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L`Oggetto del Patto di Famiglia

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L`Oggetto del Patto di Famiglia
"L'oggetto del patto di famiglia: analisi della fattispecie e
della disciplina applicabile. Profili fiscali dell'istituto"
Lorenzo Stucchi
Sommario: 1. - Il trasferimento dell’azienda. 2. - Il trasferimento di partecipazioni
sociali. 3. - I diritti trasferibili all’assegnatario e pattuizioni accessorie. 4. - Il regime
patrimoniale della famiglia del disponente e dell’assegnatario. 5. - La compatibilità tra
patto di famiglia ed impresa familiare. 6. - La compatibilità tra patto di famiglia ed altre
tipologie societarie. 7. – Profili fiscali del patto di famiglia con riferimento alle imposte
indirette. 7.1. – Il presupposto soggettivo. 7.2. – I presupposti oggettivi. 7.3. –
Presupposti ulteriori. 7.4. – La liquidazione dei legittimari non assegnatari. 7.5. –
Imposte ipotecarie e catastali.
1. - Il trasferimento dell’azienda. L’articolo 768 bis del codice civile prevede che
con il patto di famiglia il disponente trasferisca – in tutto o in parte – ad uno o più
discendenti l’azienda ovvero le partecipazioni sociali di cui è titolare.
In primo luogo occorre soffermarsi sulla figura del disponente, atteso che la norma
di legge stabilisce che egli sia imprenditore a titolo individuale ovvero titolare di
partecipazioni sociali.
Nel primo caso le difficoltà interpretative sembrano meno significative, dal momento
che il legislatore sembra operare un rinvio alla nozione di imprenditore contenuta
nell’art. 2082 del codice civile: può pertanto ricorrere al patto di famiglia qualunque
soggetto che eserciti un’attività diretta alla produzione ed allo scambio di beni e servizi,
mediante
specifiche
modalità
di
svolgimento
(organizzazione,
economicità,
professionalità)1.
L’unico requisito preteso dal legislatore è dunque costituito dall’attualità della
qualifica di imprenditore, atteso che in tanto è ragionevole derogare a principi
fondamentali dell’ordinamento, in quanto vi sia una situazione sostanziale meritevole di
tutela, quale la trasmissione familiare del complesso dei beni organizzati per l’effettivo
esercizio dell’impresa.
Per la verità, di un certo interesse appare un caso in cui il requisito dell’attualità
pare carente: è quello in cui il titolare dell’azienda non eserciti attività d’impresa,
avendo provveduto ad affittare la medesima a terzi.
I commentatori2, in maniera condivisibile, si sono espressi per la compatibilità tra
tale ipotesi ed il patto di famiglia, sia nel caso in cui l’assegnatario sia il soggetto cui
l’azienda è stata concessa in affitto, sia ove tale presupposto difetti, dato che, in ogni
caso, il trasferimento dell’azienda è pur sempre funzionale a consentire che
nell’immediato o nel futuro l’assegnatario possa esercitare l’attività d’impresa al cui
servizio l’azienda è posta.
Non è inoltre rilevante l’oggetto dell’impresa, si ché l’istituto in esame può trovare
applicazione sia nel caso di imprenditore agricolo, sia nel caso di imprenditore
commerciale, non sussistendo alcuna significativa ragione – nel silenzio delle norme di
legge – per escludere taluna attività imprenditoriale dall’ambito di applicazione del
nuovo istituto3.
L’art. 768 bis del codice civile prevede poi che il trasferimento dell’azienda possa
avvenire anche solo in parte, dal che è lecito desumere sia che il patto di famiglia
1
Per la nozione generale di imprenditore si veda G.F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, 1, Torino, 1997, 23 ss.
2
Si vedano, al riguardo, G. FIETTA, Patto di famiglia, in CNN Notizie, 14 febbraio 2006; G. PETRELLI, La nuova
disciplina del “patto di famiglia”, in Riv. not, 2006, 418 s.; A. DI SAPIO, Appunti per uno studio sul patto di famiglia
(brogliaccio per una lettura disincantata), in corso di pubblicazione su Diritto di famiglia e delle persone, 2006; F.
GAZZONI, Appunti e spunti in tema di patto di famiglia, in www.judicium.it; V. VERDICCHIO, Il patto di famiglia,
Commentario alla Legge14 febbraio 2006 n. 55, in Le nuove Leggi Civili, di N. Di Mauro-E. Minervini-V. Verdicchio,
Milano, 2006, 64 ss.
3
Nello stesso senso A. DI SAPIO, op. cit..; L. RUSSO, Patto di famiglia e azienda agricola, in Riv. dir. civ., 2007, I,
323 ss.
possa avere ad oggetto un ramo dell’azienda4, sia che possa avere ad oggetto una
quota di comproprietà della medesima.
Nel primo caso non si pongono problemi particolari, per il fatto che l’assegnatario
può iniziare ad esercitare l’attività d’impresa cui è funzionale il ramo d’azienda a lui
trasferito in piena autonomia rispetto alla residua attività d’impresa del disponente 5.
Più complessa, viceversa, la situazione cui dà vita il trasferimento di una quota di
comproprietà dell’azienda: in questo caso, infatti – ove il disponente continui ad
esercitare attività d’impresa insieme all’assegnatario – si verrebbe a costituire una
società di fatto, soggetta alla disciplina della società in nome collettivo irregolare
ovvero della società semplice a seconda che – rispettivamente – sia esercitata attività
commerciale o agricola.
Infine, nel caso in cui il patto di famiglia abbia ad oggetto un’azienda o un ramo di
essa, appare necessario disciplinare gli aspetti che solitamente vengono in
considerazione allorché ci si trovi a stipulare un atto di trasferimento della medesima6.
2. - Il trasferimento di partecipazioni sociali. Ben più problematico appare il
caso del trasferimento di partecipazioni sociali, essenzialmente per il fatto che in
questa ipotesi non è il cedente a rivestire la qualifica di imprenditore, che spetta
unicamente alla società le cui partecipazioni sono trasferite per effetto del patto.
Il legislatore ha ritenuto opportuno prevedere anche questa fattispecie, per non
trattare in maniera differente coloro che esercitano personalmente attività d’impresa da
coloro che si avvalgono di una struttura societaria, il che sarebbe evidentemente
apparso incongruo in un contesto economico sempre più propenso ad utilizzare
organizzazioni di quest’ultimo tipo.
4
In tal senso si veda G. PETRELLI, op. cit, 420.
5
Ovviamente in questo caso il valore dell’assegnazione sarà calcolato sulla base del valore del ramo d’azienda
trasferito, indipendentemente dal valore del ramo d’azienda di cui è rimasto titolare il cedente.
6
Al riguardo, non sembra che l’autonomia privata possa subire limitazioni in dipendenza della natura del patto, dal
che consegue che le pattuizioni possono essere le più varie, analogamente a quanto accade normalmente. Deve
peraltro sottolinearsi come alcune clausole frequenti negli atti di vendita di azienda possano in questa sede perdere di
significato: è il caso, per esempio, del divieto di concorrenza, almeno ove il cedente trasferisca l’azienda a uno o più
discendenti in previsione di un suo ritiro dall’attività lavorativa. Sempre in quest’ultima prospettiva potrà essere
frequente che i contraenti pattuiscano che il cessionario subentri nei contratti in essere, acquisti i crediti e succeda nei
debiti inerenti l’azienda, in modo che sia garantita un’adeguata continuità all’attività d’impresa ed il cedente sia liberato,
compatibilmente con la disciplina di legge, da ogni incombenza.
Dal momento che la ratio sottesa al nuovo istituto consiste nell’agevolare la
successione nell’attività di impresa, si impone un’attenta analisi in ordine ai presupposti
necessari perché il trasferimento di partecipazioni sociali non dia luogo ad un’elusione
dei principi generali dell’ordinamento, in assenza di interessi meritevoli.
L’orientamento più liberale interpreta la locuzione “titolare di partecipazioni
societarie” in senso ampio, secondo il suo significato letterale, rilevando come
altrimenti si restringerebbe irragionevolmente l’ambito di applicazione del nuovo istituto
in assenza di corrispondenti indici normativi7.
In
quest’ottica
potrebbe
essere
oggetto
di
patto
di
famiglia
qualunque
partecipazione, anche ove essa rappresentasse un mero investimento economicofinanziario, il che darebbe luogo ad una potenziale applicazione del patto a vantaggio
di qualunque soggetto, che potrebbe così investire il suo patrimonio in società che
fanno ricorso al mercato dei capitali per poi ricorrere al nuovo tipo contrattuale
introdotto dal legislatore.
A questa tesi è stato obiettato come essa rischi di tradire completamente la ratio
dell’istituto, fondata sulla considerazione del valore che l’esercizio di attività d’impresa
assume nel contesto economico attuale.
Inoltre tale interpretazione espone la norma di legge a censure di incostituzionalità8
difficilmente superabili, dal momento che non appare in alcun modo possibile
giustificare la diversità di trattamento tra il risparmiatore titolare di partecipazioni
societarie ed il risparmiatore titolare di beni che non possono essere oggetto di patto di
famiglia.
Muovendo dalle considerazioni appena esposte, i commentatori, per evitare abusi, si
sono espressi per lo più in termini piuttosto restrittivi, pretendendo che oggetto del
patto siano partecipazioni che consentano di esercitare poteri di gestione o, perlomeno,
di influire sulla medesima9.
7
G. FIETTA, op. cit.., per il quale: “la normativa [può] trovare applicazione anche per il socio di minoranza e
addirittura per il socio risparmiatore”; A. MASCHERONI, L’ordinamento successorio italiano dopo la legge 14 febbraio
2006 n. 55, in AA. VV., Patti di famiglia per l’impresa, Milano, 2006; M. AVAGLIANO, Patti di famiglia e impresa, in Riv.
not., 2007, 13 ss.
8
9
G. PETRELLI, op. cit, 416; F. GAZZONI, op. cit.
M. C. LUPETTI, op. cit.; G. PETRELLI, op. cit., 415 ss.; G. RIZZI, Compatibilità con le disposizioni in tema di
impresa familiare e con le differenti tipologie societarie, in Patti di famiglia per l’impresa, cit.; F. GAZZONI, op. cit., 4; F.
DELFINI, Il patto di famiglia, in Contratti, 2006, 512; L. BALESTRA, Il patto di famiglia: l’erosione del divieto dei patti
All’orientamento restrittivo è stato peraltro eccepito che il nuovo istituto non si
propone di proteggere l’interesse del disponente a programmare il passaggio
generazionale dell’impresa come fine in sé, ma piuttosto favorisce tale evoluzione per
promuovere la competitività dell’intero sistema economico, sì da evitare che alle
controversie tra eredi consegua la disgregazione dei complessi produttivi10.
Infine, è stato proposto di considerare quali partecipazioni trasferibili con il patto di
famiglia tutte quelle che siano rappresentative di un’attività d’impresa, esercitata in via
mediata attraverso una struttura societaria, anche ove esse siano di minoranza, con la
conseguente esclusione delle sole partecipazioni espressione di un mero investimento
del disponente11.
A fronte delle diverse interpretazioni avanzate in dottrina, appare necessario
analizzare il problema nel dettaglio, soffermandosi sui diversi tipi societari, stanti le
significative differenze che intercorrono tra i medesimi.
A) È il caso di iniziare dalle società di persone, in relazione alle quali sembrano porsi
minori problemi di compatibilità con il patto di famiglia, dal momento che esse sono
caratterizzate da un’organizzazione alquanto semplificata e dalla naturale coincidenza
tra la qualifica di socio e quella di amministratore, salvo il caso – a quest’ultimo
riguardo – del socio accomandante.
L’orientamento
ad
oggi
prevalente
individua
il
criterio
di
distinzione
tra
partecipazioni di società di persone idonee ad essere trasferite con il patto e
partecipazioni non suscettibili di essere oggetto di tale vicenda negoziale nel fatto che
ad esse corrisponda o meno un potere di gestione in capo al titolare. In ragione di tale
criterio sembra doversi ammettere il trasferimento di quote di società semplici, di
società in nome collettivo, nonché delle quote del socio accomandatario di società in
accomandita semplice.
successori istitutivi, in www.personaedanno.it.; G. BARALIS, Il patto di famiglia: un delicato equilibrio tra ragioni
dell’impresa e ragioni dei legittimari, in Patti di famiglia per l’impresa, cit., 224; M. CIAN, La nozione di “partecipazioni
societarie” nella disciplina dei patti di famiglia, in RDS, 2008, 770 ss; L. SAMBUCCI, Controllo dell’impresa e oggetto del
patto di famiglia, in RDS, 2009, 242.
10
In tal senso si veda F. TASSINARI, Il patto di famiglia per l’impresa e tutela dei legittimari, in Giur. comm., 2006,
I, 814 ss., il quale ammette anche il trasferimento di partecipazioni prive di un’effettiva idoneità ad assicurare al titolare
il potere di gestire la società.
11
In tal senso si veda G. LOMBARDI, Il patto di famiglia: l’imprenditore sceglie il proprio successore, in Corr. giur.,
2006, 720; B. INZITARI, P. DAGNA, M. FERRARI, V. PICCININI, Il Patto di Famiglia, Negoziabilità del diritto successorio
con la legge 14 febbraio 2006 n. 55, Torino, 2006, 25.
Sembra peraltro opportuno un chiarimento: con riferimento alla società semplice ed
alla società in nome collettivo può parlarsi di potere di gestione spettante a ciascun
socio solo ove non sia diversamente previsto nei patti sociali. È infatti pacifico che in
ciascuno di questi tipi societari i soci siano liberi di affidare la gestione della società
solo ad alcuni di loro12, con la conseguenza che agli altri soci – difettando il predetto
requisito – sarebbe precluso il ricorso al patto13.
Non sembra che un criterio così formale sia del tutto soddisfacente, tant’è che,
probabilmente per scongiurare la predetta iniqua conseguenza, si propone un concetto
di gestione in senso lato: il che, peraltro, finisce col compromettere il valore del
criterio, che perde così il suo maggior pregio, consistente nel garantire un sufficiente
grado di certezza.
Parimenti iniquo sembra escludere tout court la quota del socio accomandante
dall’ambito di applicazione del patto, in quanto al suo titolare è precluso ogni potere di
gestione: sintomatico di tale imbarazzo è il tentativo14 di far salvi i casi in cui i patti
sociali consentano all’accomandante di dare autorizzazioni o pareri.
È peraltro pacifico che tali accorgimenti siano da limitare a casi specifici, dovendosi
propendere per l’invalidità di clausole che prevedano un potere di autorizzazione
generale; inoltre, in ogni caso, tali autorizzazioni hanno valenza puramente interna e
non vincolante per i soci accomandatari, con la conseguenza che – anche ove previste
12
Deve poi essere sottolineato come almeno per la società in nome collettivo l’orientamento oggi prevalente tenda
ad ammettere la possibilità di nominare amministratore anche un terzo estraneo alla compagine sociale, atteso che in
ogni caso resterebbe ferma la responsabilità illimitata e solidale di tutti i soci. In dottrina si veda in tal senso G.F.
CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, 2, a cura di M. Campobasso, Torino, 2006, 104 s.; P. SPADA, La tipicità delle
società, Padova, 1974, 339 ss.; F. TASSINARI, La rappresentanza nelle società di persone, Milano, 1993, 143 ss., contra
F. GALGANO, Degli amministratori di società personali, Padova, 1963, 36 ss.; M. GHIDINI, Società personali, Padova,
1972, 418 ss.; in giurisprudenza a favore della soluzione positiva Cass., 26 aprile 1996, n. 3887, in Società, 1997, 36
ss.: “La clausola di un contratto di società semplice che attribuisce la rappresentanza ad un terzo non socio è legittima e
deve ritenersi estesa, in assenza di precisazioni, anche alla facoltà di ricevere dichiarazioni indirizzate alla società”,
contra, in obiter, Cass., 25 gennaio 1968, n. 218, in Giur. it., I, 1, 1202: “i poteri-doveri degli amministratori, nascenti
dalle leggi o derivanti dall’atto costitutivo, non si atteggiano diversamente a seconda che gli amministratori siano scelti
fra gli stessi soci, come è obbligatorio per le società in nome collettivo (corsivo mio), ovvero fra persone estranee, come
è non obbligatorio ma facoltativo per le società di capitali”.
13
Coerentemente con le premesse da cui muove perviene a tale conclusione G. PETRELLI, op. cit., 416, il quale
sottolinea peraltro come la preclusione venga meno ove siano anche modificati i patti sociali, in modo da attribuire
all’assegnatario il potere di gestione.
14
G. PETRELLI, op. cit., 416 s.
– tali clausole non sono comunque idonee ad attribuire al socio accomandante un
potere di gestione che gli è precluso per definizione15.
Appare pertanto preferibile proporre un criterio sostanziale, che tenga conto della
posizione dei soggetti coinvolti, atteso che il riferimento al solo potere di gestione
conduce a conseguenze inique e irragionevoli.
A tale riguardo sembra che il criterio da preferire consista nella valutazione del ruolo
del disponente all’interno della società e della posizione che rispetto ad essa è
destinato ad assumere l’assegnatario: più specificamente appare ragionevole
consentire il ricorso al patto di famiglia a tutti quei soggetti qualificabili come soci
imprenditori, ossia a coloro che partecipano all’attività d’impresa esercitata dalla
società, e sempre che a seguito del trasferimento l’assegnatario o gli assegnatari
possano essere a loro volta qualificati come soci imprenditori.
Restano pertanto esclusi solo i soci risparmiatori, ossia coloro le cui partecipazioni
rappresentano esclusivamente un investimento finanziario privo di qualunque valore in
ordine alla partecipazione all’attività della società.
Sotto questo profilo deve peraltro sottolinearsi come sia pressoché impossibile
immaginare un socio risparmiatore di una società di persone, dal momento che tale
status è configurabile solo ove esista un mercato dei capitali che consenta un’adeguata
remunerazione dell’investimento finanziario realizzato: ove tale mercato non esista,
come per le società di persone, si deve ritenere che i soci siano tutti soci imprenditori.
Non già perché essi siano imprenditori in senso proprio – tale qualifica infatti compete
solo alla società – quanto per il fatto che sono più interessati a partecipare all’attività
della società ed a riscuotere gli utili prodotti dalla medesima, che a confidare nelle
plusvalenze che l’investimento economico effettuato può generare, atteso che la
partecipazione di cui sono titolari non è facilmente negoziabile.
Sembra pertanto ragionevole ritenere che tutte le partecipazioni di società di
persone siano normalmente trasferibili con il patto di famiglia.
Tali considerazioni trovano conferma anche nella realtà economica attuale: è, per
esempio, assai frequente che nella società in accomandita semplice il reale dominus
della società sia il socio accomandante, sì che sarebbe del tutto irragionevole escludere
15
G.F. CAMPOBASSO, op. cit., 139.
dal patto la sua quota a vantaggio di quella del socio accomandatario, munito del
formale potere di gestione, ma sostanzialmente privo di qualunque iniziativa
imprenditoriale.
B) Ancor più complessa è l’applicabilità del patto di famiglia alle partecipazioni in
società di capitali, per il fatto che in tali ipotesi il diaframma tra la persona del socio e
la società che esercita attività imprenditoriale è accentuato dal ruolo svolto
dall’organizzazione corporativa, cui consegue l’acquisto della personalità giuridica.
