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Come un cane da caccia impazzito dietro a un mucchio di selvaggina

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Come un cane da caccia impazzito dietro a un mucchio di selvaggina
L’OSSERVATORE ROMANO
mercoledì 1 giugno 2011
pagina 5
Pubblicate le lettere di Marie-Dominique Chenu a Vittorio Peri
Come un cane da caccia impazzito
dietro a un mucchio di selvaggina
È in libreria Via San Calepodio. Lettere di Marie-Dominique Chenu a Vittorio Peri, a cura di Francesca Minuto Peri (Roma, Studium, 2011, pagine 206,
euro 13), che raccoglie le lettere (1958-1989) inviate dal teologo e storico domenicano Marie-Dominique Chenu (1895-1990) a Vittorio Peri (1932-2006),
«scriptor» greco della Biblioteca Apostolica Vaticana, studioso dei concili,
dell’Oriente cristiano e dei rapporti fra cattolicesimo e ortodossia, per molti anni
collaboratore del nostro giornale. Pubblichiamo la parte iniziale dell’introduzione e
due estratti dalle lettere.
di PAOLO VIAN
ono molto vecchio: i miei occhi
sono malati. La
mia scrittura non
è buona, e provo
difficoltà a leggere, a lavorare. Talvolta cedo alla tristezza». Così scriveva da Parigi l’8 aprile 1987 il più
che novantenne (era nato il 7 gennaio 1895) teologo domenicano Marie-Dominique Chenu a una famiglia
di amici, romani di adozione, Franca
e Vittorio Peri, con le loro cinque figlie. Quasi per consolarlo nelle prove e nelle tentazioni dell’abbattimento, Vittorio gli risponde, il 25 aprile,
con una delle lettere più belle del
carteggio che qui si presenta. Non si
limita a esprimere a Chenu la convinzione che egli sia, rispondendo ai
requisiti classici della doctrina orthodoxa, della sanctitas vitae, dell’approbatio Ecclesiae (per l’antiquitas ecclesiastica si tratta solo di attendere),
un Padre della Chiesa, ma gli confida, con una straordinaria metafora
venatoria, ciò che lui, Chenu, aveva
rappresentato nella sua vita di cristiano e di studioso, a partire dall’incontro, nel 1953, dello «studentello»
italiano con il volumetto di Chenu,
Une école de théologie: Le Saulchoir
(1937): «Non ho nessun particolare
ricordo psicologico di me nel passato, ma ugualmente mi resta di quei
mesi parigini una sensazione: come
di essere guidato, tra incontri di persone e di idee e di situazioni,
dall’istinto di un cane da caccia impazzito dietro a un mucchio di selvaggina, che correva e volava in tutte le direzioni. Almeno… così io immaginavo che provi psicologicamente un cane da caccia! Studiavo Origene: che spiegava come i cacciatori
e i pescatori inseguivano misticamente, sui colli e nel mare, la sfuggente selvaggina delle parole e degli
uomini di Dio, vedendone solo il
dorso e le orme, sulla sabbia o nelle
fessure della roccia. I profeti, insieme, costituiscono le maglie della rete
di Dio. Ognuno di noi è preso nelle
maglie della sua misura, del suo profeta, dove Dio lo spinge. A me è
toccata la ventura bellissima di incappare in padre Chenu, per il quale, con lui, ringrazio il Signore».
Basterebbe questo scambio di battute a rendere preziosa l’edizione di
questo carteggio, amorosamente voluta e realizzata dalla moglie di Vittorio, Franca, che compare accanto
al marito in tutte le lettere. Ma cosa
aveva dunque significato per Peri
quell’incontro nel cuore degli anni
Cinquanta? Per rendersene conto bisognerebbe tornare alla formazione
scolastica e universitaria e all’educazione religiosa degli anni Cinquanta.
