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23-46 DOSSIER-follia:23-46 DOSSIER 4.0
DOSSIER MISSIONI CONSOLATA Viaggio nel disagio mentale, affettivo, comportamentale «LA FOLLIA, UNA CONDIZIONE UMANA» di Orazio Anselmi, Nadia Greco, Alessandro Meluzzi, Ugo Zamburru (a cura di Paolo Moiola) DOSSIER INTRODUZIONE uando McMurphy domanda all’amico Harding quale sia lo scopo della terapia con l’elettroshock, questi gli risponde: «Ma per il bene del paziente, si capisce. Tutto quello che fanno qui è per il bene del paziente. (...) Non sempre si ricorre all’Est (Elettro-shockterapia, ndr) a titolo punitivo, come è solita fare la nostra infermiera, e nemmeno si tratta di puro sadismo da parte del personale. Numerosi malati ritenuti inguaribili sono stati riportati in contatto con la realtà grazie all’elettroshock, così come altri hanno fatto progressi con la lobotomia e la leucotomia. L’elettroshock terapia presenta alcuni vantaggi: è poco costosa, rapida, del tutto indolore. Causa soltanto una sorta di attacco epilettico». Sono righe tratte da Qualcuno volò sul nido del cuculo, romanzo (1) ambientato in un ospedale psichiatrico dell’Oregon, ma è dall’Italia che conviene partire quando si parla di disagio mentale. La psichiatria italiana è infatti nota a livello internazionale per le innovazioni introdotte con la riforma della legge 180 del 1978, anche nota come «legge Basaglia», dal nome del suo ideatore. Diceva lo psichiatra veneziano (2): «La follia è Q una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d’essere». E ancora: «Il manicomio è nato storicamente a difesa dei sani. Le mura servivano, quando l’assenza di terapie rendeva impossibile la guarigione, ad escludere, isolare la follia perché non invadesse il nostro spazio» (3). Quella di Franco Basaglia è stata una riforma rivoluzionaria e, come tale, anche oggetto di critiche. Ma quasi sempre non a causa dei suoi contenuti, bensì per la sua inadeguata applicazione (4). «Scrivo ancora contro la legge 180. Quando finirà questa pagliacciata della libertà obbligatoria? I matti non li vuole nessuno e, abbandonati a se stessi, si stanno estinguendo. Sì, estinguendo, ma per suicidio o ricovero in manicomio giudiziario. E soprattutto quello che fa schifo è che vogliono far passare questa situazione per liberatoria. Il sottoscritto, dopo 9 ricoveri “volontari”, MATTI ” “ COME LORO O COME NOI? ????? 24 MC GENNAIO 2006 MISSIONI CONSOLATA non sa più dove sbattere la testa. E così tanta gente che conosco e che non fa altro che ripresentarsi tutte le settimane ai centri di igiene mentale. Vi piace la libertà? Tenetevela, ma per piacere ridateci la possibilità di difenderci da voi normali, di mettere un muro tra noi e voi». Non sappiamo se questa lettera, apparsa sul quotidiano la Repubblica nel 1988, sia stata effettivamente scritta da un paziente o invece sia soltanto il prodotto di un oppositore della legge Basaglia. Ciò non toglie che essa, nella sua crudezza, descriva un problema possibile, che di norma nasce quando la 180 è applicata male. «La malattia psichiatrica - scrive Benedetto Saraceno, direttore del Dipartimento salute mentale e tossicodipendenze dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms/Who) - ha caratteristiche che la rendono diversa dalla maggior parte delle altre malattie e, dunque, l’uguaglianza tra i cittadini (e tra i cittadini malati) va ricercata nella uguaglianza di diritti e opportunità, ma non nella uguaglianza delle risposte assistenziali. Un malato psichiatrico non ha bisogno di “letti in ospedale”, ma di opportunità di vita alternative all’ospedale e spesso anche alla famiglia di origine; ha bisogno di residenzialità, di lavoro, di presa in carico, di affetto, di autonomia». e patologie mentali sono correlabili al contesto sociale ed economico nel quale si vive? La risposta pare affermativa. Ad esempio, si è visto che le psicosi migliorano più facilmente nei paesi in via di sviluppo, ove il contesto comunitario è più accogliente e i meccanismi di esclusione meno rigidi (5). Secondo lo psichiatra statunitense Richard Warner (6), il cambiamento di ruolo, la perdita di status e l’incertezza occupazionale possono accrescere il rischio di sviluppare la schizofre- L nia. In particolare, per alcuni gruppi, come gli «scolarizzati disoccupati» nei paesi industrializzati, i «poveri urbanizzati» nei paesi in via di sviluppo. Nei paesi ricchi si è trovata una possibile, parziale soluzione con gli psicofarmaci (si veda la tabella di pagina 31). Ad essi si fa sempre più ricorso, a volte perché sono utili, a volte perché fortissima è la pressione delle multinazionali farmaceutiche. Nel gennaio del 2003 la «Food and Drug Administration» (Fda), l’agenzia federale che vigila sulla salute degli statunitensi, ha dato il via libera alla somministrazione del Prozac, il più famoso dei farmaci antidepressivi, a bambini e adolescenti dai 7 anni in su (7). Molti specialisti hanno messo in guardia sugli effetti collaterali (tra cui una diminuzione della crescita) derivanti dall’assunzione dell’antidepressivo. Altri hanno applaudito alla novità. Altri ancora hanno trovato una risposta certamente più banale ma senz’altro molto vera: la Eli Lilly, l’azienda statunitense produttrice del Prozac, aveva necessità di allargare i confini di un mercato ormai saturo. ono passati più di duemila anni da quando Aristotele e Galeno spiegavano la follia a partire dallo squilibrio dei quattro umori presenti nel corpo umano: sangue, flegma, bile gialla e bile nera. L’eccesso di uno di questi umori veniva considerato la «causa» della follia. Oggi, a guardare il mondo che ci circonda, nella dialettica normalità-pazzia vale la saggezza di Bertoldo (8). Quando il re gli chiede: «Qual è la più grande pazzia dell’uomo?», Bertoldo risponde: «Il reputarsi savio». S PAOLO MOIOLA QUESTO DOSSIER Nelle pagine che seguono abbiamo voluto dare spazio a due diverse realtà che si occupano di problematiche mentali. La prima è una struttura pubblica e laica: il «Centro diurno» della Asl 4 di Torino (con l’associazione «Vol.p.i» lì ospitata). La seconda è una struttura privata con una precisa impronta cattolica: la cooperativa «Agape, Madre dell’accoglienza». In entrambi i casi, abbiamo trovato persone appassionate ed entusiaste del loro lavoro, ben al di là delle responsabilità derivanti dal consueto rapporto operatore sanitario-paziente. Un ringraziamento particolare va a coloro che hanno contribuito a questo dossier: gli psichiatri Ugo Zamburru ed Alessandro Meluzzi, padre Orazio Anselmi, Nadia Greco, Elisa Iannetti e Giuseppina De Cesare. Come quasi sempre capita, abbiamo dovuto sforbiciare molto i lunghi testi che ci sono pervenuti. Lo abbiamo fatto cercando di preservare al massimo lo spirito di chi aveva scritto. Pa.Mo. NOTE: (1) Ken Kesey, Qualcuno volò sul nido del cuculo, Rizzoli Editore, Milano 1976. Dal romanzo è stato ricavato un famoso film con l’attore Jack Nicholson. (2) Franco Basaglia (Venezia, 1924-1980) è stato il maggiore rappresentante della psichiatria italiana del Novecento. Lavorò a Gorizia, Parma e Trieste, dove fu direttore del manicomio di San Giovanni. Il 13 maggio 1978 il parlamento italiano con la legge 180 approvò la sua riforma psichiatrica. (3) Franco Basaglia, L’utopia della realtà, Giulio Einaudi Editore, Torino 2005, pag. 55. (4) Si veda in particolare la posizione dell’«Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica» (Arap). (5) Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, Dizionario della salute, Milano 1991. (6) Richard Warner, Schizofrenia e guarigione, Feltrinelli Editore, Milano 1991. (7) Si veda «la Repubblica» del 5 gennaio 2003. (8) Da Bertoldo e Bertoldino, di Giulio Cesare Croce, cantastorie bolognese (1550-1609). MC GENNAIO 2006 25 DOSSIER Lavorare in un Dipartimento di salute mentale LA SALUTE NON PUÒ ESSERE UN BUSINESS I «matti» non sono più quelli di una volta. Nelle strutture arrivano disoccupati, poveri, extracomunitari,drogati.Anche la società non è più la stessa:l’1 per cento della popolazione mondiale è affetta da schizofrenia;circa il 15-20 per cento da depressione;una percentuale ancora più alta da ansia.Lavorare sulla salute mentale è sempre più difficile.Ma un principio dovrebbe rimanere saldo ed immutabile: la salute non può essere un campo dove cercare il profitto. DI L a giornata lavorativa sta terminando, nel fatiscente caseggiato adibito ad ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Da sotto si sente salire per le scale l'odore del cibo preparato al centro diurno. I due infermieri rimasti guardano lo psichiatra seduto di fronte, i gomiti appoggiati sulla scrivania e le mani a reggere la testa appesantita da una interminabile serie di colloqui. Una delle infermiere e lo psichiatra responsabile del centro diurno si conoscono da venti anni, da quando, giovani e carichi di entusiasmo, si erano trovati a lavorare insieme, in quello stesso quartiere della periferia torinese così cambiato negli anni. Quando capita che i due si incontrino con un po' di tempo a disposizione per parlarsi, succede talvolta che si mettano a parlare dei bei tempi andati, quando c'erano più risorse, più energie, quando la psichiatria era un argomento di primaria importanza e quando tutto era migliore. Anche i «matti» non sono più quelli di una volta. Ormai negli ambulatori arriva di tutto e i bisogni sono sempre più complessi: disoccupazione, povertà, extracomunitari, e poi quanti pazienti usano anche droghe assortite, una volta non era tutto così incasinato. Morena e Ugo non sono poi così vecchi, una cinquantina d’anni lo psichiatra, 43 l'infermiera e sono ancora innamorati del loro mestiere, certo non delle condizioni in cui si trovano ad operare. 26 MC GENNAIO 2006 UGO ZAMBURRU MISSIONI CONSOLATA Quando nel 1985 hanno iniziato a lavorare insieme, l'équipe era composta da 3 medici a tempo pieno, una psicologa, un assistente sociale (e per un certo periodo addirittura due), 6 infermieri a tempo pieno ed i casi attivi erano circa 300, quasi tutti di chiara pertinenza psichiatrica, per i quali attivare le risorse di personale ed economiche (sussidi, una tantum, borse lavoro, soggiorni) a disposizione. Un bel mix tra i 2 vecchi infermieri che avevano vissuto da protagonisti la fase propedeutica alla chiusura dei manicomi con la famosa legge 180 (conosciuta come legge Basaglia) e il resto del personale, tutto alle prime esperienze, amalgamati dalla responsabile che, pur ancora giovane, aveva lavorato anch'essa in manicomio, permettevano all'équipe di sentirsi parte di un progetto forte, con una salda base ideologica e con valori morali ed etici che permettevano di esprimersi in un'atmosfera di creatività, ma anche di efficienza. Sarebbe ora interessante vedere come si è trasformata quell'équipe: al momento un medico a tempo pieno che sta scoppiando per il carico lavorativo, un medico che si occupa anche di ricerca e quindi dedica metà tempo all'attività clinica con i pazienti, e un terzo medico che al momento non c'è perché in gravidanza e comunque per quel terzo posto negli ultimi anni si sono avvicendati, per motivi diversi, ma costituendo un dato che comunque dovrebbe far riflettere, 5 medici e un sesto sta arrivando. Da un anno è finalmente tornata l'assistente sociale, figura professionale che per un paio d'anni era mancata, mentre gli infermieri sono quattro più una a 15 ore. La figura dello psicologo è presente: una. Insomma, un’équipe assolutamente indebolita, mentre il carico lavorativo, ovvero il numero dei pazienti in cura che necessitano di visite regolari e abbastanza ravvicinate, è aumentato di molto, diciamo almeno del 30% in questi 20 anni. Per non parlare di quello che succede nei turni in ospedale, quando dal pronto soccorso si viene chiamati per affrontare situazioni di marginalità di gran lunga superiori alle reali competenze cliniche. Dunque, cos'è la psichiatria oggi? Come funziona un Dipartimento di salute mentale? Proviamo a raccontarlo. EVOLUZIONE O INVOLUZIONE? Credo che ormai non esistano più dubbi sui danni che sta causando il modello neoliberista. Questa non è la sede per soffermarci, ma sicuramente una serie di contraccolpi li respiriamo anche nell'ambito del nostro lavoro di operatori della salute mentale. Il neoliberismo promuove il «Diomercato» e riduce tutto a merce, come tale monetizzabile. Persino l’acqua si vuole privatizzare (1). Che c’entra questa storia con la psichiatria? C’entra: basta considerare la salute mentale come un terreno di profitto. Dunque, l’oggetto di cui si occupa la psichiatria, ovvero la salute mentale, rappresenta un fenomeno