Evidentemente, il criterio del potere di gestione attribuito alla persona del socio
invocato per le società di persone non appare applicabile, dal momento che nelle
società di capitali ai soci spetta solo il diritto a partecipare all’attività deliberativa, ma
non già a determinare gli indirizzi dell’attività di gestione, spettando quest’ultima
unicamente agli amministratori. Il fatto poi che spesso siano proprio i soci ad essere
nominati amministratori, perlomeno nelle società chiuse, non consente di far salvo il
criterio precedentemente citato, essendo tale vicenda del tutto eventuale e, come tale,
non elevabile a criterio generale.
Per questo motivo tra i commentatori ha riscosso un certo successo la tesi che
individua il criterio distintivo nella misura16 della partecipazione di cui il socio è titolare,
onde farne conseguire una soluzione positiva per il caso in cui la partecipazione sia
maggioritaria o comunque tale da influire sulla gestione della società17.
Sembra opportuno analizzare separatamente i diversi tipi societari, iniziando dalla
società a responsabilità limitata, per la quale, stante il suo carattere personalistico,
appare più agevole propendere per la tesi positiva.
Innanzitutto deve sottolinearsi come tale tipo societario non si ponga in conflitto con
alcun dato normativo contenuto nel nuovo Capo V bis, come invece accade – almeno
apparentemente – per le azioni18.
16
G. PETRELLI, op. cit., 417.
17
M. C. LUPETTI, op. cit.; G. PETRELLI, op. cit., 417; G. RIZZI, op. cit.; G. BARALIS, op. cit., 224; V. VERDICCHIO,
op. cit., 81; M. CIAN, op. cit., 770 ss., ove è probabilmente contenuta la più completa formulazione dell’orientamento in
esame; L. SAMBUCCI, op. cit., 242.
18
Ci si riferisce in particolare all’espressione contenuta nell’ultima parte dell’art. 768 bis del codice civile in cui si fa
riferimento unicamente alle “quote”.
Inoltre il carattere personalistico – accentuato dal legislatore della riforma del diritto
societario – consente ai soci una partecipazione più significativa alle decisioni gestionali
della società rispetto a quanto accade nelle altre società di capitali: conferma
dell’elasticità nella suddivisione delle funzioni tra organo deliberativo ed organo di
gestione viene dagli articoli 2479, comma 1 e comma 2, n. 5, e 2476, comma 7, del
codice civile, nonché dalla pressoché totale autonomia statutaria che consente di
ripartire le competenze tra i diversi organi come più aggrada ai soci19.
Non sussistendo ragioni apprezzabili per escludere le quote di società a
responsabilità limitata dall’ambito di applicazione del patto, si ripropone il problema di
individuare quali partecipazioni siano idonee ad essere trasferite.
Per superare l’impasse una parte della dottrina ha fatto riferimento alla necessità
che la partecipazione al capitale sia maggioritaria, ovvero, sfruttando il nuovo istituto
dei diritti particolari del socio, “incorpori” diritti tali da consentire all’assegnatario di
influire comunque in maniera significativa sulla gestione20.
Per la verità sembra che quest’orientamento si esponga alle stesse obiezioni
espresse in precedenza: esso infatti sconta un eccessivo grado di formalismo, che
finisce con il ridurre consistentemente l’ambito di applicazione dell’istituto, senza che a
ciò corrispondano significativi argomenti di carattere sostanziale.
Sembra
pertanto
preferibile
riproporre
lo
stesso
criterio
esaminato
precedentemente, sì da individuare il limite tra partecipazioni idonee ad essere
trasferite per effetto del patto e partecipazioni escluse nella posizione di socio
imprenditore del disponente, e sempre che l’assegnatario o gli assegnatari possano
essere a loro volta qualificati come soci imprenditori.
La tesi che esige che la partecipazione sociale sia di maggioranza si scontra inoltre
con la realtà economica in cui l’istituto è destinato a trovare applicazione. Assai
frequenti sono infatti le società a responsabilità limitata – magari a carattere familiare
19
Sulla elasticità organizzativa del tipo società a responsabilità limitata si veda da ultimo N. ABRIANI - M. MALTONI,
Elasticità organizzativa della società a responsabilità limitata e diritto dei soci di avocare decisioni gestorie: sulla
derogabilità dell’art. 2479, 1° comma, cod. civ., Studio n. 6005/2005 del Consiglio Nazionale del Notariato.
20
G. PETRELLI, op., cit., 417, il quale mette bene in evidenza come i diritti particolari del socio vengano in
considerazione in quanto essi si trasferiscano con la quota, in modo che possano essere esercitati anche
dall’assegnatario. Sul punto si veda in particolare M. NOTARI, Diritti “particolari” dei soci e categorie “speciali” di
partecipazioni, in AGE, 2003, 325 ss; Massima n. 39 del Consiglio Notarile di Milano, in
www.scuoladinotariatodellalombardia.org .
– in cui esiste un ristrettissimo numero di soci imprenditori, nessuno dei quali è però
titolare di una partecipazione di maggioranza: ove si aderisse all’interpretazione
precedentemente esposta, sarebbe irragionevolmente loro precluso il ricorso al patto.
Meno immediata è la possibilità che oggetto di patto di famiglia siano anche
partecipazioni sociali rappresentate da azioni, anche alla luce del dato letterale dell’art.
768 bis del codice civile, che fa riferimento solo alle “quote”.
Proprio muovendo dal dato letterale e dalla prevalenza – per le azioni – della natura
di strumento di circolazione del capitale piuttosto che di partecipazione espressione di
un’attività imprenditoriale, una parte della dottrina propone di escluderle dall’ambito di
applicazione oggettivo del nuovo istituto21.
Non sembra che quest’ultimo orientamento sia condivisibile, dal momento che ad
eccezione del dato letterale, che peraltro non va sopravvalutato, non vi sono sufficienti
argomenti a sostegno dell’interpretazione in esame22.
Infatti, sebbene sia senz’altro vero che l’organizzazione corporativa della società per
azioni sia più rigida, tuttavia non può concludersi che, con riferimento a tale tipo
societario, non sia configurabile la figura del “socio imprenditore”, che, si ripete,
sembra essere l’unico parametro che renda giustizia alla ratio sottesa al nuovo istituto.
Per le stesse considerazioni esposte in tema di società a responsabilità limitata non
può essere condiviso l’orientamento23 che esige che la partecipazione sia maggioritaria:
deve essere peraltro considerato che, con riferimento alla società per azioni, la
predetta dottrina tende ad ammettere che il contratto abbia ad oggetto anche una
partecipazione non maggioritaria, ma comunque tale da consentire al titolare di influire
sulla gestione della società24, rendendosi probabilmente conto delle conseguenze inique
cui l’applicazione rigida del criterio condurrebbe25.
21
G. RIZZI, op. cit., il quale peraltro qualifica espressamente la tesi come “proposta per la riflessione”.
22
Ammettono che le azioni possano costituire oggetto del patto di famiglia: G. PETRELLI, op. cit., 416; V.
VERDICCHIO, op. cit., 81 s.; M. CIAN, op. cit., 771.
23
G. PETRELLI, op. cit., 417, si veda alla precedente nota 17; M.C. LUPETTI, op. cit., si veda alla precedente nota
18.
24
G. PETRELLI, op. cit., 417. Nel caso di società per azioni non si pretende che il controllo sia di diritto come nel
caso di società a responsabilità limitata, ma si ritiene sufficiente il controllo di fatto: tale considerazione dà luogo ad
incertezze insuperabili, dal momento che, se già è controversa la nozione di controllo di diritto, davvero complicato può
rivelarsi accertare la sussistenza del controllo di fatto. Quest’ultima situazione infatti può determinarsi in dipendenza di
vicende non accertabili dall’esterno e la cui conoscenza è senz’altro preclusa al notaio richiesto di ricevere l’atto. Si
Analogamente non sembra nemmeno da escludere in astratto il trasferimento delle
partecipazioni del socio accomandante di società in accomandita per azioni.
Il patto può essere inoltre utilizzato anche nel caso di gruppi societari: in tale
eventualità
ad
essere
trasferite
sono
esclusivamente
le
partecipazioni
della
capogruppo, il cui valore terrà evidentemente conto di tutte le partecipazioni da essa
direttamente o indirettamente possedute.
Come nel caso di società di persone, sembra pertanto che oggetto del patto di
famiglia possano essere tutte le partecipazioni di società di capitali possedute da un
socio imprenditore, restando escluse unicamente quelle che rappresentano un
investimento puramente finanziario, privo di qualunque valore in ordine alla
partecipazione all’attività d’impresa esercitata dalla società.
Si deve inoltre ribadire che, ove la società non faccia ricorso al mercato dei capitali,
tutti i soci sono da considerare soci imprenditori, perché più interessati a partecipare
all’attività
d’impresa
esercitata
dalla
società
che
ad
eventuali
plusvalenze
sull’investimento economico effettuato, ben difficili in assenza di un pubblico mercato
ove negoziare le proprie partecipazioni.
Ove invece il disponente sia titolare di partecipazioni di società che fanno ricorso al
mercato dei capitali, appare necessario valutare con attenzione se egli sia socio
imprenditore o socio risparmiatore: in conseguenza di quanto osservato in precedenza,
infatti, solo nel primo caso è possibile avvalersi del nuovo istituto introdotto dal
legislatore.
Sembra, infine, certamente da condividere l’orientamento teso ad escludere che il
patto di famiglia possa avere ad oggetto le partecipazioni di società di mero
godimento26, magari costituite proprio a questo fine, difettando, in tal caso, il
pensi, per esempio, all’esistenza di patti parasociali, per i quali nelle società che non fanno ricorso al mercato del
capitale di rischio non è prevista alcuna forma pubblicitaria, ovvero all’ipotesi di particolari vincoli contrattuali. Di tale
problema si avvede lo stesso G. PETRELLI, op. cit., 417, che propone la soluzione di una dichiarazione resa dalle parti
sotto la loro responsabilità, con la conseguenza, peraltro, di rendere piuttosto evanescente il criterio distintivo
precedentemente indicato.
25
Anche in questo caso vale l’obiezione già espressa con riferimento alla società a responsabilità limitata secondo la
quale il tentativo di rendere elastico un criterio distintivo formale finisce per comprometterne il valore, dal momento che
esso non sarebbe più nemmeno in grado di assicurare quella certezza che ne costituisce il principale pregio.
26
In tal senso si vedano G. PETRELLI, op. cit., 421; F. DELFINI, op. cit., 512; G. LOMBARDI, op. cit., 719 s.; F.
GAZZONI, op. cit.; F. TASSINARI, op. cit. L’ossimoro inserito nel testo mette di per sé in evidenza l’inconciliabilità tra la
struttura societaria, il cui scopo consiste nell’esercizio di attività d’impresa, e lo scopo di godere dei beni di cui la
medesima è titolare. Nel senso del divieto delle società di mero godimento si veda in dottrina G.F. CAMPOBASSO, Diritto
presupposto essenziale per l’applicazione dell’istituto: il trasferimento all’assegnatario di
beni organizzati per l’esercizio di attività d’impresa ovvero di partecipazioni
rappresentative del soggetto che esercita attività d’impresa.
3. - I diritti trasferibili all’assegnatario e pattuizioni accessorie. L’art. 768
bis del codice civile fa riferimento unicamente ai beni suscettibili di essere trasferiti per
effetto del patto, lasciando agli interpreti il compito di individuare la natura dei diritti
compatibili con l’istituto in esame.
Ovviamente il contratto può avere ad oggetto il diritto di proprietà dell’azienda e
delle partecipazioni sociali.
Sembra inoltre possibile prevedere che il cedente possa trasferire la nuda proprietà
riservandosi il diritto di usufrutto27: tale pattuizione consente sia di programmare la
successione nell’attività d’impresa, sia di consentire al cedente di continuare ad
esercitare detta attività ovvero i diritti inerenti alle partecipazioni sociali28 fino
all’estinzione del diritto di usufrutto.
Non sembra d’altra parte che l’esercizio immediato dell’attività d’impresa da parte
dell’assegnatario costituisca un connotato essenziale dell’istituto, ben potendo
l’autonomia privata differirlo ad un momento successivo, purché l’intera operazione
economica sia programmata con il negozio.
Commerciale, 2, cit., 35 s.; F. GALGANO, Le società in genere. Le società di persone, in Trattato di diritto civile e
commerciale, diretto da Cicu e Messineo, Milano, 1982, 66 ss.; G. MARASÀ, Le società in generale, in Trattato IudicaZatti, Milano, 2000, 155 ss.; in giurisprudenza Cass. 1 dicembre 1987, n. 8939, in Riv. dir. comm., 1989, II, 159; Trib.
Milano, 21 aprile 1997 e 3 luglio 1997, in Giur. comm., 1998, II, 625; Trib. Milano, 29 gennaio 1977, in Società 1978,
715.
27
G. PETRELLI, op. cit, 420; V. VERDICCHIO, op. cit., 64 ss.; M. CIAN, op. cit., 782 s. La riserva può avere ad
oggetto il diritto di usufrutto vitalizio ovvero anche solo per un certo periodo di tempo: in tale caso sembra che il valore
da considerare per la determinazione della liquidazione spettante agli altri legittimari sia quello della nuda proprietà, non
potendosi fare riferimento a quanto sostenuto dalla dottrina con riferimento alla donazione della nuda proprietà ai fini
della riunione fittizia. In quest’ultimo caso infatti il momento di riferimento è l’apertura della successione, quando
l’usufrutto si è già estinto; nel primo, viceversa, è la stipula del patto di famiglia, quando l’usufrutto si costituisce.
28
Per le società di capitali l’esercizio dei diritti sociali spetterà all’usufruttuario ovvero al nudo proprietario in
conformità al disposto degli articoli 2352 (per la s.p.a. e per la s.a.p.a.) e 2471 bis (per la s.r.l.) del codice civile;
nonostante sia tutt’ora discussa la natura della quota di società di persone, si tende ormai pressoché pacificamente ad
ammettere la possibilità di costituire su di esse diritti reali limitati di godimento (usufrutto) o di garanzia (pegno). In
dottrina si veda, per tutti, P. PISCITELLO, Società di persone a struttura aperta e circolazione delle quote. Modelli legali
ed autonomia statutaria, Torino, 1995, 225 ss.; in giurisprudenza Trib. Trento 14 gennaio 1997, in Società, 1997, 925.
Non è nemmeno da escludere la possibilità che il disponente costituisca il diritto di
usufrutto a favore di un discendente: in tale caso infatti l’usufruttuario esercita fin da
subito l’attività d’impresa ovvero – compatibilmente con le disposizioni di legge e dello
statuto – i diritti sociali inerenti alle partecipazioni.
Tale pattuizione a prima vista potrebbe destare perplessità quanto all’utilità pratica,
dal momento che l’assegnatario prevedibilmente sopravvivrà al cedente: perplessità
che sono peraltro destinate a scomparire ove si consideri l’ipotesi in cui, per esempio, il
disponente costituisca il diritto di usufrutto a favore del figlio e trasferisca il diritto di
nuda proprietà a favore del nipote ex filio29.
Non sembra sia poi possibile trasferire altri diritti reali di godimento: o perché essi
presuppongono che il bene su cui sono costituiti sia un immobile30, ovvero perché
limitano entro confini piuttosto ristretti le prerogative di chi ne è titolare, sì da
precludergli l’ampiezza di azione necessaria per l’esercizio di attività d’impresa31.
Per quanto attiene alla possibilità di prevedere modalità accessorie, non si pongono
problemi ad ammettere che le parti possano apporre condizioni, termini ed oneri.
La condizione può essere sia sospensiva, sia risolutiva: nel primo caso essa
potrebbe anche essere del tipo si praemoriar32, ove il disponente non intenda trasferire
29
G. PETRELLI, op. cit., 420. Non pare esservi alcun impedimento a configurare un’ipotesi simile, dal momento che
la legge prevede unicamente che l’assegnazione sia fatta a favore di un discendente, che, al momento del patto,
potrebbe pure non essere legittimario. In tale eventualità entrambi gli assegnatari provvederanno a liquidare i
legittimari non assegnatari in ragione del valore delle rispettive assegnazioni.
30
G. PETRELLI, op. cit., 420: è il caso dei diritti di superficie, enfiteusi, servitù e abitazione.
31
G. PETRELLI, op. cit., 420: è il caso del diritto d’uso.
32
Sembra che sul punto possa essere richiamato l’orientamento ormai prevalente che tende ad ammettere
l’apposizione di una condizione siffatta, dovendosi propendere per la soluzione che esclude che tale pattuizione
costituisca violazione del divieto dei patti successori istitutivi, dal momento che l’assegnatario acquisterebbe fin da
subito un’aspettativa di diritto suscettibile di evolversi, alla morte del disponente, nell’acquisto dei beni oggetto del
contratto. A favore di tale ipotesi si veda in dottrina F. SANTORO PASSARELLI, Donazione per caso di morte e causa di
morte, in Foro it., 1950, I, 386; A. TORRENTE, La donazione, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e
Messineo, Milano, 1956, 314 ss.; B. BIONDI, La donazione, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961,
513 ss.; GROSSO-BURDESE, Le successioni – Parte generale, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino,
1977, 96; L. FERRI, Disposizioni generali sulle successioni, in Commentario del Codice civile Scialoja-Branca, diretto da
Galgano, Bologna-Roma, 1997, 110 ss; M. IEVA, I fenomeni c.d. parasuccessori, in Successioni e donazioni, a cura di P.
Rescigno, I, Padova, 1994, 104 ss. In giurisprudenza Cass., 27 settembre 1954, n. 3136, in Giust. civ. 1955, I, 244 ss.;
Cass. 21 gennaio 1959, n. 140, in Giur. it., 1959, I, 1, 419; Cass., 9 luglio 1976, n. 2619; contra Cass., 24 aprile 1987,
n. 4053, in Riv. Not. 1987, II, 582. In tale caso si pone un problema in ordine alla valutazione dei beni oggetto del patto
di famiglia con riguardo al momento in cui l’assegnatario deve liquidare gli altri legittimari: una soluzione ragionevole
può essere quella di cristallizzare comunque il valore dei beni al momento del contratto, in ossequio al disposto
dell’articolo 768 quater, comma 3, del codice civile, e di differirne il pagamento all’apertura della successione, attesa la
temporanea inefficacia del negozio traslativo. Sembra invece pressoché impraticabile la soluzione di liquidare i
immediatamente l’azienda o le partecipazioni sociali; nel secondo caso potrebbe invece
essere
dedotto
dell’assegnatario
quale
nella
evento
condizionante
gestione
l’accertamento
dell’attività
d’impresa,
dell’inadeguatezza
l’inadempimento
dell’assegnatario al pagamento della liquidazione agli altri legittimari33, ove si ammetta
la validità di un siffatto tipo di condizione risolutiva34, nonché la premorienza
dell’assegnatario al disponente35.
Il termine può essere iniziale, per differire ad un momento successivo – coincidente
anche con la morte del disponente36 – l’efficacia del contratto, mentre non sembra
possibile prevedere un termine finale, se non ove si ammetta la configurabilità della
proprietà temporanea, anche se tale ultima pattuizione appare comunque in
contraddizione con lo spirito dell’istituto e con la probabile volontà del disponente, il
quale si propone di dare continuità all’attività imprenditoriale esercitata.
