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La nuova geografia del lavoro
Enrico Moretti
La nuova geografia
del lavoro
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Traduzione di Luca Vanni
La nuova geografia del lavoro
di Enrico Moretti
Collezione Saggi
ISBN 978-88-04-62705-0
Copyright © 2012 by Enrico Moretti
Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria
in association with The Zoe Pagnamenta Agency
© 2013 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Titolo dell’opera originale
New Geography of Jobs
I edizione marzo 2013
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Ai miei genitori,
lontani, ma sempre vicini
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I
Ruggine americana1
Ogni anno in India e in Cina milioni di contadini lasciano i loro
villaggi per andare a lavorare in una delle sempre più numerose fabbriche di qualche centro urbano in frenetica espansione. I
cittadini europei e americani non possono che stare a guardare,
con un mix di timore e inquietudine, i milioni di posti di lavoro creati in quelle fabbriche, l’incessante flusso di prodotti che
ne escono e il notevole incremento del tenore di vita che deriva da tutto questo. Forse gli europei e gli americani l’hanno dimenticato, ma non molto tempo fa accadeva a loro: la transizione da società a basso reddito a società della classe media è
avvenuta sfruttando proprio lo stesso propulsore, ovvero il lavoro legato alla produzione industriale di beni.
Sotto molti aspetti, alla fine della Seconda guerra mondiale
la famiglia media americana era da considerarsi povera. Nel
1946 la mortalità infantile era molto elevata. Salari e consumi
erano modesti. Gli elettrodomestici (frigoriferi, lavatrici e simili) erano rarità. Per la maggioranza delle persone acquistare un paio di scarpe nuove era un avvenimento. Solo il 2% delle famiglie possedeva un televisore. Nei tre decenni successivi,
però, la società americana conobbe uno dei più impressionanti sviluppi economici della storia. Salari e redditi lievitarono a
ritmo straordinario. I consumi, in ogni classe sociale, esplosero. In quasi tutto il paese si diffuse un fino allora sconosciuto
senso di benessere e di ottimismo. Nel 1975 la mortalità infantile era dimezzata e il tenore di vita raddoppiato. Gli elettrodomestici erano alla portata di tutti. Comprare un paio di scarpe
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nuove era un fatto ordinario, e il televisore aveva fatto il suo
ingresso in quasi tutte le case. In meno di una generazione gli
Stati Uniti erano diventati un paese ricco. Una dinamica simile si è verificata in Italia e in altri paesi europei.
L’aumento di reddito della classe media andava di pari passo con l’incremento della produttività nell’industria automobilistica, chimica, siderurgica ecc. Per milioni di lavoratori il «sogno americano» era rappresentato dalla stabilità di un posto
di lavoro in fabbrica. Il lavoro in fabbrica, infatti, dava accesso
non solo a un buon salario, ma anche a tutti gli aspetti sociali
che caratterizzano, sia dal punto di vista economico che culturale, la vita del ceto medio, dalla casa di proprietà al fine settimana libero, alle vacanze estive. In due parole: prosperità e ottimismo. All’epoca le regioni più dinamiche d’America erano i
grandi centri industriali, come Detroit, Cleveland, Akron, Gary
e Pittsburgh, realtà che tutto il mondo invidiava. La loro forza
e la loro floridezza erano visibilmente legate agli stabilimenti,
alle ciminiere, ai macchinari scuri di grasso e alla produzione
di beni tangibili, spesso oggetti di notevole mole. Detroit giunse
all’apice della potenza economica nel 1950, quando conquistò il
terzo posto tra le città più ricche d’America, grazie all’incredibile concentrazione di aziende all’avanguardia, molte delle quali
leader mondiali nei loro settori. Era la Silicon Valley dell’epoca,
capace di attrarre gli innovatori e i tecnici più creativi. L’identificazione della prosperità americana con l’industrializzazione
toccò il culmine negli anni Cinquanta, quando Charles Wilson,
all’epoca amministratore delegato della General Motors, pronunciò la celebre frase: «Ciò che è buono per General Motors è
buono per il paese, e viceversa».
La spinta che rese possibile tutto questo fu lo sbalorditivo incremento di produttività del lavoro. Grazie al miglioramento
delle pratiche gestionali e all’eccezionale aumento degli investimenti in nuovi e più moderni macchinari, nel 1975 la produzione oraria dell’operaio americano era il doppio che nel 1946.
Questa crescita di produttività esercitò sullo sviluppo del paese
un duplice effetto positivo. In primo luogo, portò a una consistente espansione delle retribuzioni. L’incremento di produttività era circoscritto al mondo dell’industria, ma l’aumento delle
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retribuzioni si estendeva a tutti i settori. In secondo luogo, mise
le aziende in condizione di produrre con maggiore efficienza e
dunque a costi più bassi. Beni come le automobili o gli elettrodomestici, fino allora proibitivi, divennero accessibili al consumo di massa. Nel 1946 una Chevrolet di medie dimensioni costava alla famiglia americana tipo la metà del reddito annuale.
Nel 1975 meno di un quarto.
La combinazione di prezzi più bassi e salari più alti incise in
profondità sulla struttura culturale ed economica della società
americana e fu accompagnata da un’enorme trasformazione
dell’esperienza di consumo, con la proliferazione dei centri commerciali e l’ascesa della pubblicità e del marketing di massa. I
consumi aumentarono a tal punto che fu coniato un nuovo vocabolo: «consumismo». Dopo secoli di lotta con la natura e la
penuria materiale, questa nuova, opulenta società offriva alla
famiglia media un livello di benessere materiale mai visto prima. Nella famiglia tipo i genitori avevano la certezza di vedere il benessere dei figli raddoppiato rispetto al loro.
Nell’autunno del 1978 l’occupazione nell’industria toccò lo
zenit, con circa 20 milioni di americani impiegati in fabbrica.
