteriore come semplicità e austerità di
vita. Uomini che non abbiano “psicologia da prìncipi”. Uomini che non siano ambiziosi e che siano
sposi di una Chiesa senza stare in attesa di un’altra…». 56
Nell’intervista concessa ai giornalisti di ritorno dal Brasile, ha insistito sul ministero del
vescovo: «C’è sempre il pericolo di pensarsi un po’ superiori agli altri, non come gli altri, un po’
principe. Sono pericoli e peccati. Ma il lavoro di vescovo è bello: è aiutare i fratelli ad andare
avanti. Il vescovo davanti ai fedeli, per segnare la strada; il vescovo in mezzo ai fedeli, per aiutare
la comunione; e il vescovo dietro ai fedeli, perché i fedeli tante volte hanno il fiuto della strada». 57
Questo modello episcopale non può essere imposto, ma solo proposto dal papa ai vescovi. Bisognerà
vedere nei prossimi anni come sarà recepito. In ogni modo, in tutti i suoi gesti, papa Francesco dà
testimonianza di un modo pastorale e povero di essere vescovo.
In papa Francesco c’è la scelta di non farsi proteggere dall’isolamento tradizionale del papa per
essere più liberamente e in modo meno condizionato «padre di tutti». La distanza dai contatti e dai
condizionamenti aveva invece la funzione di esaltare un papato che apparteneva nello stesso tempo a
tutti e a nessuno. Francesco vuol essere fratello di tutti: la sua via è uno stile di vita il più simile
possibile a quello della gente, nonostante la particolarità del suo ministero. È interessante ritornare
ai consigli che Bernardo di Chiaravalle dava al suo discepolo-papa: «È penoso parlare ancora della
curia, è ora di uscire dal palazzo: ci aspettano nella tua casa. Quelli della tua casa non solo ti stanno
attorno ma, in certo modo, stanno dentro di te». 58
Anche papa Francesco sa che le persone con cui si vive non stanno solo al fianco, ma anche
«dentro»: per questo bisogna essere cauti. La semplicità della sua vita e la sobria residenza a Santa
Marta vogliono consentire al papa di essere uno come tutti. La libertà di comunicare il Vangelo non è
difesa dalle forme della sovranità o dall’isolamento, ma è protetta dalla semplicità.
Giovanni XXIII aveva colto la forza della semplicità. Il giorno del suo ingresso nella basilica
lateranense nel 1959 aveva ricordato come quell’atto in passato si compisse con «il fasto dei bei
tempi lontani». Invece, con la fine di quel mondo, si era acquistato tanto significato spirituale: «Non
è più al principe, che si adorna dei segni della possanza esteriore, che ormai si riguarda: ma al
sacerdote, al padre, al pastore» aveva concluso papa Giovanni. Monsignor Capovilla, suo segretario,
avrebbe commentato: il papa «riprese … a camminare uomo tra gli uomini, per le strade del
mondo». 59 E si vide che era un uomo di fede, tanto da suscitare una simpatia immediata e profonda
tra la gente.
Francesco o cambiare il mondo
Jorge Bergoglio conosce il dolore che si annida nelle pieghe della città globale e del mondo.
Qualche volta la sua lettura della situazione contemporanea è severa, tanto che sente il bisogno di
affermare che il suo non è pessimismo, ma descrizione della realtà. Il Mercoledì delle ceneri del
2013, il cardinale ha affermato: «Il dramma è nelle nostre strade, nei quartieri, nelle nostre case, e
ancora nel nostro cuore. Conviviamo con la violenza che uccide, distrugge famiglie, alimenta guerre
e conflitti in tanti paesi del mondo». Per soggiungere poi: «Il dominio del denaro con i suoi effetti
demoniaci, come la droga, la corruzione, la tratta delle persone – e anche dei bambini – e insieme la
miseria morale e materiale, sono diffusissimi». 60 Parla di uomini, donne, ma soprattutto bambini
divenuti ormai schiavi.
Nel 2005 aveva invitato a guardare alla gente che vive per strada, ai bambini e ai giovani, senza
famiglia, adusi a ogni lavoro e alla droga. Notava come la povertà dei bambini non suscitasse più
indignazione («non vorrei» dice Bergoglio «che i nostri occhi si abituassero a questo nuovo
paesaggio urbano…»). 61 L’abitudine alla miseria altrui è per il cardinale la rassegnazione al fatto
che si può far poco, mentre i problemi sono immensi. Ma i poveri non sono solo una questione
sociale: «prima di tutto» dichiara il cardinale «questo è un problema umano. Ha nomi e cognomi,
spiriti e volti». 62
Di fronte al groviglio dei problemi, viene da chiedersi che cosa si può fare. Si può cambiare il
mondo? È una domanda da porsi di fronte alla miseria vicina, ma anche innanzi agli scenari di
povertà e guerra, a cui ogni giorno ci avvicinano i media. È una domanda da porsi di fronte al
complesso sistema di condizionamenti dell’economia internazionale e dei mercati finanziari. Afferma
il cardinale:
La trappola dell’impotenza ci porta a riflettere. Ha un senso cercare di cambiare tutto ciò? Possiamo fare qualcosa
dinanzi a questa situazione? Vale la pena di tentare se il mondo continua nella sua carnevalata nascondendo
continuamente tutto? 63
C’è un’«impotenza della solidarietà». Per questo Bergoglio afferma: «Non basta essere buoni e
generosi: bisogna essere intelligenti, capaci, efficaci». 64 La vicinanza ai poveri è già una fattiva
contestazione di una società impregnata di mercatismo, in cui tutto si vende e tutto si compra e, in
conseguenza, ha valore solo ciò che ha un prezzo. Vicina ai poveri, l’esistenza cristiana manifesta
un’altra sensibilità verso ciò che veramente vale. Si può dire che il legame cristiano con i poveri
esprime una rivolta del gratuito contro l’egemonia economica, sociale e culturale, del mercato.
Infatti, anche quello che sembra così assodato e indiscutibile può essere cambiato. 65 Si può
cominciare a discutere e pensare un modo diverso di vivere. E per cambiare il mondo si comincia
dal cambiare se stessi vivendo con «una mente aperta e un cuore credente», come dice il cardinale.
Questo non può essere impedito da nessuno. Ed è già di per sé un’enorme forza di cambiamento.
Bergoglio, pur non avendo una visione «politica», crede che il mondo possa essere cambiato. Del
resto chi frequenta i poveri e chi ha i poveri nel cuore (tra i prossimi della sua esistenza) non può
accettare un mondo dove tanti soffrono e sono privati del necessario. Questo grande dolore mette in
luce un sistema che non funziona, perché non è giusto né umano. Ci vogliono profonde trasformazioni.
Già ci si è soffermati sull’idea di Bergoglio che la fede e l’amore debbano produrre una cultura di
giustizia; ma anche sul fatto che l’esclusione e la povertà debbano diminuire e non crescere, come
avviene.
Non si tratta di un vago utopismo. Il cardinale è convinto che ogni uomo possa trasformare il
mondo a partire dalla sua esistenza: «la capacità di creare può cambiare la vita». Lo afferma
raccontando la storia di ragazzi poveri della bidonville di Barracas, a cui è stata offerta da uno dei
suoi preti, padre Pepe Di Paola, un’alternativa alla strada, quella della scuola professionale. È
l’educazione alla cultura del lavoro. La capacità di generare lavoro è una delle migliori risposte alla
crisi. In questo senso, anche gli impegni concreti ma circoscritti dei cristiani contribuiscono a
cambiare il mondo.
C’è poi da recuperare il compito dello Stato per «assicurare la giustizia e un ordine sociale giusto
al fine di garantire ad ognuno la sua parte di beni comuni, rispettando il principio di sussidiarietà e di
solidarietà…». 66 Insomma l’arcivescovo di Buenos Aires chiede una più forte responsabilità sociale
dello Stato, ma pensa anche che la società deve fare la sua parte. Il cardinale ha sempre criticato una
politica ripiegata su se stessa: «quando una persona dimentica di guardarsi intorno, vede solo se
stessa e la propria cerchia e perde di vista il popolo» ha detto rivolto alle alte cariche dello Stato
argentino nel 1999. 67 La credibilità dello Stato si gioca su questo: creare solidarietà e lottare contro
la povertà. Il cardinale afferma: «Lo Stato e la società devono lavorare insieme per rendere possibili
questi cambiamenti e modificare alla radice il modo con cui si affrontano i problemi della
diseguaglianza e distribuzione». 68
Il futuro papa Francesco ha vissuto in anni in cui la società argentina è stata segnata dallo scontro
tra il conservatorismo e l’utopismo rivoluzionario. L’utopismo intendeva cambiare drasticamente e
rapidamente la società con la lotta armata. È una visione che ha coinvolto anche taluni cattolici, laici,
preti o religiosi. Bergoglio si è misurato con essa e ne ha parlato:
Una scorciatoia … ha la componente etica di un inganno: per evitare la via maestra si sceglie il sentiero… Transitare
alla pazienza presuppone accettare che la vita sia proprio questo: un continuo apprendistato. Quando uno è giovane
pensa di poter cambiare il mondo, ed è giusto, deve essere così. Ma poi, quando cerca meglio, nella propria vita e in
quella degli altri scopre la pazienza. Transitare nella pazienza significa accettare il tempo… 69
Non si tratta di un atteggiamento rassegnato, tanto che Bergoglio avverte: «Attenzione, la pazienza
cristiana non è quietista o passiva. È la pazienza di San Paolo, quella che implica di portare sulle
spalle la storia. È l’immagine archetipica di Enea che, mentre Troia brucia, si carica il padre sulle
spalle … si carica la sua storia sulle spalle e si mette in cammino, alla ricerca del futuro». La
pazienza non si risolve nell’immobilismo, ma nel caricarsi il peso della storia alla ricerca del futuro.
Caricarsi la storia sulle spalle richiede di «transitare nella pazienza» e di accettare di misurarsi con
il tempo. Infatti – dice il cardinale – «non possiamo creare qualcosa di nuovo nella storia se non a
partire dai materiali che la stessa storia ci offre». 70
Le rivoluzioni più vere e i cambiamenti più grandi vengono realizzati dagli spirituali e hanno
radici nello spirito. Nella conversazione con il rabbino Skorka, Bergoglio parla del francescanesimo
come attore di cambiamenti nella storia: «Francesco ha apportato alla storia del cristianesimo una
nuova concezione della povertà in opposizione al lusso, all’orgoglio e alla vanità dei poteri civili ed
ecclesiastici dell’epoca. Ha sviluppato una mistica della povertà e della privazione, e ha cambiato la
storia». 71 In effetti la figura di san Francesco, pur tra le miriadi di figure di santi del cattolicesimo, è
una personalità unica che non tramonta con il passare dei secoli. Francesco non ha cambiato la storia
del suo tempo con la politica o le armi, ma è partito dalla predicazione del Vangelo, che ha generato
un movimento di spirituali, donne e uomini: sono loro che, in un’epoca di monasteri e grandi
cattedrali, hanno portato il Vangelo per strada, nella vita quotidiana. Da questo movimento, originato
dalla fede evangelica, è scaturita anche una cultura «cortese» nei tempi nuovi dell’umanesimo
duecentesco.
André Vauchez, storico medievista, autore della migliore biografia del santo che oggi abbiamo a
disposizione, scrive che la povertà non era per il santo di Assisi un esercizio ascetico, quanto la
condivisione della vita della gente, di quei minori che sopportavano le fatiche quotidiane. La
prospettiva di san Francesco era ben diversa da quella di un monachesimo che aveva perso il senso
del lavoro o che lo considerava una pratica ascetica: «lavorare con le proprie mani era certo fuggire
l’ozio, nemico dell’anima, ma soprattutto guadagnare il pane con il sudore della fronte e partecipare
alla condizione dell’immensa maggioranza degli uomini del suo tempo, i lavoratori, perché i nobili e
i chierici erano dispensati da questo obbligo». 72
Il movimento francescano è portatore di novità: il ritorno al Vangelo, un nuovo rapporto con le
Scritture (che potrebbe essere definito «lo spirito della lettera»), la predicazione della pace in un
mondo violento, la conciliazione con la natura. In san Francesco l’elogio della semplicità non si
confonde con l’ignoranza, tanto che il suo movimento apre a tutti – in un tempo in cui la Bibbia era
nelle mani di pochi – l’accesso alle Scritture. Francesco d’Assisi, obbediente nella Chiesa, difende
al suo interno con coraggio il carisma di cui è portatore. Così avviene un innesto prezioso. Lo dice
Vauchez con finezza:
Fino ad allora, infatti, nel cristianesimo occidentale l’uomo religioso per eccellenza era il monaco, che viveva
separato dal popolo, al riparo del chiostro … L’intuizione di fondo di Francesco volta le spalle a questa tradizione
pressoché millenaria: per lui, in effetti, il mondo non era il luogo dell’esteriorità e della vanità che occorreva fuggire per
ritrovare Dio, bensì l’orizzonte in cui si dispiegava la carità, un luogo da attraversare – senza installarvisi – in una
peregrinatio attiva, impegnandosi in un combattimento contro il male e contro se stessi. 73
In questa prospettiva si superava la distinzione, anzi l’opposizione classica, proveniente dalla
tarda antichità, tra gli specialisti della contemplazione e la massa dei fedeli coinvolti nella vita
attiva: la vita cristiana rinnovata – dice Vauchez – aveva lo scopo «di portare testimonianza e di
indirizzare un appello a ciascuno». Il movimento di Francesco attestava che «un nuovo tipo di
rapporto tra gli uomini era possibile»: «Francesco voleva superare le differenze e le opposizioni tra
i sessi, le età e le diverse categorie giuridiche e sociali in una comunione spirituale piena di vita». 74
Non si trattava di un progetto perseguito sistematicamente e governato centralisticamente, ma
nemmeno di un’utopia astratta: era una storia di uomini e di donne, nutriti del Vangelo, che mettevano
in moto una dinamica propria e finivano per rappresentare una riforma nella Chiesa e una rivoluzione
nella società.
San Francesco cambiò il suo mondo partendo dal Vangelo vissuto e non da un progetto. Il papa ha
la convinzione che il Vangelo vissuto incida profondamente nella società e scriva una nuova storia.
Maurice Zundel (il teologo svizzero che diceva «non dobbiamo difendere Dio, dobbiamo viverlo»)
parla della povertà di Francesco d’Assisi in questi termini: «non sarà più un’ascesi, ma una mistica,
una gioia, una giubilazione, uno stupore, perché la povertà è il volto stesso dell’Amore … Per amare
veramente bisogna essere poveri di sé, essere aperti a un altro, bisogna diventare un immenso spazio
per accogliere l’altro…». 75
La conversione di san Francesco, che vive la povertà come apertura e quindi ricchezza umana, ha
portato un grande cambiamento nei suoi discepoli e nel mondo cristiano. Giustamente lo storico
medievista Ovidio Capitani ha parlato di una mutazione dell’antropologia religiosa: «Fare i poveri e
restare uomini, non limitarsi ad accettare o imitare la marginalizzazione implicita nella fuga dal
mondo, nel romitaggio, nel monastero; non vedere la società, la natura, la storia, come un male
necessario; portare l’entusiasmo … in un’umanità afflitta da ogni abiezione, ma sacralizzata dal
Cristo in quanto umanità…». 76 Queste sono le radici e gli effetti della storia francescana che può
diventare storia di tutti.
Chiesa povera e madre
La Chiesa, libera nella sua povertà, capace di fare spazio agli altri, non è un’organizzazione
filantropica o irenista. Sarebbe una comunità svuotata, quindi incapace di accogliere, perché non in
condizione di offrire nulla. «Siate misericordiosi!» è quello che papa Francesco ripete a tutti. La sua
è una Chiesa che non si impone, non è una Chiesa altera, autosufficiente e precettiva.
Il papa ha insistito proprio sulla dimensione femminile della Chiesa, pur notando che la donna non
è chiamata al sacerdozio ministeriale. Non crede a una lotta femminista nella Chiesa, perché pone «le
donne su un piano di lotta, laddove sono molto di più» e corrono il rischio di un «maschilismo in
gonnella»: «… secondo la nostra concezione,» dice Bergoglio «la Vergine Maria è superiore agli
Apostoli … La presenza femminile nella Chiesa non è emersa più di tanto perché la tentazione del
maschilismo non ha lasciato spazio per rendere visibile il ruolo che spetta alle donne nella
comunità». 77 Ha confermato questa visione nel colloquio con i giornalisti di ritorno dal Brasile,
dicendo in modo vivace: «La donna, nella Chiesa, è più importante dei vescovi e dei preti; come, è
quello che dobbiamo cercare di esplicitare meglio, perché credo che manchi una esplicitazione
teologica di questo».
Anche Francesco d’Assisi aveva ben chiara la dimensione femminile della Chiesa. L’esercizio
dell’autorità da lui proposto non era quello patriarcale delle comunità monastiche, dove l’abate era
padre (c’è chi vede in questa figura quasi l’immagine del pater familias romano, tesi non accettata
dai più, ma che Ildefonso Schuster sosteneva).78 Francesco si rivolgeva ai suoi frati sicut mater,
mentre ribadiva che compito di ogni cristiano era partorire Dio tra gli uomini. Jacques Dalarun
osserva che il santo di Assisi ha dato un decisivo contributo alla «femminizzazione del
cristianesimo», una svolta nella spiritualità occidentale.
Nella visione di Bergoglio, una Chiesa più femminile avrà meno paura della tenerezza. Scrive il
vaticanista americano John Allen: questa è «una caratteristica costante della sua visione e del suo
operato, maturati nel corso degli anni: coloro che si presentano come annunciatori di Cristo devono
“trasudare” misericordia e compassione». 79 Proprio in questa prospettiva, nel maggio 2013, si è
rivolto in termini molto chiari alle religiose:
… per favore, una castità «feconda», una castità che genera figli spirituali nella Chiesa. La consacrata è madre,
deve essere madre e non «zitella»! Scusatemi se parlo così, ma è importante questa maternità della vita consacrata,
questa fecondità! Questa gioia della fecondità spirituale animi la vostra esistenza; siate madri, come figura di Maria
Madre e della Chiesa Madre. Non si può capire Maria senza la sua maternità, non si può capire la Chiesa senza la sua
maternità e voi siete icona di Maria e della Chiesa. 80
L’affermazione della Chiesa come madre comporta una revisione di tanti tratti della sua vita, ma
anche un’accentuazione di alcuni caratteri «materni»: una Chiesa povera, accogliente,
misericordiosa, bella, feconda di vita e di gioia. Infatti una Chiesa povera non è una comunità che ha
templi brutti e spogli, intristita, rassegnata a non poter aiutare gli altri. È invece un popolo che ha
capito come l’universalità e la bellezza nascano da una scoperta: solo se sarà amico dei poveri, potrà
essere Chiesa di tutti e Chiesa davvero madre. Il papa parlando ai cardinali ha ipotizzato quasi una
crescita della maternità della Chiesa nella storia: «E la Chiesa così è più Madre, Madre di più figli,
di molti figli: diventa Madre, Madre, Madre sempre di più, Madre che ci dà la fede, Madre che ci dà
l’identità … perché trovare Gesù fuori della Chiesa non è possibile». 81
C’è bisogno della Chiesa madre, soprattutto quando la società è diventata matrigna per tanti. Nella
solitudine, l’uomo e la donna si sentono indifesi, passano da momenti di orgoglio ed esaltazione alla
condizione tanto comune della paura. Un poeta turco, Nazim Hikmet, nel 1940, nel pieno di una vita
difficile, così descrive la condizione di un uomo indifeso:
Siediti per terra
E guarda da tutte le parti:
chi sa in quale tana la sciagura è in agguato
ti colpirà certamente, sfuggire è impossibile… 82
La maternità della Chiesa non cancella la condizione difficile dell’uomo e della donna, ma guida
chi si affida a lei verso la scoperta della misericordia di Dio. Una Chiesa misericordiosa è capace di
compagnia verso l’indifeso, ma anche di adozione di chi patisce orfananza e fragilità. L’uomo non
deve guardarsi «da tutte le parti» perché indifeso e non «sa in quale tana la sciagura è in agguato»,
come scrive Hikmet. Ha detto il papa: «chi ha sentito la tenera carezza della misericordia, si sente
felice e a suo agio con il Signore». 83
C’è nel pensiero di papa Francesco tanta gratitudine per la vita della Chiesa, che precede e
sovrasta le preoccupazioni per le condizioni della sua realtà odierna. 84 Per il papa, la Chiesa non è
un problema o un insieme di problemi ma – pur con le sue fatiche e le sue ombre – rappresenta
soprattutto la grazia di una madre. Così si possono ricordare le parole di Henri de Lubac, che,
meditando sul mistero della Chiesa, riprende anche un’espressione di Paul Claudel e scrive:
Sì, sia benedetta questa grande Madre, sulle cui ginocchia noi abbiamo infatti tutto appreso e continuiamo ogni giorno
a tutto apprendere! È lei che ci insegna, ogni giorno, la legge di Gesù Cristo, ci mette in mano il suo Vangelo e ci aiuta a
decifrarlo. Che ne sarebbe di questo piccolo libro, o in quale stato ci sarebbe pervenuto se, per ipotesi impossibile, non
fosse stato redatto e poi conservato nella grande comunità cattolica? 85
V
Globalizzazione, città e storia
Critica della mondializzazione
Papa Francesco ha vissuto, da argentino, la complessa vicenda economica del suo paese,
l’impoverimento di larghi strati della popolazione, i rapporti difficili con la finanza internazionale.
Gli sembra una storia di disumanizzazione con l’umiliazione di interi ceti, particolarmente con la
riduzione del valore del lavoro: «L’economia speculativa non ha più bisogno neppure del lavoro.
Insegue l’idolo del denaro che si produce da se stesso. Per questo non si hanno remore a trasformare
in disoccupati milioni di lavoratori». 1 Di fronte a questo sistema, che definisce imperialismo
economico, il cardinale ricorda che l’oppressione del povero e la frode del salario agli operai sono
due peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio. La globalizzazione, che crea uniformità, è per
Jorge Bergoglio «essenzialmente imperialista e strumentalmente liberale, ma non è umana». Il
cardinale ha dichiarato a Gianni Valente:
C’è stato in questo tempo un vero terrorismo economico-finanziario. Che ha prodotto effetti facilmente registrabili,
come l’aumento dei ricchi, l’aumento dei poveri e la drastica riduzione della classe media … In questo momento, nella
città e nelle zone abitative intorno a Buenos Aires ci sono due milioni di giovani che non studiano né lavorano. Davanti
al modo barbaro in cui si è compiuta in Argentina la globalizzazione economicistica, la Chiesa di questo paese si è
sempre rifatta alle indicazioni del magistero. 2
Un grave problema creato dal liberismo selvaggio è lo sconvolgimento delle strutture economicosociali di un paese: «l’attuale imperialismo del denaro mostra un inequivocabile volto idolatrico». Il
cardinale aggiunge: «il nuovo imperialismo del denaro toglie di mezzo addirittura il lavoro, che è il
mezzo in cui si esprime la dignità dell’uomo, la sua creatività, che è l’immagine della creatività di
Dio». Gli organismi finanziari e la comunità internazionale non pongono al centro delle loro
decisioni l’uomo e la donna, mentre indicano ai governi «le loro rigide direttive», pur parlando di
etica e di trasparenza: «mi appaiono» conclude Bergoglio «come dei moralisti senza bontà». 3
Il suo giudizio sulla situazione economica argentina e internazionale matura nel Sud del mondo. Si
sviluppa conforme alla dottrina sociale della Chiesa, critica verso il capitalismo internazionale (che
rappresenta l’attualità) e il comunismo (che rappresenta l’utopia realizzata del passato). Ci sono però
accenti che lo distinguono da vari vescovi europei che, dopo l’89, hanno accettato – non senza
obiezioni, certo – il sistema liberale. C’è un anticapitalismo di Bergoglio, non per quello che
riguarda il possesso dei beni, ma per la sua considerazione negativa del potere «assoluto» della
finanza internazionale sulle situazioni nazionali. Egli non accetta l’idea per cui la società sarebbe
«Mercato e nient’altro che Mercato».
La storia economica degli ultimi due decenni dell’Argentina è, per lui, un esempio del potere di
una dittatura internazionale. Il cardinale non entra nei ragionamenti economici, ma senza timore
dichiara che la situazione deve cambiare. Negli scritti di Bergoglio, si trova più volte un vero grido
contro un sistema economico iniquo: «Siamo stanchi di sistemi che producono poveri…». Tra l’altro
la logica mercatista si è manifestata clamorosamente in Argentina con la rinuncia a investire sulla
scuola, un tema che l’arcivescovo ha giustamente molto a cuore.
La posizione dell’arcivescovo di Buenos Aires valorizza aspetti importanti di critica al
capitalismo, propri del pensiero sociale cattolico. Giovanni Paolo II ha indicato ai cristiani il
compito di essere coscienza critica nei confronti di uno sviluppo schiacciato sugli obiettivi del
mercato: «Nell’interesse della persona, e quindi della pace,» ha detto «è urgente pertanto apportare
ai meccanismi economici quei necessari correttivi che consentano loro di garantire una distribuzione
dei beni più equa e più giusta. Per fare questo non basta solo il funzionamento del mercato … Nessun
paese può riuscire da solo in una simile impresa. Proprio per questo è necessario lavorare insieme,
con la solidarietà richiesta da un mondo sempre più interdipendente». 4 Il rischio odierno è un
capitalismo forse più disumano di quello di inizio Novecento, anche perché i suoi effetti si vedono di
meno in quella parte del mondo dove si prendono le decisioni: nel passato il dramma dell’operaio
era contiguo alla vita dell’imprenditore (stessa città, stessa lingua, stessa gente). Oggi c’è spesso una
grande distanza tra chi decide e coloro che subiscono tali decisioni. Non c’è più un comune orizzonte
umano e politico.
Zygmunt Bauman ha contestato una delle giustificazioni principali di questo sistema: quella
secondo cui «il perseguimento del profitto individuale fornisce anche il meccanismo migliore per il
perseguimento del bene comune». 5 Secondo Bauman bisogna rifondare la cultura della solidarietà in
una società che, per tanti aspetti, sta diventando aggressiva e si sta lacerando: «La nostra situazione è
la conseguenza dell’aver sostituito la competizione e la rivalità … all’anelito umano, troppo umano,
a una coabitazione basata sulla cooperazione amichevole, la reciprocità, la condivisione, la fiducia,
il riconoscimento e il rispetto vicendevole». E il sociologo conclude con un’espressione che
piacerebbe a papa Francesco: «Non c’è vantaggio nell’avidità». 6
Nell’udienza generale del 5 giugno 2013, papa Francesco ha detto con forza come l’economia stia
cambiando l’umanità:
E il pericolo è grave perché la causa del problema non è superficiale, ma profonda, non è solo questione di economia,
ma di etica e di antropologia. La Chiesa lo ha sottolineato più volte … ma il sistema continua come prima, perché ciò
che domina sono le dinamiche di un’economia e di una finanza carenti di etica. Quello che comanda oggi non è l’uomo,
è il denaro, il denaro, i soldi comandano. E Dio nostro Padre ha dato il compito di custodire la terra non ai soldi, ma a
noi: agli uomini e alle donne… 7
Naturalmente Bergoglio non riduce la globalizzazione alla finanza internazionale o all’economia,
il cui controllo sta sfuggendo dalle mani delle classi dirigenti politiche e da ogni valutazione etica.