È poi possibile inserire anche un modus37, atteso che l’assegnatario beneficia almeno
in parte di una liberalità non donativa: un tale patto, peraltro, inciderà sul valore netto
dell’assegnazione, con la conseguenza che egli dovrà imputare alla propria quota di
legittima un valore diminuito del valore del modus.
Infine sembra doversi ammettere la possibilità che cedente e cessionario
concludano negozi autonomi collegati al patto di famiglia, quali, per esempio, un
divieto di alienazione dei beni trasferiti, purché contenuto entro convenienti limiti di
tempo38 ed un patto di prelazione a favore dei legittimari non assegnatari per il caso in
legittimari non assegnatari in base al valore dell’aspettativa che viene attribuita per effetto del patto, non già per motivi
di diritto, quanto, piuttosto, per l’impossibilità concreta di raggiungere l’accordo sul suo valore economico.
33
In alternativa alla condizione risolutiva potrebbe prevedersi in contratto, ai sensi dell’art. 768 septies, n. 2, del
codice civile, la possibilità che, in caso di inadempimento dell’assegnatario, gli altri legittimari siano legittimati ad
esercitare il diritto di recesso, in modo che, una volta scioltisi dal vincolo, essi possano esperire, all’apertura della
successione, le consuete azioni a tutela dei propri diritti.
34
Si tratterebbe infatti di una condizione risolutiva di inadempimento: la validità di tale figura non è pacifica anche
se, soprattutto in giurisprudenza, tende ormai a prevalere la soluzione positiva.
35
In caso di condizione risolutiva l’acquisto dell’assegnatario è immediato, atteso che il negozio produce da subito i
suoi effetti, a nulla rilevando, ai fini che qui interessano, che essi siano precari in dipendenza dell’apposizione della
condizione: a maggior ragione se ne sostiene pertanto la validità.
36
È il caso del contratto traslativo cum moriar, ormai ammesso dalla dottrina assolutamente prevalente: per i
termini del dibattito si veda la dottrina citata alla precedente nota 32.
37
Naturalmente ove si aderisca alla posizione che propende per compatibilità tra la figura dell’onere ed i negozi a
titolo gratuito dotati di causa diversa da quella donativa.
38
In questo caso non si pone alcun problema causale trovando la pattuizione giustificazione nell’ambito della
complessiva vicenda negoziale; inoltre sembra che l’apprezzabile interesse di una delle parti richiesto dall’articolo 1379
cui l’assegnatario intenda vendere successivamente i beni a lui trasferiti39;
contraddittorio sarebbe invece un patto d’opzione a favore degli altri legittimari, in
quanto questi ultimi, esercitando il diritto potestativo loro concesso, finirebbero con il
sovvertire le scelte del disponente40.
4.
-
Il
regime
patrimoniale
della
famiglia
del
disponente
e
dell’assegnatario. Problemi di non lieve entità possono determinarsi nel caso in cui il
disponente e/o l’assegnatario siano coniugati in regime di comunione legale dei beni: in
ragione di tale situazione sembra opportuno analizzare singolarmente le diverse
fattispecie che possono configurarsi.
A) Innanzitutto deve considerarsi l’ipotesi in cui il disponente sia coniugato in regime
di comunione legale dei beni: tale situazione deve poi essere valutata in diverse sottoipotesi.
1) Il disponente esercita attività d’impresa a titolo individuale senza nessun tipo di
partecipazione del coniuge41. È questo il caso più semplice, dal momento che, trovando
applicazione l’articolo 178 del codice civile, c.d. comunione de residuo, l’imprenditore è
libero di disporre dell’azienda senza nessun vincolo, non essendo il coniuge titolare di
alcun diritto fino allo scioglimento della comunione.
2) Il disponente esercita attività d’impresa a titolo individuale avvalendosi del lavoro
prestato dal coniuge in modo continuativo. Anche in questo caso l’imprenditore può
disporre liberamente dell’azienda – rientrando anche questa fattispecie nell’ambito di
applicazione dell’articolo 178 del codice civile – dovendo solamente assicurare al
del codice civile sia in re ipsa, dal momento che il disponente ha certamente interesse a che il trasferimento sia
effettuato per consentire al discendente di succedergli nell’attività d’impresa e non già per consentirgli di ottenere
lucrose plusvalenze.
39
Si tratterebbe di un contratto di prelazione strutturato secondo la schema della stipulazione a favore di terzi:
nemmeno in questo caso si pone un problema causale, trovando la pattuizione giustificazione nell’ambito della
complessiva vicenda negoziale. In questo caso il patto potrebbe probabilmente avere anche durata indeterminata, non
costituendo il patto di prelazione un vincolo eccessivamente invasivo per il concedente.
40
Non sarebbe peraltro da escludere la concessione di un diritto d’opzione condizionato a particolari eventi, quale,
per esempio, l’accertamento, da demandare a terzi, dell’inadeguatezza dell’assegnatario a gestire l’azienda trasferitagli.
41
Irrilevante ai fini del patto di famiglia è che l’impresa sia iniziata prima o dopo il matrimonio, rilevando ciò
esclusivamente al momento dello scioglimento della comunione legale.
coniuge quanto a lui spetta in dipendenza della disciplina dell’impresa familiare di cui
all’articolo 230 bis42.
3) Il disponente esercita attività d’impresa unitamente al coniuge: trova in questo
caso applicazione quanto disposto dall’articolo 177, comma 1 lettera d) e comma 2, a
seconda che l’attività sia iniziata prima o dopo il matrimonio. In questo caso, per il
trasferimento dell’azienda, ovvero dei beni acquistati successivamente al matrimonio
con gli utili prodotti, è necessario l’intervento di entrambi i coniugi, ai sensi dell’articolo
180, comma 2, del codice civile.
Tale situazione impone di considerare come con un solo patto di famiglia si vengano
in realtà a produrre effetti in relazione a due diversi soggetti, con la conseguenza che,
inevitabilmente, essi si rifletteranno sulle vicende successorie di entrambi i coniugi.
Può peraltro accadere che in questa situazione il coniuge del disponente non
partecipi al patto di famiglia. Il fatto che l’atto di trasferimento sia concluso da uno solo
dei coniugi non implica necessariamente l’invalidità del medesimo, dal momento che
tale conseguenza può avere luogo solo nel caso in cui facciano parte dell’azienda beni
immobili ovvero beni mobili registrati. Ove tali categorie di beni non siano presenti,
l’atto, ai sensi dell’articolo 184 del codice civile, è valido ed efficace43, dovendo il
disponente provvedere solo – su istanza dell’altro coniuge – a ricostituire la
comunione: in tale caso, poi, la ricostituzione può essere fatta solo per equivalente,
non essendo in alcun modo ipotizzabile una ricostituzione della comunione nella
situazione quo ante, il che, evidentemente, si porrebbe in insuperabile conflitto con la
stabilità da assicurare al patto. Tale ultima operazione deve peraltro tenere conto del
diritto di credito che si costituisce a favore del coniuge non partecipante in dipendenza
del patto, per il fatto che sarebbe altrimenti iniquo che quest’ultimo benefici a pieno sia
42
Per l’analisi della disciplina dell’impresa familiare con riferimento al patto di famiglia, si veda quanto esposto al
paragrafo successivo.
43
Minoritaria è infatti rimasta la tesi che esige per la stabilità dell’acquisto anche lo stato soggettivo di buona fede
da parte del cessionario. Per la tesi prevalente in dottrina si veda G. OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto
di famiglia, in Riv. dir. civ., 1976, I, 109; G. CIAN – A. VILLANI, Comunione dei beni tra coniugi, in Riv. dir. civ. 1980, I,
366; S. ROVERA, La comunione legale tra coniugi: l’amministrazione dei beni, in Trattato Bonilini-Cattaneo, II, Torino,
1997, 207 s.; L. BRUSCUGLIA, L’amministrazione dei beni della comunione legale, in Trattato di diritto privato, diretto
da Bessone, IV, 2, Torino, 1999, 310 ss.; in giurisprudenza si veda Cass., 19 marzo 2003, n. 4033, in Foro it., 2003, I,
2745; contra nel senso che l’articolo 184, comma 3, del codice civile andrebbe calato nel sistema circolatorio dei beni
mobili disciplinato dall’articolo 1153 del codice civile P. SCHLESINGER, Del regime patrimoniale della famiglia, in
Commentario al diritto italiano della famiglia a cura di Cian-Oppo-Trabucchi, III, Padova, 1992, 427; F. CORSI, Il regime
patrimoniale della famiglia, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu e Messineo, continuato da
Mengoni, Milano, 1979, 144; F. ANELLI, L’amministrazione della comunione legale, in Trattato di diritto di famiglia,
diretto da Zatti, III, Milano, 2002, 274 ss.
della tutela prevista dall’articolo 184, comma 3, del codice civile, sia del diritto di
credito derivante dal patto44.
4) Il disponente è socio imprenditore di una società con assunzione di responsabilità
illimitata per le obbligazioni sociali: tale ipotesi è regolata, ad avviso della dottrina
prevalente e della giurisprudenza45, dall’articolo 178 del codice civile, in quanto appare
ragionevole assicurare al coniuge titolare della partecipazione sociale un regime di
disciplina analogo a quello dell’impresa esercitata in forma individuale. Logico corollario
di tali considerazioni è che il cedente possa trasferire liberamente al discendente le
partecipazioni di cui è titolare, senza alcuna conseguenza derivante dal sistema della
comunione legale.
5) Il disponente è socio imprenditore di una società con limitazione della
responsabilità personale: tale fattispecie è generalmente riferita all’articolo 177, lettera
a)46, del codice civile, per il fatto che in questa ipotesi la componente dell’investimento
patrimoniale è prevalente rispetto alla posizione complessiva derivante dallo status di
socio47. Come precedentemente esposto all’ipotesi sub. 3) è necessario il consenso di
entrambi per qualunque atto di alienazione, con le conseguenze già descritte anche per
il caso in cui all’atto non partecipi il coniuge del disponente.
44
Si consideri infatti il seguente esempio: Tizio trasferisce a Tizietto l’azienda gestita congiuntamente con Tizia di
valore 100: Tizietto è tenuto a liquidare alla sorella Tizietta 12,5 per la “quota” di Tizio e 12,5 per la “quota” di Tizia;
nonché a liquidare alla madre Tizia 12,5 per la “quota” di Tizio. Se poi Tizio fosse tenuto a ricostituire integralmente la
comunione per 100, ne conseguirebbe che al momento dello scioglimento della comunione Tizia avrebbe diritto a 50, da
aggiungere ai 12,5 già acquistati a titolo personale. Pertanto delle due l’una: o si ritiene che Tizia non acquisti il diritto
ad essere liquidata in dipendenza del patto, il che appare inverosimile, o Tizio è tenuto a ricostituire la comunione di un
importo inferiore al valore dell’azienda.
45
Sebbene vi sia una generale concordia tra gli interpreti su quali partecipazioni cadano in comunione attuale
(quote di società a responsabilità limitata, azioni di società per azioni, azioni dell’accomandante di società in
accomandita per azioni e quote di società in accomandita semplice) e quali cadano in comunione de residuo (quote di
società semplice e di società in nome collettivo, quote del socio accomandatario di società in accomandita semplice ed
azioni del socio accomandatario di società in accomandita per azioni), differenti sono le motivazioni che li inducono a
sostenere le rispettive posizioni. Alcuni muovono dal diverso regime di responsabilità del socio per le obbligazioni sociali,
in tal senso si veda P. SCHLESINGER, Del regime patrimoniale della famiglia, cit., 139 s.; P. MARCHETTI, Società e
comunione legale, in Famiglia Comunione e separazione dei beni, I, Milano, 1977, 164 ss.; G. BARALIS, Comunione
coniugale legale e titolarità di partecipazioni sociali, in Riv. Not., 1977, I, 301; DE PAOLA-MACRÌ, Il nuovo regime
patrimoniale della famiglia, Milano, 1978, 113 ss., in giurisprudenza Trib. Milano 26 settembre 1994, in Fam. dir., 1995,
52; altri invece escludono dalla comunione attuale le partecipazioni espressione dell’attività imprenditoriale separata di
uno dei coniugi, purché, in ogni caso, ad esse consegua la responsabilità illimitata del socio, in tal senso si veda, A.
PAVONE LA ROSA, Comunione coniugale e partecipazioni sociali, in Riv. soc., 1979, 21 ss.; G.F. CAMPOBASSO,
Comunione coniugale e partecipazioni in società di capitali, in Famiglia e circolazione giuridica, Milano, 1997, 184; M.
NUZZO, L’oggetto della comunione legale tra coniugi, Milano, 1984, 79 ss.
46
47
Vedi quanto precisato alla nota precedente.
Si veda in giurisprudenza Cass. 27 maggio 1999, n. 5172 in Riv. giur. trib., 1999, 929; Cass. 23 settembre 1997,
n. 9355, in Giur. it., 1998, 876 ss.; Cass. 18 agosto 1994, n. 7437, in Giust. civ., 1995, I, 2503 ss., Trib. Milano 21
maggio 1997, in Fam. dir., 1998, 551.
B) La seconda ipotesi consiste nell’eventualità che l’assegnatario sia coniugato in
regime di comunione legale dei beni: anche tale situazione si articola in una serie di
casi particolari a seconda della natura dei beni trasferiti. Appare peraltro opportuno
proporre alcune considerazioni di ordine generale, che discendono dalla natura
giuridica del patto di famiglia e dagli effetti che ad esso conseguono.
I commentatori hanno ritenuto di poter escludere la caduta in comunione dei beni
assegnati ora in ragione della causa donativa48 da riconoscere al patto, ora in ragione
dell’effetto liberale49 ad esso inerente.
Per la verità, come già precedentemente esposto, il patto di famiglia deve essere
qualificato come contratto a prestazioni corrispettive da cui derivano effetti in parte
gratuiti ed in parte onerosi: più in particolare gli effetti gratuiti attengono alla liberalità
non donativa conseguita dall’assegnatario in dipendenza del patto e consistente nel
valore netto dell’attribuzione50, mentre gli effetti onerosi attengono all’obbligo di
liquidare gli altri legittimari, il che costituisce controprestazione del trasferimento a lui
effettuato, deviata, quanto all’imputazione soggettiva dell’acquisto del diritto, dal
disponente a favore di quelli.
Proprio le predette peculiarità del contratto costringono ad esaminare a fondo le
sorti dell’acquisto in ordine ad una sua eventuale caduta in comunione legale.
Punto di partenza da cui muovere non possono che essere le caratteristiche
essenziali da riconoscere al nuovo istituto: queste ultime avvicinano, per quanto qui in
48
In tal senso si veda A. MERLO, “Il patto di famiglia”, in CNN Notizie del 14 febbraio 2006, il quale attribuisce al
patto natura di donazione modale, facendo così applicazione dell’articolo 179, lettera b), del codice civile. Sebbene la
donazione modale non viene normalmente affrontata tra le figure problematiche in ordine all’applicazione dei principi
della comunione legale, non appare così scontato che l’acquisto che si realizza per effetto di tale contratto sia da
considerare completamente personale. Infatti anche ove si ritenga che il modus non sia mai da qualificare in termini di
controprestazione è indubitabile che alla donazione modale ineriscono evidenti profili di onerosità, e sempre più diffusa
è l’opinione che non si debba guardare unicamente alla causa del contratto per valutare se un bene cada in comunione
o resti personale, ma sia necessario soprattutto considerare quali effetti (liberali o meno) si producano in capo
all’acquirente in conseguenza del contratto. Su quest’ultimo punto si veda la dottrina e la giurisprudenza citate alla
successiva nota 56. Ritiene che l’acquisto compiuto in dipendenza di una donazione modale cada in comunione, ad
eccezione del caso in cui l’adempimento del modus avvenga mediante beni personali del donatario, G. BISCONTINI,
Onerosità, corrispettività e qualificazione dei contratti, Napoli, 1984, 195 ss.; contra U. A. SALANITRO, Comunione
legale tra i coniugi e acquisti per donazione o successione, in Familia, 2003, I, 392 s., ad avviso del quale l’acquisto
sarebbe personale con conseguente costituzione di un diritto di rimborso a favore della comunione.
49
In tal senso si veda G. PETRELLI, op. cit, 421. L’Autore peraltro omette di considerare come la liberalità non sia
integrale, dovendo l’assegnatario provvedere a liquidare gli altri legittimari, con la conseguenza che il valore dell’azienda
sarà sempre superiore al valore della liberalità non donativa che il primo è tenuto ad imputare alla propria quota di
legittima.
50
Si ricorda che la liberalità non donativa da imputare alla legittima consiste per l’assegnatario nel valore risultante
dall’atto dei beni a lui trasferiti detratto il valore delle liquidazioni dovute ai legittimari non assegnatari.
considerazione, il patto di famiglia ad un altro negozio, da sempre oggetto di vivaci
discussioni: il negotium mixtum cum donatione.
In entrambe le figure, infatti, ricorrono sia la causa di scambio, sia effetti in parte
gratuiti ed in parte onerosi: proprio in ragione di tale complessità una delle
conseguenze di disciplina più discusse del negotium mixtum risiede nella difficoltà di
accertare quale sia la sorte dell’acquisto allorché l’acquirente sia coniugato in regime di
comunione legale dei beni.
In dottrina non esistono interpretazioni univoche, atteso che sono stati proposti
orientamenti del tutto alternativi: sembra peraltro che sia possibile riunirli in due filoni
fondamentali. Entrambi si fondano sulle acquisizioni, sempre più consolidate, in ragione
delle quali è ammesso che un acquisto51 sia personale anche ove la causa del contratto
che l’ha determinato non sia donativa: è il caso delle liberalità non donative, alle quali
si tende ad estendere l’ambito di applicazione dell’art. 179 lett. b) 52, sia per il tenore
letterale della norma, sia per evitare che il coniuge si avvantaggi di un’attribuzione per
la quale non ha dato alcun contributo apprezzabile.
Il primo orientamento53 muove dalla convinzione che sia possibile, per questo
specifico aspetto, combinare gli effetti di disciplina dei trasferimenti a titolo oneroso
con quelli a titolo gratuito. In ragione di tale premessa si giunge a sostenere che
l’acquisto sarebbe pro quota in comunione e pro quota personale: più precisamente,
sarebbe necessario determinare la quota di comproprietà corrispondente al valore
dell’arricchimento, che sarebbe personale, e quella corrispondente al valore della
prestazione eseguita, che cadrebbe in comunione. Questa tesi ha l’indubbio merito di
riflettere sugli effetti del contratto la realtà concreta dell’operazione economica, sì da
51
Si ammette tale principio solo per le liberalità non donative cui consegue un acquisto, non per quelle che hanno
come effetto la liberazione da un debito, come, per esempio, la remissione ovvero la rinuncia alla rivalsa nel caso di
adempimento dell’obbligo altrui. Si veda la dottrina citata alla nota successiva.