Quell’autunno l’economia andò ancora bene, facendo registrare una robusta espansione sia in termini di prodotto interno
lordo (pil) sia in termini di posti di lavoro. Poi, all’improvviso,
il motore si fermò. L’occupazione industriale, la forza motrice
che da sola era riuscita a traghettare l’America dalle incertezze
della Grande Depressione alla stabilità del secondo dopoguerra, segnò il passo, per poi arrestarsi e cominciare a decrescere.
All’inizio del 1979 la rivoluzione iraniana mandò il prezzo del
petrolio alle stelle. La prima ad accusare il colpo fu l’industria
automobilistica, ma ben presto il malessere si propagò agli altri comparti: l’impennata dei costi di produzione costrinse le
grandi aziende a ridurre i posti di lavoro. Quando il prezzo del
petrolio tornò infine a scendere, la crisi occupazionale non accennò a cessare. Quella che sulle prime era sembrata una riduzione temporanea dell’occupazione si rivelò invece un doloroso, prolungato declino tuttora in corso.
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L’agonia di un gigante
Il decadimento dell’industria manifatturiera americana è impressionante. Sebbene oggi la popolazione americana sia più
numerosa che nel 1979, i posti di lavoro nell’industria manifatturiera sono la metà. Oggi l’impiego nell’industria rappresenta più l’eccezione che la regola: riguarda, infatti, meno di un
americano su dieci, frazione peraltro in calo di anno in anno.
Ai nostri giorni è molto più probabile che un americano lavori in un ristorante che in una fabbrica. Diamo un’occhiata alla
figura 1, che mostra il numero degli addetti all’industria negli
ultimi venticinque anni.2 Dal 1985 negli Stati Uniti l’industria
manifatturiera ha perso in media 372.000 posti di lavoro l’anno. Non è solo l’effetto di fenomeni a breve termine, come le recessioni: l’industria perde posti di lavoro anche durante le fasi
di espansione. Il futuro non sarà migliore: secondo il dipartimento del Lavoro americano, diciannove dei venti settori che
nei prossimi dieci anni subiranno la più rilevante perdita ocFigura 1 - Il declino dei posti di lavoro
nell’industria manifatturiera
Posti di lavoro (in milioni)
22
19
16
13
10
1985
1990
1995
2000
2005
2010
Anno
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cupazionale appartengono al mondo manifatturiero, a partire
dalle fabbriche di «abbigliamento», «maglieria», «finiture tessili e foderami».3 Se l’andamento attuale dovesse continuare,
quando mio figlio, che oggi ha quattro anni, entrerà nel mondo del lavoro, in America ci saranno più addetti nelle lavanderie che nelle fabbriche. La dinamica occupazionale in Italia è
stata diversa, ma è innegabile che negli ultimi 10-15 anni l’occupazione manifatturiera nel paese sia stata sottoposta a pressioni simili, soprattutto nei settori dell’industria più tradizionali e meno innovativi.
Oggi l’industria manifatturiera non è più il motore del benessere per le comunità locali. È semmai vero il contrario. I grandi
centri manifatturieri d’America, un tempo il cuore orgoglioso e
prospero del paese, sono stati umiliati e si trovano ora alle prese con una contrazione demografica e con prospettive economiche disastrose. Sono solo la pallida ombra di ciò che erano
un tempo, e molte di esse rischiano di scomparire del tutto dalla mappa economica del paese. I loro nomi sono diventati sinonimo di atrofia urbana e declino irreversibile. Tra il censimento
del 2000 e quello del 2010, l’area metropolitana segnata dal più
consistente calo della popolazione è stata, a causa dell’uragano
Katrina, New Orleans. Al secondo posto c’è Detroit (–25%), seguita da Cleveland (–17%), Cincinnati (–10%), Pittsburgh (–8%),
Toledo (–8%) e St. Louis (–8%), tutti ex centri manifatturieri. È
come se, anno dopo anno, le città della Rust Belt, la «Cintura
della ruggine» in Michigan, Ohio e Pennsylvania, continuassero a essere investite da un loro uragano Katrina. Raggiunta la
massima espansione sul finire degli anni Cinquanta, Detroit ha
continuato a perdere abitanti per mezzo secolo e oggi la sua popolazione è allo stesso livello di cent’anni fa. Un terzo dei suoi
residenti vive sotto la soglia della povertà. I livelli di criminalità violenta sono tra i più alti d’America. Le fabbriche, le ciminiere, i macchinari scuri di grasso sono scomparsi, così come i
buoni posti di lavoro nell’industria e le loro ottime retribuzioni.
I numeri, per quanto impressionanti, non rendono però appieno l’idea dell’effetto che l’agonia dell’industria manifatturiera sta avendo sulla società di quella regione. In un certo senso,
siamo di fronte alla scomparsa di un intero modo di vivere. Un
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aspetto che nel dibattito sul lavoro viene spesso trascurato è che
a colpire maggiormente le comunità coinvolte non è l’esito immediato dell’emorragia occupazionale nell’industria, ma il fatto
che con la chiusura delle fabbriche in queste città spariscono anche molti posti di lavoro nel settore dei servizi. Una mia ricerca
rivela che per ogni posto di lavoro perso nell’industria, all’interno della comunità interessata ne vengono persi 1,6 in altri ambiti, che possono includere barbieri, camerieri, carpentieri, medici,
addetti alle pulizie, negozianti ecc. Particolarmente dolorosa è la
perdita di posti nel settore dell’edilizia. Nei centri della Rust Belt
l’edilizia offriva tradizionalmente ai lavoratori meno istruiti gli
impieghi meglio pagati al di fuori dell’industria. Ma tutti questi
posti di lavoro nell’edilizia erano in definitiva alimentati dalle
entrate dell’industria, e con il venir meno di queste hanno finito
per atrofizzarsi anche le altre attività del luogo.