Chenu era allora uno storico della
teologia medievale molto noto (ma il
suo capolavoro, la raccolta di articoli
riuniti sotto il titolo La théologie au
douzième siècle, sarebbe uscito solo
nel 1957) che aveva visto posto
all’Indice, nel 1942, il ricordato volume Une école de théologie e che era allora anche coinvolto nelle esperienze
dei preti-operai. Ma i provvedimenti
disciplinari non ne avevano affatto
spento la visione dinamica della storia della Chiesa e della dottrina cristiana, che sentiva troppo spesso
mortificate dalle sclerotizzazioni di
un insegnamento e di un’apologetica
rattrappiti dalla reazione alle contestazioni e alle deviazioni della modernità e dalle preoccupazioni antimoderniste. Al contrario Chenu proponeva il modello di un pensiero
cristiano che, come quello del Tommaso d’Aquino che intendeva far riscoprire, faceva con coraggio i conti
col pensiero contemporaneo, ne assumeva i rischi e le sfide (proprio
come aveva fatto l’Aquinate con Aristotele nel secolo XIII) ma passandolo al vaglio del Vangelo e trasformandolo alla sua luce. Credo che il
Peri poco più che ventenne (era nato a Gorizia nel 1932 e si stava laureando in letteratura cristiana antica
alla Cattolica di Milano) sia stato affascinato proprio da questo, da un
profilo di storia della dottrina cristiana (e, implicitamente, da un’idea
della fede cattolica) non mummificata nella ripetizione di formule atemporali ma consapevole della ricchezza della varietà e delle differenze,
«S
delle evoluzioni e dei prestiti, delle
trasformazioni e delle mescolanze,
dei confronti e degli incontri. A un
tale profilo Peri, nato e cresciuto in
una terra etnicamente varia (come la
Tagaste di Agostino e la Tessalonica
di Cirillo e Metodio, avrebbe scritto
in seguito), che aveva anzi da poco
vissuto un terribile e cruento scontro
di culture diverse, non poteva non
essere naturalmente sensibile. E questo spiega probabilmente la sua impazienza, la sua insoddisfazione per
una certa formazione ricevuta nella
Cattolica modellata dal pur grande
Agostino Gemelli; e questo rende
comprensibile il suo desiderio, la sua
ricerca di orizzonti più vasti e meno
angusti, di un’ecclesiologia meno rigida di quella proposta in epoca di
Controriforma da Roberto Bellarmino, di un’apologetica meno difensiva
e più consapevole delle ricchezze dimenticate della sapienza cristiana. Si
potrebbe evocare a questo punto il
nome di un altro domenicano francese, più anziano di una trentina
d’anni di Chenu, padre Humbert
Clérissac (1864-1914), che non compare mai nelle lettere ma potrebbe
ben esservi preposto, quasi a esergo.
Clérissac fu, tra l’altro, autore di uno
straordinario volumetto sul mistero
della Chiesa che, pubblicato postumo nel 1925 con introduzione di Jacques Maritain e tradotto dieci anni
dopo dalla Morcelliana di Brescia,
ebbe una profonda influenza sul cattolicesimo intellettuale della prima
metà del XX secolo. Ebbene, Le
mystère de l’Église è tutto attraversato
da una convinzione profonda: che la
Chiesa sia molto più grande, viva e
bella di quanto una certa apologetica, per sua natura difensiva e quindi
inevitabilmente riduttiva, elaborata
in un clima di assedio e di persecuzione, possa far pensare. Non so se
Peri nella prima metà degli anni
Cinquanta già conoscesse il volumetto di Clérissac, che in seguito molto
amò (cercando negli anni Ottanta di
promuoverne, senza successo, una
nuova traduzione italiana); certo è
che padre Chenu rappresentò in
qualche modo per lui l’incontro liberatorio con la sostanza dell’intuizione di Clérissac e significò l’acquisita
Padre Marie-Dominique Chenu
convinzione che si può essere profondamente cristiani quanto più si è
profondamente fedeli alla storia, alle
sue voci e ai segni dei tempi, che il
suo desiderio di pace e di fraternità
poteva e doveva coesistere col rispetto della varietà, della multiformità,
delle differenze. Tutte le ricerche
successive di Peri, da quelle sulla coscienza conciliare nella Chiesa a
quelle sui rapporti fra le chiese
d’Oriente e d’Occidente, potrebbero
essere ricondotte nel loro nucleo essenziale a quell’apertura intellettuale
e spirituale vissuta e sperimentata
nel soggiorno parigino degli anni
1954-1955, nella frequenza del centro
domenicano
di
Soisy-sur-Seine,
nell’incontro con quello che gli apparve un Padre della Chiesa in carne
e ossa. Ce n’era abbastanza per spiegare l’impazzimento del cane da caccia dietro tanta selvaggina.
