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Amore e potere - Il Quaderno di Mauro Scardovelli

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Amore e potere - Il Quaderno di Mauro Scardovelli
Amore e potere
Secondo la tradizione cinese, l’uomo si colloca tra cielo
e terra. Come dice Raimon Panikkar, è guidato da due
forze contrapposte: amore e potere.
L’amore spinge l’uomo verso la luce, superando la sua
identificazione nel corpo, nei sensi, nella materia,
nell’oscurità
della
mente
individuale.
L’amore
lo
stimola ad ampliare la sua visione e ad avventurarsi
oltre i limiti angusti della separatività,
dell’avidità e
dell’egoismo, fino a sentirsi partecipe attivo della
grande rete della vita. Lo induce ad allargare la
propria empatia, fino ad includervi tutti gli esseri.
Come fratelli o amici. Fino a sentire la loro sofferenza
come la propria.
La sua essenza è spirituale: “Fatti non foste per viver
come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza”,
diceva il sommo poeta. Pur nascendo dalla terra,
l’uomo aspira a raggiungere il cielo, sentendosi unito a
tutto ciò che esiste.
L’amore è una forza attrattiva e unitiva. E’ la forza che
favorisce la coesione e l’unità dove regna il caos e la
dispersione.
Unica
fonte
autentica
di
vitalità
e
creatività, promuove gioia, armonia e guarigione in
ogni contesto in cui viene praticata.
Ma l’uomo ospita anche un’altra forza, di segno
opposto:
il
potere,
inteso
come
potere-dominio.
L’uomo medio è attratto dal potere, come le api dal
miele. La sua incessante ricerca lo trattiene e lo tira
verso le tenebre, verso i bassifondi della coscienza,
tenendolo separato, in competizione con gli altri ed
alienato da se stesso.
L’amore unisce. Il potere divide.
Un movimento spirituale, se si lascia contaminare dal
potere, si perverte nel suo opposto: si trasforma in
setta o in organizzazione gerarchica, in competizione
con altre per la conquista del territorio. Dietro la
facciata esibita, si nascondono falsità e bassezza.
Equanimità
e
trasparenza
lasciano
il
posto
a
prevaricazione e segreto.
Come l’amore produce gioia dell’essere, così il potere
produce male e sofferenza.
“Mi sembra che questo sia vero per chi lo subisce, non
certo per chi lo pratica!”
A livello superficiale appare senz’altro così. Chi più ha,
chi dispone di più mezzi, chi può dire agli altri che
cosa fare, sembra in una posizione invidiabile. Chi è
soggetto al potere altrui, invece, appare in una
posizione
sfavorevole,
svantaggiata
o
perfino
miserabile.
Ma questa è esattamente la visione che il poteredominio cerca di mantenere ed alimentare. A quale
scopo? Allo scopo di essere oggetto di desiderio e
quindi diffondersi sempre di più, in modo sottile e
indisturbato. Come un virus, che cerca di colonizzare
ogni organismo a disposizione per proliferare. Ma
anche come un topo, un gatto o un coccodrillo: il loro
istinto li porta a fare tutto il possibile per ricoprire la
terra della loro discendenza. I topi in questo sono
certamente più bravi, avvantaggiati dalle
piccole
proporzioni e dalla loro straordinaria adattabilità ad
ambienti differenti.
Entro certi limiti, gli umani non sono affatto diversi dai
loro antenati meno evoluti. E lo stanno dimostrando in
modo esemplare in questi ultimi cent’anni, essendo la
popolazione più che triplicata, a spese di tutte le altre
specie, che pure vantavano un più antico diritto ad
abitare su questa terra.
Ma nell’uomo è emersa una nuova capacità, non
presente nei predecessori neppure più prossimi: la
capacità di parlare, raccontare, fare storia, cultura,
scienza. Una capacità che ha impresso un moto
esponenziale alla spinta evolutiva, non più limitata alle
mutazioni genetiche o epigenetiche, sempre piuttosto
lente, ma affidato ad elementi assai più immateriali,
quali sono le memorie, i pensieri, i sentimenti.
Alcuni autori li chiamano sinteticamente “memi”, onde
sottolinearne l’aspetto immateriale. Essi si tramettono
di
generazione
in
generazione,
prolificano
e
modo
analogo
qualunque
altro
diffondono
in
organismo
vivente
quando
si
a
si
trova in ambiente
favorevole. Entrano nella testa delle persone senza
che esse ne abbiano il minimo sospetto. Come i
membri di ogni specie, cercano di occupare tutto lo
spazio possibile, in concorrenza tra loro, ma in netto
vantaggio su tutti gli organismi che li ospitano.
“Stai dicendo che la ricerca del potere è un meme
molto diffuso?”
Esattamente. Un po’ come i topi o, ancora meglio,
certi batteri o virus che, essendo ancora più piccoli,
sono sfuggiti all’osservazione fino a poco più di un
secolo fa. Non essendo visibili, i loro effetti venivano
attribuiti ad altre cause, spesso assai fantasione e
prive di ogni fondamento reale. In tal modo, i rimedi
non potevano essere molto efficaci.
Quando
finalmente
furono
scoperti
grazie
al
microscopio, si credette di aver compreso l’origine di
quasi
tutte
le
malattie
e
di
potercene
liberare
combattendo direttamente questi intrusi. In parte
avevamo ragione. In parte avevamo torto. C’erano
ancora molte cose che non vedevamo, troppo piccole
per
essere
oggetto
di
osservazione.
Oggi,
che
disponiamo di mezzi infinitamente più potenti e
sofisticati per osservare qualsiasi oggetto dotato di
proprietà materiali, ci troviamo ancora in scacco di
fronte ai “memi” che colonizzano la nostra mente
individuale e collettiva.
E, paradossalmente, uno degli ostacoli più grandi non
consiste tanto nella loro immaterialità, ma nel fatto
che si rendono percepibili chiaramente solo ad un
osservatore che ha svolto uno specifico lavoro per
riconoscerli
al
proprio
interno.
Infatti,
solo
riconoscendoli e disidentificandosi da loro, ci si può
sottrarre al loro dominio.
“In che cosa consiste questo lavoro?”
Un problema non può essere risolto con lo stesso tipo
di pensiero che lo ha generato. Una mente occupata
dai “memi” del potere non può riconoscere e risolvere
i problemi che essi continuamente ricreano. L’unica
possibilità è frequentare un nuovo tipo di pensiero che
non trovi in essi il suo fondamento.
“Dal momento che il pensiero è essenzialmente
linguaggio, stai dicendo che occorre sviluppare un
nuovo tipo di pensiero-linguaggio? Un linguaggio in
grado di abituarci a ritagliare dallo sfondo le diverse
forme che assume il potere, in modo da vederle
chiaramente?”
Sì, distinguerle chiaramente nella vita quotidiana, nel
nostro rapporto con gli altri e con noi stessi, invece di
lasciarci ipnotizzare dalle loro ombre sfuggenti. Questa
è la via da percorrere.
Naturalmente non possiamo sostenere che i “memi”
del potere-dominio siano sfuggiti all’analisi. Anzi, su di
essi è stato detto e scritto quasi tutto e il contrario di
tutto. Ma raramente
queste
analisi
erano
libere
dall’influenza perversa dell’oggetto che analizzavano,
per il semplice fatto che a guidarle era lo stesso tipo di
pensiero-linguaggio che ne è intriso alla radice, e il cui
uso inconsapevole non fa che rafforzarli.
“Mi fai un esempio concreto?”
Ogni volta che ricorriamo ad espressioni come “Io”,
“Tu”, “Mio, “Tuo”, o utilizziamo il verbo “Essere”, se
siamo inconsapevoli dei presupposti impliciti in queste
espressioni, noi stiamo fornendo alimento ai “memi”
del potere. Indipendentemente dalle nostre intenzioni,
che possono essere le più fraterne ed altruistiche, con
il comportamento linguistico comune incrementiamo la
nostra e l’altrui ipnosi, che ci fa credere oggetti
separati gli uni dagli altri, e per questo stesso motivo,
predisposti ad entrare in competizione, in conflitto, in
una
perpetua
ed
estenuante
lotta
per
superare
ostacoli e problemi.
Questa
è
l’immagine
che
noi
continuamente
riproduciamo attraverso un utilizzo non consapevole
del linguaggio.
“Nello stesso modo in cui attraverso i nostri quotidiani
acquisti, stiamo cooperando attivamente a depredare
la terra e a distruggere ogni forma vivente!”
Sì, credo che, sotto questo aspetto, ci sia molta
coerenza nel tipo di società che abbiamo creato: da
soli
o
in
gruppo,
come
dirigenti
o
dipendenti,
parliamo, consumiamo ed agiamo, guidati dalla stessa
cornice di presupposti. Chi vede solo incoerenza e
frantumazione, cioè la maggior parte degli osservatori,
non è focalizzato a cogliere i presupposti più profondi,
impliciti
nella
radice
del
nostro
pensiero.
Semplicemente perché è istruito ed allenato a non
vederli.
Paradossalmente, sono spesso le persone più colte e
sofisticate, gli intellettuali, i leader, quelli che soffrono
di maggiore cecità selettiva. Essi per emergere, per
farsi riconoscere come capibranco, più di altri hanno
assiduamente praticato e approfondito proprio il tipo
di pensiero-linguaggio, basato sul potre dominio, di
cui stiamo discorrendo. Che credono di padroneggiare,
mentre ne sono dominati a livello profondo, pagando
un grave prezzo in termini di perdita di umiltà, di
empatia e di contatto con ciò che è essenziale.
Infatti, fatte salve le dovute eccezioni, sovente si
esprimono in maniera innecessariamente complicata.
O si occupano di aspetti sempre più specifici e
marginali, che attirano l’attenzione perché di moda.
Mostrando così di non avere a cuore il problema
centrale, quello della sofferenza umana. E quindi
rinunciando a svolgere la loro funzione in modo
socialmente utile.
“Quale funzione?”
Una funzione irrinunciabile nel cammino verso una
democrazia sostanziale: aiutare chi li ascolta, li legge
o li segue, - e non ha tempo e mezzi per studiare e
informarsi a sufficienza -, a sviluppare consapevolezza
sulle questioni essenziali, per consentire scelte che
possano favorire il bene comune, anziché la divisione
e il potere delle lobby.
La preoccupazione fondamentale di intellettuali e
leader non sembra quella di farsi capire e far capire,
ma di farsi apprezzare da chi può fornire loro i privilegi
che
massimamente
desiderano:
visibilità,
riconoscimento, pubblicità.
“E’ più facile che un cammello passi in una cruna di un
ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli”.
Che cosa intendeva Gesù con questa frase?
“Il fatto che accumulare denaro corrompe lo spirito!”
Solo il denaro? Un uomo della sua intelligenza poteva
affermare una simile banalità? La storia, nel periodo
del capitalismo antico, ove si diventava schiavi per
debiti, non aveva già mostrato il vero volto del
denaro? A dove conduce quando gli uomini se ne
fanno servi?
No, Gesù ha detto una cosa assai meno scontata:
qualsiasi forma che utilizziamo per prevalere sugli altri
o su noi stessi,
è una fonte di peccato, cioè di
sofferenza. Non solo il denaro, quindi, ma anche
l’intelligenza, la forza, la bellezza, la conoscenza, la
cultura, il successo o il riconoscimento in un certo
campo.
Tutte
cose
che
appaiono
desiderabili
o
addirittura virtuose. L’intelligenza non è forse un
bene? E la forza o la bellezza? Il problema non è nelle
cose in sé, ma nel modo in cui ci relazioniamo ad esse
e le utilizziamo.
Questo è il punto: ogni volta che ne traiamo un
vantaggio competitivo, o che ce ne serviamo per
gonfiare il nostro Ego, stiamo creando un fossato tra
noi e gli altri. E peggio ancora, un fossato tra noi e la
nostra
anima.
Non
importa
se
copriamo
questo
atteggiamento con ogni sorta di giustificazioni e di
propaganda, in modo da occultare agli altri la sua
natura prevaricatoria. Essa tale rimane, ed è il
marchio di fabbrica del potere-dominio.
“Ricco” per Gesù è sinonimo di uomo di potere, che il
potere pratica sugli altri, qualsiasi ne sia la fonte.
Ricco non è solo chi possiede mezzi, proprietà e
denaro, escludendo gli altri e tenendo tutto per sé. Ma
anche
lo
scienziato,
l’artista,
lo
specialista,
l’intellettuale, l’accademico affermato, che non coltiva
l’impegno a rimanere umile. L’impegno a non farsi
servire, ma ad essere servitore, rendendo gli altri
partecipi
del
suo
sapere
o
della
sua arte. Per
condividerne utilità o bellezza. Con leggerezza e
generosità. Attento a stimolare curiosità e amore per
la
conoscenza,
e
mai
sensi
di
inferiorità
o
inadeguatezza. Umile non per posizione moralistica,
ma perché radicato nella realtà, ben consapevole del
debito di gratitudine per chi lo ha preceduto nel suo
cammino. E della pochezza della sua impresa rispetto
alla
vastità
dell’ignoranza
che
permane
in
lui.