complesso articolato su almeno tre livelli: quello biologico, quello sociale e quello psicologico. Negli anni, a seconda della cultura dominante, si è enfatizzato un aspetto piuttosto che un altro: fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per esempio, l'aspetto primario era quello del controllo sociale e gli ospedali psichiatrici, i manicomi, ben assolvevano questo compito. Le forti spinte di rinnovamento sociale veicolate dal movimento dell'ormai mitico Sessantotto fecero sì che in quegli anni l'accento fosse posto prevalentemente sul ruolo della società come «fabbrica della follia» (2). Le caratteristiche insite nel movimento di demanicomializzazione, l'atmosfera di libertà e impegno che si respiravano funzionarono da collante e diedero una forte identità agli operatori della salute mentale: lavorare in psichiatria significava sentirsi prota- QUALCHE DATO • persone affette da malattie mentali: 450 milioni • numero di suicidi all’anno: 1 milione • persone schizofreniche: 45 milioni • persone con problemi di abuso di alcool: 140 milioni • percentuale della spesa sanitaria mondiale per la salute mentale: 2% (elaborazione su dati OMS/WHO) gonisti di un cambiamento epocale che ridava dignità e soggettività al malato psichiatrico, essere per la creatività, l'impegno e la solidarietà contro i vecchi modelli di reclusione, violenza, negazione dei diritti (3). Un forte senso di appartenenza caratterizzava gli operatori di quegli anni, con la sensazione che quello che si faceva non era solo un lavoro, ma un impegno sociale fondamentale per determinare i futuri orientamenti del nostro stile di vita. D'altro canto la psichiatria era un argomento «a la page» e lo status di operatore in questo campo era fonte di riconoscimento e interesse. Ricordo quelli che sono stati i miei veri maestri, i vecchi infermieri, come li chiamavamo, che ci raccontavano gli orrori dei manicomi e ci mostravano più con l’esempio che con le parole il senso del lavorare con la persona che si affidava a noi. Scivolo su questo terreno infido, dove rischio di diventare retorico perché è un ideale che sento di aver ereditato da loro, come se mi avessero dato il testimone dei loro sogni di rinnovamento e delle loro lotte. Ecco perché mi permetto di ricordare Pino, che era stato il protagonista della rivolta contro la violenza medica (4), ma anche Augusto, Meo, Carlo e poi mi fermo scusandomi con quelli che non cito, ma l’elenco sarebbe troppo lungo. GLI ANNI NOVANTA: L’«IO» SOSTITUISCE IL «NOI» Poi gli anni Novanta, quelli della stasi: i protagonisti della chiusura dei manicomi vanno in pensione, portandosi dietro i loro ideali e lasciandoci con un po' di idee sulla necessità dell'approccio integrato, che tenga conto di tutti e tre gli aspetti citati in precedenza. Intanto la società cambia, le multinazionali diventano sempre più padrone della scena politica. Banca mondiale, Fondo monetario internazionale (Fmi) e Organizzazione mondiale del commercio (Omc) esasperano la logica del profitto. promuovono la figura del vincente, ci colonizzano l'immaginario e ci convincono che la scienza e le operazioni finanziarie in borsa ci porteranno alla felicità. Si impone il pensiero unico: mangiamo allo stesso modo (magari MC GENNAIO 2006 27 DOSSIER Mc Donald’s), vestiamo allo stesso modo, pensiamo (o non pensiamo) allo stesso modo, compriamo di tutto e di più e promuoviamo la competizione. L'«io» si sostituisce al «noi», il tessuto sociale si scolla, la solidarietà si perde o al massimo viene promossa dalle banche (quelle stesse che danno un grande aiuto alla devastazione del pianeta, ad esempio finanziando gli oleodotti in Amazzonia o i fabbricanti di armi). Allora, se tutto è merce, perché non può esserlo anche la salute?, pensano le multinazionali del farmaco, che iniziano a difendere con i denti i cosiddetti «brevetti». Difenderli, perché in India, in Thailandia, in Brasile e in altri paesi del Sud si producono farmaci a basso prezzo (circa 10 volte in meno del prezzo praticato dalle multinazionali), nonostante le molecole chimiche appartengano alle ditte, tutte rigorosamente nordamericane ed europee, che le hanno scoperte e che non vogliono vedere ridotti i propri guadagni. Assoldati i migliori avvocati, le multinazionali attaccano: «Come vi permettete di produrre senza la nostra autorizzazione i farmaci che noi abbiamo scoperto e per di più a venderli sottocosto?». Certo, la concorrenza è - stando ai canoni del mercato neoliberista - «sleale», ma permette che almeno 8 milioni di persone l’anno possano accedere a cure altrimenti troppo costose, salvandosi la vita per malattie che in Occidente ormai non sono più causa di morte. «Ma noi usiamo i soldi per fare ricerca», ribattono le multinazionali, salvo poi scoprire che degli incassi megamiliardari solo una piccola parte viene reinvestita in ricerca, diciamo il 20%, mentre il resto è puro profitto. Tra l’altro, della quota spesa per la ricerca la parte maggiore è investita per malattie tipiche delle so- 28 MC GENNAIO 2006 cietà ricche: diabete, obesità e via discorrendo. A proposito di obesità (5), che razza di società è la nostra, che spacciamo per portatrice di valori contro il rischio di un «meticciato» catastrofico (come ha sentenziato il presidente Pera, la seconda carica dello stato italiano) e che riesce a produrre obesi e bulimici quando un miliardo di persone vivono con un dollaro al giorno e muoiono di fame? PSICOFARMACI: UTILI (CON MOLTI «SE» E MOLTI «MA») Stabilito che la salute può rappresentare un business, anche la salute mentale può esserlo. In fondo, l’1% della popolazione mondiale è ammalata di schizofrenia, circa il 10-15% di depressione e poi c'è sempre l'ansia che è un bel terreno di lavoro. Si tratta solo di trovare la strada giusta, per esempio favorire la ricerca delle neuroscienze, in fondo questo è un campo ancora poco esplorato e conosciuto. Una volta analizzati fino alle più piccole sfumature i recettori cerebrali, potremo preparare psicofarmaci sempre più sofisticati, che differiscono tra loro per cose minime. Così per ogni classe vai con la fantasia: per gli inibitori della serotonina che bene funzionano nella depressione ecco un gran numero di molecole, ognuna poi prodotta da più case farmaceutiche e così tra Seropram, Sereupin, Seroxat, Fluoxeren, Prozac, Maveral, Fevarin, il cittadino si perde. Attenzione, non che questi farmaci non funzionino. Anzi, sono una grande scoperta. Dov’è il trucco, allora? A più livelli, direi: da un lato creare una medicalizzazione eccessiva dei problemi, dall’altro una fiducia to- tale e acritica nel progresso delle neuroscienze. Ma - si può obiettare - c’è la preparazione dei medici e la deontologia? Vero, però consideriamo due aspetti. Da un lato come si svolge il lavoro dei medici (6), condizionati da una ricerca finanziata dalle multinazionali e da un aggiornamento gestito soprattutto dagli informatori farmaceutici (7). Dall’altro, guardo alle scuole di specialità, dove i futuri psichiatri vengono prevalentemente abituati a ragionare in termini di sintomi e in cui - mi si permetta di esagerare - le emozioni rischiano di essere considerate «tempeste chimiche». Manca solo un passaggio, ormai ed è quello di riprendere il concetto neoliberista del vincente, della fiducia nella scienza, un modello di mondo dove è bandito il dolore, dove non si parla della morte come di un aspetto della vita, ma - al contrario - dove la si esorcizza cercando di restare eterni giovani trapiantandosi i capelli, facendosi spianare le rughe, livellare l’addome, rimodellare il seno, le labbra, il naso e via discorrendo. E se per caso c’è un incidente di percorso allora via con la soluzione magica del farmaco! Ma negare la morte significa promuovere un mondo falso, negare la sofferenza significa negare la compassione, la solidarietà, la dimensione spirituale, il diritto per tutti di reclamare i diritti negati. Intendiamoci: non nego l’utilità dei vari psicofarmaci (si veda la tabella), che io stesso uso e anche con buoni risultati. Quello che mi spaventa è l’uso improprio delle categorie diagnostiche non tanto da parte degli psichiatri, che al massimo si adeguano, ma dalla «costruzione collettiva» nella mente delle persone comuni. In tal modo, si arriva a confondere il dolore con la malattia, a scindere la sofferenza dal neurotrasmettitore chi- MISSIONI CONSOLATA mico in difetto, a isolare la malattia del singolo dalla crisi della società in cui ci muoviamo e della quale siamo impregnati. E allora si ricorre in maniera sempre più massiccia agli psicofarmaci, che, tra l’altro, hanno costi sempre più elevati, non giustificati dai miglioramenti, peraltro inoppugnabili (non tanto in termini di efficacia, quanto in termini di minori effetti collaterali). OLTRE I PREGIUDIZI E GLI STEREOTIPI Piccola riflessione: e se in psichiatria invece di parlare solo di guarigione imparassimo a parlare di qualità della vita? Lo psichiatra allora non è più il professionista della sofferenza, così come la sofferenza non è più una malattia di cui quasi vergognarsi, ma un bagaglio della grande valigia della vita. Allora un altro concetto è importante: quello di evitare le categorie, le generaliz- zazioni. In quest’ottica non esistono più gli schizofrenici e gli psichiatri, i depressi e gli infermieri, i disturbi di personalità e gli psicologi, ma persone diverse che fanno la medesima professione o che hanno la stessa malattia. In questo modo, possiamo meglio realizzare la soggettività di ciascuno, premessa importante per poter continuare ad esistere agli occhi degli altri in quanto individui con la nostra unicità fatta di biologia, di costituzione, di temperamento, ma anche di incontri, di esperienze e storie che nessun altro ha uguali alle nostre. Così parleremo di persone che esercitano la professione di medici o di infermieri, così come parleremo di persone ammalate di schizofrenia o di depressione e questo ci permetterà di evitare generalizzazioni che sono alla base dei pregiudizi e degli stereotipi: «gli schizofrenici sono violenti e imprevedibili», «gli psichiatri sono eccentrici e particolari». Modalità per impedire il reale incontro con l'altro che è la grande magia della vita, anche quando la generalizzazione è in positivo tipo: «i matti hanno un'intelligenza e una sensibilità eccezionali» o «gli psichiatri sono studiosi e profondi». Scopriremo così che esistono psichiatri simpatici e altri antipatici, schizofrenici intelligenti e no, infermieri spiritosi ed infermieri noiosi, matti generosi ed altri gretti. Allo stesso modo occorre riflettere insieme sullo stato di salute del mondo in cui viviamo, con le sue devastazioni ambientali,i cibi adulterati, l’aumento della povertà, la crisi industriale, i conflitti etnici e religiosi, le guerre preventive perché, come diceva il psicoanalista James Hillman nel suo libro dal titolo provocatorio «Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio» (8), non si può non far entrare nella stanza della terapia quello che succede fuori, se no si rischia di promuovere una cultura solipsistica, di ripiegamento su se stessi che è già il grande dramma della nostra società occidentale così impregnata di narcisismo e quindi di perdita di contatto con il proprio sé più intimo e con la dimensione empatica verso l’altro. Evitiamo anche, per quanto possibile, di chiuderci nelle nostre specificità, impariamo a promuovere la cultura della mescolanza e della curiosità per le differenze degli altri, insieme al rispetto nel piacere della reciprocità. Bisogna poter procedere nella direzione della condivisione consapevole, insieme alla scoperta che, come con amici abbiamo ripetuto in quella meravigliosa esperienza che è stato, nel 2002, il primo forum piemontese itinerante della salute mentale: «La psichiatria non è solo il luogo tetro della sofferenza e della solitudine, ma anche il luogo dove recuperare solidarietà, senso d'appartenenza e capacità di provare piacere!». Non a caso il sottotitolo del forum, più come augurio che come provocazione, recitava «Divertirsi insieme è terapeutico!». L'operatore della salute, lo psi- Al «Centro diurno» di via Leoncavallo 2, a Torino. MC GENNAIO 2006 29 DOSSIER Al «Centro diurno» di via Leoncavallo 2, a Torino. chiatra in particolare secondo le rigide gerarchie del sogno fasullo del neoliberismo, non è quindi il dispensatore di formule scientifiche o di ricette che allontanano il dolore con una pastiglia (meglio se costosa) quanto piuttosto un compagno di strada nella costruzione di percorsi individuali e collettivi. Per andare dove? Verso il migliore dei mondi possibili, quello