Si avverte chiaramente una grande inquietudine riguardo alla
direzione del paese, un’apprensione che va ben oltre le difficoltà legate alla recessione del 2008-2011. Un recente sondaggio ha
evidenziato che il declino dell’industria statunitense sta trasmettendo agli americani un «senso di precarietà economica», dovuto alla diffusa preoccupazione che «gli Stati Uniti non siano
più in grado di produrre abbastanza beni».4 In una canzone del
1984, My Hometown, Bruce Springsteen coglieva perfettamente
lo stato d’ansia che attanagliava tante comunità della East Coast
e della Rust Belt di fronte alla chiusura delle fabbriche:
Now Main Street’s whitewashed windows and vacant stores,
Seems like there ain’t nobody wants to come down here no more.
Ora nella via del corso solo vetrine imbiancate e negozi vuoti,
è come se quaggiù non volesse venirci più nessuno.
A distanza di venticinque anni, il senso di desolazione ritratto in quei versi è ancora più esteso.
Il capovolgimento delle sorti del settore manifatturiero è uno
dei più importanti eventi della storia economica americana degli ultimi sessant’anni. Gran parte del pessimismo circa il futuro, compreso il dibattito sulla fine dell’«eccezionalismo americano», si può ricondurre al declino dell’industria. Se tra il 1946
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e il 1978 il tenore di vita della famiglia media è più che raddoppiato, dopo allora è rimasto essenzialmente invariato. Prendiamo, per esempio, il lavoratore americano medio, un quarantenne di sesso maschile con un diploma di scuola superiore e
circa vent’anni di esperienza lavorativa. Tra il 1946 e il 1978 la
sua paga oraria è aumentata da 8 dollari l’ora nel 1946 ai 16 attuali. Negli ultimi trent’anni è diminuita di 2 dollari.
Che cosa è successo? Quali sono le cause di questa incredibile inversione? Molti, soprattutto a sinistra, imputano la colpa alle banche e ai finanzieri. È un’idea profondamente inscritta nell’immaginario collettivo del paese e decisamente più
antica del movimento Occupy Wall Street. Nel celebrato film
di Oliver Stone Wall Street, la trasformazione economica degli anni Ottanta è presentata come uno scontro fra la candida onestà dell’uomo di strada, impersonata da Martin Sheen,
e la corrotta assenza di scrupoli morali di Wall Street, impersonata dal figlio, Charlie. Charlie Sheen interpreta il ruolo di
un giovane operatore di borsa pronto a qualsiasi cosa per farsi largo nello spietato mondo dei predatori di aziende in crisi,
tanto da arrivare quasi a distruggere la ditta in cui lavora suo
padre. Trent’anni dopo la prospettiva hollywoodiana sui malesseri dell’economia americana non è cambiata. Nel film del
2010 The Company Men Ben Affleck interpreta un dirigente che
perde il lavoro perché l’avido amministratore delegato ordina
una serie di licenziamenti allo scopo di compiacere Wall Street
e pompare le azioni dell’azienda. Le analogie tra i due film sono
evidenti. In entrambi, i buoni sono persone che producono oggetti fisici e concreti (nel primo film lavorano per una compagnia aerea, nel secondo per un cantiere navale), mentre i cattivi
trafficano con azioni e options, passano il tempo a gridare furiosamente al telefono l’ordine di comprare o di vendere azioni
e finiscono per distruggere i posti di lavoro altrui. In una delle scene più intense di The Company Men, due delle persone licenziate tornano sul luogo dove aveva sede il loro cantiere navale, ormai in abbandono, e sussurrano qualcosa come: «Qui
noi fabbricavamo cose vere».
Nell’immaginario di Hollywood, come in quello del paese, la
parte dei cattivi è affidata ad avidi finanzieri e cinici yuppie in
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azzimati completi da ufficio; ma nella realtà a distruggere l’occupazione del settore manifatturiero negli Stati Uniti non è stata Wall Street, è stata la storia. I problemi che affliggono il lavoro nell’industria americana sono strutturali e riflettono forze
economiche profonde che hanno acquisito consistenza nell’ultimo mezzo secolo: la globalizzazione e il progresso tecnologico.
Dalle fabbriche alle scuole private
Se c’è un marchio che incarna la storia industriale degli Stati
Uniti d’America è Levi Strauss & Company. Quando mi trasferii
a San Francisco, agli inizi degli anni Novanta, in città l’azienda
aveva ancora uno stabilimento. Il marchio Levi Strauss nacque
nel 1853, all’epoca della corsa all’oro, quando un immigrato tedesco cominciò a fabbricare pantaloni robusti per i cercatori. Da
allora l’impianto di San Francisco, uno delle migliaia di manifatture disseminate nei sobborghi urbani degli Stati Uniti, non
aveva mai cessato di funzionare. Nella primavera del 1994 ebbi
occasione di visitarlo: c’erano decine di donne, per lo più provenienti dall’America latina, intente a tagliare e cucire i famosi
jeans 501; ricordo nitidamente che mi domandai fino a quando
avrebbero potuto seguitare a farlo. Per vari anni l’azienda cercò
di proteggere i suoi dipendenti americani. Ma con paghe tra i 9
e i 14 dollari l’ora, più i contributi, i costi di produzione erano
decisamente superiori a quelli della concorrenza. Alla fine, nel
2001, la società chiuse tutti i suoi impianti americani e trasferì la produzione in Asia. Oggi lo stabilimento di San Francisco
è una scuola elementare privata, un istituto quacchero d’élite
con una retta annua da 24.045 dollari.