52
G. CIAN – A. VILLANI, op cit., 397; F. CORSI, op. cit., 101; T. AULETTA, La comunione legale, in Trattato di
diritto privato, diretto da Bessone, IV, 2, Torino, 1999, 192 ss.; GABRIELLI-CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei
coniugi, Milano, 1997, 36; C. RADICE, La comunione legale tra coniugi:i beni personali, in Trattato Bonilini-Cattaneo, II,
Torino, 1997, 130 s.; E. RUSSO, I beni della comunione legale e i beni personali, in Il codice civile Commentario, diretto
da Schlesinger, Milano, 1999, 177 ss.; in giurisprudenza Cass. 14 dicembre 2000, n. 15778, in Giust. civ., 2001, 335;
Cass. 8 maggio 1998, n. 4680, in Fam. dir., 1998, 323; Cass. 15 novembre 1997, n. 11327, in Foro it., 1999, I, 994;
Trib. Milano, 6 novembre 1996, in Fam. dir., 1997, 469; contra, muovendo dalle difficoltà pratiche cui tale assimilazione
darebbe luogo e da esigenze di tutela dei terzi, G. ZUDDAS, L’acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o
successione, in La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, 452 ss..
53
G. CIAN – A. VILLANI, op cit., 397; G. a BECCARA, I beni personali, in Trattato di diritto di famiglia, diretto da
Zatti, III, Milano, 2002, 167; U. A. SALANITRO, op. cit., 410 s.
evitare di sacrificare gli uni o gli altri interessi, ma, d’altra parte, si espone a critica con
riferimento alle evidenti difficoltà di ordine pratico che inevitabilmente genera.
È infatti evidente che l’amministrazione dei beni sarebbe alquanto gravosa,
dovendosi rispettare – per la relativa quota – le regole di disciplina della comunione
legale, le quali esigono, ai sensi dell’art. 180, comma 2, del codice civile, che i coniugi
agiscano congiuntamente per il compimento di atti di straordinaria amministrazione.
Inoltre sarebbe fortemente compromessa anche la certezza dei traffici giuridici,
stante l’artificioso regime di disciplina del bene, soggetto, pro quota, alle libere
determinazioni del relativo titolare e, pro quota, alle regole della comunione senza che,
peraltro, i terzi possano avere contezza della misura della quota di cui un coniuge può
liberamente disporre e della misura della quota caduta in comunione.
Proprio al fine di superare le presenti incertezze altra parte della dottrina propende
per una soluzione unitaria, con la conseguenza che il bene è da considerare o
interamente personale o interamente in comunione.
Una parte della dottrina propone di considerare il bene interamente in comunione,
per l’onerosità che inerisce al negotium mixtum cum donatione54, salvo il caso in cui la
controprestazione eseguita sia meramente simbolica.
Altra parte della dottrina55, di contro, mette in evidenza come anche in questa
ipotesi non sia la causa l’elemento su cui soffermarsi per risolvere il conflitto in ordine
alla personalità o meno dell’acquisto, ma piuttosto debba farsi riferimento alla
dimensione economica degli effetti, onde valutare se il coniuge abbia dato un
contributo all’acquisto.
La valutazione conduce a qualificare l’acquisto a seconda della prevalenza della
gratuità o dell’onerosità, in modo che sia sacrificato l’interesse più debole: tale
interpretazione può apparire meno rigorosa di quella che tende a combinare i due
profili, ma si lascia preferire per la semplicità delle conseguenze cui conduce e,
soprattutto, per il superiore grado di certezza che assicura alla circolazione.
54
P. SCHLESINGER, op. cit., 150; G. BISCONTINI, op. cit., 195 ss.; C. RADICE, op. cit., 130 s.; G. ZUDDAS, op. cit.,
457.
55
T. AULETTA, op cit., 194 s.; E. RUSSO, op. cit., (nt. 11) 180; C. GRANELLI, Donazione e rapporto coniugale, in La
donazione, a cura di Bonilini, I, Torino, 2001, 464 ss.
Le precedenti considerazioni devono essere riproposte con riferimento al patto di
famiglia, con l’avvertenza, peraltro, che le nuove norme impongono alcune
precisazioni.
La caduta in comunione di tutti i beni trasferiti non sembra in alcun modo
compatibile con la necessità che l’assegnazione – in ragione del suo valore netto – sia
imputata alla legittima dell’assegnatario: è infatti pacifico56 che l’intangibilità della
legittima sia incompatibile con qualunque tipo di vincolo inerente ai beni, il cui valore
deve essere ad essa imputato. Non è perciò assolutamente possibile che cadano in
comunione tutti i beni oggetto del patto, atteso che il loro valore comprende sempre
una componente significativa da qualificare in termini di liberalità non donativa.
Per le stesse considerazioni sopra ricordate non si lascia nemmeno preferire la tesi
che, pretendendo di combinare l’effetto oneroso con quello gratuito, finisce con il dar
vita alla costituzione di due quote di comproprietà, delle quali l’una personale
all’assegnatario e l’altra in comunione.
Si potrebbe pertanto sostenere che in questo caso la prevalenza della gratuità è in
re ipsa, non potendo in alcun modo accadere che tutti i beni cadano in comunione.
Inoltre, ad ulteriore conferma del precedente assunto, si consideri che, mentre gli altri
legittimari hanno diritto alla sola quota di legittima, l’assegnatario è l’unico che cumula
la sua quota di legittima con l’intera quota disponibile, il che depone chiaramente a
favore dell’auspicata prevalenza. Infine non è da dimenticare che l’istituto in esame,
pur essendo un contratto inter vivos, assume evidenti finalità successorie, sì da
apparire preferibile che l’acquisto sia da intendere come personale per la totalità.
Nonostante la preferenza da ultimo espressa, appare necessario verificare – ove si
aderisse alla tesi della combinazione degli effetti – se sia comunque possibile
approdare a soluzioni più tranquillizzanti sia in ordine alla tutela della libera iniziativa
economica del coniuge imprenditore, sia in ordine alla certezza degli atti dispositivi da
lui compiuti.
All’uopo è indispensabile soffermarsi sulla natura dei beni che possono essere
trasferiti all’assegnatario, dal momento che le norme di legge prevedono trattamenti
diversi.
56
P. SCHLESINGER, op. cit., cit., 151; C. RADICE, op cit., 134 s.; T. AULETTA, op cit., 189; U. A. SALANITRO, op
cit., (nt. 157) 421, ove ulteriori riferimenti bibliografici.
Il primo caso da analizzare attiene all’ipotesi in cui all’assegnatario sia trasferita
l’azienda o un suo ramo. In tale eventualità trova applicazione l’articolo 178 del codice
civile57, il quale dispone che i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi
costituita o acquistata a titolo oneroso58 dopo il matrimonio cadano in comunione de
residuo, con la conseguenza che il coniuge non imprenditore non acquista su di essi
alcun diritto fino al momento dello scioglimento della comunione.
Corollario del dettato normativo è che la quota dell’azienda corrispondente al valore
della liquidazione da corrispondere ai legittimari non assegnatari cade in comunione de
residuo, cosicché l’assegnatario può disporne liberamente, con piena salvaguardia della
libertà di iniziativa economica, che non può essere tenuta sotto scacco dall’altro
coniuge, e della certezza delle contrattazioni con i terzi.
Nonostante le ultime tranquillizzanti considerazioni, non può tuttavia ignorarsi come
l’assegnazione – pro quota –
non sia personale all’assegnatario e come allo
scioglimento della comunione l’altro coniuge possa accampare pretese sulla quota
caduta in comunione59.
La seconda ipotesi attiene al trasferimento di partecipazioni sociali: come già
rilevato60, occorre distinguere tra partecipazioni destinate alla comunione de residuo e
partecipazioni destinate alla comunione attuale.
Nel primo caso si determinerebbe una vicenda analoga a quella esposta in
precedenza; nel secondo, invece, si verrebbe a creare una situazione a tal punto
57
La dottrina assolutamente prevalente e la giurisprudenza quasi unanime ritengono che l’obiettiva destinazione
all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi sia sufficiente per sottoporre i beni aziendali al regime della comunione de
residuo di cui all’art. 178 del codice civile, negando che nel caso di specie trovi applicazione l’articolo 179, comma 2, del
codice civile. Si veda in dottrina P. DI MARTINO, La comunione legale tra coniugi: l’oggetto, in Trattato BoniliniCattaneo, II, Torino, 1997, 105 ss.; A. LUMINOSO, Comunione coniugale e acquisto di beni destinati all’esercizio della
professione o dell’impresa individuale, in Riv. not., 2001, 1016 ss.; DE PAOLA-MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale
della famiglia, Milano, 1978, 288 ss.; in giurisprudenza Cass. 9 settembre 2005, n. 18456, in Riv. not. 2006, 168 ss.;
Cass. 21 maggio 1997, n. 4533; Cass. 29 novembre 1986, n. 7060, in Foro it., 1987, I, 810; contra in giurisprudenza
Trib. Monza, 14 novembre 1988, in Riv. not., 1989, 623.
58
Nonostante la lettera della legge faccia riferimento solo alla costituzione dell’azienda, non vi è alcun dubbio che la
norma trovi applicazione anche nel caso dell’acquisto a titolo oneroso; nel caso in cui l’acquisto avvenga a titolo gratuito
trova invece applicazione l’articolo 179, lett. b), del codice civile. Si veda in tal senso, per tutti, P. DI MARTINO, op. cit.,
105 ss.
59
Ove si voglia scongiurare qualunque rischio non resta pertanto che stipulare una convenzione matrimoniale di
separazione dei beni.
60
Si veda retro nota 45.
complicata, da mettere ulteriormente in evidenza come la soluzione della combinazione
degli effetti non sia da preferire.
Proprio con riferimento a quest’ultimo caso le considerazioni generali sopra proposte
trovano un esemplare riscontro: ove dal libro dei soci risultasse infatti a pieno la reale
titolarità
delle
partecipazioni61,
non
solo
sarebbe
necessario
nominare
un
rappresentante comune, ma sarebbe altresì necessario seguire le regole di
amministrazione dei beni in comunione legale, con evidenti difficoltà per l’esercizio dei
relativi diritti sociali.
A fronte del principio contenuto nell’articolo 184, comma 3, del codice civile, in
questo caso non si pongono problemi in ordine alla stabilità degli effetti degli atti
dispositivi eventualmente conclusi con terzi dall’assegnatario.
È peraltro possibile che l’assegnatario provveda a liquidare i legittimari non
assegnatari con denaro62 o con beni in natura personali63: in tale eventualità
nonostante l’onerosità del patto sembra comunque ragionevole propendere – ove
61
La dottrina prevalente infatti scinde l’aspetto dell’esercizio dei diritti sociali, cui sarebbe legittimato solo il coniuge
iscritto nel libro dei soci, da quello della titolarità delle partecipazioni nei rapporti interni, da riconoscere ad entrambi. In
ragione di tale posizione i problemi cui si fa riferimento nel testo sono da riferire solo al caso in cui il libro dei soci dia
piena rappresentazione dell’articolata situazione relativa alla titolarità. Va peraltro segnalato come il coniuge non iscritto
può sempre agire perché gli amministratori provvedano a dare evidenza della situazione effettiva. Si veda in dottrina
COLTRO CAMPI, Comunione legale e operazioni su titoli, in Banca e borsa, I, 1977, 368; L. MISEROCCHI, Cenni sulla
titolarità di azioni in regime di comunione legale dei beni, in Vita not., 1991, 1196 ss.; G.F. CAMPOBASSO, Comunione
coniugale, cit., 471 ss.; in giurisprudenza Trib. Reggio Emilia, 2 agosto 1994, in Società, 1995, 400; Trib. Roma, 15
gennaio 1988, in Foro it. 1989, I, 257; per un’ampia rimeditazione del problema C. TRINCHILLO, Partecipazioni sociali e
comunione legale dei beni, in Riv. not., 2002., 883 ss., secondo il quale il coniuge non intestatario non potrebbe agire
per fare accertare la situazione di contitolarità.
62
Inizialmente i commentatori hanno manifestato diverse perplessità in ordine alla qualificazione del denaro come
bene personale con riferimento a quello acquistato precedentemente al matrimonio, nonché in ordine alla possibilità di
surrogarlo con altro bene ai sensi dell’articolo 179, comma 1 lettera f), del codice civile: si veda in tal senso in dottrina
F. SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, in Giurisprudenza sistematica di diritto civile e
commerciale, fondata da Bigiavi, Torino, 1995, 173; DE PAOLA-MACRÌ, op. cit., 133; successivamente la dottrina si è
orientata nel senso dell’ammissibilità di entrambe le ipotesi predette A e M. FINOCCHIARO, op. cit., 989 ss.; G. CIAN –
A. VILLANI, op. cit., 396; GABRIELLI-CUBEDDU, op. cit., 51ss.; SCARANO, I beni acquistati con il prezzo o lo scambio di
beni personali (art. 179 lett. f) c.c.), in La comunione legale, a cura di Bianca, I, Milano, 1989, 532 e 536 ss; C. RADICE,
op. cit., 148 s.; in giurisprudenza Cass. 18 agosto 1994, n. 7437, cit., sebbene si pronunci espressamente solo per il
denaro di provenienza successoria o donativa, sembra che il ragionamento possa essere esteso anche al denaro
personale per acquisto antecedente al matrimonio; Trib. Parma, 28 marzo 1985, in Riv. not., 1985, 1204.
63
La dottrina tende a riconoscere alla nozione di scambio di cui all’articolo 179, comma 1 lettera f), del codice civile
un significato piuttosto esteso, atteso che ritiene compresa, oltre all’ipotesi della permuta, anche quelle dei beni
acquistati in sede di divisione, di liquidazione dei beni di una società partecipata personalmente da uno dei coniugi,
ovvero per effetto di datio in solutum o di transazione relative a rapporti estranei alla comunione legale. In tal senso si
veda in dottrina LO SARDO, Acquisto di beni con il prezzo del trasferimento di beni personali o con il loro scambio e
dichiarazione di esclusione dalla comunione legale, in Riv. not., 1995, 779 ss; C. RADICE, op.. cit., pag. 149; SCARANO,
op. cit., 563; in giurisprudenza per l’ipotesi di bene immobile assegnato in sede di liquidazione di società in nome
collettivo a un socio coniugato in regime di comunione legale si veda Cass., 8 maggio 1996, n. 4273, in Notariato, 1997,
27.
ricorrano le condizioni di cui all’articolo 179, comma 1 lettera f) e comma 2, del codice
civile64 – per la personalità dei beni trasferiti. Infatti l’altro coniuge non offre alcun
contributo apprezzabile all’acquisto, dal momento che il sacrificio economico viene
sopportato
unicamente
dall’assegnatario,
che
utilizza
beni
personali
per
la
soddisfazione delle ragioni di credito dei legittimari non assegnatari..
Infine si deve considerare il caso in cui il disponente provveda a liquidare gli altri
legittimari attraverso un adempimento dell’obbligo altrui65, ovvero assumendo nei loro
confronti il debito dell’assegnatario66, per poi rinunciare a qualunque rivalsa nei
confronti di quest’ultimo.
In tale eventualità al patto di famiglia si aggiunge un’ulteriore liberalità non donativa
a favore dell’assegnatario, che viene liberato dall’obbligo di rifondere il genitore per
quanto corrisposto ad estinzione del suo debito. Tale vicenda, che produce
conseguenze successorie ulteriori, non sembra possa in alcun modo influire sulla
struttura del patto e sugli effetti ad esso conseguenti, compresa la sorte
dell’assegnazione con riferimento alla comunione legale, dal momento che la liberalità
non donativa è del tutto autonoma rispetto al contratto e non può pertanto influenzare
la sorte dell’acquisto che si produce in dipendenza di quello.
Analoga considerazione deve essere proposta allorché siano gli altri legittimari a
rinunziare, anche contestualmente, al credito che spetterebbe loro in dipendenza del
patto nei confronti dell’assegnatario: anche tale vicenda assume infatti i contorni di una
liberalità non donativa autonoma, che lascia il contratto uguale a se stesso.
64
Di recente la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sulla necessità che in atto sia fatta menzione sia della
dichiarazione di cui all’articolo 179, comma 1 lettera f) del codice civile, resa dal coniuge acquirente, sia della presenza
del coniuge dell’acquirente, aderendo all’orientamento prevalente in dottrina: si veda in dottrina P. SCHLESINGER, op.
cit., 158; C. RADICE, op. cit., 150 ss; T. AULETTA, op. cit., 221; in giurisprudenza Cass., 24 settembre 2004, n. 19250,
in Giur. it., 2006, 275; contra, in giurisprudenza, nel caso specifico di permuta di bene personale, Cass., 8 febbraio
1993, n. 1556, in Giust. civ., 1993, 2425.
65
Il disponente può provvedere ai sensi dell’articolo 1180 del codice civile ovvero ricorrendo agli istituti che
consentono anche l’adempimento indiretto del debito altrui quali la compensazione – salvo a pretendere che la
reciprocità dei rapporti obbligatori non possa essere sacrificata dall’autonomia privata nemmeno nel caso di
compensazione volontaria – la novazione, la datio in solutum. Sull’adempimento indiretto del debito altrui si veda in
particolare R. CICALA, L’adempimento indiretto del debito altrui, Napoli, 1968, passim, specialmente 94 ss.
66
L’istituto più idoneo per il conseguimento di tale scopo è senza dubbio l’espromissione, che, fondandosi
causalmente sull’assunzione del debito altrui, non necessita di alcuna controprestazione per sostenersi.
Da ultimo deve essere verificata la possibilità che l’attribuzione sia effettuata a
favore della comunione legale esistente tra l’assegnatario ed il coniuge67. Appare
peraltro necessaria una precisazione: di tale ipotesi è possibile discutere in quanto si
ammetta la possibilità che l’assegnazione dell’azienda o delle partecipazioni sociali sia
effettuata con dispensa dall’imputazione68, contrastando altrimenti tale ipotesi con il
principio dell’intangibilità della legittima69: ove si sostenga la praticabilità di tale
operazione, sembra che nulla osti ad una simile pattuizione.
5. - La compatibilità tra patto di famiglia ed impresa familiare. L’articolo
768 bis del codice civile prevede espressamente che il patto di famiglia sia compatibile
con la disciplina dell’impresa familiare e delle altre tipologie societarie, imponendo di
decifrare il significato dell’inciso inserito dal legislatore, in modo da individuare quali
aspetti delle diverse figure coinvolte vengono in evidenza allorché le parti intendano
stipulare il contratto.
Iniziando dal riferimento all’impresa familiare, è necessario soffermarsi, seppur
brevemente, sulla sua natura giuridica, dal momento che, ove si aderisse
all’orientamento che la qualifica come impresa collettiva, ne seguirebbe l’impossibilità
per il disponente di trasferire l’azienda ai discendenti senza il consenso degli altri
partecipanti70.
67
Ha prospettato tale ipotesi A. DI SAPIO, op. cit., il quale, sebbene in termini dubitativi, propende per la soluzione
positiva.
68
In questo caso la dispensa dall’imputazione deve essere necessariamente contestuale al patto, atteso che
diversamente non si avrebbe modo di evitare che sia violato il principio dell’intangibilità della legittima.
69
Sulle attribuzioni a favore della comunione in rapporto al principio dell’intangibilità della legittima si veda supra nel
testo ed alla nota 52.