Infatti auspica che la politica nazionale ritorni a essere un interlocutore forte in scelte che non
possono essere guidate solo da criteri finanziari. Il papa è anche consapevole delle profonde
trasformazioni culturali indotte dalla globalizzazione stessa. In questo senso «la globalizzazione che
crea uniformazione è essenzialmente imperialista e strumentalmente liberale, ma non è umana. In
estrema sintesi è un modo per rendere schiavi i popoli». 8 C’è il rischio di una grande omologazione
con lo smarrimento delle identità dei popoli, quando «le peculiarità positive di ogni cultura vengono
annullate». Si debbono quindi salvaguardare le diversità nell’«unità armonica dell’umanità».
L’arcivescovo di Buenos Aires ha una visione della globalizzazione multipolare, fatta di integrazione
di diverse identità: «La vera globalizzazione che dobbiamo difendere ha la forma di un poliedro,
dove le diverse facce si integrano senza perdere la propria particolarità e ognuna arricchisce le
altre». 9 Infatti il nuovo ordine di relazioni mondiali, indotto dalla globalizzazione, è per sua natura
«ambiguo», ma va abitato con un consapevole orientamento costruttivo. Bisogna leggere criticamente
la globalizzazione, senza accettare passivamente il suo fascino e le sue promesse. È quanto il papa ha
fatto con i vescovi in Brasile, un paese che ha conosciuto una grande crescita ma dove stanno
emergendo forti contraddizioni:
La globalizzazione implacabile e l’intensa urbanizzazione spesso selvagge, hanno promesso molto. Tanti si sono
innamorati delle loro potenzialità e in essa c’è qualcosa di veramente positivo, come, per esempio, la diminuzione delle
distanze, l’avvicinamento tra le persone e le culture, la diffusione dell’informazione e dei servizi. Ma, dall’altro lato, molti
vivevano i loro effetti negativi senza rendersi conto di come essi pregiudicano la propria visione dell’uomo e del mondo,
generando maggiore disorientamento, e un vuoto che non riescono a spiegare. Alcuni di questi effetti sono la confusione
circa il senso della vita, la disintegrazione personale, la perdita dell’esperienza di appartenere a un «nido», la mancanza
di un luogo e di legami profondi. 10
Bergoglio è severo nei confronti degli effetti negativi della globalizzazione in tanti suoi interventi:
«l’indifferenza regnante nei confronti dei crescenti squilibri sociali, l’imposizione unilaterale di
valori e abitudini da parte di alcune culture, la crisi ecologica e l’esclusione di milioni di esseri
umani dai benefici dello sviluppo pongono serie domande riguardo a una simile mondializzazione».
Per questo si deve riconoscere che ancora oggi «il costituirsi di una famiglia umana solidale e
fraterna continua a essere, in tale contesto, un’utopia». Eppure la globalizzazione è anche una chance
che offre enormi possibilità per il rinnovamento del mondo: «Molti fattori paiono indurci a
sopprimere le barriere culturali che impedivano il riconoscimento della comune dignità degli esseri
umani, e ad accettare la diversità di condizioni, razze, sesso o cultura. Mai come oggi l’umanità ha
avuto la possibilità di costruire una comunità mondiale multiforme e solidale». 11
Abitare con speranza la terra
L’utopia di papa Bergoglio resta una famiglia umana solidale e fraterna. La sua critica alla
globalizzazione è quella di un uomo del Sud, di un latinoamericano, che ne ha visto gli effetti
perversi: «La globalizzazione come imposizione unidirezionale e uniformante di valori, pratiche e
merci si accompagna all’integrazione intesa come imitazione e subordinazione culturale, intellettuale
e spirituale». 12 Giovanni Paolo II ha affermato che la globalizzazione di per sé non è un fenomeno né
negativo né positivo. È storia e va abitata, orientata, modificata: c’è insomma una storia della
globalizzazione da scrivere, ma oggi la tendenza è invece lasciarsi scrivere dalla storia della
globalizzazione, fosse quella dei mercati finanziari, delle culture di massa, degli agenti
transnazionali.
Non è facile però oggi orientarsi. Nel 1993 Samuel Huntington, a cui abbiamo già accennato,
propose a un mondo scompaginato dalla fine del bipolarismo un nuovo modo di pensarsi, strumenti
concettuali per collocare la propria identità in un insieme, quello di un blocco di civiltà. 13 Tali
civiltà, per loro dinamica, erano a rischio di un rapporto conflittuale. Lo studioso americano
proponeva qualcosa che molti volevano sentirsi dire. Lo desideravano gli orfani della lotta al
comunismo alla ricerca di un nuovo nemico e di nuovi barbari da cui difendersi. Lo volevano quei
mondi che si erano sentiti marginalizzati dall’Occidente, come quello russo o quello islamico. Non è
un caso che il libro di Huntington, The clash of civilisations, sia stato un vero successo nel mondo
arabo. Ognuno ritrovava, almeno un po’, se stesso collocando la propria identità in una civiltà e
anche trovando un nemico.
Che cosa sarà Roma senza Cartagine?, si chiedeva preoccupato Cicerone dopo la sconfitta dello
storico nemico. Huntington ha provato a dire che cosa sarebbe stato il mondo dopo la guerra fredda,
con la capacità di perimetrare gli spazi di civiltà, di segnalare i rischi all’orizzonte. Con i terribili
attacchi a New York e a Washington, la profezia di Huntington non si è rivelata vera? Per lui il vero
grande scontro è tra Occidente e islam: «Il conflitto sorto nel XX secolo tra democrazia liberale e
marxismo-leninismo non è che un fenomeno storico fugace e superficiale rispetto all’antico e
fortemente conflittuale rapporto tra islam e cristianesimo». 14 In realtà, la storia contemporanea è
molto più complessa. Anche il mondo fondamentalista musulmano ha mostrato un’articolazione
interna tra quelli che seguono il terrorismo, quelli che impongono un islam radicale e quanti, pur
fondamentalisti, si misurano con le democrazie.
La globalizzazione non ha soppresso le storie nazionali, anche se esse sono potentemente
condizionate da un quadro più vasto. Ha prodotto un processo contradditorio: da una parte la perdita
o la diminuzione della sovranità degli Stati di fronte ai fenomeni transnazionali, specie finanziari;
d’altra parte la difesa del proprio spazio nazionale persino con i muri, come quello che divide Stati
Uniti e Messico per fermare l’immigrazione. Wendy Brown, politologa americana, ha ben illustrato
questa situazione in un recente e drammatico libro, Stati murati, sovranità in declino. 15 È una storia
nuova, complessa e contraddittoria, di cui non abbiamo esplorato ancora tutte le dimensioni.
Per abitare responsabilmente la globalizzazione, occorre che tutti i soggetti (nazionali, religiosi,
culturali, economici…) giochino attivamente il loro ruolo. Nel mondo globale, pochi possono
determinare la vita di tanti. È il caso del terrorismo e del terrorismo religioso. Naturalmente il
terrorismo è un fenomeno tutt’altro che nuovo nella storia umana ma, grazie alla mondializzazione dei
media, esso ha un influsso e una capacità di minaccia tutta particolare. Gilles Kepel, noto islamologo
francese, parla di Osama bin Laden come di un attore «tra terrorismo e grande spettacolo»: «Il
terrore da grande spettacolo è l’occasione, grazie alla copertura mediatica che procura, di porsi
come campione della causa e di tentare di ritrovare il favore popolare attraverso la rappresentazione
televisiva, in assenza di un effettivo lavoro di impiantazione sociale». 16 Attraverso la
spettacolarizzazione del terrorismo il leader islamista avrebbe voluto egemonizzare il mondo
musulmano.
Con l’avvento della mondializzazione, la nazione non deve scomparire come soggetto della storia,
pur inquadrata in un plesso di relazioni e di scambi globali: è l’idea di Bergoglio. In Argentina c’è
stata una crisi della coscienza nazionale, anche perché i cittadini hanno «la pericolosa tendenza a
pensare che tutto cominci oggi…». 17 Invece l’arcivescovo di Buenos Aires coltiva uno spiccato
senso della storia. La storia ha un valore nelle comunità nazionali, come nella vita delle persone. C’è
un ruolo decisivo della narrazione nel coltivare le identità («Quanto abbiamo perso culturalmente
con la rottura con i classici!» confida il cardinale) 18. Attraverso la storia si ridefiniscono le nazioni. I
cittadini «globali» debbono «atterrare» in una nazione, delimitare la globalità, pensarsi dentro una
storia:
… siamo persone storiche. Viviamo nel tempo e nello spazio. Ogni generazione ha bisogno di quelle precedenti e
deve dare qualcosa a quelle che seguono. Questo, in larga misura, è essere una nazione: vedersi come continuatori
dell’impegno di altri uomini e donne che hanno dato quello che potevano, e come costruttori di un ambito comune, di una
casa, per quelli che verranno dopo. 19
Nel quadro del Bicentenario dell’Indipendenza, misurandosi con il processo di mondializzazione,
l’arcivescovo di Buenos Aires dà un contributo al ripensamento dell’identità della nazione. È
impossibile, a suo avviso, affrontare gli orizzonti della globalizzazione senza essere un soggetto
nazionale con una propria identità. Usa il termine «Patria», mentre per lui paese è un’espressione
geografica e nazione ha un sapore legale (differente è l’opinione di tanti che hanno affrontato negli
ultimi anni la risorta questione delle nazioni). Infatti afferma: «Patria viene da padre; ed è la patria
… a ricevere la tradizione dei padri, a portarla avanti, a farla progredire. La patria» conclude «è
l’eredità dei padri nel presente, che spetta a noi far crescere». 20 Senza patria, l’uomo e la donna sono
sperduti nel mondo globale aperto a correnti e venti che vengono da lontano. La patria è la realtà di
un popolo, «una parola tanto carica di sentimento e di emozione, tanto inanellata con storie di lotta,
di speranza, vita, morte…». Per Bergoglio un popolo è definito dalla geografia e dalla storia ma ha
anche un’anima. Per questo l’individuo deve rompere «la corazza del suo egoismo», per riconoscere
che non ci si salva, né si ha un futuro da soli. 21
Dialogo e amore presuppongono il riconoscimento dell’altro in quanto altro e l’accettazione della diversità. Solo su
questo si può fondare il valore di una comunità: non pretendendo che l’altro si subordini ai miei criteri e alle mie priorità,
non assorbendo l’altro, ma riconoscendo il valore di quello che è, e accogliendo con gioia questa diversità che
arricchisce tutti noi. Il contrario è mero narcisismo, imperialismo, pura stoltezza. 22
Bisogna abitare le immense distese del mondo globalizzato con identità mature e aperte al
dialogo. Nella mondializzazione dell’informazione e dei contatti, tutto (seppur lontano) sembra
vicino, raggiungibile, conosciuto, in fondo consumabile. In realtà non è così. Anche nel mondo
globale, non protetto da frontiere, ci sono distanze immense che seminano freddezze, diffidenze,
pregiudizi, odi… Questo mondo non è divenuto cosmopolita, anche se genti diverse finiscono per
vivere negli stessi spazi urbani, il che non significa che realmente si avvicinino. C’è un grande
compito a tutti i livelli (tra popoli, tra religioni, tra culture): costruire ponti, comunicazioni e
percorsi di amicizie. Il mondo globalizzato va abitato con uno spirito responsabile, nuovo,
costruttivo.
Questo impone ai diversi soggetti di ripensarsi su spazi tanto larghi e a fronte di correnti invasive
e di spinte all’anonimato. L’identità è una veste senza cui non è possibile realizzare un dialogo vero e
abitare felicemente la globalità del mondo. Identità non vuol dire muro o conflitto. Senza identità non
c’è la dignità di essere soggetti o interlocutori. Ma bisogna costruire quella che io chiamo la «civiltà
del convivere», che non è l’egemonia dell’uno sull’altro, ma è una capacità armonica di essere
insieme tra diversi. 23
La Chiesa cattolica, con la sua lunga storia e la sua partecipazione alle vicende di tante terre, è di
per sé e già da tempo una realtà globalizzata: non è a disagio nel mondo come si è recentemente
delineato, anche se deve compiere nuovi sforzi. La cultura dell’incontro è messa alla prova proprio
dalle dimensioni degli orizzonti globalizzati. Da un punto di vista religioso, nel mondo della
globalizzazione, lo spirito di Assisi costituisce una grande risposta: abitare l’uno accanto all’altro in
un dialogo, che mette in luce le diversità ma anche i legami. C’è una globalizzazione dello spirito,
che non è un eclettismo sconsiderato e individualista. In questa prospettiva l’intuizione di Giovanni
Paolo II, che convocò ad Assisi i leader delle Chiese cristiane e delle grandi religioni mondiali nel
1986 in tempo di guerra fredda, appare precorritrice della realtà della mondializzazione.
I cristiani e la città globale
Come vivere nel mondo globalizzato? Nel nuovo panorama della mondializzazione le persone, le
comunità, le culture, i paesi, tutti i soggetti umani, debbono – come ho già detto – in qualche modo
ricollocarsi. In fondo la globalizzazione è un fenomeno iniziato dopo la caduta del Muro e non è
ancora facile trarne le conseguenze. Alcune realtà vivono tuttora come non fosse successo nulla. Il
cardinal Bergoglio, in un testo pubblicato nel 2011, osserva:
… siamo sottoposti anche alla tensione tra globalizzazione e localizzazione. Bisogna guardare al globale, perché ci
riscatta sempre dalla meschinità quotidiana, dalla meschinità casereccia. Quando la casa non è più focolare, ma
chiusura, segreta, il globale può riscattarci … Nello stesso tempo dobbiamo assumere il locale, perché il locale ha un
qualcosa che il globale non ha, quello di essere lievito, di arricchire, di mettere in moto meccanismi di sussidiarietà. 24
Ma è possibile questo equilibrio? Una globalizzazione invasiva, «che annulla», rende le persone e
le comunità periferiche di fronte a un centro irraggiungibile, per cui «non c’è differenza tra i diversi
punti della sfera». La reazione è rifugiarsi nel locale e chiudersi al globale. Ma è improponibile:
«Per essere cittadini non si può vivere né un universalismo globalizzante né un localismo
folkloristico o anarchico. Nessuna delle due cose. Né la sfera globale che annulla, né la parzialità
isolata…». La proposta di Bergoglio assume, come già detto, l’aspetto di una figura geometrica, il
poliedro.
Il poliedro, che è l’unione di tutte le parzialità, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità. È, per
esempio, l’unione dei popoli che, nell’ordine universale, mantengono la loro peculiarità come popolo; è l’unione delle
persone in una società che cerca il bene comune … Cercando nell’universale l’unione del locale e, ad un tempo,
conservando la peculiarità, costruisco ponti e non abissi, costruisco una prossimità che mobilita. Bisogna operare nel
piccolo, nel prossimo, ma in una prospettiva globale… 25
Il principale scenario entro cui avviene questo processo di fusione tra universale e locale è la
città. Qui si realizza quell’operare nel piccolo, di cui parla Bergoglio, ma in una prospettiva globale.
Nel mondo attuale alcune città – per la loro collocazione all’interno delle reti – possono divenire un
soggetto molto rilevante. Nel 2007, per la prima volta nella storia dell’umanità, la popolazione delle
città ha superato quella delle campagne. È una grande svolta. Questo mostra come gli uomini e le
donne, in qualche decennio, siano cambiati. Diventare cittadini produce un cambiamento di mentalità
e di stile di vita tra la gente che viene dalla campagna. Ma urbanizzarsi, per enormi masse di
persone, vuol dire paradossalmente periferizzarsi e perdere un centro di riferimento esistenziale.
Nel mondo si staglia un nuovo tipo di vita urbana, quello delle megalopoli, città superiori ai dieci
milioni di abitanti. L’80 per cento di questi agglomerati urbani smisurati si collocano nel Sud del
mondo, tra America Latina, Africa e Asia. Producono una qualità diversa del vivere, problemi di
convivenza e sicurezza, mentre inevitabilmente cresce il mondo degli slums. Oggi, più di un miliardo
di persone – secondo le Nazioni Unite – sono poveri, senza radici, marginali: più del 40 per cento
della popolazione urbana di paesi come l’India, la Nigeria, il Bangladesh, l’Iran, le Filippine, la
Turchia, il Perù, la Tanzania, il Sudan, il Vietnam. Quali fenomeni nuovi produrrà questa
popolazione ai margini della storia? C’è chi ne parla come di «vulcani» pronti a eruttare. 26
La città è un mondo, divenuto il definitivo orizzonte dell’umano. Il poeta David Maria Turoldo
scrive: «Per me la città è quella che è: un punto in cui il complotto della vita diventa inestricabile,
una zona ove tutti i sentimenti son vivi, si chiamano, si rincorrono, interferiscono come le radici o le
ramificazioni nodose di un antico bosco». E la periferia «è come un cerchio di fuoco dove si
azzuffano angeli e uomini…». Per Turoldo «la città è il luogo della nostra battaglia, in cui solo
diventiamo più consapevoli della nostra impotenza, della nostra passività. È, si può dire, la zona del
nostro spirito…». Infatti il mondo della città, abitato da donne e uomini così differenti, diventa «un
immenso mare di volontà in cui nessuna è se stessa, perché tutto in essa è intrecciato, fissato,
superiore e schiacciante». 27
Bergoglio è stato arcivescovo di una città che, considerando la Grande Buenos Aires, conta quasi
tredici milioni di abitanti. La diocesi è più piccola, con tre milioni di fedeli, all’incirca il territorio
della capitale. La dimensione della città è costantemente presente nella sua riflessione, quale terreno
(anche antropologico) in cui la Chiesa si trova a operare. Del resto, in una città con la storia della
capitale argentina, come già accennato, i flussi migratori hanno fatto avvertire la globalizzazione ben
prima che si affermasse in tanta parte del mondo. La grande città (ancor più con la mondializzazione)
è fatta di periferie: bisogna conoscere quelle Villas Miserias «le favelas argentine, a metà strada tra
baraccopoli e quartieri operai» scrive Valente. Qui il vescovo Bergoglio ha operato assieme ai suoi
preti.
Una parte della Villa è cresciuta sulle montagne di immondizia delle discariche abusive, Dio solo sa cosa c’è sotto.
Quando ogni giorno, più volte al giorno, i treni merci tagliano senza chiedere il permesso il groviglio di strade di terra, i
muri delle casupole tremano come cartine e ogni tanto qualcuno – quasi sempre bambini travolti nei loro giochi di strada
– ci rimette le gambe. E poi ci sono le altre malattie, le stesse che assillano gli agglomerati marginali di tante periferie
urbane del Sud del mondo… 28
Francesco è un papa che viene dalle grandi periferie urbane del Sud. Ma, come ho tante volte
sostenuto, spesso le periferie urbane divengono o si connettono alle periferie umane. In una città fatta
prevalentemente di periferie (umane e urbane), si vive con uno sguardo individualista sugli altri,
all’interno della realtà del frammento, prodotta proprio dall’individualismo.
La città è sempre meno un’identità collettiva e un destino comune. È fatta da grandi e anonime
periferie. Nel suo complesso diventa insicura: allora chi ne ha le possibilità si chiude in compound
protetti (è la condizione di tante città del Sud del mondo). Così la città non assomiglia più a una
comunità, perché perde – se lo ha mai avuto – un centro, smarrisce la realtà della piazza dove, specie
nella città europea, ci si incontra tra diversi, tra ricchi e poveri. Le città sono spesso lo scenario di
uomini spaesati e periferici, spaventati dell’incerto che entra nella loro vita quotidiana, assillati dal
problema della sicurezza e dell’estraneità del vicino, in fuga dal prossimo. Nella città della
globalizzazione gli uomini e le donne sono più soli, anzi trascinati da una «forza centripeta che porta
il cittadino attuale a vivere isolato», 29 come dice Bergoglio: gente periferica che ha solo «legami
liquidi» con gli altri.
L’appuntamento con le periferie è decisivo per la Chiesa di domani. Il futuro papa Francesco ne
ha fatto uno dei temi chiave nel suo intervento alle congregazioni generali prima del conclave: «La
Chiesa» ha detto «è chiamata ad uscire da se stessa e andare nelle periferie, non solo geografiche, ma
anche nelle periferie esistenziali: dove alberga il mistero del peccato, il dolore, l’ingiustizia,
l’ignoranza, dove c’è il disprezzo dei religiosi, del pensiero, e dove vi sono tutte le miserie». 30 Che
può dire la Chiesa nella città? Il cardinal Bergoglio scrive: «Essere popolo e costruire città vanno di
pari passo; e così pure essere popolo di Dio e abitare nella città di Dio. In tal senso, l’immaginario
teologico può essere lievito per ogni immaginario sociale». 31
Bisogna collocare il cristianesimo nello scenario urbano. La Chiesa ha cominciato a sentire la
sfida della città più di un secolo fa, avvertendo l’estraneità del proletariato che si addensava nelle
periferie europee: in particolare nella Parigi otto-novecentesca, città cattolica, ma anche fortemente
laica e abitata da un folto proletariato attratto dai movimenti socialista e comunista. Il cardinale
Suhard, arcivescovo di Parigi dal 1940 al 1949, avvertì il problema dell’estraneità delle periferie in
modo molto personale. Fu lui a sostenere l’avventura missionaria dei preti operai tra le masse
proletarie, dopo aver letto un libro che lo sconvolse, La France pays de mission? degli abbé Godin
e Daniel. Secondo questi due preti le città francesi erano ormai in parte estranee al cristianesimo,
quasi come le terre di missione, soprattutto nelle loro grandi periferie operaie. 32
Gilbert Cesbron, un fortunato romanziere francese di quegli anni, racconta l’avventura della
missione voluta dall’arcivescovo di Parigi in ambiente operaio. Dipinge Suhard, forse in modo
fantasioso ma efficace: mostra il suo rapporto dolente e appassionato con il mondo della periferia,
ormai estraneo alla Chiesa. Nelle ultime settimane della sua vita, il cardinale, angosciato, si faceva
condurre con la sua piccola automobile nera e fuori moda per la periferia di Parigi:
Col viso contro il vetro, le mani giunte, il cuore stretto, il cardinale arcivescovo passava lentamente in mezzo al suo
popolo pagano; lo sguardo azzurro faceva provvista di quei visi grigi. «Tutti figli di Dio! E io sono responsabile di tutti
loro … Perdonatemi, Padre! Perdonatemi!» Tornava all’arcivescovado traboccante di umiltà e di propositi e
rimaneggiava in grandi pagine un piano di conquista che ormai lo sapeva non sarebbe stato lui a mettere in atto. 33
Il cardinale Suhard aveva espresso con chiarezza la sua visione della missione: «L’insieme delle
nostre popolazioni non pensa più in modo cristiano. C’è tra loro e le comunità cristiane un abisso.
Bisogna uscire da casa nostra e andare tra di loro». Aveva detto ai preti della missione di Parigi:
«C’è un muro che separa la Chiesa dalla massa; bisogna abbattere questo muro ad ogni costo per
rendere Cristo alle folle che lo hanno perduto». 34 Alcuni grandi vescovi, come Suhard, hanno intuito
la novità drammatica di un mondo fattosi periferia.
Il cardinal Bergoglio ha additato, come modello di pastore, monsignor Enrique Angelelli, vescovo
argentino di La Rioja, assassinato dai militari nel 1976: «camminava con il suo popolo fino alle
periferie … era uomo di periferia che andava a cercare gli altri, che usciva per andare incontro…». 35
Il cristiano, in un certo senso, è spinto verso la periferia, perché è uomo di incontro e di dialogo. Chi
vive il mondo solo dal centro è spesso prigioniero di una visione egemonica o astratta. Il cristiano e
il vescovo vanno al di là dei muri e delle distanze, fuori dal recinto ecclesiastico, tra la gente, con
«uno sguardo che si coinvolge drammaticamente nella città e si impegna con essa nell’azione».
Bergoglio dichiara con convinzione:
Dio vive nella città e la Chiesa vive nella città. La missione non si oppone al fatto di dover imparare dalla città – dalle
sue culture e dai suoi cambiamenti – nello stesso momento in cui usciamo a predicare il Vangelo. Anzi questo è frutto
del Vangelo stesso che interagisce con il terreno in cui cade il seme. Non solo la città moderna è una sfida, ma lo è
stato, lo è, lo sarà ogni città, ogni cultura, ogni mentalità e ogni cuore umano … Il Vangelo è un kerygma che si accetta
e spinge a comunicare, le mediazioni si elaborano mentre viviamo e conviviamo. 36
La Parola di Dio ritorna nella circolazione del discorso umano, ma trova tanti ostacoli. Il grande
problema della città è la chiusura degli spazi, che diventa chiusura umana dei cittadini. Anche i
cristiani rischiano di assumere questo atteggiamento: vivere in comunità chiuse, come luoghi della
propria esperienza religiosa. La città non è solo il luogo dove «conquistare» gente per accrescere
comunità chiuse, ma anche un luogo – lo dice il cardinale – dove imparare a stringere legami. Per
Bergoglio la «porta chiusa» è il simbolo della città spaventata, che sente l’altro come un estraneo. È
un atteggiamento tipico della mentalità urbana, che costruisce spazi di sicurezza dove abitare protetti.