dove le differenze siano ricchezze e non ostacoli e dove, come recitano gli indigeni dell’Ezln messicano per bocca del loro portavoce, il subcomandante Marcos, si possa «camminare al passo degli ultimi», dove «si cammini domandando» per arricchirsi nel confronto e non irrigidirsi sulle proprie convinzioni e dove si eserciti il «comandare obbedendo», perché chi ha una posizione di potere deve obbedire ai bisogni di chi sta sotto e lo ha eletto come portavoce. È un’utopia quella di un mondo che contenga tutti i mondi, come affermano gli amici zapatisti? Bisogna essere dei «visionari pratici», come dice Alberto Oliveira, il giovane psicologo che nel «Borda», il gigantesco e fatiscente manicomio maschile di Buenos Aires, è riuscito ad aprire una radio che ormai trasmette su scala nazionale in tutta l'Argentina e che ha succursali in America Latina, ma anche in Europa, (compresa l’esperienza di «Radio 180», a Mantova). In questo periodo di crisi dello stato del benessere (welfare state) e di congiuntura internazionale (di cui l’immigrazione, la disoccupazione e la perdita del tes- 30 MC GENNAIO 2006 suto sociale rappresentano alcuni degli epifenomeni), le istituzioni sociali sempre più hanno dovuto prendersi cura di ciò che la base sociale non riesce ad affrontare. Allora, se lo stato del benessere, «costruito» per rispondere a bisogni primari, è da sempre costretto ad occuparsi di ogni cosa, non viene difficile immaginare come in tempo di crisi, il pronto soccorso di un ospedale pubblico possa diventare il contenitore di tutti i disperati e gli emarginati, portando problematiche extra-cliniche che funzionano da ulteriori stressors su di un personale già al limite del collasso. Ecco, perché non è pensabile che l’équipe del pronto soccorso, soprattutto il personale infermieristico, non abbia uno spazio continuativo e regolare dove provare a metabolizzare i vissuti e le difficoltà, reali e simboliche: intendo uno spazio di supervisione psicologica. Dal momento che non esistono le competenze umanitarie, che sono doti e bagaglio personale che non s’imparano sui libri, ma nei banchi di scuola della vita, ritengo che la professionalità dello psichiatra in queste situazioni consista nella capacità di orizzontarsi nel groviglio emozionale, lavorando, come si dice in linguaggio tecnico, sul «controtransfert». Nel carico di angoscia io devo capire quale emozioni passano per la testa della persona che ho di fronte, perché solo così posso capirne i bisogni e la risposta ad essi. Per fare questa operazione io devo però discriminare tra ciò che appartiene a me e ciò che appartiene all'altro: se percepisco rabbia, è legata al mio modo di sentire o è veramente quello che mi passa l’altro? E ancora: è una rabbia destata dal comportamento della persona di fronte a me che evoca miei problemi o è rabbia che appartiene davvero a lei? Per esemplificare, se io sento di avere un problema con la sottomissione e l'incapacità di farmi le mie ragioni, una persona con gli stessi meccanismi, mi scatenerà una rabbia e un fastidio incredibili, perché funziona da specchio per qualcosa di mio che non voglio accettare, anzi che nego con forza. Se io invece fossi in grado di accettarmi per quello che sono, o se per lo meno sapessi il mio modo di funzionare in senso psichico, potrei confrontarmi con un problema analogo portato da un'altra persona senza scaricare su di lei la rabbia e l'odio per quella parte buia di me che non accetto al punto di non vederla neppure. Pertanto, la capacità di analizzare il mosaico emozionale attribuendo a ciascuno la sua parte (per quanto possibile, non stiamo parlando di operazioni puramente tecniche, c’è sempre la contaminazione del nostro essere umani) permette una partecipazione «ripulita», ma empatica al dolore delle persone che chiedono aiuto alle mie specifiche competenze. Ovviamente l'aspetto tecnico è comunque secondario a quello umano: il dolore è un luogo di assoluta solitudine, al quale potersi avvicinare con il dovuto rispetto, ma senza la paura paralizzante. L’ANSIA DI VIVERE (E DI POSSEDERE) Il nostro stile di vita è purtroppo sempre più centrato sull’affermazione e sull'efficientismo, illudendoci che fama e ricchezza ci possano evitare la malattia, il dolore e la morte. L’ansia di vivere e di possedere ci rendono sempre più fragili di fronte al nostro e altrui dolore. MISSIONI CONSOLATA Questo materialismo che non voglio etichettare (dategli la connotazione che preferite) ci ha tolto la capacità di assumerci il peso del dolore degli altri: per non vedere il fallimento del sogno di onnipotenza imposto dal nostro modello di vita cerchiamo subito una soluzione tecnica. Allora possiamo illuderci di chiamare lo specialista, lo psichiatra in questo caso, che con il suo sapere rimetta le cose a posto, tutto sotto controllo, perpetuando un modello di fuga dalla nostra condizione di uomini, per farci diventare quello che è il nostro ruolo. Allora non ci saranno più uomini e donne spaventati o arrabbiati o estroversi o solitari o generosi o avidi, ma avremo invece medici capaci o incapaci, manager di ghiaccio o falliti, studenti primi della classe o incapaci e l’imperativo sarà sempre e solo «essere all’altezza, sempre e comunque, costi quel che costi». E allora anche il confronto con il dolore dell'altro sarà insopportabile o perché dovremo dimostrare di essere all'altezza di gestire senza farci coinvolgere, con la generosità fredda di un Rambo, oppure perché rischieremo di entrare in contatto con la nostra piccola, fragile umanità. Il nostro bagaglio professionale ci può e deve aiutare, quello che importa è sentirsi uomo tra gli uomini, sentirsi in «compassione», nel senso di patire insieme, ma insieme trovare la forza per accettare la nostra fragilità e l'angoscia di morte che ne deriva. Possiamo evocare la pietas cristiana o citare Madre Teresa di Calcutta o ricordare un personaggio più laico come Che Guevara nella lettera ai figli («occorre che sappiate sentire la sofferenza di ogni uomo come se fosse la vostra»). Certo è che dobbiamo ritrovare un senso nella nostra civiltà, altrimenti arriveremo all’aberrazione di pensare che lo psichiatra è lo «specialista della sofferenza». chiatria rispetto a quello che succede nel mondo (9). Nell’ottica neoliberista, colpire i deboli non è un progetto, quanto la logica conseguenza di un modello che riduce a merce qualsiasi cosa. Come insegnano gli amici boliviani, l’acqua non è una risorsa IL (termine che sottende la possibilità di mercificare) quanto un bene comune e come tale da condividere con solidarietà e nel rispetto di tutti. Difendere la legge 180 (10) e la psichiatria pubblica significa, pertanto, difendere lo stato sociale, ma è anche importante capire co- DISAGIO IN FARMACIA: ALCUNI FARMACI TIPOLOGIA NOME antipsicotici (neurolettici) Serenase Deniban Clopixol Neuleptil Zyprexa (A) 3,00 (gtt) 12,60 (12 cp) 9,95 (gtt) 1,76 147,94 antidepressivi Sereupin (A) Prozac (A) Entact (A) Elopram (A) 19,00 23,60 29,20 14,00 (28 cp) (28 cp) (28 cp) (28 cp) ansiolitici - ipnotici Xanax Lexotan Valium Tavor 10,25 7,20 7,40 6,30 (gtt) (gtt) (gtt) (gtt) COMMERCIALE COSTO IN EURO (A: sono farmaci mutuabili; quelli elencati sono soltanto alcuni dei farmaci in commercio; in foto, due «stabilizzanti dell’umore») PSICOFARMACI - Gli psicofarmaci sono medicamenti che, con diversi meccanismi d’azione, modificano sia in senso depressivo sia stimolante l’atteggiamento psichico dell’individuo. La loro introduzione in terapia ha esercitato un’influenza rivoluzionaria sul trattamento delle malattie psichiche, agevolando notevolmente la cura e la risocializzazione dei pazienti. Gli psicofarmaci possono essere classificati in: 1) «deprimenti» del Sistema nervoso centrale (detti «psicolettici»), che si dividono in 2 grosse categorie: - ansiolitici (tranquillanti minori) che, oltre all’attività ansiolitica e muscolo-rilassante, sono in grado di indurre il sonno; - neurolettici (tranquillanti maggiori) o antipsicotici, che sono impiegati nel trattamento della schizofrenia cronica, nei soggetti con allucinazioni, turbe psichiche e movimenti incontrollati; 2) «stimolanti» del Sistema nervoso centrale (detti «psicoanalettici»), che includono: - antidepressivi, che rasserenano l’umore - psicostimolanti, dalla caffeina alle anfetamine. SEROTONINA - È un neurotrasmettitore chimico che, tra le molteplici funzioni, controlla le reazioni emozionali e regola il ritmo veglia/sonno. Bassi livelli di serotonina nel cervello aumentano il rischio di depressione. - a cura di Giuseppina De Cesare, farmacista - FERMARE LA DERIVA VERSO LA MEDICALIZZAZIONE Se la legge 180 era stata resa possibile dai fermenti di quegli anni e dalle lotte politiche degli anni ’60-’70, inserendosi nel medesimo filone, è ora importante «contestualizzare» la situazione della psi- MC GENNAIO 2006 31 DOSSIER me farlo per essere al passo dei tempi anche nelle lotte. Quello che stiamo imparando dal movimento dei movimenti è la necessità di unirsi per «cambiare il mondo senza prendere il potere». Come farlo? Creando un mondo dove fare incontri per scambiare identità e per mescolarsi, contaminarsi e conoscersi, scambiare esperienze e opportunità tra diversi che siano uniti da due sole discriminanti ferree: «no» alla guerra e «no» all’esclusione crea- ta dal modello neoliberista. Mentre il modello alternativo deve cercare di rispondere alla filosofia del «pensare globalmente, agire localmente». Pertanto, pur tenendo conto delle differenze tra i vari dipartimenti di salute mentale, risulta chiara l’importanza di contrastare il pericoloso restringimento del concetto di cura sul versante medico-biologico, mentre il resto viene declassato a contorno. Un recente studio di Emanuela Storie ed esperienze torinesi QUANDO LA PSICHIATRIA PERCORRE ALTRE STRADE Le strutture di salute mentale sono troppo spesso scollegate dalla cittadinanza. Ciò favorisce l’espulsione e l’indifferenza. E, nel contempo, deprime la solidarietà. Per questo, a Torino, un gruppo di operatori ha tentato di agire concretamente per far cambiare l’«immaginario collettivo» della follia. E, nonostante le inevitabili difficoltà, i risultati non sono mancati... uesta è la storia di un progetto che potremmo chiaQ mare «Il Kiosko, il Cafè Neruda e altre meraviglie». La nascita del progetto. Un bel giorno di alcuni anni fa con due amici psichiatri, Tiraferri e Braccia, si discuteva sulla necessità di aprire nuovi sbocchi ad una psichiatria, la nostra perlomeno, in debito d’ossigeno, priva di creatività e massacrata dalla drastica riduzione delle risorse legata alla crisi del «welfare state». Ci dicevamo che quello a cui assistevamo era un sistema che, 20 anni dopo la chiusura dei manicomi, aveva prodotto una «trans-istituzionalizzazione»: la creazione di queste piccole strutture «bonsai», gli ambulatori della salute mentale, sortiva come unico effetto un atteggiamento di delega rispetto alla gestione del benessere psichico. Non si era quindi riusciti ad attuare quella saldatura con la comunità locale che era negli intenti, così di fatto gli ambulatori di salute mentale risultavano (e risultano tuttora) ancora troppo scollegati dalla cittadinanza, rendendo difficile il lavoro di prevenzione e di inclusione. Ne sono derivati una cronicizzazione di comportamenti passivi e richiedenti, nonché uno scollamento dal tessuto sociale, elementi che hanno favorito atteggiamenti espulsivi o di indifferenza, perdendo due formidabili fattori spontanei di terapia: la solidarietà ed il senso di appartenenza. Quello che ci proponevamo era quindi di favorire un processo di riconoscimento e supporto alle reti informali della solidarietà primaria (amici, vicini, parenti) e secondaria ( volontariato, associazionismo, etc.), favorendo la costituzione di una comunità «competente», ovvero in grado di attivare le proprie risorse e capacità di fronte ai problemi che si trova ad affrontare, in questo caso nel cam- 32 MC GENNAIO 2006 Terzina, ricercatrice presso il dipartimento di epidemiologia clinica dell’Istituto Mario Negri ci dimostra come a livello predittivo la diagnosi conti relativamente poco sulla prognosi (5%), a confronto con la presenza di una rete sociale che incide per il 35% sull’andamento della malattia. La ricerca scientifica, totalmente in mano alle multinazionali e all’università, deve spostare l’interesse sulla formazione, fermando la deriva verso la medicalizzazione. po della salute mentale. Con un gruppetto di infermieri nel 1998 abbiamo organizzato una festa di quartiere presso la polisportiva Centrocampo di via Petrella. Al termine dell’evento, abbiamo