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Saggi Opinione pubblica e comunicazione politica

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Saggi Opinione pubblica e comunicazione politica
Giorgio Grossi
Saggi
Opinione pubblica
e comunicazione politica
Il legame sociale rivisitato
Agli inizi della piena affermazione della società di massa (durante gli anni quaranta e
cinquanta) opinione pubblica e comunicazione politica erano fenomeni strettamente
connessi. In seguito lo studio empirico degli orientamenti di opinione è stato separato
dall’analisi della comunicazione mediata (soprattutto la televisione), e in questo modo si
è smarrito il legame sociale tra discorso pubblico, interazione collettiva ed atteggiamenti
individuali.
Negli ultimi trent’anni questo legame è stato ricostruito, ed oggi dobbiamo confrontarci
con nuove forme di relazioni politiche (politica mediata, pubblicità mediata, campagna
permanente) che possono essere definite come «democrazia del pubblico». In questo
scritto questo legame viene rivisitato – soprattutto in riferimento al caso italiano – e si
focalizza sull’idea di «clima d’opinione» come dispositivo concettuale capace di spiegare le
nuove tendenze nella vita politica italiana (e nelle scadenze elettorali).
Parole chiave: Democrazia del pubblico, clima d’opinione, antipolitica, populismo mediatico.
«Le condizioni della vita moderna hanno sempre più richiamato l’attenzione sull’importanza dell’opinione pubblica e della comunicazione. […] Lo sviluppo dei processi democratici ha allargato il pubblico di cui contano le opinioni
ed ha aumentato la responsabilità sociale e politica dei mezzi di comunicazione.
L’importanza dell’opinione pubblica e della comunicazione è dunque chiara». Con
queste parole nette e inappellabili Berelson e Janowitz, nel 1950, aprivano la loro
Introduzione alla famosa antologia Public opinion and communication, una pietra
miliare della sociologia, politologia e massmediologia statunitense, troppo spesso
dimenticata e frettolosamente «storicizzata». In realtà, come spesso è accaduto
nello sviluppo delle scienze sociali nel secolo scorso, le prospettive interpretative
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Comunicazione politica 1/2009
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olistiche, organiche ed interdisciplinari nell’analisi teorica ed empirica dei processi sociali hanno spesso ceduto la strada alla settorializzazione e specializzazione
degli approcci e delle tradizioni di ricerca, col risultato di perdere di vista il senso
complessivo dell’oggetto indagato, le sue articolazioni e l’insieme delle connessioni contestuali in cui è inserito. Così è certamente accaduto per il nesso tra
opinione pubblica e comunicazione politica. Un nesso che non solo è costitutivo
della democrazia (Lippmann) e della natura emancipativa nella sfera pubblica che
la innerva (Habermas), ma che rappresenta anche una dimensione fondativa della
stessa idea di modernità (Grossi, 2006).
Infatti, come è noto, già a partire dagli anni cinquanta i due fenomeni
subiscono una progressiva divaricazione nelle pratiche di ricerca, portando da un
lato alla formazione del «sondaggismo» – naturale sviluppo del modello di opinione pubblica (e di rilevazione delle opinioni stesse) imposto da Gallup con la sua
metafora del «polso della democrazia» – che vede l’opinione pubblica come mera
sommatoria di opinioni individuali che anticipano (prevedono) il comportamento
di voto, e dall’altro all’egemonia del paradigma lazarsfeldiano dei minimal effects,
con cui di fatto si troncava ogni relazione significativa tra comunicazione mediale
(la nascente industria culturale) e opinioni (in particolare le opinioni politiche).
Bisognerà poi aspettare più di vent’anni perché queste due tradizioni di ricerca
riprendano ad incontrarsi e ad interagire1, riportando così al centro dell’attenzione
l’assunto della natura discorsiva e perciò comunicativa dell’opinione pubblica e
quindi il legame sociale che si determina – soprattutto in campo politico, anche se
non solo in questo – tra dinamiche di opinione, interazione pubblica, e processi ed
istituzioni comunicative.