Ignoranza che lo accomuna a tutti gli altri esseri
umani.
“E ritornando al linguaggio…”
Il liguaggio è una tecnica. La tecnica, ogni tecnica,
dalla più semplice alla più complessa, distingue l’uomo
dagli animali, e gli offre la possibilità di accelerare il
processo evolutivo. Il linguaggio ha permesso la
creazione della cultura, la trasmissione del sapere, la
crescita esponenziale delle conoscenze. E’ quindi una
tecnica straordinaria, specie-specifica dell’uomo.
Ma non contiene in sé alcuna garanzia di un utilizzo
guidato
dall’amore
anziché
dal
potere.
Anzi,
le
tecniche nascono quasi sempre per accrescere il
proprio potere: sulla natura, sugli animali, e quindi,
facilmente, sugli altri. Le tecniche di comunicazione, la
retorica, le tecniche di persuasione, sono spesso state
al
servizio
delle
èlite
che
avevano
interesse
a
mantenere ed estendere il loro dominio.
La storia dell’umanità, resa possibile dal linguaggio, è
fatta dai vincitori, dai popoli più aggressivi, non da
quelli più pacifici e armoniosi, che sono stati via via
sopraffatti e fisicamente eliminati.
Gli israeliti erano un popolo tremendamente bellicoso.
Abramo, Mosé, Giosué, erano in primo luogo dei
condottieri. Le loro strategie sono state studiate dai
militari di tutti i tempi, e spesso replicate. E attraverso
il linguaggio, hanno fatto credere a se stessi e a molti
altri che le loro gesta crudeli, i loro genocidi, erano
voluti
o
ispirati
da
Dio,
dal
Verbo,
loro
guida
trascendente a cui erano tenuti ad obbedire. Dio
stesso è il loro consulente militare: fornisce loro
indicazioni preziose su come far cadere le mura di
Gerico, e su altre storiche conquiste, tutte finite con
l’uccisione di ogni uomo, donna, bambino, animale,
senza alcuna pietà. Al nobile scopo finale, come
popolo eletto, di riconquistare la terra di Canan, o
Palestina, sulla quale avrebbero dovuto dominare per
portare il regno di Dio sulla terra.
E’ abbastanza straordinario che un libro grondante di
sangue come la Bibbia sia ancora oggi ritenuto la
massima fonte di elevazione spirituale. Il presidente
americano, George Bush, da molti ritenuto l’uomo più
pericoloso del mondo, pare che lo legga ogni giorno
per trarne ispirazione. E i risultati sono sotto gli occhi
di tutti. Come lo sono l’incontro-scontro delle tre
religioni abramiche presso le mura di Gerusalemme,
nel loro eterno conflitto, ciascuna guidata dalle più
sante ragioni. Davvero commovente, a partire dalle
crociate, l’impegno che vi profondono!
“Mi fai qualche esempio specifico di come il linguaggio
in sé, per come è costruito, può favorire il potere
anziché l’amore?”
Essenza del linguaggio è operare distinzioni, isolare
determinati oggetti dallo sfondo indifferenziato, e
identificarne delle figure socialmente riconoscibili, alle
quali attribuire un nome: un suono nella lingua
parlata, o un segno nella lingua scritta.
Inizialmente l’operazione non è mai neutra, ma
guidata
da
finalità
utilitaristiche,
per
soddisfare
determinati bisogni o desideri, più o meno immediati e
visibili. Come minimo, va incontro ad un bisogno di
economia nella comunicazione. Con il tempo, però,
l’operazione finisce per produrre effetti inconsapevoli
e controintuitivi.
“Quali?”
Il pensiero-linguaggio, attraverso il suo crescente
utilizzo,
con
il
tempo
è
venuto
a
determinare
praticamente tutto ciò che siamo in grado di vedere e
percepire:
le
figure
prescelte
e
socialmente
riconoscibili. Gli oggetti di cui si può parlare, le forme
di relazioni che si possono individuare e descrivere.
Tutto il resto, quello che non rientra in queste figure,
di oggetti e di relazioni fra oggetti, rimane nello
sfondo
indifferenziato,
al
di
fuori
della
nostra
consapevolezza.
“Quindi è corretto dire che il linguaggio crea la nostra
realtà?”
Sì, la realtà socialmente condivisa, di cui siamo
consapevoli, e di cui possiamo parlare. Tutto il resto
non è che sparisca o che non ci influenzi più, ma
finisce
direttamente
società,
per
specificità,
nell’inconscio.
sopravvivere
cancella
nella
porzioni
Ogni
sua
più
o
tipo
di
identità
e
meno
vaste
dell’esperienza totale che facciamo a contatto con il
mondo. E questa cancellazione o rimozione alimenta
l’inconscio individuale e collettivo. E se dall’esperienza
totale vengono rimosse parti essenziali e vitali, questo
si traduce in una grave amputazione psichica, che
come
un’ombra
maligna,
rende
molto
contatto con l’autenticità dell’essere
difficile
il
e la gioia che
naturalmente consegue.
“Puoi approfondire questo concetto?”
Felicità è sinonimo di pienezza dell’esperienza. La gioia
dell’essere può essere sperimentata solo se siamo
totalmente immersi nel qui ed ora, con quello che c’è
adesso, così come è. Con tutti i nostri sensi ben
aperti.
Ma noi non siamo quasi mai in contatto con la realtà
dell’adesso, che è in primo luogo la realtà del nostro
corpo e delle nostre sensazioni, in relazione a ciò che
c’è e che accade nel momento presente. Grazie
all’educazione ricevuta, noi non viviamo più nel nostro
corpo, ma percepiamo il mondo filtrato dai nostri
pensieri:
dialogo
interno,
immagini,
convinzioni,
pregiudizi, emozioni. Cioè dall’attività incessante della
nostra mente. Non della mente profonda, radicata
nella corporeità, ma della mente condizionata.
Condizionata da che cosa? Dall’utilizzo continuo e
inconsapevole delle categorie linguistiche, socialmente
condivise, alle quali siamo stati educati. Esse agiscono
come filtri selettivi ai quali non possiamo rinunciare,
perché sono loro che ci permettono di sentirci parte di
una comunità, formarci un’identità, comunicare la
nostra esperienza. Che però, ripeto, è un’esperienza
linguisticamente
orientata
e
amputata
rispetto
all’esperienza totale.
“Un’esperienza ideologizzata, quindi?”
Come dice Panikkar, le idee suonano la musica sulla
quale i governi e i popoli danzano. E le idee sono
espressioni linguistiche.
“Ma nello stesso contesto culturale, specie nella
società moderna, fondata sulla comunicazione, le idee
presenti sono molte e in concorrenza tra loro. Non si
può certo dire che siamo tutti ideologizzati allo stesso
modo!”
Questo è incontestabile per tutte le idee che hanno a
che
fare
con
i
contenuti.
Esiste
un
pluralismo
ideologico in materia religiosa, politica, economica,
filosofica. C’è chi crede in Dio, chi non ci crede. C’è chi
è cattolico, mussulmano, agnostico o ateo. C’è chi è
liberista e chi è contrario al liberismo o al libero
mercato.
Qui però non stiamo parlando di contenuti, ma di
forme o strutture. Quando utilizziamo il linguaggio,
cioè
ogni
volta
comunichiamo,
non
che
ci
pensiamo,
limitiamo
parliamo
a
o
trasmettere
contenuti, ma un modo di percepire il mondo che ci
accomuna:
quello
attuato
attraverso
categorie
linguistiche.
Nella filosofia occidentale, non solo identifichiamo il
pensiero con il linguaggio, ma siamo abituati a credere
che la consapevolezza coincida con il pensiero. Cogito,
ergo sum, diceva Cartesio. E’ grazie al pensiero che so
di esistere.
Secondo
le
filosofie
orientali,
in
particolare
nel
buddismo Zen, il pensiero non solo non esaurisce la
consapevolezza, ma costituisce il principale ostacolo
ad una consapevolezza profonda della realtà. Solo una
mente capace di farsi silenziosa è in grado di essere
presente nel qui ed ora, cioè presente all’unica realtà
vera.
“Ma nella vita di oggi è indispensabile pensare,
progettare. Non si può fare quasi nulla senza aver ben
sviluppato queste capacità!”
Certamente saper utilizzare il pensiero è una risorsa
essenziale: se devi scrivere una lettera, stilare una
diagnosi o argomentare una linea di difesa. Ma è
soltanto un mezzo, come lo è un computer. Un mezzo
utile per certe cose e non per altre.
Il problema fondamentale che oggi ci troviamo ad
affrontare, dal quale derivano tutti gli altri, può essere
riassunto in questi termini: non siano in grado di far
tacere la mente, non siamo in grado di spegnere il
computer mentale. Quindi ne siamo condizionati e
limitati. Non nelle questioni materiali, negli affari,
nella tecnologia, nei quali siamo diventati bravissimi.
Ma nel settore dal quale maggiormente dipende la
nostra propensione alla felicità o all’infelicità: quello
della relazione con noi stessi e con gli altri.
Un noto economista, Jeremy Rifkin, sostiene che, date
le attuali condizioni di conflitto e crescita, la nostra
stessa sopravvivenza può essere salvaguardato solo
ad
una
condizione:
che
riusciamo
in
tempo
a
sviluppare sufficiente empatia. Empatia non solo per le
persone vicine, ma anche quelle più lontane e per tutti
gli esseri, animali e piante. L’empatia, secondo il
buddismo, apre la porta alla compassione, ovvero al
desiderio di impegnarsi a sciogliere le cause della
sofferenza altrui come la propria.
Empatia,
compassione,
amore,
sono
qualità
dell’essere, qualità del cuore, non della mente. Il
cuore si apre davvero solo quando la mente tace. Non
si tratta infatti di ragionare, in termini kantiani, su ciò
che è bene o male fare. Si tratta di imparare o
reimparare a sentire. Sono i sentimenti e le passioni
che guidano le nostre azioni. Più di cent’anni fa, Freud
ha definitivamente scoperchiato la scatola nera della
nostra mente, e a differenza di Aristotele, non ha
trovato ai posti di comando la ragione e la volontà,
come ancora oggi la Chiesa Cattolica continua a
sostenere. Ed ha portato alla luce un meccanismo di
autoimbroglio degno, questo sì, di un’intelligenza
sofisticata come quella umana: la razionalizzazione.
Che della ragione è solo la maschera.
“In che senso?”
Nel senso che in molti casi è solo copertura di impulsi,
passioni o sentimenti, che si vogliono tenere nascosti,
perché ritenuti poco desiderabili o disdicevoli.
E per
garantirsi il risultato, essa utilizza i più efficaci metodi
della
retorica,
la
tanto
vituperata
arte
della
persuasione, scoperta dai sofisti, che di essa fecero
una professione, ma praticata in realtà da ogni degno
appartenente alla nostra specie, almeno a livello
dilettantesco.
Insomma, dopo Freud, avremmo dovuto imparare a
dffidare di chi, con passione, ci vuol convincere di
qualcosa per il nostro bene.
“Perché?”
Perché di un bene certamente si tratta. Non del
nostro, però. Ma del suo. Anche se, a ben guardare,
come vedremo, neppure questo è vero.
“Mi fai un esempio?”
Un maestro, duro e severo, crea un clima di tensione
e paura negli allievi. Perché? Perché vincano la
pigrizia, dice lui. Affinché si impegnino davvero e si
preparino alle difficoltà della vita. Uno scopo nobile,
quindi. Peccato che sia falso. La severità non serve a
questo, ma a scaricare la rabbia sadica del maestro
all’esterno. In tal modo può evitare di accumularla e di
scaricarla tutta su di sé.
Un marito che risparmia alla sua giovane o inesperta
sposa ogni problema con il mondo, facendo tutto al
suo posto, afferma di essere spinto dal
più tenero
amore. In realtà le sta impedendo di crescere e di
diventare indipendente, per paura di non averla più a
sua totale disposizione.
“Ma quindi la ragione non esiste?”
La ragione inizia a funzionare pienamente ad un certo
livello di evoluzione interiore. Livello che dovrebbe
coincidere con la maturità adulta, se vivessimo in una
società equilibrata e armoniosa. Dato che viviamo in
un contesto di esasperato individualismo, la maturità
adulta media non garantisce l’uscita dall’egocentrismo,
tipicamente
infantile.
E’
necessario
quindi
un
passaggio evolutivo ulteriore, che possiamo definire
come livello di spiritualità, in cui siamo in grado di
trascendere la stretta identificazione con la personalità
individuale.
Infatti, finché a dominare la personalità è l’Ego, la
razionalizzazione prende assai spesso il posto della
ragione, almeno nelle questioni importanti, quelle che
ci stanno davvero a cuore. Ovviamente, nella stessa
persona, in tempi e contesti diversi, il livello evolutivo
di funzionamento cambia. In certi casi quindi usa la
ragione,
in
altri
la
razionalizzazione.
E
non
casualmente siamo scarsamente allenati a percepire la
distinzione tra queste due differenti funzioni. Nel
momento che sviluppassimo questa capacità, l’Ego
individuale e collettivo riceverebbe una brutta batosta!
