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La competitività del vino italiano nel mercato mondiale

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La competitività del vino italiano nel mercato mondiale
■ Economia della produzione
La competitività del vino italiano
nel mercato mondiale
Denis Pantini*
1. Premessa
Il vino rappresenta, nel panorama degli scambi agroalimentari mondiali, uno dei
prodotti più globalizzati. Venduto e consumato ormai ai quattro angoli del mondo,
il commercio di vino è passato da meno di 7 miliardi sul finire degli anni ’80 ad oltre 34 miliardi di dollari nel 2013.
Una crescita che trova poche analogie tra i prodotti agroalimentari. Nel periodo
considerato, il commercio di vino è infatti cresciuto (+390%) più di quanto abbiano fatto registrare sia le derrate agricole che sono alla base dell’alimentazione umana come i cereali (+260%), la carne (+370%), il latte (+285%), sia altri prodotti voluttuari e «globalizzati» da più tempo come le banane (+356%) o il caffè (+240%)1.
Si tratta di uno sviluppo fondamentalmente trainato da una nuova geografia dei
consumi e della produzione che vede diminuire il peso dei mercati più tradizionali
– come quelli del Sud Europa, Italia compresa – a favore di paesi «emergenti» (in
particolare dell’Emisfero Sud e dell’Asia). Uno sviluppo sostenuto da una crescita
del benessere che sta interessando la popolazione dei Bric e delle altre Economie
Emergenti del Sud-Est asiatico dove la ricchezza pro-capite, e conseguentemente la
capacità di spesa, sono cresciute sensibilmente e continueranno a farlo anche in futuro, a ritmi per noi ormai sconosciuti. Si stima che nella sola Cina, entro il 2020
più di 60 milioni di abitanti andranno ad ingrossare le file dei «nuovi ricchi» (quelli cioè con redditi annui superiori ai 30.000 dollari), mentre altri 24 milioni lo faranno in Cina, 8 in Brasile e 6 in Russia.
Lo scenario con cui si confronta il vino italiano è dualistico: ad un mercato nazionale che evidenzia un calo nei consumi ormai strutturale si contrappone un mercato estero che invece mostra rilevanti tassi di crescita e prospettive future di ulteriore incremento.
Alla luce di tale quadro, il presente contributo fornisce un’analisi sui cambiamenti avvenuti nel mercato mondiale del vino e il posizionamento competitivo detenuto in tale ambito dai prodotti italiani, al fine di identificare le prospettive che si
* Nomisma
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S.p.A.
Fonte: Oecd-Fao.
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delineano sulla tenuta e sostenibilità economica dell’intera filiera vitivinicola nazionale. Una filiera che, come viene evidenziato nella parte finale del lavoro, presenta
risvolti sociali, territoriali ed economici di assoluto rilievo.
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2. Produzione e consumo mondiale di vino
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Nel 2013 la produzione mondiale di vino è stata pari a quasi 277 milioni di ettolitri, un quantitativo superiore del 4% rispetto ai livelli ottenuti un decennio prima. Sebbene la produzione risulti variabile di anno in anno a seconda dei fattori
climatici, la tendenza di fondo evidenzia una sostanziale crescita, sostenuta principalmente dai paesi del cosiddetto «Emisfero Sud». Dalla tabella 1, che riporta i primi 10 produttori mondiali, si evince infatti come lo sviluppo produttivo più rilevante abbia interessato paesi come Cile, Australia, Sud Africa e Cina, mentre per
quanto riguarda il continente europeo Francia, Italia e Germania denotano una
sensibile riduzione.
Tabella 1 – I principali paesi produttori di vino (milioni di ettolitri)
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Fonte: Wine Monitor
Fa eccezione solamente la Spagna che, a seguito di rinnovi negli impianti viticoli, ha incrementato la resa produttiva. Tuttavia, pur a fronte di questo aumento, la
quota congiunta detenuta dai 4 principali paesi europei sulla produzione mondiale
è scesa in poco più di un decennio dal 54% al 50%.
La crescita nella produzione risulta trainata da un aumento dei consumi di vino
a livello mondiale che, come evidenziato nella figura 1, sono passati da 226 a 240
milioni di ettolitri tra il 2000 e il 2013.