Naturalmente ciò è accaduto non solo per il contributo di una diversa
e nuova impostazione della ricerca su questi fenomeni, sia negli Stati Uniti che in
Europa, che ridefinisce tale rapporto alla luce delle trasformazioni comunicative
(in primis la pervasività del mezzo televisivo), ma soprattutto perché il mutamento
sociale che investe il mondo occidentale tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni ottanta pone il problema della democrazia, dello sviluppo socio-culturale
e del sistema politico in una prospettiva alquanto differente.
1
Come è noto, sono soprattutto i lavori di McCombs e Shaw (1972) e di Noelle-Neumann
(1984) a ricomporre il binomio opinione-media, aprendo una nuova tradizione di studi sull’influenza
reciproca.
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In questo breve contributo mi pongo perciò tre obiettivi. In primo
luogo, illustrare la ripresa di importanza del nesso tra opinione pubblica e flussi
di comunicazione collettiva nelle società democratiche della seconda modernità.
Quindi analizzare da vicino il caso italiano attraverso l’importanza esplicativa della
nozione di «clima d’opinione», in quanto condensato del nesso opinione pubblica/comunicazione mediata. Infine discutere alcuni esempi di analisi del «clima»
applicata al ciclo politico dell’Italia degli ultimi quindici anni.
1.
Dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia del pubblico»
Come è stato ampiamente sottolineato da molti autori, la crisi dei
partiti (soprattutto quelli di massa, nella tradizione europea), la crescente disaffezione dei cittadini verso la politica (con relativo calo dei tassi di partecipazione politica), la trasformazione del ruolo e delle modalità di conduzione delle campagne
elettorali, la complessificazione del comportamento di voto (tra astensione, disallineamento ed intermittenza), hanno segnato la fase storica degli ultimi trent’anni
nel mondo occidentale – con tempi e modalità diverse nei vari paesi – producendo
quel passaggio dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia del pubblico», ben
argomentato da Manin (1995). Di questo passaggio-trasformazione vanno sottolineate, in questa sede, in particolare la ricostituzione e la nuova centralità del
legame tra opinione pubblica e comunicazione politica.
In grande sintesi, se nella «democrazia dei partiti» i flussi di comunicazione (e gli strumenti) erano in larga misura interni alle stesse organizzazioni politiche, poco mediatizzati (se non nelle forme a stampa), e comunque
finalizzati allo stesso ruolo di intermediazione tra cittadini ed istituzioni, e se
le stesse dinamiche di opinione trovavano il loro «spazio pubblico» dentro la
discussione e la dialettica partitica (erano, per così dire, incapsulate nelle logiche «partigiane» del dibattito pubblico), con il passaggio alla «democrazia del
pubblico» la comunicazione politica (in gran parte affidata alle imprese mediali
extrapartitiche, agli skills professionali dei media consultants) e la costruzione
dell’opinione pubblica (promossa ed implementata dai media stessi, insieme ad
opinion makers, istituti di sondaggio e pollsters) non solo vengono «esternalizzate» fuori dai partiti, ri-orientate «dalla parte dei cittadini», ma diventano il
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vero fulcro della competizione politica, il terreno di scontro nella battaglia per il
consenso e per il governo.
La stessa leadership – nella sua progressiva affermazione di vero referente della rappresentanza democratica, di guida ed interprete diretto degli interessi collettivi e dei valori identitari – trova in questo nuovo contesto non solo
il terreno di coltura per la sua trasformazione in senso post-moderno (Marletti,
2003; Grossi, 2007), ma alimenta l’intreccio tra opinione pubblica e comunicazione politica come nuova forma di agire politico tipico della leadership stessa.
Quali sono i concetti-chiave, le categorie analitiche che segnano questo importante processo di riallineamento e di centralità della relazione tra opinione pubblica e comunicazione politica? Il primo, come è noto, è quello della
mediatizzazione della politica (Bennett e Entman, 2001): l’agire politico in tutte le
sue modalità – dalla raccolta del consenso alle decisioni di governo, dalla rappresentanza degli interessi alla formulazione delle policies – è intrinsecamente legato
alla mediazione degli apparati comunicativi, sia come modalità di relazione-comunicazione con i cittadini-elettori, sia come spazio-ambito virtuale del dibattito
pubblico, sia come leva della stessa competizione politica (notorietà, immagine).