Dato che le èlite si collocano quasi sempre a livello di
Ego, e non di spiritualità, anche quando rivestono il
ruolo di autorità spirituali, non c’è da stupirsi che
siano
scarsamente
interessate
a
riforme
nell’educazione che aiutino i “sudditi” a smascherare il
loro perverso gioco di potere.
L’educazione che riceviamo a scuola è, nel migliore dei
casi,
un’educazione
che
cerca
di
promuovere
il
pensiero e la ragione: le materie al primo posto sono
quelle
che
matematica.
sviluppano
Ma
incontrovertibile,
l’intelligenza
oggi
linguistica
sappiamo,
che
se
non
in
e
modo
cresce
contemporaneamente una conoscenza di sé e del
proprio mondo emotivo, tutto quello che possiamo
ottenere non è uno sviluppo della ragione che ci guidi
nelle scelte importanti, ma della razionalizzazione:
cioè della capacità di usare il linguaggio per coprire
una falsità.
Capacità
straordinariamente
utile
per
diventare
affaristi, arrivisti, mafiosi, interessati solo al proprio
tornaconto. Oppure, dall’altro versante, per sviluppare
una
personalità
succube,
dipendente,
depressa,
destinata a crearsi nella vita ogni sorta di problemi e
difficoltà. In una parola, una personalità nevrotica.
“Che cosa intendi per nevrotica?”
Una personalità incapace di dirigere se stessa senza
boicottarsi, in quanto preda di conflitti pervasivi tra
subpersonalità.
Ogni
parte
cerca
di
prendere
il
sopravvento sulle altre. Manca una leadership in grado
di fornire una visione del bene comune. Visione che
consenta alle diverse fazioni di rinunciare parzialmente
alle loro pretese, in favore di un’azione diretta al
benessere generale.
“Stai descrivendo la situazione italiana, come la vede
Eugenio Scalfari, nel famoso editoriale: ‘Lo specchio si
è rotto’.”
Sì, anche se non penso sia una prerogativa solo
italiana, ma planetaria.
“Hai detto che la capacità di mentire accomuna
affaristi e persone succubi. Mi sembra piuttosto
ingiusto: i primi ne traggono vantaggio, i secondi ne
pagano le conseguenze!”
E’ vero. Di solito siamo abituati a operare questa
distinzione. E’ il linguaggio stesso che ci porta a farlo:
ci sono molte parole che possiamo usare sia per
indicare un profittatore, sia per indicare una persona
vittima. Tendiamo quindi a distinguere due categorie:
gli sfruttatori e gli sfruttati. E tendiamo a tenerle ben
separata tra loro. Da una parte i buoni, dall’altra i
cattivi.
La rivoluzione comunista si è basata su questa
distinzione-separazione. Una delle ragioni del suo
fallimento, è stata proprio quella di non vedere il
fenomeno dello sfruttamento più in profondità, come
ricerca del potere, forza psichica inerente alla natura
umana. Insieme all’altra, la ricerca dell’amore.
Come gli studi di Reich hanno dimostrato, non solo i
ricchi erano autoritari e sfruttatori, ma anche i poveri,
nei limiti delle loro possibilità. Non solo capi e
imprenditori erano autoritari, ma anche padri operai o
contadini nei confronti di mogli e figli. La famiglia,
ritenuta dalla Chiesa cattolica la cellula sana della
collettività, appena si tolgono i veli dell’ipocrisia,
ancora oggi rivela al suo interno, in scala minore, le
stesse lotte di potere che troviamo nella società. La
famiglia, primo luogo di educazione, è sempre stata la
cinghia
di
trasmissione
dell’autoritarismo
e
della
prevaricazione. Che in tal modo assorbiamo da piccoli,
e ci portiamo dentro tutta la vita. Avendo così davanti
due possibilità poco desiderabili: diventare a nostra
volta sfruttatori di altri, o sfruttatori di noi stessi.
“Ma i nevrotici sono dei malati, gli sfruttatori sono dei
disonesti!”
E’ così che di solito pensiamo, in base alle categorie
linguistiche dominanti e alle loro comuni associazioni.
E’ in questo modo che sin da bambini impariamo a
conoscere
la
realtà:
attraverso
distinzioni
che
traggono differenti figure dallo sfondo, e le tengono
ben separate.
Appena ci occupiamo di comunicazione, ci viene
giustamente
notizia
di
insegnato
una
che
differenza
un’informazione
che
fa
la
è
la
differenza.
Persecutori e vittime non sono la stessa cosa. C’è tra
loro una differenza che fa una sostanziale differenza.
Quello che non ci viene insegnato, perché non fa parte
della nostra cultura dualistica, è che dominatori e
dominati condividono qualcosa che li accomuna. C’è in
loro un fattore che li connette e li tiene insieme.
“Quale fattore?”
La violenza, la prepotenza. Il nevrotico non è meno
prepotente di un profittatore di professione. Spesso lo
è assai di più. Ciò che fa la differenza è solo il contesto
in cui la utilizza: un contesto interno, intimo o
famigliare,
anziché
pubblico.
Se
guardiamo
in
profondità, in un nevrotico non scopriamo meno
violenza, disonestà e prepotenza che in un malavitoso.
E a sua volta, se guardiamo in profondità, dentro un
malavitoso scopriamo non meno sofferenza e dolore
che in un nevrotico. Anzi, spesso, assai di più.
Dostoievski, che ha passato dieci anni della sua vita in
mezzo a carcerati, delinquenti e persone disperate,
afferma che non ne ha conosciuta una che, al di sotto
della scorza esterna, non nascondesse intatto un
nucleo d’oro di purezza.
Contemplare, osservare in profondità, senza giudizio,
senza scopo, è la via per diventare consapevoli dei
livelli di realtà più profonda, la realtà dell’inter-essere,
del tutto è uno. E’ la via del cuore, che ci fa sentire
parte integrante della stessa rete della vita, fratelli tra
noi, e con gli altri esseri. E’ propria delle antiche
tradizioni sapienziali, delle filosofie non duali, che da
millenni
sostengono
una
visione
del
mondo
completamente diversa da quella ottenuta attraverso
la concezione dualistica, che trova fondamento nella
pratica analitica e mentale di separare l’osservatore
dall’oggetto osservato, ponendo fine alla risonanza e
all’immedesimazione empatica.
“Sono due concezioni incompatibili e in conflitto?
Se le guardiamo dal punto di vista duale, quello a cui
siamo allenati nella nostra cultura, esse appaino
senz’altro
incompatibili,
o
quantomeno
incommensurabili. E’ la visione che consente alle
persone religiose di mantenere la loro fede pur
comportandosi, in media, in modo altrettanto poco
amorevole di quelle che non professano alcuna fede.
Se osserviamo le due concezioni dal punto di vista non
duale, esse sono parte della stessa realtà, distinte,
non separate.
La biologia ha da insegnarci qualcosa in proposito. Il
nostro cervello destro funziona in modo olistico, quello
sinistro in modo analitico, duale. Se una persona
perde l’uso dell’emisfero destro, vede il mondo tutto
interconnesso, senza confini. Ma ha qualche difficoltà
ad orientarsi ed agire.
La natura ci ha dotato di due emisferi come di due
differenti occhi per vedere in profondità. E la visione
binoculare diventa possibile solo se teniamo aperti
entrambi
gli
occhi
e
creiamo
al
nostro
interno
un’immagine che integra le due differenti fonti di
informazione.
Spiritualità non è ascendere al cielo abbandonando la
terra, ma continuare a stare sulla terra facendosi
ispirare dal cielo.
Come dice Lino Lepore, filosofo buddista e mio caro
amico, in gran parte la storia della filosofia occidentale
è la storia della follia umana. Ovvero la storia delle
razionalizzazioni con le quali i filosofi hanno cercato di
mascherare e abbellire il loro carattere, parlando del
mondo e dei massimi sistemi anziché di se stessi.
Talvolta riuscendoci così bene da influenzare buona
parte dell’umanità.
L’educazione di cui oggi abbiamo più bisogno, per
sviluppare una personalità sana, integra, onesta, è
un’educazione dei sentimenti, un’educazione che non
casualmente, ripeto, nella scuola di oggi non si trova
neppure
all’ultimo
posto.
E
un’educazione
dei
sentimenti è facilitata in contesti nei quali si pratica il
silenzio, l’ascolto, la presenza mentale nel qui ed ora,
la
calma,
l’osservazione
senza
scopo
o
contemplazione. Ed è resa impossibile dove dominano
le parole, le chiacchiere, il rumore, la fretta, l’eccesso
di programmazione e impegni. Tutte cose che coprono
la paura di amare e la ricerca del potere.
“Cioè nella scuola di oggi!”
“… soprattutto nel parlamento!”
“… nei luoghi di lavoro…”
“… anche in famiglia…”
Certamente. Una mente oberata dal proliferare di
pensieri e immagini, affollata da desideri e scopi, è
come una scimmietta impazzita: non fa che saltare da
un ramo all’altro, incapace di soffermarsi e gustare un
frutto.
Il
proliferare
di
pensieri,
tensioni
e
preoccupazioni, impedisce il contatto con la realtà, con
i propri sentimenti e con quelli degli altri. Impedisce il
vero ascolto e quindi la comprensione di ciò che sta
davvero accadendo.
Paradossalmente, nella civiltà della comunicazione,
sono
aumentati
in
modo
esponenziale
le
comunicazioni superficiali, innecessarie o irrilevanti, e
sono
drasticamente
diminuite
le
comunicazioni
essenziali e profonde: quelle che riguardano il nostro
vero sentire.
Più comunichiamo in questo modo, più creiamo un
fossato profondo tra noi e gli altri, tra noi e la nostra
anima.
Lo slogan “Life is now”, che compare nella pubblicità
di una nota compagnia telefonica, è un capolavoro di
astuzia ed intelligenza manipolativa. Degna delle
migliori tradizioni religiose autoritarie. Viene affermata
una cosa profondamente vera, non troppo facile da
comprendere nella sua vera essenza, allo scopo di
diffondere sempre più un comportamento – l’inflazione
pervasiva di comunicazione inutile – che produce un
risultato esattamente opposto a quello implicitamente
dichiarato e suggerito.
Chattare per ore al giorno al telefonino ci allontana sin
da bambini dalla realtà dell’adesso, così come la
sottomissione sin da piccoli ad indiscusse autorità
religiose, spegnendo lo spirito critico, e spesso anche
collaborando a inibire o pervertire la naturale spinta
sessuale e la naturale capacità di amare, ha da
sempre ostacolato lo sviluppo di una spiritualità
autentica.
Propaganda
religiosa
e
pubblicità
utilizzano
lo
stessomeccanismo di persuasione: separazione dei
mezzi
dal
fine;
far
leva
su
un
fine
altamente
desiderabile.
Mortificare il corpo e i sensi, bruciare sul rogo gli
eretici,
perseguitare
o
uccidere
gli
infedeli,
o
quantomeno sottometterli, opporsi finché è possibile al
progresso della scienza e del libero pensiero, - non
solo in nome della fede, ma talvolta anche in nome
della “ragione”, ovviamente la loro -, sono solo alcuni
dei
mezzi
storicamente
utilizzati
dalle
religioni
autoritarie per mantenere e diffondere il loro potere. Il
fine era quello di insegnare agli uomini la via
dell’amore.
Oggi i sacerdoti della nuova religione dei consumi,
dimostrano di essere all’altezza dei predecessori,
avendone bene imparato la lezione.
“Un’educazione
dei
sentimenti,
quindi
diventa
impraticabile se si vive di corsa, in un clima frenetico,
ove la nostra attenzione si sposta continuamente da
una cosa all’altra!”
Certamente. Fretta, iperattivismo e superficialità, sono
facce della stessa medaglia: tante cose inutili al posto
di poche cose essenziali. Aria pulita, acqua e cibo
sano, bellezza dell’ambiente naturale, grandi spazi
incontaminati
ove
poter
gustare
in
silenzio
la
grandiosità delle montagne, il profumo dei fiori, il
fresco delle foreste, l’incessante danza della vita
animale, sono beni essenziali per la nostra salute
psichica, oltre che fisica. Beni che stanno rapidamente
scomparendo.
Ricordo un documentario girato da un piccolo aereo
che sorvolava il territorio africano: era sconvolgente il
confronto tra la bellezza delle poche riserve e parchi,
ancora ricchi di piante ed animali, e la bruttezza e il
degrado
prodotto
dalle
attività
umane
che
li
assediavano tutto all’intorno, con il suolo devastato
dalla progressiva desertificazione. Processo destinato
ad aggravarsi, anche a causa della continua crescita
della popolazione.
L’Africa, all’inizio del secolo, era autosufficiente dal
punto di vista alimentare. La sua popolazione era
meno di un quarto di quella attuale. C’era posto per
tutti: uomini, piante, animali. Era un continente
meraviglioso, da sogno. Oggi le sue foreste stanno
rapidamente scomparendo, tagliate per vendere il
legname, o bruciate per far posto a nuove coltivazioni.