Infatti il cardinale afferma:
Tra le esperienze più forti delle ultime decadi c’è quella di incontrare porte chiuse. La crescente insicurezza ha
portato poco a poco a sbarrare porte, a mettere mezzi di vigilanza, telecamere di sicurezza, a diffidare dell’estraneo che
bussa alla nostra porta. Nonostante questo, ancora in alcuni paesini ci sono porte che restano aperte. La porta chiusa è
tutto un simbolo dell’oggi. È qualcosa di più che un semplice dato sociologico; è una realtà esistenziale che sta segnando
uno stile di vita, un modo di mettersi di fronte alla realtà, agli altri, al futuro … La sicurezza delle porte blindate
custodisce l’insicurezza di una vita che diventa più fragile e meno permeabile alle ricchezze della vita e dell’amore per
gli altri. 37
La porta chiusa manifesta un atteggiamento esistenziale di tanti: «non si tratta solo della mia casa
materiale, è anche il recinto della mia vita, il mio cuore». La città delle porte chiuse è quella odierna,
popolata di diffidenze, paure, ostilità. La Chiesa non è un insieme di comunità chiuse. Dice
l’arcivescovo: «La porta chiusa ci danneggia, ci atrofizza, ci separa». La Chiesa deve intessere un
dialogo con gli uomini e le donne per strada: «Dobbiamo uscire a parlare a questa gente della città
che vediamo al balcone. Dobbiamo uscire dalla nostra buccia e dirgli che Gesù vive e che Gesù vive
per lui, per lei e dirglielo con gioia … Dobbiamo andare a seminare speranza, dobbiamo uscire per
strada. Dobbiamo uscire a cercare». 38
La porta chiusa e la strada sono i due poli dell’esperienza cristiana: la Chiesa può chiudere le
porte come tutte le case oppure aprirle, uscire per strada e incontrare le persone. Ma ci vuole
apertura di cuore, perché «l’apertura agli altri va in coppia con la nostra apertura al Signore». Nella
Domenica delle Palme del 2008, il cardinale ha affermato con decisione: «… la Chiesa si rivolge
alla strada, perché oggi Gesù è il re della strada». La processione – in questo caso, quella delle
Palme – non è una manifestazione del dominio della Chiesa sulla città, ma è seguire Gesù per strada:
Diciamo che oggi la Chiesa si rivolge alla strada per imitare quella Domenica delle Palme, ma anche per affermare
che oggi, in senso lato, il luogo di Cristo è la strada. I Vangeli ci narrano che andava al tempio, che andava alla
sinagoga, ma anche raccontano che attraversava i sentieri, i paesini e le strade. Oggi il luogo di Cristo è la strada; il
luogo del cristiano è la strada. 39
L’espressione «apertura» è un termine chiave nell’invito che Bergoglio rivolge ai sacerdoti (e a
tutti). Invita a non tenere chiuse le chiese, perché «l’apertura evangelica si gioca nei luoghi
dell’entrata: nella porta delle chiese che, in un mondo in cui gli shopping non finiscono mai [sic], non
possono restare molte ore chiuse…». 40 Spesso, in una città dalle porte chiuse, le chiese sono invece
uno spazio libero; per questo sono talvolta popolate – come possiamo vedere – di gente senza fissa
dimora. Talvolta ci si spaventa e si chiudono le chiese, temendo il disordine o i furti. Così diventano
un luogo funzionale solo alle celebrazioni liturgiche, quasi fossero aule destinate unicamente a questo
servizio.
La vita dei cristiani nella città infatti si svolge tra due poli – nota il teologo Joseph Comblin – che
si manifestano in due spazi differenti. 41 C’è la totalità dello spazio della città, dove si percepiscono
domande e dolori, dove normalmente si vive in mezzo a tutti. C’è, d’altra parte, uno spazio
particolare, «messo a parte nel seno stesso della città»: le chiese. Le chiese, con la loro presenza e il
loro linguaggio, parlano a cristiani e non cristiani di un’altra città che «scende dal cielo»; ma
invitano anche a credere che sia possibile trasfigurare la città in cui si vive. Nella città complessa di
oggi, le chiese possono essere uno spazio differente, di silenzio, di incontro, di presenza di Dio.
Debbono essere un santuario in mezzo alle case e ai palazzi. Sono contemporaneamente un segno di
alterità e una porta aperta. L’alterità della chiesa non è uno spazio cintato, ma un luogo aperto
all’incontro.
Le chiese non sono insignificanti nel panorama della città e non possono essere ridotte a un
edificio funzionale. La liturgia della consacrazione di una chiesa rivela i significati dell’edificio con
il suo alfabeto eloquente e misterioso che parla di una presenza tanto altra e tanto prossima. Quando
nel mondo sovietico si entrava in una delle poche chiese lasciate in funzione dal potere, si aveva la
sensazione di uscire dal grigio mondo dell’oppressione quotidiana per entrare nello spazio libero di
Dio che trasfigurava uomini e donne. Così le chiese debbono essere aperte, belle, significative,
popolate di persone che credono e che accolgono. Perché gli uomini e le donne di fede rendono una
chiesa eloquente e non solo un monumento.
Ma non si tratta soltanto di edifici. Un aspetto decisivo della presenza cristiana è soprattutto il
volto dei fedeli: «l’altra porta che è il nostro volto, che sono i nostri occhi, il nostro sorriso, il
rallentare un poco il passo e mettersi a guardare colui che sappiamo che sta aspettando» dice
Bergoglio. Può apparire un’esagerazione, ma l’incontro con Gesù per i più passa attraverso l’umanità
dei cristiani. Tanto che Bergoglio parla anche del valore della cortesia nella affrettata vita sociale di
ogni giorno. La prima cosa dell’altro che ci tocca sono il volto e gli occhi. Un volto triste – come
quello dei discepoli di Emmaus – non comunica niente. Il problema del volto sta nel cuore. Dice il
libro del Siracide: «Il cuore dell’uomo cambia il suo volto o in bene o in male. Indice di un cuore
buono è una faccia gioiosa...» (13,25-26).
In questa prospettiva vivere l’incontro non è una forma di attivismo. Talvolta ci vuole tempo per
realizzarlo. Il tempo dell’incontro ha un suo passo particolare. In Brasile il papa ha detto: «La
ricerca di ciò che è sempre più veloce attira l’uomo d’oggi: Internet veloce, auto veloci, aerei veloci,
rapporti veloci... E tuttavia si avverte una disperata necessità di calma, vorrei dire di lentezza. La
Chiesa sa ancora essere lenta: nel tempo, per ascoltare, nella pazienza, per ricucire e ricomporre? O
anche la Chiesa è ormai travolta dalla frenesia dell’efficienza?». 42 Bergoglio ha chiaro come spesso
i sacerdoti siano carichi di attività: «Alla fine della giornata talvolta arriviamo malridotti e, senza
che ce ne rendiamo conto, filtra nel nostro cuore un certo pessimismo che … ci unge con una
psicologia disfattista che ci riduce a ripiegare in difensiva». 43 Agende tanto cariche e precise non
tengono conto che «Dio ci sorprende sempre con il non programmato della vita». Infatti l’incontro ha
imprevedibilmente bisogno di spazio. Così Bergoglio si lascia andare a questo invito: «Tenete nella
vostra agenda il non programmato, che è stare al servizio, essere disponibili all’imprevisto». 44
I discepoli di Gesù sono chiamati a comunicare pazientemente il Vangelo del risorto con le
parole, il volto, la vita. Perché comunicare il Vangelo non è un’attività, ma qualcosa che viene dalla
profondità della vita che illumina il volto e dà sapore alle parole. Sulla strada, l’incontro avviene tra
persona e persona, mentre gli occhi dell’uno guardano quelli dell’altro. Quando l’arcivescovo parla
di «missione come opzione pastorale permanente», si riferisce anche al modo quotidiano di vivere e
di rapportarsi dei cristiani. In ogni momento, quando cammina per strada, quando lavora, quando fa
acquisti, il cristiano è qualcuno che incontra l’altro. E l’altro, prima che ascoltare le sue parole, vede
il suo volto.
La vita cristiana, secondo il papa, è sale di fede, di speranza e di carità. L’originalità cristiana sta
in questo: «quelli che ricevono l’annuncio lo ricevono secondo la loro peculiarità, come i pasti
diventano più buoni (con il sale)». Il sale del Vangelo rende gli uomini e le donne più buoni, più
sapidi, più umani, «perché l’originalità cristiana non è uniformità, prende ciascuno come è, con la
sua personalità e le sue caratteristiche, con la sua cultura…». La realtà di ciascuno è una ricchezza,
ma il sale del Vangelo «gli dà qualcosa in più, gli dà sapore». Il Vangelo dà sapore all’uomo, anche
se «ciascuno è come è, con i doni che il Signore gli ha dato, perché Dio “è il Signore della varietà”».
Il sale è quel sapore della vita che, purtroppo, manca a molti. E i cristiani debbono conservare e
distribuire questo sale che non diminuisce nella comunicazione. Questa è la Chiesa di Bergoglio:
Chiesa centrata su Dio, ma in missione e incontro alla gente.
Città dell’uomo o di tanti dei?
Nel 1965, il teologo battista americano Harvey Cox pubblicò un libro, La città secolare, che
suscitò molte discussioni per la sua tesi di fondo apparsa provocatoria. Urbanizzazione e
secolarizzazione cambiavano radicalmente il rapporto tra l’uomo e Dio: «l’alta mobilità distrugge la
religione tradizionale. Essa separa la gente dai luoghi di culto e li mescola con i vicini che hanno
divinità con nomi diversi e che le adorano in modo diverso». 45 Come può vivere il cristianesimo in
una città profana, pragmatica e secolare? C’era – secondo Cox – una grande trasformazione da
operare: «Oggi la nostra transizione dall’era della cristianità alla nuova era della secolarità urbana
sarà non meno radicale. Piuttosto che rimanere ostinatamente aggrappati ad appellativi antiquati e
sintetizzarne affannosamente dei nuovi, forse, come Mosè, noi dobbiamo semplicemente
intraprendere l’opera di liberare i prigionieri…». 46
In realtà la storia della «città secolare» non è così nuova come Cox affermava: Parigi è, da tanto,
città laica e secolare, ma allo stesso tempo abitata dai cristiani. La città – nonostante le previsioni di
Cox – è divenuta non solo secolare, ma soprattutto religiosamente pluralista. Città, con un passato
cattolico, si trovano a fare i conti con importanti minoranze non cattoliche. Le grandi città del Sud del
mondo sono abitate da ferventi e diversificati movimenti neoprotestanti o pentecostali. La città
globale è pluralista e secolarizzata: quel che scriveva Cox ha avuto, nel mezzo secolo passato, uno
sviluppo impetuoso e diversificato. Questo non significa che la Chiesa non abbia voce nella città o
che la religione si riduca a gruppi chiusi nelle nicchie della vita urbana. Anche se i nostri tempi
registrano una privatizzazione religiosa in ambienti ristretti che rispondono ai bisogni dei singoli.
Non si tratta di cattolicizzare la città attraverso manifestazioni ufficiali. Ma la Chiesa, guardando
la città e incontrando i suoi abitanti, sa che essa non è stata abbandonata da Dio, pur nelle sue
contraddizioni, nella sua corruzione, nella sua inumanità. La Chiesa sa che è difficile essere umani
nella città e nelle sue periferie; conosce la condizione di tanti condannati a una vita dura. Eppure è la
città dell’uomo, che può divenire più umana. Nell’immagine di Abramo, che intercede nella
preghiera per Sodoma, il cardinal Bergoglio vede la figura del cristiano che spera con decisione
nella «salvezza» della città e prega per essa. Infatti pone ai cattolici di Buenos Aires questa
domanda: «Sono come Abramo nell’audacia dell’intercessione o finisco in meschinità alla Giona,
lamentandomi per un’infiltrazione nel tetto e non per questi uomini e donne, “che non sanno
distinguere il bene dal male”, vittime di una cultura pagana?». 47
La Chiesa cattolica, anche se minoritaria, si pone sempre come la Chiesa della città.
Significativamente le diocesi cattoliche nel loro titolo (la diocesi di New York ad esempio) portano
quasi sempre il nome della città e non della regione o della provincia dove si collocano. Scrive il
metropolita ortodosso libanese George Khodr: «La Chiesa è il cuore del mondo, anche se il mondo
ignora il suo cuore ». La città può ignorare la Chiesa e le sue ragioni profonde. Ma la Chiesa ha a
cuore la città. Scrive l’arcivescovo di Buenos Aires:
La città attuale è relativista: tutto va bene, e magari cadiamo anche nella tentazione di ritenere che, per non
discriminare e includere tutti, sentiamo come necessaria la relativizzazione della verità. Non è così. Il nostro Dio, che
vive nella città e si coinvolge nella sua vita quotidiana, non discrimina né relativizza. La verità è quella dell’incontro che
scopre volti, e ogni volto è unico. Includere persone con un volto e un nome propri non comporta la relativizzazione dei
valori, né la giustificazione degli anti-valori; piuttosto, il fatto di non discriminare e di non relativizzare implica la forza di
accompagnare dei processi e la pazienza del fermento che aiuta a crescere. 48
Bergoglio parla dell’esistenza di una «cultura del basso», che omogeneizza sentimenti e
comportamenti: «stiamo in un tempo di “miopia spirituale e di appiattimento morale” che fa sì che si
cerchi di imporre come normale una “cultura del basso”, in cui pare non esserci posto per la
trascendenza e la speranza». La Chiesa conosce la forza della mentalità relativista: «Il relativismo
che, con la scusa del rispetto delle differenze, omogeneizza nella trasgressione e nella demagogia:
permette tutto per non assumere la contrarietà che impone il coraggio maturo di sostenere valori e
principi». Così il relativismo non significa pratica del rispetto: «Il relativismo è, curiosamente,
assolutista e totalitario…».
Il pluralismo non si deve necessariamente risolvere nel relativismo. Bergoglio afferma che la
Chiesa è «un soggetto che si trova immerso in un cocktail di culture ibridate subendone l’influenza e
l’impatto»: 49 per questo «è necessario ricollegarsi con lo “specifico cristiano”, per poter dialogare
con tutte le culture». 50 Il cardinale non crede alla neutralità motivata dall’apertura a tutti. Soprattutto
non ci crede nel campo dell’educazione: «Se all’educazione si toglie la tradizione dei propri
genitori, rimane solo l’ideologia … Quando si lascia un vuoto, questo viene occupato da idee lontane
dalla tradizione familiare, e nasce l’ideologia». 51 Alla fine tutto si svuota e tende verso il basso;
anche le contraddizioni reali della vita e della persona vengono spente, perché – dice il cardinale –
«tutto si regola con l’anestesia…».
Nella città, la Chiesa sa che ogni giorno deve condurre una lotta pacifica contro una diffusa
cultura del vuoto. La Chiesa inquieta e ridiscute questa cultura. Lo fa vivendo l’incontro con le donne
e gli uomini della città, comunicando la sua fede, senza niente imporre. Lo fa dialogando sui
problemi della vita con tutti e incontrando gente di altra fede, senza paura di cambiare lo stile di vita,
evitando di restare sulla difensiva, autoreferenziali, chiusi in piccoli ambiti o anche nelle istituzioni
tradizionali. In questa prospettiva, anche sulla linea del Documento dell’episcopato latinoamericano
di Aparecida, Bergoglio parla di «conversione pastorale» della Chiesa.
La città non è quella di Dio, la città sacra, nemmeno quella del confessionalismo (laddove si
imponeva, non fosse che per conformismo, un costume religioso). Eppure Dio non ha abbandonato la
città secolare e pluralista, relativista e talvolta vuota di senso. Il futuro papa cita a lungo il
documento di Aparecida sulla città:
La fede ci insegna che Dio vive nella città,
in mezzo alle sue gioie, ai suoi desideri e alle sue speranze,
come anche nei suoi dolori e nelle sue sofferenze.
Le ombre che segnano la quotidianità delle città,
la violenza, la povertà, l’individualismo e l’esclusione,
non possono impedirci di cercare
e di contemplare il Dio della vita
anche negli ambienti urbani.
Le città sono luoghi di libertà e di opportunità…
In esse l’essere umano è chiamato a camminare
sempre più incontro all’altro,
a convivere con il diverso,
ad accettarlo e ad essere accettato da lui. 52
Queste belle espressioni mi fanno nuovamente ripensare a quanto scritto dal poeta David Turoldo:
«È un errore pensare che Dio è lontano, che abita in un’altra città: di città ce n’è una sola; egli abita
tra queste mura…». Turoldo ricordava come fossero stati Caino e i suoi figli a costruire la città: «È
stato un bisogno di difesa contro il cielo, contro gli elementi, contro la natura, ad agglomerarci, a
fonderci e fortificarci; è stato un bisogno di conquista, di dominio, di benessere. Sorta nel peccato [la
città], lo spirito del male vi ha naturalmente piantato le sue tende, ha steso la sua politica, vi ha
creato i suoi satelliti». 53 L’inferno si trova anche nella città, nutrito dalle debolezze e dall’«oro della
Terra». Ma Gesù ha amato tanto la città, dice padre Turoldo:
… è passato proprio a redimere questa città; è nato ed è morto alla periferia di essa, ma è stato condannato nel
centro, nel palazzo del Pretorio, ed è stato flagellato nel palazzo del Comune. Prima aveva pianto sopra di lei, sulle
alture, e poi è disceso a sudar sangue nell’orto degli Ulivi. Ma nel frattempo aveva trovato un cenacolo … Così Egli è
diventato, morendo, la vita della terra, l’anima di questa città, il segreto che tutti cercano nei solchi di sangue. Da allora
sorsero i templi accanto alle tane, gli altari accanto alle alcove, i monasteri e i santuari accanto alle taverne. E sulla
stessa arena si sono discusse le sorti del tempo e dell’eternità… 54
Così il poeta descrive la città secolare. Dio vive in questa città, non l’ha abbandonata come luogo
del maligno o come terra della perdizione. Ovviamente, si debbono trovare le forme, le strade per
arrivare nel cuore della città. La quale non sarà mai una città sacra, dominata dalla religione con le
sue leggi. Non sarà mai un paradiso. È una città mista, plurale, ambigua, in cui la condizione cristiana
è di lotta (agonica, nel senso greco della parola), ma anche di simpatia per le tante vicende umane
che si intrecciano tra loro.
Sui linguaggi, le condizioni, le opportunità e i limiti dell’orizzonte urbano, la Chiesa deve
riflettere con decisione. Il mondo della città è anche quello della Chiesa. Anche se la città è il luogo
della corruzione, Dio vive in essa, seppure i suoi abitanti non lo conoscono. I cristiani non possono
fuggire la città né rifugiarsi in angoli protetti, ma sentono la presenza di Dio nel dolore, nella
confusione, nella solitudine, nella ricerca, nell’amore degli uomini della città. La Chiesa è il segno
del fatto che Dio abita nella città. Per questo i suoi figli debbono «guardare» la città nella sua
interezza. Il tema dello sguardo è molto presente nelle riflessioni del cardinal Bergoglio, che
considera una grande tentazione il «non vedere» (frutto della cecità farisaica, del fascino delle luci
del centro, dell’indifferenza…). La condizione urbana è insomma una grande opportunità per la
Chiesa. Il cardinale fissa tre atteggiamenti concreti di guida al cristiano nel suo cammino nella città:
L’uscire da se stessi incontro all’altro si risolve nella vicinanza, in atteggiamenti di prossimità. Il nostro sguardo deve
essere sempre capace di uscir fuori e di farsi prossimo. Non dev’essere autoreferenziale, ma trascendente.
Il fermento e il seme della fede si risolvono sempre nella testimonianza … È la dimensione martiriale della fede.
L’accompagnamento si risolve nella pazienza, nella hypomené, che segue passo passo i processi senza bistrattare i
limiti. 55
Oggi il vissuto di tanti cristiani, dentro la condizione urbana, sta scrivendo percorsi di spiritualità
rinnovata (mentre quella tradizionale era tanto forgiata sulla dimensione dell’uomo della campagna).
La Chiesa, attraverso il vissuto di uomini e donne di fede, guarda alla città del futuro. Joseph
Comblin osserva come «la Chiesa non esiste soltanto al servizio della città di oggi, ma anche a
servizio della città di domani. È a servizio della nuova Gerusalemme, è a servizio della città
rinnovata che sorgerà…». 56
In linea con il Concilio e l’Evangelii nuntiandi, papa Bergoglio ripropone la missione come la
collocazione normale della Chiesa nella città. La missione è anche una pacifica demitizzazione di
tanti idoli della vita urbana, di una visione economicista totalizzante, della potenza dei media
globalizzati. Il cardinale parla di un «incantamento» della tecnica sugli uomini nella promessa di
cose sempre migliori, di un’economia dalle possibilità illimitate, del consumismo materiale ma
anche di quello religioso con la sua teologia della prosperità: questo coacervo di influssi convergono
nella grande illusione di rappresentare le vere risposte a tutti i bisogni umani.
La comunicazione del Vangelo è una lezione di realismo e di autentica laicità. Risveglia alla
realtà. Ha insomma la funzione dei profeti biblici, quella del disincanto, che Bergoglio chiama
«escatologico». Il «disincanto escatologico» della fede evangelica richiama al valore delle cose
ultime di fronte all’idolatria di sé o delle cose prossime. Bergoglio, aperto a tutti, convinto che da
tutti si possa imparare, non è un irenista senza il coraggio di un giudizio profetico sugli idoli che
nascono dal culto dell’io. Tornano alla mente le parole del canone di sant’Andrea di Creta, che la
Chiesa ortodossa legge per la Quaresima, come preghiera penitenziale. Riguardano proprio
l’idolatria più profonda:
Idolo a me stesso sono diventato
ferendo la mia anima con le passioni.
Accoglimi pentito e alla tua luce attirami.
Non mi divori il nemico… 57
Ci siamo feriti da soli con le nostre passioni: questo il messaggio di Andrea di Creta. Così si
diventa idoli a se stessi: si ha sempre ragione, non si sbaglia mai, si diventa furbi, politici, freddi,
paurosi e calcolatori, impigriti. L’«idolo a me stesso» è la condizione di un uomo «disidratato» di
spirito. Sant’Andrea di Creta afferma: quest’uomo, idolatra di se stesso, si ritrova nel niente. Si
ripete quello che è avvenuto nella Genesi. Il nemico, il serpente, suggerisce di distaccarsi da Dio e
dalla sua parola: «Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste
come Dio…» (Genesi 3,5). L’uomo e la donna, illudendosi di vedere, credono di poter diventare
come Dio. Dei a se stessi. Per Olivier Clément, l’affermazione sull’idolatria di se stessi è centrale
nella cultura di oggi. Autoidolatria diventa la separazione da Dio. L’individuo si autodivinizza. Il
peccato è «murarsi» in se stessi e nella propria identità, nel proprio io: «nel concentrarsi» osserva
Clément «tutto su se stesso, senza via d’uscita che non sia il proprio io. Ne consegue che l’individuo
si irrigidisce e si polverizza, incorrendo sia nella durezza di cuore che nel gioco degli specchi del
proprio narcisismo». 58
Questa storia antica si ripropone oggi in forme nuove, mentre la società spesso si scompone in un
insieme di io senza speranza comune, senza coesione. La missione della Chiesa è, allo stesso tempo,
una profezia contro gli idoli e l’autoidolatria, ma anche un richiamo al risveglio di un cuore spento.
Certo il profeta e l’inviato sono deboli di fronte alla forza dell’idolatria: «di fronte a questa
invasione pseudoculturale, che ci presenta i nuovi volti pagani dei Baal di ieri, sperimentiamo la
sproporzione delle nostre forze e la piccolezza dell’inviato» 59 afferma Bergoglio. Continua il
cardinale:
Nel caso specifico di Buenos Aires, possiamo dire che si tratta di una città pagana; non lo dico in senso peggiorativo,
ma solo come constatazione. È una città che adora molti dei … È un fatto che la cultura edonistica, consumistica,
narcisista sta inquinando il cattolicesimo. Ci contagia, e in qualche modo finisce per relativizzare la vita religiosa, per
paganizzarla, per renderla mondana, secolare… 60
Così la missione cristiana è diversa dalla propaganda e dalla predicazione delle sette (che
gridano «smetti di soffrire» e propongono una teologia della prosperità). La missione dei cristiani
vive e cresce nel dialogo con la gente, con la sua inquietudine e con il suo dolore. Bisogna riuscire a
collocarsi nel clima e nel linguaggio vissuto dagli interlocutori. L’arcivescovo dice: «Come a tutti
noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna – ancor più se ci vediamo obbligati a usarne altre
– così pure nella fede ci piace che ci si parli con le chiavi della “cultura materna”». 61
Nella città «pagana» vive una religione popolare che non è un residuo del passato o un
compromesso con la superstizione. Il cardinale cita il pellegrinaggio di tanti giovani al santuario
della Madonna di Lujàn, per molti l’unica esperienza religiosa, fatta spontaneamente e senza alcuna
organizzazione. La religiosità popolare è una realtà che, dopo il Vaticano II, è stata considerata con
sufficienza, quasi fosse espressione di un passato da cancellare. Per Bergoglio la devozione popolare
ha un valore, sebbene sia un aspetto parziale della vita, talvolta in contraddizione con altri: è una
«scintilla» che va aiutata a svilupparsi. Nella città secolarizzata, una Chiesa in missione incontra un
popolo che non è chiuso alla fede: questa è la sua convinzione al di là di tante analisi sociologiche.
Il futuro Francesco non indulge al pessimismo sul mondo contemporaneo che avrebbe voltato le
spalle a Dio. Quel pessimismo che spinge a chiudersi in piccoli mondi, magari alla ricerca di una
sedicente perfezione, intesa come adesione alle prescrizioni. Bergoglio critica un mondo di «regole
troppo rigide da seguire». Così si inibisce l’incontro con la misericordia di Dio, a cui – magari
inconsapevolmente – tanti cuori anelano: «L’evangelizzazione, non il proselitismo, che oggi – grazie
a Dio – è stato cancellato dal lessico pastorale». L’evangelizzazione si incontra con una grande
inquietudine religiosa ancora viva nel cuore delle persone, che non è stata cancellata da una visione
psicologica della vita. Deve cogliere la domanda di felicità della gente. Il Vangelo infatti non toglie
niente, anzi rende la vita più piena di senso e felice, anche se non regala illusioni di prosperità. Papa
Francesco si scaglia contro un «riduzionismo ignobile», che sminuzza o trascura il kerygma in favore
della catechesi, della precettistica, del moralismo.
Il cardinale critica una certa pastorale ecclesiastica: «si preferisce parlare della morale sessuale:
questo si può, questo non si può». Bisogna realizzare un incontro vero con le persone. Ogni cristiano
ha il suo carattere e la sua umanità, il suo modo di incontrare e di parlare. A questo si deve essere
attenti. Bergoglio non promuove piani pastorali né fissa stili di vita generali per la Chiesa. Ha anzi
polemizzato con quanti vogliono erigersi a controllori del popolo, quasi innalzando una «dogana
pastorale». Si pensi all’itinerario rigido che talvolta si deve compiere per ottenere il battesimo da
parte degli adulti in talune diocesi. Papa Francesco sta ponendo domande fondamentali alla Chiesa,
la sta spingendo a interrogarsi sul suo vivere nella città. In Brasile ha detto ai vescovi, riguardo
all’atteggiamento verso la gente:
Forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni, forse troppo povera per rispondere
alle loro inquietudini, forse troppo fredda nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri
rigidi linguaggi, forse il mondo sembra aver reso la Chiesa un relitto del passato, insufficiente per le nuove domande;
forse la Chiesa aveva risposte per l’infanzia dell’uomo ma non per la sua età adulta. 62
La missione vuol dire uscire nella città, incontrare, parlare di Gesù, ascoltare le persone, non
tenere le porte chiuse, vivere responsabilmente sulla strada. Non ci sono semplificazioni o proposte
metodologiche che rendano superflua una conversione personale dei cristiani alla missione del
Vangelo. Niente è semplice nella città contemporanea. Occorre cambiare, mettendosi nuovamente
sulla strada. Non è facile vivere nella città: «Abitare in una grande città al giorno d’oggi è cosa
molto complessa, dal momento che i legami di razza, storia e cultura non sono omogenei e gli stessi
diritti non sono condivisi in egual misura da tutti i residenti». 63 Ma questa è la condizione dei
cristiani oggi.
