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materiale giurisprudenziale in tema di legittimazione processuale

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materiale giurisprudenziale in tema di legittimazione processuale
MATERIALE GIURISPRUDENZIALE
IN TEMA DI
LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE,
LEGITTIMAZIONE AD AGIRE
LITISCONSORZIO
SUCCESSIONE NEL PROCESSO CIVILE
1. Legittimazione processuale
Cass. civ. Sez. lavoro 07.06.2003 n. 9147
L'art. 75 c.p.c., nell'escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio
dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state legalmente private della capacità di agire
con una sentenza di interdizione o di inabilitazione o con provvedimento di nomina di un tutore o di
un curatore provvisorio, e non alle persone colpite da incapacità naturale. Infatti, l'incapacità
processuale è collegata alla incapacità di agire di diritto sostanziale e non alla mera incapacità
naturale, cosicché l'incapace naturale conserva la piena capacità processuale sino a quando non sia
stata pronunciata nei suoi confronti una sentenza di interdizione, ovvero non gli sia stato nominato,
durante il giudizio che fa capo a tale pronunzia, il tutore provvisorio ai sensi dell'art. 419 c.p.c.
Cass. civ. Sez. II 29.09.2003 n. 14455
In tema di rappresentanza sostanziale delle persone giuridiche, vige il principio secondo cui la
legittimazione processuale - relativamente alla qualità dichiarata - va d'ufficio accertata dal giudice
con riferimento all'astratta idoneità della veste del soggetto che agisca in nome e per conto dell'ente
ad abilitarlo alla rappresentanza sostanziale nel processo. Ad un tale riguardo, nelle società per
azioni il potere di rappresentanza spetta agli amministratori i quali, possono conferirlo, in base allo
statuto o alle determinazioni dell'organo deliberativo, anche a soggetti che siano preposti a un
settore con poteri di rappresentanza sostanziale o inseriti con carattere sistematico nella gestione
sociale o in un suo ramo. La Corte, nel formulare il principio sopra richiamato, ha dichiarato
inammissibile, per carenza di allegazione e di prova della rappresentanza sostanziale di coloro che
avevano agito, il ricorso per cassazione proposto da una società per azioni in persona dei funzionari
che, dichiarando di essere i suoi legali rappresentanti, avevano conferito la procura al difensore.
Cass. civ. Sez. II 16.09.2003 n. 13550
In tema di legitimatio ad processum il potere rappresentativo con la relativa facoltà di nomina dei
difensori e conferimento della procura, può essere conferito soltanto a chi sia investito della
rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché, qualora non si sia
formato sul punto il giudicato, il difetto di siffatti poteri, che -comportando l'esclusione della
legittimazione processuale - concerne la regolare costituzione del rapporto processuale, può essere
rilevato d'ufficio anche da parte del giudice di legittimità attraverso l'esame diretto degli atti.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con citazione del 3 e 18 agosto 1989, il Nuovo Banco Ambrosiano s.p.a., cui Ebe Ziotti aveva
rilasciato fideiussione per i debiti assunti dalla società Stiped, poi fallita, della quale era socio
illimitatamente responsabile Fabio Taddia, marito della Ziotti, conveniva in giudizio, innanzi al
Tribunale di Torino, Ebe Ziotti e suo genero Trinchero Paolo perché si dichiarasse inefficace, nei
confronti di esso Banco, ai sensi dell'art. 2901 c.c., il contratto del 27 giugno 1986, con cui la prima
(la Ziotti) aveva venduto al secondo (il Trinchero) un proprio immobile, sito in Ferrara, fraz. Bova
di Marrara.
Ebe Ziotti e Paolo Trinchero si costituivano e resistevano alla domanda.
Con sentenza del 13 maggio 1994, in esito a consulenza tecnica d'ufficio, il Tribunale di Torino
accoglieva la domanda revocatoria, col favore delle spese di lite.
