1 emilio norelli l`esdebitazione del fallito a seguito del
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1 emilio norelli l`esdebitazione del fallito a seguito del
EMILIO NORELLI L’ESDEBITAZIONE DEL FALLITO A SEGUITO DEL “DECRETO CORRETTIVO” DELLA RIFORMA FALLIMENTARE* SOMMARIO: 1. Fonte, caratteri e ratio dell’istituto. – 2. Ambito soggettivo di applicazione. – 3. Presupposto. – 4. Condizioni soggettive. – 5. Condizione oggettiva. – 6. Esclusioni. – 7. Il procedimento di esdebitazione. Decisione. Effetti. – 8. Impugnative – 9. Disciplina transitoria. 1. Fonte, caratteri e ratio dell’istituto. 1. Il capo IX del titolo II (artt. 142-144) del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (“legge fallimentare”)1, come modificato dall’art. 128 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), ha introdotto nel sistema concorsuale il nuovo istituto della «esdebitazione», in attuazione dell’art. 1, comma 6, lettera a), n. 13, della legge di delega 14 maggio 2005, n. 802. La disciplina è stata recentissimamente ulteriormente modificata dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80)3. 2. Il fallimento non comporta la liberazione del fallito dalle obbligazioni non fatte valere o non soddisfatte (in tutto o in parte) nell’ambito della procedura fallimentare. Infatti, l’art. 120, terzo comma, stabilisce che, una volta chiuso il fallimento, «i creditori riacquistano il libero esercizio delle azioni verso il debitore per la parte non soddisfatta dei loro crediti per capitale e interessi»: a seguito della chiusura, dunque, il fallito resta debitore verso i creditori non soddisfatti, sia che questi abbiano ottenuto l’ammissione al passivo, sia che siano rimasti estranei al fallimento, non insinuando i loro crediti. 3. Il nuovo testo dell’art. 120, terzo comma, aggiunge, tuttavia, «salvo quanto previsto dagli articoli 142 e seguenti», i quali, appunto, disciplinano il nuovo istituto in esame. Esso è qualificato dall’art. 142 come «beneficio», cui può essere ammesso «il fallito persona fisica», e consiste nella «liberazione dai debiti residui». 4. Detto istituto è stato mutuato dal diritto anglo-americano, ove si definisce «discharge» quel tipico istituto, in virtù del quale il debitore viene liberato da tutte le sue obbligazioni * Pubblicato in “Nuovo diritto delle società”, n. 20/2007. 1 Gli articoli di legge d’ora in avanti citati senza specificazione del testo legislativo in cui sono contenuti sono quelli della legge fallimentare nel testo risultante dalle modifiche apportate dal decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito, con modificazioni, nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica delle procedure concorsuali), e dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80). 2 Per maggiori approfondimenti circa il nuovo istituto, con riferimento alla disciplina del citato d.lgs. n. 5 del 2006 ante “correttivo”, si rinvia a E. NORELLI, “L’esdebitazione del fallito”, nella Rivista dell’esecuzione forzata, 2006, 681 ss. 3 Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 2007, n. 241. D’ora in avanti: “decreto correttivo”. 1 grazie alla liquidazione concorsuale dei suoi beni, qualunque sia la percentuale percepita dai creditori. 5. Con tale innovazione il fallimento viene a costituire (anche) la fonte di una posizione giuridica soggettiva di vantaggio, che consente al debitore, nel concorso delle condizioni stabilite dalla legge, di provocare una modificazione della propria situazione patrimoniale, consistente – come precisa la norma – nella «liberazione dai debiti residui», che non siano stati soddisfatti attraverso l’esecuzione concorsuale. In questa prospettiva, l’esdebitazione, trovando nel fallimento la sua “causa” remota, costituisce di esso un “effetto” ultimo (sia pure mediato dal necessario pronunciamento dell’autorità giudiziaria). 6. La ratio dell’istituto è individuata dalla Relazione ministeriale al decreto legislativo n. 5 del 2006 nell’obiettivo «di recuperare l’attività economica del fallito per permettergli un nuovo inizio, una volta azzerate tutte le posizioni debitorie»; con ciò riecheggiando l’espressione della letteratura giuridica anglo-americana «to make a fresh start in life». Ma dal complesso della disciplina si desume chiaramente che nell’istituto convive anche altra finalità, coerente con la qualificazione in termini di «beneficio», che è quella di premiare il fallito “onesto, ma sfortunato” (come una volta si diceva per l’imprenditore meritevole del concordato preventivo) e, dunque, di incentivare l’imprenditore assoggettabile a fallimento a tenere, sia prima che durante la procedura, una condotta irreprensibile tesa a salvaguardare le aspettative di soddisfacimento dei creditori. 2. Ambito soggettivo di applicazione. 1. L’ambito soggettivo di applicazione del beneficio è circoscritto al «fallito persona fisica». Ciò implica, da un lato, che per ottenere il beneficio bisogna rivestire la qualità di fallito e, dall’altro, che esso è precluso a chi non sia persona fisica. 2. Sotto il primo profilo, va rilevato innanzitutto che non può considerarsi fallito colui nei cui confronti sia stata emessa sentenza dichiarativa di fallimento, quando, poi, il fallimento sia stato revocato ex art. 18. E’, dunque, necessario, per poter ottenere la esdebitazione, che la sentenza dichiarativa di fallimento sia passata in giudicato. 3. Va, altresì, rilevato che la non assoggettabilità a fallimento per carenza del presupposto soggettivo (art. 1) od oggettivo (art. 5) preclude la possibilità di godere del beneficio in discorso. 3.1. Ciò, quanto alla carenza del presupposto soggettivo, ha fatto sorgere un dubbio di legittimità costituzionale della normativa, nella parte in cui non consente al debitore che non riveste la qualità di imprenditore assoggettabile a fallimento (dunque, all’imprenditore non commerciale e al “piccolo imprenditore”4) di essere dichiarato fallito (quanto meno su suo ricorso), onde trovarsi nella situazione di poter beneficiare della esdebitazione, in ciò ipotizzandosi una ingiustificata disparità di trattamento, in violazione dell’art. 3 Cost. Tuttavia, sembra che una eventuale questione di legittimità costituzionale difficilmente potrebbe essere accolta dal giudice delle leggi, posto che, secondo consolidata giurisprudenza costituzionale, da un canto, la disciplina concorsuale, per la molteplicità e la diffusività degli interessi coinvolti (pubblici e privati), è materia di ordine pubblico5 (per cui non può essere rimessa al debitore la scelta di essere sottoposto 4 Ora, all’imprenditore commerciale non assoggettabile a fallimento per essere entro i limiti dimensionali di cui al nuovo art. 1, come nuovamente sostituito ad opera del “decreto correttivo” (art. 1), che ha espunto ogni riferimento testuale al “piccolo imprenditore”. 5 Cfr., da ultimo, Corte cost., sent., 15 luglio 2003, n. 240. 2 a fallimento, pur ove ne manchino i presupposti), e, dall’altro canto, i requisiti soggettivi di sottoponibilità a fallimento sono rimessi alla valutazione discrezionale del legislatore6. 6 Cfr., da ultimo, Corte cost., ord., 14 novembre 2005, n. 421. Il Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanza del 20 dicembre 2006, ha sollevato «la questione di illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, della legge delega 14 maggio 2005, n. 80, art. 6, lett. a/13 e del conseguente art. 142 della legge fallimentare, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, nella parte in cui, in modo irrazionale, introduce l'istituto della esdebitazione e, in subordine, limita l'istituto dell'esdebitazione al soggetto imprenditore fallito e ai fallimenti chiusi dopo l'entrata in vigore della legge». Il giudice rimettente – premesso in fatto che il fallimento dell’istante è stato chiuso prima della data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 (16 luglio 2006), e premesso in diritto che la normativa sulla esdebitazione è di carattere eccezionale, «perché contravviene alla regola generale del nostro diritto civile per cui i debiti vanno pagati fino a che non vengano evangelicamente rimessi oppure fino a che non si prescrivano», e che «in linea di principio non vi è nessuna regola costituzionale espressa che osti alla cancellazione dei debiti» – argomenta circa l’irrazionalità dell’istituto in quanto riservato agli imprenditori falliti, non sembrando esservi ragioni per le quali «dal grande “insieme” dei debitori di somme di danaro, soggetti a un comune destino» sia possibile «enucleare un sottoinsieme di debitori per i quali, in forza di loro particolari caratteristiche», sia giustificabile un diverso trattamento. E – affermata «una fondamentale ingiustizia giuridica e morale dell'istituto, così come delineato dalla norma» – articola una duplice censura di incostituzionalità: «perché viene violato il principio di eguaglianza senza alcuna razionale giustificazione, senza che si possa individuare un criterio sostanziale che superi il dato formale costituito dai destinatari quali “imprenditori falliti”»; e perché è irrazionale «privilegiare i soli grossi imprenditori, ignorando le più gravi esigenze dei piccoli imprenditori e dei debitori non imprenditori». Sotto altro profilo, e in via subordinata, sul presupposto che il nuovo istituto è applicabile solo ai falliti il cui fallimento si venga a chiudere dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, denuncia «la disparità di trattamento creata fra