Molte delle quali non producono cibo per gli africani,
ma per i polli, i maiali e i bovini allevati nei paesi ricchi
o in crescita economica, dove il consumo di carni e
latticini continua ad aumentare.
Se si sviluppasse più empatia, più capacità di provare
compassione, non solo per gli esseri umani che
rischiano di morire di fame, ma per tutti gli esseri
viventi destinati ad essere totalmente annientati e
distrutti, senza uno spazio di sopravvivenza che non
sia una prigione o la gabbia di uno zoo, saremmo colti
tutti quanti da un tale livello di sofferenza che ci
farebbe urlare dal dolore. Grideremmo: basta! Basta
con
questa
infamia!
Smettiamola
di
crescere,
moltiplicarci, occupare ogni metro quadrato di spazio
con
abitazioni,
edifici,
strade,
industrie,
miniere,
allevamenti, e di esserne pure orgogliosi! Lasciamo
che la terra possa riprendere a respirare! Smettiamo
di soffocarla con la nostra vorace presenza! Non siamo
cavvallette,
non
siamo
formiche.
Smettiamola di
comportiamoci da animali infestanti, come topi o
scarafaggi. Smettiamo di essere il cancro della terra.
Abbiamo un cervello e un’intelligenza più grande di
quella necessaria a guardare a venti centimetri dal
nostro naso. E soprattutto abbiamo un cuore e
un’intelligenza emotiva assai maggiore di quella di un
rettile o di un cercopiteco.
“Un’intelligenza che però va sviluppata!”
Sì, attraverso un nuovo tipo di educazione, che veda
in questo obiettivo una priorità assoluta. Ne va della
nostra
salute
mentale,
come
singoli
e
come
collettività, e infine della nostra stessa sopravvivenza.
“Hai detto che il cuore si fa spazioso quando la mente
tace. Nella vita frenetica di oggi, far tacere la mente è
un’impresa quasi impossibile!”
Per molte persone questo è assolutamente vero. Sono
troppo prese dal vortice. Quando si fermano, stanno in
silenzio, portano attenzione al respiro e alle sensazioni
del corpo, l’unica cosa che ottengono è un crescente
malessere. Per riprendersi, corrono a mangiare, bere
un caffè o fumare. Un cervello che gira troppo
velocemente, non può essere fermato in un attimo.
Occorre calma, pazienza e perseveranza. Cioè proprio
le qualità che, come le piante, gli animali selvatici e
l’aria pulita, sono oggi più a rischio di estinzione.
C’è chi ha portato la meditazione buddista nei carceri
e nelle scuole, ottenendo risultati spesso straordinari.
L’impresa non è impossibile, ma molto difficile.
C’è chi ha introdotto delle tecniche che facilitano il
rilassamento
passando
attraverso
lo
scarico
dell’energia in eccesso, e in tal modo favorendo la
naturale
propensione
alla
quiete
e
allo
stato
meditativo. C’è chi preferisce proporre una via ispirata
al
tantra,
che
non
impone
lunghe
sedute
di
meditazione, ma brevi momenti durante la giornata di
presenza mentale. Le vie possibili sono tante, quanto
grande è la creatività umana.
“Quale via propone la PNL umanistica?”
Essenza della PNL è il modellamento di ciò che
funziona meglio, di ciò che è efficace. Ma la domanda
è: funziona meglio per chi? Il problema fondamentale
è questo. Non c’è una via adatta a tutti, perché ogni
persona è diversa e impara in modo differente.
Se andiamo a vedere come sono nate varie tecniche e
vie, di solito scopriamo un maestro o un un gruppo di
maestri che le ha ideate e perfezionate. Un maestro
può insegnare una tecnica solo se ne ha tratto
profondo beneficio. In tal modo può essere congruo ed
efficace. Ma se ha funzionato per lui, anche in modo
eccellente, non significa che produrrà risultati per tutti
gli
allievi,
ma
solo
per
quelli
che
hanno
una
predisposizione, tipologia o stile di apprendimento,
simili a quelli del maestro. Tutti gli altri incontreranno
difficoltà più o meno grandi. Il rischio è che esse
vengano
interpretate
come
resistenze:
pigrizia,
incapacità, incostanza.
Quello che accade nelle scuole di meditazione accade
in tutte le scuole del mondo: alcuni riescono di più
perché
si
trovano
nel contesto
adatto
alla loro
tipologia.
Ignorare questo fatto significa violare uno dei diritti
fondamentali dell’uomo: il principio di eguaglianza.
Esso non richiede di trattare tutti allo stesso modo,
come talvolta banalmente si pensa. Ma di trattare in
modo uguale le situazioni uguali e in modo diverso le
situazioni diverse. Le differenze vanno rispettate, non
ignorate!
Differenti
tipologie
umane
richiedono
rispetto per la loro natura, e modi adeguati per
sintonizzarsi con esse.
Il
paradigma
dualistico,
e
il
relativo
pensiero-
linguaggio, nel quale siamo immersi, rischia sempre di
favorire
la
pratica
del
pensiero
dicotomico:
l’uguaglianza è una cosa, la differenza è un’altra.
Non casualmente, altre culture, come quella cinese o
indiana antica, fondate su una visione non duale,
hanno creato altri tipi di pensiero-linguaggio, in cui la
stessa parola significa contemporaneamente una cosa
e il suo opposto. Ad esempio, la parola crisi, in cinese,
vuol dire rischio, pericolo e, nello stesso tempo,
opportunità.
Per noi un problema è un problema e una risorsa una
risorsa. Due sono le parole, due i concetti, due le
categorie. Certo, anche noi possiamo capire che un
problema, guardato da un angolatura diversa, può
diventare una risorsa. Ma per il tipo di linguaggio che
usiamo,
e
la
forma
mentis
che
ne
deriva,
la
ristrutturazione, il passaggio da una configurazione di
significati
ad
un’altra,
non
avviene
in
modo
automatico. Occorre ogni volta uno sforzo, un atto di
volontà. Appena ci lasciamo andare, tutto torna come
prima.
E’ come percorrere una strada in salita: la gravità tira
verso il basso. Così da noi il pensiero-linguaggio, come
forza di gravità mentale, crea un campo nel quale i
concetti tendono a polarizzarsi, separarsi, contrapporsi
tra loro.
Guarda caso, a fondamento di tutto l’edificio della
conoscenza sviluppata in occidente, stanno i principi
aristotelici di identità e di non contraddizione. Sulla
validità dei quali, in teoria e nella vita di tutti i giorni,
abbiamo imparato a non nutrire alcun dubbio. Principi
che però ci portano sovente ad esclamare affermazioni
piuttosto curiose, del tipo: la vita è paradossale!
Che significa questa affermazione? Di solito chi la
pronuncia intende dire che la vita contraddice ogni
logica previsione. Quindi la vita è strana, perché,
come i bambini, i terremoti o le malattie, si permette
di non confermarsi ai nostri schemi. Chi non ignora la
storia della filosofia, sa per quanti secoli molti filosofi,
a
partire
coincidenza
possibilità
da
Parmenide,
tra
di
ragionamento,
pensiero
conoscere
hanno
sostenuto
la
e
realtà.
E
quindi
la
la
realtà
attraverso
il
bypassando
l’esperienza,
che,
basandosi sulla percezione, è sempre illusoria. Fino ad
arrivare al capolavoro dell’affermazione hegheliana: se
i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per
i fatti.
La
preferenza
accordata
alla
teoria
sui
fatti
è
rispecchiata nella società dalla posizione di privilegio
accordata a non pochi intellettuali, che pontificano su
situazioni che nel concreto ignorano. Perché conoscere
il concreto significa scendere dal piedestallo, perdere i
privilegi, e mischiarsi nella banalità del quotidiano, in
mezzo alla gente più comune e triviale, con le sue
imperfezioni, la sua miseria, la puzza del suo sudore.
Come fecero Dostoevski o madre Teresa, e tanti altri
meno famosi di loro.
“Questo non ha a che fare con il patriarcato e il
maschilismo?”
Vi è strettamente connesso. Le donne, almeno quando
allevano bambini, non possono permettersi troppi voli
lontani dalla realtà, che nell’immediato è fatta, in
entrata, di poppate e di pappe, e, in uscita, da
vocalizzi, pianti e produzioni biologiche di differente
consistenza e odore, che un’amica psicoanalista ha
elegantemente definito: aspetti primitivi del sé. I
bambini, più piccoli sono, più obbligano chi se ne cura,
ad una continua presenza ed attenzione nel qui ed
ora.
Al di là delle battute, è caratteristica del femminile
essere
più
in
sensorialmente
contatto
basato,
con
e
la
un
terra
e
privilegio
con
il
maschile
potersene più facilmente distaccare. Con il rischio di
allontanarsene troppo e coltivare un tipo di pensiero
che con la materialità e la concretezza dei sensi ha
perso ogni rapporto. E con esso ha perso anche ogni
pratica funzione, se non quella di autoriprodursi e
garantire ai suoi maestri o adepti una qualche forma
di privilegio. Come, ad esempio, essere esentati dai
compiti
più
umili
e
faticosi,
o
essere
pagati
profumatamente per un uso inconsistente e pressoché
inutile del linguaggio, che in compenso richiede per
ottenerlo un lungo apprendistato.
In ogni tempo e luogo, quando la ricerca spirituale è
diventata appannaggio del maschile, essa è stata
regolarmente accompagnata dalla svalutazione dei
sensi e del corpo, e dalla comparsa delle formalità,
delle teologie e cosmogonie complicate e inacessibili,
del dogmatismo e della gerarchia. Nella quale le
donne,
o
erano
escluse,
o
occupavano
l’ultimo
gradino. Per motivi profondi ed esoterici, che solo la
superiore razionalità maschile poteva comprendere
appieno.
Ma riprendiamo il filo del discorso.
“Eravamo partiti dal chiederci quale via propone la
PNL umanistica per favorire l’apertura del cuore.”
“E avevamo visto che il concetto di “via” monodica è
contraria allo spirito pluralista e antidogmatico della
PNL.”
Un allievo chiese ad Osho: “Maestro, nel mondo ci
sono più di trecento religioni. Non sono troppe?”
E il maestro rispose: “Al contrario. Credo che siano
troppo poche. Siamo sei miliardi di esseri umani!”
Ogni persona una via: una via spirituale specifica, un
percorso terapeutico, una modalità di insegnamento,
adatti al suo stile di apprendimento, preferenza o
tipologia. Questo è l’approccio polifonico, la “meta-
via”, che propone la PNL, per valorizzare le differenze
individuali, anziché penalizzarle. Trattandole come
risorse anziché come problemi.
Per questo incoraggiamo le persone a frequentare
contesti di apprendimento diversi dai nostri, luoghi
dove si fanno pratiche differenti, si usa un differente
linguaggio e metodologia. Ad approfondire argomenti
e frequentare discipline diverse dalla PNL e dalla
psicologia, come l’economia, la politica, la filosofia, la
storia, la biologia. A frequentare e praticare la musica,
l’arte, la danza, l’attività fisica, il contatto con la
natura. A risvegliare la loro naturale curiosità ed
interesse in settori e campi diversi, ad esplorare nuovi
territori, non per colonizzarli e trarne profitto, ma per
ritornare a essere neofiti, principianti, ancora capaci di
stupirsi e meravigliarsi. Recuperando la voglia che i
bambini
hanno
abbastanza
di
piccoli
apprendere,
ed
finché
innocenti,
rimangono
non
troppo
contaminati dalla cultura competitiva e predatoria in
cui viviamo.
“E non c’è il rischio di dispersione?”
Il rischio è parte integrante dell’esperienza del vivere.
Il chiudersi dentro i cancelli di un’unica prospettiva,
invece, offre una sola certezza: quella di alimentare i
propri pregiudizi e diventare più intolleranti alle idee di
altre persone. Ed è difficile sostenere, anche se è stato
fatto infinite volte, che sia un buon metodo per
imparare ad amare il prossimo e ad avvicinarsi a Dio.
Il pluralismo oggi è un dato di fatto, non una scelta.
Viviamo a contatto quotidiano con persone e prodotti
provenienti da altre culture, lingue, storie, religioni.
Anche volendo, non possiamo isolarci, pena la nostra
estinzione. Non possiamo dire a cinesi, ucraini, russi,
congolesi, ma anche a francesi, inglesi, tedeschi,
americani: statevene a casa vostra, tenetevi le vostre
merci e i vostri prodotti. Se non altro perché loro
farebbero la stessa cosa con noi, e noi, che non siamo
autosufficienti, come non lo è più alcun paese,
potremmo ancora prendere il sole quando c’è, ma
moriremmo di fame, di freddo o di miseria.
La sfida di oggi è passare dall’incontro casuale e
caotico
tra
differenti
ritmi,
trame
e
melodie
di
comportamenti e manufatti umani, a qualcosa che
assomigli ad una musica polifonica o ad un arazzo,
dotato di un qualche senso, non ad un accozzaglia di
rumori o a un deposito di immondizia. Per questo
occorre sviluppare nuove capacità di modulazione e
integrazione. Nuove capacità di comporre le differenze
in un progetto unitario. Nuove capacità di dar forma al
caotico e all’informale. Che, non casualmente, sono le
caratteristiche del processo vitale o neghentropico.