organizzato un corso di informazione che, nel marzo del 1999, ha portato alla nascita dell’associazione VOL.P.I. (Volontari psichiatrici insieme). Il coordinamento tra volontari ed operatori ha permesso una serie di iniziative (uscite serali, mercati per vendere le opere prodotte al Centro diurno, soggiorni estivi), ma nel tempo alcune fortunate occasioni ci hanno consentito di sviluppare un percorso più articolato, partito da queste riflessioni: 1. quando la persona colpita da malattia psichiatrica è in fase di compenso clinico, occorre dargli la possibilità di fare esperienza della e nella vita, mentre troppo spesso la malattia lo porta ad un isolamento sociale ed affettivo; 2. è necessario riattivare il sentimento dell'identità collettiva veicolandola con la riscoperta del piacere dell'aggregazione intorno a obiettivi condivisi e di cui sentirsi tutti protagonisti; 3. è fondamentale lavorare sul pregiudizio rispetto alla malattia mentale, favorendo la mescolanza e la prossimità che portano allo scambio di identità; 4. occorre ritrovare un ruolo sociale attraverso una vera riabilitazione che consiste, all’interno di strutture specialistiche, nell’apprendere nuove abilità o nel recuperare quelle perse con l’insorgere della malattia, per poterle poi trasferire all'esterno come competenze lavorative. A quel punto è nato il progetto «Catering», che recava in sé le riflessioni sopra elencate, nell’intento di affrontare la psichiatria come lo spazio dove recuperare solidarietà, creatività e senso di appartenenza. Appariva riuscito, quindi, il tentativo di far percorrere dalla psichiatria una strada alternativa al disagio e alla sofferenza. IL GRUPPO CATERING OVVERO «IL PRANZO È SERVIITO» È nel 2001 che, grazie ad un finanziamento ottenuto mediante un bando, alcuni operatori insieme a dei volontari Vol.p.i. decidono di allestire un progetto definito «Il pranzo è servito». Il progetto risulta così strutturato: 8 persone vengono affidate ad un cuoco-tutor che per due mesi lavora per affinare le capacità culinarie dei pazienti. Divisi a rotazione in camerieri e cuochi, gli 8 pazienti preparano quindi tre pasti a settimana presso il Centro diurno, pasti ai quali mediamente partecipano una ventina di persone. L’esperienza viene replicata l’anno successivo fino a quando, nel giugno 2003, si tiene la prima cena aperta all’esterno: poiché «Amnesty International» sta conducendo una campagna sulla terribile situazione dei manicomi bulgari, noi proponiamo di tenere una conferenza presso il Centro diurno con un pasto interamente preparato dal nostro gruppo Catering (8 pazienti, 2 operatori, 6 vo- MISSIONI CONSOLATA La rivisitazione del paradigma di malattia in psichiatria deve ricordarci quanto avvenuto, per esempio, rispetto alla tubercolosi, ove le abitazioni insalubri sono state individuate come imporA lato: la cucina del Centro diurno, dove si preparano i pasti per il Servizio catering, che porta il nome suadente de «Il pranzo è servito». Sotto: la tavolata imbandita dal Servizio catering in occasione di un ma per i pazienti sono il tramite per dei piccoli lussi: una bibita quando si esce la sera o la possibilità di offrire un caffè ad amici, parenti, operatori. A febbraio il freddo torinese taglia il volto ai pazienti, ma nei loro occhi continua a leggersi la volontà di essere presenti, e di fronte al cedimento di un volontario sono quegli stessi occhi a far sentire un pò meno il freddo... lontari) al prezzo concordato di 10 euro. Inizia quindi il percorso di mescolanza, e gli ottimi esiti ci inducono a proseguire e potenziare il progetto, fino al riconoscimento della società italiana di psichiatria, che nel giugno 2004 ci affida il buffet per un convegno che prevede la partecipazione di oltre 200 persone. Contestualmente iniziano le cene bimensili presso «Cafè Neruda« e «Casseta Popular« (storici circoli Arci di Torino), che mettendo a disposizione dei pazienti la cucina, consentono l’affinamento delle abilità e della compattezza del gruppo, unitamente ad un notevole aumento dell’autostima da parte dei pazienti. La testimonianza diretta dei fruitori delle cene (60/70 ad evento) ha consentito un cambiamento nell’«immaginario collettivo della follia», vissuta non solo più in termini di pericolosità o imprevedibilità, ma anche come una malattia dietro la quale si celano personalità e risorse da scoprire. IL KIOSKO Novembre 2003, fa freddo a Torino. Siamo in una stanza della Circoscrizione 6, a discutere con una serie di associazioni su di un progetto di riqualifica della nostra periferia. Seduta al tavolo con me c’è anche Maria Grazia, presidente delle Vol.p.i. In questa sede giunge la proposta di affidarci in gestione il bar della polisportiva Centrocampo e, nel marzo 2004, parte subito l’esperienza: dal lunedì al sabato dalle 16 alle 24 e la domenica dalle 8.30 alle 13. Dietro il banco un membro Vol.p.i. (ruotano in una dozzina) e due pazienti (una quindicina). Le regole di convivenza si decidono nel gruppo lavoro che si tiene ogni giovedì e i compensi vengono erogati in base agli incassi e alle ore lavorate. Il Kiosko diventa luogo di aggregazione: si mettono dei tavolini all’aperto e il sentore di autentica mescolanza appare forte. Il nuovo progetto Kiosko si muove nella direzione giusta. A molti le somme guadagnate sembrerebbero irrisorie, IL CAFÈ NERUDA È in quello stesso locale dove fummo ospiti col progetto Catering, che nel 2004 prende l’avvio il terzo progetto delle Vol.p.i.: il proprietario del locale ce ne offre la gestione nel suo complesso. Tra mille difficoltà, il 29 settembre siamo pronti: dietro il bancone non solo più membri Vol.p.i. e pazienti, ma chiunque sia interessato al progetto e abbia abilità da condividere. Obiettivi dell’attività sono, come sempre, la promozione dell’autonomia dei pazienti mediante la creazione di un lavoro che generi retribuzione, nonché il rafforzamento delle relazione sociali. Fondamentale è il contenimento della vulnerabilità legata alla malattia (per via della minor resistenza agli stress) attraverso l'organizzazione non rigida dei turni né al Kiosko né al Neruda, mentre il collegamento con il gruppo di lavoro settimanale consente l’elaborazione di problemi e vissuti così come la condivisione di gioie e successi. Per i volontari Vol.p.i. l’esperienza rappresenta un modo per sentirsi co-protagonisti del miglioramento della qualità della vita dei pazienti, così come era avvenuto anche per tutti gli altri progetti; per i pazienti, ancora una volta, è un mezzo terapeutico: il lavoro che dà una retribuzione, che riempie qualche ora altrimenti vuota, che consente di relazionarsi con l’esterno perché «diversi» sono loro per noi come noi per loro. osì, sull’onda dell’entusiasmo dei pazienti, mi lascio C trasportare dai sogni e immagino che la risposta alla crisi che tutto investe, possa essere per noi la creazione di un’autonomia attraverso una ricerca creativa di lavoro, come le microimprese del Sud del mondo: le panetterie solidali, gli orti collettivi, i refettori popolari. Mi immagino tutti insieme nei nostri orti, nei circoli, nelle piazze, ma poi mi fermo perché il mio sogno non diventi un delirio. Da ottobre 2004 un altro circolo Arci, l’«Ornato di te», ci consente di continuare il sogno mentre il Neruda è ormai una parentesi chiusa dalla quale abbiamo imparato tanto ma che, sia pure a malincuore, abbiamo dovuto abbandonare... La complessità dei progetti gestiti talvolta ingenera responsabilità e stress anche su noi operatori e volontari, ma negli occhi dei pazienti sempre si ritrova la forza per ricominciare a sognare. UGO ZAMBURRU (ha collaborato Nadia Greco) MC GENNAIO 2006 33 DOSSIER tanti tanto quanto l’agente patogeno. IL MANICOMIO È DENTRO DI NOI Siamo partiti dal nostro ambulatorio psichiatrico, lì al primo piano. Siamo passati ai danni prodotti dal neoliberismo su ogni aspetto della vita e dunque anche sulla salute, troppo spesso mercificata. Abbiamo parlato della trasformazione della psichiatria e sulla sua eccessiva medicalizzazione, a scapito del contesto, che invece è essenziale. In una vita da cui è bandito il dolore, esorcizzata la morte, esaltata la filosofia del vincente, il manicomio è dentro di noi, nel nostro dividere il mondo in buoni e catti- Note. (1) La prima esperienza è stata tentata a Cochabamba, città boliviana di un milione di abitanti in cui una multinazionale ebbe la gestione della rete idrico-fognaria e, senza tentennamenti, aumentò il prezzo delle bollette a 20 dollari al mese, quando il reddito medio è di 60 dollari. E con la chicca di una legge ad hoc che vietava la raccolta di acqua piovana per non danneggiare i profitti della multinazionale statunitense... (2) Consigliamo la visione di «Family life», un film del regista Ken Loach, che, nonostante gli anni, mantiene un suo profondo significato. (3) Si veda il film «Matti da slegare» di Marco Bellocchio. (4) Si veda il libro «Portami su quello che canta», storie di ordinario sadismo in manicomio e del coraggio di Pino e Vittorio che hanno testimoniato l'accaduto, due semplici infermieri psichiatrici contro il professor Coda Al Centro diurno: la testimonianza di una volontaria di «Volpi» «Salve buonasera grazie e arrivederci» Il Centro diurno è un posto particolare dove la terapia principale consiste nello stare insieme per parlare, ascoltare, fare le piccole cose della quotidianità. Perché il pregiudizio e l’esclusione sociale siano meno pesanti. a follia di Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del L «Barone Rampante» di Italo Calvino, trovava spazio in un’infinita distesa di alberi, tra parenti facoltosi e impalpabili storie d’amore con bionde chiome attraenti dai nomi di fiori dolci e sottili. Niente di simile per il «matto» dei giorni nostri. No, il Centro diurno è una sede decisamente più terrena, così descrivibile: una piccola Asl un po’ speciale con dei pazienti molto, molto colorati e le pareti in festa. È strano entrare in questo ambiente apparentemente incolto, disomogeneo e confusionario. È un flusso continuo di stimoli, appena si varca la soglia che vuole dividere i matti dai normodotati. Il Centro diurno è un vulcano carico di personalità, malattie e realtà diverse, ognuna con la stessa dignità e volontà di essere. Subito si viene investiti da mille domande, travolgimenti emotivi e fisici, abbracci, strette di mano, saluti più o meno calorosi, sguardi fugaci che scrutano il vestito del nuovo arrivato le scarpe la borsa, nel tentativo di riconoscere qualcosa di familiare e partecipare all’accoglienza del nuovo venuto. Anna, vecchia e giovane ballerina del Balôn (mercato popolare che raccoglie il più vasto panorama di differenze in Torino), ti invita caldamente a ballare con lei, accompagnando la musica con ancheggiamenti e singolari passi di danza... Paolo ti parla di quando era medico, che poi è diven- 34 MC GENNAIO 2006 e il sistema che gli stava alle spalle, ma alla fine Coda è stato condannato. (5) Per non parlare dei modelli alimentari alla McDonald’s, per i quali consiglio la visione del film «Supersize me», che racconta di un giornalista che per un mese mangia solo da McDonald’s, ingrassando a dismisura e ritrovandosi con esami del sangue da paura, veramente a rischio di vita. (6) Luigi Bobbio. «Giuro di esercitare la medicina in libertà e indipendenza. Medici e industria», Einaudi 2004. (7) Informatore anonimo, «La Mala Ricetta. Dieci geniali mosse del marketing farmaceutico», Fratelli Frilli Editori, Genova 2000. (8) Per Raffaello Cortina Editore, 1998. (9) E in Italia... Qualche tempo fa, sono usciti gli indici dei consumi nel nostro paese e saltava agli occhi che negli ultimi 2 o 3 anni è raddoppiata la vendita di Ferrari e quadruplicata quella delle imbarcazioni oltre i 14 metri... Dati che fanno pensare, se paragonati ai «nuovi poveri» che si stimano sull’or- tato alcolista, ma ora ne è uscito e vorrebbe un lavoro, sinonimo di dignità e normalità; mentre mi parla sento forte il suo alito di birra, e non capisco se parli di ex alcolismo per convincere me o se stesso. Poi c’è Irma, non parla tanto, quanto basta per lamentarsi di 248 euro di sussidio che non possono essere sufficienti per chi ha la pretesa di fare due pasti al giorno. Come loro mille altri, desiderosi di raccontarsi e dividere un pò la noia degli stessi problemi di sempre... l Centro diurno è uno spazio piccolo, adatto ad un amIfanno biente familiare, dove poco più di 40 persone al giorno pranzo e cena, mentre altre 20 si alternano nelle attività che scandiscono le giornate di molti di loro. Nell’aria si respira calore, l’ambiente, spoglio e un po’ trasandato, trova vita negli occhi di medici e operatori, che più che un mestiere paiono aver scelto una vocazione... Qui ognuno si racconta attraverso un vestito, una mania, un movimento fisico ricorrente, un tic ossessivo... E il Centro si riempie di rumori e silenzi che si alternano secondo una disordinata sequenza. E tutti trovano qui il proprio spazio, più o meno confortevole, nelle attività terapeutiche, nei gruppi lavoro, nello sport, nel gruppo lettura, nello «spazio Donna»... Sì, perché qui come altrove le donne sono uguali e diverse da tutte e parlano di amore, di sensazioni fisiche, di sesso e dei problemi di tutte le donne, forse non di cellulite e make-up, ma qui tutti i mesi bisogna confrontarsi con le difficoltà economiche, con i pregiudizi e con gli psicofarmaci, e il tempo per le follie moderne manca. Sui volti di molti di loro il tempo si è fermato e alle volte la sensazione è che abbia vinto la loro natura puerile, come confrontarsi con eterni bambini, pensieri confusi (apparentemente incomprensibili) e capricci, e nell’essersi fermato è il tempo stesso che gli infligge l’eterna condanna ad essere diversi, incompleti, incompresi, ignorati. Tutto parla di loro nel Centro, i disegni dell’arte terapia, qualche trofeo sportivo, i colori, i rumori e la musica, variegata come loro; arrivare in questo spazio pieno di diversità induce a ritrovarsi e a cercare di esprimersi. Ogni gesto qui si carica di culto, apparecchiare la tavola diventa una tappa del percorso di crescita e di cura, in esso ri- MISSIONI CONSOLATA dine dei 6-7 milioni, ovvero il 10-11 per cento degli italiani che non riesce ad arrivare alla fine del mese, e ancora più inquietanti se letti nella prospettiva di un governo che vuole creare stati fortezza (legge Bossi-Fini sull'immigrazione, sino alle dichiarazioni leghiste sulle cannonate alle navi che trasportano disperati in fuga), ma soprattutto colpire al cuore i più deboli attraverso proposte di legge come quella sulla tossicodipendenza. (10) Giace in Commissione parlamentare la proposta Burani Procaccini sullo smantellamento della legge 180 in ambito psichiatrico. (11) Cosa sono gli attuali Cpt, i famigerati «Centri di permanenza temporanea» per immigrati, se non una moderna versione dei manicomi? A lato: un banchetto dell’associazione «Volpi» per le vie di Torino; è una maniera per autofinanziarsi. siede la consapevolezza degli altri, del numero di commensali che dividono con te il pasto, e la conta delle posate e dei bicchieri diventa uno dei mezzi attraverso cui recepire l’«altro», in una costante lotta contro l’individualismo, l’alterazione patologica persistente del nostro sistema che vive e si nutre del culto di sé e dei propri oggetti. avide passeggia ininterrottamente lungo il corridoio del Centro diurno (qualche metro invero!), e quando qualcuno esce saluta cordialmente con un «Salve buonasera grazie e arrivederci», secondo una formula che è difficile ricondurre a questioni di mera rigida educazione... Come Gianfranco che comunica con tono alto e a tratti imponente, muovendo ricordi che spaziano probabilmente ben più lontano di quanto alcuni di noi sappiano fare (spesso per via del timore di ridare vita a speranze perdute e a volti senza rughe sinonimo di libertà e ricchezza...), e se vuole parlare parla, indipendentemente dalla presenza o meno di un interlocutore; nessuna distinzione apparente tra il sentire e l’ascoltare (qualcuno si è riconosciuto?), così io parlo con Simonetta, un’infermiera minuta con gli occhi pieni della storia di ognuno di loro, lui mi guarda e dice: ”l’acqua potabile di Pecetto, è ancora potabile anche se prima era l’acqua del mago dei fiori, ora non più ma adesso è ancora buona” e in una impalpabile alienazione intima, mia personale evidentemente, ritrovo una strana sensazione di comunione col mio mondo. Più comprensibile e forse più significativa dello stesso straniamento di fronte ad una scatola nera che parla ininterrottamente nell’infimo tentativo - certo non del tutto fallito... - di omologare istupidire generare ignoranza o artefatte forme di conoscenza, e la spiccata propensione alla solitudine trionfa incontrovertibilmente. Una giornata al Centro diurno: una tensione costante verso il tentativo di comprendere la logica di un saluto troppo complesso e tortuoso, di un mago dei fiori che forse appartiene ai suoi ricordi e riemerge casualmente o forse no. Amo pensare che nei meandri complessi e talvolta ingestibili della loro mente si celi una logica illogica, o una logica incomprensibile, o una illogicità talvolta eccentrica e creativa... guardare e vivere i matti è come essere affetti da una miopia in cui si cela la difficoltà a capire se il mondo vero è quello con gli occhiali o senza, se i due mondi sono affini e D complementari e in quali di questi la dimensione umana trovi più libertà e autonomia. ssere matti vuol dire sentire le voci e non riuscire a libeE rarsene. Essere matti vuol dire avere le allucinazioni e rasentare in preda ad esse talvolta anche la violenza. Essere matti vuol dire vivere la diversità come una condanna in una ricetta medica, in un sorriso mai rubato, nella vergogna di essere fruitori di sussidi. Essere matti vuol dire anche subire un decadimento fisico, perché gli psicofarmaci rovinano i denti, fanno cadere i capelli e spesso inibiscono l’atto sessuale, riducendo drasticamente la possibilità di condurre una vita normale, un lavoro, una famiglia, dei figli. Essere matti vuol dire spesso essere identificati con la violenza e subire la vergogna e il pregiudizio della diversità come elemento negativizzante. Essere matti vuol dire essere vittime, per ragioni di familiarità o meno, di una fra le malattie più invalidanti socialmente. Ma essere matti vuol dire anche essere stati fra i più grandi produttori di arti e musiche di tutti i tempi, nelle espressioni più acute ed esasperate della dimensione interiore. Essere matti vuol dire anche forse vivere un autentico culto della differenza nelle sue forme più deliranti e creative, come un viso struccato nell’esasperante tentativo di sembrare ciò che si è, come un colore sbagliato in un disegno sbagliato, come un discorso sconclusionato in una stanza vuota o in una strada piena ma ugualmente vuota.... Essere matti, forse, vuol dire anche pensare che un domani un matto possa essere considerato un malato come tanti, come un insulino-dipendente, come un ventenne che trascorre le proprie giornate a lasciarsi vivere dalla Tv, come un malato di Aids, come un portatore di bypass. Se così fosse, allora domani vorrei svegliarmi in un mondo di matti, dove le malattie non siano più un virus che si trasmette con una stretta di mano, ma un infelice evento nella vita degli altri che induca quantomeno a rispettarli e forse anche a diventare noi stessi un tramite per la tanto agognata «normalità», come uno stipendio per un cassaintegrato Fiat, la televisione spenta per la nuova generazione, uno spazio caldo per un mendicante a rischio assideramento. NADIA GRECO MC GENNAIO 2006 35 DOSSIER L’esperienza della cooperativa «Agape» (1) RIAFFERMARE IL «VALORE DELLE PERSONE» È più di una «convivenza guidata». È un’esperienza di «welfare comunitario», che va oltre la pura cura e riabilitazione. Avviene ad «Agape, Madre dell’accoglienza», una comunità laica ma con una forte impronta evangelica. DI N ella riabilitazione psichiatrica il concetto di «convivenza guidata» in una prospettiva educativa e cognitivoemozionale riveste, in alcuni passaggi del processo psico-socio-riabilitativo, un ruolo centrale nello sviluppo dei processi di autonomia. La possibilità di affrontare esperienze emotivamente intense di convivenza familiare e di avvio ad esperienze lavorative e di autosufficienza nella gestione quotidiana della vita, in una casa e in un contesto «normali», è un passaggio fondamentale. È una tappa indispensabile nel percorso di soggetti con storie di disagio, desocialità, marginalità istituzionale, o con disturbi del comportamento e della personalità in fase di iniziale compenso. Attraverso di essa le persone affrontano, in una condizione esistenziale ed abitativa «normale», le difficoltà dell’autosufficienza e dell’«empowerment» personale. RISORSE, NON PESI Le diverse linee di intervento progettuali-individuali, fanno riferimento alla necessità di riaffermare il concetto di «valore delle persone». Riaffermare il valore vuol dire ricostruire strumenti di aiuto che permettano di riscoprire le persone deboli come una risorsa e non come un peso. Il luogo presso cui alloggiano gli individui è, a tutti gli effetti, una casa, un’abitazione rurale o urbana dove convivono, badando quasi autonomamente ai propri bisogni logistici, da 5 a 10 persone supportate da alcune figure educatoriali e 36 MC GENNAIO 2006 psicologiche. Questi ospiti provvedono a tutti i momenti della quotidianità come i pasti, la pulizia, la manutenzione degli spazi. Inoltre, almeno per una parte di loro, è possibile partecipare ad attività lavorative e/o di formazione in campo agricolo e zootecnico biologico, silvo-colturale e di tutela del territorio nell’ambito di una cooperativa sociale. Il modello di riferimento per la organizzazione si rifà al concetto di un «comunitarismo forte» senza escludere gli aspetti professionali e deontologici delle attività proposte, delle «tecniche», dei saperi e del «saper fare». ALESSANDRO MELUZZI L’obiettivo è certamente quello di un pieno recupero dell’autonomia personale, del godimento dei diritti e della «cittadinanza», in stretta integrazione con l’équipe territoriali e del sociale, per la costruzione di un vero «welfare comunitario». Quando parliamo di welfare non ci riferiamo solamente alla tutela delle fasce più deboli, ma al fine fondamentale che è quello di valutare l’insieme dei rapporti e la qualità dei processi di integrazione che riguardano tutti i cittadini. Esercizio dei diritti civili e sociali, giustizia sociale, parità delle opportunità, MISSIONI CONSOLATA Comunità «Agape, Madre dell’accoglienza»: «tutti insieme, appassionatamente». consistenza e qualità delle relazioni tra le persone, valorizzazione delle risorse dei singoli, questi sono i contenuti del «welfare». Non sono solamente le risorse economiche che concorrono alla produzione del nostro «welfare», ma sono soprattutto le risorse umane autonomamente impiegate dai singoli individui, dalle famiglie, dai gruppi a determinare una migliore qualità della vita e quindi maggior benessere. Pensiamo soltanto all’importanza delle attività di cura e educazione, ai flussi relazionali ed affettivi che vengono garantiti dalla famiglia, dalla solidarietà diffusa sul territorio, al vicinato, all’impiego capillare e determinante del volontariato in alcune gravi situazioni di emarginazione sociale e di sofferenza. Queste risorse umane sono l’ossatura principale del nuovo «welfare». Parliamo di convivenza in fraternità, pur tra i diversi carichi da sostenere, secondo un’ispirazione che si può definire «monastica», dove gli operatori e i cosiddetti utenti camminano insieme. Condividendo, sia sul piano del progetto di vita, sia su quello dell’affettività e delle emozioni, un’ispirazione che si definisce giorno per giorno, in un dialogo di crescita e conoscenza reciproca nella libera proposta dell’annuncio evangelico. L’ispirazione della comunità nel suo progetto educativo è comunque laica e non confessionale, perché tesa a valorizzare la ricchezza delle identità, delle pluralità e delle diversità, nell’ascolto dei singoli bisogni, nel rispetto e nella valorizzazione di tutte le fedi, opinioni e posizioni, purché rispettose della libertà, responsabilità amorevole e dignità dell’uomo e della donna. RECUPERARE L’AUTONOMIA PERSONALE Nel quadro normativo vigente, «Agape, Madre dell’accoglienza» Onlus è da ritenersi in tutto e per tutto una cooperativa di tipo A, che gestisce specifiche e variate forme di residenzialità ria- bilitativa centrate sulla persona. Tutti gli inserimenti effettuati nel percorso comunitario di Agape sono da considerarsi rigorosamente «progetti individuali». Sia che si tratti di percorsi definiti dal Dipartimento di salute mentale di provenienza, sia che avvengano nella dimensione di accreditamento attuata con il comune di Torino e con alcune Asl (1, 2, 3, 4) della regione Piemonte per disabili comportamentali, valutati dalle Unità valutative handicap; sia che si tratti di doppie diagnosi con relativo coinvolgimento dei servizi di tossicodipendenza e di algologia; sia - infine - che si tratti di soggetti inviati dall’autorità giudiziaria provenienti da case circondariali o da Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), e sottoposti a misure di sicurezza. La compresenza di problematiche differenziate e variegate all’interno di uno stesso piccolo nucleo abitativo-esperienziale, è nella nostra valutazione più una ricchezza che un problema. La multiproblematicità e l’inclassificabilità all’interno della stessa persona e tra persone, favorisce a nostro giudizio le relazioni, l’affettività, la complementarietà solidale delle differenti e irriducibili storie personali. Una selezione spesso più burocratica o casuale, che nosografica o razionale a nostro parere, separa artificialmente ciò che la vita, così come gli spazi e i territori esistenziali e storici uniscono e spingono all’incontro-confronto, esattamente come in una famiglia allargata o in una comunità evolutiva. Rimanendo nella lo- gica di voler realizzare un «welfare» comunitario si realizzano percorsi individuali di alta, media, bassa intensità inerenti a linee progettuali: formazione/lavoro, casa/habitat sociale, socialità/affettività. Il budget di cura mira alla deistituzionalizzazione e al recupero dell’autonomia personale. In questo modo si vuol sviluppare un programma di passaggio progressivo da forme prevalentemente sanitarie o di risposta in emergenza al bisogno socio–assistenziale a forme partecipate ed organiche al tessuto sociale. Lo spirito che guida la realizzazione di tali progetti è legato ad uno schema «fraterno», orientato da concetti etici e valori forti d’ispirazione cristiana, secondo un modello educativo ed emozionale intensamente comunitario, con valori dell’ecologia «profonda» e di un «umanesimo integrale», evocato dalla rivelazione e dalla sua profezia di liberazione. La comunità anima l’eucaristia nell’Abbazia di Santa Maria di Vezzolano (tutte le domeniche alle 18.00), la scuola di gregoriano, l’adorazione eucaristica, il laboratorio d’icone nel corso della settimana, ed altri momenti liturgici, culturali, formativi e artistico-espressivi. Circa all’evoluzione ed alla fuoriuscita dal percorso «Agape, Madre dell’accoglienza», tendiamo a sottolineare che come esperienza sia già in sé da intendersi come post-istituzionale e post-psichiatrica, rappresentando un laboratorio-atelier di stili di vita comunitari, non necessariamente considerabili a MC GENNAIO 2006 37 DOSSIER tempo, già oltre la marginalità e la «diversità». Si sottolinea peraltro che parte di coloro che costituiscono l’anima del progetto cooperativo sono del tutto autosufficienti produttivamente, e non provenienti da esperienze cliniche ed istituzionali, ma si muovono in un ambito di scelte di forte ispirazione valoriale di tipo comunitario. È scontato che, se coloro che hanno esaurito l’esperienza risocializzante di Agape, intenderanno permanere all’interno di questo disegno, come stile di vita di welfare comunitario, la cooperativa operante sul territorio come nicchia economica-sociale, dovrà dare il segno della non sporadicità ed episodicità di questo cammino. Tendiamo quindi a configurare un’ipotesi operativa di tipo sociologica ed antropologica di più vasto respiro, rispetto alla pura cura e riabilitazione. Piuttosto, aspirazione ad una profezia che si realizza, anche con il suo colore di utopia concreta e di sogno ben radicato nel reale. UNA RETE DI «CASE DI FRATERNITÀ» Gli inserimenti abitativi sono realizzati secondo le indicazioni regionali, in piccoli nuclei in rete, da noi definiti «case di fraternità», ove gli operatori sono accompagnati nella quotidianità e nei singoli progetti da operatori dipendenti con presenza quotidiana diurna e notturna, supportati da servizi centralizzati di terapia e riabilitazione (medico-sanitari, psichiatrici, psicologico-clinici, psicoterapeutici, pastorali) concordati con il 38 MC GENNAIO 2006 servizio e inseriti nel progetto individuale. Il modello organizzativo a «piccole case in rete», garantisce - a nostro giudizio - il massimo dell’umanizzazione e della personalizzazione, ma soprattutto la percezione da parte di tutti (ospiti, operatori, famiglie, servizi) che non si tratta di una piccola istituzione totale e neppure di una «comunità protetta» per post-acuti. Bensì ha tutti gli effetti di una casa, con una convivenza guidata e supportata, inserita armonicamente in una rete integrata di persone, relazioni, affetti, organizzati anche in molti momenti di attività comune tra i vari nuclei. A partire dalla celebrazione eucaristica settimanale nell’Abbazia di Vezzolano, animata regolarmente dalla comunità, seguita e preceduta da momenti ludici di festa e d’incontro, che coinvolgono anche volontari, famiglie, amici. LE PERSONE Alla cooperativa aderiscono insieme, secondo schemi normativi vigenti, soggetti disagiati e personale terapeutico ed educatoriale, realizzando esperienze lavorative comuni in ambiti diversi e spesso attinenti alla valorizzazione agricola e naturalistica del territorio. È previsto l’impiego del medico-psichiatra con funzione di coordinatore del progetto, del responsabile pastorale, dell’amministratore delegato, del consigliere responsabile della logistica, del consigliere responsabile delle relazioni istituzionali, del supervisore etico, del responsabile dell’assistenza le- gale, di psicologi responsabili dei programmi riabilitativi e dei progetti individuali, del supervisore esterno dell’organizzazione dei progetti, e di animatori di comunità (operatore socio sanitario, educatore professionale, animatore sociale, formatori). Abbiamo usato il termine animatore in quanto rende più comprensibile il ruolo delle persone. L’animatore è un «operatore» che nelle strutture guida i gruppi nei processi evolutivi, gestendo le loro dinamiche interne, stimolando la partecipazione ed il coinvolgimento dei singoli. Sa far emergere i bisogni e le risorse dei singoli gruppi, promovendo attente azioni di deistituzionalizzazione e autonomia. Organizza e gestisce, anche in collaborazione con esperti, attività che, favorendo l’espressività, la creatività, e la comunicazione possono costruire momenti educativi e spazi sociali. Inoltre l’animatore utilizza come strumento operativo nella valutazione del funzionamento sociale, nella pianificazione di interventi individualizzati e nella valutazione degli esiti raggiunti strumenti di valutazione obiettiva e di controllo di qualità, ad esempio la V.a.d.o. (Valutazione di abilità e definizione degli obbiettivi). Tali istrumenti sono oggetto di discussione e valutazione nelle riunioni periodiche. L’animatore attiva una rete di rapporti con agenzie, servizi sociosanitari, realtà territoriali e le istituzioni sempre in un ottica di tipo preventiva e psico-socio-riabilitativa, nella verifica di qualità richiesta dai percorsi dell’accreditamento pubblico. La dizione «fratello di roccia» nell’accezione delle «pietre scartate» tese a diventare «testata MISSIONI CONSOLATA d’angolo» della concezione evangelica, sottolinea l’appartenenza allo stesso vissuto ispirato ad un comunitarismo forte, piuttosto che ad una rigida distinzione operatore-ospite. Il «fratello di roccia» condivide innanzitutto la vita e la quotidianità con un carico di responsabilità ispirate a quella «accoglienza ed assunzione dei bisogni dell’altro nell’incontro», che fa parte dell’anima profonda del progetto. L’INCONTRO CON IL MISTERO Nel modello di Agape, l’incontro con l’altro è la realizzazione di un mistero che apre tutti (figure professionali e non) all’incontro con il mistero e l’assoluto. Dal mistero dell’incontro all’incontro con il mistero e ritorno. Ben lontani da una visione rigida, dogmatica e men che mai confessionale o integralista, il cammino di ricerca di tutti si manifesta nella ricerca di un percorso di vita e d’identità con-diviso, fortemente ispirato al senso personale della Buona notizia evangelica. Anch’essa ben lungi dal costituire un elemento di divisione tra operatori e ospiti, credenti e non, diviene invece un metodo di assunzione ed accoglienza dell’assoluta centralità dell’altro-persona in ogni momento ed in ogni passaggio del cammino e del recupero di autonomie, abilità sociali, autosufficienza, produttività e cittadinanza attiva. La formazione e supervisione degli animatori-fratelli di roccia è affidata a riunioni periodiche delle singole équipe di casa con gli psicologi, lo psichiatra e il direttore educativo-spirituale. È presente inoltre una supervisione esterna, sia di tipo professionale, psicologico-clinico e psichiatrico, che di orientamento etico pastorale ed educativo. Vengono attivati periodicamente corsi di riqualificazione affidati ad agenzie esterne su progetti validati in sede regionale e nazionale. Importante nella vita della comunità è anche l’apporto realizzato dai soci volontari e da realtà associative ecclesiali e laiche che partecipano periodicaLa rupe della Verna (Arezzo), centro di incontro e riflessione degli operatori di «Agape». mente alla vita della comunità (Caritas-Scuola d’Accoglienza Diocesi di Asti, gruppi missionari legati ai missionari della Consolata). Sono sede di formazione professionale e d’animazione spirituale, l’Abbazia di Vezzolano, la casa natale di San Giuseppe Cafasso in Castelnuovo Don Bosco e il Monastero del Rul in Albugnano, dov’è ubicata la sede amministrativa. La cooperativa è convenzionata come sede di formazione con la Scuola di psicologia e psicoterapia dell’Università di Siena, sede di tirocini e supervisione. Ha in corso un progetto per la formazione sulla «pet-therapy» in collaborazione con l’Università di Torino. VIVERE IN «CASA» Il lavoro in «comunità» è fondato sulla multidisciplinarietà, svolto da diverse categorie professionali, medici – psichiatri, psicologi, educatori, operatori di supporto, animatori e volontari. La meta è la riduzione del «malessere» personale, il recupero e lo sviluppo delle abilità, il reinserimento sociale e la riumanizzazione della persona che chiede aiuto. Proprio per questo principio di «accoglienza» e «cura» che l’organizzazione dei programmi deve essere flessibile e al servizio del «trattamento». La scelta di vivere in una «casa» fa sì che ogni individuo partecipa in maniera attiva, a quelle che sono le mansioni domestiche; in quanto per poter preparare un pranzo, ad esempio, ci si deve mettere nella condizione di dover modulare le proprie esigenze con quelle altrui e cercare un punto di incontro e di organizzazione lavorativa nel vero senso della parola. Questo porta a confrontarsi con se stesso e con gli altri e costruire una gerarchia di bisogni che non sono più individuali ma diventano «bisogni comunitari». Tutto ciò implica un’apertura agli altri ed un aumento della capacità di ascoltare l’altro da me. Il gestire la «casa» permette di riappropriarsi di un’organizzazione mentale e psicologica che vanno al di là del riassettare o cucinare. Ogni persona, in base alle proprie caratteristiche e pre- disposizioni svolge dei compiti, che vanno dall’occuparsi dei luoghi, formare legami, ricostruire storia, attaccamento e radicamento, fino ad attività esterne di tipo agricolo, zootecnico o di tutela dell’ambiente. Tutto questo permette di attivare una serie di «dinamiche», che riguardano la sfera esterna ed interna del soggetto. In questo modo durante l’arco della giornata il singolo individuo ha la possibilità di potersi mettere in contatto con se stesso e con il mondo, di rielaborare i suoi vissuti, e di generalizzare le abilità acquisite. Le attività strutturate sottoposte a verifica sono: - attività educative verso i bisogni personali e di comunità; - terapia psicologica individuale e di gruppo-integrata con farmacoterapia psichiatrica o legata alle necessità della medicina delle dipendenze o ad altre necessità sanitarie; - percorso di musico e danza terapia; - teatro terapia e psicodramma; - «pet-therapy» e attività con animali; - logoterapia; - attività di psicomotricità e attività creative ed espressive; - arteterapia e laboratori artigianali; - attività ecoambientali e agricolo-zootecniche; MC GENNAIO 2006 39 DOSSIER - lavori socialmente utili di manutenzione del territorio in collaborazione con enti pubblici locali territoriali; - attività ludiche, gite, viaggi e vacanze educative; - formazione professionale al lavoro anche attraverso la scuola o appositi enti accreditati; - momenti liturgici, incontro spirituale e preghiera - catechesi, formazione e revisione di vita personale. Questo permette di avere continui feedback e fa sì che l’organizzazione sia sempre in continua evoluzione per riuscire a trovare sempre il giusto progetto per ogni singolo individuo, adeguato allo specifico tempo del cammino. La cooperativa dopo una prima fase di attivazione