Con il progressivo allentamento dei legami subculturali e di rappresentanza degli
interessi tra partiti ed elettori, tra governo e cittadini, la mediatizzazione della politica avvia al tempo stesso una nuova fase della vita democratica, caratterizzata
da una relazione diretta, anche se spesso mediata, tra leadership e cittadini, e crea
anche una nuova idea di interazione politica, un nuovo modo di fare politica, in
cui «agire politico» ed «agire comunicativo mediato» non sono più chiaramente
distinguibili2.
Il secondo concetto-chiave, strettamente connesso col precedente,
è quello di opinione pubblica mediata (Grossi, 2006). La progressiva «liberazione» delle dinamiche di opinione dal controllo dei partiti, l’avvento del «villaggio
globale dell’opinione pubblica», la crescente invadenza dello stato, del governo e
delle élite politiche nell’influenzare le dinamiche di opinione, ha prodotto quella
nuova configurazione della sfera pubblica – che possiamo certamente definire
post-habermasiana – che ha contemporaneamente espropriato la società civile
2
Cfr. l’ipotesi interpretativa della politica «im-mediata», cioè di una idea di politica che
nasce direttamente dentro i media e il linguaggio comunicativo del marketing e della pubblicità (Grossi,
1992; Calise, 1996).
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del suo spazio pubblico alternativo allo stato ed al potere3, e ne ha trasformato
la dialogicità (discorsività) nello spazio e nel tempo in una dimensione mediatica
(de-spazializzata e de-temporalizzata) che produce una nuova «pubblicità» enormemente più accessibile e partecipabile della vecchia agorà.
Da qui anche lo slittamento semantico della nozione stessa di opinione pubblica: da «tribunale incorruttibile», come definito alle origini, e «principio di
terzietà» che tutela l’interesse generale ed esercita il controllo sul potere, a «posta
in gioco» della competizione democratica. Dal famoso scandalo Watergate in poi
(Engel Lang e Lang, 1983), non ci si appella solo all’opinione pubblica come entità
sovrana per avere legittimazione ma si lotta soprattutto per la sua conquista, per
influenzarla e co-determinarla.
In terzo luogo, questo processo di mediatizzazione della politica e dell’opinione pubblica non solo è caratteristico della vita politica delle società della
seconda modernità – quelle in cui si manifesta il modello della «democrazia del
pubblico» – ma riguarda in particolare il passaggio-chiave della vita democratica: la competizione elettorale. Infatti è proprio sul terreno delle elezioni e della
campagna elettorale che questa nuova centralità del nesso opinione pubblica/comunicazione politica manifesta tutte le sue peculiarità. Già all’inizio degli anni ottanta, come è noto, negli Usa comincia ad affermarsi la nozione di campagna permanente introdotta da Blumenthal nel 1980, con tutti i suoi corollari legati all’uso
strategico dei media e dei sondaggi d’opinione (Roncarolo, 1994). Il termine – un
evidente ossimoro, per l’accostamento di due dimensioni cronologiche antitetiche
– sta infatti ad indicare due mutamenti rilevanti: da un lato, l’impiego sistematico
delle strategie di comunicazione politica anche al di fuori delle scadenze elettorali
(con la conseguente istituzionalizzazione delle agenzie di comunicazione come
supporto non contingente ma strategico delle élite politiche); dall’altro, l’avvio
di un monitoraggio continuativo dell’opinione pubblica per rilevare ed utilizzare
l’approvazione o la fiducia dei cittadini come risorsa quotidiana per la notorietà
(della leadership), il consenso (del governo) e il supporto alle policies. La campagna permanente rende così continuativo e quindi costitutivo dell’agire politico il
ricorso ai flussi ed alle strategie comunicative (legate all’agenda ed alla tematiz3
Oppure ha creato, accanto alla «sfera pubblica», una seconda «sfera politica», che è quella decisiva e controllata dal potere politico (Bennet e Entman, 2001).