Paolo Trinchero interponeva gravame.
Il Banco Ambrosiano Veneto s.p.a., già Nuovo Banco Ambrosiano, resisteva al gravame, mentre
Ebe Ziotti era contumace.
Con sentenza del 3 luglio 2000, la Corte d'appello di Torino rigettava il gravame, con condanna
dell'appellante al pagamento delle spese del grado.
Risolveva la Corte, negativamente, le questioni sollevate dall'appellante sulla validità della procura
rilasciata a margine dell'atto introduttivo della lite, utilizzata dal Banco Ambrosiano Veneto anche
per la costituzione in grado d'appello, e riteneva infondate le critiche rivolte alla decisione del primo
giudice sulla ritenuta ricorrenza dei presupposti revocatori, del pregiudizio alle ragioni creditorie
del Banco e della consapevolezza di tale pregiudizio in capo ad entrambi i contraenti, alla debitrice
Ziotti ed al terzo Trinchero.
Per la cassazione di tale sentenza, Paolo Trinchero ha proposto ricorso.
Il Banco Ambrosiano Veneto s.p.a. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale
condizionato.
L'altra intimata, Ebe Ziotti, non ha svolto alcuna difesa.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Preliminarmente, i ricorsi sono stati riuniti perché proposti avverso la stessa sentenza (art. 335
c.p.c.).
2) Sul ricorso principale di Paolo Trinchero.
Con il primo motivo, denunciando vizi di motivazione su punto decisivo della controversia, nonché
violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 75, 77, 83, comma terzo, 100, 125 c.p.c.,
in relazione agli artt. 2328 n. 9 e 2396 c.c.), il ricorrente si duole che la Corte di merito abbia
negativamente risolto le questioni sollevate sulla validità della procura, rilasciata a margine dell'atto
introduttivo della lite ed utilizzata dal Banco Ambrosiano Veneto anche per la costituzione in grado
d'appello, validità contestata per difetto sia di identificazione dei soggetti conferenti che di
attribuzione agli stessi dei congiunti poteri di rappresentanza sostanziale e processuale di quella
parte.
Con il secondo motivo, denunciando vizi di motivazione su punto decisivo della controversia,
nonché violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., in relazione agli artt.
2901 e 2729 c.c.), il ricorrente si duole che la Corte di merito abbia ritenuto sussistenti, nella specie,
i presupposti dell'azione revocatoria.
Il primo motivo, che ripropone questioni svolte in sede di gravame, merita di essere accolto, con
conseguente assorbimento del secondo, relativo a questione dipendente.
Ed invero, in conformità della censura svolta dal ricorrente ed in difformità del rilievo contrario,
che la Corte di merito espone con argomentazione peraltro inadeguata (perché solo assertiva),
l'esame degli atti di causa, consentito dalla natura delle questioni poste, afferenti anche a
legittimazione processuale e rilevabili anche d'ufficio (salvo il limite del giudicato), non evidenzia,
con riguardo al rapporto dedotto in giudizio, la congiunta attribuzione dei poteri di rappresentanza
sostanziale e processuale della società Banco Ambrosiano Veneto (già Nuovo Banco Ambrosiano)
in chi, innominato negli atti, ebbe a rappresentare tale società ed a conferire la procura alla lite,
dapprima con citazione proponendo domanda revocatoria ex art. 2901 c.c. e poi resistendo con
comparsa al gravame avversario.
In effetti, la citazione introduttiva del giudizio, con a margine la procura alla lite, e la comparsa di
costituzione e di risposta in grado d'appello, che di quella procura si avvale, non contengono dati
specifici di identificazione di chi dichiara di agire in giudizio, quale rappresentante legale del Banco
Ambrosiano Veneto, ma, soprattutto, anche a ritenere che questi rispondesse al vice direttore
Guglielmo Gallone e/o al funzionario Pietro Mariani, secondo le indicazioni rese in giudizio dal
difensore del Banco, sia l'uno che l'altro risultavano esclusivamente investiti del potere di
rappresentanza processuale di tale soggetto giuridico, senza conferimento di potere di
rappresentanza sostanziale (anche) con riguardo al rapporto dedotto in giudizio.