La vicenda non mi stupì. Ero semmai sorpreso che la Levi
Strauss avesse resistito alla delocalizzazione tanto a lungo. Altre ditte del settore, come Gap, Ralph Lauren e Old Navy, avevano spostato all’estero la propria produzione già da molto
tempo. Sotto questo aspetto, il settore dell’abbigliamento può
essere preso a emblema del settore manifatturiero nel suo complesso. Nel decennio che seguì alla Seconda guerra mondiale, il
tessile era una delle principali voci del mercato del lavoro americano. In termini di occupazione la più importante concentra-
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zione industriale degli Stati Uniti non era l’industria dell’auto
di Detroit, ma l’industria dell’abbigliamento di New York.5 Ancora negli anni Ottanta più di un milione di americani lavorava per imprese nazionali del settore. Oggi la cifra si è contratta
di oltre il 90%. Provate a guardare dove sono fabbricati gli abiti che indossate. Se si tratta di capi venduti da una ditta americana, probabilmente saranno stati prodotti da qualche terzista
ubicato in paesi come il Vietnam o il Bangladesh. I brand americani godono di ottima salute, ma solo una manciata di posti di
lavoro – nel design, nel marketing e nella distribuzione – sono
rimasti negli Stati Uniti.
È interessante osservare come, almeno in superficie, questo
quadro assomigli a quello dell’iPhone: i posti legati al design e
al marketing sono rimasti in America, ma la produzione materiale è stata completamente delegata a fornitori asiatici. C’è tuttavia un’importante differenza. Nel settore dell’abbigliamento,
e in generale nei settori dei prodotti tradizionali, i posti legati al design e al marketing sono ormai pochi e non accennano
a crescere in modo significativo, mentre nel settore dell’innovazione gli impieghi nel design e nella progettazione si stanno
moltiplicando a ritmo sostenuto.
Fino a non molto tempo fa le importazioni da paesi a basso
reddito erano modeste. Ancora nel 1991 l’import americano di
manufatti da questi paesi era inferiore al 3%, un valore troppo
contenuto per avere rilevanti ricadute occupazionali. Nel corso degli ultimi vent’anni, però, il mondo è diventato un villaggio globale con scambi in perenne espansione. Nel 2000 la
percentuale di importazioni da paesi a basso reddito verso gli
Stati Uniti era raddoppiata; e nel 2007 lo era nuovamente, con
la Cina come principale responsabile dell’incremento. Si era verificato un enorme esodo della produzione di beni materiali dai
paesi ricchi, dove il costo del lavoro era elevato, ai paesi poveri, dove era invece modesto. Come mostra il caso dell’iPhone,
nel mondo esistono posti in cui è possibile produrre molti beni
materiali, anche sofisticati, a condizioni assai più convenienti
che negli Stati Uniti.
L’attrattiva dei paesi in via di sviluppo non si limita solo ai
costi bassi, ma include anche la maggiore flessibilità. Poiché nei
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paesi in via di sviluppo il costo del lavoro è basso, le fabbriche
tendono a usare meno macchinari che in America, e ciò conferisce loro il vantaggio supplementare di una maggiore flessibilità
e adattabilità ai cambiamenti improvvisi. In una recente intervista, un uomo d’affari americano che opera in Cina ha dichiarato: «La gente pensa che la Cina sia economica; ma più che altro
è veloce».6 E un industrial designer americano, anch’esso operante in Cina, ha aggiunto: «Le persone sono le macchine più
flessibili. I macchinari hanno bisogno di essere riprogrammati,
mentre una persona può essere messa in condizione di svolgere una mansione completamente diversa nel giro di una settimana». A differenza degli stabilimenti americani, le fabbriche
cinesi possono reagire ai cambiamenti dei piani di produzione
o ai mutamenti di design quasi in tempo reale.
L’effetto della globalizzazione sul lavoro delle tute blu americane non è ovunque lo stesso. Un nuovo e importante studio
degli economisti David Autor, David Dorn e Gordon Hanson
mostra che l’impatto delle importazioni dalla Cina dipende in
misura rilevante dal luogo in cui si vive.7 Città come Providence
e Buffalo hanno settori manifatturieri fortemente orientati verso
produzioni tradizionali a scarso valore aggiunto, simili dunque
a quelle cinesi, e hanno perciò particolarmente risentito dell’inasprita concorrenza. Città come Washington e Houston invece,
dedite a tutt’altro tipo di produzione, ne hanno risentito assai
meno. L’indagine evidenzia come nelle città in concorrenza diretta con la Cina le importazioni abbiano generato un aumento nella disoccupazione locale, un calo della partecipazione alla
forza lavoro, nonché retribuzioni più basse. Ed è interessante
osservare che non tutti questi costi sono andati a gravare sulla
manodopera direttamente interessata: parte di essi è ricaduta
sul resto degli americani, sotto forma di aiuti statali. Lo studio
ha messo in luce, infatti, la stretta correlazione tra le importazioni dalla Cina e l’accresciuto ricorso a strumenti di ammortizzazione sociale, quali l’indennità di disoccupazione, i buoni
pasto per gli indigenti e persino la pensione di invalidità, spesso utilizzata come un dissimulato strumento assistenziale. Se,
insomma, l’effetto immediato di questi sviluppi commerciali
si esaurisce in gran parte a livello locale, i costi finali sono so-
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stenuti, almeno in una certa misura, dai contribuenti di tutto il
paese attraverso i programmi federali di assistenza economica.