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zazione delle issues) ed alla conseguente verifica, tramite sondaggi, del grado di
apprezzamento e di sostegno della propria azione di governo o di opposizione.
Infine, l’ultima categoria che caratterizza la fase della «democrazia del
pubblico», che stiamo sinteticamente analizzando, è certamente quella di «clima
d’opinione». Come vedremo meglio nel paragrafo successivo questa concettualizzazione – avanzata quasi trent’anni fa da E. Noelle-Neumann (1984) e poi rimasta per
anni ai margini del dibattito – ha registrato nell’ultimo decennio una notevole ripresa di interesse, sia nella pubblicistica che nella ricerca accademica. Si tratta di un
fenomeno che indica, per così dire, una seconda dimensione dell’opinione pubblica
– che potremmo chiamare «verticale» – che influisce sulle opinioni individuali e collettive diffuse nella società, in quanto costituisce un fattore comparativo (l’ambiente
di riferimento collettivo), e che è anche molto influenzata dai flussi comunicativi
mediali e dalle dinamiche simboliche che si promuovono all’interno della società. Si
può distinguere, in prima istanza, in «clima sociale» (quello auto-percepito a livello
di mondi vitali e di vita quotidiana) e in «clima mediale» (quello etero-percepito
attraverso il sistema dei media e l’agorà virtuale), e rappresenta una dimensione
cognitiva di «cornice», tipica di tutte le società complesse, in base alla quale gli attori
sociali controllano e comparano le tendenze d’opinione collettive – per condividere
o dissentire – e quindi regolano il proprio agire sociale (e politico).
2.
Il caso italiano: dal «voto di opinione» al «clima d’opinione»
In questo contesto l’Italia rappresenta un caso esemplare. Giunta, per
così dire, in ritardo rispetto agli altri paesi occidentali nella metabolizzazione dei
vari passaggi dalla «democrazia dei partiti» alla «democrazia del pubblico», all’inizio
degli anni novanta l’Italia – anche per il precipitare congiunto della crisi politica di
Tangentopoli, l’avvento di un nuovo sistema elettorale maggioritario e la discesa
in campo di Berlusconi – appare in breve il laboratorio più avanzato (e spregiudicato) di questa nuova fase. La «sondocrazia» e la «piazza mediatica» diventano gli
ingredienti fondamentali non solo della lotta politica per la leadership del paese
(il modello berlusconiano del marketing politico), ma le stesse dinamiche d’opinione insieme ai flussi continui di comunicazione politica conquistano il centro
della interazione politica tra élite e cittadini. Nel giro di pochi anni – con il con-
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tributo dell’intero sistema politico, di destra e di sinistra4 – la dinamica politica ed
elettorale subisce una rapida evoluzione: dalla «nuova politica» (Pasquino, 1992),
all’americanizzazione della politica (Mancini e Swanson, 1996), all’«antipolitica»
(Mastropaolo, 2001; Campus, 2006), al «marketing comunicativo» (Amoretti, 2004)
ed al «populismo mediatico» (Mazzoleni, 2003).
In questa prospettiva, la stessa analisi scientifica delle dinamiche politiche e del comportamento elettorale subisce una notevole trasformazione, cambiano
alcune variabili interpretative, acquista rilievo l’analisi degli orientamenti d’opinione,
dei cicli di attenzione dei media, degli intrecci – quasi subculturali – tra scelta politica e scelta televisiva5. Questa rapida evoluzione del caso italiano – per la parte che
qui ci interessa – può essere sinteticamente riassunta nel passaggio dal «voto d’opinione» (della famosa tipologia di Parisi-Pasquino) al concetto di «clima d’opinione».
Nella versione originaria – e nella rivisitazione operazionabile dell’ideal-tipo fatta da
Parisi nel 19946 – il voto d’opinione rappresenta solo un tipo particolare, sia pure
in crescita, di comportamento elettorale sganciato dalle logiche di appartenenza o
di interesse strumentale, mentre il paradigma del «clima d’opinione» (Grossi, 2003)
rimanda al framing generale dell’agire politico in un dato contesto, e si riferisce alla
centralità delle dinamiche cognitive e comunicative nello spazio pubblico per tutti i
tipi di elettori, e per la stessa costruzione dei vissuti politici e delle opzioni valoriali.