In termini, all'evidenza, è la procura speciale del 12 maggio 1987, prodotta allo scopo, laddove il
direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano, poi Banca Ambrosiano Veneto, revoca precedenti
procure speciali e nomina procuratori speciali del Banco più persone, tra cui il vice direttore
Guglielmo Gallone ed il funzionario di sede Piero Mariani, conferendo loro i seguenti poteri: "a)
rappresentare il Nuovo Banco Ambrosiano S.p.A. in giudizio, sia come attore che come convenuto
nelle controversie relative al recupero di crediti per qualsiasi titolo, in ogni sede e grado di
giurisdizione, con facoltà di rilasciare procure speciali alle liti, di rinunciare e accettare rinunce agli
atti giudiziali e di effettuare o chiedere - sostenendone le relative spese - atti di procedura o
provvedimenti conservativi ed esecutivi. Di fronte ai terzi l'attinenza a giudizi relativi al recupero di
crediti è provata dal fatto stesso che i soggetti sopra indicati abbiano esercitato dette facoltà; b)
rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 cod. proc. civ. Il potere di cui alla lettera a) dovrà essere
esercitato con firma congiunta a due a due mentre quello di cui alla lettera b) potrà essere esercitato
disgiuntamente".
Il primo motivo del ricorso principale, dunque, merita di essere accolto, nel solco del consolidato e
(dal collegio) condiviso orientamento di questa Corte, secondo cui il potere rappresentativo
processuale, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento della procura alla lite,
può essere conferito soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale
in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di poteri siffatti si pone
come causa di esclusione anche della "legitimatio ad processum" del rappresentante, il cui
accertamento, trattandosi di presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto
processuale, può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, anche in sede di
legittimità, con il solo limite della formazione del giudicato sul punto e con possibilità di diretta
valutazione degli atti attributivi del potere rappresentativo (v. "ex plurimis" da Cass. n. 6621/83 a
Cass. S.U. n. 4666/98 e Cass. n. 9336/01).
3) Sul ricorso incidentale del Banco Ambrosiano Veneto.
Condizionandone la valutazione all'accoglimento del ricorso principale, il ricorrente sostiene che la
nullità della procura rilasciata a margine dell'atto introduttivo della lite, nullità ipotizzata col primo
motivo del ricorso avversario, coinvolgerebbe anche l'elezione di domicilio di esso Banco, li
espressa, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza del primo giudice, per l'appunto
impugnata dalla controparte, ma invalidamente, con atto notificato in quel domicilio.
L'assunto è palesemente infondato, supponendo validamente conferita la procura a margine dell'atto
introduttivo della lite, che, invece, per quanto rilevato innanzi, nell'esame del primo motivo del
ricorso principale, è procura affatto invalida, non essendo stata "rite et recte" conferita ad opera di
persone legittimamente investite della rappresentanza processuale del ricorrente.
4) Conclusivamente, quindi, per le ragioni esposte, deve accogliersi il primo motivo del ricorso
principale, con assorbimento del secondo, e respingersi il ricorso incidentale condizionato.
All'accoglimento del motivo indicato consegue la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata,
ai sensi del terzo comma, ultima parte, dell'art. 382 c.p.c., dovendosi ritenere che la causa non
poteva essere proposta, come proposta, in rappresentanza del Banco Ambrosiano Veneto, da
persone cui non risultavano congiuntamente attribuiti i poteri di rappresentanza processuale e
sostanziale, con riguardo al rapporto dedotto in giudizio.