Vedere il lontano
Il cristiano, tra mondo locale e mondo globale, è interpellato da tanti fatti: dal povero che incontra
sino alle immagini di dolore in paesi lontani, che vede ogni giorno attraverso i media. È interrogato
sulla solidarietà. La domanda posta a Gesù sul prossimo è sempre attuale: chi è il mio prossimo?
Indubbiamente il vicino. Eppure, oggi, i media ci portano a contatto con tragedie lontane. È
significativo che la Croce Rossa nacque, come un impeto umanitario, nell’Ottocento, quando la
fotografia testimoniò all’opinione pubblica lo strazio dei feriti in battaglia (quel dolore lontano
veniva riprodotto e poteva essere visto anche da chi era assente). 64 La solidarietà internazionale
nasce proprio dal sentire «prossimo» chi soffre geograficamente lontano da noi. Per Peter Singer si
impongono, in questa situazione, due condotte differenti all’uomo contemporaneo: tirar fuori il
bambino che affoga nello stagno di fronte a noi e, d’altra parte, contribuire ad aiutare un altro
bambino che muore in Sudan per fame. 65
Forse oggi, tempestati come siamo da immagini e notizie di avvenimenti dolorosi in paesi lontani
dal nostro, ci siamo quasi assuefatti a questa realtà. L’inflazione di informazioni ha un effetto
deresponsabilizzante. Alla fine si viene a contatto con tante notizie su situazioni problematiche che si
pensa sia impossibile seguire. Così, tra impotenza e dimenticanza, ci si rinchiude nella propria vita.
Paolo VI, nel 1966, di fronte alla fame in India disse qualcosa che mi ha sempre colpito fin da
adolescente: «Guardate l’umanità; sì, questa nostra umanità, così progredita e così potente; guardate:
più della metà degli esseri umani che la compongono è in uno stato di sofferenza, che dobbiamo dire
ignobile e intollerabile; soffre la fame. La fame, letteralmente! … Nessuno di voi rimarrà sordo a
questa inattesa notizia». 66 Paolo VI toccava un problema attuale: l’informazione porta notizie tragiche
da ogni parte del mondo. Che si deve fare? Il mondo è divenuto villaggio globale: si viene informati
in tempo reale. Ma come reagire? Così Paolo VI continuava:
È questo un fenomeno caratteristico del nostro tempo, nel quale i rapporti fra uomini hanno reso di conoscenza
comune la vicenda di ogni parte dell’umanità. Nessuno può dire oggi: io non sapevo. E, in un certo senso, nessuno oggi
può dire: io non potevo, io non dovevo. La carità tende a tutti la sua mano. Nessuno osi rispondere: io non volevo!
Ebbene, oggi, Figli carissimi, quella mano è anche la nostra. Noi la tendiamo mendicando a voi… 67
Oggi si potrebbero ripetere queste parole di fronte a ogni crisi umanitaria in ogni parte del mondo.
Una grande vista senza cuore rende l’uomo indifferente. Gli ultimi decenni hanno conosciuto
significativi momenti di solidarietà internazionale. La Chiesa stessa l’ha stimolata rendendo sensibili
le comunità cristiane del Nord ai drammi della povertà del Sud. Tuttavia, con la crisi economica e di
fronte a tante situazioni drammatiche, la solidarietà internazionale si è parzialmente appannata. In
visita all’isola di Lampedusa, approdo di tanti rifugiati che attraversano il Mediterraneo su
imbarcazioni di fortuna e talvolta perdono la vita, Francesco ha sottolineato come «siamo
disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo … non siamo più capaci di custodirci gli
uni gli altri». C’è come un’anestesia di fronte al dolore di tanti: «la globalizzazione dell’indifferenza
ci ha tolto la capacità di piangere». Invece la «voce del sangue» (che si alza da tragedie lontane)
pone una domanda radicale: «Dov’è tuo fratello?».
Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi … Chi è responsabile
del sangue di questi nostri fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno
altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?». Oggi nessuno
nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna, siamo caduti
nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon
Samaritano … La cultura del benessere che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa
vivere in bolle di sapone… 68
Il giudizio del papa è severo: «In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella
globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci
interessa, non è affar nostro!». 69 Papa Francesco, recandosi a Lampedusa, ha portato tanti a «vedere»
da vicino questa tragedia. Bisogna «vedere» anche quello che avviene lontano. È il primato del
cuore: non si ha la soluzione per tutto, ma non si può chiudere il cuore solo perché ora non si ha la
soluzione. Resta un’inquietudine partecipe che spinge alla ricerca e alla preghiera.
Visione e storia
Il mondo si è allargato e il grande problema oggi è avere una visione. La visione ha una
dimensione geografica (mondi lontani e vicini), ma pure una dimensione storica e di prospettiva del
futuro. Scrive un poeta italiano, Andrea Zanzotto: «siamo, anche se io stento, fatti di orizzonti».
Emilio Vergani osserva come l’assenza di visione connoti in genere la vita pubblica: «questa assenza
(o perdita) deriva, in buona sostanza, da una deprivazione di forza del pensiero, di immaginazione e
di volontà». 70 L’assenza di visione riduce il proprio spazio al mondo attorno a sé, mentre restringe il
tempo al presente. Il cardinal Bergoglio ha parlato di «congiunturalismo», di «una visione a breve
termine»: si fissa così «il presente come unica dimensione del tempo, che non consente visione e
sguardo strategico e pone l’occupazione di spazi come fine ultimo dell’attività politica, sociale ed
economica». 71 Si tratta della ricerca dell’interesse individuale, dell’esaltazione del particolarismo e
della frammentazione. Diviene una mentalità per tanti, che finiscono per agire in modo solitudinario.
Questo impedisce la maturazione di un progetto comune sul futuro.
L’arcivescovo nota, in Argentina, l’incapacità della politica di operare una sintesi e avere un
progetto. Sulla politica ha parole severe: «È una cultura politica di scontro e non di concordia, non è
una cultura dell’incontro; in essa il conflitto è più importante dell’accordo e della ricerca
dell’unità». 72 In Italia la politica del conflitto ha divorziato dalle peculiari culture di riferimento, che
pure esistevano invece con tutti i loro limiti in una precedente stagione, magari più ideologica. Ormai
la politica ha compiuto un’alleanza strutturale con i media, mentre l’invasione del digitale sta
mettendo in discussione ogni mediazione politica con l’illusione della democrazia diretta. Dice
Bergoglio:
La riduzione della politica a spettacolo o a pura immagine è un fenomeno più recente che promuove personaggi privi
di contenuto e di proposte, senza capacità di gestione né soluzioni per affrontare situazioni complesse come quelle che si
trovano a vivere le società contemporanee. Non si tratta di una questione locale. Non è necessario fare esempi per
rendersi conto dell’emergere di leadership inconsistenti prodotte da campagne pubblicitarie o dalla complicità
mediatica. 73
La crisi della solidarietà, la mancanza di visione, il congiunturalismo, il divorzio della politica
dalla cultura sono espressioni di una società in cui viene a mancare la profondità della storia, ma
anche la speranza di scriverne una rinnovata per il futuro. Nel 1995, Giuseppe Dossetti, monaco e
acuto osservatore del tempo presente, offriva una lettura preoccupata della situazione
contemporanea: «Siamo dinnanzi all’esaurimento delle culture … non vedo nascere un pensiero
nuovo né da parte laica né da parte cristiana». E soggiungeva:
Siamo tutti immobili, fissi su un presente che si cerca di rabberciare in qualche modo, ma non con il senso della
profondità dei mutamenti. Non è catastrofica questa visione, è realistica; non è pessimistica, perché io so che le sorti di
tutto sono in mano di Dio. La speranza non viene meno, la speranza che attraverso vie nuove e imprevedibili si faccia
strada l’apertura a un mondo diverso, un pochino più vivibile… 74
La crisi della cultura, come il suo ripiegamento rabberciato sul presente, è una delle grandi
povertà dei paesi europei. Un tempo non abitato dalla storia diventa ciclico, fa scomparire il futuro,
resta prigioniero di un presente angusto. La globalizzazione appiattisce la visione su di un presente
senza confini che ruota attorno all’ego, creando piccole soddisfazioni in un quadro, però, di grande
smarrimento. Del resto anche la storia – si pensi alle storiografie nazionali, così diffuse tra OttoNovecento – è in crisi e non ha più l’importanza culturale e politica di ieri. Ma la storia è una
componente decisiva della cultura umanistica.
Il futuro papa osserva che un popolo ha un’eredità (con limiti e vantaggi) di cui farsi carico,
«perché esattamente questo è il punto di avvio dal quale partire per poter dare il nostro contributo al
futuro». 75 Aggiunge che «la memoria è una forza d’unificazione e di integrazione». Anche se «la
memoria dei popoli non è un computer, bensì un cuore». 76 Pure una famiglia non è tale se non ha
memoria («Una famiglia che non rispetta né si occupa degli anziani … è una famiglia rotta»). Infine
«una famiglia e un popolo che fanno memoria sono una vera famiglia e un popolo con un futuro». C’è
il senso della storia nel pensiero del papa. Senza senso della storia, senza storia, una comunità non ha
futuro.
La mutilazione della storia – come avviene in molti paesi nuovi o resi dimentichi
dall’appiattimento sul presente – mette in crisi la speranza e le visioni del futuro. Uno dei più grandi
storici del Novecento, Eric Hobsbawm ha parlato della «distruzione del passato, o meglio la
distruzione dei meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle
generazioni precedenti…». E ha aggiunto: «La maggior parte dei giovani alla fine del secolo è
cresciuta in una sorta di presente permanente». 77 Il futuro papa Francesco ha una sensibilità simile e
osserva in proposito:
La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nell’ambito di un popolo in cammino. Per questo ogni sforzo
individuale – per quanto prezioso –, ogni tappa di governo che si avvicenda – per quanto significativa possa essere stata
– e gli avvenimenti e i processi storici che nel tempo forgiano la storia di un popolo – portatore di vita e di cultura – non
sono altro che parti di un tutto complesso e diverso che interagisce nel tempo: un popolo che lotta per un senso, che
lotta per un destino, che lotta con dignità. 78
Il cardinal Bergoglio ha parlato degli uomini e delle donne come di «persone storiche». Nazione e
politica hanno bisogno di coscienza storica. Lo stesso cristianesimo – come diceva Marc Bloch – è
una religione storica e i suoi testi sacri sono anche libri di storia. Affrontare la vicenda
dell’Argentina e dell’America Latina porta a fare i conti con vicende storiche complesse e ineludibili
come la Conquista o il peronismo. 79 La storia per Bergoglio non è un’epopea patriottica o
nazionalista; quella della Chiesa non è apologetica.
La storia è però piena di orrori, dalle crociate, alle guerre di religione, alla Conquista:
«culturalmente, in quell’epoca si agiva così. Fede e spada andavano di pari passo. Questo ci mostra
la bestialità che a volte l’uomo si porta dentro» afferma il cardinale, che pure condanna quei gravi
errori. Tuttavia «se non studiamo i contesti culturali finiamo per dare letture anacronistiche fuori
luogo»: «L’interpretazione storica va fatta utilizzando l’ermeneutica dell’epoca; finché continuiamo a
utilizzare un’ermeneutica estrapolata, stravolgiamo la storia e non la comprendiamo». 80 La storia non
si analizza «da una posizione di purismo etico». Bergoglio rifiuta che la storia possa essere
«tribunalizzata», per giudicare persone, vicende, popoli.
Il futuro papa Francesco conclude le sue riflessioni sulla storia con una considerazione che
echeggia Marc Bloch: «L’analisi storica va sempre effettuata con i parametri dell’epoca, con la sua
ermeneutica. Non per giustificare i fatti, ma per comprenderli». 81 Uscire da sé, incontro, simpatia –
espressioni care al futuro papa – ritornano anche nel lavoro dello storico, pur in modo molto
particolare. Henri-Irénée Marrou, grande studioso dell’antichità, affermava che «storico è colui che
… sa uscire da se stesso per incontrarsi con gli altri. A tale virtù possiamo dare un nome:
simpatia». 82 E aggiungeva che bisogna costruire «un legame di amicizia» con l’oggetto storico che si
studia, ricordando la bella formula di sant’Agostino: «nessuno può essere conosciuto se non
attraverso l’amicizia».
La dimensione della storia è anche rilevante nella vita della Chiesa, pur essendo troppo trascurata
dagli studi ecclesiastici, talvolta nel timore che induca a una relativizzazione delle verità di fede.
Invece la storia aiuta la comprensione della realtà, ad andare più in profondità nelle situazioni, senza
limitarsi a reazioni emotive, ridotte al presente. La globalizzazione ha una storia – come afferma lo
storico Agostino Giovagnoli – e non produce un mondo senza tempo, fatto di economia, appiattito sul
presente. 83 Infatti frequentare la storia fa crescere la coscienza umanistica della vicenda dei popoli e
delle persone.
VI
Un papa dalla fine del mondo
Fuori dall’autoreferenzialità
Nel 1978 l’elezione di un papa non italiano («straniero» si diceva) apparve come una svolta
radicale, ma si trattava pur sempre di un europeo e di Cracovia, una città profondamente partecipe
della cultura dell’impero asburgico che aveva abbracciato anche Veneto e Lombardia, patria di
parecchi papi italiani del Novecento. Certo, per Giovanni Paolo II, il fatto saliente era la
provenienza da un paese comunista. Bergoglio invece viene dal Sud del mondo. Con la sua elezione,
per la prima volta nella storia bimillenaria della Chiesa romana c’è un papa che non proviene
dall’Europa o dal mondo mediterraneo, le prime aree di evangelizzazione del cristianesimo.
Walbert Bühlmann ha scritto, nel 1974, il libro La terza Chiesa alle porte: prevedeva che
l’affermazione della Chiesa del cosiddetto Terzo Mondo avrebbe cambiato il cattolicesimo. 1 Oggi un
figlio della «Terza Chiesa» non è più «alle porte», ma siede sulla cattedra del papa di Roma, alla
testa della più antica istituzione europea e occidentale. Si potrà dire che l’Argentina è tanto legata
all’Europa, tuttavia è parte integrante del grande Sud del mondo. Con una forte intelligenza dei tempi,
il collegio dei cardinali ha scelto un papa non europeo. Questa è la grande novità. I cardinali non
hanno affidato a un europeo la leadership del cattolicesimo mondiale. Questo non significa che la
Chiesa cattolica abbia voltato le spalle all’Europa: il papa è vescovo di Roma e Francesco svolgerà
la maggior parte del suo ministero da qui. I cardinali però hanno scelto – per guidare la Chiesa
universale – un uomo appartenente a un mondo altro rispetto a quello europeo. È l’ammissione di
come il cattolicesimo del vecchio continente non rappresenti più (o non rappresenti in modo così
forte) il baricentro dell’universalità cattolica.
Del resto il cristianesimo del XXI secolo sarà sempre di più una religione del Sud del mondo, non
solo per il crescente numero di «nuove Chiese», sette, comunità pentecostali, un universo tanto
frammentato quanto diffuso, ma anche perché il cattolicesimo stesso sarà sempre più meridionale,
come osserva Philip Jenkins in un libro sul cristianesimo del XXI secolo,La terza
Chiesa. L’America Latina è di gran lunga oggi il continente più cattolico: rappresenta il 42 per cento
dei fedeli cattolici (ma il 20 per cento dei preti del mondo). L’Europa e il Nord America contano
solo il 35 per cento dei fedeli cattolici del mondo (ma il 68 per cento dei preti). Il futuro
demografico del cattolicesimo è nel Sud, mentre complessivamente il cristianesimo – secondo
Jenkins – non sarà superato numericamente dall’islam, come molti prevedono.
Questa constatazione sulla forza del cattolicesimo del Sud non significa che Roma impallidirà nel
suo ruolo di servizio all’universo cattolico. Due papi, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno
fermamente creduto che, senza la persistenza del cristianesimo in Europa, si sarebbe determinata una
crisi a livello universale. Papa Wojtyła ha condotto la sua battaglia per evangelizzare l’Occidente e
scalzare il dominio comunista dell’Est. Papa Ratzinger ha lottato e dialogato con il pensiero
occidentale. Papa Francesco parla spesso del suo essere «vescovo di Roma». Inoltre, proprio il
mondo globalizzato mette in luce il valore insostituibile del servizio del vescovo di Roma per l’unità
della Chiesa. Il cardinale Duval, arcivescovo di Algeri e padre conciliare, sosteneva l’importanza
del primato del papa, anche per equilibrare il cattolicesimo ed evitare che le Chiese del Nord con i
loro potenti mezzi finanziari e con la loro forza intellettuale fossero egemoniche. 2
La Chiesa cattolica, come tutte le realtà del mondo globalizzato, è tentata di proteggere se stessa
dai venti della mondializzazione con un ripiegamento autoreferenziale, magari concentrandosi
sull’orizzonte locale oppure sui suoi problemi strutturali. La globalizzazione rafforza la paura e il
conservatorismo nella Chiesa. Il tradizionalismo e la nostalgia del passato, giustificati spesso con il
tema della fedeltà, nascondono il timore del presente e del futuro. Una Chiesa che si difende, in
atteggiamento conservatore (che può apparire arrogante, ma è pauroso), diventa una comunità di
«cristiani da museo», come dice il papa.
Il clima di crisi europea e la perdita di rilievo mondiale delle nazioni europee, per l’osmosi tra la
Chiesa e il vecchio continente, rafforza tra i cattolici il senso di autoreferenzialità diffuso nelle
strutture cattoliche e tra i fedeli. È un atteggiamento indotto dallo spaesamento di fronte agli orizzonti
smisurati della mondializzazione; ma rappresenta anche una scelta protettiva rispetto al «contagio» di
ambienti così diversi con cui si viene a contatto. Si scivola in questa scelta, quando non si ha una
visione del mondo e si fa fatica a capire le grandi trasformazioni contemporanee.
Così si subiscono i cambiamenti senza dialogare o interferire con essi, spesso in una condizione
di irrilevanza. Eppure i cambiamenti sono grandi, come quelli di un mondo senza più il baricentro in
Europa, e in cui gli Stati Uniti non sono più la grande potenza egemonica, con uno spostamento di
interesse verso universi in cui il cristianesimo è meno presente, quali quello cinese e quello indiano.
Non si tratta di una nuova egemonia asiatica al posto dell’americana, bensì dell’affermazione di una
complessa multipolarità.
L’autoreferenzialità rappresenta una scelta confortevole di fronte a scenari complessi che fa
vivere gli uomini di Chiesa in ambienti che credono di controllare. La povertà è invece uscire nei
cammini della transumanza umana; è incontrare, dialogare, accompagnare, comprendere, comunicare
il Vangelo, non rinunciare a essere un popolo di credenti. Oggi il pensiero della Chiesa sulla
globalizzazione non è così sviluppato, come occorrerebbe, perché molti ambienti cristiani faticano a
guardare fuori del proprio mondo e si limitano a ripetere le cose sicure di sempre. Ma è necessario –
come diceva il Concilio e come fece Giovanni XXIII – cogliere i segni dei tempi che orientano la
vita del popolo di Dio. Nel preconclave, il cardinal Bergoglio aveva tracciato l’immagine del papa
di cui c’era bisogno:
Pensando al prossimo Papa, c’è bisogno di un uomo che, dalla contemplazione e dall’adorazione di Gesù Cristo, aiuti
la Chiesa a uscire da se stessa verso la periferia esistenziale dell’umanità, in modo da essere madre feconda della
«dolce e confortante gioia di evangelizzare». 3
La Chiesa deve uscire da se stessa, collocandosi nelle periferie umane, urbane e geografiche. È la
dimensione della missione di cui si è parlato. Infatti, meditando sull’apostolo Paolo e sul suo zelo
apostolico, il papa parla di una necessaria «pazzia spirituale» per i cristiani: «… nella Chiesa ci
sono cristiani tiepidi, con un certo tepore, che non sentono di andare avanti, sono buoni. Ci sono
anche i cristiani da salotto. Quelli educati, tutto bene, ma che non sanno dare figli alla Chiesa con
l’annunzio del fervore apostolico». 4
Non si capisce la strada della Chiesa solo dal centro ma la si comprende dalle periferie (è la tesi
di Bergoglio). La scelta per la periferia non è solo un’opzione spirituale e pastorale, ma un atto
ispirato da un realismo aderente alla situazione del mondo globale, in gran parte costituito da
periferie. Bisogna avere, però, occhi per comprendere quanto sta avvenendo. Per capire meglio la
storia e per amarla è necessario vivere un’esperienza spirituale. C’è un primato di Dio nella vita da
cui discende uno sguardo diverso sulla realtà. In modo molto semplice ma chiaro, Bergoglio ha detto
al popolo radunato nel grande santuario mariano di Luján: «Lo sguardo della Madonna ci aiuta a
guardare quelli che istintivamente guardiamo di meno…». 5 Ma, anche per quello che riguarda la
cultura, insiste molto sul legame tra la preghiera e la teologia (o il pensiero sull’uomo): la «pietà è,
per così dire, l’ermeneutica fondamentale della nostra teologia». 6
Uomini e donne che pregano potranno comprendere il mondo contemporaneo e aiutare la Chiesa a
capire la strada da percorrere con speranza. Questi uomini e donne proveranno a capire la realtà,
partendo dalle tante periferie. Una Chiesa, che vive in periferia e nei tanti frammenti del mondo, non
è però una comunità in frammenti. Le diversità dei territori e delle culture si compongono nella
comunione. È questa che va continuamente rivitalizzata. Attraverso la comunione nessuna comunità è
sola e autoreferenziale: «Ma non siamo soli, siamo in tanti, siamo un popolo…» ha detto il cardinal
Bergoglio al santuario di Luján. 7
Il grande dibattito sul futuro della Chiesa non è sul centralismo o sulla decentralizzazione del
cattolicesimo, quanto su come liberarsi dal rischio dell’autoreferenzialità e realizzare una comunione
vera. Il gruppo di cardinali che il papa ha chiamato per discutere dei problemi della Chiesa e della
riforma della Curia manifesta questa ricerca di comunione, tanto che la loro designazione è stata
orientata dalla volontà di rappresentare i differenti continenti. All’epoca del Grande Giubileo del
2000, Giovanni Paolo II aveva abbozzato un progetto di riforma. Aveva già realizzato una riforma
strutturale della Curia nel 1988, ma credeva che si dovesse fare di più: «Fare della Chiesa la casa e
la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia,» aveva
scritto nella Novo millenio ineunte «se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche
alle attese profonde del mondo». 8
Questo grande disegno, concepito come una recezione ulteriore del Vaticano II, non ha avuto
un’attuazione pratica, per la malattia del papa e anche per le tensioni del mondo dopo l’11 settembre.
Papa Wojtyła non mirava prioritariamente a lavorare sulle istituzioni; c’era innanzi tutto da
«promuovere una spiritualità di comunione» nel vivere e lavorare con gli altri, nella costruzione di
una dimensione autentica di amicizia e di servizio. Questa riforma spirituale, centrata sulla
predicazione della Parola di Dio e sul contagio dell’esempio, resta incompiuta (malgrado Benedetto
XVI vi abbia poi posto importanti fondamenta spirituali). Wojtyła sognava nel 2000 un nuovo
impegno per coltivare gli spazi di comunione e dilatarli:
Spiritualità della comunione è infine saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» … e
respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza,
gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della
comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione, più che sue vie di espressione e di crescita. 9
Ma non è proprio la spiritualità di comunione che papa Francesco va riprendendo oggi con la
naturalezza di chi prova a viverla? Il cardinal Bergoglio scriveva infatti: «E quando il dialogo fra il
pastore, l’insieme del popolo di Dio, il gran pastore, Cristo, il Papa, i Vescovi, quando il dialogo va
per la stessa strada non si può sbagliare perché è assistito dallo Spirito Santo. Ma perché il popolo
di Dio non si sbagli deve esistere questo dialogo, questa lealtà e questa universalità di tutto il santo
popolo fedele a Dio, che va oltre le frontiere di una parrocchia, di una diocesi, di un paese. Ossia è
questo sentire il Vangelo». 10 C’è una lunga strada da percorrere.
Come uscire dalla crisi della Chiesa
Dove Francesco sta conducendo la Chiesa? In genere il giudizio dell’opinione pubblica sul papa è
estremamente positivo. C’è qualcosa di felice che si respira nell’aria nei suoi confronti: una nuova
simpatia, come ho già detto. Forse tutti i problemi sono stati risolti? Evidentemente no, anche se il
papa ha provveduto a relativizzarli, per esempio con le battute sullo IOR, mentre ha mantenuto con
molta fermezza la linea del suo predecessore sulla pedofilia. Tuttavia l’attenzione generale si è
spostata dagli aspetti istituzionali alla figura del papa e al suo messaggio. La comunicazione della
Chiesa ha riacquistato quel chiaroscuro umano che dà profondità al suo contenuto.
C’era stato nei media quasi un appiattimento sui problemi istituzionali e amministrativi. Il fascio
di luce dei media era stato impietoso. Ha scritto un critico d’arte inglese, John Ruskin: «È l’eccesso
di luce che rende la vita di oggi perfettamente volgare». 11 La vita della Chiesa, invasa dalla luce
mediatica, appariva involgarita. Papa Francesco non ha chiuso le persiane per evitare troppa luce
sulle questioni interne, come si è visto nella lunga intervista al ritorno dal viaggio in Brasile. Ma ha
reagito all’«ideologia della banalità» (come diceva Ratzinger), ossia alla banalizzazione della vita
ecclesiale. Non ha attaccato il mondo per la sua immoralità o le sue contraddizioni. Non ha
condannato nessuno. Con la forza del vissuto e la semplicità della misericordia ha presentato il suo
messaggio.
La sua Chiesa non si qualifica come perfetta. Non è un giudice che emana sentenze sull’umanità.