riabilitativa introduce i singoli soggetti in attività produttiva esterna presso aziende agricole o di ricezione turistica o di ristorazione della zona con contratti e relazioni personali tra l’ospite ed il datore di lavoro esterno o tramite lavori socialmente utili realizzati dalle cooperative presso enti pubblici della zona, come comuni o le comunità collinari (come raccolta differenziata della carta, manutenzione aree verdi o manufatti pubblici). In questa fase, l’ospite che lo desidera può acquisire la qualifica di socio o socio lavoratore della cooperativa. UN «MONTE ATHOS DELLE DIVERSITÀ» La cooperativa si avvia ad accogliere attualmente nelle sue 8 case di fraternità circa una cinquantina di ospiti, occupando stabilmente con contratti di lavoro o contratti a progetto più di 20 operatori professionali nelle diverse qualifiche, affiancati da consulenti e volontari. Rispetto agli assetti di vita nelle case di fraternità, dopo aver sperimentato l’organizzazione a coabitazione completa (tipo «casa famiglia»), si è valutato che le autonomie personali e l’armonia complessiva dell’assetto sia garantita meglio da una contiguità discreta di operatori, che abitano con le loro famiglie in un’area circumlimitrofa alle case d’accoglienza ed a una rotazione in turno con ampi momenti di condivisione della quotidianità, ma anche della festa e della relazione umana, su progetti esistenziali condivisi. Non è indifferente il fatto che molti operatori siano legati tra loro da relazioni familiari, che esaltano sostanzialmente e simbolicamente questa specifica dimensione di comunità di famiglie accoglienti in cammino, con gli amici di una più ampia famiglia allargata. Questo modello originale di case di fraternità in rete (di città e di campagna), è reso possibile dalle normative legislative e amministrative vigenti. Vi si valorizzano infatti, la individualizzazione e personalizzazione dei percorsi rispetto alle grandi aggregazioni troppo istituzionalizzanti e marginalizzanti. Il baricentro geografico dell’esperienza è inserito provvidenzialmente in un’area di grande bellezza e di forte impatto paesaggistico e simbolico, come l’Alto astigiano, contrassegnato da luoghi di forte dimensione spirituale ed estetica. Intriso di romanico, di percorsi di pellegrinaggio e di boschi incontaminati, ma soprattutto segnato dalle tracce dei grandi santi sociali e mistici piemontesi (il Cafasso, Don Bosco, l’Allamano, Domenico Savio, il cardinal Massaia). Aspiriamo a vedere in questa sorta di «monastero del cuore», policentrico, diffuso e dislocato, fatto d’incontri e di recupero di autonomia e libertà, un piccolo «Monte Athos delle diversità», che si fanno ricchezza e delle pietre scartate che ricostruendosi, costruiscono e realizzano la casa e il regno dell’uomo e del Dio vivente che abita con lui. Comunità pellegrina nel deserto e sulla strada che pone qui la sua tenda perché: «Signore, L’ALTRO E IL MISTERO DELL’INCONTRO incontro con l'altro, la sua misteriosa e meraviL' gliosa incomprensibilità, accompagnata dalla sfida di conoscerlo e di accoglierlo, rappresentano il più stupefacente accostamento al profondo segreto della condizione umana. In questa ricerca di senso e questa pratica necessaria, dell'assumerci la responsabilità degli sguardi e dei volti che incontriamo sul nostro cammino, si dissolvono le distinzioni tra credenti e non credenti, tra laici e religiosi, tra mistici e razionali. Non vi è infatti uomo che non sia così poco credente, da non dover accogliere la sfida del mistero, della vita e della morte: e così poco amorevole da non dover sospendere, talvolta, il giudizio sugli altri e su di sè. Così come il bisogno e la necessità di accogliere l'altro, suscita un amore libero e gratuito, frutto di una scelta, ma necessario ed ineludibile. Infatti se l'accoglienza è puro, calcolo, tecnica, ragione o compromesso, debilita, sfibra ed annichilisce. Ben sperimentano questa contraddizione (che oggi è di moda chiamare «burnout») coloro che fanno professione di cura, di servizio sociale o di solidarietà in ambiente comunitario, istituzionale o sul territorio. 40 MC GENNAIO 2006 Così come coloro che soffrono o hanno sofferto di relazioni umane interpersonali distorte o distruttive. In questo cammino di ricerca di senso, che può rendere ogni pratica di relazione e di cura amorevole per chi la esercita e per chi la riceve, per sfuggire ad un cinismo autodistruttivo o ad una dissipazione caotica, la cooperativa «Agape, Madre dell’accoglienza» si propone come luogo di formazione e ricerca in cui i linguaggi della psicologia, della clinica, della filosofia e della scienza, si intreccino e si fecondino con la ricerca dell'antropologia cristiana, la teologia dell'amore trinitario e la buona notizia evangelica, gravida di speranza e di progetto divino-umano. La filosofia di Agape è volta a scoprire l'essere nell'ineluttabile provocazione della relazione personale, e sociale non solo nei suoi non scontati aspetti emozionali e pragmatici, etici e morali, ma anche trascendenti e mistici. L'incontro del sé e l'infinito, dall'esperienza alla rivelazione e ritorno, anche di fronte allo straniero, al folle, all'ostile, all'incomprensibile, al più piccolo, alla pietra scartata, che può divenire testata d'angolo. MISSIONI CONSOLATA L’esperienza della cooperativa «Agape» (2) LE PIETRE SCARTATE Una società malata di competitività sforna sempre più persone con disagi affettivi e di comportamento. Troppe sono le «pietre scartate» verso le quali deve andare la solidarietà del credente. Occorre agire affinché, in terra, il «paradiso» non sia accessibile sempre e soltanto ai soliti fortunati. DI «L a pietra scartata dai costruttori è divenuta testata d’angolo, ecco l'opera del Signore» (Salmo 118, 22-23). Le parole del salmista, che si ritrovano anche nel vangelo di Marco (12, 11-12) sono fondamentali per chi, come i missionari in qualsiasi momento e in qualsiasi situazione, desiderano proclamare il «Regno di Dio», non solo a parole ma soprattutto con i fatti, incominciando dagli ultimi. Le pietre scartate non sono «privilegio» del Sud del mondo; chi osserva con occhio attento e vigile può facilmente constatare che la loro presenza è ovunque nella nostra quotidianità. Papa Giovanni XXIII ci ha spiegato nella «Pacem in terris» che i segni dei tempi non sono segni posti da Dio nel cielo, ma cose compiute dagli uomini sulla terra. In questa enciclica il Santo padre elencava tanti aspetti positivi del momento storico che si viveva; ma c’è anche il retro della medaglia, ci sono gli eventi negativi compiuti dagli uomini, da noi tutti, che seminano abbandono, disprezzo, segregazione. Sono segni presenti nella nostra società che continuamente provoca «pietre scartate» verso le quali siamo chiamati ad annunciare, con interventi di accoglienza, la Buona notizia del vangelo. Le case di fraternità «Agape, Madre dell’accoglienza» sono luoghi in cui si concentrano le più diversificate storie di disagio e dissocialità: situazioni precarie, che producono marginalità e disturbi di comportamento e di personalità. Sono povertà estreme dove l’affetto e l’accoglienza sono state bandite. Sono storie frutto di una società sempre più egoista ed edonista dove vale solo il bello, il vincente, il tornaconto economico. In questa piramide, in ne- gativo, sono tanti gli esclusi che popolano il nostro quotidiano, il cristianesimo si è ridotto ad una etichetta invece di un coinvolgimento con il cuore e un impegno di vita. Davanti a questa urgenza dilagante c’è bisogno di persone che sappiano «curvarsi» davanti al fratello ferito e abbandonato ai cigli delle strade. L’evangelista Luca attraverso la parabola del «Buon samaritano» ci presenta l’essenzialità del vangelo con le parole finali della parabola: «Va’ e anche tu fa lo stesso» (Lc 10,37). Don Milani, il priore della Barbiana, davanti ai suoi ragazzi «montanari», segregati ed esclusi dalla scuola ufficiale e senza possibilità di inserimento nella vita sociale, aveva coniato il motto «I care» (mi interessa!). Gli interessava la vita di quei singoli ragazzi che vivevano nell’abbandono e nell’esclusione, ne fece la sua forza profetica con una adesio- ORAZIO ANSELMI ne e un compromesso personale e rispondendo ad una sfida del suo tempo. S. Giuseppe Cafasso, patrono dei carcerati e «perla del clero italiano», definisce le pietre scartate, (i condannati a morte) «i miei santi impiccati». Il suo eroico ministero e la sua vicinanza fisica a questi assassini incalliti, a questi derelitti della società, donò a ciascuno di loro, l’esperienza della solidarietà iniettando nei loro cuori la speranza evangelica che Gesù ci ha donato dalla croce: «Oggi sarai con me in paradiso». La gratuità della salvezza è di tutti. Il Cafasso ha sempre insistito, nella formazione del clero del suo tempo, affinché ogni azione di preghiera, di studio, di impegno del vissuto nella semplicità dell'ordinario senza cercare lo straordinario, formassero la vita e coniassero lo spirito dei futuri pastori in profondità! Bisogna avere MC GENNAIO 2006 41 DOSSIER sempre come obiettivo i bisogni del tempo, del luogo e soprattutto delle persone. Nella carità non c'è spazio per sfaccendati e accidiosi; la forza dei santi e dei profeti è soprattutto di «dire e fare». Davanti al pericolo di tante parole... «Signore, Signore», S. Giacomo ci allerta: «Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta» (Gs 2,26). Ad ogni cristiano dovrebbe interessare la vita dei fratelli dimenticati che il vangelo mette ai primi posti. La società, malata di primi po- sti per emergere e di competitività sfrenata per ingordigia, sforna continuamente e sempre più forme di disagio affettivo e disturbi comportamentali, il «paradiso terrestre» promesso a tutti è accessibile solo ai soliti fortunati. La solidarietà senza misura, traboccante e continua per gli ultimi della terra, gli amici di Dio, è la risposta e l'impegno di tutti coloro che hanno cercato il Signore con cuore sincero. «Agape, Madre dell’accoglienza» è un impegno, un tentativo di risposta a chi si trova in difficoltà psi- chiche vivendo esclusioni e segregazioni. Persone che gridano il loro dolore e che sono definite disturbate e pericolose, sono messe al bando il più delle volte anche dalle proprie famiglie. Desideriamo dire a questo mondo isolato, calpestato ed escluso che ci «interessa, ci sta a cuore» la loro dignità di esseri umani fragili e bisognosi di accoglienza. Una fragilità che si incontra con la nostra fragilità fatta di paure, di prevenzioni, di fughe e di trascuratezza. Il vangelo di Marco nel capitolo 5, 120, ci parla di Gesù che incontra il «folle»; un uomo aggressivo, isolato dagli altri, che provoca paura... Gesù si avvicina, lo incontra, lo sguarisce, lo libera, lo riabilita... rompe il cerchio della solitudine e dell'esclusione nello stargli accanto ascoltando il suo grido, accogliendo il suo bisogno e rispondendo alle necessità di affetto. La vita umana vale più di ogni altro bene, lo scriviamo sui muri, nei libri, sulle magliette, negli slogan pubblicitari, lo sosteniamo anche con il referendum, ma davanti al fratello bisognoso, che chiama e grida rispondiamo come Caino: «Sono forse io custode di mio fratello?» Gn 4,9. La sopravvivenza di chi si trova nella difficoltà non fa parte del nostro impegno di vita e deleghiamo ad altri le responsabilità. Molte volte la ricerca smodata di rituali eccessivi, inebriata dal fumo dell'incenso, da canti sofisticati, perfino con l'eccessiva abbondanza di suppellettili liturgiche... può appagare il nostro ego e il nostro contatto con Dio che costruiamo a immagine e somiglianza di noi stessi, facendoci dimenticare il fratello bisognoso, abbandonandolo proprio sul sagrato del tempio in cui ci rifugiamo. Il nodo della questione è il nostro coinvolgimento personale, «metterci del proprio», non tanto in soldi o intenzioni, ma mettendoci del proprio tempo e del proprio cuore. «Mettersi in gioco» per difendere la sacralità di ogni vita umana soprattutto quella debole, quella che da sola non si regge, quella che più riflette l'amore e la fragilità di Dio incarnato in mezzo a noi nelle sembianze e nei cuori di questi fratelli «speciali». Molte volte la paura ci paralizza, l'egoismo ci frena e la nostra arroganza ci fa cambiare strada perché percorrere la strada di Sopra: foto ricordo di una gita. A lato: l’abbazia di Vezzolano, vicina al paese di Albugnano (Asti). 