imprenditori il cui fallimento si è chiuso dopo l'entrata in vigore della legge e gli imprenditori il cui fallimento si è chiuso anteriormente». La questione è tuttora pendente dinanzi alla Corte costituzionale. Tuttavia, è possibile muovere alcune osservazioni critiche alla citata ordinanza di rimessione. In via preliminare, essa sembra affetta da vizi tali da rendere inammissibile la questione. Innanzitutto, appare contraddittorio, da una parte, denunciare l’incostituzionalità per irragionevolezza della norma e, dall’altro, pretendere di applicarla a casi che (ratione temporis) sono fuori della sua sfera di applicazione. In secondo luogo, se è vero, com’è vero, che non vi è alcuna norma o principio costituzionale che vieti al legislatore ordinario di prevedere ipotesi di «cancellazione dei debiti», la denuncia di irrazionalità dell’istituto in sé, senza valutarlo nel contesto normativo in cui è inserito (la disciplina del fallimento), finisce per sconfinare in una censura basata su di una «valutazione di natura politica» e risolversi nella richiesta di un «sindacato sull’uso del potere discrezionale» del legislatore, che è precluso al giudice delle leggi (art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87, “Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale”). In terzo luogo, la censura per disparità di trattamento fra debitori falliti o assoggettabili a fallimento e debitori non falliti o non assoggettabili a fallimento appare irrilevante, posto che nel caso di specie si tratta di decidere se concedere o meno l’esdebitazione ad un ex-imprenditore fallito, ossia ad un soggetto compreso nell’ambito soggettivo di applicabilità della norma censurata (art. 142) e non già ad un soggetto escluso. Infine, quanto alla subordinata, il giudice rimettente sembra essere incorso in un’aberratio ictus: non è la norma impugnata (art. 142) che esclude l’applicabilità del beneficio ai falliti il cui fallimento si sia chiuso anteriormente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, poiché essa si limita a stabilire le condizioni (sostanziali) di concedibilità dell’esdebitazione sul presupposto della applicabilità della nuova normativa (e nemmeno potrebbe tirarsi in ballo l’art. 143, il quale, a sua volta, stabilisce le regole procedurali, che debbono comunque essere osservate per ogni domanda di esdebitazione, ancorché il beneficio sia non concedibile per essere il fallimento dell’istante stato chiuso prima dell’entrata in vigore della nuova normativa); l’applicabilità dell’istituto alle sole procedure fallimentari posteriori all’entrata in vigore del predetto d.lgs., e non anche alle procedure anteriori, discende, invece, dalla regola (concernente la successione delle leggi nel tempo) per la quale «la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo» (art. 11 preleggi); sicché la denuncia d’incostituzionalità avrebbe dovuto, semmai, avere ad oggetto l’art. 150 del medesimo d.lgs., che detta una disciplina transitoria e, non derogando a quella regola di diritto intertemporale, rende non applicabile l’esdebitazione a quei falliti. 3 3.2. Quanto alla carenza del presupposto oggettivo del fallimento, invece, pare evidente che è ben giustificabile la diversità di trattamento tra debitore insolvente e debitore non insolvente, poiché il debitore che è in grado di pagare si trova in una situazione diversa da quella del debitore insolvente e non avrebbe senso rendere accessibile al primo un beneficio che presuppone l’incapienza del patrimonio responsabile. 4. Non sembra possano esserci dubbi che la norma si riferisca sia all’imprenditore dichiarato fallito in proprio, sia al socio illimitatamente responsabile di società appartenente ad uno dei tipi regolati nei capi III, IV e VI del titolo quinto del codice civile, il quale, a norma dell’art. 147, è dichiarato fallito per via di “estensione” del fallimento della società. 5. Quanto alla delimitazione dell’ambito soggettivo di applicabilità dell’istituto alla «persona fisica» e, quindi, alla esclusione dal beneficio per tutte le società e gli altri enti assoggettabili a fallimento, va rilevato che la norma si spiega per il fatto che a seguito del fallimento e della liquidazione dell’intero patrimonio non vi è più concreto interesse da salvaguardare alla continuazione dell’attività del soggetto collettivo, potendo le persone fisiche che ne fanno parte costituire una nuova società o un nuovo ente, che nascerà senza il peso dei residui debiti. D’altro canto, l’art. 118, secondo comma, prevede che, a seguito della chiusura del fallimento, ove si tratti di una società, «il curatore ne chiede la cancellazione dal registro delle imprese», con il che la società si estingue e si estinguono, altresì, tutte le residue obbligazioni sociali (artt. 2312 e 2495 c.c.). Il nuovo testo dell’or citato art. 118, risultante dal “decreto correttivo”, precisa, ora, che il curatore chiede la cancellazione dal registro delle imprese della società fallita solo «nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4)»7: e il caso di cui al n. 3 (compiuta ripartizione finale dell’attivo) è proprio quell’unica, tra le ipotesi di chiusura del fallimento ex art. 118, che costituisce il presupposto dell’esedebitazione, come si passa sùbito a dire. 3. Presupposto. 1. Presupposto della esdebitazione è la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione finale dell’attivo ovvero per concordato. 2. Che non si possa avere esdebitazione senza la preventiva chiusura del fallimento si evince non solo dalla disposizione secondo cui il tribunale pronuncia la esdebitazione con il decreto di chiusura del fallimento o con separato provvedimento entro l’anno successivo (art. 143, primo comma), ma soprattutto dalla disposizione che individua il contenuto del beneficio nella «liberazione dai debiti residui» (art. 142, primo comma) e da quella che individua il dispositivo del provvedimento di esdebitazione nella Nel merito: a) quanto all’asserita irrazionalità dell’istituto, si può osservare che esso trova la sua giustificazione razionale proprio nella nuova disciplina del fallimento, di cui è parte integrante, come meglio si dirà più avanti nel testo; b) quanto all’asserita disparità di trattamento fra debitori falliti e non, è evidente che è proprio la dichiarazione di fallimento a differenziare la posizione degli uni e degli altri; c) quanto alla prospettata disparità fra debitori assoggettabili a fallimento (perché imprenditori commerciali “non piccoli”) e debitori non assoggettabili a fallimento (perché non imprenditori, o perché non imprenditori commerciali, o perché “piccoli” imprenditori), è indiscutibile la discrezionalità del legislatore nel determinare i requisiti soggettivi di assoggettabilità a fallimento; d) quanto, infine, alla lamentata disparità di trattamento tra falliti, a seconda dell’epoca di chiusura della procedura fallimentare (rectius: a seconda della data di apertura della procedura: v. infra, § 9), non può trascurarsi che il nuovo istituto, come si è anticipato e si dirà meglio più avanti, è parte integrante della nuova disciplina del fallimento, per cui ben si giustifica che esso possa trovare applicazione solo in correlazione con le procedure rette dalla nuova legge e non anche con le procedure che devono essere definite «secondo la legge anteriore» (art. 150 cit.). 7 La norma era già interpretabile nel senso ora recepito e fatto palese dalla disposizione del “correttivo”. 4 dichiarazione di inesigibilità dei «debiti concorsuali non soddisfatti integralmente» (stesso art. 143, primo comma), atteso che, finché il fallimento è in corso, è possibile il soddisfacimento (o l’ulteriore soddisfacimento) dei creditori e non può stabilirsi, quindi, se vi siano e quali siano i «debiti residui» e se e in che misura essi siano «non soddisfatti». 2.1. Che alla esdebitazione possa farsi luogo solo nel caso di chiusura del fallimento per compiuta ripartizione finale dell’attivo (art. 118, n. 3), e non anche in alcuno degli altri casi di chiusura elencati nell’art. 118, si evince dalla disposizione secondo cui essa «non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali» (art. 142, secondo comma). Ciò vuol dire che perché sia concessa l’esdebitazione occorre che nel fallimento si pervenga al soddisfacimento dei creditori concorsuali, ma tale soddisfacimento deve essere solo parziale; perché se non ci fosse affatto, la esdebitazione sarebbe vietata; se, invece, fosse integrale non ci sarebbero «debiti concorsuali non soddisfatti integralmente» che possano essere dichiarati «inesigibili». Infatti: a) se il fallimento si chiude per mancata proposizione di domande di ammissione al passivo (art. 118, n. 1), non può esserci alcuna soddisfazione dei creditori concorsuali, in quanto essa presuppone che dei creditori concorsuali (almeno uno) siano stati ammessi; b) in caso di chiusura per integrale pagamento o estinzione dei crediti ammessi, non vi sono «debiti residui» che possano essere dichiarati inesigibili, perché tali sono solo i debiti ammessi non soddisfatti integralmente (se non fossero ammessi non potrebbero essere soddisfatti nel fallimento, se invece già soddisfatti o altrimenti estinti, non potrebbero divenire inesigibili); c) in caso di chiusura per insufficienza di attivo («quando nel corso della procedura si accerta che la sua prosecuzione non consente di soddisfare, neppure in parte, i creditori concorsuali, né i crediti prededucibili e le spese di procedura»: art. 118, n. 4), si verifica proprio l’ipotesi in cui l’esdebitazione è espressamente vietata dall’art. 142, secondo comma («l’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali»). Resta, in conclusione, solo il caso in cui il fallimento si chiude per compiuta ripartizione finale dell’attivo (art. 118, n. 3), che si ha propriamente quando con il riparto finale i crediti ammessi non vengono tutti interamente soddisfatti. 