L’effetto della globalizzazione varia notevolmente anche in
base alla capacità di reazione delle imprese. Da un recente studio di Nicholas Bloom, Mirko Drava e John Van Reenen emerge che l’aumento degli scambi commerciali con i paesi in via di
sviluppo accelera il ritmo dell’aggiornamento tecnologico, ma
che gli esiti finali dipendono dalla determinazione di ciascuna
impresa a adeguarsi.8 Usando dati relativi a mezzo milione di
aziende in dodici paesi industrializzati per il periodo 1996-2007,
i tre economisti hanno scoperto che le ditte esposte alla concorrenza cinese tendono a reagire aggiornando la propria tecnologia con una serie di operazioni, tra cui l’acquisto di nuovi computer, maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, creazione
di nuovi brevetti e revisione delle strategie gestionali. L’ironia
della sorte ha voluto che questa minaccia esterna si traducesse in un incentivo alla produttività delle imprese americane, e
dunque in un impulso alla crescita economica del paese. Non
tutti ci hanno guadagnato. Se di fronte alla crescita dell’import
dalla Cina le aziende tecnologicamente più avanzate sono in
genere riuscite a reagire con successo, quelle a più basso contenuto tecnologico – quelle cioè con minori capacità di innovazione, minori investimenti nell’informatizzazione e minore
produttività – stanno incontrando serie difficoltà, tanto da essere costrette a licenziare, e a volte persino a chiudere. La globalizzazione, insomma, stimola il progresso tecnologico, che fa
aumentare la domanda di laureati, ma ridurre quella di lavoratori non qualificati.
Il mito dell’artigianato locale
Naturalmente, non mancano le eccezioni al declino. Rispetto ad altri settori industriali quello della moda di lusso è, per
esempio, meno sensibile ai costi del lavoro e più legato al luogo
in cui stilisti e professionisti di sartoria si trovano a operare. Un
altro campo che sta conoscendo un evidente ritorno d’interesse
è quello dell’artigianato locale. Tutto ciò che è prodotto locale,
si tratti di alimenti o vestiti, di biciclette o mobili, è oggi in gran
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voga. Da New York a Providence, da Portland a Minneapolis, le
botteghe artigiane si stanno moltiplicando, così come le boutique
locali di tendenza che ne vendono i prodotti.
Il quartiere di San Francisco, in cui un tempo sorgeva la fabbrica della Levi’s, pullula ora di botteghe che propongono
prodotti artigianali: ditte come Cut Loose, che produce in loco
un’accattivante linea di abiti cuciti e colorati su ordinazione.
Proprio di fronte all’ex fabbrica della Levi’s c’è la boutique
The Common, specializzata in «fornitura, produzione e design
di capi senza tempo, realizzati con tecniche tradizionali»; le sue
originali magliette prêt-à-porter sono disegnate, tagliate e cucite in California. Qualche isolato più in là, quella che un tempo era l’officina di un carrozziere si è trasformata in un opificio che produce pregiato cioccolato fatto a mano. Situata in un
bell’edificio di mattoni rossi, la Dandelion Chocolate vende al
prezzo di 9 dollari ciascuna tavolette di cioccolato prodotte con
tecniche tradizionali e con i migliori semi da coltura biologica
del Madagascar. Due o tre chilometri a est la dodocase­ha rilevato una vecchia legatoria sull’orlo del fallimento per produrvi custodie per iPad fatte a mano, personalizzabili con monogrammi e integrate con parti ecologiche in bambù. A Brooklyn
la produzione locale di generi alimentari è in pieno boom.
«Si ha l’impressione che ogni ventottenne del quartiere abbia
da offrire la sua linea di sottaceti artigianali» scrive la rivista
«Metropolis».9 Nel Brooklyn Navy Yard c’è un vero fermento di
piccole officine, e a causa del continuo arrivo di nuovi produttori lo spazio comincia a scarseggiare. Il contrasto con le centinaia di fabbriche abbandonate di Detroit e di Flint non potrebbe essere più flagrante.
Un centinaio di anni fa Brooklyn era una delle capitali dell’industria urbana d’America. Al suo apogeo, durante la Seconda
guerra mondiale, nel cantiere navale della zona, il Navy Yard, lavoravano 70.000 persone, alternandosi in tre turni, ventiquattr’ore
su ventiquattro. Guardando l’odierno fermento si sarebbe tentati di concludere che l’industria urbana è rinata, sia pure sotto forma di produzione hi-tech su piccola scala, realizzata da
giovani con istruzione universitaria e orientata al mercato locale. Ferra Designs, che ha in affitto nel Navy Yard uno spazio
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di oltre 900 metri quadrati, è un’officina specializzata in moduli per strutture architettoniche; recentemente uno dei fondatori,
Jeff Kahn, ha dichiarato a «Metropolis» che i quindici dipendenti sono in prevalenza industrial designer diplomatisi al vicino
Pratt Institute. «La maggior parte di loro ha meno di trent’anni.
Vogliono capire come si fabbricano le cose. È una vera rinascita
dell’artigianato.»10 Secondo Kahn il successo del Navy Yard segnala il potenziale risveglio dell’industria urbana in America.
«In Cina i costi d’impresa stanno lievitando» dice «e al nostro
paese si presenta l’occasione di riconquistare una parte della sua
piattaforma industriale puntando su tecnologie d’avanguardia
e su una nuova generazione di giovani motivati.»
È una formula che sta prendendo piede in molte aree urbane degli Stati Uniti, incontrando il favore di migliaia di giovani interessati a lavorare con le proprie mani. Quando ho fatto
visita all’ultimo produttore di abiti di nicchia insediatosi nella zona dell’ex stabilimento Levi’s, non ho potuto fare a meno
di constatare l’ironia della situazione: nello stesso luogo in cui,
solo vent’anni prima, donne ispano-americane pressoché prive
di istruzione scolastica tagliavano e cucivano indumenti della
Levi’s, oggi decine di giovani alternativi con laurea o master
tagliano e cuciono prodotti analoghi.
Queste iniziative hanno un significativo interesse culturale e sono oggetto di crescenti attenzioni da parte della stampa
locale, trattandosi di realtà che meritano di essere sostenute.