Fonte: Wine Monitor
È interessante notare come a fronte di questa crescita nei consumi avvenuta nell’ultimo decennio (circa +6%) non è corrisposto solamente un aumento di produzione ma uno sviluppo più che proporzionale del commercio internazionale. Come
ricordato anche in premessa, il vino ha conosciuto un vero e proprio boom in termini di scambi mondiali, tanto che sul fronte dei quantitativi, l’export è cresciuto
del 43% tra il 2003 e il 2013, passando da 69 a circa 100 milioni di ettolitri.
Questa diversa velocità negli andamenti tra consumi e scambi internazionali sottende sostanzialmente ad una nuova allocazione degli acquisti di vino tra le diverse
aree del pianeta, frutto di una vera e propria «migrazione» dei consumi dai paesi
«tradizionali» produttori di vino ad altri contesti dove la coltivazione della vite in
termini industriali rappresenta un investimento «relativamente» nuovo o dove il vino è entrato recentemente – o sta entrando – a far parte delle abitudini alimentari
della popolazione locale.
Considerando i dieci principali mercati di consumo del vino a livello mondiale
(che assieme incidono per il 70% dei consumi complessivi di tale prodotto), la tabella 2 suddivide tra quelli in cui la tendenza è generalmente verso un calo strutturale e quelli che all’opposto evidenziano una crescita. La suddivisione è chiara: le
principali diminuzioni riguardano infatti i paesi «tradizionali» produttori di vino, in
particolare europei come Francia, Italia, Spagna le cui riduzioni nei consumi risultano comprese tra un minimo del 25% ad un massimo del 41% tra la media del
periodo 1991-1995 e il 2013.
Economia della produzione
Figura 1 – I consumi di vino a livello mondiale (milioni di ettolitri)
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Tabella 2 – Top 10 mercati di consumo del vino a livello mondiale
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Fonte: Wine Monitor
Al contrario, le principali dinamiche di crescita, nel periodo considerato, attengono al mercato cinese, britannico e russo. In termini assoluti è però quello statunitense a svettare in termini di volumi di consumo a livello mondiale, seguito dalla
Germania che, sebbene possa anch’esso essere inserito tra i paesi produttori tradizionali europei, sembra fare eccezione rispetto a tale categoria sul fronte delle tendenze in atto nei consumi di vino.
3. I player internazionali
La migrazione dei consumi di vino appena descritta ha portato, nel giro di appena un ventennio, a quell’esplosione nel valore del commercio internazionale che
per oltre il 90% risulta oggi nelle mani di appena nove paesi esportatori. Sebbene
Francia, Italia e Spagna rappresentino ancora i primi tre player mondiali per valore
dell’export, tra il 1991 e il 2013 sono stati i produttori dell’Emisfero Sud ad incrementare sensibilmente le proprie quote, a scapito soprattutto del leader di mercato,
la Francia (figura 2).
Economia della produzione
Figura 2 – Evoluzione nelle quote all’export mondiale di vino dei principali player
(% sui valori)
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Fonte: Wine Monitor
La quota all’export dei vini francesi è passata da oltre il 51% del totale mondiale a circa il 34%. Italia e Spagna sono riuscite ad incrementare le posizioni, mentre
i vini dell’Emisfero Sud (e degli USA) hanno aumentato sensibilmente le loro incidenze sul commercio internazionale passando congiuntamente dal 5% ad oltre il
23% del valore dell’export mondiale di vino. In tale ambito, la crescita più rilevante ha interessato il Cile – passato dall’1,1% al 6,1% – e l’Australia (dall’1,8% al
5,8%).
Questo prorompente sviluppo sottende una chiara volontà di conquista dei mercati esteri in maniera autonoma e spesso scollegata dal contesto dei consumi interni. A differenza dei paesi europei, contraddistinti da una tradizione vinicola di lungo corso, i mercati dell’Emisfero Sud hanno conosciuto uno sviluppo del settore in
tempi relativamente brevi. Salvo il caso dell’Argentina e degli Stati Uniti, gli altri
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grandi player hanno incrementato la produzione vinicola – organizzata secondo logiche industriali ed espressione di un’agricoltura specializzata piuttosto che frammentata come nel caso del sistema italiano – nel corso degli ultimi venti anni.
Basti pensare che, rispetto agli attuali 1,3 milioni di tonnellate di vino prodotto
dall’Australia, nei primi anni ’80 la produzione del paese faticava a mantenersi sulle 400.000 tonnellate. Così come la Nuova Zelanda, passata nello stesso periodo di
tempo da meno di 50.000 ad oltre 230.000 tonnellate di vino.