“Rispettare”, etimologicamente, significa guardare due
volte,
guardare
e
comprendere
in
profondità.
Rispettare davvero la vita, slogan oggi di moda,
significa comprendere in primo luogo di che cosa si sta
parlando. Ma parlando utilizziamo il linguaggio, e il
linguaggio che noi crediamo di adoperare, in gran
parte è lui ad utilizzare noi per riprodurre l’implicita
filosofia e storia di cui è figlio, e della quale è fedele
portatore.
Appena parliamo di vita, la nostra mente, formata dal
linguaggio, estrapola dallo sfondo la categorie degli
oggetti ritenuti chiaramente viventi: in primo luogo gli
uomini, e poi, bontà nostra, anche gli animali e le
piante. Ma subito dopo è educata, storicamente, ad
operare un’altra fondamentale distinzione, tra forme di
vita più e meno complesse ed elevate, tra forme
superiori e inferiori, creando così una gerarchia al cui
vertice sta solo l’essere umano, ben separato da tutti
gli altri perché l’unico dotato di anima e sensibilità.
Lungi da me sostenere che gli appartenenti alla specie
homo
sapiens
siano
faziosi.
Non
disponiamo
di
sufficienti prove scientifiche per affermarlo, ma solo di
qualche debole indizio, per nulla probante, come il
fatto di ritenerci, in gran numero, fatti ad immagine e
somiglianza di Dio. Probabilmente anche i babbuini e i
cercopitechi, se potessero ragionare linguisticamente,
arriverebbero ad affermare una tesi equivalente alla
nostra,
con
l’unica
differenza
che
al
vertice
metterebbero se stessi. In compenso, noi possiamo
vantare
una
momento
coerenza
che,
tutti
davvero
ammirevole,
d’accordo,
dal
consideriamo
egocentrici solo i nostri bambini, per risparmiare a noi
stessi l’umiliazione di scoprirci ben poco diversi da
loro.
“Non capisco bene dove vuoi arrivare!”
Ad una meta molto semplice, e nello stesso tempo
ambita: a trovare un rimedio al senso di indegnità e di
colpa, che è così diffuso e pervasivo, da esserci
sembrato parte intrinseca della nostra più profonda
natura, visto che crediamo di averlo ereditato, insieme
agli altri geni, dai nostri primissimi progenitori. Essi sì
che
si
macchiarono
di
una
colpa
molto
grave,
disubbedendo a Dio, al Verbo. Il Verbo che aveva
creato il cielo e la terra, la luce e le tenebre, dando
loro un nome, e che ci aveva fatto a sua immagine e
somiglianza.
Forse oggi siamo in grado di rileggere la nostra storia
in un altro modo: ogni volta che ci allontaniamo da un
uso
tradizionale
del
linguaggio,
e
cerchiamo
di
sviluppare le nostre potenzialità, diventando davvero
umani e comportandoci a nostra volta da creatori,
siamo presi dal panico e dal senso di colpa. Il
linguaggio,
che
ci
ricrea
continuamente
a
sua
immagine e somiglianza, non è disposto impunemente
a lasciarci diventare quello che in realtà siamo
destinati ad essere, perché essendo a sua volta una
nostra creazione, non è frutto di solo amore, ma
anche di potere. Come il Dio del vecchio testamento.
“Amore e potere, le due forze da cui siamo spinti, si
ritrovano all’origine del linguaggio!”
Come di ogni altra nostra tecnica, che, da creatura
nostra, diventa a sua volta creatore dei suoi creatori noi stessi -, imponendoci un processo inconsapevole di
riproduzione, da cui abbiamo difficoltà a liberarci. Noi
abbiamo scoperto l’elettricità, inventato il motore a
scoppio, la stampa, la televisione. Che dovrebbero
essere al nostro servizio, e renderci la vita più facile.
Se guardiamo in profondità, siamo diventati noi i
servitori
delle
automobili,
dei
telefonini
e
dei
computer, dei quali non possiamo più fare a meno.
Come non possiamo più fare a meno del linguaggio,
essendo penetrato nella nostra neurologia e nel nostro
funzionamento mentale.
Ecco perché è così difficile far tacere la mente.
Significa
sottrarsi
ad
un
dominio
ormai
molto
consolidato, quello delle parole attraverso le quali,
nominandola, creiamo la nostra realtà.
Smettendo di usarle, ci inoltriamo oltre le colonne
d’Ercole e siamo presi dal panico. Allora corriamo a
bere, mangiare, fumare, riempirci di impegni. Pagando
così il nostro tributo di soggezione ad un tiranno
interiore, che abbiamo per troppo tempo assecondato,
credendolo il nostro miglior alleato: il potere.
“Vediamo se ho capito il tuo discorso. Ogni volta che
uso una parola, ritaglio una figura da uno sfondo
indifferenziato - un tavolo, un ascensore, o anche un
sorriso o uno starnuto -, e lo percepisco come se fosse
un oggetto o un processo, distinto e separato, dotato
di una sua identità e permanenza”.
Esattamente.
“Quindi, in un certo senso, sono io a creare la realtà
che percepisco fuori di me, come se fosse oggettiva.
Anzi, come hai detto poco fa, nella maggioranza dei
casi, mi limito a riprodurla nel modo in cui il
linguaggio, inconsapevolmente, mi spinge a fare”.
Sì, continua.
“Poi hai aggiunto che, quando davvero mi comporto in
modo creativo, e scombino le carte già date, vengo
assalito dalla paura, perché il linguaggio, come ogni
tecnica, non si presta facilmente ad essere ricreato, ed
oppone resistenza. Un po’ come se temesse di perdere
il suo dominio su di me. Quindi, funziona come una
sorta di organismo vivente. I genitori mettono al
mondo dei figli con lo scopo inconscio di prolungare se
stessi. Ma questi cominciano ben presto a fare di testa
loro e influenzano potentemente la vita dei genitori. Le
tecniche,
create
dall’uomo
per
servirlo,
gli
assomigliano al punto che cominciano ad utilizzare
l’uomo come loro servitore.
Fin qui credo di aver capito. Mi sfugge ancora il
discorso sul senso di colpa e sul modo di liberarsene.”
Ho parlato a ruota libera, e ho lasciato la mia mente
libera, appunto, di scombinare le carte. Ad uno scopo:
seminare ad ampie mani il dubbio su ogni nostra
certezza che non derivi da esperienze basate sui sensi
e sul corpo, ma su esperienze di seconda mano
mediate dal linguaggio. Il linguaggio, se non abbiamo
consapevolezza del suo potere, diventa una trappola
micidiale. Attraverso il linguaggio, dato il suo potere
creativo della realtà, ci si può convincere di qualsiasi
cosa. Il linguaggio propaganda non è solo quello dei
nazisti, dei fascisti o dei comunisti di Stalin, ma anche
quello che molte persone riproducono all’interno della
loro
mente,
asservendosi
completamente
al
suo
potere.
Ricordiamo la sua origine: il linguaggio, come ogni
tecnica, non nasce neutra. Essa porta in sé le
caratteristiche profonde dei suoi creatori, che, essendo
umani, vi immettono sempre una quota di potere,
oltre che di amore.
La
rivoluzione
non
consiste
allora
nell’inventare
sempre nuove tecniche più efficaci, cosa che siamo
bravissimi a fare, ma se possibile, nel liberare quelle
già esistenti del virus del potere che è penetrato in
loro.
“Ad esempio, inserendo nelle tecniche, come si fa in
PNL, una sorta di clausola ecologica?”
A partire dal linguaggio, che è la matrice di tutte le
tecniche umane. Quando, attraverso il linguaggio,
diamo forma ad una realtà come il senso di colpa,
senza
rendercene
conto
creiamo
un
oggetto
altrettanto pericoloso della dinamite per costruire
mine
antiuomo.
difficilmente
Il
potrà
proliferare
contribuire
di
a
simili
ordigni,
promuovere
un
rapporto più armonioso e pacifico tra le persone.
L’etica autoritaria, che si fonda sulla separatività, sul
potere-dominio e lo sfruttamento dell’uomo da parte
dell’uomo, attraverso il linguaggio-propaganda, si è
sempre servita di ordigni simili al senso di colpa, noti
a tutti con i nomi di “rispettabilità”, “peccato”,
“giudizio”, “offesa a Dio”, “bene nazionale”, ecc.
“In che modo il senso di colpa è un’invenzione
autoritaria, e non invece un concetto che ci aiuta a
tenere a bada i nostri più bassi istinti?”
La dinamite può essere utilizzata anche per scavare
un tunnel in una montagna. In certi casi può apparire
una buona cosa. Ma bisogna essere degli irresponsabili
a metterla in circolazione senza le dovute precauzioni.
Il senso di colpa è un’invenzione autoritaria perché
serve a deflagare dentro una mente, non una, ma
infinite volte, rendendo debole e succube la persona.
Serve a farla sentire indegna, cattiva, incapace,
pronta a sottomettersi ad una superiore autorità. Di
più, pronta ad acclamarla e ringraziarla come proprio
salvatore.
L’autorità
irrazionale
connota
come
negativi
determinati impulsi, come quello sessuale o quello di
esplorare e di pensare con la propria testa. Poi
promette punizioni in questo o nell’altro mondo (più
efficaci, questi ultimi, data la loro inverificabilità). Se
la persona crede all’autorità, il gioco è fatto. Anche se
non verrà concretamente punito, si punirà da solo al
proprio interno, avendo interiorizzato l’autorità come
giudice.
Instillare il senso di colpa è un’operazione reazionaria
ed oppressiva, non compatibile con un’educazione
minimamente sana. E tantomeno con una pratica
politica
rivoluzionaria
o
una
via
di
elevazione
spirituale, nobili scopi, proprio per i quali ne è stato
fatto il più ampio uso.
Dopo Max Weber, abbiamo imparato ad operare
nell’etica
una
distinzione,
questa
sì,
davvero
importante: tra etica dell’intenzione ed etica della
responsabilità.
La prima serve spesso a coprire i peggiori misfatti: io
ho agito così per il suo bene, lui è morto, pazienza!
Sono moralmente a posto.
La seconda guarda ai risultati delle nostre azioni. Se
sono dannose, chiede di rimediare. Non a sentirsi in
colpa, che non serve a nessuno, ma a riparare il
danno, impegnandosi a non produrlo più.
Il senso di colpa, invece, è un radicale nevrotico che,
lungi dal migliorarci, ci mantiene deboli ed in conflitto
con noi stessi, pronti a ricadere nell’errore infinite
volte. Macerandoci al nostro interno, ma rimanendo
del tutto insensibili al destino concreto dell’eventuale
vittima. La quale, oltre al danno subito, dovrà magari
sorbirsi il nostro cattivo umore. Il senso di colpa non
serve a purificare la propria anima, ma a sottomettersi
al potere altrui e ad odiare se stessi.
“Come faccio a sapere se una cosa, una persona, una
tecnica, ha potere su di me?”
A questa domanda c’è una risposta molto semplice:
una cosa ha potere su di te quando non ne puoi fare a
meno. Prova a liberarti dal senso di colpa. Non ci
riesci. Il senso di colpa ha potere su di te, perché
l’autorità che te lo ha installato, ti è entrata dentro. Ti
domina dall’interno, esercitando la forma di controllo
più efficace e sicura che esista. Tu credi di essere
libero, perché credi, sentendoti in colpa, di pensare
con la tua testa. In realtà stai pensando con la testa di
chi questo potere ha esercitato su di te.
Appena provi a indagare questo meccanismo, ti senti
più in colpa di prima, perché perdi la tua innocenza: ti
stai ribellando. E la ribellione, nella cultura dell’etica
autoritaria, che hai fatto tua, è la peggiore delle colpe.
“Ma anche i miei cattivi impulsi hanno potere su di
me!”
Nel momento che accetti la definizione di “cattivi
impulsi”, che ti viene fornita non dalla natura, ma
dall’autorità irrazionale, - politica, religiosa o filosofica,
non importa -, essi diventano tali per il semplice fatto
che tu inizi a combatterli. Dando inizio ad una danza
distruttiva, ad una lotta senza fine. Più cerchi di
controllarli, più essi si ribelleranno, trasformandosi in
demoni capaci di riempire le tue notti dei peggiori
incubi.
Così è tipicamente per l’impulso sessuale. Una volta
definito pericoloso e soggetto a repressione, esso si
distacca dall’amore e dallo spirito, e si perverte in
materialità bruta, tingendosi di futilità o sporcandosi di
aggressività e prevaricazione. E’ facile dopo giudicarlo
cattivo.
La regola è semplice: ciò a cui non sei in grado di
rinunciare, diventa un bisogno e ha potere su di te. Se
non sai rinunciare agli alcolici e al fumo, bottiglie e
sigarette hanno potere su di te. Se non sai rinunciare
ad ingollarti di cibo, il cibo ha potere su di te. Non sei
tu a scegliere. Sono loro che decidono della tua vita.