Se dunque nella «democrazia dei partiti» l’opinione individuale e collettiva erano
prevalentemente allineate al processo di opinion-building promosso dall’intermediazione delle organizzazioni politiche, nella «democrazia del pubblico» l’opinione
individuale tende ad assumere come punto di riferimento comparativo il «clima
d’opinione» collettivo, clima in gran parte costruito mediaticamente o comunque
percepibile prevalentemente attraverso l’arena mediatica.
Così, per esemplificare, il clima d’opinione può influire sugli indecisi
spingendoli verso il «probabile vincitore», ma può premere anche sugli elettori «fe4
Unica eccezione, occorre ricordarlo per correttezza storica, è stato il caso di Mino Martinazzoli, leader del Partito popolare, che nel 1994 non accetta questo «passaggio d’epoca» e si rifiuta di
andare in televisione ad avallare la svolta verso la «politica im-mediata». Il risultato, come è noto, è la
sconfitta del centro e l’inizio del «bipolarismo perfetto» (!).
5
Cfr. le ripetute analisi di Sani su questo tema, ed in particolare Sani e Legnante (2002).
6
Parisi (2004) mette in luce sia un incremento del voto d’opinione (rispetto agli altri due),
sia soprattutto – a parziale smentita dell’ipotesi originaria – una marcata disinformazione e spoliticizzazione dell’elettorato d’opinione stesso.
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deli» mobilitandoli (per andare a votare) o smobilitandoli attraverso l’astensione;
può sanzionare una «vittoria annunciata» (2001 e 2008) o articolarsi anche in un
«contro-clima mediale» (2006). In un’altra prospettiva – più di «clima sociale» – il
clima d’opinione può sovradeterminare la paura verso gli immigrati o sottolineare l’«emergenza criminalità», fornendo supporto a scelte politiche, decisioni, ed
orientamenti valoriali.
In questo senso – per ribadire la tesi sottostante questo scritto – il concetto di clima d’opinione rappresenta in modo esemplare la «democrazia del pubblico» così come si è andata declinando, almeno nel contesto italiano. Esso infatti
rimanda alla centralità del nesso tra opinione pubblica e comunicazione politica
mediata in quando determinante di contesto, di sfondo, di framing dell’agire politico
(e del comportamento elettorale). E come tale non confligge con le appartenenze
o le tradizioni politiche, non è in contrasto con la fedeltà del voto, è compatibile
contemporaneamente col disinteresse per la politica e con la partecipazione politica
(soprattutto latente, invisibile), con il disallineamento dai partiti e la «scelta di campo» per un leader di coalizione, con l’individualismo dell’impegno politico e le lusinghe della «dittatura della maggioranza». Oltre ad essere uno straordinario dispositivo
di conquista del consenso attraverso strategie comunicative e simboliche non più
dirette, cioè citizen-oriented, ma invece indirette, climate-oriented 7.
Il notevole successo di questa concettualizzazione – il ricorso al termine
clima d’opinione nelle analisi e nei dibattiti pubblicistici e scientifici è fortemente
aumentato nell’ultimo decennio e ricorre sistematicamente in tutte le analisi delle
tornate elettorali dal 1994 ad oggi – non sembra tuttavia ancora diventato una variabile esplicativa condivisa del comportamento di voto nel caso italiano. Anche se
non mancano i riferimenti espliciti a tale ruolo, soprattutto in relazione alle ultime
tornate elettorali (ad es. Natale, 2006 e Feltrin, 2008)8, alcuni paradigmi consolidati
non sembrano prendere troppo in considerazione la rilevanza di tale fenomeno.
7
La «terza fase» della campagne elettorali (Blumler e Kavanagh, 1999) o la «campagna
post-moderna» (Norris, 1997) si caratterizzerebbero, in questo senso, anche per la presenza del clima
d’opinione come obiettivo prevalente delle strategie comunicative (climate-oriented) per la conquista
del consenso (Grossi, 2003).