Da tale crescita discende quindi l’elevata propensione all’export dei produttori
dell’Emisfero Sud, organizzati e vocati alla conquista dei mercati internazionali; al
contrario delle imprese vinicole europee (ma soprattutto italiane), tradizionalmente orientate a soddisfare in primis la domanda interna e, solo successivamente, a cercare di smaltire le eccedenze sui mercati esteri.
Aziende viticole di dimensioni medie superiori ai 50 ettari (come in Australia e
Nuova Zelanda), con dotazioni tecnologiche avanzate e operatori commerciali a carattere multinazionale rappresentano i tratti caratteristici di una volontà della filiera di essere presente con i propri prodotti in tutto il mondo e di cogliere opportunità di crescita che il proprio mercato interno non è ancora in grado di offrire.
A riprova di tali considerazioni è sufficiente evidenziare il grado di propensione
all’export di vino dei paesi dell’Emisfero Sud che, per Nuova Zelanda, Cile e Australia supera abbondantemente il 50% (figura 3).
Figura 3 – La propensione all’export di vino dei player internazionali
(volumi esportati su produzione)
Fonte: Wine Monitor
È altresì interessante notare come la propensione all’export negli ultimi anni sia
sensibilmente cresciuta anche per Italia, Portogallo e Spagna, sintomo di una riduzione strutturale nei consumi interni che ha costretto le imprese vinicole dei rispettivi paesi ad individuare nuovi mercati di sbocco.
In effetti, scendendo nel dettaglio del nostro paese, il 2013 ha visto contrarsi ulteriormente il consumo di vino fino a 21,8 milioni di ettolitri contro i 30,2 milioni del 2001. Se si mette a confronto tale andamento con quello delle esportazioni, si evince come la forbice esistente ad inizio 2000 tra questi due indici si sia
andata via via restringendo fino ad annullarsi a partire dal 2011 (figura 4). In altre
parole, mentre nel 2001 la proporzione era quasi 1 a 2 (a fronte di 17 milioni di
ettolitri di vino esportato, 30 milioni venivano consumati in Italia), dal 2011 il
rapporto relativo è diventato pari all’unità (considerata la produzione vinicola italiana complessiva, praticamente metà viene consumata sul mercato interno e metà viene esportata).
Figura 4 – Un confronto tra consumi interni ed export di vino italiano
(milioni di ettolitri)
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4. Italia: consumi interni di vino ed export
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Fonte: Wine Monitor
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Quali sono le ragioni di tale calo? Oggi i consumi di vino in Italia, dal punto
di vista quantitativo, sono soprattutto sostenuti dalle persone con oltre 60 anni
di età che generalmente accompagnano i pasti quotidiani con il vino. Tale modalità di consumo non fa invece parte delle abitudini alimentari delle fasce più
giovani della popolazione che invece consumano vino soprattutto in occasioni
diverse e con minor frequenza (sebbene per tipologie di prodotto con prezzi medi più elevati).
La riduzione dei consumi discende quindi dal fatto che nell’ultimo ventennio,
il numero dei consumatori che bevono vino tutti i giorni è diminuito del 63%,
passando da circa 4 a 1,5 milioni di individui. Nello stesso tempo, tale fascia di
consumatori non è stata rimpinguata dalle generazioni più giovani che, come specificato poc’anzi, esprimono frequenze e modalità di consumo nettamente differenti. Senza contare che, negli ultimi cinque anni, si è inoltre verificato un processo di sostituzione tra i consumi di vino e quelli di birra, questi ultimi in ripresa nel nostro paese (anche per via del fenomeno delle birre «artigianali» che stanno conoscendo un vero e proprio boom produttivo).
La riduzione dei consumi interni ha quindi spinto le imprese vinicole a ricercare nuovi sbocchi di mercato sul versante internazionale. Nell’ultimo decennio,
l’export di vino dall’Italia a valori correnti è cresciuto dell’87%, passando dai
2.679 milioni di euro del 2003 ai 5.040 del 2013. In questo sviluppo delle vendite oltre frontiera, la tipologia che ha conosciuto la maggior crescita è stata quella degli spumanti, aumentata del 218% ed arrivando così a pesare sul totale per
circa il 15% (contro il 9% di dieci anni prima). Il rimanente 85% si divide invece tra vini fermi imbottigliati (75%) e sfusi (10%).