70
Sulla natura dell’impresa familiare sono state proposte principalmente due tesi, sebbene esse si articolino poi in
ulteriori differenziazioni. Un primo orientamento, muovendo dall’idea secondo la quale lo spirito della norma imporrebbe
la migliore tutela possibile per i familiari, ha attribuito all’impresa familiare la natura di impresa collettiva, con la
conseguenza che titolare dei beni aziendali non sarebbe solo l’imprenditore, ma pure coloro che prestano il proprio
lavoro in modo continuativo nella famiglia o nell’impresa familiare e vantano i legami di parentela previsti dall’articolo
230 bis del codice civile. In tal senso si veda in dottrina A e M. FINOCCHIARO, op. cit., 1263 ss.; MAISANO, Spunti per
un dibattito sull’impresa familiare, in L’impresa familiare nel nuovo diritto di famiglia, Napoli, 1977, 27 s.; MESSINETTI,
Impresa familiare, diritto d’impresa, “possesso di diritti”, in Raccolta di studi in onore di R.. Nicolò, Milano, 1982, 549
ss.; C. M. BIANCA, Diritto civile, 2, Milano, 447 ss., il quale sostiene che il legislatore abbia inteso dar vita ad un nuovo
regime – definito sinteticamente “società legale di lavoro familiare” – teso a favorire i familiari garantendo loro, da un
lato, la contitolarità dei beni aziendali e, dall’altro, l’assenza della responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali e
delle normali conseguenze di legge, da riconoscere solo a chi esercita attività d’impresa. In giurisprudenza Cons. Stato,
11 febbraio 1976, in Giur. comm., 1977, I, pag. 726 ss; Trib. Rovereto, 10 luglio 1987, in Riv. dir. comm., 1990, II, pag.
317. Ove si aderisse al precedente orientamento il disponente non sarebbe legittimato a trasferire il diritto di piena
proprietà dei beni aziendali, atteso che gli altri partecipanti sarebbero titolari di diritti di comproprietà sui medesimi. Il
Per la verità tale orientamento, dopo aver riscosso inizialmente un certo successo,
risulta ormai abbandonato dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali propendono
per la natura di impresa individuale, il cui esercizio è da imputare esclusivamente
all’imprenditore, di talché sembra che il disponente sia legittimato a trasferire
liberamente i beni aziendali, non avendo acquistato i familiari nessun diritto reale sui
medesimi, con la conseguenza71 di vedere estesa tale libera disponibilità anche ai beni
acquistati con gli utili72 prodotti dall’impresa ed agli incrementi dell’azienda.
Superati i primi problemi che l’inciso inserito nell’articolo 768 bis del codice civile
potrebbe suscitare, si pone la necessità di valutare la compatibilità tra il patto di
secondo orientamento propende invece per la natura di impresa individuale dell’impresa familiare, con la conseguenza
che tale istituto non comporta effetti esterni, ma attribuisce ai familiari unicamente diritti di credito da esercitare nei
confronti dell’imprenditore, scontrandosi l’opposta ricostruzione con alcuni dati incontrovertibili: i) l’inopportunità di una
soluzione che muovendo dal presupposto di voler tutelare al meglio i familiari finisce con il rischiare di far assumere loro
responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali; ii) la difficoltà di elaborare regimi giuridici nuovi sconosciuti al sistema
sulla base di indici normativi che non depongono in quel senso, al fine di evitare le conseguenza di cui al precedente
punto; iii) la difficoltà di ammettere che un minore possa assumere la qualifica di imprenditore commerciale in assenza
di un idoneo provvedimento autorizzativo dell’autorità giudiziaria; iv) l’assenza di un sistema pubblicitario in grado di
informare i terzi delle modalità attraverso cui è esercitata l’impresa; v) l’esistenza di un diritto di prelazione a favore dei
partecipanti avente ad oggetto l’intero complesso aziendale, il che si pone in evidente contrasto con l’assunto secondo
cui i familiari sarebbero già titolari di una quota di comproprietà. In tale senso si veda in dottrina G. OPPO, Dell’impresa
familiare, in Commentario al diritto italiano della famiglia, diretto da Cian, Oppo e Trabucchi, III, Padova, 1992, 484 ss.;
V. PANUCCIO, voce “Impresa familiare”, in Enc. dir. Aggiornamento, IV, Milano, 2000, 682 ss; V. COLUSSI, voce
“Impresa familiare”, in Dig. IV ed., Disc. priv. sez. comm., VII, Torino, 1992, 175; L. BALESTRA, L’impresa familiare, in
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Milano, 2002, 665 ss.; M. NUZZO, L’impresa familiare, in Trattato
Bonilini-Cattaneo, II, Torino, 1997, 446 ss.; G. DE RUBERTIS, La prelazione di cui all’art. 230 bis del c.c., in Vita Not.,
1983, II, 1235; M. TANZI, voce “Impresa familiare”, in Enc. Giur. Treccani, XVI, Roma, 1989, 5-6; in giurisprudenza
Corte Cost., 25 novembre 1993, n. 419, in Giur. cost., 1993, 3461; Cass., 27 giugno 1990, n. 6559, in Giur. it., 1991, I,
1, 428; Cass., 2 aprile 1992, n. 4030, in Giust. civ., 1992, I, 2333; Cass., 25 luglio 1992, n. 8959, in Nuova giur. civ.
comm., 1993, I, 408; Cass., 19 ottobre 1995, n. 10893, in Giust. civ., 1996, I, 739; Cass., 4 ottobre 1995, n. 10412, in
Studium iuris, 1996, 363; Cass., 26 marzo 1999, n. 2896, in Foro it., 1999, I, 1797; Cass., 20 giugno 2003, n. 9897, in
Gius, 2003, 2784; Trib. Cagliari, 18 maggio 1992, in Giur. it., 1992, I, 2, 524.
71
Per la verità in dottrina va registrata l’opinione di chi, pur attribuendo all’impresa familiare natura di impresa
individuale, ritiene che i familiari acquistino la comproprietà dei beni acquistati con gli utili e degli incrementi
dell’azienda, in quanto essi sarebbero il frutto del loro lavoro: in tal senso si veda in dottrina V. PANUCCIO, op. cit., 675
s. Non sembra però che tale posizione sia condivisibile, in quanto in evidente contrasto con la natura individuale
dell’impresa familiare e scontrandosi altresì con almeno alcune delle obiezioni mosse all’opposto orientamento della
natura collettiva alla nota precedente.
72
Con riferimento agli utili vi è incertezza in dottrina in merito al momento in cui essi vadano distribuiti: alcuni infatti
propendono per una distribuzione annuale, in tal senso si veda A e M. FINOCCHIARO, op. cit., (nt. 86) 1333; L.
BALESTRA, op. cit., 703; altri invece convengono sull’opportunità che la distribuzione sia eseguita solo alla cessazione
dell’impresa, in quanto solo in questo momento sarebbe possibile determinare con certezza l’entità degli utili prodotti, in
tal senso si veda V. COLUSSI, op. cit., 181, in giurisprudenza Cass., 22 ottobre 1999, n. 11921, in Fam. dir., 2000, 123;
si tende comunque ad ammettere che sul punto l’autonomia privata possa disporre liberamente. In ogni caso il debitore
è l’imprenditore che cessa di esercitare l’attività anche ove il discendente prosegua ad esercitare l’attività d’impresa
nelle forme dell’impresa familiare: ovviamente è possibile che l’autonomia privata dia vita a pattuizioni ulteriori quali,
per esempio, l’accollo dei predetti debiti da parte dell’assegnatario. Un simile accordo peraltro comporta significative
conseguenze sul patto, dal momento che il valore netto dell’attribuzione andrebbe calcolato sottraendo anche il valore
dei debiti assunti per effetto dell’accollo, comportando tale istituto sempre un passaggio del peso dei debiti anche nei
apporti interni e non solo nei confronti del creditore: si avrà pertanto che il valore netto dell’assegnazione è dato da
(valore dell’azienda – valore delle liquidazioni da corrispondere ai legittimari non assegnatari – valore dei debiti assunti).
famiglia e quanto dispone l’articolo 230 bis, primo comma, del codice civile in ordine al
fatto che le decisioni inerenti alla gestione straordinaria ed alla cessazione dell’impresa
debbano essere adottate dai familiari a maggioranza, atteso che in dipendenza del
patto si determina il trasferimento dell’azienda a favore di un soggetto diverso
dall’attuale imprenditore.
Non pare si possa trascurare, a proposito, che l’alienazione dell’azienda sia
certamente un atto di straordinaria amministrazione e che sia ragionevole convenire
con chi ritiene che un tale atto segni la cessazione dell’impresa73, dal momento che,
anche ove l’acquirente continui ad esercitare attività d’impresa nelle forme dell’impresa
familiare, si tratterebbe di attività costituita ex novo.
Dall’impostazione qui preferita non può che conseguire la necessità che i familiari si
esprimano a maggioranza in ordine al trasferimento dell’azienda, dal momento che,
imponendo il giudizio di compatibilità tra patto di famiglia e disciplina dettata dall’art.
230 bis, il legislatore tende a far salvi gli aspetti di disciplina dell’impresa familiare che
non siano di per sé in contrasto con la natura del patto e con gli effetti ad esso
conseguenti74.
A tali considerazioni potrebbe d’altra parte obiettarsi che in questo modo si finirebbe
con il riconoscere agli altri familiari un potere di veto che non sembra in linea con lo
spirito del nuovo istituto, il quale si propone di consentire all’imprenditore di
programmare la successione nell’impresa.
Per la verità una simile preoccupazione deve essere fortemente ridimensionata alla
luce dell’elaborazione che gli interpreti hanno proposto con riferimento all’efficacia delle
decisioni dei familiari75.
73
In tal senso si vedano V. COLUSSI, op. cit., 184; L. BALESTRA, op. cit., 715; contra F. D. BUSNELLI, La prelazione
nell’impresa familiare, in Riv. not, 1981, I, 810 ss.
74
V. COLUSSI, op. cit., 184, secondo il quale “il diritto di prelazione spetta anche ai familiari che abbiano
eventualmente approvato la vendita (o l’affitto), ipotesi che concretano la “cessazione” dell’impresa e che devono quindi
essere approvate dai familiari lavoratori”; contra G. OPPO, op. cit., 504, ad avviso del quale l’alienazione dell’azienda
non andrebbe decisa dai partecipanti, atteso che il diritto di liquidazione del diritto di partecipazione ed il riconoscimento
della prelazione depongono a favore della soluzione negativa. Per la verità non sembra che i diritti riconosciuti dal
legislatore ai partecipanti siano in contrasto con il fatto che l’alienazione sia decisa anche da loro. Innanzitutto il diritto
di partecipazione spetta loro in ragione dell’attività di lavoro svolta, a prescindere da chi abbia deciso l’alienazione
dell’azienda; inoltre la decisione è presa a maggioranza e non all’unanimità e, per di più, essa non ha alcuna efficacia
esterna (vedi nota successiva), con la conseguenza che potrebbe ben accadere che l’imprenditore alieni l’azienda anche
in presenza di una decisione contraria dei partecipanti: la prelazione pertanto avrebbe senso anche in questa ipotesi.
75
V. COLUSSI, op. cit., 181; M. TANZI, op. cit., 12; L. BALESTRA, op. cit., 707 s., in giurisprudenza Trib. Roma, 17
marzo 1984, in Dir. fall., 1984, II, 601.
É infatti naturale conseguenza della ricostruzione dell’impresa familiare come
impresa individuale, l’irrilevanza esterna delle predette decisioni, le quali assumono
rilievo solamente nei confronti dell’imprenditore: quest’ultimo, infatti, è poi libero di
dare o meno loro esecuzione, con la conseguenza che ove intenda distaccarsene si
esporrà – ove ne ricorrano i presupposti – al risarcimento del danno nei confronti dei
familiari76.
Inoltre, non essendo prevista alcuna formalità per l’adozione delle decisioni77, è ben
possibile che – ove i familiari coincidano con i soggetti che sono legittimati ad
intervenire al patto di famiglia – la stipulazione del contratto sia idonea a valere anche
come decisione di approvazione al trasferimento dell’azienda.
Sembra pertanto che sia possibile conciliare gli interessi sottesi ai due diversi istituti,
con la conseguenza che anche su questo aspetto l’inciso iniziale non produce effetti
incompatibili con la ratio del nuovo istituto, atteso che l’imprenditore non è mai
impedito a concludere il negozio cui aspira, ma è tutt’al più esposto al risarcimento dei
danni nei confronti dei familiari partecipanti ove esso contrasti con la decisione da loro
assunta.
Sicuramente compatibile con lo spirito del patto di famiglia è poi il riconoscimento,
ai familiari che lavorano nell’impresa familiare, del diritto di credito avente ad oggetto
la liquidazione dei rispettivi diritti di partecipazione, loro spettante nel caso di
alienazione dell’azienda. In tale ipotesi il disponente deve provvedere a liquidare i
partecipanti all’impresa familiare: tale diritto di credito – ove essi partecipino anche al
patto quali legittimari non assegnatari – spetta loro in aggiunta alla liquidazione del
valore da imputare alla rispettiva legittima78.
Infine si pone il problema sul quale maggiormente si sono soffermati i
commentatori: se sia da riconoscere il diritto di prelazione di cui all’articolo 230 bis,
comma 5, del codice civile ai partecipanti dell’impresa familiare nel caso in cui il
trasferimento dell’azienda sia determinato dalla stipulazione del patto di famiglia79.
76
V. COLUSSI, op. cit., 181; M. TANZI, op. cit., 12; L. BALESTRA, op. cit., 708.
77
V. COLUSSI, op. cit., 182; M. TANZI, op. cit., 13.
78
In tal senso si vedano G. PETRELLI, op. cit., 415; G. RIZZI, op. cit.; F. GAZZONI, Appunti e spunti in tema di
patto di famiglia, cit.
79
Tende a prevalere la soluzione negativa ora in ragione della natura donativa riconosciuta all’istituto, in tal senso si
veda A. MERLO, op. cit.; ora in ragione “[del]la natura giuridica del patto di famiglia, che comporta un trasferimento
Il dato da cui muovere non può che essere l’analisi delle conclusioni cui è giunta la
dottrina in riferimento al diritto di prelazione nel caso in cui venga trasferita l’azienda
servente l’impresa familiare.
Un orientamento minoritario80 propone di interpretare la norma di legge in senso
particolarmente ampio, comprendendo sia i trasferimenti a titolo oneroso, sia quelli a
titolo gratuito, in modo da riconoscere ai familiari una posizione di vantaggio
qualunque sia l’atto posto in essere dal cedente. Tale interpretazione viene
argomentata sia in ragione del tenore letterale della norma, sia in ragione del
riferimento all’ipotesi della divisione: entrambi gli aspetti rivelerebbero infatti la volontà
del legislatore di tutelare i titolari del diritto di prelazione anche al di là dei limiti
consueti, anche ove a ciò consegua un significativo sacrificio delle ragioni del
proprietario.
Per la verità la predetta posizione non sembra condivisibile, dal momento che essa
muove da un presupposto indimostrato: la natura sui generis del diritto di prelazione in
esame, al quale difetterebbe il connotato della parità di condizioni. Sennonché tale
elemento costituisce l’aspetto caratterizzante delle prelazioni legali, atteso che solo in
questo modo è possibile conciliare la posizione di vantaggio riconosciuta al beneficiario
con quella del proprietario a soddisfare l’interesse economico sotteso all’operazione81.
gratuito dell’azienda, connotato da una particolare causa liberale”, in tal senso si veda G. PETRELLI, op. cit., 415; a
favore della soluzione negativa si esprime anche F. GAZZONI, op. cit.: “Si tratta infatti di un contratto con cui un
imprenditore (compatibilmente con le disposizioni in materia di impresa familiare ex art. 230 bis c.c. in punto di
liquidazione del diritto di partecipazione, ma non di diritto di prelazione, non esercitatile per assenza di trasferimento
oneroso)”; contra G. RIZZI, op. cit., per la cui opinione si veda infra alla nota 81.
80
M.C. ANDRINI, L’impresa familiare, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da
Galgano, XI, Padova, 1989, 273 s., la quale pur ritenendo configurabile in astratto la prelazione anche con riferimento ai
negozi a titolo gratuito, sottolinea la scarsa rilevanza pratica della questione osservando come sia alquanto improbabile
una donazione a favore di soggetto estraneo al gruppo familiare (la tesi si fonda sul presupposto che solo nel caso di
alienazione dell’azienda ad estranei spetterebbe ai familiari il diritto di prelazione: per l’analisi del problema si veda la
successiva nota 93); M. TANZI, op. cit., 11; in giurisprudenza in tal senso si veda Trib. Macerata, 28 settembre 2000, in
Giur. it., 2002, 93, ad avviso del quale il diritto di prelazione sussiste sia in caso di trasferimento dell’azienda mortis
causa, sia in caso di conferimento della medesima in società da parte degli eredi dell’imprenditore.
81
Si veda in tal senso l’esauriente analisi di L. V. MOSCARINI, voce “Prelazione”, in Enc. dir., XXXIV, Milano, 1985,
981 ss., 1008. Non sembra condivisibile l’obiezione mossa da G. RIZZI, op. cit., secondo il quale la disciplina della
prelazione artistica dimostrerebbe come la parità delle condizioni non sia connotato essenziale di tutte le prelazioni
legali. Essa infatti non è una prelazione propria come quella in materia di impresa familiare, rappresentando proprio il
caso esemplare di prelazione impropria, in cui la posizione del proprietario è maggiormente sacrificata per il concorrente
interesse pubblico. Ad ulteriore conferma della natura impropria della prelazione artistica si tenga presente che lo Stato
non subentra nel rapporto costituito per effetto del contratto concluso dai privati, ma si costituisce un nuovo rapporto
che si sostituisce al precedente in dipendenza del provvedimento della pubblica autorità: è proprio per questi profili che
in questo caso specifico è configurabile una prelazione anche per il caso in cui siano stipulati contratti aventi ad oggetto
prestazioni infungibili. Inoltre, per la prelazione artistica, il legislatore ha espressamente previsto un meccanismo di
determinazione del valore del bene di pubblico interesse, il che appare possibile per il fatto che ad esercitare la
prelazione è la pubblica autorità.
Del resto non appare sufficiente a dimostrare il contrario né il riferimento al significato
neutro del termine trasferimento82, né il riferimento all’ipotesi della divisione83.
La dottrina prevalente84 pertanto riconosce alla prelazione prevista in tema di
impresa familiare natura di prelazione in senso proprio, cui consegue il connotato
essenziale della parità di condizioni. Da tale tratto caratterizzante si deve dedurre come
non sussista il diritto di prelazione allorché il trasferimento si produca in dipendenza di
un contratto a titolo gratuito o che abbia ad oggetto prestazioni infungibili, rimanendo
altrimenti eccessivamente pregiudicata la posizione del proprietario, che non potrebbe
mai soddisfare l’interesse sotteso all’operazione. Ove si aderisse all’opposto
orientamento, infatti, non potrebbe che riconoscersi all’alienante esclusivamente un
diritto ad una somma corrispondente al valore dell’azienda, il che, oltre a determinare
evidenti problemi di valutazione85, imporrebbe al proprietario un esito della vicenda del
tutto differente da quello che lui si proponeva.