La produzione locale contribuisce a trattenere una parte della
ricchezza che avrebbe altrimenti potuto lasciare il paese, e in
molti casi può vantare un impatto ambientale molto contenuto. Ma è altresì evidente che iniziative del genere non rappresentano il futuro dell’occupazione negli Stati Uniti. Sono destinate a rimanere fenomeni di nicchia perché il numero di posti
di lavoro che riescono a generare è semplicemente troppo modesto per incidere in misura significativa. Soprattutto, questi
impieghi non possono fungere da motore per la crescita occupazionale di una comunità; sono piuttosto il risultato di una ricchezza prodotta in qualche altro settore. È un punto essenziale,
anche se il più delle volte mal compreso. I prodotti dell’industria tradizionale vengono tendenzialmente venduti in ogni par-
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te del mondo. Il consumo di beni fabbricati a livello locale, invece, dipende per definizione dalla ricchezza esistente in una
certa regione: nell’economia del luogo dovrà esserci qualcuno
che sborsi i 40 dollari per le magliette fatte a mano o i 9 dollari
per le tavolette di cioccolato artigianale. Nel caso di città come
New York e San Francisco, a generare la ricchezza che sostiene
gli sforzi dell’artigianato locale sono l’industria della finanza
e quella dell’hi-tech.
Un’altra ragione che limita la capacità della produzione manifatturiera locale di agire da motore occupazionale del futuro è che essa ha successo per ora, perché viene percepita come
qualcosa di speciale e diverso. Proprio per questo è intrinsecamente difficile che tale settore raggiunga la scala di produzione
industriale e oltrepassi i limiti di ciò che il consumatore identifica come «speciale». Prendiamo, per esempio, il caso della
American Apparel, che gestisce la più grande fabbrica d’abbigliamento in tutto il Nordamerica, un impianto da cinquemila addetti situato nel centro di Los Angeles, a pochi isolati dai
grattacieli del quartiere finanziario. Il marketing dell’azienda
sottolinea il fatto che i dipendenti vengono pagati decorosamente (12 dollari l’ora per gli addetti alla cucitura). Le magliette dell’American Apparel hanno incontrato il favore di molti
giovani urbani, consumatori istruiti e attenti alla moda. L’aspetto curioso è che queste magliette non hanno niente di speciale,
a parte il posto in cui sono fabbricate. È un segno dei tempi: la
produzione di capi d’abbigliamento negli Stati Uniti è diventata
una tale rarità che il semplice fatto che un indumento sia confezionato nel centro di Los Angeles è sufficiente a renderlo attraente agli occhi dei ragazzi alternativi di Williamsburg, Austin
o Washington. Poiché il marchio è percepito come qualcosa di
speciale, l’azienda può vendere in sovrapprezzo, coprendo così
i suoi costi di produzione, piuttosto alti. Sfortunatamente per
gli altri lavoratori del tessile americano, però, questa formula
non può essere riproposta su vasta scala. Il modello di American
Apparel si fonda sul presupposto che i prodotti realizzati siano
unici. Se tutte le aziende stabilissero la propria produzione nelle aree urbane degli Stati Uniti, l’azienda perderebbe il suo unico vantaggio competitivo.
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In che modo la Cina e Walmart hanno aiutato i poveri
Gli americani non hanno problemi di autostima. A differenza
di quelli europei, i politici americani dichiarano senza pudore
che gli Stati Uniti sono «la più grande nazione della terra» e i
lavoratori americani «i migliori lavoratori del mondo». La realtà è che i lavoratori americani, proprio come quelli degli altri
paesi, sono bravi in alcune cose e meno in altre. Non c’è niente di male in questo. Uno dei vantaggi principali di un’economia globale è che non è necessario eccellere in tutto. Non vale
nemmeno la pena di provarci, è molto più saggio lasciare che
siano altri paesi a fabbricare le cose, se lo fanno con maggiore
efficienza, purché si sia capaci di offrire loro qualcosa in cambio.
È razionale: è meglio che David Beckham si concentri a giocare
a calcio e lasci che a costruirgli la casa, tagliargli i capelli e confezionargli i vestiti siano altri.
Gli economisti sono in disaccordo quasi su ogni tema, tranne che sul principio dei vantaggi comparati. L’idea di fondo è
che se ciascun paese si concentra sulle industrie in cui è relativamente più produttivo, ciò va a beneficio di tutti. Ogni paese
esporta i prodotti che è particolarmente vocato a fabbricare e
importa beni realizzati relativamente con maggiore efficienza
all’estero. Il risultato finale è che tutti si ritrovano un po’ più ricchi. In realtà, i cittadini di paesi europei e americani si ritrovano molto più ricchi: le stime più attendibili dicono che il reddito
nazionale americano è di centinaia di miliardi di dollari più alto
di quanto sarebbe se non ci fosse il commercio internazionale.
L’effetto è così diffuso che ormai lo diamo per scontato. Infatti, i consumatori di tutto il mondo ritengono un fatto acquisito
che la maggior parte dei prodotti elettronici – computer, televisori giganti a schermo piatto, sistemi audio – diventino sempre più a buon mercato, anno dopo anno.
I dati dimostrano che, nei settori in cui le importazioni dalla Cina hanno registrato il maggiore incremento, i prezzi dei
beni di consumo negli Stati Uniti hanno evidenziato la maggiore flessione.
È importante notare che a beneficiare di tale tendenza sono
stati più i poveri che i ricchi. Recentemente, due economisti
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dell’Università di Chicago hanno condotto una ricerca sui modelli di consumo di famiglie con vario reddito.11 Ogni volta che
i soggetti coinvolti nello studio uscivano dal negozio in cui avevano fatto la spesa, prendevano nota di tutti i prodotti acquistati. Sfruttando questo patrimonio di dati così dettagliato, i due
studiosi hanno scoperto che il prezzo dei beni scelti da un tipico consumatore a basso reddito tende a crescere meno del prezzo dei beni scelti dal tipico consumatore a reddito elevato. Dalla ricerca è emerso che, dal 1994, l’indice dei prezzi è cresciuto
tre volte più lentamente per il 20% delle famiglie più povere,
che per il 20% di quelle più ricche.