Per quanto la conoscenza fra Chenu e Peri risalisse, come si è detto,
agli anni 1954-1955, cioè al soggiorno
del giovane Vittorio a Parigi in vista
della sua tesi di laurea sulle Omelie
su Geremia di Origene guidata da
Giuseppe Lazzati, la corrispondenza
conservata si apre solo il 15 luglio
1958, proprio alla vigilia delle nozze
(19 luglio 1958) di quelli che allora
erano due giovani insegnanti formatisi nell’Università Cattolica di Milano e ancora gravitanti nel suo ambito: Franca accanto a Ezio Franceschini e alla sua cattedra di Letteratura latina medievale, Vittorio, come
si è accennato, accanto a Lazzati e
alla cattedra di Letteratura cristiana
antica. Questo stigma di corrispondenza familiare domina l’intero carteggio, dall’inizio alla fine. Chenu
non si rivolge all’uno o all’altra ma
mostra di avere sempre presenti tutti, grandi e piccole, anche quando
Giovanni Paolo II saluta Vittorio Peri
durante un’udienza del 15 gennaio 1999
l’appellativo iniziale e il tono del discorso sono al singolare. D’altra parte, l’incontro fra il domenicano e la
famiglia Peri (che da Milano si era
trasferita a Roma nel 1961, seguendo
Vittorio che nel marzo 1961 era divenuto scriptor per la lingua greca della Biblioteca Vaticana) si era consumato nella forma più felicemente
domestica negli anni del concilio
ecumenico Vaticano II (1962-1965),
quando Chenu era a Roma come
teologo personale di Claude Rolland, missionario di Nostra Signora
di La Salette e vescovo di Antsirabé,
in Madagascar. La casa generalizia
della congregazione missionaria (ove
alloggiavano il vescovo Rolland e il
suo teologo) era a Monteverde, a
breve distanza da via San Calepodio, dove abitavano i Peri. E Chenu
si recava spesso, di sera, a casa Peri,
ove «in mezzo al frastuono del Concilio» (come si esprime nel biglietto
del 22 dicembre 1962) trascorreva
«ore felici, in amichevole confidenza», «un’affettuosa distensione dopo
le austerità conciliari» (Chenu, 21
gennaio 1985). In casa non vi erano
soltanto delle piccole bimbe che crescevano; vi approdavano teologi e
pastori come Carlo Colombo ed
Emilio Guano e figure inquiete come Ivan Illich. Le lettere del carteggio divengono allora per Franca Peri
quasi un pretesto per ricordare,
un’occasione per rievocare dopo tanti anni la gioia di quel clima, al tempo stesso familiare (per lo scenario
in cui si svolgeva) e solenne (per i
grandi eventi di cui era testimone e
partecipe).
Un uomo del Signore
La Pira e la costruzione del mondo
Molto Rev.do Padre [Chenu],
mi permetto di offrirLe gli acclusi studi sulle origini storiche della
controversia del «Filioque». Dopo anni di studio mi pare d’essere
giunto alla conclusione, dimostrabile (...) in sede filologica e storica
(...) che tra gli anni 790/91 e 810 l’aggiunta al simbolo niceno fu promossa per mera necessità e volontà politica come pretesto teologico di
una differenza dottrinale insussistente in quegli anni tra le Chiese occidentale ed orientale. Penso anche di poter mostrare come, dove e
perché una «trovata» polemica di un teologo franco, confutata ufficialmente da Adriano I, abbia potuto diffondersi in modo sociologicamente capillare fino a divenire per secoli il punto simbolico della divergenza dogmatica fra le due Chiese. Confesso che ogni tanto sono
tentato di scoraggiamento, nel condurre solitariamente un lavoro di
scandaglio nel passato della nostra Chiesa, che ha l’unico scopo e desiderio di servirLa, ma è lungo e ingrato e non sembra partecipare
all’«attualità». Nel farlo tuttavia e nel continuarlo da anni mi sono di
conforto figure come la Sua e come quella di alcuni altri uomini del
Signore, che ho avuto la grazia di incontrare. La ricordo quando nel
1954 al Saulchoir Lei di buon mattina lavorava — in quei giorni difficili e oscuri — con applicazione e fede, e ne parlavamo con gli amici
come di un esempio. Ora seguo, come posso, la sterminata e incredibile Sua produzione e resto attaccato ad un’esperienza che autenticamente mi aiuta.