3. Come risulta dall’art. 124, quarto comma, può farsi luogo alla pronuncia di esdebitazione anche in caso di concordato fallimentare. Ciò precisamente quando la proposta di concordato sia stata presentata da un terzo assuntore, che abbia limitato «gli impegni assunti con il concordato ai soli creditori ammessi al passivo, anche provvisoriamente, e a quelli che hanno proposto opposizione allo stato passivo o domanda di ammissione tardiva al tempo della proposta». Poiché, in tal caso, «verso gli altri creditori continua a rispondere il fallito», questi – chiuso il fallimento a seguito dell’omologazione del concordato (art. 130) – può ottenere l’esdebitazione nei loro confronti, ma «per la sola eccedenza rispetto a quanto i creditori avrebbero avuto diritto di percepire nel concorso» (art. 144). In altri termini, l’obbligo del fallito è ridotto alla percentuale promessa dall’assuntore, che i creditori non concorrenti sarebbero stati legittimati ad esigere da quest’ultimo, se si fossero insinuati. 4. Condizioni soggettive. 1. Le condizioni, subordinatamente alle quali può essere pronunciata l’esdebitazione, sono elencate nell’art. 142, primo comma. 5 Si tratta di condizioni di carattere soggettivo, in quanto attengono alla condotta del fallito, sia nel corso che prima della procedura fallimentare; alcune richiedono una mera constatazione obiettiva, altre implicano una valutazione di merito, più o meno discrezionale, da parte del tribunale. 2. Esse non sono alternative, ma debbono tutte insieme sussistere, perché il beneficio possa essere concesso, come chiaramente risulta dall’art. 143, primo comma («verificate le condizioni di cui all’articolo 142»). 2.1. La prima condizione consiste nel fatto che il fallito «abbia cooperato con gli organi della procedura, fornendo tutte le informazioni e la documentazione utile all’accertamento del passivo e adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni» (art. 142, primo comma, n. 1). Si tratta di comportamenti che il fallito deve aver tenuto durante la procedura e non anche prima di essa, come risulta dalla indicazione dei destinatari della cooperazione richiesta al fallito: gli organi della procedura. Ciò implica il rispetto di specifiche prescrizioni della legge, quali quelle contenute negli artt. 16, secondo comma, n. 3; 41, quinto comma; 49; 86, primo comma; 87, terzo comma; 89, primo comma (in combinato disposto con l’art. 49, secondo comma). Oltre agli adempimenti di cui innanzi, la norma sembra richiedere ulteriori comportamenti collaborativi del fallito, solo genericamente indicati con l’espressione «adoperandosi per il proficuo svolgimento delle operazioni»: tali comportamenti, che potranno essere evidenziati solo caso per caso, sono rimessi ad una valutazione discrezionale del tribunale, il quale potrà orientarsi soprattutto sulla base delle relazioni del curatore. Sono da ricomprendere fra di essi i comportamenti collaborativi al fine della più completa acquisizione dell’attivo fallimentare. 2.2. La seconda condizione è che il fallito «non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura» (art. 142, primo comma, n. 2). Si tratta anche qui di un comportamento descritto in maniera generica, ma con formulazione negativa: la norma, cioè, sembra porre a carico del fallito un dovere (onere) di astensione da atti che intralcino il corso della procedura. La norma prende in considerazione soprattutto comportamenti commissivi del fallito, attribuendo ad essi valenza ostativa alla concessione del beneficio. Sotto questo aspetto, la verifica della sussistenza della condizione in parola appare essere, il più delle volte, alquanto agevole e immediata, bastando acclarare che il fallito non abbia compiuto atti ostruzionistici. La genericità della descrizione della fattispecie finisce per assegnare, ancora una volta, al tribunale ampio potere valutativo nel caso concreto, nell’esercizio del quale potere non può trascurarsi il rilievo dell’elemento soggettivo: deve, cioè, trattarsi di un comportamento del fallito che non solo oggettivamente abbia causato o contribuito a causare un ritardo nello svolgimento della procedura, ma che sia stato intenzionale o quanto meno colposo. La disposizione parla di «svolgimento della procedura» e perciò essa non si riferisce all’apertura della procedura: vale a dire non comprende anche l’eventuale ritardo del debitore nel “portare i libri in tribunale”, ossia nel presentare il ricorso per la dichiarazione del suo fallimento (artt. 6, 14). 2.3. La terza condizione consiste nel fatto che il fallito «non abbia violato le disposizioni di cui all’articolo 48» (art. 142, primo comma, n. 3). Tale articolo 48 (“Corrispondenza diretta al fallito”) stabilisce che il fallito è tenuto «a consegnare al curatore la propria corrispondenza di ogni genere, inclusa quella elettronica, riguardante i rapporti compresi nel fallimento». 6 Va notato che la preclusione della esdebitazione costituisce l’unica sanzione a presidio dell’obbligo predetto. 2.4. La quarta condizione è che il fallito «non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta» (art. 142, primo comma, n. 4). La disposizione vuole evitare che il fallimento sia ripetutamente utilizzato come mezzo per liberarsi comodamente delle proprie obbligazioni. Il termine di dieci anni ha come dies ad quem espressamente stabilito quello della data della «richiesta», ossia della domanda, rivolta al tribunale, al fine di ottenere la concessione del beneficio; il dies a quo, invece, è indicato come quello del conseguimento della precedente esdebitazione, il che fa pensare non alla data in cui il provvedimento è stato emesso, bensì a quella in cui è divenuto inoppugnabile e, quindi, efficace (ex art. 741, primo comma, c.p.c.), posto che solo in tal momento l’esdebitazione diviene operativa. 2.5. La quinta condizione è data da ciò, che il fallito «non abbia distratto l’attivo o esposto passività insussistenti, cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari o fatto ricorso abusivo al credito» (art. 142, primo comma, n. 5). Si tratta di comportamenti che riecheggiano le fattispecie penali di cui agli artt. 216, 217, 218 e 220. Quanto all’aver «fatto ricorso abusivo al credito», la norma non contiene alcuna autonoma descrizione della condotta, ma rinvia implicitamente all’art. 218, il quale, proprio sotto la rubrica “Ricorso abusivo al credito”, punisce «gli amministratori, i direttori generali, i liquidatori e gli imprenditori esercenti un’attività commerciale che ricorrono o continuano a ricorrere al credito, […] dissimulando il dissesto o lo stato d’insolvenza». Tale condotta ostativa alla esdebitazione, pertanto, sembra consistere, sotto il profilo oggettivo, in qualunque operazione “a credito”, ossia che comporti il ricevere una prestazione senza immediata controprestazione, accompagnata dalla “dissimulazione”, vale a dire dall’occultamento (in qualunque modo realizzato) del proprio stato di insolvenza, e, sotto il profilo soggettivo, dalla consapevolezza di tale stato e dalla volontà non solo di compiere l’operazione economica, ma altresì di tener celato alla controparte il dissesto. Quanto agli altri comportamenti ostativi all’esdebitazione, va osservato che non vi è perfetta coincidenza fra la formulazione della disposizione in esame e la descrizione delle fattispecie contenuta nelle altre citate norme incriminatici. Tenuto conto della finalità “premiale” dell’istituto in esame, tesa a favorire solo il fallito veramente “meritevole” per aver tenuto una condotta irreprensibile rivolta a salvaguardare l’interesse dei creditori, si può sostenere che i comportamenti qui contemplati non vadano necessariamente identificati nelle fattispecie descritte nell’art. 216 e nelle altre norme che prevedono reati fallimentari. In particolare, ciò significa, quanto alla “distrazione dell’attivo”, che di essa il legislatore della riforma ha dato una nozione propria, che non può esaurirsi nel concetto penalistico, ma risulta comprensiva di ogni atto o comportamento che abbia determinato, senza giustificazione, la sottrazione di uno o più beni del fallito alla garanzia generica dei creditori o la violazione della par condicio creditorum. Possono, dunque, rientrare in tale ampia nozione non solo tutte le condotte descritte nell’art. 216, primo comma, n. 1, prima parte (distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione e dissipazione), ma anche eventuali altre. Inoltre, non è certo necessario che, qualora si tratti di una condotta corrispondente a una delle fattispecie previste dalla citata 7 norma incriminatrice, sussistano le condizioni perché si possa pronunciare condanna penale: in altri termini, ove nel fatto siano ravvisabili gli estremi del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, occultamento, dissimulazione, distruzione o dissipazione e non possa procedersi perché il reato è estinto per prescrizione o amnistia, ciò nondimeno sussisterà l’impedimento alla concessione del beneficio della esdebitazione. Ancora, quanto al comportamento del fallito che abbia «cagionato o aggravato il dissesto rendendo gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari», la disposizione sembra porre l’accento sugli atti che abbiano reso «gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari»: tali atti non sono meglio precisati, sicché possono consistere – tenendo presenti (ma non esaustivamente) le condotte descritte negli artt. 216, primo comma, n. 2, e 217, primo comma, n. 4, e secondo comma – nella sottrazione, distruzione o falsificazione dei libri o delle altre scritture contabili, ovvero nella mancata o incompleta o irregolare tenuta della contabilità, sempre ché tali comportamenti – i primi dei quali possono essere stati posti in essere anche dopo l’apertura della procedura fallimentare – abbiano per conseguenza quella di rendere «gravemente difficoltosa la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari»; ovvero ancora in ogni altro atto doloso o colposo8 che produca la medesima conseguenza. 