Se non sei in grado di rinunciare alla persona che dici
di amare, e lasciarla libera di amarti o no, tu sei
soggetto al suo potere. Per questo inizi ad odiarla, nel
momento stesso che dici di amarla di più.
Amore e dipendenza sono inconciliabili.
Se
non
sai
rinunciare
ai
tuoi
sogni,
essi
ti
domineranno trasformandosi nei tuoi peggiori tiranni.
“Ma rinunciare non significa arrendersi e abbandonare
ogni
aspirazione?
Quindi
vivere
nell’apatia,
nella
rassegnazione?”
Non ho detto che occorre “rinunciare”, ma “saper
rinunciare”, saper fare a meno. Desidero una casa più
bella, ma posso essere felice anche se non riesco ad
averla.
Voglio
diventare
un
ottimo
pianista, ma
immagino di poter essere felice anche se non lo
divento. Mi fa piacere laurearmi, ma sono soddisfatto
di me anche prima. Sono contento di essere in salute,
ma una malattia non mi fa perdere il buon umore.
Sono contento se una persona è gentile con me, ma
non pretendo che lo sia.
“Quindi non si tratta di non avere desideri o di
reprimerli!”
Certo che no. Sogni e desideri, finché rimangono
preferenze, sono il sale della vita: sono possibilità che,
lasciandoci liberi, ci spingono a muoverci, ad agire, a
goderci le cose. L’attaccamento ai desideri, invece, li
trasforma in bisogni e in doveri. Poiché pretendono di
essere soddisfatti, i bisogni ci dominano e ci rendono
schiavi.
Come dei buchi neri, risucchiano la nostra attenzione
e la nostra energia. Il resto non ci interessa, neppure
più lo vediamo. Siamo presi da un amore passionale e
usciamo con un amico. Lui potrebbe aver perso un
occhio e avere un palo piantato nella schiena, e non ce
ne accorgeremmo neppure. Non c’è spazio nella
nostra testa che per la persona oggetto del nostro
amore. Che amore ovviamente non è, ma solo
possessione.
Questa è la natura della dipendenza.
E si può dipendere da tutto, non solo dall’alcol o dalla
droga. Si può dipendere dalla carriera, dal denaro, dal
successo, dal riconoscimento, dall’amore di un’altra
persona, appunto.
Ricordo una cliente che si tormentava per essere stata
abbandonata dall’uomo con cui stava. L’aveva lasciata
per andare con un’altra donna. Le chiesi se amava
ancora quell’uomo, e lei mi rispose, un po’ risentita:
“Certo, lo amo tremendamente, non ho altri pensieri
che per lui”.
Brevemente, le dissi di immaginare questa scena: lui,
dopo aver trascorso una notte travolgente di passione
con la nuova compagna, al mattino presto esce di
casa colmo di felicità, ma lievemente assonnato. E,
attraversando la strada, non vede sopraggiungere il
camion della spazzatura. Ci finisce sotto e rimane
spiaccicato sull’asfalto.
Nel viso della donna compare un sorriso, molto lieve e
trattenuto, per la verità. In confronto quello della
Gioconda sarebbe apparso una volgare sghignazzata.
Glielo feci comunque notare, e, fingendomi stupito
della sua reazione, le chiesi spiegazioni. E lei se ne
uscì
con
una
frase
del
tipo:
“Ecco
ciò
che
si
meriterebbe quel bastardo!”
Il linguaggio, all’interno di una cultura duale, lo
abbiamo visto, tende a focalizzarsi sulle differenze, e a
polarizzarle.
Il
campo
semantico
della
rinuncia,
richiama comunemente parole come: perdita, resa,
rassegnazione, debolezza, sofferenza. Qualcosa di
negativo, da evitare nei limiti del possibile. Come una
malattia, o una disgrazia.
In questo modo, attraverso una categorizzazione
linguistica socialmente condivisa, veniamo a perdere
una fetta importante di realtà e di significati, che si
collocano in tutt’altra direzione: la rinuncia come forza
d’animo e apertura a nuove infinite possibilità. La
rinuncia come liberazione dalla tirannia dei bisogni!
“Quindi come risorsa!”
Quelli che consideriamo problemi, lo sono dal nostro
punto di vista. Ma la realtà è molto più vasta di ciò
che riesce a vedere il nostro occhio condizionato dal
pensiero-linguaggio e dalla cultura di appartenenza.
“Mi sembra difficile convincere un povero della fortuna
che
ha
nel
rinunciare
ad
una
vita
comoda
e
confortevole! O ad un innamorato a dover rinunciare
alla donna che ama!”
Il problema non sta nella rinuncia, ma nella libertà o
nella costrizione. E’ diverso vivere nella povertà o
nella frugalità perché lo si è scelto, come fece S.
Francesco, o perché a tale situazione si è condannati
da circostanze avverse. Nel secondo caso, non si
tratta di rinuncia, ma di impossibilità, impedimento,
frustrazione, tutte cose che non favoriscono la felicità.
Questo è facile da capire.
Meno facile è comprendere che lo stesso vale per la
ricchezza o il successo. L’attaccamento al desiderio di
avere successo si trasforma spesso in bisogno e
coazione,
che
porta
la
persona
a
lavorare
ed
impegnarsi sempre di più, in una corsa senza fine.
D’altra parte, chi si accontenta della sua situazione
economica non florida, rinunciando alla pretesa che le
cose dovrebbero essere diverse, può vivere una vita
assolutamente piena e serena.
“Finché si parla di soldi o di successo, sono d’accordo.
Ma quando si tratta della salute?”
Il discorso non cambia. Paradossalmente, per godere
di buona salute psichica, occorre saper rinunciare ad
avere
una
perfetta salute
fisica.
Altrimenti
ogni
sintomo, acciacco o malattia, diventa occasione per
sviluppare cattivo umore, infelicità, depressione.
E per godere di una buona salute fisica, occorre lasciar
andare la pretesa di essere sempre soddisfatti e
contenti. In caso contrario, ogni emozione negativa
diventa
oggetto
ansiosa,
trasformandosi
passeggero,
in
di
osservazione
da
sequestro
preoccupata
fenomeno
emozionale
innocuo
che
e
e
può
prolungarsi nel tempo e danneggiare il corpo.
“Ma se arriva una malattia seria o incurabile?”
Mia madre era ricoverata in ospedale a Milano per una
delicata operazione, nella speranza di rimediare ad un
intervento compiuto a Genova da un ortopedico di
rara incompetenza. Nella sua stanza c’erano altre due
donne: una ragazza giovane, ed una signora di una
certa età.
Quando andavo a trovarla, mia madre, nonostante il
disagio e la sofferenza fisica, era contenta di vedermi
e appariva tranquilla e di buon umore. Anche la
signora del letto accanto era molto gentile, sorridente,
ed emanava un senso di serenità.
La ragazza più giovane, invece, era sempre chiusa e
ingrugnita. Non rispondeva al saluto e sembrava
infastidita dalla presenza di ogni altro essere umano.
Tutti i giorni, parenti, amici e il fidanzato, venivano a
farle visita, pieni di premure. Ma il suo umore non
cambiava minimamente: anzi, ogni volta trovava
nuove occasioni per lamentarsi e criticare qualcuno.
Mi feci l’idea che stesse soffrendo per una grave
malattia, e che reagisse alla sofferenza in questo
modo distruttivo. Mentre l’altra donna, più anziana,
probabilmente
aveva un
lieve
disturbo
e presto
sarebbe tornata a casa. Per questo poteva essere
sorridente
nei
miei
confronti,
e
così
gentile
e
premurosa nei confronti di mia madre.
Ben presto venni a sapere che la verità era il
contrario. La ragazza giovane non aveva nulla di
grave, e stava per lasciare l’ospedale perfettamente
guarita. La signora più anziana, invece, era ammalata
di tumore e aveva davanti solo pochi mesi di vita.
Inoltre, era stata abbandonata dal marito, ed era sola
al mondo. Nessuno veniva mai a trovarla.
Nonostante questo, irradiava un senso di serenità e
benevolenza, che era contagioso. Mia madre fu molto
aiutata dalla sua presenza.
Candy Pert racconta di un uomo giovane paralizzato a
letto, senza più l’udito, a causa di un gravissimo
incidente. Per respirare aveva bisogno del polmone
artificiale. Egli trovava conforto nel guardare gli alberi
fuori dalla finestra dell’ospedale. Un giorno perse
anche
la
vista,
e
fu
preso
da
un
terribile
scoraggiamento. Poi si ricordò che anni prima aveva
praticato meditazione. Iniziò a concentrare la sua
attenzione sul respiro, con dedizione e amore. Dopo
qualche ora, il suo umore si risollevò. E con il tempo,
lentamente, il suo corpo cominciò a guarire.
Roberto Ghiozzi, musicoterapeuta che si è formato
nella nostra scuola, accompagnando i malati terminali
di AIDS negli ultimi mesi di vita, ha assistito più volte
ad una loro rinascita spirituale. Rinascita resa possibile
dalla sua presenza amorevole ed empatica, e dalla
musica cantata, composta o suonata apposta per loro.
Vari pazienti lo hanno salutato, prima di lasciare
questo mondo, dicendo che i tempi trascorsi insieme
erano stati i più belli della loro vita.
Non rimandiamo, non aspettiamo gli ultimi giorni della
nostra esistenza per scoprire questa profonda verità:
la felicità non dipende dalle circostanze materiali, ma
dall’apertura del cuore.
“E’ questo il significato profondo della rinuncia alle
pretese e all’attaccamento ai desideri?”
Nel discorso della montagna, Gesù è stato molto
esplicito: beati gli ultimi e beati i poveri, perché loro
sarà il regno dei cieli.
Poveri di che cosa? Poveri di bisogni, e quindi, di
pretese, lamentele, accuse. Capaci di essere contenti
nel qui ed ora, con il cuore aperto a ricevere le grazie
del creato, che sono presenti ovunque, in una foglia,
in un insetto, in un raggio di sole, nel sorriso di un
anziano che sta per morire.
Ogni desiderio a cui ci attacchiamo, diventa un
bisogno, che ci limita e ci toglie libertà. Il bisogno di
riconoscimento
ci
spinge
a
cercarlo
nelle
altre
persone, dalle quali finiamo per dipendere. Il bisogno
di eccellere ci spinge a competere, in una gara
continua con noi stessi e con gli altri.
Non credo che Maslow abbia avuto una buona idea
quando, nella sua famosa gerarchia, a messo sotto la
stessa etichetta di “bisogni” quelli di sopravvivenza,
quelli di relazione e quelli di realizzazione. Da adulto,
ad esempio, non ho mai “bisogno” di accettazione, ma
solo desiderio, perché dall’accettazione non dipendo
come dal cibo.
Chiamandoli bisogni, si legittima una forma di ipnosi
fin troppo comune, che ci autorizza a sentirci male e a
lamentarci
se
non
riceviamo
l’affetto,
il
riconoscimento, l’attenzione che desideriamo. O ad
essere insoddisfatti se non raggiungiamo nella vita i
risultati che ci proponevamo.
E’ vero che Maslow fa una distinzione fondamentale
tra bisogni carenziali e bisogni accrescitivi. I primi
sono i bisogni infantili ancora presenti in un adulto,
come
il
bisogno
di
attenzione,
e
hanno
quindi
carattere nevrotico. I secondi, invece, sono quelli che
ci spingono a migliorarci e a realizzare le nostre
potenzialità. Ma questa distinzione, venendo dopo,
non toglie il rischio di aver messo nella stessa scatola
oggetti così diversi.
I bisogni carenziali sono fonte di paura e coazione.
Quelli accrescitivi sono fonte di crescita, libertà e
gioia. Perché allora chiamarli bisogni? E non piuttosto
aspirazioni, tendenze, forze evolutive, spinte interiori,
motivazioni, passioni?
Da adulti dovremmo essere molto cauti a parlare dei
nostri bisogni, come se si trattasse di esigenze reali. I
bisogni non sono esigenze da soddisfare, ma di cui
liberarsi appena possibile. Più siamo ricchi di intensi
bisogni, più siamo separati dal mondo e dagli altri. E
più siamo poveri a livello spirituale: tesi, arrabbiati o
insoddisfatti.
Su
questa
linea,
presente sono
tensione
e
insoddisfazione
nel
considerati la legittima molla del
miglioramento individuale e del progresso collettivo.
Mentre non sono che l’anticamera dell’inferno emotivo
e relazionale. Quante famiglie si sfasciano perché uno
dei partner dedica al lavoro troppa attenzione ed
energia? E perché lo fa?
“Di solito dice di farlo per mantenere la famiglia, per
garantire un buon tenore di vita, per assicurare un
futuro ai figli”.
Si tratta di una ragione o di una razionalizzazione?
Non è difficile da capire. Dietro questi comportanti c’è
regolarmente un bisogno: di mostrare il proprio
valore. Mostrarlo a chi? Anzitutto a se stessi: io valgo
perché ho successo.