Continuamente il papa ricorda che lui stesso è peccatore e che il più grande peccato è non chiedere
perdono a Dio. In un’occasione ha detto: «per essere un buon cristiano è necessario riconoscersi
peccatore». I limiti della Chiesa però non incatenano il suo messaggio. Difficoltà ci sono e ci saranno
sempre: è l’umanità della Chiesa. Alla Chiesa si rimprovera di non essere «perfetta», aderente
all’immagine che essa propone. È un rimprovero che nasce anche dall’antipatia e dall’ostilità alla
Chiesa, ma che trova motivo pure in qualche supponenza di una Chiesa in fondo spaventata.
In realtà la lunga storia della Chiesa è una vicenda di tante difficoltà e crisi. Vicenda che nasce
dalla fragilità dei cristiani, ma anche dalle avversità, persecuzioni, contraddizioni che essa incontra
nel suo cammino storico. Non si può dire che gli anni di Pio XII non siano stati duri, con la seconda
guerra mondiale e i cristiani dell’Est sottoposti alle persecuzioni comuniste. Il tempo di Paolo VI,
che sperava in una primavera della Chiesa dopo il Concilio, è stato pure assai difficile, segnato dalla
contestazione ecclesiale e dalle polarizzazioni nella vita interna. Anche Giovanni Paolo II, pur
celebrato come il vincitore del comunismo, ha conosciuto tempi duri, la sconfitta con le stragi nel
cattolico Ruanda, l’impotenza di fronte alla guerra in Iraq… La crisi accompagna la vita della
Chiesa. La cui storia non è mai trionfale.
Miguel de Unamuno, nell’Agonia del cristianesimo, giustamente notava che il cristianesimo va
capito in senso «agonico», cioè di lotta: «Bisogna definire il cristianesimo agonicamente…». 12 Il
cristianesimo non è mai una realtà pienamente realizzata: «è l’illusione» scriveva il filosofo francese
Étienne Gilson «che il cristianesimo, che è una rivoluzione religiosa permanente nel cuore del
mondo, sarebbe stato in qualche momento una rivoluzione “riuscita”». 13 Per questo il filosofo
francese insiste sul fatto che i cristiani si debbono sbarazzare dell’idea di vivere una fase di
decadenza rispetto a passate età dell’oro, perché il vero rischio che il cristianesimo corre è quello di
sentirsi riconosciuto, garantito e realizzato. Il modernista romano Ernesto Buonaiuti (che vagheggiava
una nuova stagione spirituale) da parte sua osservava che il cristianesimo ha cominciato a decadere
«proprio il giorno in cui ha creduto di tenere il mondo in mano». 14
Il mondo di Costantino (del cui editto si celebrano i 1700 anni e che la Chiesa ortodossa
considera un santo) è finito da tempo. 15 Oggi il cristianesimo – notava Karl Barth – «non sta più –
anche laddove esso ancora c’è – sui suoi piedi. Nella misura in cui esso vive ancora, sta in affitto in
casa d’altri». Conosce i disagi e la precarietà di vivere in una casa non propria. Ma questo era anche
il cristianesimo delle origini, in affitto – e che affitto pesante talvolta! – in casa d’altri. La crisi viene
anche dai drammi, dai compromessi, dalla fatica, da quell’insieme di atteggiamenti necessari a
vivere in casa d’altri. Non c’è stata per il cristianesimo un’età a cui ritornare.
Nel lontano 1947, l’arcivescovo di Parigi, cardinale Suhard, lanciò con una sua lettera pastorale
una domanda che fece grande effetto: Essor ou déclin de l’Eglise?16 Ci sarebbe stato uno sviluppo
della Chiesa o un suo declino? La guerra era finita da due anni, c’era un clima di tensione politica e
sociale molto grave, la scristianizzazione era evidente in una grande metropoli come Parigi, il mondo
coloniale si avviava a un nuovo assetto politico… Forse la Chiesa aveva finito il suo itinerario
storico in Europa, come molti pensavano. Declino o sviluppo della Chiesa? Per reagire al declino, ci
si rifugiava nel tradizionalismo religioso e nel conservatorismo sociale – notava il cardinale. Per lui
bisognava accettare i cambiamenti e le crisi: «il compito della Chiesa non è di conservare il mondo
com’è, neanche nel caso in cui sia divenuto cristiano, bensì di conservarlo cristiano in modo che non
cessi mai dal diventare altro…». Il concetto di decadenza della Chiesa è legato a un’idea illusoria di
età dell’oro, mai esistita, e al rifiuto di camminare nella storia. La «crisi» è una condizione
permanente nella vita del cristianesimo.
La Chiesa non era in declino, secondo Suhard, ma viveva nuove e temibili sfide. Egli intravedeva
qualcosa che sarebbe avvenuto con la mondializzazione, quando scriveva: «Cadono le barriere sopra
questo mondo in espansione, e sotto il formidabile urto di questa nuova marea che sovverte e livella
ogni cosa, si spezzano i diaframmi, verificandosi così per tutto l’orbe ciò che s’era visto in piccolo,
durante l’apogeo di Roma, per il mondo mediterraneo: il profilarsi di una comune civiltà». 17
Condizione nuova e difficile per la Chiesa. Questa era l’idea dell’arcivescovo di Parigi, dopo che la
guerra mondiale aveva cambiato il mondo, realizzato un impero comunista, posto le premesse della
fine degli imperi coloniali… e tant’altro.
Ci sono svolte profonde nella vita della Chiesa, quando si aprono nuovi orizzonti, ma ne
scompaiono altri e cadono mura protettive. Gregorio Magno, mentre il mondo romano declinava,
ebbe il coraggio di guardare lontano, al mondo dei barbari, agli angli dell’Inghilterra, dove mandò i
suoi monaci a evangelizzare (fu l’inizio del cristianesimo anglosassone). La Chiesa si disloca,
quando un mondo declina, ma essa stessa non declina necessariamente. Scrive uno studioso del
grande Gregorio, Emilio Gandolfo: «I barbari premono alle porte di Roma che sta per cedere; ma
dove Roma ha il presentimento della sua fine, Gregorio vede una porta nuova e promettente per il
Vangelo. Egli non identifica il Vangelo con la civiltà che sta per tramontare; per lui come per san
Paolo, il Vangelo è potenza di Dio per salvare chiunque crede, sia romano sia barbaro». 18
Barbaro vuol dire periferico rispetto all’impero, fino ad allora considerato il centro del mondo.
Papa Bergoglio, che conosce bene Gregorio Magno, non ha negato la crisi, ma l’ha assunta come
condizione permanente da vivere privilegiando l’apertura alla missione verso il futuro e le periferie
del mondo. Non c’è un passato da restaurare per evitare il declino: «… questo tipo di
fondamentalismo restaurazionista è come l’oppio, perché allontana dal Dio vivo» ha detto. Francesco
porta la Chiesa fuori dal declino, accettando la crisi e non chiudendosi nel pessimismo o nella
nostalgia. È quanto scrive Jenkins, studioso delle religioni, al termine del suo libro:
Il cristianesimo non è mai debole quanto sembra, e neppure forte quanto sembra. E sia che guardiamo alla storia
passata o a quella futura, possiamo vedere che ripetutamente il cristianesimo ha dimostrato una sbalorditiva capacità di
trasformare la debolezza in forza. 19
Avviene nella storia del cristianesimo quello che l’apostolo Paolo aveva intuito, fin dai primi
passi della vita della Chiesa. Per questo aveva scritto ai Corinti: «quando sono debole, è allora che
sono forte» (Seconda Lettera ai Corinti 12,10). E nella stessa lettera aveva affermato: «… noi
portiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio
e non da noi» (4,7). È la «forza debole» del cristianesimo (e delle religioni), secondo la felice
espressione del vescovo e teologo Pietro Rossano, che tocca il cuore dell’uomo, lo cambia
dall’interno, senza imporre niente. 20
In un documentato libro di esegesi biblica sulla «coppia “debole/forte”» nel Corpus Paulinum, il
biblista Angelo Colacrai conclude che le beatitudini domandano ai cristiani di ripartire «dal debole,
dal disprezzato, da ciò o da chi per il mondo politico, militare o economico imperante non conta, ma
che già proprio per questo somiglia di più al Cristo crocifisso». 21 Una Chiesa, vicina ai poveri e
nelle periferie, non può essere paralizzata dalla paura della crisi o dal timore di non avere risorse.
Sa che questa è la condizione della sua esistenza. Il problema – nota Bergoglio – è che la speranza
sia più forte di ogni avversità e debolezza e che superi gli orizzonti limitati entro cui si è abituati a
vivere.
Profezia o governo?
Molti hanno scritto sulle riforme da introdurre, particolarmente nella Curia romana. I cardinali le
hanno chieste prima dell’elezione del papa. Ci sono problemi nella Curia e nel governo della Chiesa
o nelle diocesi. Esiste la necessità di operare mutamenti nella qualità del servizio della Curia
romana. Come papa Francesco ha riconosciuto, non è solo un problema di strutture ma anche di
qualità del personale. Il papa ha affermato con grande equilibrio: «Una cosa – questo non l’ho mai
detto, ma me ne sono accorto – credo che la Curia sia un poco calata dal livello che aveva un tempo,
di quei vecchi curiali … il profilo del vecchio curiale, fedele, che faceva il suo lavoro. Abbiamo
bisogno di queste persone. Credo … ci sono, ma non sono tanti come un tempo. Il profilo del vecchio
curiale: io direi così. Dobbiamo averne di più, di questi…». 22
Si potrebbe dibattere anche dei problemi dell’esercizio del ministero episcopale, talvolta troppo
centrato sull’io del vescovo, che fatica a far esistere un «noi» nella comunione, anche per la difficile
condizione del clero in alcune diocesi. Il soggettivismo si rivela evidente quando, con puntuale
ripetitività, nella vita diocesana, il successore critica o annulla l’operato del predecessore. È la
difficoltà di costruire una comunione. Il cardinal Bergoglio ha detto: «La sufficienza si avverte in
ogni falso profeta, nei cattivi leader religiosi che usano la religione a favore del proprio ego». 23
Questo può avvenire nei movimenti o nelle comunità di ogni tipo, quando si guarda con sufficienza
gli altri cristiani, mentre ci si attribuisce un ruolo messianico nella Chiesa. È un tipo di messianismo
o aristocrazia di gruppi laici, monastici o altro.
C’è poi la grande questione del clericalismo, l’irrisolto problema del rapporto tra preti e laici,
che si manifesta complesso oggi a fronte di un clero generalmente ridotto. Papa Bergoglio parla di
«clericalizzazione, perché sovente i preti clericalizzano i laici e i laici chiedono di essere
clericalizzati». 24 E aggiunge che i laici hanno potenzialità non utilizzate. In realtà il grande popolo di
Dio è stato solo marginalmente coinvolto nella missione della Chiesa, anche perché talvolta si
privilegiano percorsi ecclesiastici o progetti che non sono alla misura di tutti.
Si potrebbe poi parlare della vita delle religiose e dei religiosi che, salvo alcune significative
eccezioni, conosce un certo crepuscolo con l’invecchiamento delle comunità. Se, da una parte, è oggi
divenuto meno comune prendere un impegno per la vita, dall’altra molto di quel servizio che ieri
facevano i religiosi viene ora compiuto dai laici. Tuttavia la scomparsa di una forte presenza dei
religiosi cambia fortemente l’ecologia umana e spirituale del cattolicesimo. In alcune regioni e per
molto tempo, la suora ha rappresentato il volto femminile della Chiesa. C’è infine la grave questione
della marginalizzazione della donna e del femminile nella Chiesa. Da tempo Bergoglio sostiene che
«è necessario superare una mentalità maschilista che ignora la novità del cristianesimo…». 25 Non si
tratta dell’accesso delle donne ai ministeri ordinati, ma della necessità di una nuova e articolata
teologia della donna. 26
Come governare questa realtà così complessa? Papa Francesco non ha tracciato un programma di
governo all’inaugurazione del suo pontificato. Ha detto alla Messa dopo il conclave: «Proprio
partendo dall’autentico affetto collegiale che unisce il Collegio cardinalizio, esprimo la mia volontà
di servire il Vangelo con rinnovato amore, aiutando la Chiesa a diventare sempre più in Cristo e con
Cristo, la vite feconda del Signore».27 Sono belle parole d’occasione o è il programma del papa? È
possibile governare senza un programma concreto?
Il papa non rifiuta la responsabilità del suo ministero anche per le decisioni che personalmente
deve prendere. Ma non vuole essere isolato. La comunione è il terreno su cui si svolge il suo
ministero. Francesco ha detto nella prima Messa ai cardinali: «Qualcuno mi diceva: i Cardinali sono
i preti del Santo Padre. Quella comunità, quell’amicizia, quella vicinanza ci farà bene a tutti. E
questa conoscenza e questa mutua apertura ci hanno facilitato la docilità all’azione dello Spirito
Santo». 28
Francesco ha dimesso i tratti (affievolitisi nel tempo, ma ancora presenti) che legavano il
ministero petrino a una qualche forma di sovranità monarchica. Lo si vede nell’Annuario Pontificio
del 2013, dove il papa ha fatto mettere sul retro della pagina a lui dedicata tutti i titoli pontificali
(Vicario di Gesù Cristo, Successore del Principe degli Apostoli, Sommo Pontefice della Chiesa
Universale, Primate d’Italia, Arcivescovo Metropolita della Provincia Romana, Sovrano della Città
del Vaticano, Servo dei Servi di Dio), per lasciare sulla prima pagina un unico titolo (che così risulta
esaltato): Vescovo di Roma. Non ha abolito gli altri titoli – come ha fatto Benedetto XVI con quello
di patriarca d’Occidente – ma li ha fatti scivolare dietro la pagina. 29 Ha scritto il cardinal Bergoglio:
Le grandi guide del popolo di Dio sono stati uomini che hanno lasciato spazio al dubbio. Tornando a Mosè, è la
persona più umile che ci sia mai stata sulla terra. Al cospetto di Dio non si può far altro che essere umili, e chi vuole
guidare il popolo di Dio deve lasciare spazio al Signore; quindi deve farsi piccolo, raccogliersi in se stesso con i suoi
dubbi, con l’intima esperienza delle tenebre, del non sapere come agire. Una cattiva guida è piena di sé, è ostinata. Una
caratteristica di un leader empio è l’essere troppo prescrittivo per via dell’eccessiva sicurezza di sé. 30
Il nuovo papa pone al centro la questione del cuore e della fede per chi vuol essere un buon
servitore del popolo di Dio: «nella religione, la santità è ineludibile dai suoi leader». 31 La sua scelta
prioritaria è parlare al cuore. Questa scelta è la madre di ogni riforma nella Chiesa: la conversione
dei cuori e lo spazio lasciato al Signore nella vita personale di ciascuno. Non si può dire che i papi
precedenti non ne abbiano parlato; anche Benedetto XVI aveva insistito su questo aspetto. Del resto,
nonostante la chiara differenza di stile umano e di tratto pastorale, la continuità tra i pontificati di
Ratzinger e di Bergoglio è forte, come si vede dall’insistenza sul tema del primato della fede. Questa
continuità è rappresentata anche da un fatto inedito nella storia: papa Francesco ha assunto il testo
dell’enciclica Lumen fidei, preparata dal suo predecessore, aggiungendo qualche ulteriore
contributo. 32 Questo senso della continuità è anche un tratto distintivo delle «grandi guide del popolo
di Dio».
Bergoglio ha un senso spiccato del valore delle istituzioni. Negli Esercizi Spirituali, predicati ai
vescovi spagnoli nel 2006, ha affermato come «la costanza apostolica … crea l’istituzione»: «…
niente può funzionare fra esseri umani senza istituzioni. Il vero governo è quello che legifera, che dà
al suo popolo un’eredità di norme … La Chiesa è visibile, questo non è semplicemente nell’aria.
Chiesa visibile significa che c’è un’organizzazione percepibile da tutti. Un’istituzione pastorale ha un
corpo e un’anima, è una tradizione e un carisma, è una storia e un presente». 33 Si sente, nelle parole
del papa, il senso realistico della vita della Chiesa. Del resto Jorge Bergoglio è un uomo che non
viene da una realtà esterna al governo della Chiesa, non è un eremita o un intellettuale, bensì è stato,
da giovane, provinciale della Compagnia di Gesù (che ha un’importante tradizione di governo),
vescovo ausiliare e coadiutore, infine arcivescovo di una grande diocesi. Ha familiarità con il
governo nella Chiesa cattolica.
Papa Francesco sa però che la Chiesa non è fatta solo dai leader e dalle istituzioni. Bisogna
ascoltare quello che il papa dice sul popolo di Dio: «La fede del popolo di Dio, che è una fede
semplice, forse senza tanta teologia, ma con una teologia dentro, non sbaglia, c’è lo Spirito dietro …
Questo popolo che sempre si avvicina a Gesù, ma a volte è insistente in questo. Ha l’insistenza della
fede». 34 Il papa ha una «teologia del popolo» (diversa dalla teologia della liberazione, spesso
fondata sull’antagonismo della lotta di classe): per lui il popolo, anche semplice, è portatore di Dio,
soggetto di vissuto religioso e umano, dotato di intuito di fede.
Il popolo non è solo un contorno al papa o alla gerarchia, ma una parte sostanziale, significativa
ed eloquente della Chiesa. Francesco lo ha detto nel santuario dell’Aparecida, cuore popolare del
Brasile, ricordando come i lavori dei vescovi latinoamericani si siano svolti accanto alle
manifestazioni di pietà popolare: «si può dire che il Documento di Aparecida sia nato proprio da
questo intreccio fra i lavori dei Pastori e la fede semplice dei pellegrini». È un intreccio simbolico e
vitale per il papa. Non è populismo. Questa è la Chiesa: il popolo di Dio in tutte le sue componenti e
attraverso tutti i suoi percorsi religiosi. Il popolo per Francesco non è ristretto ai praticanti e ai
cristiani impegnati o militanti, ma abbraccia il mondo della religiosità popolare e tanti credenti che
pure non sono facilmente inquadrabili. Non si tratta di retorica sul popolo. Per Bergoglio, «il popolo
santo, fedele a Dio, non sbaglia». Per lui il carattere popolare del cristianesimo non è stato
cancellato dalla secolarizzazione: «Nel confessionale si percepisce la santità del popolo di
Dio…». 35 La risposta alla secolarizzazione non è soltanto realizzare comunità cristiane minoritarie
dai contorni certi, ma sostenere la fede del popolo, comunicando il Vangelo. 36 È quanto scriveva un
intellettuale uruguaiano, Alberto Methol Ferré, amico del cardinal Bergoglio: «… dopo il Concilio
l’idea di popolo ha iniziato a sfocarsi, fino ad assumere i connotati dell’astrazione o della riduzione
a “comunità”». Per questo il papa e i vescovi debbono prima di tutto parlare di Dio al popolo,
dialogando con i suoi sentimenti e le sue domande profonde.
Papa Francesco ha scelto il primato della profezia. Beninteso, non nel senso esibizionista o
miracolistico, bensì proprio come servizio alla Parola, comunicata con semplicità e simpatia. E la
gente intuisce che lui fa spazio personalmente alla Parola nella sua vita. Bergoglio dice di essere un
prete contento di quel che è. Tuttavia non è un ecclesiastico tradizionale e non ha una maniera
ecclesiastica di concepire la vita. In realtà un certo stile ecclesiastico ha avuto una ripresa anche
come risposta alla crisi del prete negli ultimi decenni (contestazione, indebolimento del
riconoscimento sociale, secolarizzazione, riduzione del numero…). L’idea ecclesiastica del prete ha
un che di separato dal mondo dei laici, ma ha anche un aspetto molto laico (che dura da secoli), la
cosiddetta «carriera ecclesiastica». Per papa Francesco bisogna cambiare:
Ma da quel tempo [quello di Gesù] fino adesso le lotte per il potere sono nella Chiesa. E anche nella nostra maniera
di parlare, quando a una persona danno una carica che secondo i nostri occhi è una carica superiore si dice: questa
donna è stata promossa a presidente di questa associazione, questo uomo è stato promosso. Questo verbo promuovere.
Sì, è un verbo bello! Si deve usare nella Chiesa? Sì, quest’uomo è stato promosso alla croce, alla umiliazione. Quella è la
vera promozione che ci assomiglia meglio a Gesù. 37
Papa Bergoglio parla criticamente della concezione della vita come «carriera» (che talvolta pone
problemi con il pensionamento o con la fatica dell’impatto con la competitività). L’idea del
progresso della società ha un suo riverbero nella vita dei singoli e anche dei religiosi. Lo storico
delle religioni Mircea Eliade, con grande sensibilità, scrive in proposito: «Siamo nati tutti con una
superstizione: che ci attendano posti migliori in alto, mai più in basso». 38 È la superstizione del
progresso individuale, all’origine dell’infelicità e dell’aggressività: «Possediamo» continua Eliade
«ciascuno un orcio d’olio da lampada, e invece di spartirlo con i poveri che marciscono al buio
riempiendo le loro lanterne, lo teniamo stretto al petto, aspettando il fanale che crediamo d’essere
destinati ad accendere per illuminare il mondo intero. E, nel frattempo, gli uomini ci muoiono
accanto». 39
Il papa richiama a un’altra concezione della felicità. Si rivolge in particolare al mondo della
Chiesa, dove c’è ancora una mentalità da carriera. Papa Bergoglio dice: «Un’altra maniera di
promozione [che] non è quella di Gesù, è mondana. Sempre ci sono state nelle Chiese le cordate per
arrivare più in alto, il carrierismo, gli arrampicatori, sempre ci sono stati, il nepotismo, anche la
simonia, non quella di pagare per diventare qualcosa, ma una simonia nascosta, una simonia
educata». 40 Per lui c’è una regola d’oro nella Chiesa: «per un cristiano progredire, andare avanti
significa abbassarsi». 41 Ma, per comprendere e vivere tutto questo, non basta una riforma
istituzionale, occorre aprire il cuore al Vangelo. Per questo Bergoglio parla di Dio e del Vangelo
incessantemente. È la «profezia» in senso evangelico.
Il papa ha posto il problema del potere nella Chiesa in termini evangelici. «Potere» può sembrare
una parola poco edificante. Ma è una realtà con cui fare i conti. La risposta alla ricerca o al gusto del
potere non è l’irrilevanza, il negarsi all’amore, al servizio, all’impegno per cambiare. Anzi questo è
un atteggiamento speculare e contrario alla mentalità di potere, quello dell’impotenza o
dell’irrilevanza compiaciuta e indifferente. Del resto anche nel Vangelo si parla di potere. È «il
potere di scacciare gli spiriti immondi e guarire ogni sorta di malattie» (Matteo 10,1). In greco
exousía e in latino potestas. Papa Francesco ha affermato: «la lotta per il potere nella Chiesa non
deve esistere. O, se vogliamo, che sia lotta per il vero potere, quello che lui ci ha insegnato, il potere
di servizio. Il vero potere è il servizio, come ha fatto lui che è venuto non a farsi servire ma a
servire». 42
Sì, la Chiesa ha un potere: servire gli uomini e le donne, cambiare con amore la loro condizione,
rimettere i peccati, comunicare una Parola che non viene da lei, guarire… Il «vero potere» dice il
cardinale è «battezzare, insegnare la dottrina, aiutare a viverla, benedire, curare, perdonare…». 43 La
Chiesa, come si accennava prima, è in una condizione agonica, di lotta. Vive in una terra dove c’è
anche il potere del male. Bergoglio ha una visione impegnata del servizio della Chiesa, non buonista
o superficiale. In una pagina degli Esercizi, da lui predicati, usa un tono militare dal sapore
ignaziano, in cui indica i segnali dell’infedeltà alla missione:
… bisticciare con gli amici, anziché affrontare il nemico; discutere su chi è il più forte del battaglione invece di
obbedire agli ordini del capo dell’esercito e servire i propri compagni; seminare zizzania con chiacchiere inutili invece di
mettersi al lavoro con umiltà; adottare lo stesso stile del nemico anche in tempi di tregua; essere un ciarlatano ma
millantare una grande causa; approfittare della guerra per dedicarsi ai propri affari … Il Signore ci invita ad essere
fedeli fino alla morte nelle cose grandi come in quelle piccole. 44
Partecipare al potere che il Signore dà ai discepoli, qualunque sia la propria funzione, richiede
uno spirito di servizio. È certo che, nei secoli, i modelli di partecipazione sono stati differenti. Non
si può sempre giudicare il passato con la mentalità di oggi. Né basta fare cambiamenti per liberarsi
della mentalità di potere. Con una retrospettiva storica il cardinal Bergoglio ha affermato:
La perdita dello Stato Pontificio fu un evento positivo, per la Chiesa, perché così è chiaro che il papa governa solo su
mezzo chilometro quadrato. Invece, quando il papato aveva la sovranità spirituale e temporale si moltiplicavano gli
intrighi di corte. Ora i due piani non si mescolano più? Sì, succede anche oggi, perché purtroppo tra gli uomini di Chiesa
esistono l’ambizione e l’arrivismo. Siamo esseri umani e possiamo essere indotti in tentazione, dobbiamo fare molta
attenzione per proteggere l’unzione che abbiamo ricevuto, perché è un regalo di Dio. I gruppi di potere, che sono esistiti
e continuano a esistere nella Chiesa, sono dovuti alla nostra condizione umana. Chi entra a farne parte cessa di essere
eletto per il servizio e diventa qualcuno che decide di vivere come gli piace, mescolandosi con la bassezza interiore. 45
Il papa non crede che una riforma delle strutture possa magicamente instaurare una mentalità di
servizio. Sa che gli uomini sono fragili e che sempre esisterà la tentazione di ridurre il ministero a
una logica mondana. C’è nel papa l’idea del «progresso», non nel senso dell’avanzamento
individuale, ma dell’abbassamento nell’imitazione di Gesù, come si è accennato. Il progresso è
anche una migliore comprensione del messaggio di Dio. I cristiani e la Chiesa crescono nel tempo,
debbono crescere realizzando un «progresso». La Dei Verbum, la Costituzione conciliare sulla
Rivelazione, parla di questa «crescita» in modo tutto particolare quando afferma:
Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la
comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le
meditano in cuor loro, sia con l’intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la
predicazione di coloro che con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. 46
Uno studioso di Gregorio Magno, il monaco Benedetto Calati, che abbiamo già avuto modo di
citare, sottolineava la novità di questa affermazione, che faceva eco alla teologia dei Padri e
rompeva le «angustie giuridiche della spiritualità ecclesiale tardiva». Bisogna risalire – diceva – ai
grandi Padri «per trovare questa coraggiosa affermazione sulla esperienza spirituale dei vari membri
del popolo di Dio, quale coefficiente della traditio ecclesiae, alla pari del carisma della successione
apostolica nell’episcopato, il che non significa ignoranza della specificità del carisma gerarchico». 47
La Parola cresce: è la grande tradizione, che viene dagli Atti degli Apostoli dove la Parola è
protagonista, anzi dove si nota che «la parola cresceva e si diffondeva» (12,24). È il grande
insegnamento di Gregorio Magno, per cui la Parola «è come se crescesse insieme con il suo
lettore…», come dice il santo commentando il Libro di Giobbe. Il Concilio echeggia questo, quando
afferma che la Chiesa «nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità
divina…». E se la Parola cresce nella Chiesa e con chi la legge, anche la Chiesa progredisce in
spirito e umanità. Questo è il «progresso» della Chiesa e di tutto il popolo che la forma, che avviene
nell’ascolto della Parola di Dio.