2.6. La sesta condizione consiste nel non essere il fallito «stato condannato con sentenza passata in giudicato per bancarotta fraudolenta o per delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio, e altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa, salvo che per tali reati sia intervenuta la riabilitazione» (art. 142, primo comma, n. 6). Una condanna di primo o anche di secondo grado, non ancora divenuta irrevocabile con il passaggio in giudicato, non determina il rigetto della domanda di esdebitazione, ma è causa di necessaria sospensione del relativo procedimento, così come già il solo inizio dell’azione penale. Infatti, la disposizione in esame ha cura di precisare che «se è in corso il procedimento penale per uno di tali reati, il tribunale sospende il procedimento fino all’esito di quello penale». Va, tuttavia, considerato che un medesimo comportamento del fallito potrebbe integrare sia la condizione di cui al n. 5 sia quella di cui al n. 6 dell’art. 142, primo comma, e si pone, quindi, un problema di coordinamento. Posto che il giudice civile, cui è chiesta la esdebitazione, può autonomamente accertare e valutare il fatto, non sembra che, ove per quel medesimo fatto sia in corso il procedimento penale, si debba far luogo alla sospensione, se già risulta integrata la condizione di cui al n. 5. Quanto ai reati presi in considerazione, si può osservare che, mentre il delitto di bancarotta fraudolenta è sicuramente identificabile con quello previsto dall’art. 216 (“Bancarotta fraudolenta”), i delitti «contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio» sono da identificare non solo nei delitti previsti dal titolo VIII del libro secondo del codice penale (“Dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio”: artt. 499 e seguenti), ma in tutti i delitti che si risolvono nella lesione degli stessi interessi protetti dalle norme incriminatrici contenute in quel titolo: tali delitti possono, dunque, essere anche quelli previsti da leggi speciali. La nuova disposizione non contempla i delitti contro il patrimonio e la fede pubblica, ma estende la rilevanza ostativa all’esdebitazione a tutti gli «altri delitti compiuti in connessione con l’esercizio dell’attività d’impresa». Tali reati non sono individuati con 8 Per esempio, la perdita colposa della contabilità. 8 riferimento al loro oggetto giuridico (ossia al bene-interesse protetto dalla norma incriminatrice), ma in base al legame che concretamente sussiste con l’attività economica esercitata dal fallito. Possono, perciò, essere delitti contro il patrimonio o la fede pubblica o anche altri delitti, purché si riscontri nel caso concreto una “connessione” con l’esercizio dell’impresa. Sembra che per “connessione” debba intendersi un legame di presupposizione o di strumentalità, di guisa che il reato presupponga l’attività d’impresa, senza della quale non avrebbe potuto essere commesso, ovvero sia servito a svolgere o ad agevolare l’attività d’impresa. E’ da escludere, invece, un nesso di mera occasionalità (come nel caso di delitto commesso nei locali dell’impresa, senza altro legame con l’attività economica). In ogni caso, parlando la norma specificamente di «delitti» e non genericamente di «reati», i quali si distinguono in «delitti» e «contravvenzioni» (art. 39 c.p.), queste ultime non sono rilevanti. 5. Condizione oggettiva. 1. L’art. 142 pone, al secondo comma, una ulteriore condizione, di carattere oggettivo, senza la quale il beneficio non è concedibile: «L’esdebitazione non può essere concessa qualora non siano stati soddisfatti, neppure in parte, i creditori concorsuali». Da tale disposizione si evince che il beneficio è subordinato al soddisfacimento almeno parziale di tutti i creditori concorrenti, privilegiati o chirografari che siano. Si è già visto come l’esdebitazione presupponga la chiusura del fallimento per compiuta ripartizione finale dell’attivo; si deve ora precisare che la ripartizione deve risultare utile per tutti i creditori ammessi al passivo e, quindi, tradursi nel pagamento almeno di una percentuale (sia pure minima) di tutti i crediti concorrenti. Se tutti i creditori ammessi fossero interamente pagati, mancherebbe il presupposto stesso della esdebitazione, la quale presuppone che, chiuso il fallimento, vi siano ancora «debiti residui». Se alcuni dei creditori ammessi non ricevessero alcunché dal riparto, non potrebbe dirsi adempiuta la condizione di cui all’art. 142, secondo comma, giacché questo esige che siano soddisfatti «i creditori concorsuali», con ciò evidentemente facendo riferimento a tutti i creditori che hanno diritto di essere soddisfatti nel fallimento, ossia tutti i creditori concorrenti. L’espressione «neppure in parte» si riferisce, dunque, non già al numero dei creditori che ricevono qualcosa, ma alla “parte” di soddisfacimento che i creditori ricevono (nel senso, cioè, che tutti sono almeno in parte soddisfatti). Conferma di ciò si trae dalla disposizione dell’art. 143, primo comma, secondo cui il tribunale dichiara inesigibili «i debiti non soddisfatti integralmente», il che vuol dire che tali debiti debbono essere stati soddisfatti parzialmente e debbono essere tutti quelli aventi titolo al soddisfacimento. Infatti, non si può pensare che la pronuncia riguardi solo, tra i debiti che debbono essere soddisfatti nel fallimento, quelli «non soddisfatti integralmente» e non anche i debiti per nulla soddisfatti: dovendo la pronuncia, che il tribunale è chiamato ad emettere, consistere nella dichiarazione di inesigibilità dei «debiti non soddisfatti integralmente» (e non già dei «debiti non soddisfatti»), e dovendo riguardare tutti i «debiti residui» (art. 142, primo comma, prima parte), è giocoforza concludere che essa è possibile solo se tutti tali debiti da dichiarare inesigibili siano stati tutti parzialmente soddisfatti e non è, viceversa, possibile qualora vi siano debiti per nulla soddisfatti, come appunto stabilisce l’art. 142, secondo comma. 9 In conclusione, la condizione oggettiva di cui all’art. 142, secondo comma, implica che l’esdebitazione è concedibile solo in presenza di un piano di riparto finale dell’attivo, in cui siano utilmente collocati tutti i creditori ammessi al passivo, quale che sia la percentuale attribuita. 2. Non è richiesto affatto il pagamento integrale dei crediti privilegiati, né è prevista una misura minima di soddisfacimento dei crediti concorrenti (privilegiati o chirografari che siano), sicché anche un dividendo di scarsissimo valore economico deve essere ritenuto sufficiente. 6. Esclusioni. 1. Il comma terzo dell’art. 142 – nel testo di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 – stabilisce che restano esclusi dall’esdebitazione: «a) gli obblighi di mantenimento e alimentari e comunque le obbligazioni derivanti da rapporti non compresi nel fallimento ai sensi dell’articolo 46; «b) i debiti per il risarcimento dei danni da fatto illecito extracontrattuale nonché le sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario che non siano accessorie a debiti estinti». La lettera a) del citato comma terzo è stata modificata dal “decreto correttivo”, disponendosi la sostituzione delle parole «non compresi nel fallimento ai sensi dell’articolo 46» con le seguenti: «estranei all’esercizio dell’impresa» (art. 10, comma 1). 2. Gli «obblighi di mantenimento e alimentari» scaturiscono da rapporti di natura familiare o da vincoli solidaristici, che giustificano, anche in riferimento a valori costituzionalmente protetti, il permanere dei correlativi crediti, in caso di liberazione del fallito dagli altri debiti residui. 