8
In Natale (2006) si osserva che un 30% di elettori – indecisi, astensionisti, terzoforzisti
– sfugge al modello della «fedeltà leggera» e risulta decisivo per il risultato elettorale. In Feltrin (2008) si
sottolinea una marcata presenza nelle regioni del sud di un elettorato molto sensibile al clima d’opinione
generale, che ne spiegherebbe la maggiore mobilità.
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Vediamo due ben noti modelli interpretativi, a titolo di esempio. Il primo è quello relativo all’ipotesi della «fedeltà leggera» come nuova modalità di voto
tipica della Seconda Repubblica (Natale, 2001; 2006). Infatti, l’analisi longitudinale
del comportamento elettorale degli italiani ha mostrato un progressivo slittamento
dal «voto di appartenenza» del sistema proporzionale (fedeltà al partito, allineamento subculturale, impegno politico, ecc.) al «voto di coalizione» del sistema maggioritario (fedeltà di coalizione, mobilità interpartitica, disimpegno politico, ecc.). Il
dato interessante è che la nuova «fedeltà» è estremamente forte e radicata, tanto
che l’impermeabilità dei due schieramenti – l’Italia «divisa a metà», almeno fino
alle elezioni del 2008 – dura per tutti gli ultimi quindici anni. Anche se il ruolo del
«clima d’opinione» sembra apparire più rilevante nelle elezioni di «second’ordine»
(europee, regionali, locali), attraverso la partecipazione intermittente (Legnante e
Segatti, 2001), la smobilitazione (Biorcio, 1996) o addirittura la conversione (Grossi e Natale, 2007), in occasione dei grandi appuntamenti per le elezioni politiche
la «fedeltà leggera» appare granitica. Avremmo dunque, implicitamente, un ruolo
minore del clima d’opinione: forse rilevante nelle elezioni di «second’ordine» o intermedie, irrilevante o residuale negli appuntamenti politici generali.
Tuttavia Natale osserva anche che il nuovo elettore «fedele» manifesta
tratti contraddittori: è disinteressato alla politica ma attento ed informato sull’offerta di coalizione, è indeciso fino all’ultimo ma poi vota in modo «identitario» (non
tradisce la sua coalizione, anche se cambia partito o pratica il voto disgiunto), considera normale l’astensione ma quando la «posta in gioco» è alta si mobilita e corre a
votare la propria coalizione. Questo apparente paradosso potrebbe invece avvalorare
l’ipotesi della validità esplicativa della nozione di clima d’opinione, suggerendo che
nel caso italiano, da un lato, la «democrazia del pubblico» non ha ancora percorso
interamente la sua evoluzione (ma se ne intravedono già tracce significative) e che,
dall’altro, la stessa «fedeltà leggera» è già una conseguenza di questa nuova centralità del nesso opinione pubblica/comunicazione politica mediata.
Una seconda obiezione, più esplicita, è stata avanzata di recente da
Diamanti (2006) proprio in relazione alle elezioni del 2006, quelle della «rimonta
impossibile» e del «quasi pareggio». Anche Diamanti, attraverso la categoria del
«territorio» come fondamento della scelta di voto, dimostra la stabilità degli orientamenti politici in Italia e la attribuisce in ultima analisi all’appartenenza geopolitica. La continuità e la stabilità del voto stesso – insensibile apparentemente ai
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cicli politici e sociali come dimostra la «geografia elettorale» dal 1948 ad oggi –,
l’importanza del legame territoriale non solo nel successo della Lega ma anche nel
predominio del Pd nelle zone rosse, sembrano svuotare di peso e di significato il
ruolo del «clima d’opinione», tipicamente de-localizzato e di sfondo. Come per la
«fedeltà leggera», anche per la «fedeltà territoriale» il peso della tradizione politica,
della cultura politica sembra in ultima analisi la variabile decisiva.