Sussistono giusti motivi, ravvisabili nelle cennate peculiarità della controversia, per compensare le
spese dell'intero giudizio, totalmente, tra tutte le parti.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiarato assorbito il
secondo; rigetta il ricorso incidentale; in ragione del motivo accolto, cassa senza rinvio la sentenza
impugnata e compensa le spese dell'intero giudizio.
Cass. civ. Sez. lavoro 03.10.2003 n. 14813
Qualora sia parte del processo una società, la persona fisica che, a norma di legge o di statuto,
rappresenta la società ha conferito il mandato al difensore, ha l'onere di allegare ma non di provare
tale sua qualità, spettando, invece, alla parte che contesta la sussistenza di detta qualità fornire la
relativa prova negativa, anche nella ipotesi in cui la società sia costituita in giudizio per mezzo di
persona diversa dal legale rappresentante, sempre che l'organo che ha conferito il potere di
rappresentanza processuale derivi tale potestà dall'atto costitutivo o dallo statuto della società
medesima. Ne consegue la nullità della procura qualora il direttore generale della società, organo al
quale la legge non ricollega poteri rappresentativi, abbia rilasciato la procura al difensore senza
indicare la qualità di legale rappresentante e senza dimostrare la fonte dei poteri rappresentativi, pur
contestata da controparte.
Cass. civ. Sez. lavoro 06.11.1998 n. 11221
Qualora sia parte del processo una persona giuridica, la persona fisica che sta in giudizio e rilasci il
mandato al difensore nella qualità di organo di detta parte non ha l'onere di dimostrare tale veste,
mentre l'eventuale inesistenza di tale rapporto organico, che è presunto, deve essere provata da chi
l'eccepisce. (Fattispecie relativa a società di capitali rappresentata dal suo liquidatore).
Cass., sez. lav., 06-11-1998, n. 11221.
Cass. [ord.], sez. un., 01-10-2007, n. 20596.
In tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, la persona fisica che ha conferito il
mandato al difensore non ha l’onere di dimostrare tale sua qualità, neppure nel caso in cui l’ente si
sia costituito in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante e l’organo che ha
conferito il potere di rappresentanza processuale derivi tale potestà dall’atto costitutivo o dallo
statuto, poiché i terzi hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo consultando gli atti
soggetti a pubblicità legale e, quindi, spetta a loro fornire la prova negativa; solo nel caso in cui il
potere rappresentativo abbia origine da un atto della persona giuridica non soggetto a pubblicità
legale, incombe a chi agisce l’onere di riscontrare l’esistenza di tale potere a condizione, però, che
la contestazione della relativa qualità ad opera della controparte sia tempestiva, non essendo il
giudice tenuto a svolgere di sua iniziativa accertamenti in ordine all’effettiva esistenza della qualità
spesa dal rappresentante, dovendo egli solo verificare se il soggetto che ha dichiarato di agire in
nome e per conto della persona giuridica abbia anche asserito di farlo in una veste astrattamente
idonea ad abilitarlo alla rappresentanza processuale della persona giuridica stessa (nella specie, le
sezioni unite, con riferimento ad un ricorso per regolamento di competenza, hanno disatteso
l’eccezione di inammissibilità avanzata dai controricorrenti relativa alla invalidità della procura
rilasciata dalla società ricorrente per assunto difetto di legittimazione alla rappresentanza
processuale della persona fisica che l’aveva conferita, siccome rimasta priva di prova e risultata
comunque formulata solo con la memoria di cui all’art. 47 c.p.c., depositata, però, tardivamente).
Cass., sez. I, 08-03-2007, n. 5353.
L’autorizzazione necessaria perché un ente pubblico possa agire o resistere in giudizio, emessa
dall’organo collegiale competente, e della quale l’organo rappresentante l’ente pubblico deve essere
munito, attiene alla legittimatio ad processum, ossia all’efficacia e non alla validità della
costituzione stessa, sicché essa può intervenire ed essere prodotta in causa anche dopo che sia
scaduto il termine per l’impugnazione, con efficacia convalidante dell’attività processuale svolta in
precedenza, sempre che il giudice di merito non abbia già rilevato il difetto di legittimazione
processuale, ossia l’irregolarità, della costituzione del rappresentante dell’ente pubblico, traendone
come conseguenza l’invalidità degli atti compiuti.