Due plausibili spiegazioni di questa differenza sono le importazioni dalla Cina e la catena di ipermercati Walmart. I
consumatori a basso reddito tendono, in proporzione, a comprare un maggior numero di beni fabbricati in Cina e in altri paesi in via di sviluppo (cose come giocattoli, vestiti economici o elettronica di consumo a buon mercato). Grazie
alla globalizzazione, negli ultimi quindici anni il prezzo di
questi beni è aumentato meno di quello di altri, e in molti
casi, come per l’elettronica di consumo, è addirittura calato.
Dal canto loro, i consumatori con redditi alti hanno la tendenza a spendere, in proporzione, di più per i servizi personali (parrucchiere, pulizie domestiche, pasti al ristorante,
trattamenti sanitari e via dicendo). Inoltre, dal momento che
i servizi personali sono meno esposti alla concorrenza straniera, i consumatori ad alto reddito finiscono per trarre dalla globalizzazione minori vantaggi.
Un ruolo importante è stato giocato anche dall’espansione
di ipermercati come Walmart. Rispetto a quella dei consumatori a reddito elevato, la frequenza con cui i consumatori a basso reddito fanno acquisti negli ipermercati è doppia. L’impatto degli ipermercati è quindi più consistente sui poveri che sui
ricchi. E anche quando non fanno la spesa da Walmart, i consumatori a basso reddito traggono tendenzialmente beneficio dalla competizione sui prezzi che la catena genera, poiché
molti degli ipermercati sono situati in zone a reddito modesto.
L’economista Emek Basker ha studiato gli effetti dell’apertura
di un Walmart sui prezzi di quell’area, scoprendo non solo che
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i prezzi di Walmart erano più bassi, ma anche che l’entrata in
scena di un nuovo ipermercato aveva costretto gli altri negozi
del luogo ad abbassare i prezzi dal 6 al 12%.12
La teoria dei vantaggi comparati ci dice che, commerciando
tra loro, i paesi con livelli di sviluppo diversi hanno molto da
guadagnare, e ben poco da perdere in termini di occupazioni.
I paesi emergenti, come la Cina, il Brasile e l’India, hanno economie talmente diverse da quella statunitense da recare con
sé vantaggi d’interscambio potenzialmente enormi. Se si considerano le cose dal punto di vista dei vantaggi comparati, il
quadro d’analisi della competizione internazionale proposto
continuamente dai media si rivela sbagliato. L’idea diffusa dai
media sulla globalizzazione è che se uno dei nostri partner commerciali, per esempio la Cina o la Polonia, diventa più produttivo, l’effetto per noi sarà negativo, perché quel paese ci sottrarrà posti di lavoro. Il commercio internazionale, però, non è un
gioco a somma zero, come una partita di calcio, dove l’avversario vince o perde. La realtà è che, se uno dei nostri partner
commerciali diventa più produttivo, i beni che compriamo da
quel paese diventano più economici. E questo ci rende, come
consumatori, un po’ più ricchi.
Nel complesso l’effetto dell’import da paesi a basso salario è
stato tutt’altro che omogeneo: il calo occupazionale ha interessato soprattutto i lavoratori meno qualificati. Nello stesso tempo i beni importati hanno prezzi più contenuti e ciò fa risparmiare soldi al consumatore. Uno dei paradossi più significativi
dell’era della globalizzazione è che i gruppi sociali maggiormente colpiti sul fronte occupazionale sono gli stessi che hanno tratto i maggiori benefici in quanto consumatori.
Il paradosso della produttività
La globalizzazione è solo uno dei fattori che concorrono al
declino occupazionale nell’industria. Malgrado i problemi, gli
Stati Uniti restano ancora produttori di molti beni materiali.
Se alcuni tendono a dimenticarlo è perché su quasi tutte le etichette dei prodotti che vediamo nei negozi c’è scritto «made in
China». Questo è senz’altro vero per molti beni di consumo, ma
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non per quelli di alto livello non destinati al consumo, come gli
aeroplani, i macchinari industriali e le apparecchiature mediche d’avanguardia. I media lo dicono raramente, ma le fabbriche americane hanno gli stessi volumi di produzione di quelle
cinesi, doppi di quelle giapponesi e multipli di quelle tedesche,
coreane e italiane. Il settore manifatturiero americano ha dimensioni superiori all’intera economia inglese, e sta continuando a
crescere. Dal 1970 l’industria americana ha raddoppiato la sua
produzione ed è tuttora in espansione.
Com’è possibile? Se la produzione continua a crescere, perché
nell’industria manifatturiera i posti di lavoro si stanno contraendo? La ragione di questa apparente contraddizione è che grazie
al progresso tecnologico e agli investimenti in sofisticati macchinari di nuova concezione, le fabbriche americane sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità
di beni impiegano sempre meno manodopera. Oggi, in media,
l’operaio americano fabbrica ogni anno beni per 180.000 dollari, oltre il triplo che nel 1978. Per l’economia in generale l’accresciuta produttività è un’ottima cosa, ma per le tute blu ha conseguenze negative. Pensiamo, per esempio, alla General Motors.
Negli anni Cinquanta, gli anni d’oro di Detroit, ogni operaio
dell’azienda produceva una media di sette auto l’anno. Oggi
ne produce 29 l’anno. Il calcolo dei posti di lavoro persi è molto
semplice: per fabbricare ogni auto oggi la General Motors impiega un numero di operai quattro volte inferiore a quello del
1950. Gli operai dell’industria producono più che in passato, e
di conseguenza guadagnano stipendi più alti, ma sono numericamente ridotti.