82
Ad avviso dell’orientamento minoritario il dato letterale metterebbe in evidenza come il legislatore abbia voluto
fare riferimento a qualunque atto idoneo a produrre un trasferimento, così da comprendere anche i trasferimenti a titolo
gratuito e quelli aventi ad oggetto prestazioni infungibili. In realtà non sembra possibile inferire dal mancato riferimento
all’onerosità del trasferimento – come invece accade per la prelazione agraria e per quella urbana – la sussistenza del
diritto di prelazione ogniqualvolta il proprietario alieni l’azienda, per il fatto che il diritto di prelazione di cui all’articolo
230 bis, comma 5, del codice civile va delineato con riferimento al diritto di prelazione di cui all’articolo 732 del codice
civile, cui la norma di legge fa espresso riferimento in quanto compatibile: ebbene in questo secondo caso si prevede la
necessità che venga indicato nella denuntiatio il prezzo di cessione e non si veda per quale ragione tale aspetto sarebbe
incompatibile con la prelazione in materia di impresa familiare.
83
Ad avviso dell’orientamento minoritario il riferimento alla divisione dimostrerebbe come la prelazione dell’impresa
familiare sarebbe da qualificare come prelazione impropria o addirittura come diritto di acquisto coattivo dell’azienda, in
tale ultimo senso si veda C. A. GRAZIANI, L’impresa familiare, in Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 3, II,
Torino, 1996, 677. In realtà come si evince anche dalla disgiuntiva “o” il legislatore ha inteso introdurre accanto alla
prelazione propria per il caso di trasferimento dell’azienda, l’ipotesi della prelazione per il caso di divisione, di per sé
incompatibile con il fenomeno della prelazione, la quale presuppone il verificarsi di un atto traslativo. Proprio in ragione
dell’incompatibilità della natura dichiarativa della divisione con la prelazione la dottrina prevalente tende a
ridimensionare la portata delle norma di legge, proponendo una lettura volta a delimitarne l’ambito di applicazione al
caso in cui l’azienda sia compresa nella comunione ereditaria, in modo che sia assegnata ai coeredi in possesso dei
requisiti previsti dalla legge, similmente a quanto previsto agli articoli 720 e 722 del codice civile. In tale ultimo senso si
veda OPPO, op. cit., 508 s.; V. PANUCCIO, Il diritto di prelazione dei partecipanti all’impresa familiare, in Studi in onore
di A. Arena, Palermo, 1981, 5; V. COLUSSI, op. cit., 184; G. DE RUBERTIS, op. cit., 1239; M. C. ANDRINI, op. cit., 271;
M. TANZI, op. cit., 11; contra F. D. BUSNELLI, op. cit., 823 ss; L. BALESTRA, op. cit., 721 s.; M. NUZZO, op. cit., 459 s.
84
L. V. MOSCARINI, op. cit., 1007 ss.; F. D. BUSNELLI, op. cit., 819; G. DE RUBERTIS, op. cit., 1236; M. NUZZO,
op. cit., 456 ss.; M. DOGLIOTTI – A. FIGONE, L’impresa familiare, in Trattato di diritto privato, diretto da Bessone, IV,
2, Torino, 1999, 622 ss; L. BALESTRA, op. cit., 720 s.; A. ARENIELLO, Impresa familiare: la prelazione nel trasferimento
dell’azienda, in Riv. not., 2001, 750 ss.; T. FEBBRAJO, Il diritto di prelazione di cui all’art. 230 bis, 5° comma, cod. civ.,
e i trasferimenti mortis causa, in Giur. it., 2002, 93; sembra G. PALMERI, Regime patrimoniale della famiglia, II, in
Commentario del codice civile Scialoja-Branca, diretto da Galgano, Bologna-Roma, 2004, 169 ss.
85
È evidente che la valutazione del valore del bene darebbe luogo a problemi difficilmente superabili non essendo
previsti i criteri cui attenersi, e non essendo neppure individuato il soggetto tenuto ad effettuare la valutazione o,
almeno, l’autorità legittimata ad individuarlo: gravissimi sarebbero pertanto i rischi di contenzioso.
Alla luce delle considerazioni esposte, ne discende l’insussistenza del diritto di
prelazione ove il titolare dell’azienda intenda stipulare un patto di famiglia, dal
momento che tale contratto produce effetti assolutamente infungibili, sì che appare del
tutto impossibile assicurare al disponente un risultato analogo a quello da lui
perseguito, nel caso in cui sia esercitato il suddetto diritto di prelazione ad opera di
alcuno dei partecipanti.
Inoltre
sembra
opportuno
soffermarsi
brevemente
sulle
argomentazioni
comunemente addotte per sostenere l’inconfigurabilità del diritto di prelazione nel caso
in cui sia stipulato un contratto di donazione. In tale ipotesi infatti si suole sostenere
che riconoscere il predetto diritto è incompatibile con l’intuitus personae, che della
donazione è connotato essenziale, dal momento che l’alienante intende trasferire il
bene in oggetto unicamente al beneficiario da lui individuato. Ove invece si
pretendesse di configurare il diritto di prelazione anche nel caso del contratto di
donazione si finirebbe con il dar vita ad un meccanismo espropriativo, cui
conseguirebbe l’impossibilità per il donante di concludere quel determinato negozio.
Ebbene tali considerazioni possono essere riproposte anche per il patto di famiglia,
non già – ovviamente – in quanto si ravvisi un’identità causale, ma per il fatto che
anche a quest’ultimo inerisce un accentuato profilo personalistico.
Non sembra pertanto che l’inciso iniziale dell’articolo 768 bis del codice civile possa
essere letto in un’ottica estensiva, al fine di riconoscere il diritto di prelazione a tutti i
partecipanti allorché l’imprenditore intenda stipulare un patto di famiglia86.
D’altra parte ove si aderisse all’opposto orientamento si tradirebbe lo spirito della
riforma, per il fatto che il riconoscimento del diritto di prelazione importerebbe
86
Propende invece per la compatibilità tra patto di famiglia e diritto di prelazione di cui all’articolo 230 bis del codice
civile, G. RIZZI, op. cit., il quale muove proprio dalla valorizzazione dell’inciso inserito dal legislatore all’articolo 768 bis
del codice civile: ad avviso dell’Autore infatti, ove si ritenesse non sussistente il diritto di prelazione, l’inciso perderebbe
di significato, atteso che la liquidazione del diritto di partecipazione non avrebbe comunque potuto essere disconosciuta.
L’argomento non sembra condivisibile, dal momento che il significato dell’inciso pare piuttosto quello di chiarire
all’interprete che il patto di famiglia non costituisce di per sé eccezione alla disciplina degli istituti coinvolti, ma si
inserisce nel sistema senza traumi. Se si volesse attribuire alla norma un significato diverso si rischierebbe di pervenire
a risultati irragionevoli come quelli riferiti nel testo, con la conseguenza che sarebbe proprio l’introduzione dell’istituto
del patto a dare luogo a stravolgimenti del sistema, quali, per esempio, la configurazione del diritto di prelazione in
ipotesi incompatibili con la sua natura di prelazione in senso proprio. Tale interpretazione pare confermata dal fatto che
l’inciso fa riferimento anche alla disciplina delle altre tipologie societarie, sì che – ove si seguisse l’interpretazione
precedentemente esposta – si dovrebbe pervenire alla conclusione che quella parte della norma sarebbe priva di
significato, dato che, pur in assenza dell’inciso, non si sarebbe certo potuto ipotizzare che il patto potesse costituire
eccezione, per esempio, al principio dell’unanimità per le modificazioni dei patti sociali al fine di rendere le partecipazioni
liberamente trasferibili: su quest’ultimo punto si veda meglio infra al successivo paragrafo 6. Propende per la
configurabilità del diritto di prelazione anche V. VERDICCHIO, op. cit., 75.
inevitabilmente l’impossibilità di ricorrere al suddetto istituto tutte le volte in cui
l’attività
d’impresa
sia
esercitata
nelle
forme
dell’impresa
familiare.
Infatti
paradossalmente proprio lo strumento predisposto dal legislatore per programmare la
successione nell’impresa si rivelerebbe il più inadatto87, dal momento che sarebbe
l’unico che, certamente, non consentirebbe di raggiungere lo scopo perseguito dal
disponente, atteso che qualunque altro partecipante, esercitando la prelazione,
potrebbe impedire all’imprenditore di dare esecuzione ai suoi propositi.
Superato il problema di fondo perdono di rilevanza quegli ulteriori aspetti di cui ci si
sarebbe dovuti occupare approfonditamente ove si fosse ritenuto sussistente il diritto di
prelazione a favore dei partecipanti all’impresa familiare88.
Il riferimento effettuato dal legislatore all’impresa familiare potrebbe assumere un
significato di rilievo anche per l’ipotesi in cui il disponente intenda trasferire con il patto
partecipazioni sociali di società di persone89.
87
Ben più vantaggioso sarebbe allora ricorrere ad una donazione, per la quale, ad avviso della dottrina
assolutamente prevalente, non sussisterebbe il diritto di prelazione. Tale conclusione appare però del tutto
irragionevole, atteso che il patto di famiglia è stato introdotto anche per superare le incertezze cui la donazione dà
luogo: sarebbe pertanto perlomeno curioso che un istituto introdotto appositamente per la realizzazione di uno scopo
specifico si riveli di gran lunga meno efficiente dell’istituto che dovrebbe sostituire per agevolare l’autonomia privata
nella programmazione della successione nell’impresa.
88
Ci si riferisce in particolare: i) alla sussistenza del diritto di prelazione ove il trasferimento sia effettuato a favore
di uno dei partecipanti; ii) alla sussistenza del diritto di prelazione nel caso in cui sia trasferita solo una quota di
comproprietà dell’azienda; iii) alla sussistenza del diritto di prelazione nel caso in cui sia costituito sull’azienda un diritto
di usufrutto ovvero la stessa sia concessa in affitto; iv) alla sussistenza del retratto ove il disponente non abbia dato
esecuzione a quanto previsto dalla legge per mettere i titolari del diritto di prelazione in condizione di poterlo esercitare;
ci si limita pertanto a dare brevemente conto degli indirizzi dottrinali proposti per ciascun argomento. In ordine al punto
sub i) propendono per la sussistenza del diritto di prelazione anche ove il trasferimento dell’azienda sia effettuato a
favore di uno dei partecipanti: M. TANZI, op. cit., 11; G. OPPO, op. cit., 507; G. DE RUBERTIS, op. cit., 1241; contra M.
C. ANDRINI, op. cit., 274. Quanto al punto sub ii) propendono per la sussistenza del diritto di prelazione nel caso in cui
sia trasferita una quota di comproprietà dell’azienda F. D. BUSNELLI, op. cit.; 818; P. STANZIONE, Appunti sull’impresa
familiare nell’ordinamento italiano, in Giur. it., 1997, IV, 40; contra G. OPPO, op. cit., 506 s.; L. BALESTRA, op. cit., 720.
Quanto al punto sub iii) propendono per la sussistenza del diritto di prelazione nel caso in cui sia costituito sull’azienda
un diritto di usufrutto a titolo oneroso ovvero quest’ultima sia concessa in affitto: M. TANZI, op. cit., 11; V. PANUCCIO,
op. ult. cit., 1666; L. BALESTRA, op. cit., 721; V. COLUSSI, op. cit., 184; contra G. DE RUBERTIS, op. cit., 1236; A.
ARENIELLO, op cit., 758 s. Infine quanto al punto sub iv) propendono per la sussistenza del retratto M. TANZI, op. cit.,
11; F. D. BUSNELLI, op. cit.; 820; L. V. MOSCARINI, op. cit., 1009.; G. OPPO, op. cit., 509; V. PANUCCIO, Il diritto di
prelazione, cit., 1666; M. NUZZO, op. cit., 458 s.; G. PALMERI, op. cit., 183 ss.; in giurisprudenza in tal senso si veda
Trib. Macerata, 28 settembre 2000, cit.; contra F. CORSI, op. cit., 230 ss.; G. DE RUBERTIS, op. cit., 1242 s.; L.
BALESTRA, op. cit., 723 ss.; T. FEBBRAJO, op. cit., 98.
89
È pacifico che il problema di compatibilità si pone solo con riferimento alle società di persone, mentre non ha
ragion d’essere per le società di capitali: sembra che la distinzione sia la conseguenza dell’opinione, ormai superata
dalla dottrina commercialistica più moderna, secondo la quale nelle società di persone i soci sarebbero coimprenditori,
non possedendo le prime un’autonoma soggettività, a differenza di quanto accade per le società di capitali dotate di
personalità giuridica. In realtà anche le società di persone sono autonomi soggetti di diritto distinte dalla persona dei
soci, i quali non assumono mai la qualifica di imprenditori in senso proprio. Per i termini del dibattito si veda G.F.
CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, 2, cit., 46 ss.
Appare peraltro opportuna una precisazione a quanto appena esposto, atteso che
l’articolo 230 bis, comma 1, del codice civile si esprime chiaramente nel senso che la
disciplina dell’impresa familiare trovi applicazione ove le parti non abbiano dato vita ad
un diverso rapporto giuridico, quale quello di lavoro o di società90. Non ci si riferisce
pertanto al caso in cui i familiari prestano attività di lavoro in modo continuativo
nell’ambito di un rapporto già definito dall’autonomia privata, ma alle ipotesi in cui i
medesimi prestano attività di lavoro in una società della quale non siano soci e con la
quale non sia stato costituito alcun rapporto di lavoro: per esempio ove il familiare
titolare delle partecipazioni sia socio con altri familiari o con terzi.
La possibilità che anche in questi casi trovi applicazione la disciplina dell’impresa
familiare è diversamente affrontata dalla dottrina: alcuni propendono in ogni caso per
la tesi negativa91; altri, viceversa, si orientano per la soluzione positiva92 non ravvisando
alcun elemento ostativo ad un’interpretazione estensiva dell’istituto.
Nemmeno l’esame della giurisprudenza, la quale ha aderito ad entrambe le tesi,
conforta la ricerca. Ai fini che qui interessano, peraltro, un elemento a favore della tesi
negativa potrebbe essere individuato nel fatto che la giurisprudenza si è mossa nella
linea della tesi estensiva93 allorché si è imbattuta in società di fatto tra il familiare e
terzi, mentre ha sposato la tesi restrittiva94 in ipotesi di società in nome collettivo con
terzi. Ebbene, atteso che con il patto di famiglia non possono essere trasferite
partecipazioni di società di fatto, appare ragionevole concludere che ove sia stipulato il
predetto negozio sia da preferire l’orientamento restrittivo, dovendosi riconoscere alle
90
La dottrina e la giurisprudenza sul punto sono pressoché unanimi: in dottrina si veda per tutti L. BALESTRA, op.
cit., 662 ss.; in giurisprudenza Cass., 9 giugno 1983, n. 3948, in Giust. civ., 1983, I, 2825; Cass., 29 novembre 1993, n.
11786, in Foro it., 1994, I, 1803; Cass., 19 luglio 1996, n. 6505, in Studium iuris, 1996, 1177, Cass., 9 agosto 1997, n.
7438; Cass., 24 marzo 2000, n. 3520, in Dir. fall., 2001, II, 369.
91
V. COLUSSI, op. cit., 179, secondo il quale: “la prestazione di lavoro non avviene a favore del familiare-socio, ma
nei confronti di un soggetto giuridico diverso (la società). Il fatto che la società sia priva della piena personalità giuridica
– ed è proprio il caso delle società di persone – deve essere considerato irrilevante, dal momento che anche nelle
società personali imprenditore è la società e non i soci. Perplessità sono manifestate anche da L. BALESTRA, op. cit.,
685 ss., secondo il quale “diventerebbe difficile, per non dire impossibile, conciliare i c.d. diritti amministrativi
riconosciuti al familiare ex art. 230 bis con i diritti spettanti ai soci”; nello stesso senso A e M. FINOCCHIARO, op. cit.,
1274 ss.; M. GHIDINI, L’impresa familiare, Milano, 1977, 94 ss.
92
M. TANZI, op. cit., 3; R. COSTI, L’impresa familiare, in Trattato di diritto commerciale e diritto pubblico
dell’economia, diretto da Galgano, II, Padova, 1978, (nt. 11) 645; G. OPPO, op. cit., 490 s., ad avviso del quale peraltro
la disciplina dell’impresa familiare è compatibile anche con le società di persone purché i familiari siano legati a tutti i
soci dai rapporti di parentela o di affinità di cui all’articolo 230 bis del codice civile..
93
In tal senso si veda Cass., 23 settembre 2004, n. 19116, in Giur. comm., 2006, II, 47; Cass., 19 ottobre 2000, n.
13861, in Foro it., 2001, I, 1227; App. Messina, 16 febbraio 2000, in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 56.
94
In tal senso si veda Cass., 6 agosto 2003, n. 11881, in Giur. comm., 2006, II, 47.
società di persone un’autonoma soggettività, con la conseguenza che imprenditore è
solo la società e non pure i soci, il che impedisce che tra socio e familiari si
costituiscano i presupposti richiesti dall’articolo 230 bis del codice civile.
In ogni caso va precisato che, anche ove si aderisse all’opposto orientamento, la
disciplina dell’impresa familiare troverebbe applicazione nei limiti della partecipazione
sociale di cui è titolare il familiare: ne discende pertanto che i partecipanti potrebbero
esigere unicamente nei suoi confronti che siano assicurati i diritti di natura patrimoniale
loro riconosciuti dalla legge, senza che mai possano avanzare pretese di alcun tipo nei
confronti della società, né tantomeno degli altri soci. In definitiva, con riferimento al
patto di famiglia, i familiari del disponente potrebbero al più avanzare pretese in ordine
alla liquidazione degli utili, alla liquidazione del valore dei beni acquistati con i
medesimi e degli incrementi, nonché dei rispettivi diritti di partecipazione.
6. - La compatibilità tra patto di famiglia ed altre tipologie societarie. La
seconda parte dell’inciso dell’articolo 768 bis del codice civile dispone chiaramente nel
senso della compatibilità tra il patto di famiglia e la disciplina delle tipologie societarie
le cui partecipazioni sono trasferite per effetto di esso.
Il significato della norma pare quello di chiarire all’interprete che il nuovo istituto
non introduce alcuna eccezione ai principi dell’ordinamento previsti con riferimento ai
singoli tipi societari, dal che consegue che ogni volta in cui sia stipulato un patto di
famiglia sarà necessario preventivamente soffermarsi sulle singole norme di legge e
sulle singole disposizioni statutarie per evitare che sia impedita la perfezione ovvero sia
in pericolo la stabilità degli effetti del contratto.
Appare opportuno allora individuare quali siano gli aspetti più significativi che
possono venire in evidenza ove il patto abbia ad oggetto partecipazioni societarie,
iniziando dalle società di persone.
Nel caso in cui siano trasferite le partecipazioni di società semplice e di società in
nome collettivo è senz’altro necessario che all’atto intervengano anche gli altri soci, dal
momento che l’articolo 2252 del codice civile trova applicazione anche ai mutamenti dei
soggetti che compongono la compagine sociale, per il rapporto fiduciario che intercorre
tra loro. Ove poi siano trasferite partecipazioni di società in accomandita semplice, è
necessario distinguere a seconda che il disponente sia socio accomandatario o socio
accomandante95: nel primo caso valgono le regole appena esposte per la società
semplice e per la società in nome collettivo, nel secondo, invece, è sufficiente il
consenso dei soci che rappresentano la maggioranza del capitale96.