Cass., sez. III, 08-02-2007, n. 2744.
In ipotesi di delibera di un ente pubblico (nella specie, camera di commercio di Messina) di ratifica
dell’autorizzazione a stare in giudizio concessa in via d’urgenza occorre distinguere il caso di
sopravvenuto rilascio dell’autorizzazione - cui può riconoscersi effetto sanante retroattivo a
condizione che il relativo difetto non sia stato rilevato e fatto oggetto di pronuncia da parte del
giudice - dal caso in cui, sussistendo l’autorizzazione fin dal principio, ne sia tardivamente data la
prova in giudizio; in questo secondo caso non ha effetto preclusivo la circostanza che il giudice
abbia già rilevato il difetto di autorizzazione, in quanto l’accertamento che l’autorizzazione esisteva
anteriormente alla pronuncia del giudice depone nel senso che questa risulta fondata su
un’apparenza di fatto superata dal documento prodotto in secondo grado o anche in sede di
legittimità ex art. 372 c.p.c. (nella specie, poiché la delibera camerale di ratifica era stata adottata
dalla giunta camerale, competente secondo la normativa regionale siciliana, prima del momento
della decisione, al quale occorre fare riferimento per la verifica della sussistenza delle condizioni
dell’azione, quali la legitimatio ad causam, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che
aveva dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione per difetto dell’autorizzazione a stare in
giudizio, risultando in quel giudizio prodotta la delibera d’urgenza del vice presidente dell’ente e
non anche la delibera di relativa convalida).
Cass., sez. III, 29-09-2006, n. 21255.
L’autorizzazione a stare in giudizio, emessa dall’organo collegiale competente, necessaria perché
un ente pubblico possa agire o resistere in causa, attiene alla legitimatio ad processum, ossia
all’efficacia e non alla validità della costituzione dell’ente medesimo a mezzo dell’organo che lo
rappresenta; essa, pertanto, può intervenire ed essere prodotta anche nel corso del giudizio e anche
nel corso del giudizio davanti alla cassazione (sempre che non sia intervenuta nel frattempo una
pronuncia del giudice di merito in ordine al riscontrato difetto di legittimazione processuale);
l’autorizzazione produce l’effetto di sanare retroattivamente i vizi prodottisi nelle fasi precedenti e
rimane escluso che la controparte possa dedurre l’insussistenza delle ragioni d’urgenza idonee a
giustificare la proposizione dell’opposizione in difetto dell’autorizzazione dell’organo legittimato a
rilasciarla, unicamente a quest’ultimo spettando la valutazione della correttezza dell’operato del
rappresentante; tale sanatoria deve ritenersi ammissibile anche in relazione a eventuali vizi inficianti
la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare l’ente in
giudizio, trattandosi solo di atto inefficace e non anche invalido, per vizi formali o sostanziali
attinenti a violazioni degli art. 83 e 125 c.p.c.; né la sanatoria può essere impedita dalla previsione
dell’art. 182 c.p.c., secondo cui sono fatte salve le decadenze già verificatesi; la norma va infatti
riferita alle decadenze sostanziali (sancite cioè per l’esercizio del diritto e dell’azione), e non anche
a quelle che si esauriscono nell’ambito del processo, come è dimostrato dal fatto che, in caso
contrario si avrebbe l’inapplicabilità dell’art. 182 c.p.c. in tutte le ipotesi in cui - come nel rito del
lavoro - le parti incorrano in decadenze processuali già nell’atto introduttivo.
Cass., sez. I, 08-03-2007, n. 5353.