E’ sensata questa risposta? Nella logica del bisogno è
certamente sensata, e così appare a chi la fornisce
finché nel bisogno si identifica, e quindi non riesce a
vederne la natura tirannica. Crede quindi di agire
liberamente per il suo bene, e invece agisce per conto
di un “meme”, entrato nella sua mente, che lo
domina.
“Un meme del potere?”
Sì, un vassallo del potere, che fa il gioco del suo
padrone: l’Ego. Per capire la natura dell’Ego occorre
capire la natura del potere, che per definizione non
può
sopravvivere
se
non
attraverso
la
pratica
dell’inganno e dell’autoinganno.
“Un potere contro di sé!”
Contro di sé e contro gli altri, in una logica non duale,
non fa differenza. Il potere è contro, l’Ego è contro.
Contro che cosa? Contro l’altra forza: l’amore. L’amore
ci vuole connessi, in contatto, uniti tra noi, in armonia
con
l’ambiente.
L’Ego
ci
vuole
separati,
in
competizione, in lotta.
“L’Ego quindi produce continua sofferenza?”
Eckhart Tolle la chiama corpo di dolore. Più Ego
abbiamo, più il nostro corpo di dolore è denso. E nello
stesso tempo la nostra consapevolezza è oscurata
dalla sua propaganda, che ci spinge ad agire non
verso la luce della liberazione, ma verso le tenebre
della progressiva schiavitù.
“La sofferenza, l’insoddisfazione cronica, la paura sono
quindi sintomi di Ego? Anche se ci rendono deboli e
inabili? Non si tratta piuttosto di un problema o un
disturbo?”
L’Ego è il problema! E’ la radice di tutti gli altri
problemi
e
di
tutta
la
sofferenza
innecessaria.
Separandoci dal qui ed ora, dal tempo e dallo spazio
presente, l’Ego ci sconnette dai sensi e dal corpo, e ci
consegna all’illusione del pensiero condizionato dal
passato e dal futuro. Pensiero che, come abbiamo
visto, si nutrono di categorie liguistiche, alle quali
attribuisce statuto di realtà. Mentre della realtà offre
solo un’immagine impoverita e distorta, utile come
mappa in alcune circostanze, ma del tutto fuorviante
se confusa con il territorio.
Quando del linguaggio non sappiamo più fare a meno,
dal linguaggio siamo dominati. Il linguaggio da utile
strumento, diventa bisogno, esigenza da soddisfare,
coazione a cui obbedire. Un linguaggio non più ispirato
dall’amore, ma intriso di “memi” del potere, dei quali
si fa portatore.
La domanda diventa allora: se non possiamo liberarci
del linguaggio, possiamo utilizzarlo come mezzo di
liberazione anziché di oppressione?
La risposta è senz’altro positiva: possiamo imparare a
farlo. In tal modo, da ostacolo, diventa il nostro più
prezioso alleato.
Questa è la sfida attuale in PNL umanistica, per la
quale stiamo mettendo a punto il metamodello 2.
Mentre il metamodello 1 ha il compito di liberarci dalle
illusioni personali più grossolane - causa effetto,
lettura della mente ecc. -, il metamodello 2 ha uno
scopo più generale: confrontare e svelare le illusioni
collettive - in primo luogo l’illusione di separatività -,
assorbite e riprodotte dal pensiero individuale. Che di
individuale e personale ha normalmente assai poco.
Per generare la nevrosi di un uomo moderno, non
bastano le influenze famigliari e scolastiche. Occorre
un forte contributo dei modelli di pensiero dominanti
nella società. Contributo che, di solito, non bisogna far
nulla per ottenere, avendo carattere equanime ed
eguaitario: nessuno ne viene privato.
Una certezza,
almeno questa, sulla quale possiamo fare pieno
affidamento.
“Come funziona il metamodello 2?”
In
modo
simile
al
metamodello
1,
attraverso
confrontazioni e domande. La differenza consiste nella
filosofia che sta dietro alle domande, una filosofia non
duale al posto di quella duale, nella quale siamo
cresciuti ed linguisticamente educati.
“Mi fai un esempio concreto?”
Una persona dice: soffro molto per la violenza che c’è
nella mia famiglia. Se utilizziamo il metamodello 1,
cominceremo a porre domande per avere informazioni
più
specifiche.
Violenza
è
una
nominalizzazione.
Recuperiamo il verbo: usare violenza, essere violenti.
Recuperiamo il soggetto e il complemento. Chi è
violento con chi? Che cosa intendi per violento? In
quali
circostanze
si
manifesta
il
comportamento
violento? Quando è iniziato? Quando si è aggravato?
Chi lo pratica di più? Chi lo subisce? Che cosa
impedisce alle vittime di andarsene e sottrarsi alla
violenza dei prevaricatori? In che modo la violenza in
famiglia ti fa soffrire? In che modo specificamente
soffri? In che modo reagisci tu alla violenza? Quali
sono i rimedi che hai provato fino ad oggi per ridurre
la violenza? ecc.
Attraverso
l’uso
del
metamodello,
arricchiamo
la
nostra rappresentazione della realtà. Mentre all’inizio
ne avevamo solo una vaga idea, via via l’idea prende
forma: saremmo in grado di girare un film con
personaggi
e
attori
che
riproducono
abbastanza
fedelmente quello che accade in quella famiglia. Ma il
metamodello non si limita a questo: alla fine esso ci
conduce a scoprire le convinzioni disfunzionali, i
presupposti che rendono possibile il perpetuarsi di
quella situazione, mantenendo il cliente passivo e
impotente.
“Scopo del metamodello è quindi il recupero delle
capacità e risorse personali?”
Sì. In due parole, aiuta la persona ad uscire dalla
posizione di impotenza e di recuperare il potere di
compiere libere scelte.
“Quindi ha la funzione di ampliare la consapevolezza?
Certamente, consapevolezza dei dati di realtà, delle
proprie convinzioni e decisioni disfunzionali, nonché
dei presupposti impliciti che attraversano tutta la
propria mappa. Lo scopo è quello di ottenere i gradi di
libertà di cui dispone un individuo sano all’interno
della nostra cultura.
“Che però, come dicevamo, è oppressiva nei suoi
fondamenti!”
E quindi una persona sana non è ancora una persona
risvegliata
alla
metamodello 2
realtà
profonda.
non è guarire
Scopo
del
una persona per
renderla adatta ad avere successo all’interno della
società malata di cui facciamo parte, consentendole di
condurre una vita da cosiddetti sani. No, il suo scopo è
di farle aprire gli occhi sulla vera natura della
sofferenza, a partire dalla propria. E sui modi in cui
inconsciamente
tutti
contribuiamo
ad
accrescerla,
spargendo i suoi semi nella vita quotidiana, a partire
dal rapporto con il nostro corpo, con noi stessi e con i
nostri famigliari.
La sofferenza personale, quindi, da ostacolo diventa lo
strumento più importante della propria liberazione.
“Una ristrutturazione piuttosto radicale!”
Il metamodello 2 si occupa della radice profonda dei
problemi. Se guardiamo in superficie, vediamo un
continuo brulicare di problemi diversi: il lavoro, la
casa, la famiglia, la scuola, i figli, il denaro, la
realzione con gli altri, le malattie ecc. Risolto un
problema, se ne affacciano altri due, in un’escalation
geometrica. Più ci diamo da fare per risolverli, più ci
copriamo di impegni che ci tolgono il tempo per
respirare.
“E quale è la radice profonda delle difficoltà che
incontriamo?”
Il progressivo distacco, la separazione dalla realtà.
“Questo ha un nome: si chiama psicosi!”
Nome che noi, per generosità, riserviamo ai malati di
mente conclamati. Comprensibilmente, abbiamo una
certa resistenza a riconoscere la nostra comune radice
psicotica.
D’altra parte, finché è socialmente condivisa, finché
riusciamo ad essere produttivi e a far finta di amare,
perché preoccuparcene? L’importante non è essere
“normali”? Cioè essere come tutti gli altri?
La PNL, nata in un contesto di grande fermento e
innovazione
culturale,
la
California
degli
annni
settanta, - la nuova ipnosi di Milton Erickson, la mente
non confinata nel corpo di Gregory Bateson, la
pragmatica della comunicazione umana di Watzlawick,
i seminari all’Easalen Institute, il rapporto tra nuova
fisica e spiritualità di Fritjof Capra, la meditazione, i
lama e i monaci in esilio dal Tibet -, salvo eccezioni,
ha perso lo spirito rivoluzionario del suo esordio. Si è
adattata, direi molto bene, ed è diventata uno
strumento del business.
Il metamodello 1 è spesso
utilizzato come strumento competitivo per avere più
successo, per prevalere, per definire obiettivi che di
ecologico hanno solo il nome. I titoli di practitioner e
master si prendono ormai in pochi giorni, basta essere
disposti a pagare tanti soldi.
Il metamodello 2 si pone lo scopo di riaccendere lo
spirito rivoluzionario della prima PNL. Almeno lo spirito
che
ho
percepito
io,
quando
ho
cominciato
a
frequentarla. “Non sono interessato alla terapia per
adattare le persone ad una società malata, ma a
promuovere la sua trasformazione”, questo aveva
detto Grinder, uno dei suoi fondatori.
Ma il demone del potere non ha risparmiato la PNL,
come dimostra la sua storia. Perché avrebbe dovuto
farlo, visto che non ha risparmiato nessuno dei grandi
movimenti rivoluzionari, - cristianesimo, illuminismo,
marxismo, psicoanalisi in testa -, per citare solo quelli
che maggiormante ci hanno influenzato? Avendolo
sottovalutato, credendo di possedere la chiave per
controllarlo, peccando di orgoglio, ne sono stati
regolarmente contaminati.
“Ritornando alla sofferenza, mi ha colpito quando hai
detto che da ostacolo essa diventa lo strumento più
potente della nostra liberazione. Che significa? che
dobbiamo essere contenti quando ci ammaliamo,
quando abbiamo un incidente, quando le cose ci
vanno storte?”
Come sai, la PNL è diventata famosa per la rapidità
con cui riusciva a risolvere certi problemi, come le
fobie o gli effetti attuali di traumi del passato. Un
cambio
di
sottomodalità,
un
ancoraggio,
una
dissociazione V/K, ed ecco il miracolo: la fobia è
sparita. Un cambio di storia, e la persona è libera
dall’emozione negativa. Fine della sofferenza. Pronti a
ripartire con una nuova carica vitale.
Ma per andare dove, con chi, a che scopo? per
soddisfare quali valori, quale identità, quale missione?
E’ stato Robert Dilts ha porsi per primo queste
domande. Ma indovinate un po’? Grinder lo ha
sconfessato pubblicamente, dicendo che quella di Dilts
non è più PNL perché si occupa di contenuti. La PNL
vera, la sua e solo la sua, è fatta unicamente di forma
e struttura. Con valori e ideali non vuol sporcarsi le
mani. L’attuale compagna di Grinder, che fa aula con
lui, è una manager, a quanto pare di notevole
successo, che dichiara di essere stata in gioventù miss
america o qualcosa del genere. E racconta storie e
metafore quasi sempre intrise di messaggi su come
ottenere successo.
Nel seminario a cui ho recentemente assistito, di
fronte ad una platea di centinaia di persone, molte
delle quali master o trainer, Grinder ha aperto le
danze in modo da marcare nettamente il territorio: la
PNL sono io! Vediamo se voi ci avete capito qualcosa!
Tutti sotto esame.
Se questa è la rivoluzione promessa, mi richiama
molto quella leninista, senza neppure lo scrupolo o il
buon gusto di mascherarla dietro qualche ideale. Ma
forse è meglio così. I giochi si fanno più chiari. Il
mondo si divide in due: quelli che comandano e quelli
che obbediscono. Torniamo alla realtà, usciamo dalle
psicosi idealiste.
“Sei quindi contrario alla rapida risoluzione di un
sintomo?”
Sono favorevolissimo, purché il sintomo sia visto come
tale, e non come una seccatura di cui liberarsi per
continuare a comportarsi in modo egocentrico e
irrispettoso. Se la cornice generale nella quale si opera
è quella di una gara per chi ha più successo, una sfida
continua per arrivare prima, non possiamo permetterci
di ascoltare i messaggi dei sintomi. Che talvolta o
spesso,
non
sempre,
sono
messaggi
dell’anima.
Messaggi che contengono indicazioni preziose sui
cambiamenti importanti da attuare per rendere la
nostra vita più ricca e piena. In senso relazionale,
emotivo e spirituale, non materiale.
Altre volte i sintomi sono solo disturbi, incidenti, come
una casa che si allaga o un albero che viene colpito da
un fulmine. Una tegola che ti cade addosso non
contiene un messaggio per te. Puoi crederlo, se vuoi,
ma allora, oltre al bernoccolo, in testa hai un
problema ben più serio. Il fatto di condividerlo con
altre persone non ne cambia la natura.
In entrambi i casi, - che i sintomi siano messaggi o
siano frutto di incidenti -, se vogliamo seguire la via
dell’amore,
anziché
quella
del
potere,
c’è
un
atteggiamento di fondo che è opportuno imparare ad
adottare nei loro confronti: la loro piena accettazione,
così come sono, nel momento presente.