La «democrazia del pubblico», in questa prospettiva, non sarebbe ancora
all’orizzonte, tanti e tali restano i vincoli identitari e valoriali che legano gli elettori
ai loro rappresentanti ed ai leader. Diamanti, pur sensibile a molti indizi in direzione
opposta e con molti opportuni distinguo9, non sembra credere che le due strategie contrapposte di «onnipresenza mediatica» (Berlusconi) e di «assenza mediatica»
(Prodi) possano aver inciso più che tanto, se non per «risvegliare gli apatici» e «galvanizzare i fedeli». Eppure un simile risultato elettorale – inatteso per tutti gli osservatori, ma anche documentato dal continuo e progressivo restringimento dello scarto
percentuale tra le due coalizioni fino all’ultimo giorno prima del voto – non può
essere convincentemente interpretato se non anche attraverso l’idea di un «controclima d’opinione» – il vecchio «clima d’opinione duale» della Noelle-Neumann – che
è stato mediaticamente costruito dal centro-destra (e da Berlusconi) contro quello
prima dominante a favore del centro-sinistra (Grossi e Natale, 2007)10.
3.
Due esempi di analisi del clima d’opinione come fattore di
contesto: antipolitica e neo-populismo mediatico
Tuttavia la migliore risposta a queste possibili obiezioni, sia pur nei
limiti di questo scritto, si deve piuttosto collocare su un altro terreno. È un ambito
molto simile a quello che Gerstlé (2001) qualche anno fa ha evidenziato con riferimento alla ricorrente discussione degli effetti dei media sul comportamento di
voto. Il terreno non è quello del rapporto diretto, meccanicistico, lineare – tra Tv e
9
Si vedano in proposito anche alcuni articoli di Diamanti pubblicati su la Repubblica,
come ad es. quello «Come si fabbrica l’insicurezza» (23 novembre 2008), in cui la «costruzione del clima
d’opinione» assume una evidente valenza e rilevanza politica.
10
Mi riferisco anche ad alcune interessanti ricerche, come quella di Mazzoni (2007), sull’offerta dei media nella campagna elettorale 2006 che mostrano l’impatto del coverage sul «clima d’opinione».
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voto o tra clima d’opinione e consenso politico – ma quello indiretto, contestuale,
sistemico tra una nuova centralità del nesso opinione pubblica/comunicazione
mediale e l’agire politico in generale, tra dinamiche d’opinione e vissuti politici
interattivamente (e discorsivamente) elaborati. Per usare una metafora goffmaniana, potremmo distinguere tra «ribalta politica» e «retroscena politico». La prima
riguarda le campagne elettorali, la competizione per la leadership e il governo, gli
atti decisionali e deliberativi, lo stesso comportamento di voto; il secondo – di più
lungo periodo – è riferito al mood, agli atteggiamenti più profondi, alle convinzioni politiche, agli orientamenti socio-culturali dei cittadini-elettori, all’impegno/
disimpegno civile, al consumo di immaginario politico tramite la «società dello
spettacolo» e lo sviluppo pervasivo della biopolitica.
Su questo secondo terreno, tuttavia, le analisi sono molto scarse –
perché difficili da realizzare e complesse – ma queste difficoltà non dovrebbero
portare alla sottovalutazione del problema o peggio alla sua denegazione, ma dovrebbero spingere ad investire maggiormente in nuovi disegni di ricerca e nuove
metodologie di analisi11.
Vorrei qui limitarmi a segnalare due esempi di analisi che si muovono
in quest’altra direzione, cioè nel considerare il clima d’opinione non una variabile
esplicativa del voto ma costitutiva del contesto politico dentro cui si formano gli
orientamenti e le appartenenze politiche stesse. Il primo riguarda l’individuazione del ciclo dell’antipolitica come chiave interpretativa del clima d’opinione del
decennio 1992-2001 in Italia. Secondo Marletti (2001) tutte le tornate elettorali
comprese nel periodo possono essere meglio interpretate attraverso il framing
dell’antipolitica: una costruzione cognitiva e simbolica che nasce all’inizio come
critica anti-centralistica (in alcune zone del nord con la Lega) e come movimento
d’opinione anti-partitocratico dopo Tangentopoli (il biennio riformatore 1992-93);
che poi viene tematizzata come «nuovismo» (di cui Berlusconi è il principale esponente); che non viene rintuzzata dalla possibile contro-mobilitazione dell’opinione
pubblica in occasione dell’adesione all’euro (occasione mancata dalla coalizione di
centro-sinistra); e che riemerge nella sua connotazione di fobia anti-immigrazione e anti-criminalità nel biennio 2000-01 con la nuova vittoria del centro-destra.