In tali ipotesi il patto di famiglia costituisce modificazione dei patti sociali della
società, sì che appare ovvia conseguenza che per la sua perfezione debbano
parteciparvi anche soggetti estranei al nucleo familiare97.
Potrebbe peraltro accadere che nei patti sociali sia prevista, in deroga alla regola di
default, una disposizione di cedibilità delle partecipazioni con il consenso della
maggioranza98 dei soci, o, addirittura, nel senso di consentire loro di cedere
liberamente la propria partecipazione99.
In tali eventualità prevalgono le disposizioni contenute nei patti sociali, dovendosi
interpretare l’inciso inserito dal legislatore nell’articolo 768, bis, del codice civile, quale
rinvio alla complessiva disciplina delle diverse tipologie societarie, comprensiva anche
delle regole pattizie introdotte dai soci in deroga alle norme di legge, naturalmente ove
tali disposizioni non violino norme imperative o principi fondamentali dell’ordinamento.
95
È il caso di ricordare che non si ritiene preclusa la possibilità di ricorrere al patto di famiglia a chi sia socio
accomandante, sul punto si veda retro al paragrafo 2.
96
Con riferimento alla società in accomandita semplice è l’articolo 2322, comma 2, del codice civile a prevedere
espressamente che per il trasferimento della quota del socio accomandante sia sufficiente il consenso dei soci che
rappresentano la maggioranza del capitale. Emerge così una significativa differenza tra il tipo in esame e la società in
nome collettivo, nella quale sembra preferibile optare per il calcolo della maggioranza per quote di interesse e non per
misura della partecipazione al capitale: in tal senso si veda la successiva nota 102.
97
In occasione del patto di famiglia possono essere modificati i patti sociali anche con riferimento alle regole di
funzionamento della società, in modo da poterle modulare in dipendenza dell’ingresso nella compagine sociale di un
nuovo soggetto, in tal senso si veda G. PETRELLI, op. cit., 416. Trattandosi di modifica dei patti sociali l’atto dovrà poi
naturalmente essere assoggettato ai consueti adempimenti pubblicitari.
98
La maggioranza deve essere calcolata, in assenza di una diversa previsione dei patti sociali, per quote di
interesse: tale considerazione si fonda oltre che sull’articolo 2257, comma 2, del codice civile, anche sui nuovi articoli
2500 ter, comma 1, e 2502, comma 1, del codice civile. In tal senso si veda L. PISANI, Il principio di maggioranza nella
nuova disciplina della trasformazione di società di persone, in Riv. dir. comm., 2005, I, 386 ss.
99
Ormai superate sono le perplessità manifestate in passato in ordine alla legittimità della disposizione che preveda
la libera cedibilità della partecipazione, atteso che l’intuitus personae non è connotato essenziale delle società di
persone. In tal senso si veda, per tutti, G. C. RIVOLTA, La partecipazione sociale, Milano, 1965, 327 ss.; P. PISCITELLO,
Società di persone, cit., 42 ss.; contra E. SIMONETTO, Responsabilità e garanzia nel diritto delle società, Padova, 1959,
510; in giurisprudenza Cass., 22 giugno 1963, n. 1692, in Riv. dir. comm., 1964, II, 40; Cass., 10 febbraio 1971, n. 340,
ivi, 1971, 243; Trib. Milano 28 dicembre 1989, ivi, 1991, II, 589; App. Torino 19 novembre 1957, in Riv. dir. civ., 1959,
II, 175; contra Trib. Torino, 7 ottobre 1957, ivi, 1959, II, 175.
Nel caso in cui i patti sociali regolino il trasferimento delle partecipazioni in maniera
diversa da quanto disposto dall’articolo 2252 del codice civile, potrebbero inoltre essere
previste ulteriori disposizioni volte a limitare in altro modo la circolazione delle
partecipazioni quali le clausole di gradimento o di prelazione100.
Sostanzialmente irrilevante ai nostri fini è la presenza di clausole mortis causa
all’interno dei patti sociali, qualunque sia il loro contenuto, dal momento che esse
assumono rilievo solo in caso di morte del socio. Ove si stipuli il patto di famiglia tale
eventualità non ha più modo di verificarsi con riferimento al disponente, atteso che il
trasferimento è subito efficace, dal che consegue che siffatte clausole non
interferiscono con il patto e non impongono alcuna ulteriore cautela al momento della
stipula del medesimo101.
Passando a considerare il caso in cui il patto abbia ad oggetto partecipazioni di
società di capitali, sembra innanzitutto doversi rilevare che il contratto da stipulare non
necessita del consenso degli altri soci, quale elemento perfezionativo, dal momento
che, a differenza di quanto accade per le società di persone, è principio generale il
libero trasferimento delle partecipazioni102.
Il significato che l’inciso può assumere è pertanto da riferire alle eventuali
disposizioni inserite nello statuto delle società le cui partecipazioni sono trasferite per
effetto del patto di famiglia: frequenti sono infatti le clausole che hanno come effetto
l’introduzione di vincoli alla circolazione delle partecipazioni sociali, siano o no
rappresentate da azioni.
100
Stante la scarsa diffusione del fenomeno si rinvia a quanto esposto sull’argomento con riferimento alle società di
capitali.
101
Ci si potrebbe peraltro chiedere se sia utile stipulare il patto di famiglia ove l’assegnatario sia già socio della
società, atteso che l’articolo 2284 del codice civile dispone lo scioglimento del singolo rapporto sociale in caso di morte
del socio. Sicuramente il patto risulta assai utile nel caso in cui l’assegnatario non sia l’unico altro socio, dato che alla
morte dell’ascendente gli eredi acquistano il diritto alla liquidazione del valore della quota, con conseguente
proporzionale accrescimento della misura della partecipazione degli altri soci. Ad eccezione del caso in cui sia prevista
una clausola di consolidazione, gli eredi del socio defunto possono però anche entrare a far parte della compagine
sociale per effetto di atto inter vivos in luogo dell’adempimento dell’obbligazione liquidativa: anche in tale eventualità
peraltro non è certo che il potenziale assegnatario mantenga inalterata la misura della partecipazione di cui era titolare
il socio defunto, dal momento che più potrebbero essere gli eredi intenzionati ad entrare nella compagine sociale.
102
Gli unici vincoli legali alla circolazione delle partecipazioni che possono assumere rilevanza con riferimento al
patto di famiglia si hanno, per la s.p.a., in caso di conferimenti diversi dal denaro fino al momento della revisione della
stima da parte degli amministratori, articolo 2343, comma 3, del codice civile e in caso di prestazioni accessorie, articolo
2345, comma 2, del codice civile.
La riforma del diritto societario ha innovato non poco sul punto, perseguendo
l’obiettivo
di
offrire
all’autonomia
privata
strumenti
ed
opportunità
che
precedentemente le erano preclusi o rispetto ai quali essa era soggetta a stringenti
limiti di legge.
La prima ipotesi è quella delle clausole che importano un divieto di alienazione, che,
a giudizio dell’orientamento assolutamente prevalente, non potevano essere inserite
nello statuto di una società per azioni, mentre se ne ammetteva la validità con
riferimento alle società a responsabilità limitata.
Attualmente è invece possibile utilizzare tale tipologia di clausole in entrambi i tipi
sociali, sebbene l’ordinamento abbia previsto sanzioni e correttivi diversi a seconda del
modello di riferimento, in ragione del loro diverso grado di apertura al mercato.
Ove sia previsto il divieto di alienazione103, attesa la rilevanza/efficacia reale104 da
riconoscere a tale pattuizione, ne conseguirebbe, a seconda delle tesi, l’invalidità e/o
l’inefficacia del patto, ovvero la sua inopponibilità alla società105. Esso, infatti, è
certamente un atto inter vivos che dà luogo ad un trasferimento di partecipazioni, il
che non può che porsi in contrasto con il tenore della clausola, che proibisce un
risultato, indipendentemente dalla natura dello strumento giuridico utilizzato.
103
Ovviamente sul presupposto che la disposizione statutaria di società per azioni non abbia cessato di produrre
effetti per scadenza del termine di durata.
104
L’orientamento prevalente in dottrina e giurisprudenza propende per la rilevanza/efficacia reale delle disposizioni
statutarie volte a limitare il trasferimento delle partecipazioni: l’argomento rientra nel più ampio tema della distinzione
tra sociale e parasociale che vede la dottrina divisa in diversi orientamenti. Superata la tesi che attribuisce all’iscrizione
dello statuto nel registro delle imprese la diversa rilevanza tra disposizioni di natura sociale e disposizioni di natura
parasociale, in tal senso in giurisprudenza App. Milano, 7 febbraio 1989, in Società, 1989, 704, per l’assorbente rilievo
che la pubblicità legale non può mai trasformare la natura dell’atto che ne è oggetto, per il quale si veda F. SANTORO
PASSARELLI, Struttura e funzione della prelazione convenzionale, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, 701; la dottrina si
divide tra chi attribuisce la natura reale delle predette disposizioni alla portata dell’organizzazione, in tal senso C.
ANGELICI, La circolazione della partecipazione azionaria, in Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e
Portale, II, 1, Torino, 1991, 194 s.; V. MELI, La clausola di prelazione negli statuti delle società per azioni, Napoli,
1991, 64 ss.; chi attribuisce valore decisivo alla natura del documento che contiene la clausola, in tal senso da ultimo R.
COSTI, I patti parasociali ed il collegamento negoziale, in Giur. comm., 2004, I, 202 ss., muovendo dall’insufficienza
degli altri criteri proposti; chi, infine, sostiene che “il dato individuante del sociale è la sua impersonale afferenza alla
partecipazione sociale”, mentre “il dato individuante del parasociale è all’opposto la sua afferenza alla persona del
parasocio”, in tal senso G.A. RESCIO, La distinzione del sociale dal parasociale (sulle c.d. clausole statutarie parasociali),
in Riv. soc., 1991, 639 ss., ove anche un’ampia ricostruzione dei criteri proposti e delle possibili critiche; ID., I patti
parasociali nel quadro dei rapporti contrattuali dei soci, in corso di pubblicazione in Il nuovo diritto delle società, Liber
amicorum Gian Franco Campobasso, 1, Torino, 2006, 470 ss.
105
Per ragioni di sintesi si rinvia alla successiva nota 115 per la trattazione della natura giuridica delle disposizioni
statutarie che pongono limiti alla circolazione delle partecipazioni sociali e delle possibili conseguenze ove il patto sia
stipulato in spregio alle medesime.
Anche la clausola di gradimento produce effetti di rilievo ove alcuno dei soci intenda
trasferire le partecipazioni di cui è titolare: anche con tale strumento infatti i soci si
prefiggono l’obiettivo di controllare la composizione della compagine sociale, per
evitare che nel corso della vita della società possano entrare soggetti non graditi.
Analogamente a quanto appena esposto con riferimento al divieto di alienazione, la
clausola di gradimento è idonea a perseguire il predetto obiettivo indipendentemente
dalla natura dell’atto per effetto del quale si determina il trasferimento, sì che, come in
precedenza, essa assume rilievo anche in ordine al patto di famiglia, restando del tutto
irrilevante la sua natura giuridica.
A differenza del divieto di alienazione, peraltro, tale clausola non impedisce in
maniera assoluta l’efficacia del trasferimento, ma impone ai soggetti coinvolti di
ottenere il benestare all’ingresso dell’assegnatario nella compagine sociale106.
La clausola che pone i maggiori problemi è indubbiamente la prelazione, dal
momento che, a
differenza delle disposizioni fino ad ora analizzate, assumono
notevole rilievo sia la natura dell’atto che produce il trasferimento, sia gli effetti ad esso
conseguenti.
Senza ripetere concetti già in precedenza richiamati, la prelazione tradizionalmente
si delinea quale strumento che consente di conciliare l’interesse del proprietario con
quello dei beneficiari, atteso che essa opera a parità di condizioni. Se tale aspetto si
eleva a connotato essenziale delle prelazioni legali in senso proprio, non altrettanto può
tuttavia dirsi per la prelazione volontaria, la quale, nascendo da un atto di autonomia
privata e non dal potere di imperio della legge, sembra sottrarsi a tale rigidità, per
assecondare nel miglior modo possibile la volontà di chi l’ha concepita.
Tali considerazioni sono da riferire anche alla prelazione societaria, la quale, pur
assumendo un connotato di realità sconosciuta alla prelazione convenzionale, rimane
pur sempre il frutto di una libera scelta dei soci.
106
Non è ovviamente necessario che il soggetto deputato a compiere la valutazione debba partecipare al patto di
famiglia: sembra peraltro opportuno che il gradimento sia ottenuto precedentemente alla stipula dell’atto, così da
evitare che il rifiuto del placet possa sopravvenire in un momento successivo al patto, generando problemi difficilmente
superabili. Sembra comunque possibile prevedere la configurazione di un negozio sospensivamente condizionato alla
concessione del gradimento a favore dell’electus, in modo tale che il contratto medio tempore non produca effetti, a
garanzia di tutti i soggetti coinvolti, per poi diventare efficace o rimanere definitivamente inefficace a seconda che il
gradimento sia o no accordato.
Appare allora condivisibile l’opinione assolutamente prevalente che ammette la
possibilità di introdurre clausole di prelazione che deroghino alla regola della parità di
condizioni, proprio perché si deve consentire all’autonomia privata un maggior livello di
elasticità, a vantaggio dell’interesse comune alla coesione della compagine sociale.
Proprio questa differenza rispetto alle prelazioni legali in senso proprio, quale quella
in materia di impresa familiare precedentemente analizzata, giustifica la significativa
compressione della posizione dell’alienante, anche ove ciò comporti la sostanziale
preclusione alla conclusione dei negozi aventi ad oggetto prestazioni infungibili107.
Tale considerazione non impone peraltro di ribaltare completamente le valutazioni
precedentemente esposte in relazione all’insussistenza del diritto di prelazione allorché
il disponente intenda trasferire le proprie partecipazioni sociali per effetto del patto di
famiglia, che, come più volte ripetuto, si caratterizza per l’assoluta infungibilità delle
prestazioni, ma indica piuttosto all’interprete la necessità di operare valutazioni in
concreto, caso per caso.
Allorché si intenda stipulare il contratto da ultimo nominato, si deve pertanto
identificare
con
attenzione
l’ambito
di
applicazione
della
specifica
clausola,
ricercandone, in concreto, la reale portata precettiva, senza muovere da preconcetti o
da categorie ermeneutiche fondate su rapporti di regola ad eccezione, per il fatto che,
con riferimento alla prelazione societaria, tende a prevalere, soprattutto in dottrina, un
approccio disincantato teso al superamento dell’interpretazione tradizionale costituita
dalla parità di condizioni108.
107
La dottrina è pressoché unanime sul punto, ammettendosi che la prelazione possa trovare applicazione anche
con riferimento ai negozi a titolo gratuito ove addirittura non esiste una controprestazione, si vedano tra i contributi più
recenti G. F. CAMPOBASSO, Prelazione societaria e trasferimento a titolo gratuito di quote di s.r.l., in Giur. comm.,
1998, I, 20 ss.; C. ANGELICI, op. cit., (nt. 30) 198 s.; P. REVIGLIONO, Le clausole statutarie di prelazione sono
applicabili ai trasferimenti a titolo gratuito?, in Riv. dir. comm., 1990, II, 21 ss; M. CIAN, Clausola statutaria di
prelazione e conferimento di azioni in società interamente posseduta, in Banca borsa tit. cred., 2004, I, 695 ss.; V.
MELI, op. cit., 126; C. A. BUSI, Le clausole di prelazione statutaria nella s.p.a., in Riv. not., 2005, 491 ss.; in
giurisprudenza Trib. Milano, 6 febbraio 2002, in Giur.it, 2002, 1220; più spesso tale posizione può essere dedotta
implicitamente dalle decisioni che negano la sussistenza della prelazione non in astratto, ma in considerazione
dell’interpretazione della singola regola statutaria, in tal senso si vedano le decisioni citate alla nota successiva.
108
Si veda in tal senso M. CIAN, op. cit., 707 ss.; G. F. CAMPOBASSO, op. ult. cit., 24 ss.; P. REVIGLIONO, op cit.,
21 ss.; V. MELI, op. cit., 188 ss.; R. ALESSI, Alcune riflessioni intorno alla clausola di prelazione, in Riv. dir. comm.,
1987, I, 69 ss.; contra F. BONELLI, Clausole di prelazione: modelli per evitarne l’aggiramento, in Sindacati di voto e
sindacati di blocco, a cura di Bonelli e Jaeger, Milano, 1993, 268 ss.; C. A. BUSI, op. cit., 492 s.; in giurisprudenza
prevale invece l’orientamento restrittivo: escludono la prelazione in caso di conferimento in società Trib. Venezia, 7
novembre 2003, in Banca borsa tit. cred., 2004, II, 688; App. Cagliari, 16 marzo 1993, in Riv. giur. sarda, 1994, 570;
Trib. Foggia, 19 ottobre 1991, in Dir. e giur., 1992, 590; non depongono a favore dell’orientamento restrittivo Trib.
Milano, 6 febbraio 2002, e Trib. Milano, 9 marzo 2002, cit., dal momento che lo statuto della società prevedeva
espressamente che la prelazione fosse esclusivamente a parità di condizioni, sebbene nella motivazione della seconda
Si deve pertanto concludere nel senso che la prelazione prevista dallo statuto della
società, le cui partecipazioni sono da trasferire con il patto, operi o meno a seconda
dell’ambito di applicazione che i soci hanno inteso attribuirle, dal che consegue che, a
seconda delle valutazioni che se ne sono tratte, il disponente dovrà o meno offrire le
proprie partecipazioni agli altri soci. Nel caso in cui questi ultimi intendano esercitare la
prelazione, essi saranno tenuti a corrispondergli il valore delle partecipazioni calcolato
secondo i criteri indicati nello statuto, per il fatto che, mentre è ammessa l’introduzione
di una clausola che, sostanzialmente, limiti la libertà dei soci di decidere la natura
dell’atto di alienazione da concludere, non altrettanto sembra potersi sostenere con
riferimento alla possibilità che l’alienante subisca anche un pregiudizio economico in
dipendenza di essa109.
Nel caso in cui il patto di famiglia sia stipulato in spregio alle regole dello statuto sul
trasferimento delle partecipazioni, si ripropongono i consueti dubbi in ordine agli effetti
che il negozio è in grado di produrre ed ai rimedi che possono essere esperiti in
dipendenza di tale evento110.
decisione il Tribunale abbia svolto considerazioni più generali di tenore restrittivo; escludono la prelazione in caso di
trasferimento a titolo gratuito Cass., 12 gennaio 1989, n. 93, in Riv. dir. comm., 1990, II, 1; Trib. Milano, 20 marzo
1997, in Giur. comm., 1998, II, 250; Trib. Milano 17 ottobre 1996, in Foro pad., 1998, I, 78; contra a favore
dell’orientamento prevalente in dottrina: Trib Milano, 24 maggio 1982, in Banca borsa e tit. cred., 1982, II, 338 per i
negozi a titolo gratuito; Trib. Napoli, 28 aprile 2004, in Società, 2004, 1403, in un caso di assegnazione di azioni ai soci
in occasione di un’operazione di riduzione reale del capitale.