L’esecutività della deliberazione della giunta comunale che autorizza il sindaco a stare in giudizio
costituisce condizione di efficacia e non di validità della costituzione dell’ente, sicché la prova di
detta esecutività fornita nel giudizio di appello (mediante produzione della delibera vistata dal
coreco) vale a sanare retroattivamente l’irregolarità del giudizio di primo grado.
2. Rappresentanza volontaria
Cass. civ. Sez. I 04.05.2004 n. 8421
Nel quadro del principio per cui non può essere attribuita la rappresentanza processuale quando non
risulti conferita al medesimo soggetto anche la rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto
dedotto in giudizio, deve escludersi che il titolare della direzione affari legali di una società di
capitali possa ritenersi munito, indipendentemente dal conferimento di apposita procura (e cioè per
via di mera e necessaria deduzione logica dal fatto di ricoprire tale carica), di poteri di
rappresentanza sostanziale in ordine ai rapporti caratterizzati dall'elemento comune di costituire
oggetto di controversia. Ciò posto, la procura che attribuisca al detto dirigente il potere di decidere,
a nome dell'azienda, le modalità di definizione dei rapporti controversi - se transigere, sottoporre la
questione al giudice o agli arbitri, o resistere - non può essere interpretata quale conferimento di
rappresentanza di ordine meramente processuale, atteso che l'anzidetto potere di scegliere ed attuare
la migliore soluzione dei rapporti stessi rivela tipiche caratteristiche sostanziali e negoziali,
comprendendo in sé e precedendo logicamente quello di costituirsi in giudizio (nella fattispecie, la
Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d'Appello, che aveva ritenuto che una procura
rilasciata al direttore della Direzione Affari Legali della RAI S.p.a. dal Presidente del Consiglio di
Amministrazione contenesse il conferimento di poteri esclusivamente processuali, nonostante che la
procura stessa investisse tale Direttore del potere di assumere "tutte le iniziative in ordine alla
instaurazione dei giudizi ed alla resistenza nelle cause", nonché di "effettuare rinunce e
transazioni").
Cass., sez. lav., 01-06-2006, n. 13054.
La rappresentanza processuale volontaria può essere conferita soltanto a chi sia investito di un
potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, come si evince
dall’art. 77 c.p.c., il quale menziona, come possibili destinatari dell’investitura processuale, soltanto
il «p.g. e quello preposto a determinati affari», sul fondamento del principio dell’interesse ad agire
(art. 100 c.p.c.), inteso non soltanto come obiettiva presenza o probabilità della lite, ma altresì come
«appartenenza» della stessa a chi agisce (nel senso che la relazione della lite con l’agente debba
consistere in ciò che l’interesse in lite sia suo): più precisamente, dalla lettura combinata degli art.
100 e 77 c.p.c. si desume la regola generale per cui il diritto di agire spetta a chi abbia il potere di
rappresentare l’interessato nella totalità dei suoi affari (procuratore generale) o in un gruppo
omogeneo di questi, paragonabile ad un’azienda commerciale o ad un suo settore (institore)
(principio affermato dalla suprema corte in controversia in cui la procura era stata conferita per il
recupero in sede processuale delle spese mediche erogate da una casa di cura privata a favore della
rappresentata - assistita dall’ausl e ricoverata presso la casa di cura - di talché non era possibile
ravvisare un’attività negoziale sostanziale se non di carattere meramente necessario e strumentale
rispetto a quello processuale che il c.d. rappresentante avrebbe potuto impropriamente compiere).