La suddivisione dei mercati di esportazione (tabella 3) evidenzia il ruolo di primo piano detenuto da Stati Uniti, Germania e Regno Unito per i vini italiani che,
congiuntamente, arrivano ad assorbire il 54% dell’export complessivo. Da notare infine come il mercato comunitario pesi per poco più della metà sulle vendite
oltre frontiera del nostro vino, mentre risultano ancora marginali gli acquisti da
parte dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa).
Economia della produzione
Tabella 3 – I principali mercati di esportazione del vino italiano (valori)
Fonte: Wine Monitor
5. I principali mercati di importazione e il posizionamento dei vini italiani
I fautori della crescita dell’export italiano di vino sono quegli stessi mercati che
hanno visto esplodere i consumi di questo prodotto nell’ultimo ventennio e che, sia
per ragioni di ridotta – se non inesistente – disponibilità di prodotto nazionale che
di apprezzamento verso il made in Italy e gli altri vini esteri, hanno incrementato in
maniera rilevante le importazioni (tabella 4).
Tabella 4 – Importazioni di vino nei principali mercati mondiali (valori)
Fonte: Wine Monitor
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Nell’ultimo decennio, il valore dell’import di vino nei mercati «consolidati» e in
quelli «emergenti» è cresciuto a percentuali a doppia e tripla cifra. Considerando la
prima categoria di mercati, Stati Uniti e Regno Unito hanno singolarmente importato nel 2013 quantità di vino per un valore prossimo ai 4 miliardi di euro, facendo registrare aumenti dell’ordine del 38% (nel caso degli Stati Uniti) e del 20% (Regno Unito). Ma il primato per la dinamica di crescita più significativa spetta al Canada che tra il 2003 e il 2013 ha incrementato le importazioni di vino (in valore)
del 110%.
Nel caso dei Bric, dove tali dinamiche sono quasi la norma (essendo mercati dove la fase espansiva è appena iniziata), spicca il caso della Cina che nel giro di un decennio ha praticamente aumentato di 40 volte l’import di vino, facendo di tale paese il quinto mercato al mondo per valore delle importazioni di questo prodotto.
Nell’ambito di tale sviluppo, i vini italiani sono riusciti a mantenere le proprie posizioni, strappando in molti casi quote di mercato a quegli stessi competitor che, dal
punto di vista delle dotazioni concorrenziali, partono sicuramente avvantaggiati
(come Francia, Australia o Cile). In dieci anni, l’Italia ha conquistato la prima posizione – in termini di principale esportatore di vino – negli Stati Uniti, in Germania e in Russia, mentre negli altri mercati occupa comunque le posizioni di testa dopo la Francia (tabella 5).
Tabella 5 – Quote di mercato del vino italiano sulle importazioni totali di vino
del paese (% sui valori, principali mercati)
Fonte: Wine Monitor
I diversi posizionamenti discendono da strategie di mercato poste in essere dalle
imprese alla luce delle proprie potenzialità, oltre che da vincoli di natura soprattut-
Figura 5 – Dazi medi all’import dei vini italiani nei principali mercati
(% sul valore, 2012)
Economia della produzione
to tariffaria vigenti nei mercati di importazione. Nel primo caso vale la pena richiamare le strategie messe in atto dalle imprese francesi sul mercato cinese, un contesto dove il vino non fa parte delle tradizioni alimentari del paese e dove i distributori commerciali sono rappresentati da operatori di grandi dimensioni.
In un mercato del genere, dove la diffusione del vino può avvenire solamente dopo aver condotto un idoneo processo di educazione/informazione al consumatore
locale e quindi attraverso un presidio diretto e costante del mercato da parte delle
imprese esportatrici, la Francia, già a partire dagli anni ’80 ha intrapreso percorsi di
accordi commerciali con società locali.
Per quanto riguarda invece la questione dei vincoli tariffari, si tratta di una barriera all’ingresso che, per molti mercati «emergenti», discrimina in maniera rilevante l’accesso ai produttori (figura 5). È il caso ad esempio del Brasile, dove l’appeal dei vini made in Italy è sicuramente significativo – anche in considerazione
della comunità di emigranti italiani presenti – ma dove nello stesso tempo i vini
italiani soffrono di una competizione impari con quelli cileni e argentini a causa di
accordi bilaterali che permettono a questi ultimi di entrare nel mercato brasiliano
a dazio zero.