In tale quadro si sviluppa il servizio del papa: predicare il Vangelo, come profezia di una vita
nuova. Non c’è in Francesco la cultura del progetto (a cui si collega in parte anche l’idea dei
cosiddetti piani pastorali, che maturò nel cattolicesimo prima e dopo la seconda guerra mondiale,
quasi come risposta alle ideologie totalizzanti). Bergoglio ricorda quando il re Davide volle fare il
censimento del suo popolo, per controllarne le dimensioni: il popolo si ammalò di lebbra. È «l’ansia
di dominare ciò che ci circonda» 48 (che con il tempo può diventare svuotamento del mistero). Per la
Pentecoste del 2013, il papa ha osservato: «Si può pensare che l’evangelizzazione dobbiamo
programmarla a tavolino, pensando alle strategie, facendo dei piani. Ma questi sono strumenti,
piccoli strumenti. L’importante è Gesù, farsi guidare da Gesù. Poi possiamo fare le strategie, ma
questo è secondario». 49 Bisogna crescere nella fede e nell’ascolto della Parola di Dio; tutto il resto
si metterà in movimento in modo sorprendente. Non si tratta di trascurare il governo, le decisioni e i
cambiamenti, che sono una grave responsabilità, ma di affermare il primato della fede. Così la Parola
cresce nel corpo della Chiesa anche con l’«intelligenza spirituale» del popolo cristiano.
Il cristianesimo non è mai compiuto nell’una o nell’altra forma. Un grande spirituale russo, padre
Alexander Men, ucciso dal KGB nel 1990, aveva scritto con grande profondità:
Solo uomini limitati possono immaginare che il cristianesimo è compiuto completamente come si è costituito nel IV
secolo secondo gli uni e nel XIII secolo secondo altri o in altri momenti. In realtà, il cristianesimo non ha fatto che i suoi
primi passi, passi timidi nella storia del genere umano. Molte parole di Cristo sono ancora per noi poco comprensibili …
La storia del cristianesimo non fa che cominciare. Tutto quello che è stato fatto nel passato, quello che ora chiamiamo
storia del cristianesimo, non è che l’insieme di tentativi ... di realizzarlo. 50
Per la salvezza e la felicità
Bergoglio conosce l’infelicità degli uomini e delle donne del nostro tempo: «È una generazione
autoreferenziale, che vive secondo il proprio capriccio, secondo il proprio banale “mi piace” o “non
mi piace”». Anche le persone «realizzate» sono, per lui, condannate all’infelicità. Le difficoltà e le
infelicità sono motivo per far crescere una mentalità vittimistica, tanto diffusa ai nostri tempi e
accresciuta dalla crisi economica. È una generazione che si lamenta: «Il male» scrive il cardinale «si
compie quando un uomo o una donna non vedono che i loro impedimenti e non pregano, ma si
lamentano. In questo modo l’uomo … si trasforma in vittima. Si canonizza da sé…». 51
In un tempo fortemente emozionale, la categoria delle «vittime» (riferita in passato ai grandi fatti
storici di spessore drammatico) ha avuto un’incredibile estensione, tanto che la vittima in qualche
modo diventa un soggetto di rilievo nella società contemporanea. 52 Da qui la diffusione di un
atteggiamento vittimistico che impone la concentrazione dell’attenzione prioritariamente su di sé.
L’eroismo, che si incarnava in una società dai tratti patriarcali o maschilisti, ha lasciato spazio al
vittimismo tipico delle società più destrutturate. Il sociologo inglese Frank Furedi, al termine del suo
bel libro sul «nuovo conformismo», osserva come la nostra società occidentale sia imbevuta di una
cultura terapeutica (abbia cioè l’abitudine a trattare i problemi come una malattia più che risolverli):
questo diffonde «un senso di vulnerabilità, impotenza, e dipendenza». 53
Cos’è la felicità in questa società? Mircea Eliade risponde: «La felicità è una questione che non
bisogna mai porsi per sé. Essa ha un senso e un contenuto effettivo solo se la si considera per gli altri
… Ogni volta che si riporta questa nozione alla propria persona essa perde completamente di senso
… All’uomo che è consapevole di non poter mai raggiungere la felicità con i suoi propri mezzi, con
la sua ascesa spirituale, resta un’unica cosa da fare … realizzare la felicità di un altro, degli altri». 54
Ma sono attuali queste posizioni in un tempo di morte del prossimo e di trionfo dell’io?
C’è molta sensibilità psicologica nel discorso di Bergoglio all’uomo e alla donna contemporanei.
Non parla del fatto che non rispettino i principi (la Chiesa dev’essere «più facilitatrice della fede
che controllore della fede»). 55 Ma mostra di comprendere la loro infelicità, i loro dolori reali. Il
papa affronta il tema della tristezza e del pessimismo, proponendo l’incontro con Gesù, nella
Domenica delle Palme 2013: «Non siate mai uomini e donne tristi: un cristiano non può mai esserlo!
Non lasciatevi mai prendere dallo scoraggiamento! La nostra non è una gioia che nasce dal possedere
tante cose, ma nasce dall’aver incontrato una Persona: Gesù, che è in mezzo a noi…». E conclude:
«E, per favore, non lasciatevi rubare la speranza! ... Quella che ci dà Gesù». 56
Il problema dell’uomo contemporaneo non è lamentarsi, affermando così la propria centralità, ma
riconoscersi peccatore. C’è un’inversione profonda nella concezione dell’uomo vittimista che si
sente in credito verso la società: il peccatore è colui che è in debito e domanda la remissione dei
propri debiti. L’uomo è sempre debitore. Il peccatore può cambiare: «Si possono commettere errori
enormi, ma si può anche riconoscerlo, cambiare vita…». La trasgressione – continua Bergoglio – ci
rende umili, perché consapevoli del bisogno di Dio. Bergoglio fa l’elogio della figura biblica di
Davide, un grande peccatore, «perché ebbe il coraggio di dire “ho peccato”. Si umiliò davanti a
Dio». Chi si riconosce peccatore, nonostante sembri il contrario, è un uomo che ha speranza.
Non tutto può essere letto e spiegato con le categorie della psicologia o della psicanalisi. Scrive
padre Turoldo: «Ormai siamo uomini senza rimorso e senza peccati». L’ex arcivescovo di
Canterbury, George Carey, ha affermato che la terapia psicologica o psicanalistica sta prendendo il
posto del cristianesimo: al Cristo salvatore si sostituisce il Cristo consigliere psicologico. Bergoglio
conosce bene e apprezza il mondo della psicologia. La terapia non è però la salvezza. Nella
coscienza del peccato si nascondono in profondità una domanda di salvezza e un radicale bisogno di
Dio. L’arcivescovo di Buenos Aires afferma: «Per me il sentirsi peccatori è una delle cose più belle
che possano capitare a una persona a patto di portarla alle estreme conseguenze». Infatti, ricorda,
«quando prendiamo coscienza che siamo peccatori e siamo salvati da Gesù, confessando questa
verità a noi stessi scopriamo la perla nascosta, il tesoro sepolto». Questa è la grandezza dell’uomo
secondo Bergoglio: «Penso che solo noi grandi peccatori abbiamo questa grazia … l’unica gloria che
possediamo è essere peccatori». 57
Non si tratta di un’iperbole. La coscienza di essere giusti, di aver ragione, di essere vittime della
vita, non è solo autoassoluzione, ma ci indurisce nei confronti degli altri e sopprime in noi il bisogno
di Dio. Non si tratta di sviscerare la vita delle differenti persone, mettendole a nudo. Jorge Bergoglio
è sensibile alla riservatezza della coscienza di ciascuno. Dietrich Bonhoeffer ricorda come Dio
stesso fece delle vesti per i primi peccatori. E aggiunge: «mettere a nudo è un’operazione cinica; e
anche se il cinico si atteggia a onesto o si presenta come fanatico della verità, egli trascura tuttavia la
verità decisiva, quella cioè che dal peccato originale in poi devono esistere anche velo e segreto…».
E conclude: «il velo dev’essere tolto solo nella confessione, cioè dinanzi a Dio». 58
La coscienza del peccato è la ferita del proprio essere. Per questo il peccatore vive una domanda
e un bisogno. Non è chiuso nel proprio ego, nell’arroganza verso gli altri o nell’autosufficienza verso
Dio. Bergoglio aiuta a liberarsi da un cristianesimo ideologico, fatto di buona coscienza,
autoassolutorio, per percorrere una via interiore – da peccatori – che rappresenta il vero
«progresso» nella vita:
… per me il peccato non è una macchia che devo pulire: ciò che devo fare è chiedere perdono e riconciliarmi, non
andare alla tintoria … Devo andare incontro a Gesù che ha dato la sua vita per me. È una concezione del peccato
profondamente diversa perché, per dirla in altre parole, il peccato ammesso onestamente è un luogo privilegiato di
incontro personale con Gesù Cristo Salvatore e permette la riscoperta del senso profondo che Lui ha per me. In breve,
rappresenta la possibilità di vivere lo stupore di essere salvato. 59
La sfida di un cristianesimo spirituale
Il cristianesimo sarà la religione del XXI secolo, così globalizzato? I tempi dell’ateismo e del
materialismo dialettico del marxismo sono tramontati. Se restano consistenti settori di ateismo, più
vasta è la domanda di risposte religiose però fuori dai quadri istituzionali delle religioni storiche e
del cristianesimo stesso. Ormai i «prodotti religiosi» offerti dal grande mercato delle religioni sono
innumerevoli. Le parole come «spiritualità», «silenzio», «meditazione»… non sono lontane
dall’esperienza quotidiana, come potevano esserlo negli anni Settanta, quando venivano tacciate di
evasione dalla realtà. La secolarizzazione è avanzata – come mostrano tanti studi – ma la religione e
la religiosità non sono scomparse.
Marco Vannini, studioso di spiritualità, in un suo interessante libro, Oltre il cristianesimo,
sostiene la tesi che il cristianesimo non regga più all’analisi scientifica, ma soprattutto si sia
impoverito di contenuti interiori e abbia divorziato dalla mistica, sola capace di superare il
«dualismo» cristiano tra l’io e Dio. Per questo ritiene che il cristianesimo sia in una condizione di
decadenza simile all’antico paganesimo, mentre i suoi pastori si «baloccano» con i «miti biblici». 60
Cita Henri Le Saux, mistico cristiano che intraprese le vie dell’induismo: «Soltanto maschere questi
cristiani, questi hindu, questi musulmani … L’uomo non sopporta di essere nudo di fronte all’altro …
Maschere che si attaccano così fortemente alla pelle che non si possono più staccare». Per Vannini
bisogna costruire un cristianesimo postreligioso come «superamento di tutto il cristianesimo di venti
secoli». 61
Un tempo postcristiano non sarebbe un’età senza religione, ma il superamento della «sclerosi»
delle istituzioni, delle contraddizioni tra vita e spirito… È un’idea ricorrente lungo la storia del
cristianesimo, che ha conosciuto una nuova fioritura con esperienze di spiritualità che guardano
altrove rispetto alle radici ebraiche e cristiane. L’Oriente asiatico ha giocato un ruolo decisivo, come
patria di tanti viaggi alla ricerca delle fonti genuine dello spirito. È una storia che sale dall’Ottocento
e diviene nel XX secolo un entusiasmo di massa verso l’Oriente asiatico, simile a quello per
l’antichità greco-latina vissuto nel Rinascimento. L’Oriente rappresenta la tradizione perduta –
avrebbe detto René Guénon – da ritrovare in fonti non ancora inquinate. Pascal Bruckner ha parlato
di una folla di europei «in cerca di credo sostitutivi, sospinta sulle strade da uno spirito
violentemente negatore dell’Europa e delle sue religioni», smarrendo ogni senso critico di fronte a un
maestro orientale e immergendosi in uno spirito di sottomissione. 62 Inoltre missioni e missionari
asiatici, buddisti o induisti diffondono in Occidente miriadi di percorsi per partecipare, da
occidentali, ai mondi spirituali dell’Oriente.
Due grandi personalità, Thomas Lawrence (nel mondo arabo-islamico) e Mircea Eliade (in India),
hanno notato come esista una frontiera non facilmente superabile nelle esperienze di passaggio ai
mondi delle grandi religioni. Eliade osserva rispetto alla sua vita giovanile in India: «Ciò che avevo
tentato nel mio desiderio di strapparmi alle mie radici occidentali per meglio fondermi in un esotico
universo spirituale, equivaleva in fondo a rinunciare prima del tempo alla mia creatività». 63
Drammaticamente Lawrence, nei Sette pilastri della saggezza, nota come «lo sforzo di anni per
vivere come gli arabi ed imitare la loro mentalità, mi spogliò della mia personalità inglese e mi
mostrò l’Occidente e le sue convinzioni sotto un aspetto nuovo – che lo distrusse completamente ai
miei occhi. Ma allo stesso tempo non seppi arabizzarmi completamente … È facile per un uomo
diventare un infedele; difficile convertirsi a una fede nuova». 64
Un teologo cristiano che ha avvertito fortemente l’attrazione dell’India è stato Olivier Clément.
Egli ha sostenuto però l’originalità irriducibile del cristianesimo nei confronti dei tentativi di
svuotamento «orientali», quasi dell’assorbimento di Dio e dell’altro nell’io. L’universo diversificato
dell’Oriente, anche nelle sue versioni di consumo per gli occidentali, rappresenta un’alternativa a
una religione troppo razionale, sociale, svuotata di mistica, troppo istituzionale. Il cardinal Bergoglio
afferma: «si ricerca Dio in mille modi, cosa che esige attenzione per evitare di ricadere in
un’esperienza consumistica o, tutt’al più, in una “trascendenza immanente” che non riesce a diventare
una vera religiosità». 65
La spiritualità orientale rappresenta un’alternativa al cristianesimo. Oggi la Chiesa è sfidata dal
mercato dei prodotti religiosi e da una spiritualità postcristiana, mentre, qualche decennio fa, subiva
la sfida dell’ateismo di massa. Di fronte a questa realtà la reazione non può essere solo svalutare
quell’insieme di proposte alternative (su cui ovviamente c’è molto da dire e riflettere). La sfida è un
interrogativo. Forse, per i cristiani, c’è il problema di avere cuori troppo svuotati, che trasmettono
poco il senso della ricerca di Dio e sono così poco attrattivi. E poco sanno comunicare la gioia della
fede.
Un vissuto cristiano interiore ha una capacità attrattiva e comunicativa. Il cristianesimo che
Bergoglio propone (nel solco di una grande tradizione) non è svuotato della dimensione interiore o
solo preoccupato di alcuni valori o di talune opere da realizzare: «La cosa fondamentale da dire a
qualsiasi uomo è di entrare dentro di sé … È questo il nocciolo della questione: contenersi».
L’espansione dell’ego in una vita autocentrata smorza la dimensione interiore. Il futuro papa ha una
percezione viva del problema di tanta gente adulta nel nostro tempo: quello dell’espansione dell’ego,
con l’autocondanna al vuoto interiore e alla ricerca di egemonia sugli altri.
L’invito del cardinale è questo: «All’uomo dico di non conoscere Dio per sentito dire. Il Dio vivo
è quello che vedrà con i propri occhi all’interno del proprio cuore». Non si tratta di vie particolari
per un’aristocrazia spirituale. Troppo è stata diffusa la convinzione che la spiritualità sia per
specialisti. La spiritualità elevata si connette, per tanti versi, alla pietà del semplice popolo di Dio.
Bergoglio parla di una fede vissuta dai semplici. Cita spesso il caso di sua nonna, che gli ha
insegnato molto con semplicità e profondità. La chiamata a un cristianesimo spirituale è per tutti i
cristiani, non solo per gli specialisti.
Il futuro papa Francesco ricorda: «L’esperienza spirituale dell’incontro con Dio non è
controllabile». In accordo con i mistici e la teologia orientale, papa Bergoglio insiste su una
«dimensione apofatica», che parla di Dio dicendo più quello che non è, piuttosto che affermando con
sicurezza quel che è: «concordo» dice «nel definire arroganti quelle teologie che non solo hanno
tentato di definire con certezza e precisione gli attributi di Dio, ma hanno avuto la pretesa di dire
esattamente com’era». 66 E osserva: «A volte si crede di avere in mano la verità, ma non è così».
Bisogna tornare a un cristianesimo evangelico: è la vera risposta alla confusa sete di spiritualità
dell’Occidente. Non bisogna sradicarsi per dislocarsi in mondi altri. Ma riprendere il filo delle
proprie radici cristiane e andare spiritualmente più in profondità. In questa via c’è la scoperta
interiore di Dio, in connessione intima con quella dell’altro. Dio non può essere ridotto all’ego.
Bergoglio, uomo di preghiera, spiega come pregare sia invece uscire da sé, compiere un esodo dal
mondo dell’ego, anche se si prega per sé: «Intraprendere il cammino della preghiera significa saper
uscire da se stessi. Non vuol dire fuggire, né alienarsi, ma mettersi a disposizione del Padre che ci
conduce verso la terra promessa. A volte tutto ciò equivale a un esilio». La preghiera è esilio da un
cuore calcificato, frutto di una vita chiusa in se stessi: «la preghiera è parola e ascolto». 67
Nell’orazione questo silenzio riverente convive con una sorta di contrattazione, come quando Abramo si mette a
negoziare con Dio per i castighi di Sodoma e Gomorra. Anche Mosè mercanteggia, avanza richieste per il suo popolo,
vuole convincere il Signore a non punirlo. È questo un atteggiamento di coraggio che, unito all’umiltà e all’adorazione,
risulta imprescindibile nella preghiera. 68
La preghiera del cristiano – lo si vede fin dalle pagine del Vangelo e si pensi alle richieste di
guarigione – è segnata dalla vita e dai suoi dolori. La preghiera non è avulsa dagli echi della propria
e dell’altrui esistenza umana, non è priva di domande e di bisogni. D’altra parte chi si mette al
servizio dei poveri e si avvicina alla carne sofferente, si prepara alla preghiera. Anzi il cardinale
afferma: «L’azione giusta che si concretizza nell’aiuto al prossimo è preghiera». 69
Il cristianesimo evangelico di Bergoglio ha una dimensione spirituale profonda e semplice, ma
anche una dimensione di amicizia con gli uomini, specie con i più poveri. Non si tratta di una via per
avanguardie impegnate o aristocrazie dello spirito, i «cristiani inamidati» – li chiama. È una proposta
per il popolo: «lì dove questa Parola è stata accolta da un popolo, incorporata nella sua cultura,»
dice nel 2005 «questa sintesi è quello che chiamiamo religiosità popolare». Il cardinale cita spesso
la fede che si manifesta attorno al santuario argentino della Madonna di Luján, dove si vede bene
come non si sia esaurita la domanda di Dio: «Può darsi che ci sia meno gente nelle chiese, ma
l’inquietudine religiosa non si è spenta; è ancora forte, a tratti un po’ disorientata, non più inserita
nelle strutture istituzionali. A mio parere la sfida più grande per i leader religiosi odierni è capire
come guidare quella forza». 70 Anzi il futuro papa sostiene che bisogna parlare alla gente anche
attraverso le chiavi della «cultura materna», cioè con quell’alfabeto che accompagna un popolo.
Bergoglio, diffidente nei confronti del miracolismo, del profetismo e del culto del prodigioso che,
paradossalmente, si diffondono in questo tempo secolare, racconta una vicenda molto umana di
qualche anno fa. Un padre, un operaio dell’elettricità, riceve la notizia che sua figlia di sette anni è in
fin di vita e non si può fare niente. Così corre la sera al santuario di Luján: «Ha cominciato a pregare
la Madonna, con le mani sulla cancellata di ferro, e pregava e piangeva e chiedeva. È stato lì tutta la
notte e lottava con Dio per avere la guarigione della sua fanciulla». Poi, la mattina, torna
all’ospedale e trova sua moglie che piange di commozione: la figlia è inspiegabilmente guarita.
Commenta papa Francesco:
Questo succede ancora, i miracoli ci sono! Ma la preghiera, una preghiera coraggiosa che lotta per arrivare a quel
miracolo … Non quelle preghiere di cortesia, io pregherò per te … no, una preghiera coraggiosa che lotta, come quella
di Abramo che lotta per salvare la città, come quella di Mosè che stava con le mani in alto e si stancava, pregando il
Signore, come quella di tanta gente che ha fede e con la fede prega. La preghiera fa miracoli e noi dobbiamo credere
questo. 71
Il papa è convinto che la preghiera non sia una terapia per la tranquillità, ma una lotta nella
compassione e nella fede. La preghiera può cambiare il mondo, perché sposta le montagne, come
afferma Gesù nel Vangelo. Anche un incredulo (che chiede a Gesù di aiutarlo a superare l’incredulità
che è dentro di sé) può pregare con forza: «Una preghiera umile e forte fa sì che Gesù possa
compiere il miracolo. La preghiera per chiedere un miracolo, per chiedere un’azione straordinaria,
deve essere una preghiera che ci coinvolga tutti … Bisogna nella preghiera mettere la carne al
fuoco». 72
La preghiera è anche un atto di responsabilità da parte dei cristiani. Il cardinal Bergoglio osserva
come, a volte, i cristiani si possano sentire stanchi e sconfitti. Si scivola così nel pessimismo e nelle
scelte riduttive, autoreferenziali, difensive, pensando di dover lavorare solo alla sopravvivenza.
Ricorda come Abramo invece non si rassegni di fronte al destino di Sodoma: «in Abramo prevalse il
senso di responsabilità … Non è tranquillo con una sola richiesta, sente di dover intercedere per
salvare la situazione, percepisce di dover lottare con Dio, di iniziare un lungo e difficile braccio di
ferro». Questo è pregare con parresìa: «non essere tranquilli dopo aver chiesto una sola volta.
L’intercessione cristiana comporta tutta la nostra insistenza fino al limite». 73
Così la preghiera cristiana manifesta senso di responsabilità per luoghi del mondo magari lontani,
dove si soffre, raggiunti dal nostro sguardo: è il «dominio» cristiano della sovranità dell’amore.
«Abramo non era abitante di Sodoma, ma» dice Bergoglio «sentiva quel popolo peccatore come
figlio suo … decide di scommettere in suo favore. La sua decisione mostra coraggio, anche col
rischio di irritare il Signore». Così prega un semplice cristiano, senza particolari risorse, che si sente
coinvolto in una difficile situazione lontana: «La intercessione non è per persone deboli. Non
preghiamo … per godere di una armonia interiore puramente estetica. Quando preghiamo stiamo
lottando per il nostro popolo». 74 La preghiera così affatica e dà pace allo stesso tempo: «Fatica e
pace vanno insieme nel cuore di chi prega» 75 conclude il cardinale.
La rivolta dello spirito
Nonostante il generale consenso verso il papa, qualche dubbio si affaccia sulla concretezza del
suo programma: non si riduce tutto ad affermazioni belle ma semplici? Le domande si intrecciano.
Francesco farà una grande riforma? Il suo pontificato sarà destinato a deludere le attese? Certo il
papa, con il passare dei mesi, va prendendo alcune decisioni importanti sulla struttura della Chiesa.
Ma per capire questo pontefice, vanno prima di tutto ascoltati i suoi discorsi. La sua scelta per la
parola non è quella per una cattedra distaccata; bensì per una verità comunicata con amore, anzi con
gesti di tenerezza. Lo ha ripetuto: vuole essere prima di tutto pastore, il vescovo di Roma. E il suo
primo ministero è la parola, non un flatus vocis. Così, ad esempio, ha parlato nella basilica di San
Paolo all’inizio del suo ministero:
Questo ha una conseguenza nella nostra vita: spogliarci dei tanti idoli piccoli o grandi che abbiamo e nei quali ci
rifugiamo, nei quali cerchiamo e molte volte riponiamo la nostra sicurezza. Sono idoli che spesso teniamo ben nascosti;
possono essere l’ambizione, il carrierismo, il gusto del successo, il mettere al centro se stessi, la tendenza a prevalere
sugli altri, la pretesa di essere gli unici padroni della nostra vita, qualche peccato a cui siamo legati, e molti altri. Questa
sera vorrei che una domanda risuonasse nel cuore di ciascuno di noi e che vi rispondessimo con sincerità: ho pensato io
a quale idolo nascosto ho nella mia vita, che mi impedisce di adorare il Signore? 76
La sua parola identifica gli «idoli» del mondo contemporaneo e della stessa Chiesa con un taglio
profetico. Vuole guidare a un incontro con Dio e a un cammino di progresso spirituale e umano. Il
papa parla alla coscienza di un vasto popolo che, dall’inizio del pontificato, sorprendentemente
viene ad ascoltarlo in massa. Più il papa parla in questo modo, più la gente si avvicina.
Evidentemente c’è bisogno di parole come le sue. L’attenzione del popolo sembra quasi confermare
la scelta del papa per una parola comunicata con simpatia. Il papa non ha – come si è detto – la
cultura del progetto o la mentalità del piano. Questo non vuol dire che sia disorganico o spontaneista.
Il papa comunica il Vangelo. A chi lo ascolta, spetta in tutta libertà la responsabilità di recepirne la
parola. Niente si impone in lui o appare precettistico. Anche all’interno della Chiesa, il suo è un
modello di «pastoralità» che può essere recepito o rifiutato dai vescovi e da tutti gli altri
responsabili.
Ci si chiede oggi, però, se la Chiesa, oltre agli appelli, non debba condurre una politica
«concreta». Insomma, la Chiesa in un mondo liquido non rischia l’astrattezza e l’irrilevanza? La
grande sfida di Francesco è però parlare al cuore degli uomini e delle donne, perché la Parola di Dio
tocchi e cambi la loro vita. Solo uomini e donne rinnovati nel cuore potranno inaugurare una stagione
diversa della storia (piccola o grande che sia). Il papa è tutt’altro che rassegnato di fronte ai dolori
dei popoli e dei poveri, tutt’altro che silenzioso di fronte agli idoli, al dramma di uomini disperati,
alla crisi della famiglia, a paesi interi che perdono di peso e di senso: questo mondo ha troppi aspetti
di ingiustizia e di iniquità, che sono, secondo lui, espressioni del potere attrattivo e dominante del
male. Il mondo vive anche in una condizione tragica. Questa analisi è chiara nei suoi discorsi e nei
suoi scritti. Francesco non è il papa semplice di un mondo liquido, in cui è possibile fare poco e
bisogna limitarsi allo spirituale. Il suo parlare non è elusivo o evasivo rispetto alla concretezza della
storia. E questo si vedrà sempre più. Egli vuole cambiare il mondo, specialmente perché c’è troppa
gente che sta male e il male è troppo forte.