Carissimo [Peri],
la tua lettera mi ha recato una grande gioia, per un duplice motivo, per il
suo contenuto, ma anche per l’evocazione che provoca in me del ricordo fedele che conservo delle ore trascorse a casa tua in via San Calepodio. È una
grazia, una vera grazia di comunione che porto dentro di me. Questa volta
c’è la grande notizia del tuo impegno nel processo di canonizzazione del nostro amico La Pira. Dò il pieno assenso a quanto dici di quest’uomo: profeta
e mistico all’interno di una carità politica pienamente impegnata nel movimento della storia. Non posseggo alcun documento da apportare come supplemento della massa di testi che tu possiedi, ma posso offrire una testimonianza viva, per la quale condivido calorosamente il tuo desiderio che quest’uomo sia proposto come modello, non solo in Italia, ma in tutta la cristianità. Perché la santità ha una storia di cui bisogna cogliere le varianti di fondo e le diversità. (...) L’aspetto qualificante per La Pira è che egli è, non solo
un «laico», ma un uomo «politico» per la costruzione del mondo. È questo
l’asse intorno al quale ha organizzato sia il suo pensiero sia i suoi comportamenti generali e quotidiani. Ce n’è abbastanza per definire la sua santità.
Tutti gli episodi della sua biografia debbono essere letti in questa luce, a cominciare dal suo viaggio a Mosca. La mia memoria è copiosa. Ma tu ne sai
più di me su quegli episodi e su quegli itinerari. Il mio cattivo stato di salute
(continuo a non poter leggere né scrivere) non mi permette più di raccogliere
gli elementi che ti potrebbero interessare. Condividi con Franca la mia stima
e la mia amicizia. Abbraccia le figlie.
Paris, 26 maggio 1989
Biblioteca Vaticana, 6 ottobre 1971
Un saggio di Marcello Dei su una pratica in voga nelle scuole italiane
Copiando il malcostume di sentirsi furbi
di GIULIA GALEOTTI
Probabilmente la tentazione l’abbiamo avuta tutti. E, forse, una
volta almeno, vi abbiamo perfino
ceduto, e con noi (verrebbe da aggiungere) gran parte della scolaresca umana nei secoli. Perché a
scuola, si copia da sempre — e
sempre si copierà. Anzi, in un paradossale gioco delle parti, viene il
dubbio che la struttura scuola sia
nata proprio per dare una veste ufficiale alla nobile arte. Nobile, almeno, secondo due illustri italiani,
Luca Cordero di Montezemolo e
Claudio Magris, i cui pubblici elogi della copiatura sono citati — con
una approfondita presa di distanza
— da Marcello Dei, nel suo ultimo
libro Ragazzi, si copia. A lezione di
imbroglio nelle scuole italiane (Bologna, il Mulino, 2011, pagine 241, 16
Il problema non è solo
la mancanza di senso civico
quanto il fatto che gli studenti
si comportino da clienti
di un servizio reso alla loro persona
euro). Si tratta di una lettura stimolante giacché l’autore cerca di
andare alla radice di un fenomeno
cambiato radicalmente negli ultimi
decenni. Mutato nei modi, nei
tempi e nelle valutazioni.
Innanzitutto è cambiata la modalità concreta con cui si copia
(anche perché, in parte almeno, sono mutate le tecniche dell’esame).
Grazie alle nuove tecnologie, oggi
è molto più facile copiare, mentre
è ben più difficile
contrastare la copiatura.
Poiché
molto spesso gli
originali viaggiano
per via elettronica,
infatti, hacker affidabili sono in grado di intercettarli
in tempo, con blog
e annessi vari che
diffondono poi su
larga scala test e
soluzioni ben prima
dell’appuntamento in classe (i
docenti, dal canto
loro, non dovrebbero essere solo poliziotti sul campo,
ma una sorta di
contro hacker). In rete, poi, è possibile acquistare oggetti adatti allo
scopo, come orologi digitali con 1
GB di memoria, inutili per leggere
l’ora ma strepitosi nella loro missione di digitalizzare i bigliettini
salva-esame.