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Fonte: Wine Monitor
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6. La rilevanza socioeconomica della filiera vitivinicola italiana
e l’evoluzione intervenuta
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Come evidenziato precedentemente, la vitivinicoltura italiana assume un peso di
primo piano nel panorama europeo e mondiale, sia sul fronte produttivo che degli
scambi internazionali. Allo stesso tempo, i valori economici espressi dalla filiera vitivinicola giocano un ruolo chiave anche all’interno della complessiva filiera agroalimentare nazionale sia con rispetto alla parte più propriamente agricola che con riferimento alla fase di trasformazione: a livello agricolo, la viticoltura rappresenta infatti il 5% dell’intero valore dell’agricoltura italiana, mentre i produttori industriali
di vino garantiscono il 5% del Prodotto interno Lordo e il 4% degli occupati dell’intera industria alimentare.
Questi risultati sono resi possibili da un tessuto produttivo molto ampio e fortemente integrato lungo le varie fasi della filiera. A livello primario sono 376.000 le
aziende agricole focalizzate sulla produzione di uva da vino che in alcuni casi estendono la propria attività anche a processi di trasformazione per l’ottenimento del vino in house. Tali aziende, generalmente di piccolissima dimensione (1,7 ettari la dimensione media), impiegavano nel 2010 una superficie di circa 626 mila ettari investiti a vigneto2.
Le aziende agricole specializzate nella vitivinicoltura di rado lavorano le proprie
uve. Nella gran parte dei casi, la loro produzione viene venduta come materia prima a imprese industriali che non gestiscono direttamente vigneti e che invece si rivolgono alle imprese del settore primario per il reperimento della materia prima necessaria (uva da vino). Tale aggregato di trasformatori conta circa 1.800 imprese, capaci di produrre e mettere sul mercato, nazionale ed estero, più di 40 milioni di ettolitri di vino, di cui circa 29 milioni di ettolitri relativi a vini a denominazione di
origine (Dop e Igp). Grazie anche all’attività parallelamente svolta da quasi 4 mila
imbottigliatori, questa importante produzione di vino assicura un valore complessivo di circa 9 miliardi di euro3.
Come avvenuto per molti altri comparti dell’agricoltura italiana, anche il sistema viticolo ha conosciuto una profonda ristrutturazione nel decennio 2000-2010,
caratterizzato da una forte riduzione delle imprese e contemporaneamente, stante
una riduzione molto più contenuta della superficie agricola utilizzata, da una crescita importante della dimensione media di impresa in termini di superficie investita. Tali dinamiche trovano anche spiegazione negli effetti delle politiche comu-
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Fonte: VI Censimento generale dell’Agricoltura, Istat.
Fonte: Mediobanca.
Tabella 6 – La viticoltura a livello regionale* e variazione decennale nelle aziende
e nella superficie investita
Economia della produzione
nitarie di «accompagnamento» all’uscita dal mercato da parte delle imprese meno
efficienti e produttive. Ci si riferisce soprattutto alle misure d’incentivazione dell’estirpazione volontaria dei vigneti volute dalla Commissione Europea per gli anni 2008/2009/2010 con l’intento di riequilibrare domanda e offerta del settore
(che partiva da un surplus strutturale dell’offerta) nell’ottica di favorire la qualità
media dei prodotti e il posizionamento di prezzo.
Questa politica spiega quindi in buona parte la riduzione delle superfici a vigneto tra il 2000 e il 2010, anche se il suo effetto è stato molto diverso all’interno del
territorio italiano coerentemente con i diversi gradi di sviluppo e valorizzazione delle vitivinicolture regionali. A mostrare le riduzioni più sensibili in termini di imprese
attive ed estensione dei vigneti sono state soprattutto le regioni del Centro-Sud (tabella 6), mentre in molte aree del Nord la superficie destinata a vigneto è addirittura aumentata (ad esempio, Veneto, Trentino Alto Adige); ciò deriva dal più alto valore aggiunto medio che contraddistingue le produzioni di queste ultime regioni e
che ha garantito il proseguimento e il rafforzamento dell’attività di produzione delle imprese del settore.
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* Comprensiva dell’uva da tavola
Fonte: elaborazioni su dati Istat
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7. Conclusioni: quali opportunità di crescita per i vini italiani?