3. Le «obbligazioni derivanti da rapporti non compresi nel fallimento ai sensi dell’articolo 46», contemplate nel testo del 2006, suscitano qualche perplessità, poiché l’art. 46 prevede «beni non compresi nel fallimento», dunque solo situazioni giuridiche soggettive attive, non anche obbligazioni. Si può pensare ad obbligazioni connesse ai predetti «beni»: ad esempio, il debito per canoni di locazione della casa di abitazione condotta dal fallito, maturati prima della dichiarazione di fallimento. Tale interpretazione sembra in accordo con la nuova formulazione del 2007 («obbligazioni derivanti da rapporti estranei all’esercizio dell’impresa»), la quale è sicuramente più precisa e, tuttavia, di maggiore ampiezza. Vi rientrano non solo le obbligazioni in qualche modo riconducibili alle situazioni elencate nell’art. 46, ma tutte quelle che non sono in alcun modo pertinenti all’esercizio dell’impresa. Si tratta di rapporti instaurati dal fallito non in quanto imprenditore, ma come un qualunque privato, sicché è parso giusto che la loro sorte non resti influenzata dalla vicenda fallimentare, scaturita, appunto, dall’esercizio dell’impresa9. L’esclusione appare ragionevole e costituzionalmente corretta ex art. 3 Cost., poiché i creditori che sono tali per rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa hanno fatto credito all’imprenditore in considerazione della sua attività economica, ed è giustificato, pertanto, che essi possano risentire dell’esito infausto dell’iniziativa del debitore, finendo, così, per partecipare, in un certo senso, al “rischio d’impresa” (con la perdita del credito residuo, una volta esaurita ogni possibilità di recupero attraverso al liquidazione fallimentare); il che non può dirsi per i creditori che sono tali per rapporti estranei. 9 Nella Relazione ministeriale si dice che la modifica ha lo «scopo di individuare più appropriatamente taluni debiti per i quali l’esdebitazione non è ragionevolmente giustificabile». 10 La nuova disposizione potrà, in particolare, trovare applicazione nei confronti di soci illimitatamente responsabili dichiarati falliti in “estensione” del fallimento sociale ex art. 147: infatti, chiuso il fallimento della società per compiuta ripartizione dell’attivo (art. 118, n. 3) o per insufficienza di attivo (art. 118, n. 4), la società deve essere cancellata dal registro delle imprese su istanza del curatore (art. 118, secondo comma, primo periodo, che, nella nuova versione risultante dal “correttivo”, fa espresso riferimento ai predetti casi di chiusura, ma che era già prima da interpretare nel senso di cui alla nuova formulazione) e con ciò essa si estingue; sopravvivono, però, le obbligazioni dei soci nei confronti dei creditori sociali e i fallimenti dei soci medesimi proseguono (come testualmente risulta ora dall’art. 118, secondo comma, secondo periodo, che pure già prima nel “correttivo” era da interpretare nel senso da questo ora recepito e palesato); sicché, in caso, poi, di chiusura del fallimento del singolo socio (persona fisica) per compiuta ripartizione dell’attivo, ove si faccia luogo alla sua esdebitazione (nel concorso delle condizioni di cui all’art. 142), la pronuncia liberatoria avrà l’effetto di rendere «inesigibili» (ossia, per quanto si dirà più avanti, estinguere) i soli debiti residui per obbligazioni sociali, non anche i debiti personali del socio fallito, i quali debiti, perciò, in quanto «estranei all’esercizio dell’impresa», continueranno a gravare su di lui per la parte non soddisfatta (salvo che si tratti di debiti personali inerenti all’esercizio di una distinta impresa commerciale esercitata in proprio dal socio quale imprenditore individuale). La nuova disposizione si applica, però, solo «alle procedure concorsuali […] aperte successivamente alla […] entrata in vigore» del “decreto correttivo” (art. 22, comma 2), ossia a far data dal 1° gennaio 2008 (art. 22, comma 1). Ciò potrebbe far sorgere un dubbio di illegittimità costituzionale per disparità di trattamento fra crediti per rapporti estranei all’esercizio dell’impresa esclusi o non dall’esdebitazione per il solo fatto che la procedura fallimentare sia stata aperta prima o dopo quella data. 4. L’esclusione di cui alla lettera b) abbraccia tutte le obbligazioni derivanti da fatti illeciti, siano questi civili, penali o amministrativi, e trova evidentemente giustificazione nella comune funzione sanzionatoria di esse. 7. Il procedimento di esdebitazione. Decisione. Effetti. 1. L’art. 143 regola molto succintamente il «procedimento di esdebitazione». 1.1. La norma ammette, innanzitutto, che esso possa svolgersi in un tutt’uno con il procedimento di chiusura del fallimento, prevedendo che la pronuncia di esdebitazione sia data proprio «con il decreto di chiusura del fallimento». Ma, sebbene possa in concreto non avere una propria distinta evidenza, il procedimento in questione resta, comunque, sul piano giuridico-formale distinto da quello che porta alla cessazione della procedura fallimentare. Si tratta di un procedimento di tipo camerale, secondo il modulo delineato negli artt. 737 e seguenti c.p.c. 1.2. Il tribunale fallimentare, ossia quello che ha dichiarato il fallimento, è sicuramente l’unico giudice competente a pronunciare la esdebitazione. 1.3. Quanto all’iniziativa, l’art. 143 nulla dice per il caso in cui l’esdebitazione sia pronunciata con il decreto di chiusura, mentre per il caso in cui ciò non avvenga, prevede che la pronuncia sia data «su ricorso del debitore». Il decreto di chiusura, a norma dell’art. 119, può essere emesso «su istanza del curatore o del debitore ovvero di ufficio». Non sembra dubbio, però, che per pronunciare l’esdebitazione occorra sempre un’apposita domanda e che questa debba provenire dal 11 fallito: pur quando la pronuncia sia contenuta nel decreto di chiusura, essa costituisce un provvedimento a sé stante, solo documentalmente inglobato nel medesimo decreto. Vale, dunque, per esso il generale principio della domanda di parte (artt. 99 c.p.c. e 2907, primo comma, c.c.), ribadito per i procedimenti in camera di consiglio dall’art. 737 c.p.c. («I provvedimenti, che debbono essere pronunciati in camera di consiglio, si chiedono con ricorso al giudice competente […], salvo che la legge disponga altrimenti»), cui la normativa speciale in esame non porta alcuna deroga. Detta normativa fornisce, anzi, univoche indicazioni nel senso della imprescindibilità della domanda, in ogni caso: laddove esige che il fallito «non abbia beneficiato di altra esdebitazione nei dieci anni precedenti la richiesta» (art. 142, primo comma, n. 4); laddove prevede che l’esdebitazione possa essere concessa anche successivamente al decreto di chiusura «su ricorso del debitore» (art. 143, primo comma); laddove consente il reclamo «contro il decreto che provvede sul ricorso» (art. 143, secondo comma); e, infine, laddove stabilisce che «il decreto di accoglimento della domanda di esdebitazione produce effetti anche nei confronti dei creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo» (art. 144). In nessun caso, pertanto, l’esdebitazione può essere pronunciata d’ufficio. 1.4. Che la legittimazione a chiedere spetti in via esclusiva al fallito (e non anche al curatore o ad altri) non solo è desumibile dalla già citata disposizione dell’art. 143, primo comma (che espressamente parla di «ricorso del debitore»), ma discende dal principio generale, per cui un provvedimento giurisdizionale non può essere pronunciato se non su domanda della parte interessata, ossia del soggetto nella cui sfera giuridica il provvedimento è destinato a incidere favorevolmente, producendo i suoi effetti giuridici diretti, salvo che la legge disponga altrimenti (arg. ex art. 81 c.p.c. – a tenor del quale, «fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui» –, coordinato con gli artt. 99, 737 c.p.c., 2907 c.c.). In caso di morte del fallito, non sembra dubbio che la legittimazione passi ai suoi eredi. 1.5. La richiesta, se avanzata dopo la pronuncia del decreto di chiusura del fallimento, è soggetta a un termine di decadenza: il ricorso del debitore, infatti, deve essere «presentato entro l’anno successivo» (art. 143, primo comma). E’ da ritenere che tale termine non possa cominciare a decorrere se non dal momento in cui il decreto di chiusura diviene efficace, ossia da quando esso diviene inoppugnabile. 1.6. Quanto alla legittimazione passiva, la disciplina in esame non prevede alcun soggetto nei cui confronti la domanda debba essere proposta. Tale non è il curatore, né il comitato dei creditori, benché il tribunale, prima di provvedere, debba aver «sentito» l’uno e l’altro, a norma dell’art. 143. Ma la loro audizione è, evidentemente, un’attività puramente istruttoria e non già richiesta ai fini del contraddittorio. Infatti, la norma non prevede la notificazione della domanda a detti organi della procedura fallimentare. D’altro canto, essi non sono i soggetti nella cui sfera giuridica il provvedimento di esdebitazione viene a incidere sfavorevolmente, non essendo essi i titolari dei crediti che vengono ad essere dichiarati inesigibili. Nel procedimento di primo grado non vi è, dunque, alcun legittimo contraddittore, che debba essere necessariamente chiamato a partecipare al procedimento medesimo, il quale, perciò, è configurato dalla legge come un procedimento unilaterale, ossia «in confronto di una parte sola». Sorge, allora, immediato il dubbio di illegittimità costituzionale della norma in esame per violazione del diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.) e dei principi costituzionali del contraddittorio e della “parità delle armi” (art. 111, secondo comma, 12 Cost.): la norma, infatti, delinea un procedimento giurisdizionale in cui non è assicurata ai soggetti nei cui confronti il provvedimento è destinato a produrre effetti sfavorevoli la possibilità di far valere le proprie ragioni e di contrastare le pretese avversarie, svolgendo attività difensiva su di un piano di parità rispetto alla parte istante10. 