Cass. civ. Sez. I 11.06.2004 n. 11097
La rappresentanza processuale volontaria può essere conferita soltanto a chi sia investito di un
potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, come si evince
dall'art. 77 c.p.c., il quale menziona, come possibili destinatari dell'investitura processuale, soltanto
il "procuratore generale e quello preposto a determinati affari", sul fondamento del principio
dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) inteso non soltanto come obbiettiva presenza o probabilità
della lite, ma altresì come "appartenenza" della stessa a chi agisce (nel senso che la relazione della
lite con l'agente debba consistere in ciò che l'interesse in lite sia suo): più precisamente, l'art. 100
c.p.c., letto in combinazione con l'art. 77 c.p.c., indica la necessita che chi agisce abbia rispetto alla
lite una posizione particolare che la norma stessa non definisce, ma che può desumersi dalle ipotesi
individuate dall'altra norma, sì da condurre all'affermazione di una regola generale per cui il diritto
di agire spetta a chi abbia il potere di rappresentare l'interessato o nella totalità dei suoi affari
(procuratore generale) o in un gruppo omogeneo di questi, paragonabile ad un'azienda commerciale
o ad un suo settore (institore).
Cass., sez. lav., 13-02-2008, n. 3484.
Il conferimento di una procura generale o speciale ad negozia non comporta, di per sé, l’automatica
attribuzione anche della rappresentanza volontaria processuale, per la cui sussistenza, invece, è
necessario uno specifico ed espresso mandato, da redigersi in forma scritta (nella specie, la suprema
corte, nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto l’inidoneità della procura notarile rilasciata
per il compimento di uno specifico affare - ossia per ottenere dall’Inps il pagamento della
rivalutazione monetaria e degli interessi legali sui ratei di pensione corrisposti in ritardo - priva
dell’espresso conferimento della rappresentanza processuale).
Cass., sez. II, 13-03-2007, n. 5862.
In tema di condominio, la legittimazione ad agire in giudizio dell’amministratore in caso di pretese
concernenti l’affermazione di diritti di proprietà, anche comune, può trovare fondamento soltanto
nel mandato conferito da ciascuno dei condomini al medesimo amministratore e non già - ad
eccezione della equivalente ipotesi di unanime positiva deliberazione di tutti i condomini - nel
meccanismo deliberativo dell’assemblea condominiale, che vale ad attribuire, nei limiti di legge e di
regolamento, la mera legittimazione processuale ex art. 77 c.p.c., presupponente peraltro quella
sostanziale; ne consegue che, in assenza del potere rappresentativo in capo all’amministratore in
relazione all’azione esercitata, la mancata costituzione del rapporto processuale per difetto della
legittimazione processuale inscindibilmente connessa al potere rappresentativo sostanziale
mancante - vizio rilevabile anche d’ufficio, pure in sede di legittimità - comporta la nullità della
procura alle liti, di tutti gli atti compiuti e della sentenza (nella specie, l’amministratore aveva
esperito azione per far accertare la proprietà in capo al condominio dei locali soffitte di cui un
condomino si era appropriato mettendoli in comunicazione con la propria abitazione a mezzo di una
botola: la suprema corte, sulla base dell’enunciato principio, ha cassato la sentenza della corte di
merito, che aveva accolto la domanda, perché l’azione non poteva essere proposta).
3. Rilievo e sanatoria dei vizii attinenti alla legitimatio ad processum
Cass. civ. Sez. III 04.04.2003 n. 5328
La rilevabilità del difetto di legittimazione processuale, pur rientrando tra le questioni rilevabili
anche d'ufficio dal giudice, deve essere coordinata con il sistema processuale vigente, introdotto
dalla legge n. 353 del 1990 con le modifiche di cui alla legge n. 354 del 1995, e con le preclusioni
da esso introdotte, per cui esso dovrebbe poter essere rilevato in primo grado non oltre l'udienza di
trattazione, e in appello l'assenza di poteri rappresentativi può essere inserita nei motivi di appello.
Ne consegue che, in difetto di una tempestiva contestazione all'interno dei due momenti processuali
sopra indicati, e qualora il giudice di merito non abbia ritenuto di chiedere d'ufficio, ad una delle
parti, la giustificazione dei poteri rappresentativi in capo alla persona che ha rilasciato la procura
"ad litem", la questione non è proponibile per la prima volta con il ricorso per cassazione.