109
F. GALGANO, Il nuovo diritto societario, I, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia,
diretto da Galgano, 2004, 123 s., che ritiene legittima la clausola di prelazione con vicolo di prezzo solo a condizione che
non abbia durata superiore al quinquennio. A giudizio di parte della dottrina possono trovare applicazione i criteri
previsti in tema di recesso sia in forza del rinvio all’articolo 2437 ter del codice civile operato dall’articolo 2355 bis del
codice civile, sia in forza del fatto che i predetti criteri sembrano essere di generale applicazione ogni volta in cui è
necessario operare una valutazione in ordine al valore delle partecipazioni sociali: in tal senso si veda M. CIAN, op. cit.,
714 s. Il rinvio all’articolo 2437 ter del codice civile consente inoltre di superare un problema pratico di rilievo che si
pone con riferimento alla prelazione dell’impresa familiare: l’assenza di un soggetto cui affidare la valutazione. Il
problema sembra ormai superato per le società di capitali, dal momento che, anche ove lo statuto non contenga alcuna
indicazione, è possibile rifarsi alle modalità previste per il recesso dall’articolo 2437 ter, commi 5 e 6, e 2473, comma 3,
del codice civile. Sull’argomento si vedano, con posizione parzialmente diversa, le massime n. 85 e n. 86 del Consiglio
Notarile di Milano, in www.scuoladinotariatodellalombardia.org, tese a conciliare l’interesse del socio recedente con
quello della società, in quanto prevedono che le clausole di prelazione impropria sono comunque efficaci (s.p.a.) e non
danno luogo a recesso (s.r.l.) ove i criteri inseriti nello statuto siano tali da quantificare il corrispettivo per l’acquisto
delle partecipazioni in un ammontare non significativamente inferiore a quello che risulterebbe applicando i criteri
previsti in materia di diritto di recesso.
110
La dottrina e la giurisprudenza sono divise: innanzitutto si deve distinguere tra chi attribuisce alla clausola di
prelazione natura parasociale, in tal senso si veda F. MACCABRUNI, Clausole statutarie di prelazione, in Giur. comm.,
1989, II, 100 ss.; in giurisprudenza App. Bari, 29 aprile 1989, in Società, 1989, 1165; Trib. Bassano del Grappa, 15
settembre 1993, in Società, 1994, 489; e chi, ed è la tesi prevalente, attribuisce alla medesima natura sociale. Coloro
che sostengono quest’ultima posizione si dividono sulle conseguenze in caso di violazione della clausola tra chi
propende per la nullità del trasferimento, in tal senso si veda; in giurisprudenza; Cass., 21 ottobre 1973, n. 2763, in
Giur. comm., 1975, II, 23; Cass., 10 ottobre 1957, n. 3702, in Banca borsa tit. cred., 1958, II, 46; chi propende per
l’inefficacia assoluta anche inter partes, in tal senso G. F. CAMPOBASSO, Diritto Commerciale, 2, cit., 246; GALGANO, Il
nuovo diritto societario, cit., 123; in giurisprudenza Trib. Roma 8 luglio 2005, in Riv. not., 2006, 541; Trib. Roma, 18
Sebbene sia controverso se tali clausole possano essere ricondotte nell’ambito della
categoria dei limiti al trasferimento delle partecipazioni, è opportuno valutare quali
effetti possano produrre con riferimento al patto di famiglia eventuali clausole di
riscatto che si trovassero nello statuto delle società interessate. Anche se solo con la
riforma del diritto societario è stato introdotto nel codice civile l’articolo 2437 sexies sul
riscatto di azioni, già in precedenza si ammetteva la validità di siffatte clausole, che
pure possono essere inserite nello statuto di società a responsabilità limitata.
Per il diverso modo di operare della clausola, non viene in discussione l’idoneità del
patto a produrre un trasferimento efficace sia tra le parti, sia nei confronti della
società, quanto, piuttosto, il rischio che la stabilità dell’attribuzione sia compromessa a
causa dell’esercizio del diritto di riscatto da parte di chi ne è titolare.
Deve essere peraltro precisato che i presupposti del riscatto devono essere indicati
in maniera specifica nella clausola statutaria111, di talché è ben possibile valutare in
anticipo se in esito al patto ricorrano i presupposti di esercizio del riscatto112. Ove vi sia
il rischio di una tale eventualità, è interesse del disponente e dell’assegnatario
sottoporre ai beneficiari della clausola i propri intendimenti, in modo da ottenere da
loro una rinunzia preventiva al diritto di riscatto113, garantendosi così la stabilità degli
effetti del contratto.
marzo 1998, in Società, 1998, 1185; Trib. Milano, 23 settembre 1991, in Società, 1992, 357; e con riferimento alla
clausola di gradimento Cass., 30 settembre 2005, n. 19203, in Giur. it, 2006, 968; chi infine per l’inefficacia relativa nei
confronti della società C. A. BUSI, Le clausole di prelazione, cit., 474 ss.; L. STANGHELLINI, I limiti statutari alla
circolazione delle azioni, Milano, 1997, 48; C. ANGELICI, op. cit., 195 s.; T. ASCARELLI, Sui limiti statutari alla
circolazione delle partecipazioni azionarie, in Banca borsa tit. cred., 1953, 281 ss.; in giurisprudenza Trib. Catania 5
maggio 2003, cit. Escludono il riscatto in giurisprudenza Trib. Catania 5 maggio 2003, cit.; Trib. Roma 18 marzo 1998,
cit.; Trib. Napoli 4 giugno 1993, in Giur. comm., 1994, II, 705.
111
Il requisito della necessaria puntuale indicazione dei presupposti di applicabilità del riscatto viene richiesto dalla
dottrina al fine di evitare la nullità o comunque l’inefficacia della clausola. Tale posizione è motivata: a) per evitare che
il riscatto si traduca in strumento di allontanamento di un socio non gradito; b) in ossequio ad un principio generale
dell’ordinamento, atteso che il legislatore ogni volta in cui ha regolato ipotesi di esclusione e decadenza ne ha
subordinato l’operatività a circostanze specifiche e predeterminate. Conseguentemente inefficace è anche il riscatto
compiuto al di fuori dei presupposti statutari. In tal senso si veda da ultimo M. CENTONZE, Riflessioni sulla disciplina del
riscatto azionario da parte della società, in Banca borsa tit. cred., 2005, (nt. 9, 10, 11) 52 ss., e le considerazioni della
dottrina ivi riportata.
112
Frequenti sono le clausole di riscatto che prevedano quale presupposto di esercizio del diritto la perdita da parte
del socio di taluni requisiti soggettivi: a tale ipotesi è ovviamente equiparabile quella del trasferimento delle
partecipazioni a favore di soggetto sprovvisto dei necessari requisiti. Tale eventualità può aver luogo anche in
riferimento al patto di famiglia: nel caso in cui l’assegnatario non possieda i requisiti soggettivi del suo ascendente.
113
Non sembra che a tale considerazione possa essere opposta l’irrinunziabilità ai diritti futuri, in dipendenza
dell’articolo 771 del codice civile, dal momento che anche la giurisprudenza più recente ha rimeditato la portata della
predetta considerazione: di ciò è dimostrazione l’orientamento giurisprudenziale in materia di rinunzia alla prelazione
ereditaria ed al rimedio del retratto per il caso di sua violazione. Si mette infatti ben in evidenza nelle sentenze della S.
C. che di rinunzia può propriamente parlarsi solo prima che si determinino i presupposti per l’esercizio del diritto,
Non interferiscono con il patto di famiglia le clausole di predisposizione successoria,
qualunque sia la loro struttura giuridica e qualunque siano gli effetti che si producono
in loro conseguenza. Esse infatti operano solo in caso di morte del socio, il che non può
mai verificarsi con riferimento al disponente che, per effetto del patto, cessa di essere
socio a favore dell’assegnatario114.
7. – Profili fiscali del patto di famiglia con riferimento alle imposte indirette.
Il trattamento tributario del patto di famiglia con riferimento alle imposte indirette è
disciplinato dall’articolo 3, comma 4 ter, del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (T.U.
Imposta sulle successioni e donazioni – TUS). Tale disposizione – introdotta dal
legislatore con la legge 27 dicembre 2006, n. 296 (finanziaria per il 2007) e
ulteriormente modificata dalla legge 24 dicembre 2007, n. 244 (finanziaria per il 2008)
– stabilisce che il trasferimento di aziende o di rami di esse, di quote sociali e di azioni,
effettuato per il tramite di un patto di famiglia, non è soggetto all’imposta di donazione
qualora ricorrano le condizioni indicate nella medesima norma115.
7.1. Il presupposto soggettivo. Il trattamento di favore contemplato dall’articolo 3,
comma 4 ter, TUS compete solo a favore di alcune categorie di soggetti: tale
precisazione assume rilievo per i trasferimenti per successione e donazione, ma non
per quelli per patto di famiglia, che, ai sensi dell’articolo 768 bis del codice civile, non
possono che andare a beneficio dei discendenti del disponente.
dovendosi altrimenti qualificare il comportamento del beneficiario non già in termini di rinuncia, quanto, piuttosto, di
mancato esercizio del diritto. In tal senso si veda Cass., 14 gennaio 1999, n. 310, in Giur. it., 2000, 310; Cass., 22
gennaio 1994, n. 624, in Riv. not., 1994, 1028. Si consideri inoltre che nel caso di specie non vi sarebbe nemmeno il
rischio della indeterminatezza dell’oggetto della rinunzia, atteso che essa avrebbe luogo in riferimento ad una fattispecie
specifica, nota ai soci rinunzianti.
114
Come già segnalato per le società di persone, anche in questo caso potrebbe sorgere il dubbio sull’utilità di
stipulare il patto: va peraltro sottolineato come un siffatto dubbio ha ragione di porsi solo ove il disponente e
l’assegnatario siano già unici soci di una società in cui sia presente una disposizione statutaria mortis causa.
115
La legge prevede che il trasferimento non sia soggetto a imposta e non solo che sia esente dalla stessa, dal che pare
possibile desumere il corollario dell’inapplicabilità anche dell’imposta in misura fissa per la registrazione dell’atto: nello
stesso senso CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, Tassazione dei patti di famiglia e dei trasferimenti di cui all’art.
1 comma 78 legge 27.12.2006 n. 296 (c.d. Finanziaria 2007), in Studi e Materiali, Milano, 2008, 596 s. Sul punto
l’Agenzia delle Entrate non ha fornito indicazioni operative, in quanto nella Circolare n. 3/E del 2008, è precisato che
l’imposta di registro sia da versare in misura fissa solo nel caso di atti di donazioni esenti da imposta per capienza della
franchigia.
Rimane da affrontare il problema se la non soggezione all’imposta sia da
riconoscere anche nelle ipotesi in cui il disponente non eserciti direttamente l’attività
d’impresa relativa all’azienda da trasferire, ovvero l’assegnatario non possa esercitare
fin da subito attività d’impresa: ipotesi che in precedenza sono state considerate
ammissibili116.
In assenza di apprezzabili ragioni in contrario e di una previsione normativa che
restringa sotto il profilo tributario l’ambito di applicazione del trattamento di favore
contenuto nell’articolo 3, comma 4 ter, TUS, sembra si possa concludere per la piena
coincidenza, in ordine a questo specifico aspetto, tra il perimetro civilistico dell’istituto e
quello tributario. Ne consegue che non è da assoggettare all’imposta il trasferimento di
un’azienda già concessa in affitto o di un’azienda in nuda proprietà con riserva di
usufrutto a favore del disponente
117
.
A maggior ragione pare da riconoscere il medesimo trattamento tributario nel
caso in cui il diritto di usufrutto sull’azienda o sulle partecipazioni sia costituito in favore
dell’assegnatario118.
7.2. I presupposti oggettivi. Qualora il patto di famiglia abbia ad oggetto aziende,
rami di queste o partecipazioni in società di persone il trattamento tributario di favore
può trovare applicazione senza limiti quantitativi. Ne consegue, per esempio, che il
trasferimento non è soggetto a imposta ancorché la partecipazione in società di
persone sia di consistenza limitata, ovvero sia priva di poteri di gestione (come nel
caso di quota di socio non amministratore di s.n.c. o di socio accomandante nella
s.a.s.)119.
Qualora la stipulazione abbia, al contrario, ad oggetto partecipazioni di società
di capitali, il legislatore tributario introduce un limite quantitativo: la partecipazione
deve essere di consistenza tale da assicurare, in sé o in aggiunta a quella già
116
Si rinvia alle considerazioni svolte nei paragrafi 1 e 3.
117
CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, op. cit., 604 s.
118
G. GAFFURI, L’imposta sulle successioni e donazioni, Padova, 2008, 502 s.
119
Nello stesso senso Agenzia delle Entrate, circolare 3/E del 2008, 41 s.; CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO,
op. cit., 609 s. Di contrario avviso G. GAFFURI, op. cit., 2008, 504 s.
posseduta dall’assegnatario, il controllo di diritto ai sensi dell’articolo 2359 n. 1) del
codice civile (maggioranza dei voti in assemblea ordinaria).
La differenza di trattamento si spiega evidentemente in considerazione del fatto
che il legislatore tributario ha considerato che per le società di persone è immanente
un collegamento tra la persona del titolare e l’attività d’impresa esercitata dalla società,
mentre un analogo collegamento non sarebbe rinvenibile nelle società di capitali se non
in presenza di partecipazioni particolarmente qualificate.
Con riguardo alle sole partecipazioni di società di capitali è pertanto possibile
rinvenire un’asimmetria tra l’ambito di applicazione della fattispecie delineato
dall’articolo 768 bis del codice civile e quello dell’articolo 3, comma 4 ter, TUS: il
perimetro dell’istituto sotto il profilo civilistico appare infatti più ampio rispetto a quello
cui la disciplina fiscale riconosce un trattamento di particolare favore. Con la
conseguenza che, ove sia stipulato un patto di famiglia avente ad oggetto una
partecipazione di società di capitali non idonea a consentire il conseguimento del
controllo, troverà applicazione l’imposta di donazione, nei limiti peraltro dei valori
eccedenti la franchigia prevista dalla legge120.
7.3. Presupposti ulteriori. L’articolo 3, comma 4 ter, TUS prevede che il trattamento
di favore competa solo ove i discendenti dichiarino in atto di obbligarsi a continuare
l’esercizio di attività d’impresa, ovvero a mantenere il controllo della società le cui
partecipazioni sono oggetto della stipulazione per almeno cinque anni. Qualora i
discendenti violino l’obbligo assunto e nei cinque anni cessino di esercitare l’attività o
trasferiscano a terzi le partecipazioni sarà dovuto l’importo dell’imposta in misura
ordinaria (se dovuta), della sanzione prevista dall’articolo 13 del d.lgs. 18 dicembre
1997, n. 471 (pari al 30% dell’imposta non versata) e degli interessi di mora decorrenti
dal giorno in cui l’imposta doveva essere pagata.
Il presupposto della continuazione dell’esercizio di attività d’impresa trova
applicazione ai trasferimenti d’aziende o di rami di esse, mentre quello della
conservazione del controllo ai trasferimenti di partecipazioni di società di capitali.
Nessun requisito quantitativo è invece previsto in ordine alle società di persone,
120
Giova ricordare che le donazioni a favore del coniuge e dei parenti in linea retta sono soggette a imposta in misura
del 4% limitatamente al valore eccedente la franchigia di Euro 1.000.000,00. Nell’ipotesi in cui i beneficiari siano più
d’uno l’imposta è applicata relativamente a ciascun soggetto in ragione dell’attribuzione effettuata in suo favore.
coerentemente con l’assenza di limitazioni per il riconoscimento del beneficio fiscale nel
momento in cui il patto sia stipulato. In quest’ultimo caso i discendenti potranno
pertanto anche trasferire le partecipazioni acquistate per effetto del patto, purché non
per intero121.
Non comporta decadenza dal trattamento fiscale di favore il compimento di atti
di gestione straordinaria dell’azienda o delle partecipazioni che possano rivelarsi utili
per l’attività d’impresa nel corso di cinque anni, purché i presupposti sopra indicati non
siano elusi. Ne consegue che l’assegnatario potrà: i) conferire in società l’azienda o le
partecipazioni a lui trasferite (senza limiti in caso di società di persone, purché sia
conseguito o integrato il controllo in caso di società di capitali); ii) partecipare ad
operazioni di trasformazione, fusione e scissione (nei medesimi limiti appena
richiamati)122.
7.4. La liquidazione dei legittimari non assegnatari. L’articolo 3, comma 4 ter,
TUS disciplina in maniera espressa solo l’assegnazione di aziende, di rami di esse e di
partecipazioni sociali, mentre omette di regolare il trattamento tributario da applicare
alla liquidazione dei legittimari non assegnatari.
L’orientamento più favorevole al contribuente propone di assoggettare anche le
liquidazioni dei non assegnatari al medesimo trattamento previsto per l’assegnazione:
la mancata soggezione all’imposta, chiunque sia il soggetto che effettua la liquidazione.
La conclusione è argomentata in forza della strumentalità delle liquidazioni rispetto
all’assegnazione e alla funzione delle prime, consistente nel garantire l’intangibilità
delle quote spettanti ai legittimari123.
Altro orientamento considera la liquidazione dei non assegnatari come atto
gratuito assimilabile sotto il profilo tributario a un modus, con la conseguenza di
assoggettare dette attribuzioni ad un’autonoma imposta, in ordine alla quale non
troverebbe applicazione il regime di favore di cui all’articolo 3 TUS124. Tale
121
Nello stesso senso CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, op. cit., 609 s.; implicitamente Agenzia delle Entrate,
circolare 3/E del 2008, 42 s., che riferisce la decadenza dal beneficio per mancata conservazione del controllo alle sole
società di capitali.
122
CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, op. cit., 613; Agenzia delle Entrate, circolare 3/E del 2008, 43 s.; G.
GAFFURI, op. cit., 506 ss.
123
GAFFURI, op. cit., 509 ss.
124
CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, op. cit., 599 ss.; Agenzia delle Entrate, circolare 3/E del 2008, 45.
interpretazione pone l’ulteriore problema di stabilire come applicare l’imposta di
donazione: più precisamente occorre chiedersi se siano da tenere in considerazione i
rapporti di parentela o coniugio tra il disponente e i legittimari non assegnatari, ovvero
i rapporti di parentela tra l’assegnatario e i non assegnatari, essenzialmente al fine di
individuare quali franchigie e aliquote applicare. In dottrina si predilige la prima
soluzione, in quanto la liquidazione operata dall’assegnatario è pur sempre strumentale
al perfezionamento del patto e deve essere imputata ai rapporti tra disponente e
legittimari non assegnatari125.
Qualora i legittimari non assegnatari rinuncino alla liquidazione, l’Agenzia delle
Entrate ha ritenuto che la disposizione sia priva di efficacia traslativa e come tale sia
soggetta a imposta di registro in misura fissa126.
7.5. Imposte ipotecarie e catastali. Qualora l’azienda da trasferire con il patto di
famiglia comprenda beni immobili, la stipulazione non è soggetta alle imposte
ipotecarie e catastali, per il fatto che gli articoli 1, comma 2, e 10, comma 3, d.lgs. 31
ottobre 1990, n. 347 stabiliscono che non sono soggetti a imposta i trasferimenti di cui
all’articolo 3 TUS.
125
CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, op. cit., 602.
126
Agenzia delle Entrate, circolare 3/E del 2008, 45.
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