10 Cfr. Corte cost., ord., 20 maggio 1999, n. 183, la quale, riguardo al procedimento dinanzi al Consiglio nazionale forense di impugnazione del provvedimento di rigetto della domanda di iscrizione all’albo professionale, ha osservato che «la asserita natura giurisdizionale del procedimento che vi si svolge comporta comunque che esso sia indefettibilmente improntato al rispetto delle garanzie minime del contraddittorio; che la prima e fondamentale di tali garanzie consiste nella necessità che tanto l’attore, quanto il contraddittore, partecipino o siano messi in condizione di partecipare al procedimento; che, nei giudizi dinanzi al Consiglio nazionale forense, è parte necessaria il Consiglio dell’ordine il cui provvedimento è sottoposto a reclamo; che, pertanto, il Consiglio dell’ordine deve essere messo in condizione di prender parte al giudizio, almeno mediante l’esecuzione degli adempimenti di cui agli artt. 60 e 61 del regio decreto 22 gennaio 1934, n. 37 (Norme integrative e di attuazione del regio d.-l. 27 novembre 1933, n. 1578 sull’ordinamento della professione di avvocato); che, nel caso di specie, non risulta che i singoli Consigli dell’ordine, autori dei provvedimenti impugnati, siano stati regolarmente avvisati né dell’avvenuto deposito del ricorso, né dell’avvenuta fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 61 testé richiamato; che il mancato compimento dell’attività minima necessaria a porre le parti in rapporto fra loro (e con il giudice) determina un’abnormità del procedimento rilevabile ictu oculi». Cfr., altresì, Corte cost., sent., 23 giugno 1994, n. 253, secondo cui: «[…] in un processo come quello civile, in cui per definizione le parti si contrappongono in posizione paritaria, il principio sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, implica necessariamente la piena uguaglianza delle parti stesse dinanzi al giudice ed impone al legislatore di disciplinare la distribuzione di poteri, doveri ed oneri processuali secondo criteri di pieno equilibrio. L'equivalenza nell'attribuzione dei mezzi processuali esperibili dalle parti (salvo che la particolarità di tutela della situazione dedotta in giudizio, come una disparità delle condizioni materiali di partenza, giustifichi una disciplina differenziata: cfr. ad es. sentenza n. 134 del 1994) è in un rapporto di necessaria strumentalità con le garanzie di azione e di difesa sancite dall'art. 24 della Costituzione, sì che una distribuzione squilibrata dei mezzi di tutela, riducendo la possibilità di una delle parti di far valere le proprie ragioni, condiziona impropriamente in suo danno ed a favore della controparte l'andamento e l'esito del processo». La Corte d’appello di Venezia, con ordinanza del 13 luglio 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 143, per contrasto con l’art. 24 Cost., «nella parte in cui, nell’ipotesi che il procedimento di liberazione dai debiti non integralmente soddisfatti sia attivato da istanza prodotta dal debitore entro un anno dalla pronuncia del decreto di chiusura del fallimento, non prevede la necessità della partecipazione al procedimento dei creditori non soddisfatti né prescrive l’assolvimento di formalità idonee a rendere nota ai creditori concorsuali non integralmente soddisfatti la pendenza del procedimento per la dichiarazione di inesigibilità dei detti crediti per la parte non soddisfatta». L’incidente è insorto nel corso di un procedimento su reclamo di un ex-fallito proposto avverso il decreto (del Tribunale ordinario di Vicenza, in data 19 dicembre 2006), che ha rigettato la sua domanda di esdebitazione, sull’assunto della inapplicabilità del nuovo istituto alle procedure fallimentari pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 (16 luglio 2006). La Corte territoriale è orientata, invece, a ritenere applicabile l’istituto alle procedure pendenti a quella data, le quali – come nel caso di specie – vengano chiuse posteriormente, nella vigenza della nuova legge. Tale orientamento è proprio quello che è stato recepito dal “decreto correttivo” (art. 19, su cui v. infra). La questione è tuttora pendente dinanzi alla Corte costituzionale. Tuttavia, si può osservare che l’ordinanza di rimessione presenta alcuni aspetti problematici. Non sembrando dubbia la rilevanza nel giudizio a quo, alla luce della norma transitoria del “correttivo” innanzi citata, il petitum della sollecitazione rivolta alla Corte potrebbe essere ritenuto inidoneo a provocare una pronuncia di merito, sotto due profili: a) perché formulato in termini di alternativa irrisolta fra due soluzioni e, dunque, in forma “ancipite” (auspicandosi dal giudice rimettente che la norma sia “corretta”, nel senso che preveda «la necessità della partecipazione al procedimento dei creditori non soddisfatti» oppure «l’assolvimento di formalità idonee a rendere nota ai creditori concorsuali non integralmente soddisfatti la pendenza del procedimento»); b) perché la pronuncia additiva richiesta non sarebbe a “rime obbligate”, potendosi ipotizzare una pluralità di soluzioni, fra le quali non spetta alla Corte, ma al legislatore, nell’ambito della sua discrezionalità nel conformare gli istituti processuali, di operare la scelta più opportuna. Si vorrebbe, in altre parole, una riscrittura della norma denunciata, che il giudice delle leggi non può fare. 13 1.7. L’attività istruttoria da espletarsi dal tribunale deve consentire allo stesso di verificare «le condizioni di cui all’articolo 142», nonché di valutare i «comportamenti collaborativi» del debitore, di cui deve tener conto, come espressamente prevede l’art. 143, primo comma. Allo scopo, evidentemente, sarà necessaria, in primis, la produzione di documenti da parte dell’istante. Ma il tribunale potrà anche disporre l’acquisizione di ufficio dei documenti che ritenga rilevanti, avvalendosi dei poteri istruttori officiosi, che caratterizzano il procedimento camerale ex art. 738, terzo comma, c.p.c. 1.8. L’art. 143, secondo comma, prescrive che il tribunale pronunci «sentito il curatore ed il comitato dei creditori» e con ciò sembra stabilire l’obbligatorietà dell’audizione di tali organi, la quale non può avere altra finalità che quella istruttoria e serve, dunque, a integrare il materiale informativo, su cui la decisione dovrà essere basata. 2. Una volta «verificate le condizioni di cui all’articolo 142», sulla scorta dei documenti acquisiti e delle informazioni assunte, il tribunale decide sulla domanda del debitore, «tenuto altresì conto dei comportamenti collaborativi del medesimo» (art. 143, secondo comma). 2.1. Il contenuto della pronuncia di accoglimento della domanda è individuato dall’art. 143, primo comma, nella dichiarazione di inesigibilità nei confronti del debitore ex-fallito dei debiti concorsuali non soddisfatti integralmente. Si tratta, evidentemente, di una pronuncia non già meramente dichiarativa, bensì di accertamento costitutivo (art. 2908 c.c.), atteso che in virtù di essa si produce una modificazione della situazione giuridica preesistente, consistente appunto in ciò che i debiti non soddisfatti integralmente divengono «inesigibili». 2.2. Tale “inesigibilità” non è temporanea, ma definitiva, tant’è che il debitore consegue la «liberazione dai debiti residui» (art. 142, primo comma, primo periodo), sicché i creditori concorsuali non possono mai più pretendere alcunché da lui. Ciò equivale a dire che i debiti residui (salvo quelli che «restano esclusi dall’esdebitazione» a norma dell’art. 142, terzo comma) si estinguono irreversibilmente. D’altro canto, nel nostro ordinamento non sembrano concepibili obbligazioni del tutto prive di azione: oltre a tutto, norme di legge che prevedessero diritti senza azione si porrebbero in contrasto con la Costituzione, la quale sembra non ammettere l’esistenza di diritti sostanziali privi di tutela giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.). 2.3. Sembra plausibile ritenere che per la parte estinta delle obbligazioni concorsuali residui un’obbligazione naturale (non già, dunque, un’obbligazione in senso giuridico): il pagamento della differenza rispetto ai debiti originari costituisce per l’ex-fallito un dovere meramente morale e sociale, per il quale la legge non accorda azione, ma esclude la ripetizione di ciò che sia stato spontaneamente pagato (“soluti retentio”: art. 2034 c.c.); Sembra, dunque, prevedibile una declaratoria di inammissibilità della questione (la formulazione «ancipite» della questione «comporta, per costante giurisprudenza» costituzionale, «la manifesta inammissibilità della questione»: così, da ultimo, Corte cost., ord., 20 luglio 2007, n. 316; come pure, per consolidata giurisprudenza costituzionale, è manifestamente inammissibile la questione che si risolve «nella richiesta di un adeguamento a Costituzione che si presenta non a rime obbligate», dovendosi «riconoscere la sussistenza di spazi di valutazione normativa caratterizzati da una elevata discrezionalità legislativa»: così, da ultimo, Corte cost., ord., 19 dicembre 2006, n. 432), a meno che non si intenda la richiesta del giudice rimettente come rivolta ad ottenere una pronuncia di illegittimità costituzionale tout court, meramente caducatoria dell’art. 143, per essere l’intero procedimento, come da esso disciplinato, strutturalmente inidoneo a soddisfare i requisiti minimi indispensabili prescritti dall’art. 24 (nonché dall’art. 111) Cost., ovvero una pronuncia di accoglimento “di principio”, che si limiti a dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma per come essa disciplina il procedimento, rimettendo al legislatore di dettare una nuova disciplina. 14 analogamente a quanto si sostiene avvenga per effetto (“effetto esdebitatorio”) della esecuzione del concordato fallimentare (art. 135, primo comma) o preventivo (art. 184, primo comma). 