È questo un altro dei curiosi paradossi della crescita economica: gli aumenti di produttività abbassano i prezzi del consumo
e innalzano i salari, ma finiscono per cancellare posti di lavoro. I critici pongono l’accento su questa perdita, ma l’aumento
nella produttività del lavoro è l’unico modo in cui una società
può diventare più prospera e migliorare il tenore di vita dei propri cittadini. Si tratta di un fenomeno tutt’altro che nuovo. È la
stessa dinamica che ha attraversato la società americana quando è passata da un’economia prevalentemente agricola a una
industrializzata. Centocinquant’anni fa metà della manodope-
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ra americana lavorava nei campi. Oggi solo l’uno per cento dei
lavoratori è impiegato nel comparto agricolo. Ciononostante,
il progresso tecnologico (trattori, fertilizzanti, sementi migliori
ecc.) permette oggi di coltivare in modo molto più produttivo
e a prezzi molto più contenuti. L’incremento della produttività
agricola determinatosi nel secolo scorso ha portato con sé un
aumento considerevole del reddito nelle aree rurali, ma anche
la riduzione del bisogno di lavoratori, portando così i contadini a trasferirsi in massa nelle fabbriche manifatturiere. Ora si
sta realizzando una trasformazione analoga: la produttività industriale sta distruggendo posti di lavoro nel settore, ma ci sta
rendendo, in media, più ricchi.
Le nuove industrie non ne sono immuni. Osserviamo la
figura 2, che mostra l’evoluzione delle dinamiche occupazionali nelle industrie di computer e semiconduttori negli Stati Uniti.13 Negli ultimi venticinque anni le vendite mondiali di computer e semiconduttori sono esplose, ma in entrambi i settori
l’occupazione è precipitata. Oggi, in America, lavorano alla fabbricazione di computer meno addetti che nel 1975, quando il
personal computer non era ancora stato introdotto. La figura
mostra che la massima occupazione si raggiunse nel 1988, anno
in cui la Apple lanciò il Macintosh IIx e la Commodore riuscì a
vendere un milione e mezzo di C64 ai fan estasiati dal prodotto (me incluso). L’industria dei semiconduttori ha conosciuto
la stessa parabola. Stati e città fanno a gara per attirare stabilimenti di semiconduttori, ma nel settore il numero dei posti di
lavoro è in calo da ormai un decennio.
Questo è probabilmente l’aspetto del declino dell’industria
manifatturiera americana che colpisce di più: nemmeno i sofisticati prodotti elettronici hi-tech hanno saputo sottrarsi al declino occupazionale. Quando ho mostrato questi diagrammi a
Paul Thomas, responsabile economico dell’azienda leader mondiale nel campo dei semiconduttori, la Intel, non era particolarmente sorpreso. Le fabbriche di Intel sono tra le più avanzate
ed efficienti al mondo, e proprio per questo impiegano sempre
meno persone. L’automazione ha reso la produzione di personal computer e semiconduttori molto meno labor-intensive. Oltre a ciò, la fabbricazione e l’assemblaggio di buona parte dei
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Figura 2 - I posti di lavoro nell’industria dei computer
e dei semiconduttori
INDUSTRIA DEI COMPUTER
Posti di lavoro (in migliaia)
400
300
200
100
0
1985
1990
1995
2000
2005
2010
2005
2010
Anno
INDUSTRIA DEI SEMICONDUTTORI
Posti di lavoro (in migliaia)
800
600
400
200
0
1985
1990
1995
2000
Anno
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componenti è stata trasferita all’estero, come abbiamo visto nel
caso dell’iPhone. Il primo lotto di duecento computer Apple I
fu assemblato nel 1976 da Steve Jobs e Steve Wozniak nel leggendario garage di Los Altos, nel cuore della Silicon Valley. Negli anni Ottanta la Apple fabbricava la maggior parte dei suoi
Mac in uno stabilimento situato poco lontano, a Fremont. Ma
nel 1992 l’impianto fu chiuso e la produzione spostata, prima in
aree più economiche della California orientale e del Colorado,
poi in Irlanda e a Singapore. È lo schema seguito da tutte le altre
imprese americane. Come ha scritto James Fallows «tutti conoscono Dell, Sony, Compaq, hp, Lenovo-ibm, ThinkPad, Apple,
nec, Gateway e Toshiba. Quasi nessuno ha mai sentito parlare di Quanta, Compal, Inventec, Wistron, Asustek. Eppure il
90 per cento dei computer portatili e dei notebook venduti con
quei marchi famosi è in realtà fabbricato negli impianti di una
di queste cinque aziende, in Cina».14
Paul Krugman ha detto che «le depressioni, l’inflazione galoppante o la guerra civile possono rendere un paese povero,
ma solo l’aumento di produttività può renderlo ricco». Aveva
ragione. I dati confermano che negli ultimi duecento anni l’incremento di reddito pro capite degli americani ha seguito passo per passo l’aumento della produttività del lavoro. Ciò è vero
per ogni paese del mondo e per quasi tutti i periodi storici. Ed
è logico: in fondo, maggiore produttività del lavoro significa
semplicemente che per ogni ora lavorata il lavoratore è in grado di realizzare un maggior numero di prodotti. Ma qual è la
fonte di questi aumenti di produttività? Nella storia dell’umanità tra i fattori che hanno contribuito in modo rilevante a migliorare il tenore di vita delle persone vanno annoverati, da sempre, l’innovazione e il progresso tecnologico. L’innovazione è
la forza motrice in virtù della quale, a partire dalla rivoluzione
industriale, le economie occidentali sono potute crescere a una
velocità senza precedenti. Il nostro benessere materiale dipende essenzialmente dall’incessante produzione di nuove idee,
nuove tecnologie e nuovi prodotti.
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