La sua forza è quella debole della predicazione cristiana. Non è la proposta di un’ideologia
cristiana. Non è nemmeno – sarebbe impossibile – la proposta di una egemonia cristiana che imponga
una fede. Nella storia dell’Occidente c’è stata una frattura tra cristianesimo e umanesimo. La
sensibilità di Bergoglio è vicina a quella di Henri de Lubac, che identificava come dramma degli
ultimi secoli l’«umanesimo ateo». 77 Anche se i padri del mondo moderno (Feuerbach, Marx,
Nietzsche, Freud…), secondo la felice espressione di Clément, vanno impallidendo, bisogna dire che
«la loro tematica ci impregna e impregna lo spirito del tempo».
Nel lontano Natale 1943, nel pieno della guerra mondiale, de Lubac scriveva che l’uomo aveva
ormai mostrato che il mondo si poteva organizzare senza Dio. Da allora, più di mezzo secolo di
storia ha confermato abbondantemente questa interpretazione. Così il mondo e la vita si organizzano
senza Dio. De Lubac notava: «È vero però che, senza Dio, non può alla fine dei conti che
organizzarlo [il mondo] contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo disumano». 78 Il
cardinal Bergoglio condivide questa analisi. Bisogna allora parlare di Dio agli uomini, perché dal
loro vissuto e dal loro pensiero rinasca o si rafforzi un umanesimo «umano», non esclusivista, non
chiuso all’esperienza religiosa.
Nell’introduzione a un significativo libro, intitolato La Révolte de l’Esprit, Clément scriveva
(siamo nel 1979): «In un momento in cui le tecniche, sociologiche e psicologiche, vorrebbero
spiegare tutto attraverso questo mondo, e guarire tutto all’interno di questo mondo (salvo la morte),
lo Spirito ci ricorda violentemente che nessuno è di questo mondo, ma che, nella comunione delle
persone – di cui la Trinità è l’esempio, la sorgente e il luogo –, il mondo può infine respirare». 79
Questa è la sfida di un umanesimo cristiano che rinasca dal vissuto. Il mondo cambia quando gli
uomini e le donne rinascono allo Spirito, anche nel silenzio o nel nascondimento. L’insieme di tante
esistenze così vissute rappresenta per Clément la «rivolta dello Spirito» che «penetrando nella
storia, la apre a un’insolita benedizione». Questa non è una strategia o un piano d’azione, ma un umile
cammino di uomini di fede che possono però spostare continenti, anche se sembra loro di scavare
solo qualche buco nel terreno o di aprire solo qualche spazio nelle coscienze. Un grande poeta
musulmano dell’India novecentesca, molto amato in Pakistan, Muhammad Iqbal, scrive in una poesia
del 1936 intitolata Il destino:
No, ben altro è il senso della rassegnazione all’Eterno!
Abbi dunque l’ardire di crescere, osa! Non è così stretto lo spazio!
O Uomo di Dio! Non è stretto il Regno dei cieli! 80
In un mondo difficile non è stretto lo spazio per i credenti, purché essi abbiano l’umiltà di abitarlo
pazientemente e non siano alla ricerca di inutili ed effimere scorciatoie. Papa Francesco guarda con
simpatia questo mondo e i suoi abitanti, ma ricorda incessantemente che non tutto si risolve e si
racchiude in quello che si vede e si tocca; che non tutto gira attorno all’ego, fattosi così forte e così
gonfio, seppur dolente. In un tempo illuminato dai riflettori dell’informazione, non si percepisce la
dimensione spirituale oltre la realtà, che però è parte integrante della realtà stessa. Ci sono correnti
profonde nella storia, quelle dello spirito e dell’amore che, alla fine, scuotono la realtà.
Papa Francesco ha detto: «la nostra fede è talmente rivoluzionaria che questo la rende
perpetuamente suscettibile d’essere messa alla prova dal nemico». In Brasile il papa ha parlato in
modo esigente ai giovani: «vi chiedo di essere rivoluzionari, vi chiedo di andare contro corrente; sì,
in questo vi chiedo di ribellarvi a questa cultura del provvisorio, che, in fondo, crede che voi non
siate in grado di assumervi responsabilità, crede che voi non siate capaci di amare veramente». 81
Colpisce l’uso non retorico di «rivoluzione» o «rivoluzionari», ormai quasi scomparso dal
vocabolario politico. L’invito del papa è vivere il cristianesimo come una rivoluzione ed essere
protagonisti del cambiamento. Così si è espresso parlando ai giovani di tutte le nazioni, raccolti a
Rio de Janeiro per la Giornata mondiale della gioventù:
Seguo le notizie del mondo e vedo che tanti giovani in tante parti del mondo sono usciti per le strade per esprimere il
desiderio di una civiltà più giusta e fraterna … Per favore, non lasciate che altri siano protagonisti del cambiamento! Voi
siete quelli che hanno il futuro! … Attraverso di voi entra il futuro nel mondo … Continuate a superare l’apatia,
offrendo una risposta cristiana alle inquietudini sociali e politiche, che si stanno presentando in varie parti del mondo. Vi
chiedo di essere costruttori del mondo, di mettervi al lavoro per un mondo migliore. 82
Clément sottolinea il carattere rivoluzionario della fede cristiana. Ma osserva che «se il cristiano
non è rivoluzionario nel senso della rivoluzione mitica, sa che il cristianesimo racchiude una potenza
rivoluzionaria, quella del Cristo vincitore della morte, la potenza che può trasformare la struttura
della persona». 83 Questo cambia in profondità. Perché «se questa trasformazione si opera
simultaneamente in molti, in comunione, anche il mondo comincia a cambiare e viene fondata una
civiltà». La fede e la vita di molti creano una nuova realtà.
Jorge Bergoglio vuole essere un cristiano prima di tutto e invita gli altri a esserlo con lui.
All’uomo e alla donna di oggi, chiede di riconoscersi peccatori. A loro, con l’amato Gregorio
Magno, dice: «Riconosci il tuo Medico!». Lo dice alla società. Dio è il vero medico della
condizione umana. Bergoglio indica una via alternativa all’egocentrismo. Mostra la via della felicità
del dare agli altri, di chi apre il cuore a Dio. Questa è la vera grandezza di tanti anche piccoli, degli
uomini e delle donne, dell’umanità. Con Giovanni Crisostomo, Bergoglio afferma: «se non fai il bene
degli altri, non farai niente di grande». La grandezza è far il bene agli altri.
La conversione a Dio ingenera una rivolta dello Spirito, un percorso di umanesimo che, anche se
nascosto, ha un significativo valore per l’umanità proprio per l’amore che semina. È un percorso che
richiede tanta pazienza e molta speranza. Va incontro a tempi bui e a giorni luminosi. Ma è davvero
creatore di umanità nuova, perché consapevole che non tutto si riduce alla tragedia dell’uno o alla
commedia dell’altro. La gente riprende a camminare con Dio. Trova una grande visione che non si
esaurisce nemmeno con la propria vita o con la propria generazione. È la storia antica dell’Esodo di
Israele, diventata la transumanza di genti credenti, che irradiano amore, trasformano, umanizzano,
liberano. La terra non diventerà mai un paradiso. Ma si aprono le porte delle «prigioni» delle
esistenze e delle menti. Il mondo può diventare più umano.
La proposta di papa Bergoglio, vissuta nella comunione di tanti credenti, può diventare una vera
rivoluzione, una rivolta nello Spirito. È un grande e umile, paziente, lavoro. Per coglierne la portata,
bisogna imparare a leggere le correnti profonde della storia e non limitarsi ai sondaggi e alla
superficie. Il monaco Silvano del Monte Athos affermava negli anni Trenta:
L’unità ontologica di tutta l’umanità è tale che ogni persona che supera in se stessa il male, infligge una grande
sconfitta anche al male cosmico, per cui le conseguenze di questa vittoria si ripercuotono in modo benefico sui destini
del mondo intero. Anche un solo santo è per l’intera umanità un evento estremamente prezioso. 84
È questa la scommessa del cristiano, la scommessa di papa Francesco: il valore universale di un
uomo che si converte e vince il male. Il cristianesimo antico convertiva i sovrani per poter battezzare
i popoli. Fu una grande storia, ma pure una grande illusione. Oggi la santità di un uomo, la
conversione di una donna, la fede di tanti in una comunione senza confini costituiscono una realtà che
scorre nel profondo della storia e ne scuote la superficie. E poi la storia è piena di sorprese.
Note
I. Le dimissioni di Benedetto XVI
1
www.vatican.va, Concistoro ordinario pubblico, Declaratio del Santo Padre Benedetto XVI sulla sua rinuncia al Ministero di
Vescovo di Roma, Successore di San Pietro, 11 febbraio 2013.
2
Cfr. M. Politi, Papa Wojtyła. L’addio, Brescia, Morcelliana, 2007.
3
S. Dziwisz, Una vita con Karol, Rizzoli, 2007, pp. 215 sgg. Vedi anche A. Tornielli, Francesco. Insieme, Milano, Piemme, 2013, p.
4
A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011, p. 528. Vedi anche Id., Il secolo del martirio.
41.
I cristiani nel Novecento, Milano, Mondadori, 2009.
5
Cfr. www.vatican.va, Benedetto XVI,Omelia del Santo Padre Benedetto XVI in occasione della beatificazione del Servo di
Dio Giovanni Paolo II, 1° maggio 2011.
6
Colloquio dell’autore con Benedetto XVI.
7
A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, cit., p. 530.
8
Ibidem.
9
Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Benedetto XVI
, a cura di P. Seewald, Città del
Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, p. 53.
10
www.vatican.va, Concistoro ordinario pubblico, Declaratio del Santo Padre Benedetto XVI sulla sua rinuncia..., cit.
11
R. Rusconi, Il gran rifiuto. Perché un papa si dimette, Brescia, Morcelliana, 2013, p. 114.
12
Cfr., ad esempio, P. Flores d’Arcais, Il Papa inquisitore, in «Micromega» 6/2009, pp. 5-22.
13
Cfr. Luce del mondo, cit., pp. 130-131.
14
Jacopone da Todi, Epistola a Celestino papa quinto, chiamato prima Pietro da Morrone, in Le laudi, Firenze, Libreria Editrice
Fiorentina, 1955, pp. 182-183.
15
P. Golinelli, Il Papa contadino. Celestino V e il suo tempo, Firenze, Camunia, 1996, p. 161. Si veda anche A. Marini,La
rinuncia di Celestino V, in «Eurostudium 3w», ottobre-dicembre 2012, pp. 13-25.
16
P. Golinelli, Il Papa contadino, cit., p. 166.
17
Ibidem.
18
Cfr. G. Nuzzi, Sua Santità. Le carte segrete di Benedetto XVI, Milano, Chiarelettere, 2012.
19
Luce del mondo, cit., p. 53.
20
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù,
Conferenza
Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013.
21
M. Franco, C’era una volta un Vaticano, Milano, Mondadori, 2010, p. 3.
22
Cfr. H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano, Jaca Book, 1992, p. 124.
23
Cfr. G. Kepel, La Revanche de Dieu, Paris, Le Seuil, 1991.
24
Cfr. G. Cavallotto, Dati invisibili e futuro della missione, Città del Vaticano, Urbaniana Press, 2006.
25
Cfr. Ph. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2004.
II. La sorpresa
1
Cfr. H. Küng, Santo subito? Il caso Maciel e altre ombre, in Karol Wojtyła. Il grande oscurantista, «Micromega», aprile 2011,
pp. 5-11.
2
D.M. Turoldo, Perché la terra torni a sperare, in B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi
monastici, a cura di A. Cislaghi e G. Remondi, Roma, Centro Studi Sant’Anselmo, 1994, p. 66.
3
Cfr. W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013.
4
Paolo VI, Ecclesiam suam. Lettera enciclica, Torino, Elledici-Leumann, 1992, p. 34.
5
Ivi, p. 39.
6
K. Barth, La confession de foi de l’Eglise, Neuchâtel, Delachaux & Niestlé, 1943, p. 34. Cfr. anche L’intuition prophétique.
Enjeu pour aujourd’hui, a cura di A. Vauchez, Paris, Les Éditions de l’Atelier, 2011; Prophètes et prophétisme, a cura di A.
Vauchez, Paris, Éditions du Seuil, 2012.
7
Y. Congar, Vera e falsa riforma nella Chiesa, Milano, Jaca Book, 1972, p. 155.
8
G. Bessière, Le Feu qui rafraîchit, Paris, Éditions du Cerf, 1978, p. 36.
9
A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma, Borla, 1983, p. 18.
10
D.M. Turoldo, Il sapore del pane, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2002, p. 11.
11
Ibidem.
12
Ivi, p. 12.
13
Ibidem.
14
Ibidem.
15
Cfr. Luce del mondo. Il Papa la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Benedetto XVI
, a cura di P. Seewald,
Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2010, pp. 93 sgg.
16
In questo senso è molto significativa la ricostruzione di un autore molto equilibrato come R. Rémond, nel suo Le christianisme en
accusation, Paris, Desclée de Brouwer, 2000.
17
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Incontro con
l’Episcopato Brasiliano, Discorso del Santo Padre Francesco, 27 luglio 2013.
18
Cfr. Paolo VI, Ecclesiam suam, cit., p. 18.
19
www.vatican.va, Papa Francesco, «Annuntio vobis gaudium magnum; habemus Papam». Elezione di papa Francesco,13
marzo 2013.
20
Agostino di Ippona, Sermo 340,1: PL 38, 1483.
21
Cfr. anche Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII,a cura della Fondazione per le scienze religiose
Giovanni XXIII di Bologna, Bergamo, 2003, p. 9.
22
Cfr. www.lapresse.it., Conclave, età media 72 anni, 58% cardinali scelti da Benedetto XVI, 12 marzo 2013.
23
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013.
24
Giovanni Crisostomo, Hom. de capto Eutropio, 6; PG 52, 402, cit. in B. Forte, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della
Chiesa, comunione e missione, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1995, p. 372.
25
J.H. Newman, Sermoni cattolici, Milano-Brescia, Jaca-Book-Morcelliana, 1984, p. 284.
26
Intervento di G. De Rita alla presentazione di La forza degli anni, a cura di G. Battaglia, Milano, Francesco Mondadori, 2013.
27
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 94.
28
Ivi, p. 96.
29
L.F. Capovilla – E. Bolis, I miei anni con Papa Giovanni XXIII. Conversazione con Ezio Bolis, Milano, Rizzoli, 2013, p. 90.
30
Ibidem.
31
E. Lecaldano, Simpatia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2013, p. 150.
32
Ivi, pp. 183-184.
33
A. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma, Borla, 1981, p. 116.
34
Ivi, pp. 117-120.
35
Ivi, p. 345.
36
Ivi, p. 119.
37
Ivi, p. 346.
38
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, p. 33. Si veda anche La nuova Chiesa
di papa Francesco, a cura di J.M. Kraus, Roma, Moralia, 2013.
39
Leggenda dei Tre Compagni, 3, in Fonti Francescane, Padova, Ed. Messaggero, 1982, p. 1068.
40
I Fioretti di San Francesco, 37, in Fonti Francescane, cit., p. 1535.
41
Cfr. J.G. Jeusset, Dio è cortesia. Francesco d’Assisi, il suo Ordine e l’Islam, Padova, Edizioni Messagero, 1988.
42
www.vatican.va, Papa Francesco, Angelus, 17 marzo 2013.
43
www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia Pasquale nella Notte santa, basilica vaticana, 30 marzo 2013.
44
Ibidem. Per una lettura delle radici e della vicenda di Jorge Bergoglio si veda A. Melloni,Francesco, in Enciclopedia dei papi
2013, su www.treccani.it
45
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 aprile 2013. Per
questi testi di omelie mattutine sono state utilizzate anche le registrazioni delle parole di Francesco.
46
Ibidem.
47
www.vatican.va, Benedetto XVI,Discorso alla Curia Romana. Leggere il Concilio alla luce della Tradizione, 22 dicembre
2005.
48
Paolo VI, Discorso di chiusura della IV sessione del Concilio Vaticano II,in Il Concilio Vaticano II. Documenti, Bologna,
Edizioni Dehoniane, 1966, p. 1084.
49
Cfr. Ivi, pp. 1084-1085.
50
Paolo VI, Ecclesiam suam, cit., p. 33.
51
Paolo VI, Evangelii nuntiandi, in Enchiridion Vaticanum, Bologna, EDB, 1979, pp. 1009-1125.
52
Giovanni XXIII, Discorso di apertura della I sessione del Concilio Vaticano II, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., p.
996.
53
Gaudium et spes, in Ivi, pp. 963-964.
54
Giovanni Paolo II, Testamento, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2005, p. 13.
55
Una significativa lettura dei problemi e delle prospettive della Chiesa in America Latina in G.M. Carriquiry Lecour,Una
scommessa per l’America Latina, Firenze, Le Lettere, 2003.
56
Chi ha colto efficacemente questo stato d’animo è il giornalista e lo studioso G. Zizola in un libro per certi aspetti toccante,
L’utopia di papa Giovanni, Assisi, Cittadella, 1973.
57
Cfr. V. Martano, Athenagoras il patriarca (1886-1972). Un cristiano tra crisi della coabitazione e utopia ecumenica,
Bologna, Il Mulino, 1996.
58
Cfr. H. Küng, Salviamo la Chiesa, Milano, Rizzoli, 2011.
59
Cfr. A. Riccardi, Intransigenza e modernità. La Chiesa cattolica verso il terzo millennio, Roma-Bari, Laterza, 1996.
60
Una valutazione critica di questo dialogo in V. Ferrone, Lo strano illuminismo di Joseph Ratzinger, Roma-Bari, Laterza, 2013.
61
J.M. Bergoglio – A. Skorka,Il cielo e la terra, cit., p. 101. Vedi pure J. Bergoglio, El verdadero poder es el servicio, Buenos
Aires, Editorial Claretiana, 2013, p. 270.
62
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013,
p. 87.
63
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 106-107.
64
Ivi, p. 106.
65
Cfr. C.M. Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme, intervista di G. Sporschill, Milano, Mondadori, 2008.
66
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 19.
67
Ivi, p. 20.
68
Cfr. Ivi, pp. 65-66.
69
Giovanni XXIII,Discorso di apertura della I sessione del Concilio Vaticano II, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit.,
pp. 992-993.
70
Ivi, p. 993.
71
www.vatican.va., Papa Francesco, Omelia alla Santa Messa nella Cena del Signore, Istituto Penale per Minori di «Casal del
Marmo» in Roma, 28 marzo 2013.
72
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013.
III. La cultura dell’incontro
1
E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 14. Cfr. anche G. Dell’Arti, Francesco. Non abbiate paura
della tenerezza, Firenze, Clichy, 2013. Si veda pure M. de Vedia, Francisco, el papa del pueblo, Buenos Aires, Planeta, 2013.
2
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013,
p. 72. Cfr. anche www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le
aggregazioni laicali, 18 maggio 2013.
3
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 72.
4
Il discorso è stato pubblicato in spagnolo dalla rivista dell’Arcidiocesi di Cuba, «Palabra Nueva». I sitizenit.org e aleteia.org lo
hanno pubblicato in italiano.
5
www.zenit.org.
6
Cfr. J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 73.
7
Ivi, p. 71.
8
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Incontro con i
vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (C.E.L.A.M.), Discorso del Santo Padre Francesco
, Rio de
Janeiro, 28 luglio 2013.
9
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 71.
10
Ibidem.
11
G. Valente, Francesco. Un papa dalla fine del mondo, Bologna, Emi, 2013, p. 38.
12
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 27 marzo 2013.
13
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Incontro con
l’Episcopato Brasiliano, Discorso del Santo Padre Francesco, 27 luglio 2013.
14
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, p. 87.
15
Ivi, p. 64.
16
Ivi, p. 70.
17
Ivi, pp. 64 sgg.
18
Ibidem.
19
Ivi, p. 183.
20
Ivi, p. 184.
21
www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia alla Santa Messa per l’inizio del Ministero Petrino del Vescovo di Roma, 19 marzo
2013.
22
Paolo VI, Ecclesiam suam, cit., p. 44.
23
O. Clément, Riflessioni sull’uomo, Milano, Jaca Book, 1990, p. 36 .
24
Benedetto XVI, Deus caritas est, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2006, p. 74.
25
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., p. 187.
26
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, pp. 35-36.
27
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, Milano, Francesco Mondadori, 2013, p. 73.
28
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., pp. 37-38.
29
Cfr. G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse, Bologna, Il Mulino, 1975.
30
Cfr. J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., pp. 105-106.
31
Cfr. E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., pp. 137 sgg.
32
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 108.
33
Cfr. M. Perniola, Berlusconi o il ’68 realizzato, Milano, Mimesis, 2011.
34
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 192.
35
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro, cit., Incontro con la classe dirigente del Brasile. Discorso del Santo
Padre Francesco, Teatro Municipale, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013.
36
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, 2013, p.
37
J. M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 194.
38
Ibidem.
39
Cfr. Ivi, pp. 9-10.
40
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 39.
41
J.M. Bergoglio, Educar, elegir la vida, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2005, p. 13.
42
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 109.
43
Ivi, p. 166 e p. 109.
44
Diálogos entre Juan Pablo II y Fidel Castro, Buenos Aires, Ciudad Argentina, 1998, pp. 10-13. Osservazioni in M. Fazio,Con
29.
Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, pp. 72-75.
45
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., pp. 73-74.
46
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 22-23.
47
C. Naro, Amiamo la nostra Chiesa, Palermo, s.e., 2005, p. 31.
48
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, Mercoledì 22 maggio
2013. Si veda anche Carità, parola antica per fare nuovo il mondo, a cura di M. Gnavi, Milano, Leonardo International, 2010.
49
Discours d’inauguration prononcé par Marc Chagall, le 7 juillet 1973, in Chagall, Musée National Marc Chagall, Nice,
Paris, Éditions Artlys, 2011, p. 9.
50
P. Teilhard de Chardin, L’ambiente divino, Brescia, Queriniana, 1994, pp. 111-112.
51
A. Hampâté Bâ, Gesù visto da un musulmano, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, p. 75.
52
Cfr. E. Toaff, Perfidi Giudei, fratelli maggiori, Milano, Mondadori, 1987.
53
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 10-11.
54
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 188.
55
Ibidem.
56
O. Clément, Dio è simpatia, Milano, Leonardo International, 2003, p. 39.
57
Cfr. A. Levi, Un paese non basta, Bologna, Il Mulino, 2009.
58
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 161.
59
Ivi, p. 163.
60
G. Dossetti, Introduzione a L. Gherardi, Le querce di Monte Sole, Bologna, Il Mulino, 1994, p. XXIII.
61
H. Arendt, La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 1964.
62
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., pp. 136-137.
63
Cfr. A. Riccardi, Mediterraneo. Cristianesimo e islam tra coabitazione e conflitto, Milano, Guerini e Associati, 1997.
64
J.M. Bergoglio – A. Skorka,Il cielo e la terra, cit., p. 145. Si veda anche C. Martini Grimaldi,Ero Bergoglio, sono Francesco,
Venezia, Marsilio, 2013, pp. 90 sgg.
65
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 67.
66
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 197.
67
Nostra Aetate, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, Bologna, Edizioni Dehoniane, 1966, p. 483.
68
Cfr. J.D. Durand, Lo Spirito di Assisi. Discorsi e messaggi di Giovanni Paolo II alla Comunità di Sant’Egidio
, Milano,
Leonardo International, 2004; Comunità di Sant’Egidio,Lo Spirito di Assisi. Dalle religioni una speranza di pace, Cinisello Balsamo,
San Paolo, 2011.
69
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 200.
70
Nostra Aetate, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., p. 483.
71
M. Gallo, El espíritu de Asís (1986-2007). Aporte de las religiones al diàlogo y la paz del mundo, Buenos Aires, Guadalupe,
2007, p. 7. Cfr. anche J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 125.
72
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 125.
73
Ivi, p. 126.
74
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 209.
75
Ivi, p. 7.
76
A. Casaroli, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti, Torino, Einaudi, 2000. Cfr. anche L’America latina
fra Pio XII e Paolo VI, a cura di A. Melloni e S. Scatena, Bologna, Il Mulino, 2006.
77
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 145. Si veda anche la biografia del cardinale di R. Morozzo della Rocca, in
corso di pubblicazione.
78
Ibidem.
79
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 194.
80
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 146.
81
A. Casaroli, Il martirio della pazienza, cit., p. 11.
82
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 147.
83
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 204-205.
84
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 7.
85
A. Fogazzaro, Il Santo, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012, p. 243.
86
Ivi, pp. 243-244.
87
Ivi, p. 246.
88
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Conferenza
Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013.
IV. La Chiesa dei poveri
1
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza ai Rappresentanti dei media, 16 marzo 2013.
2
F. Maisonnave, Card. Cláudio Hummes: «La Chiesa non funziona più», intervista, su www.aleteia.org, 19 marzo 2013.
3
Giovanni XXIII, Radiomessaggio ai fedeli di tutto il mondo, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, Bologna, Edizioni Dehoniane,
1966, pp. 985-986.
4
G. Lercaro, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari del card. Giacomo Lercaro, Bologna, EDB, 1984, p. 119.
5
Lumen Gentium, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., pp. 136-137.
6
AA.VV., Chiesa e povertà, Roma, AVE, 1968, pp. 167 sgg.
7
Cfr. J. Ratzinger, La fraternità cristiana, Roma, Paoline, 1960.
8
O. Clément, Riflessioni sull’uomo, Milano, Jaca Book, 1990, p. 89. Cfr. anche Id.,Dio è simpatia, Milano, Leonardo International,
2003, pp. 58 sgg.
9
Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova, 2003, vol. II, pp. 338-339; p. 161.
10
AA.VV., Chiesa e povertà, cit., p. 286.
11
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 157.
12
A. Riccardi, Giovanni Paolo II. La biografia, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2011, p. 382.
13
E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 99.
14
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013,
p. 78. Cfr. L. Ceci, La teologia della liberazione in America Latina. L’opera di Gustavo Gutiérrez, Milano, Franco Angeli, 1999.
15
Ibidem.