42 MC GENNAIO 2006 MISSIONI CONSOLATA Gerico porterebbe a cambiare l'itinerario della nostra stessa vita, questo disturba troppo il nostro quieto vivere che difendiamo ad oltranza. Nelle fraternità «Agape» si cerca di celebrare la fragilità della vita così com'è davanti alla mensa quotidiana con le gioie e dolori di tutti e davanti all'Eucaristia domenicale avvolta dalla ragnatela di tanti nostri dubbi ma soprattutto vissuta come evento ci rinnova la forza della solidarietà con la certezza che Dio continua a camminare con noi nei sentieri dubbiosi della vita come fece con i discepoli di Emmaus. È un lavoro impari per le nostre forze e le tante debolezze che accompagnano gli operatori, i volontari, i professionali, ma tutti desiderosi di fare, di buttarsi sporcandosi le mani e purificando il cuore, tutto questo con la certezza che Dio ama ogni vita e aiuta i cuori generosi. È un lavoro non facile per nessuno; ogni giorno bisogna ricostruire quello che si è tentato di realizzare il giorno prima. È come la tela di Penelope che di giorno si fa e di notte si disfa. Ogni mattina c’è l’impegno di ricominciare! Proprio come fa il Signore con ciascuno di noi. San Vincenzo de’ Paoli ha detto: «Donare fa bene, soprattutto a colui che dona». Intraprendiamo questa gara a fare del bene. Ne usciremo più ricchi davanti a Dio, soddisfatti con noi stessi, utili e necessari a chi ne ha bisogno. ■ MA CHE MISSIONE È LAVORARE CON I «MATTI»? uesta domanda mi viene rivolta spesse volte da molti colleghi e da Q tanti amici. Domanda che spesso mi pongo e a cui rispondo semplicemente: «… e perché no?». Certamente non sempre è facile lasciare situazioni ed organizzazioni scontate come varie attività di animazione missionaria in parrocchie o nelle scuole, uscire da strutture protette come gli oratori e le case religiose. Può sembrare non logico, certamente «non è normale». La vera pazzia è proprio questo cambiamento: «Mettersi in gioco», 24 ore al giorno. È un ritmo che ti cambia la vita, i programmi, le abitudini. Certamente erano ritmi incalzanti anche quando si lavorava nelle «favelas brasiliane»; però, ogni tanto, esisteva qualche parentesi, momenti per sé. Interagire con la «pazzia» ti prende a tempo pieno, a tutto raggio, a 360 gradi. Ad ogni momento fatti e situazioni «provvidenziali» possono bussare alla tua porta con tutta la loro drammacità e repentinità ed hanno il sopravvento su tutto. Si cambia continuamente scenario: la notte si trasforma in giorno; una festa in dramma da pronto soccorso; l’euforia di momenti felici in una caduta libera d’angosce senza precedenti. Le giornate sono piene d’imprevisti e di non soluzioni che ci avvicinano, in parte, ai tempi di stare con i poveri delle periferie del mondo; il tuo tempo, le tue cose cessano di esistere, ci si trova davanti al grande vortice dell’immediato, si nuota in balia del necessario, si interviene nella necessità di «tutti per uno». Il lavoro quotidiano con i «nostri amici», membri esclusi della nostra società, dove anche le proprie famiglie abdicano davanti ad un impegno troppo eccessivo, diventa un lavoro continuo, di giorno si costruisce e di notte il più si disfa. L’unica certezza è che ogni giorno c’è da ricominciare… Ogni mattino non si sa come sarà la sera. Ogni sera non si coglie quasi mai i segni di come sarà il risveglio. «Tutto è grazia», diceva Bernanos nel suo romanzo «Il curato di campagna». Questo lo possiamo sostenere anche noi! Possiamo dire che «tutto diventa provvidenziale«, in cui esistono pochi «distinguo», dove non c’è spazio per «ripudi o delazioni«. Di fatto, tutto è possibile, in ogni momento e a qualsiasi ora, proprio come la «provvidenza«. Madre Teresa di Calcutta ci invita a sentirci delle «piccole matite« nella mano di Dio, possiamo scrivere perfino qualcosa di interessante, ma è sempre il Signore che ci guida. Don Tonino Bello pone l’accento dicendo che: «Vivere non è trascinare... strappare... rosicchiare la Vita. Vivere è aver la certezza di avere un partner grande come Dio». Con queste certezze possiamo rilevare che è il Signore colui che ci dona i poveri, i pazzi, gli ultimi. Tutto questo ci è stato dato probabilmente per incanalarci nell’unica via della salvezza attraverso la carità, vissuta e servita nell’umiltà e nella mitezza di cuore, senza trascurare la perseveranza quotidiana. In ogni momento, in ogni situazione, in ogni luogo geografico il Signore ci attende e ci fa passare per la « via di Gerico». A noi rimane la scelta di fuggire, cambiare strada… o l’impegno di fermarci e chinarci presso il fratello bisognoso che ci immette nel progetto della salvezza trovando il senso della nostra vita e quella degli altri. Per un missionario è sempre l’ora della «carità». Credo che sia una delle cose più belle e significative riuscire a mescolare la propria vita con quelle dei fratelli bisognosi; sono tante «pietre scartate« che il Signore pone sul nostro cammino. «Christus alter Christus», mosaico dei Palazzi Vaticani. OR.A. MC GENNAIO 2006 43 DOSSIER PICCOLO GLOSSARIO PSICHIATRICO (SECONDO LO PSICHIATRA) SCHIZOFRENIA: è la malattia psichiatrica per eccellenza. Spiegata in termini comprensibili, è una vulnerabilità biologica (eccesso di una sostanza chiamata Dopamina) su cui si innestano i traumi della vita per far scattare la malattia. Chi soffre di tali problemi nei momenti di crisi è come se vivesse sognando ad occhi aperti, per cui diventa difficile distinguere la realtà dalla fantasia.Colpisce circa l’1% della popolazione mondiale e può essere caratterizzata da DELIRI ovvero pensieri immotivati a contenuto vario: persecutorio («ce l’hanno con me», «vogliono farmi del male»), mistico («sono l’inviato di Dio», etc.) e da ALLUCINAZIONI ovvero sentire delle voci che ci insultano, ci comandano o parlano tra di loro; sentire odori sgradevoli( e per spiegarmeli mi dico che forse qualcuno vuole avvelenarmi)Esistono sotto la voce schizofrenia tante forme diverse per esito e decorso, la cosa importante credo sia non considerare i sintomi separati tra loro, ma collocarli nella storia di vita della persona per dare un senso e un significato anche al contenuto dei deliri, per esempio. Giudicata in passato inguaribile, ora le statistiche dicono che 1/3 guarisce, 1/3 va verso un deterioramento e 1/3 alterna momenti di compenso clinico a ricadute. ella mia piccola esperienza, anche se di oltre 20 anni, non me la sentirei di avvallare questi dati per l’estrema variabilità in termini di parametri da considerare: il servizio che ci prende in cura, il contesto socio-economico, le caratteristiche individuali. Preferisco pertanto pormi l’obiettivo di lavorare con il paziente e con le risorse a disposizione (parenti, amici, comunità locale) per la migliore qualità possibile della vita. Ugo Zamburru N 44 MC GENNAIO 2006 I DISTURBI DELLA PSICHE (secondo il DSM IV *) AUTISMO La chiusura dei rapporti comunicativi con il mondo esterno e l'ambiente, completo ritiro in se stessi. DISTURBI AFFETTIVI Comprendono disturbo bipolare, depressione, mania: un'ampia gamma di patologie che coinvolgono l'umore. SCHIZOFRENIA Psicosi (disturbi psichici gravi) rapporto alterato con la realtà (deliri, allucinazioni), disturbi comportamentali (agitazione, catatonia). DISTURBI SESSUALI Quattro le categorie: le disfunzioni sessuali, le parafilie, i disturbi dell'identità di genere e i disturbi sessuali non altrimenti specificati. DISTURBI D’ANSIA Dalle fobie all'atttacco di panico ai sintomi ossessivo-compulsivi (per es. irrazionale ripetizione di atti), al disturbo post-traumatico da stress (traumi da attentati, violenze, guerre). DISTURBI DISSOCIATIVI Dal disturbo da personalità multipla (coesistenza di identità separate) alla depersonalizzazione (estraneità rispetto a se o agli altri). DISTURBI DI PERSONALITÀ Modi costanti e distruttivi di percepire e rapportarsi a se stessi e al mondo. Tipologie: paranoide, schizoide, schizotipico, borderline, narcisista, antisociale, istrionico, ossessivo compulsivo, evitante, dipendente. STRESS Stato di malessere, più o meno grave, dovuto a una situazione traumatica. Termine mutuato dall'ingegneria: indica il massimo di tensione sopportabile da una struttura rigida in condizioni di sollecitazione. DISTURBI COGNITIVI Menomazione e disfunzione cerebrale con incapacità cronica cognitiva: delirium, demenza, disturbi di memoria. ADHD Sono i disturbi da deficit di attenzione e iperattività. Una serie svariata di disturbi che alterano i meccanismi di controllo dell'attività. DIPENDENZE Le patologie correlate all'abuso di sostanze psicoattive, dall'alcol alle droghe. Vanno considerati criteri di tolleranza o astinenza fisica. DISTURBI ALIMENTARI Tutte quelle patologie in cui si verifica un rapporto alterato con il cibo. Per esempio: bulimia, anoressia, abbuffate. (*) DSM: Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali MISSIONI CONSOLATA Le Associazioni NOTA SUGLI AUTORI • ASSOCIAZIONE «VOL.P.I.», VOLONTARI PSICHIATRICI INSIEME ONLUS via Leoncavallo 2, Torino tel. 347.8796392 [email protected] www.associazionevolpi.org • COOPERATIVA SOCIALE «AGAPE, MADRE DELL’ACCOGLIENZA» ONLUS Monastero del Rul, Località Vezzolano 57, Albugnano (Asti); tel. 011.9920671 / fax 011.9922034, [email protected] DIREZIONE: presidente, dr. Alessandro Meluzzi; vicepresidente, p. Gottardo Pasqualetti; direttore educativo, p. Orazio Anselmi; direttore esecutivo, Maria Valencia Meluzzi UGO ZAMBURRU è medico, specialista in psichiatria. Ha lavorato come terapeuta sistemico-relazionale (anche conosciuta come terapia familiare) presso la scuola di specializzazione di Roma del prof. Cancrini e come terapeuta psicoanalitico. Nel 1999 ha seguito un training presso la Haight Ashbury Free Clinic di San Francisco sui problemi della doppia diagnosi. È stato supervisore presso la Comunità Lucignolo (Rivoli) e presso la Comunità Nikodemo (Nichelino). Dal 1990 al 1998 è stato docente di psichiatria presso la scuola per infermieri professionali dell’Asl 4 di Torino. Dal 1984 lavora come psichiatra presso la Asl 4 di Torino, attualmente come responsabile del Centro diurno di via Leoncavallo 2, con particolare attenzione al reinserimento socio-lavorativo. NADIA GRECO è laureanda in «ingegneria biomedica» e volontaria dell’associazione «Vol.p.i», che assiste le persone con problemi psichiatrici. Della stessa associazione fa parte ELISA IANNETTI, studentessa di psicologia, che ha scattato molte delle foto di questo dossier. CENTRO DIURNO ASL 4 - TORINO: via Leoncavallo 2 - tel. 011.2482856 Responsabile: dr. Ugo Zamburru Bibliografia essenziale • F.Basaglia, Che cos’è la psichiatria, Parma 1967 • F.Basaglia, L’utopia della realtà, Giulio Einaudi Editore, Torino 2005 • F.Basaglia, Conferenze brasiliane, Raffello Cortina Editore, Milano 2000 • D.Hales-R.E.Hales, La salute della mente, Longanesi, Milano 1998 • P.Sarteschi, Manuale di psichiatria, Edizioni Sbm, 1982 • R.P.Liberman, La riabilitazione psichiatrica, Raffello Cortina Editore, Milano 1997 • M.Shepherd, La matrice sociale della psichiatria, Bollati Boringhieri, Torino 1990 • AAVV, Psichiatria nella comunità. Cultura e pratica, Bollati Boringhieri, Torino 1993 Siti internet • www.psichiatriademocratica.com sito di una storica associazione di settore • www.unasam.it Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale • www.arap.it Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica • ww.wfmh.org World Federation for Mental Health • ww.eufami.org Associazione europea familiari dei malati mentali ORAZIO ANSELMI è missionario della Consolata, sacerdote dal 1977. Ha trascorso 18 anni nelle favelas brasiliane di Rio de Janeiro e Salvador Bahia. Si è specializzato in missiologia presso l’Università «Nossa Senhora da Assunçao» di Sao Paulo, Brasile. Attualmente è impegnato nell’animazione missionaria in Italia ed è direttore educativo della comunità «Agape, Madre dell’accoglienza», di Albugnano (Asti). ALESSANDRO MELUZZI è medico, specialista in psichiatria, psicologo e psicoterapeuta. Insegna presso le Università di Siena (genetica del comportamento umano) e di Torino (psichiatria sociale). È direttore scientifico della Scuola superiore di Umanizzazione della medicina. Si è altresì laureato in filosofia e mistica al Pontificio ateneo S. Anselmo di Roma. Ha scritto tra l’altro: Il sesso: bestialità e religione ((Firenze 1995), La via degli spiriti animali (Milano 1997), Viaggio nelle profezie. Visioni, presagi e nuovo millennio (Venezia 1998), NeoMonasteri e riEvoluzione (Venezia 2001). Già parlamentare italiano (senatore), è conosciuto al grande pubblico anche per le sue numerose collaborazioni televisive. HA COLLABORATO: GIUSEPPINA DE CESARE, farmacista. HA CURATO QUESTO DOSSIER: PAOLO MOIOLA, giornalista. MC GENNAIO 2006 45 FINE DOSSIER 46 MC GENNAIO 2006 «LA FOLLIA, UNA CONDIZIONE UMANA»