“Quindi non dobbiamo far nulla per liberarcene?”
Non dobbiamo fa nulla per combattere con loro.
Facendo così, entriamo in una fisiologia di allarme e
difesa, idonea a scatenare una pronta reazione di
attacco o fuga, funzionale a salvarci dai predatori, ma
del tutto inadatta a rinforzare il nostro sistema
immunitario fisico e mentale. La nostra intelligenza, la
nostra creatività viene a ridursi a quella di un rettile, senza disporre dei suoi denti e del suo veleno -,
proprio quando abbiamo bisogno di migliorare le
nostre prestazioni.
Accecati dalla rabbia e dal rancore, molte volte
perdiamo di vista l’ovvio, il banale: il bisogno di
riposo, di staccare dalla routine, di allontanarci da
situazioni tossiche, di frequentare nuovi ambienti, di
cambiare abitudini alimentari, di fare attività fisica, di
stare in mezzo alla natura, di curare le nostre
relazioni.
Combattere i sintomi serve ad una sola cosa: a
rinforzarli. Prova a combattere con il mal di testa, con
l’insonnia o il mal di pancia. O con la tua rabbia o la
tua paura. O con le tue ossessioni. Prova a maledire il
destino, Dio, la sorte, i tuoi genitori, per un incidente
che ti è capitato!
“Ma accettare sintomi e disturbi in concreto che
significa?”
Significa
assumere
con
essi
un
atteggiamento
contemplativo o meditativo: vederli, riconoscerli così
come sono adesso, senza pretese che non ci siano nel
qui ed ora. Rimanendo disidentificati: io non sono il
mio mal di testa, io non sono i problemi del mio
lavoro,
della
Rimanendo
mia
carriera,
tranquilli.
compassionevole.
Con
della
mia
famiglia.
il
cuore
aperto,
L’occhio della rabbia vede solo la superficie dei
fenomeni, ingrandendoli e isolandoli dagli altri. La
rabbia vuole una soluzione immediata, che spesso non
può esistere o non può essere raggiunta in questo
modo.
L’occhio
della
compassione
vede
i
fenomeni
in
profondità. Nella loro impermanenza e connessione
con gli altri fenomeni. Nella loro corretta proporzione
di spazio e di tempo.
La consapevolezza che ne deriva è di per sé risanante:
riduce il dolore, contiene la sofferenza della perdita,
cura il bruciore della ferita. Ci fa sentire più connessi,
meno isolati, più partecipi al dolore degli altri che
riconosciamo simile al nostro.
Già solo avviare questo processo apre la via della
soluzione o della guarigione. Il sistema immunitario si
rinforza, la mente diventa più lucida, l’intelligenza più
acuta. Le scelte che ne derivano vanno nella giusta
direzione.
Applicare le tecniche di PNL in tale cornice è assai più
produttivo ed ecologico, perché diventano mezzi abili
che favoriscono l’evoluzione spirituale della persona, e
non solo stratagemmi per liberarla rapidamente da
sintomi che il suo Ego considera un ostacolo.
“Stai
dicendo
che
il
problema
non
sono
gli
inconvenienti, i sintomi, gli incidenti, ma il modo in cui
li osserviamo. Se li osserviamo dal nostro Ego,
suscitano in noi rabbia o irritazione. Non vediamo l’ora
di liberarcene come da una spina in un piede. Se li
osserviamo con gli occhi del cuore, o dell’anima, non
destabilizzano più il nostro umore. Ma suscitano la
nostra compassione. Compassione per una gamba che
fa male, o per il piccolo io ferito. Non li neghiamo, non
li trascuriamo, ma ci prendiamo cura di loro con
atteggiamento amorevole.”
E in questo modo, stiamo lavorando nello stesso
tempo
per
curare
la
nostra
ferita,
evolvere
spiritualmente e aiutare gli altri a fare altrettanto.
La via è la meta. Se la motivazione che ci spinge ad
occuparci di un disturbo è egocentrica, anche la
soluzione lo sarà. Al massimo da quel disturbo
riusciremo a liberarci. Ma solo da quello, e non si sa
per quanto.
Se invece l’intento profondo è di curare la nostra
anima, allora da subito il sintomo perde la sua
posizione di centralità nella nostra attenzione. Lo
spazio
di
consapevolezza
si
allarga,
la
nostra
intelligenza si fa più ampia e spaziosa, in grado di
operare con intento di bene. Che per definizione non
può essere solo il nostro, ma è sempre uno scopo che
ci accomuna alle persone vicine e agli altri esseri.
Quando lavoriamo sulla sofferenza in questo modo, la
sofferenza
perde
la
sua
valenza
esclusivamente
individuale e personale, ed acquista una valenza assai
più grande: non solo la “mia” sofferenza, la “mia”
perdita, il “mio” problema, ma il “nostro” problema, il
problema che “ci accomuna”.
Un problema personale diventa allora l’occasione per
lavorare su un problema universale. Non ci porta a
lamentarci, a pretendere da altri la soluzione, ad
accusarli se non fanno abbastanza. Non ci conduce a
rimproverarci o a svalutarci. Non ci stimola ad isolarci
e a rinchiuderci, ma ad aprirci di più. Ad essere più
risonanti ed empatici con la sofferenza nel mondo.
Che non è solo nostra, ma di tutti gli esseri.
Questa è l’essenza della compassione: ascoltare le
grida al proprio interno, e nel contempo ascoltare le
grida del mondo.
La pratica della compassione ricongiunge i fili che si
sono spezzati, ricompone le trame dell’arazzo, rimette
in ordine le note e i temi della sinfonia della vita a cui
apparteniamo.
Questo significa onorare la vita nella sua complessità
ed
armonia,
cominciando
ad
onorare
noi
stessi
dell’attenzione, dell’ascolto e dell’empatia profonda di
cui abbiamo bisogno per recuperare integrità, pace e
salute.
Non possiamo chiedere ad altri di compiere il lavoro
che compete a noi. Anche il miglior terapeuta o il
maestro più illuminato non può far nulla se noi,
abbarbicati al nostro Ego, non siamo disposti ad aprire
gli occhi, le orecchie e il cuore.
Questo però non deve diventare un alibi per i
professionisti dell’aiuto, che devono fare pienamente
la loro parte.
“Quale, specificamente”
In primo luogo liberarsi dai demoni del potere che, nel
cammino evolutivo, assumono forme via via più
nascoste e sottili. Accomunate dall’orgoglio e dalla
persistenza dell’Ego.
Anche l’ego, stenterete a crederlo, va a scuola di
psicoterapia, counseling, formazione. Ed è un allievo
modello: prende appunti, annota ogni cosa con la
massima diligenza. Apprende il metamodello, lo slight
of mouth e le altre tecniche. E poi studia un piano per
mettere le competenze acquisite al suo servizio. Ad
esempio cercando di diventare il migliore, il più
creativo, colui che ha più successo.
E il povero io-governo, con tutti gli impegni che ha a
tenere insieme la compagine dei suoi ministri, abbocca
molto facilmente.
Finché l’Ego, come terapeuti o come clienti, rimane il
nostro più fedele consulente, non facciamo passi
decisivi nella direzione del risveglio. Paradossalmente
occorre diffidare del successo, quando ci riempie di
troppa soddisfazione. Di chi è questa soddisfazione?
Dell’Ego o dell’anima?
“Vediamo se ho intuito bene. Si tratta di una tipica
domanda del metamodello 2?”
Hai ascoltato con il cuore, sei arrivato al nocciolo della
questione. Il tuo ascolto ti rende più facile capire, e
rende a me più facile insegnare. Non solo il tuo, ma
quello di tutti voi.
In questo momento svolgiamo ruoli differenti, ma
l’intento
ci
accomuna:
apprendere,
sviluppare
consapevolezza. Più siamo uniti nell’intento, più la
nostra intelligenza si fa intelligenza di gruppo, la
nostra mente si fa mente di gruppo, più potente di
quella individuale.
Stiamo
creando
profonda,
senza
uno
spazio
barriere.
di
Tutti
comunicazione
ne
traiamo
giovamento.
Non il nostro Ego, però, che, statene certi, guarda a
questo fenomeno con giusta preoccupazione. La sua
politica, come organismo che abita all’interno della
nostra mente, è di tutt’altra natura. Non vuole che
creiamo più unione tra noi, più intimità, ma più
separazione, più distanza, più diffidenza. Solo lì può
proliferare e diffondersi.
“Perché fa così?”
E’ nella sua natura, come nella natura di un virus c’è
la spinta a introdursi in una cellula, ad occuparla per
succhiare
la
sua
energia,
altrimenti
non
può
sopravvivere.
I virus, sapete, fanno cose strane, e sono molto
creativi. Ce n’è uno che, quando infetta un topo,
stimola
i
suoi
neuroni
a
farlo
muovere
eccessivamente, anche in presenza di un gatto. Un
comportamento suicida, direte voi, perché il topo, una
volta nelle fauci del gatto, è destinato a morire. Il topo
muore, certo, ma non il virus, il quale si trasferisce nel
sangue del gatto, che è l’unico ambiente adatto alla
sua riproduzione.
Una strategia di notevole intelligenza.
Se un virus, che è più piccolo di una cellula, può
manifestare un comportamento così opportunista,
figuriamoci l’Ego, che è frutto collettivo di miliardi di
menti
umane
immaterialità
per
rende
un
milione
solo
più
di
anni.
sicura
La
sua
la
sua
sopravvivenza, attraverso la trasferibilità e adattabilità
agli ambienti umani più diversi.
“E tornando alle domande del metamodello 2?”
Tu mi parli di un problema che ti fa soffrire: la
violenza nella tua famiglia. Anche senza saperne
molto, posso chiederti: la sofferenza che dici di
provare, è espressione della tua anima o del tuo Ego?
“Come faccio a distinguere? Io ho difficoltà!”
E’ facile operare tale distinzione. Sono due tipi di
sofferenza
completamente
diversi.
Non
puoi
confondere un ippopotamo con un cercopiteco, a
meno
che
tu
non
abbia
frequentato
un
lungo
apprendistato per sviluppare cecità selettiva e grave
agnosia nei confronti degli animali.
Purtroppo, però, tu hai ragione. Hai difficoltà a
distinguere tra loro due cose così semplici, perché
quel corso tu lo hai frequentato, a tempo pieno, a
partire dalla tua infanzia. Un corso non diretto a
sviluppare agnosia per gli animali, ma per gli stati
d’animo fondamentali.
Tu
non
sei
alessitimico.
Tu
sei
normale.
Sai
distinguere la rabbia dalla tristezza, e la tristezza dalla
paura. Però non sai riconoscere quale è la loro fonte:
l’Ego o l’anima.
Su questo sei perfettamente adattato alla nostra
cultura: condividi il presupposto fondamentale della
nostro modo di percepire il mondo. Più diventi grande,
più vai avanti a studiare, più diventi confuso rispetto a
tale elementare differenza che fa la differenza. Finisci
così per ignorarla, svalutarla o ridicolizzarla.
In fondo, credi che sia una cosa troppo banale per
meritare la tua attenzione. Se studi psicologia, vieni
solo confermato in questa convinzione. I problemi
reali sono ben più complessi: inconscio patogeno,
impulsi, complesso di Edipo, ansia da castrazione,
pulsione di morte…
Però è una differenza alla quale da bambino, come
qualunque
Diversa
animale,
era
la
eri
tua
particolarmente
reazione
se
tua
sensibile.
madre
ti
rimproverava mossa dal suo Ego o ispirata dalla sua
anima.
La rabbia di un’anima compassionevole non ferisce
nessuno.
Anzi
è
un
mezzo
molto
potente
per
risvegliare le coscienze.
La gentilezza che proviene dall’Ego, invece, ci lega
come un guinzaglio al collo.
Anche se proviene da
nostra madre. Anzi, a maggiror ragione se viene da
nostra madre o da nostro padre.
In sintesi, le domande del metamodello 2 sono mezzi
abili
che
aiutano
la
persona
a
recuperare
consapevolezza
rispetto
a
questa
fondamentale
distinzione: tra pensieri, convinzioni, emozioni, stati
interni, comportamenti, atteggiamenti, parole, che
provengono
dall’Ego,
da
una
parte;
e
pensieri,
convinzioni, emozioni, stati interni, comportamenti,
atteggiamenti, parole, che provengono dall’anima,
dall’altra.
“Quindi il metamodello 2 si collega strettamente al
tema degli inquinanti e delle qualità dell’essere, delle
barriere e dei facilitatori?”
Esattamente. E’ una tecnica linguistica per rendere
operativa, nella vita di tutti i giorni, questa preziosa
conoscenza.
aggiornamenti,
Conoscenza
proviene
che,
dalle
con
i
antiche
dovuti
tradizioni
sapienziali non duali, ed in primo luogo, per la mia
personale esperienza, dalla filosofia Buddista.
Essa favorisce l’allineamento interno tra i livelli logici,
in modo che siano la mission e la nostra vera identità
a guidare la nostra vita, al posto dell’Ego e delle
subpersonalità.
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