16
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013; cfr. anche «L’Osservatore Romano», 6 giugno 2013.
17
L. Zoja, La morte del prossimo, Torino, Einaudi, 2009, p. 84.
18
Ivi, p. 99.
19
www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le
aggregazioni laicali, 18 maggio 2013.
20
Indagine di Astraricerche condotta nel marzo 2013, commissionata dalla Casa della Carità di Milano (vedi
www.casadellacarita.org/italiani-carita).
21
22
www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste, cit., 18 maggio 2013.
www.vatican.va, Papa Francesco, Discorso ai nuovi ambasciatori di Kyrgyzstan, Antigua e Barbuda, Lussemburgo,
Botswana accreditati presso la Santa Sede, 16 maggio 2013.
23
Ibidem.
24
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, 2013, p.
81.
25
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 157.
26
Ivi, p. 31.
27
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013.
28
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, Milano, Francesco Mondadori, 2013, p. 189.
29
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 154.
30
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 79.
31
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 148.
32
Comunità di Sant’Egidio, Benvenuto alla Mensa della Comunità di Sant’Egidio. Benedetto XVI alla mensa per i poveri
,
Milano, Leonardo International, 2010, p. 26.
33
www.santegidio.org, Visita di Papa Benedetto XVI alla casa «Viva gli anziani» della Comunità di Sant’Egidio, Roma, 12
novembre 2012.
34
E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., p. 130.
35
J.M. Bergoglio, Sintesi dell’intervento al Sinodo, «Osservatore Romano», 4 ottobre 2001.
36
Discorso ai vescovi argentini, 9 novembre 2009, in J.M. Bergoglio, Enviados a hacer el bien, Buenos Aires, Agape, 2013, p. 58.
37
H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, Milano, Paoline, 1955, p. 470.
38
A. Tornielli, Francesco insieme, Milano, Piemme, 2013, p. 173.
39
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 47.
40
Ivi, p. 51. Cfr. anche A. Spadaro, Da Benedetto a Francesco, Torino, Lindau, 2013, pp. 72 sgg.
41
www.vatican.va, Papa Francesco, Santa Messa con i cardinali, 14 marzo 2013.
42
É. Gilson, Pas d’illusion rétrospectives, in «Esprit», 8-9, août-septembre 1946, p. 193.
43
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 93.
44
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 24.
45
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, p. 82.
46
Ivi, p. 83.
47
Cfr. Comunità di Sant’Egidio, La forza degli anni. Lezioni di vecchiaia per giovani e famiglie, Milano, Francesco Mondadori,
2013.
48
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 83.
49
Ivi, p. 215.
50
Ivi, p. 98.
51
Ibidem.
52
www.wikipedia.org, Patto delle catacombe, 16 novembre 1965.
53
Ibidem. Cfr. pure M. Mennini, Paul Gaultier e la povertà della Chiesa durante il Vaticano II. La faticosa ricerca di un
consenso, in «Cristianesimo nella Storia», 34 (2013), pp. 391-422.
54
J.M. Bergoglio, Sintesi dell’intervento al Sinodo, cit.
55
Cfr. AA.VV., Problemi di Storia della Chiesa. Il Medioevo dei secoli XII-XV, Milano, Vita e Pensiero, 1976, vol. III, p. 37.
56
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Incontro con i
vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (C.E.L.A.M.), Discorso del Santo Padre Francesco
, Rio de
Janeiro, 28 luglio 2013.
57
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Conferenza
Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013.
58
Vedi supra nota 55.
59
L.F. Capovilla, I miei anni con Giovanni XXIII. Conversazione con Ezio Bolis, Milano, Rizzoli, 2013, p. 206.
60
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., pp. 115-116. Cfr. pure J.M. Bergoglio, Quo nomine vis vocari? Francisco.
Reflexiones de un pastor, Buenos Aires, Editorial Santa Maria, 2013, p. 22 e p. 82.
61
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 126.
62
Ivi, pp. 108 e 116.
63
Ivi, p. 116.
64
Id., Educar, elegir la vida, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2005, pp. 102-103.
65
Cfr. J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 79.
66
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 83.
67
Discorso citato in E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., pp. 126-127.
68
Ibidem.
69
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 65.
70
Ivi, p. 67; J.M. Bergoglio, Educar, cit., p. 43.
71
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 207.
72
A. Vauchez, Francesco d’Assisi, Torino, Einaudi, 2010, pp. 37 sgg.
73
Ivi, p. 323.
74
Ivi, pp. 326 sgg.
75
M. Zundel – F. du Guérand, A l’écoute du silence, Paris, Tequi, 1979, p. 44.
76
O. Capitani, Introduzione a M. Mollat, I poveri nel Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. XXIII sgg.
77
J. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 97-98.
78
Cfr. Benedetto da Norcia, Regola. Testo latino a fronte, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1996. Cfr. B. Celati,La questione
monastica nella letteratura di carattere teorico degli ultimi trent’anni , in AA.VV., Problemi e orientamenti di spiritualità
monastica, biblica e liturgica, Milano, Paoline, 1961, pp. 340-497.
79
J.L. Allen, Le dieci encicliche di papa Francesco, Milano, Ancora, 2013, p. 16.
80
www.news.va, Papa Francesco, Udienza alle Religiose partecipanti all’Assemblea plenaria dell’Unione Internazionale
delle Superiore Generali (Uisg), 8 maggio 2013.
81
www.vatican.va, Papa Francesco, Concelebrazione eucaristica con gli Em.mi Cardinali residenti a Roma in occasione della
festa di San Giorgio, 23 aprile 2013.
82
N. Hikmet, Poesie d’amore, Milano, Mondadori, 2002, p. 57.
83
J.L. Allen, Le dieci encicliche di papa Francesco, cit., p. 16.
84
Cfr. M. Fazio, Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, p. 29.
85
H. de Lubac, Meditazione sulla Chiesa, cit., p. 337.
V. Globalizzazione, città e storia
1
G. Valente, Francesco. Un papa dalla fine del mondo, Bologna, Emi, 2013.
2
Ivi, p. 44.
3
Ivi, p. 46.
4
Ivi, pp. 44-45.
5
Z. Bauman, La ricchezza di pochi avvantaggia tutti. (Falso!), Roma-Bari, Laterza, 2013, p. 5.
6
Ivi, p. 95.
7
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza generale, 5 giugno 2013.
8
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 145.
9
Ivi, p. 143.
10
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Incontro con
l’Episcopato Brasiliano, Discorso del Santo Padre Francesco, 27 luglio 2013.
11
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013,
p. 164.
12
Ivi, p. 165.
13
S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1997.
14
Ivi, p. 306.
15
Cfr. W. Brown, Stati murati, sovranità in declino, Roma-Bari, Laterza, 2013.
16
G. Kepel, Jihad. Ascesa e declino. Storia del fondamentalismo islamico, Roma, Carocci, 2001, p. 366.
17
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 166.
18
J. Bergoglio, Mente abierta, corazón creyente, Buenos Aires, Editorial Claretiana, 2012, p. 6.
19
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 167.
20
Ivi, p. 161.
21
Importanti osservazioni sull’idea di popolo in J. Bergoglio, El verdadero poder es el servicio, Buenos Aires, Editorial Claretiana,
2013, pp. 87-94.
22
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 165.
23
Cfr. A. Riccardi, Convivere, Roma-Bari, Laterza, 2006.
24
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, Milano-Città del Vaticano, Jaca Book-Libreria Editrice Vaticana, 2013, p.
25
Ivi, p. 68.
26
In proposito cfr. B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Roma-Bari, Laterza, 2013. Cfr. anche M. Davis,Il pianeta
67.
degli slum, Milano, Feltrinelli, 2006.
27
D.M. Turoldo, Elogio della città, mistero di pietre, in «L’uomo», luglio 1946.
28
G. Valente, Francesco, cit., p. 10. Si veda anche E. Bianco, Quel ragazzo d’oratorio diventato papa Francesco, Torino,
Elledici, 2013.
29
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013, pp. 38-39.
30
L’intervento del cardinal Bergoglio che ha convinto i cardinali, su www.aleteia.org.
31
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2013, p. 26.
32
Cfr. H. Godin – Y. Daniel, La France pays de mission?, Lyon, Éditions de l’Abeille, 1943. Sulla figura del cardinale Suhard si
veda J. Vinatier, Le Cardinal Suhard (1874-1949). L’evêque du renouveau missionnaire en France, Paris, Le Centurion, 1983; J.P.
Guérend, Cardinal Emmanuel Suhard Archevêque de Paris (1940-1949). Temps de guerre, temps de paix, passion pour la
Mission, Paris, Éditions du Cerf, 2011. Si veda pure É. Poulat, I preti operai, Brescia, Morcelliana, 1967.
33
G. Cesbron, I Santi vanno all’inferno, Milano, Longanesi, 1954, p. 302.
34
E. Suhard, Essor ou déclin de l’Eglise. Lettre pastorale, Paris, Éditions du Vitrail, 1947, p. 6.
35
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 54.
36
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., pp. 45-46.
37
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., pp. 7-8.
38
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, Milano, Francesco Mondadori, 2013, p. 49.
39
Ivi, pp. 135-136.
40
Ivi, pp. 35-36.
41
Cfr. J. Comblin, Teologia della città, Assisi, Cittadella, 1971.
42
Incontro con l’Episcopato Brasiliano, cit.
43
Omelia del 17 marzo 2012, J.M. Bergoglio,Quo nomine vis vocari? Francisco. Reflexiones de un pastor, Buenos Aires,
Editorial Santa Maria, 2013, pp. 105-106.
44
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 23 maggio 2013. Le
citazioni sono integrate con la trascrizione della registrazione delle parole del papa.
45
H. Cox, La città secolare, Firenze, Vallecchi, 1968, p. 3.
46
Ivi, p. 269.
47
Lettera del card. Bergoglio, 29-7-2007, in appendice a M. Fazio,Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano,
Ares, 2013, pp. 91-99, p. 94.
48
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., p. 42.
49
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 33.
50
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., pp. 25-26.
51
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 121.
52
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., p. 19.
53
D.M. Turoldo, Elogio della città, cit.
54
Ibidem.
55
J.M. Bergoglio-Papa Francesco, Dio nella città, cit., p. 48.
56
J. Comblin, Teologia della città, cit., pp. 415-416.
57
O. Clément, Il canto delle lacrime, Milano, Ancora, 1983, p. 147.
58
O. Clément, Riflessioni sull’uomo, Milano, Jaca Book, 1990, pp. 10-11.
59
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 78.
60
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 208.
61
J.M. Bergoglio, Così pensa papa Francesco, cit., p. 109.
62
Incontro con l’Episcopato Brasiliano, cit.
63
J.M. Bergoglio, Dio nella città, cit., p. 5.
64
Così N. Bouvier – M. Mercier, in Guerre et Humanité, un siècle de photographie, Genève, Skira, 1995, pp. 7-13.
65
Cfr. O. Clément, Dio è simpatia, Milano, Leonardo Internazionale, 2003, p. 58 sgg.
66
www.vatican.va, Paolo VI, Udienza generale, 9 febbraio 1966.
67
Ibidem.
68
www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia. Celebrazione liturgica durante la visita a Lampedusa, 8 luglio 2013.
69
Ibidem.
70
E. Vergani, Costruire visioni. Fare il mondo come dovrebbe essere, Roma, Exòrma, 2012, p. 15.
71
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 53.
72
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 106.
73
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 54.
74
G. Dossetti, Scritti politici 1943-1951, Genova, Marietti, 1995, p. LIX.
75
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 25.
76
Cfr. M. Fazio, Con Papa Francesco, cit., p. 52.
77
E. Hobsbawm, Il secolo breve, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 14-15.
78
J.M. Bergoglio, Noi come cittadini, noi come popolo, cit., p. 26.
79
Sulla Chiesa latinoamericana novecentesca si veda la completa ricostruzione di G. La Bella,Roma e l’America Latina, Milano,
Guerini e Associati, 2012.
80
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., pp. 179-180.
81
Ibidem.
82
H.-I. Marrou, La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 235.
83
Cfr. A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 2003.
VI. Un papa dalla fine del mondo
1
W. Bühlmann, La terza Chiesa alle porte, Roma, Paoline, 1976.
2
Cfr. Ph. Jenkins, La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Roma, Fazi, 2004, pp. 277 sgg. Vedi pure M. Impagliazzo,
Duval d’Algeria, Una Chiesa tra Europa e mondo arabo, 1946-1988, Roma, Studium, 1994.
3
L’intervento del cardinal Bergoglio che ha convinto i cardinali, su www.aleteia.org.
4
www.vatican.va., Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 16 maggio 2013.
5
Omelia citata in M. Fazio, Con Papa Francesco. Le chiavi del suo pensiero, Milano, Ares, 2013, pp. 62-64.
6
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, Milano, Rizzoli, 2013, p. 44.
7
Testo citato in M. Fazio, Con Papa Francesco, cit., pp. 62-64.
8
www.vatican.va, Giovanni Paolo II, Novo millennio ineunte. Lettera apostolica, par. 43.
9
Ibidem.
10
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, p. 48.
11
«La Repubblica», 10 settembre 2008, p. 37.
12
M. de Unamuno, L’agonie du christianisme, Paris, Berg International, 1996, p. 45. Cfr. anche l’introduzione di E. Poulat al
volume.
13
É. Gilson, Pas d’illusions retrospectives, in «Esprit», 14, 8-9 (1946), pp. 192-196, p. 194.
14
E. Buonaiuti, Storia del Cristianesimo (3 voll.), Milano, Corbaccio-Dall’Oglio, 1942, vol. III, p. 749.
15
Cfr. G. Zamagni, Fine dell’era costantiniana, Bologna, Il Mulino, 2012.
16
E. Suhard, Essor ou déclin de l’Eglise?, Paris, Éditions du Vitrail, 1947.
17
Ivi, p. 4.
18
E. Gandolfo, Gregorio Magno. Servo dei servi di Dio, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1980, p. 86.
19
Ph. Jenkins, La terza Chiesa, cit., p. 314.
20
P. Rossano, Un tesoro in vasi di creta, in Comunità di Sant’Egidio – Uomini e Religioni,Mai più la guerra. War never again,
Brescia, Morcelliana, 1990, p. 13.
21
A. Colacrai, Forza dei deboli e debolezza dei potenti. La coppia «debole: forte» nel Corpus Paulinum, Cinisello Balsamo,
San Paolo, 2003, p. 568.
22
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù.Conferenza
Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno. Volo papale, 28 luglio 2013.
23
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, Milano, Mondadori, 2013, p. 40.
24
J. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta. Conversazione con S. Rubin e F. Ambrogetti, Milano, Salani, 2013,
p. 73; cfr. anche Quello che avrei detto al concistoro. Intervista con il cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos
Aires, in «30 giorni», 11, 2007.
25
E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, Milano, Rizzoli, 2013, p. 196.
26
Conferenza Stampa del Santo Padre Francesco durante il volo di ritorno, cit.
27
www.vatican.va, Papa Francesco, Udienza a tutti i cardinali, 15 marzo 2013.
28
Ibidem.
29
Cfr. Annuario Pontificio 2013, Città del Vaticano, 2013, pp. 23*-24*.
30
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 39.
31
Ivi, p. 44.
32
Francesco, Lumen fidei, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2013. Ci sono casi di encicliche preparate da un papa e non
pubblicate o completate che non sono state utilizzate dal successore (come la vicenda dell’enciclica sull’uguaglianza delle genti e contro il
razzismo, fatta approntare da Pio XI). Nel caso del testo sulla fede, si tratta della prima enciclica che papa Francesco pubblica;
l’enciclica d’esordio è in genere utilizzata da vari papi come scritto programmatico del pontificato.
33
J.M. Bergoglio-Pape François, Amour, Service & Humilté, Paris, Magnificat, 2013, pp. 63-64.
34
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 25 maggio 2013. Tra
l’altro si vedano J.C. Scannone, Teologia, cultura popolare e discernimento , in La nuova frontiera della teologia in America
Latina, Brescia, Queriniana, 1991, pp. 313-349 e Id., La teologia di Francesco, in «Il Regno – Attualità», 6 (2013), p. 128. Cfr. anche
Escritos Teológicos-Pastorales de Licio Gera (2 voll.), a cura di V.R. Azcuy et alii, Buenos Aires, Agape, 2006 e 2007; e L. Gera,
Religiosità popolare, dipendenza, liberazione, Bologna, Dehoniane, 1978, a proposito di teologia del popolo.
35
E. Himitian, Francesco. Il papa della gente, cit., p. 129.
36
Cfr. A. Methol Ferré – A. Metalli, L’America Latina del XXI secolo, Genova-Milano, Marietti, 2006, p. 90.
37
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 21 maggio 2013.
38
M. Eliade, Oceanografia, a cura di R. Scagno, Milano, Jaca Book, 2007, p. 58.
39
Ibidem.
40
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 21 maggio 2013.
41
Ibidem.
42
Ibidem.
43
J.M. Bergoglio-Pape François, Amour, Service & Humilté, cit., p. 109.
44
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., p. 161. Si veda anche J.M. Bergoglio,Umiltà, la strada
verso Dio, Bologna, Emi, 2013.
45
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 137.
46
Dei Verbum, in Il Concilio Vaticano II. Documenti, cit., p. 503.
47
B. Calati, Sapienza monastica. Saggi di storia, spiritualità e problemi monastici, Roma, Centro Studi Sant’Anselmo, 1994, p.
48
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., pp. 197-198.
71.
49
www.vatican.va, Papa Francesco, Veglia di Pentecoste con i Movimenti, le nuove comunità, le associazioni e le
aggregazioni laicali, 18 maggio 2013.
50
A. Men, Le christianisme ne fait que commencer, Paris, Éditions du Cerf, 1996, p. 49.
51
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., pp. 208-209.
52
Cfr. le riflessioni di P. Novick, L’Holocauste dans la vie américaine, Paris, Gallimard, 1999.
53
Cfr. F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 247-248.
54
M. Eliade, Oceanografia, cit., p. 212.
55
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro in occasione della XXVIII Giornata Mondiale della Gioventù. Incontro con i
vescovi responsabili del Consiglio Episcopale Latinoamericano (C.E.L.A.M.), Discorso del Santo Padre Francesco
, Rio de
Janeiro, 28 luglio 2013.
56
www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia della Celebrazione della Domenica delle Palme, 24 marzo 2013. Cfr. G. Vigini, Il
parroco del mondo, Milano, Paoline, 2013, p. 61.
57
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 96.
58
D. Bonhoeffer, Resistenza e Resa, Milano, Bompiani, 1969, p. 155.
59
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, cit., p. 96.
60
M. Vannini, Oltre il cristianesimo, Milano, Bompiani, 2013.
61
Ivi, p. 304.
62
P. Bruckner, Il singhiozzo dell’uomo bianco. Il terzomondismo: storia di un mito duro a morire, Parma, Guanda, 2008, p. 27.
63
M. Eliade, Oceanografia, cit., p. 57.
64
T.E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza, Milano, Bompiani, 1949, p. 702.
65
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., p.76.
66
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 24.
67
J.M. Bergoglio, Papa Francesco. Aprite la mente al vostro cuore, cit., pp. 187 sgg.
68
J.M. Bergoglio – A. Skorka, Il cielo e la terra, cit., p. 59.
69
Ivi, p. 64.
70
Ivi, p. 209.
71
www.vatican.va, Papa Francesco, Meditazione mattutina nella cappella della Domus Sanctae Marthae, 20 maggio 2013.
72
Ibidem.
73
J.M. Bergoglio, Solo l’amore ci può salvare, cit., p. 133.
74
Ivi, p. 134.
75
Ivi, p. 137.
76
www.vatican.va, Papa Francesco, Omelia della Celebrazione Eucaristica, 14 aprile 2013.
77
Cfr. H. de Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Milano, Jaca Book, 1992.
78
Ivi, pp. 141 sgg.
79
O. Clément, La Révolte de l’Esprit, Paris, Stock, 1979, p. 11.
80
M. Iqbal, Poesie, Parma, Guanda, 1956, p. 94.
81
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro, cit., Incontro con i volontari della XXVII Giornata Mondiale della
Gioventù, Discorso del Santo Padre Francesco, Rio de Janeiro, 28 luglio 2013.
82
www.vatican.va, Viaggio Apostolico a Rio de Janeiro, cit., Veglia di preghiera con i giovani, Discorso del Santo Padre
Francesco, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013.
83
O. Clément, La Révolte de l’Esprit, cit., p. 226.
84
Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos, Torino, Gribaudi, 1978, p. 215.
Indice dei nomi
Abramo
Agostino di Ippona, santo
Allen, John L.
Andrea di Creta, santo
Angelelli, Enrique
Anna, profetessa
Arendt, Hannah
Atenagora I, patriarca di Costantinopoli
Azcuy, Virginia R.
Barth, Karl
Battaglia, Gino
Bauman, Zygmunt
Benedetto XVI (Joseph Ratzinger), papa
Benedetto da Norcia, santo
Bernardo di Chiaravalle, santo
Bertone, Tarcisio
Bessière, Gérard
Bianco, Enzo
Bin Laden, Osama
Bloch, Marc
Bolis, Ezio
Bonhoeffer, Dietrich
Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), papa
Bouvier, Nicolas
Brown, Wendy
Bruckner, Pascal
Buber, Martin
Bühlmann, Walbert
Buonaiuti, Ernesto
Caino
Calati, Benedetto
Capitani, Ovidio
Capovilla, Loris Francesco
Carey, George
Carriquiry Lecour, Guzmán M.
Casaroli, Agostino
Castro Ruz, Fidel
Cavallotto, Giuseppe
Ceci, Lucia
Celestino V (Pietro da Morrone), papa
Cesbron, Gilbert
Chagall, Marc
Cicerone, Marco Tullio
Cislaghi, Alessandra
Claudel, Paul
Clément, Olivier
Colacrai, Angelo
Comblin, Joseph (José)
Comte, Auguste
Congar, Yves
Copello, Santiago Luis
Costantino I il Grande, imperatore romano
Cox, Harvey
Cullmann, Oscar
Dalarun, Jacques
Daniel, Yvan
Davide
Davis, Mike
Dell’Arti, Giorgio
De Rita, Giuseppe
De Vedia, Mariano
Dezza, Paolo
Di Paola, Pepe
Dossetti, Giuseppe
Du Guérand, France
Durand, Jean-Dominique
Duval, Léon-Étienne
Dziwisz, Stanisław
Eliade, Mircea
Endrigo, Sergio
Eugenio III (Bernardo Paganelli), papa
Fazio, Mariano
Ferrone, Vincenzo
Feuerbach, Ludwig
Fiadoni, Bartolomeo (Tolomeo da Lucca)
Flores d’Arcais, Paolo
Fogazzaro, Antonio
Forte, Bruno
Francesco d’Assisi, santo
Franco, Massimo
Freud, Sigmund
Furedi, Frank
Gabriele, Paolo
Gallo, Marco
Gandolfo, Emilio
Gänswein, Georg
Gera, Lucio
Gherardi, Luciano
Gilson, Étienne
Gioacchino da Fiore
Giona
Giovagnoli, Agostino
Giovanni XXIII (Angelo Roncalli), papa
Giovanni Crisostomo, santo
Giovanni Paolo I (Albino Luciani), papa
Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła), papa
Gnavi, Marco
Godin, Henri
Golinelli, Paolo
Gregorio I Magno, santo, papa
Guénon, René
Guérend, Jean-Pierre
Hampâté Bâ, Amadou
Heschel, Abraham
Hikmet, Nazim
Himitian, Evangelina
Hobsbawm, Eric
Hummes, Cláudio
Huntington, Samuel
Ignazio di Loyola, santo
Impagliazzo Marco
Iqbal, Muhammad
Jacopone da Todi, Iacopo de’ Benedetti, detto
Jenkins, Philip
Jeusset, Jean-Gwenolé
Kepel, Gilles
Khodr, George
Kyrill (Vladimir Michailovich Gundyayev), metropolita, ora patriarca di Mosca
Kraus, Joseph M.
Küng, Hans
La Bella, Gianni
La Pira, Giorgio
Lawrence, Thomas Edward (Lawrence d’Arabia)
Lecaldano, Eugenio
Lefebvre, Marcel
Lercaro, Giacomo
Le Saux, Henri
Levi, Arrigo
López Trujillo, Alfonso
Lorenzo, santo
Lot
Lubac, Henri de
Luca, evangelista, santo
Maisonnave, Fabiano
Marini, Alfonso
Marrou, Henri-Irénée
Martano, Valeria
Martini, Carlo Maria
Martini Grimaldi, Cristian
Marx, Karl
Melloni, Alberto
Men, Alexander
Mennini, Matteo
Mercier Michèle
Metalli, Alver
Methol Ferré, Alberto
Mollat, Michel
Moraes, Vinícius de
Morozzo della Rocca, Roberto
Mosè
Mosse, George Lachmann
Mulla, Paul
Naro, Cataldo
Newman, John Henry
Nietzsche, Friedrich Wilhelm
Novick, Peter
Nuzzi, Gianluigi
Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa
Paolo di Tarso, santo
Parolin, Pietro
Perniola, Mario
Pietro, apostolo e santo
Pio X (Giuseppe Sarto), papa
Pio XI (Achille Ratti), papa
Pio XII (Eugenio Pacelli), papa
Politi, Marco
Poulat, Émile
Ratzinger, Georg
Rémond, René
Remondi, Giordano
Riccardi, Andrea
Rossano, Pietro
Rusconi, Roberto
Ruskin, John
Scagno, Roberto
Scannone, Juan Carlos
Scatena, Silvia
Schuster, Ildefonso
Secchi, Bernardo
Seewald, Peter
Sen, Amartya
Silvano del Monte Athos, santo
Silvestrini, Achille
Simeone, santo
Singer, Peter
Skorka, Abraham
Sofronio Archimandrita
Spadaro, Antonio
Sporschill, Georg
Stefano, santo
Suhard, Emmanuel
Teilhard de Chardin, Pierre
Toaff, Elio
Tornielli, Andrea
Turoldo, David Maria
Ubertino da Casale
Unamuno, Miguel de
Ungaretti, Giuseppe
Valente, Gianni
Vannini, Marco
Vauchez, André
Vergani, Emilio
Vigini, Giuliano
Vinay, Valdo
Vinatier, Jean
Vonier, dom (Anscar Vonier)
Zamagni, Gianmaria
Zanzotto, Andrea
Zizola, Giancarlo
Zoja, Luigi
Zundel, Maurice
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La sorpresa di papa Francesco
di Andrea Riccardi
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COPERTINA || ART DIRECTOR: GIACOMO CALLO | GRAPHIC DESIGNER: MARINA PEZZOTTA | FOTO © GABRIEL BOUYS/AFP/GETTY IMAGESM
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