11
È ben poco convincente seguire la prospettiva di Allport che, negli anni trenta, non sapendo come analizzare empiricamente l’opinione pubblica come entità collettiva, concludeva che l’unico
modo era analizzarla come somma di opinioni individuali, le uniche rilevabili.
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In questi anni – è implicito nel ragionamento di Marletti – sono cambiati infatti
profondamente l’idea stessa di politica, la concezione della natura della leadership,
i fondamenti e gli ingredienti dei vissuti politici dei cittadini-elettori. La stessa
concezione di una lotta politica basata, possiamo dire, sulla «sentimentalizzazione
degli interessi», sulla «drammatizzazione delle scelte», sulla «pulsione valoriale»,
sulla rinuncia da parte degli stessi attori politici – più a destra che a sinistra ma
da entrambe le parti – a combattere e contrastare il «senso comune» come dato
«pre-politico» ma anzi a valorizzarlo, corteggiarlo e sublimarlo, dovrebbe far riflettere sul significato della categoria di clima d’opinione, sul suo ambito di influenza
sistemica, e sulla sua strutturale rilevanza per il futuro della democrazia e della
politica in Italia e nelle società occidentali in genere.
Il secondo esempio riguarda la nozione di neo-populismo mediatico. Il
dibattito innestato tra gli altri da Crouch (2003) sulla post-democrazia si è intrecciato con l’analisi del fenomeno del neo-populismo mediatico (Mazzoleni, 2003;
Capelli, 2007) e del cesarismo-bonapartismo delle leadership post-moderne (Marletti, 2003; Grossi, 2007). Esso tende ad evidenziare i mutamenti intervenuti nella
relazione politica – di consenso e legittimazione – tra leader e masse in seguito al
fenomeno congiunto della personalizzazione crescente della leadership, tramite
rapporto mediatico e simbolico diretto con i cittadini fuori da ogni intermediazione partitica e giornalistica, e della diffusione di tematiche «populiste» favorite
dalla media logic e dal primato delle audience (anche in ambito politico). Di questa
nuova configurazione climatica fanno parte diversi elementi, tutti riconducibili
più o meno direttamente ad issues ed item politici che vengono interattivamente «scambiati» tra leader ed elettori: anti-intellettualismo diffuso, logica Nimby,
«malpancismo», rancore, aggressività, intolleranza, esibizionismo, carrierismo, ecc.
Il populismo mediatico rappresenta il supporto infrastrutturale del clima d’opinione contemporaneo ed al tempo stesso la punta dell’iceberg delle trasformazioni
della democrazia: non soltanto per il rapporto diretto tra leader e cittadini (la già
citata «democrazia del popolo» come mobilitazione individuale one-to-one) ma
per il modo di sussumere il «senso comune» nel «programma politico», e di diffonderlo mediaticamente all’intero corpo elettorale secondo il ben noto slogan di
«dare alla gente ciò che la gente vuole».
Anche in questo caso – come nell’esempio dell’antipolitica – il nesso
opinione pubblica/comunicazione politica mediata diventa elemento di contesto
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Opinione pubblica e comunicazione politica
(e quindi di influenza) dentro cui si alimenta la competizione politica e la scelta
elettorale. Anzi, in prospettiva, può persino generare un imprevisto cortocircuito:
invece di favorire una partecipazione democratica più diffusa, più articolata, più
capace di condizionare e controllare il potere, e di incidere sulle scelte e le decisioni di interesse collettivo, il clima d’opinione può concorrere alla trasformazione
della democrazia stessa, attraverso una sorta di caricatura post-moderna della
rappresentanza, in cui lo strapotere dell’immaginario è usato non per costruire la
«società aperta» ma per chiudere il «pubblico» in una prigione dorata.
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