3. L’efficacia liberatoria della pronuncia è circoscritta al solo debitore fallito: l’art. 142, quarto comma, infatti, fa «salvi i diritti vantati dai creditori nei confronti di coobbligati, dei fideiussori del debitore e degli obbligati in via di regresso». La disposizione importa che i terzi condebitori o garanti non sono liberati, ma rimangono obbligati al pagamento per la parte per la quale il fallito è rimasto esdebitato e non hanno nei confronti di costui alcuna azione di regresso. Ciò non contraddice l’affermazione che l’esdebitazione importa l’estinzione (e non la mera “inesigibilità”) dei «debiti residui» del fallito: infatti, l’obbligazione solidale consta di una pluralità di rapporti obbligatori collegati, ed è concepibile, pertanto, che un rapporto possa estinguersi e altro restare in vita11. Del resto, la solidarietà passiva ha proprio la funzione di rafforzare le aspettative di soddisfacimento del creditore, sicché essa non può venir meno proprio quando serve di più, ossia quando uno dei condebitori è insolvente e il suo fallimento si chiude senza che il creditore sia stato interamente soddisfatto, né appare ragionevole che possa essere vanificata per un beneficio accordato all’insolvente12. 4. Sul lato attivo dei rapporti obbligatori, l’ambito soggettivo di efficacia del provvedimento non è limitato ai creditori ammessi al passivo, ma si estende, per il disposto dell’art. 144, ai «creditori concorsuali non concorrenti» (come recita la rubrica della norma), ossia ai «creditori anteriori alla apertura della procedura di liquidazione che non hanno presentato la domanda di ammissione al passivo». La disposizione vuole evidentemente assicurare la parità di trattamento di tutti i creditori concorsuali. Il medesimo art. 144 – nel testo di cui al d.lgs. n. 5 del 2006 – stabilisce che rispetto ai creditori non insinuati «l’esdebitazione opera per la sola eccedenza rispetto a quanto i creditori avrebbero avuto diritto di percepire nel concorso». Tali creditori, dunque, conservano i loro crediti solo nella misura in cui sarebbero stati soddisfatti se fossero stati ammessi al passivo. Sembra preferibile interpretare la disposizione nel senso che i crediti non insinuati divengono inesigibili nella stessa misura in cui lo divengono i crediti concorrenti di pari grado. Tale interpretazione è stata recepita dal “decreto correttivo” del 2007, il quale ha modificato l’art. 144, primo comma, nel senso che l’esdebitazione per i creditori non insinuati opera per la sola eccedenza rispetto «alla percentuale attribuita nel concorso ai creditori di pari grado» (art. 10, comma 2)13. 11 Cfr., infatti, gli artt. 1300, primo comma, 2^ parte; 1301, primo comma; 1303, primo comma, c.c. Un’ipotesi di estinzione del debito di uno degli obbligati in solido e di permanenza del vincolo obbligatorio degli altri è ricavabile, ora, dal nuovo testo dell’art. 118, secondo comma, secondo periodo, come modificato dal “correttivo”: poiché «la chiusura della procedura di fallimento della società» nei casi di cui ai numeri 3) e 4) – a differenza che nei casi di cui ai numeri 1) e 2) – dello stesso art. 118 non determina «anche la chiusura della procedura estesa ai soci ai sensi dell'articolo 147», ciò vuol dire che, estinguendosi la società con la cancellazione dal registro delle imprese (cancellazione che il curatore deve chiedere proprio «nei casi di chiusura di cui ai numeri 3) e 4)»: stesso art. 118, secondo comma, primo periodo, come ora modificato), si estinguono i residui debiti sociali non soddisfatti, ma non viene meno, per la parte non soddisfatta, la responsabilità illimitata e solidale dei soci «per le obbligazioni sociali» (artt. 2291, primo comma, 2313, primo comma, 2452 c.c.), ossia non si estinguono le obbligazioni solidali di costoro a “garanzia” dei debiti della società, tant’è che i fallimenti dei soci medesimi – a cui i creditori della società partecipano in concorso coi creditori particolari dei soci (art. 148) – devono proseguire. 12 Sicché al riguardo non sembra possano sorgere dubbi di illegittimità costituzionale. 13 Nella Relazione ministeriale si spiega che con la modifica si introduce «una regola più equilibrata e di agevole ed uniforme applicazione circa il trattamento da farsi ai creditori concorsuali non concorrenti». 15 5. Gli effetti, che la pronuncia di esdebitazione è destinata a produrre, sembrano essere tali da aspirare alla stabilità e, quindi, da esigere la irretrattabilità del provvedimento. Se ne può inferire che ci si trova di fronte ad un provvedimento che è idoneo a produrre cosa giudicata (sostanziale) e ha, perciò, la natura di “sentenza in senso sostanziale” (art. 2909 c.c.), ossia di provvedimento “decisorio”, in quanto diretto a dirimere un conflitto su posizioni di diritto soggettivo. 5.1. Ne consegue che esso si sottrae alla regola della revocabilità o modificabilità in ogni tempo, stabilita in generale per i provvedimenti pronunciati in camera di consiglio dall’art. 742 c.p.c. Pertanto, il beneficio, una volta concesso, non può essere revocato. 5.2. Dall’evidenziata esigenza di stabilità degli effetti discende, altresì, che essi non possono essere immediatamente prodotti dal provvedimento di primo grado, finché esso sia ancora suscettibile di essere riformato o annullato, ma debbono ricollegarsi al provvedimento non più impugnabile, vale a dire passato in giudicato (formale) per essersi esaurite (non essendo state proposte tempestivamente o, se proposte, essendo state rigettate) le impugnazioni esperibili (art. 324 c.p.c.). E’ solo, dunque, dal momento del passaggio in giudicato (formale) che il provvedimento esdebitatorio produce i suoi effetti. 8. Impugnative. 1. L’art. 143, secondo comma, stabilisce che «contro il decreto che provvede sul ricorso, il debitore, i creditori non integralmente soddisfatti, il pubblico ministero e qualunque interessato possono proporre reclamo a norma dell’articolo 26». Il reclamo è, dunque, l’unico rimedio esperibile avverso il decreto emesso dal tribunale, quale che sia il suo contenuto, vale a dire sia che accolga sia che rigetti la domanda di esdebitazione. 1.1. Ai sensi della norma richiamata, il reclamo si propone alla corte d’appello nel termine perentorio di dieci giorni. Tale termine decorre per il fallito «dalla comunicazione o dalla notificazione del provvedimento» (art. 26, terzo comma). Una interpretazione costituzionalmente orientata del combinato disposto degli artt. 26 e 143 induce a ritenere che per i creditori il termine debba decorrere «dalla notificazione del provvedimento», essendo essi i soggetti «nei cui confronti è stato chiesto il provvedimento» medesimo (art. 26, terzo comma). Per gli altri legittimati, ossia per gli «interessati» diversi dai creditori direttamente incisi dalla pronuncia esdebitatoria, sembra che il termine decorra dalla pubblicazione del decreto di chiusura del fallimento ex art. 119, primo comma («nelle forme prescritte nell’articolo 17»), se essa è contenuta in questo stesso decreto, ovvero «dall’esecuzione delle formalità pubblicitarie disposte dal giudice delegato» ex art. 26, terzo comma (ora, dal tribunale, in virtù della modifica di tale comma disposta dal “correttivo”), se data con separato decreto. Per il pubblico ministero, in assenza di una specifica previsione normativa, sembra che il termine dell’impugnativa decorra dalla comunicazione del provvedimento da parte della cancelleria, a mente dell’art. 740 c.p.c. Per tutti i legittimati, comunque, il termine per il reclamo spira «decorsi novanta giorni dal deposito del provvedimento in cancelleria», e ciò «indipendentemente dalla previsione di cui al terzo comma», ai sensi dell’art. 26, quarto comma: vale a dire che, qualora il provvedimento non sia stato notificato, comunicato o pubblicato e sia decorso il termine dei novanta giorni dal deposito, «il reclamo non può più proporsi»; ed anche che, 16 pur quando il provvedimento sia stato notificato, comunicato o pubblicato, spirato detto termine “lungo”, ugualmente «il reclamo non può più proporsi», ancorché non sia decorso il termine “breve” di dieci giorni (decorrente, per i vari legittimati, dalla notificazione, comunicazione o pubblicazione). 1.2. Il procedimento di reclamo, davanti alla corte d’appello, si svolge anch’esso in camera di consiglio (art. 26, primo comma), secondo le forme dettate dalla nuova disciplina (art. 26, commi da sesto a nono), e si conclude con «decreto motivato», con il quale il collegio «conferma, modifica o revoca il provvedimento reclamato» (art. 26, decimo comma). 2. Avverso il decreto di secondo grado deve ritenersi esperibile il ricorso in cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. 111, settimo comma, Cost., trattandosi di un provvedimento “decisorio”, avente contenuto sostanziale di “sentenza”, suscettibile di giudicato (sostanziale). 3. Sembra ammissibile avverso il decreto di secondo grado, altresì, l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. Il rimedio sembra esperibile ex art. 396, primo comma, c.p.c. anche avverso il decreto di primo grado non reclamato nel termine nei casi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 6 dell’art. 395 c.p.c., purché i fatti ivi menzionati siano avvenuti dopo la scadenza del termine per il reclamo. 9. Disciplina transitoria. 