Dal canto loro, oggi molto più
di ieri gli insegnanti non vedono
gli alunni copiare, o fingono di
non vederli. E se, malauguratamente, non riescono a non vederli,
elargiscono al massimo un buffetto. Di certo, nessun sequestro o
provvedimento disciplinare. La
scelta di come comportarsi dinnanzi all’alunno che copia, poi, è un
affare personale dell’insegnante:
non vi è infatti alcun modello istituzionale di riferimento. Anzi, osserva Marcello Dei, «chiedersi come l’insegnante deve/dovrebbe
comportarsi suona come un’intrusione nella privacy».
Perché — e questo è il nocciolo
del problema — copiare non è considerato reato. Sicuramente, non lo
è in Italia, dove le regole pubbliche sono ritenute vincoli costrittivi
che impediscono la creatività individuale, esattamente come non pagare le tasse è sentito come un legittimo atto di autodifesa contro
uno Stato invadente. Esempi se ne
potrebbero fare a dozzine: passare
con il rosso, utilizzare le raccomandazioni, viaggiare gratis sui mezzi
pubblici, confidare nei condoni.
Colui che copia è il cittadino che
si difende da un’autorità inadeguata e illegittima. Non solo, ma chi
copia senza farsi accorgere merita
che gli sia riconosciuta la somma
virtù, la furbizia. Marcello Dei riporta gli esiti della ricerca su
«quello che gli studenti provano
dopo aver copiato». Ebbene, al
primo posto troviamo l’indifferenza (36,5 per cento), al secondo la
soddisfazione per la furbizia (23,3
per cento). Né le
cose vanno meglio
quando al campione si domanda se
copiare il compito
in classe sia condannabile: il 47,6
per cento risponde
per niente, il 35,6
per cento poco.
Così, nelle scuole
della Penisola chi
passa il compito è
un eroe. È l’emblema della cultura
giovanile che si ribella
all’autorità,
dispotica e ingiusta. A nessuno — né
all’adulto né al minore — «è venuta in
mente l’idea che se si condivide il
proprio merito e il proprio vantaggio personale, lo si annulla». Negli
Stati Uniti, invece, discenti e insegnanti parrebbero averlo capito.
L’estrema e condivisa severità verso chi copia è, infatti, la maggiore
garanzia a difesa del merito. Non è
solo questione di senso civico, ma
anche del fatto che gli studenti si
comportano da clienti di un servizio reso alla persona. Alla loro persona.
Un contributo tutt’altro che
marginale all’aumento di tolleranza
della scuola italiana verso la copiatura lo ha dato la classe insegnante. Parallelo al cambiamento socioeconomico, politico e culturale,
nella scuola di oggi l’importanza
che viene data alla morale è sempre più bassa, essendosi allentati i
freni etici e quelli disciplinari negli
insegnanti, man mano che essi
hanno perso parte della loro auto-
rità. Una diminuita autorevolezza
imputabile in gran parte al nuovo
atteggiamento dei genitori, eterni
adolescenti sempre più schierati in
difesa dei loro figli, sempre più
combattivi nella comoda e deleteria giustificazione di ogni comportamento dei loro pargoli. Oggi, infatti, il progetto educativo non vede gli adulti collaborare per l’istruzione e la formazione dei giovani,
ma vede genitori e figli alleati contro i nemici insegnanti.
Il risultato di questo concorso di
elementi fa sì che oggi copiare non
sia solo una pratica depenalizzata,
ma anche — e prima ancora — una
pratica deresponsabilizzata.
La mia (pessima) insegnante di
greco al liceo aveva due classi parallele. Ignorantissima nella materia che insegnava (nonché intellettualmente pigra), ella dava lo stesso compito a entrambe. Va da sè
che, in una casuale ma «giusta» alternanza, noi e loro ci passavamo
la versione. Dapprincipio stavamo
attenti a non esagerare, mettendo
qua e là qualche errore per non indurre sospetti. Poi, però, esterrefatti, ci siamo accorti che era del tutto inutile: in due anni, la professoressa non si è mai insospettita vedendo che alcuni di noi presentavano una incredibile alternanza di
quattro e otto (eravamo, ai suoi
occhi, «gli incostanti», tipica sindrome adolescenziale!). Né le è
parso mai strano che, alternativamente, una sezione andasse benissimo e l’altra fosse per buona parte
travolta da cicliche Caporetto.
La professoressa di greco era
sciocca e ignorante. Noi, però, non
eravamo affatto da meno. E ci credevamo tutti perfino furbi.
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