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Alla luce della descrizione dello scenario attuale ed evolutivo che riguarda il mercato di consumo del vino sia a livello mondiale che nazionale, non sembrerebbero
esserci dubbi sulle direttrici di sviluppo che dovrebbero guidare le strategie di mercato delle imprese vinicole italiane per il prossimo futuro.
Ovviamente, il condizionale è sempre d’obbligo. Il mercato italiano rappresenta
un bacino di consumo del vino economicamente importante, tra l’altro poco propenso – ancora per il momento – all’acquisto di prodotti esteri. Purtroppo, è in prospettiva che l’attrattività di tale mercato sembra destinata a diminuire sensibilmente. Le imprese italiane, per mantenere inalterati i propri livelli produttivi e di redditività dovranno sempre più confrontarsi con consumatori appartenenti a paesi e culture alimentari lontane dalla nostra. La posta in gioco è alta: si corre infatti il rischio
di dover dire addio ad una larga fetta della coltivazione della vite, con tutti gli effetti
che ne deriverebbero a cascata sia nelle fasi produttive a valle della filiera, sia nei territori rurali e nelle economie locali dove la produzione vitivinicola rappresenta un
asset strategico di sviluppo.
Gli ostacoli presenti lungo questo percorso di internazionalizzazione non sono
pochi, ma i risultati raggiunti dal vino italiano nel mondo, anche durante questo
periodo di recessione, testimoniano la bravura e le capacità commerciali delle nostre imprese. Tanto che, mettendo in relazione tali successi con le dotazioni strutturali, organizzative e di supporto istituzionale/commerciale delle imprese italiane
rispetto a quelle francesi o dei player dell’Emisfero Sud, viene naturale chiedersi come questo sia stato possibile. D’altronde, guardando alle strategie di penetrazione
messe in atto dagli altri competitor, questi gap saltano agli occhi immediatamente: joint venture con operatori o istituzione di agenzie commerciali nel mercato target, sinergie con catene distributive multinazionali ma della stessa origine territoriale, supporto del «sistema Paese» nella conclusione di accordi bilaterali per la riduzione tariffaria o nella promozione e diffusione della propria cultura vinicola
nelle catene alberghiere o nella ristorazione. Tutte strategie che, ad esempio, hanno permesso ai produttori francesi di arrivare «per primi» e conquistare posizioni
di leadership in mercati con alti tassi di crescita nei consumi di vino (si pensi ai
paesi del Sud-Est asiatico).
Dal canto loro, le imprese italiane possono contare su standard qualitativi di prodotto elevati, su un’imponente varietà di vini in grado di adattarsi alle diete locali e
che possono far leva su riferimenti territoriali di alto valore emozionale ma, soprattutto, sulla diffusione della cucina italiana. Un particolare di estrema importanza
dato che, per i nostri vini, ha rappresentato in molti casi l’arma più efficace per la
penetrazione nei nuovi mercati.
Bibliografia
Mediobanca, Indagine sul settore vitivinicolo, Roma, 2014.
Pantini D., Piccoli F., Il vino oltre la crisi. Come è cambiato il mercato mondiale del
vino con la crisi economica: criticità ed opportunità per i produttori italiani, Agra
Editrice, Roma, 2011.
Pantini D., Il posizionamento competitivo del vino italiano nel mercato mondiale tra
cambiamenti nei consumi e nuovi scenari evolutivi, Rapporto Ice 2011-2012 «L’Italia nell’economia internazionale», Roma, 2012.
Istat, banca dati Coeweb.
Oecd-Fao, Agricultural Outlook 2013-2022.
Wine Monitor, Statistical database (www.winemonitor.it).
Economia della produzione
In altre parole, più che stupirsi dell’affermazione raggiunta dai nostri prodotti nel
mondo, occorrerebbe prendere atto delle potenzialità ancora inespresse o non pienamente utilizzate dalle nostre imprese per godere di maggiori vantaggi competitivi nell’arena mondiale.
Una cosa è certa: non essendoci più spazio per l’improvvisazione, per le imprese
diventa necessario superare quei limiti organizzativi e commerciali che oggi ne minano alla base la competitività. Solo in questo modo i vini italiani saranno in grado
di farsi valere ed apprezzare in un mercato mondiale che, al di là delle brevi e isolate battute d’arresto, presenta ancora molte potenzialità di sviluppo.
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