1. Nel d.lgs. n. 5 del 2006 non si rinvengono disposizioni transitorie concernenti il nuovo istituto della «esdebitazione». Si è, quindi, posto il problema se esso possa trovare applicazione solo in relazione alle procedure fallimentari disciplinate dalla legge “riformata”, ossia aperte a far data dal 16 luglio 2006, data di entrata in vigore del decreto, ovvero anche a quelle già pendenti alla stessa data (dunque, aperte anteriormente), le quali «sono definit[e] secondo la legge anteriore», oppure, ancora, anche a quelle già chiuse prima del 16 luglio 2006. 2. A tale problema il “decreto correttivo” del 2007 ha inteso dare soluzione, dettando una precisa disciplina transitoria nell’art. 19. Alla stregua di questa norma: a) le disposizioni concernenti l’esdebitazione «si applicano anche alle procedure di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5» (comma 1), ossia aperte anteriormente alla data del 16 luglio 2006 e non ancora chiuse alla stessa data; b) non si applicano, quindi, alle procedure già chiuse a quella data; c) si applicano, invece, alle procedure aperte prima del 16 luglio 2006 e chiuse prima dell’entrata in vigore del “decreto correttivo”, ossia entro il 31 dicembre 2007, dovendo il “correttivo” entrare in vigore alla data del 1° gennaio 2008 (art. 22, comma 1, dello stesso decreto); d) per le procedure pendenti alla data del 16 luglio 2006, che siano state chiuse prima dell’entrata in vigore del “decreto correttivo”, ossia entro il 31 dicembre 2007, «la domanda di esdebitazione può essere presentata nel termine di un anno dalla medesima data» (art. 19, comma 2): il termine di decadenza di cui all’art. 143, primo comma, inizia, così, a decorrere non dalla chiusura del fallimento, ma dalla data di entrata in vigore del “correttivo”. Il successivo art. 22, comma 4, del medesimo “decreto correttivo” non fa che ribadire (pleonasticamente) tale disciplina transitoria, dicendo che: «L’articolo 19 si applica alle 17 procedure di fallimento pendenti alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, pendenti o chiuse alla data di entrata in vigore del presente decreto». 3. Siffatta disciplina transitoria indubbiamente innova il regime risultante dal d.lgs. n. 5 del 2006, con l’estendere «retroattivamente» (come si legge nella Relazione ministeriale) la concedibilità del beneficio ai falliti, le cui procedure sono state aperte anteriormente all’entrata in vigore della “riforma organica”, e conferma, quindi, che sulla base di quel regime, prima di questo intervento “correttivo”, il nuovo istituto non era applicabile alle procedure pendenti. 4. L’estensione così operata si presta, però, a qualche rilievo critico. 4.1. L’esdebitazione risponde alla nuova concezione del fallimento, che, anche per tale nuovo istituto, viene ad essere caratterizzato in maniera diversa rispetto al passato regime. Essa trova nel fallimento, come disciplinato dalla legge riformata, la sua “causa” remota, costituendo di esso un “effetto” ultimo (sia pure mediato dal necessario provvedimento giudiziale, che la concede). L’istituto in esame è, dunque, parte integrante della nuova disciplina del fallimento, sicché appare incongruo l’innesto di esso sul tronco della “vecchia” legge fallimentare del 1942, cui continuano ad essere assoggettate le procedure fallimentari pendenti (e quindi aperte anteriormente) alla data del 16 luglio 2006. 4.2. La giustificazione, che si prospetta nella Relazione ministeriale (ove si legge che con la norma transitoria «il beneficio dell’esdebitazione potrà essere accordato a tutti i falliti, indipendentemente dalla data di apertura della procedura fallimentare»), ravvisabile nell’intento di assicurare parità di trattamento a tutti i falliti, ossia a tutti coloro che sono tali alla data di entrata in vigore della “riforma organica” contenente le nuove disposizioni sull’esdebitazione ovvero che lo divengono successivamente (non anche a quelli che non lo sono più per essere le loro procedure già state chiuse anteriormente alla data del 16 luglio 2006) non sembra plausibile. Infatti, l’esdebitazione non riguarda solo il fallito, ma incide negativamente sulle posizioni giuridiche dei suoi creditori concorsuali, estinguendo i loro crediti residui, nonché dei coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso dello stesso fallito, che, rimanendo obbligati per l’intero (art. 143, quarto comma), perdono il loro diritto di rivalsa verso il fallito. Estendere l’esdebitazione ai fallimenti pendenti alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006 vuol dire trattare in modo eguale situazioni diverse: perché diversa è la situazione di creditori concorsuali, coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso di un fallito il cui fallimento è disciplinato dalla vecchia legge rispetto alla situazione di creditori concorsuali, coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso di un fallito il cui fallimento è disciplinato dalla nuova legge. 4.3. Inoltre, il nuovo istituto trova una giustificazione razionale nel nuovo assetto di rapporti tra fallito, creditori e organi della procedura, qual è quello risultante dalla riforma, sicché appare irragionevole estenderlo a procedure cui la riforma non si applica: infatti, l’esdebitazione si giustifica perché col nuovo fallimento si è perseguito l’obiettivo di una più efficiente tutela delle aspettative di soddisfacimento dei creditori, a) conferendo più incisivi poteri di intervento ai creditori stessi, sia singolarmente sia in capo al loro organo rappresentativo (cioè il comitato dei creditori)14; b) valorizzando il ruolo gestorio del curatore; c) stimolando la fattiva collaborazione del fallito; sicché la procedura fallimentare, come disciplinata dalla nuova legge, dovrebbe rappresentare il massimo sforzo possibile per la soddisfazione delle ragioni creditorie, esaurito il quale l’interesse dei creditori all’adempimento delle residue obbligazioni può cedere il passo all’interesse del debitore a liberarsi, si ravvisi poi la ragione di politica legislativa della 14 Sotto questo profilo può vedersi nell’esdebitazione una sorta di “contropartita” di tali maggiori poteri dei creditori. 18 prevalenza di quest’ultimo interesse nel cd. “fresh start” e/o nella finalità premiale del beneficio e/o in altro ancora. L’esdebitazione, dunque, è un effetto dei “nuovi” fallimenti, in quanto si inserisce nel quadro del bilanciamento di interessi realizzato dalla nuova disciplina, cui è strettamente connessa: prevederne l’applicazione anche ai fallimenti “vecchi”, che si sono svolti o si concluderanno secondo la vecchia disciplina, crea uno sbilanciamento ingiustificabile a danno dei creditori. 4.4. Sotto altro profilo, la norma appare irragionevole, perché i creditori concorsuali, coobbligati, fideiussori e obbligati in via di regresso del fallito sono pregiudicati dall’applicabilità retroattiva del nuovo istituto, dovendo subire un mutamento di regime degli effetti del fallimento sui loro diritti verso il fallito, non già prima che la procedura fallimentare sia instaurata, bensì dopo che questa è stata aperta ed è in corso di svolgimento, o addirittura è già stata chiusa, senza, quindi, che essi abbiano potuto valutare prima della dichiarazione di fallimento, nei loro rapporti col debitore poi fallito, l’incidenza della nuova disciplina e senza che abbiano potuto fare alcunché per prevenirne o neutralizzarne le conseguenze per loro negative (estinzione dei crediti residui, perdita del regresso) nella parte di procedura già svoltasi alla data di entrata in vigore della nuova norma transitoria, per le procedure pendenti (alla data del 16 luglio 2006) non ancora chiuse (alla data del 1° gennaio 2008), ovvero nell’intero corso della procedura, per le procedure pendenti (alla data del 16 luglio 2006) già chiuse (alla data del 1° gennaio 2008). Sotto questo profilo, ciò che viene in gioco, dunque, è la tutela dell’affidamento dei creditori15. L’incidenza del nuovo regime può essere particolarmente grave per i creditori concorsuali muniti di garanzia reale (ipoteca o pegno) su beni di terzi (terzi datori o terzi acquirenti di beni oggetto della garanzia), poiché la pronuncia esdebitatoria, estinguendo il diritto di credito, fa venir meno anche la garanzia reale che ne è accessorio, sicché il creditore, non potendo più agire nei confronti del debitore, non può nemmeno agire esecutivamente in danno del terzo proprietario del bene gravato della garanzia. 4.5. Per converso, appare, altresì, prospettabile una disparità di trattamento, non giustificabile, tra i falliti le cui procedure si siano chiuse prima del 16 luglio 2006 e i falliti le cui procedure (ancora pendenti al 16 luglio 2006) si siano chiuse prima del 1° gennaio 2008, posto che in entrambi i casi si tratta di procedure «definit[e] secondo la legge anteriore», quindi, svoltesi (interamente) in base alla disciplina della legge del 1942 ed esauritesi anteriormente all’entrata in vigore della norma transitoria, che ha esteso retroattivamente l’applicabilità delle disposizioni concernenti l’esdebitazione solo alle seconde e non anche alle prime. 15 Secondo consolidata giurisprudenza costituzionale «al di fuori della materia penale (dove il divieto di retroattività della legge è stato elevato a dignità costituzionale dall’art. 25 Cost.), l’emanazione di leggi con efficacia retroattiva da parte del legislatore incontra una serie di limiti che […] attengono alla salvaguardia, tra l’altro, di fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario» (così, Corte cost., sent., 15 luglio 2005, n. 282). 19