Cass., sez. un., 18-02-2009, n. 3822.
La corte di cassazione deve dichiarare d’ufficio la inammissibilità del ricorso proposto da soggetto
qualificatosi procuratore speciale del legale rappresentante della ricorrente società di capitali, senza
produrre, né all’atto del deposito del menzionato ricorso, né, successivamente, ai sensi dell’art. 372
c.p.c., i documenti comprovanti la sussistenza della qualifica dichiarata.
Motivi della decisione. — In via preliminare la corte rileva che la procura speciale di cui all’art. 365
c.p.c. a margine del ricorso risulta essere stata conferita agli avvocati Ivone Cacciavillani del foro di
Venezia e Luigi Manzi del foro di Roma da Mazzarotto Giorgio nella dichiarata qualità di
procuratore speciale di Dialma Gino legale rappresentante della ricorrente s.p.a. Giove. Tale qualità
è stata genericamente affermata in ricorso e non documentata né all’atto del deposito del ricorso
(pur se nell’atto si afferma di produrre «copia autentica della sentenza gravata e copia della procura
citata») né successivamente ai sensi dell’art. 372 c.p.c., che al 1° comma consente la produzione di
documenti riguardanti, tra l’altro, l’ammissibilità del ricorso.
Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile in applicazione del principio più volte
affermato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui qualora il soggetto che in veste di parte
formale proponga il ricorso per cassazione nell’affermata qualità di procuratore speciale della parte
in senso sostanziale ed in detta qualità di rappresentante volontario rilasci il mandato per il giudizio
di cassazione, ma non produca né con il ricorso né successivamente ai sensi dell’art. 372 c.p.c. i
documenti che giustifichino quella qualità, il ricorso per cassazione deve essere dichiarato
inammissibile ai sensi dell’art. 77 c.p.c., in quanto la Suprema corte non è posta in condizione di
poter valutare la sussistenza ed i limiti del potere rappresentativo ed in particolare la facoltà di
proporre ricorso per cassazione, che è essenziale ai fini della regolare costituzione del rapporto
processuale e deve essere controllata dalla corte anche d’ufficio (a differenza della sussistenza della
rappresentanza organica, la cui mancanza deve essere eccepita da chi la neghi), senza che in
contrario possa rilevare la mancata eccezione del resistente (tra le tante, sentenze 19 ottobre 2007,
n. 22009, Foro it., Rep. 2007, voce Cassazione civile, n. 59; 2 maggio 2007, n. 10122, ibid., nn. 57,
58; 27 maggio 2005, n. 11285, id., 2006, I, 1162; 26 maggio 2005, n. 11188, id., Rep. 2005, voce
cit., n. 98). (Omissis)
Cass., sez. I, 02-05-2007, n. 10122.
Qualora chi propone ricorso per cassazione nella affermata qualità di procuratore speciale della
parte in senso sostanziale ed in detta qualità di rappresentante volontario rilascia il mandato per il
giudizio di cassazione, non produce né col ricorso né successivamente, secondo quanto previsto
dall’art. 372 c.p.c., i documenti che giustifichino quella qualità, il ricorso per cassazione dev’essere
dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 77 c.p.c., in quanto la suprema corte non è posta in
condizione di valutare la sussistenza ed i limiti del potere rappresentativo ed in particolare la facoltà
di proporre ricorso per cassazione, che è essenziale ai fini della regolare costituzione del rapporto
processuale e dev’essere controllata dalla corte anche d’ufficio.
Cass., sez. III, 15-09-2008, n. 23670.
Il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisce in giudizio in rappresentanza
di un ente può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio con efficacia retroattiva, con
riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti per effetto della costituzione in giudizio del
soggetto dotato dell’effettiva rappresentanza dell’ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche
tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator; tanto la ratifica, quanto la
conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la
procura originariamente conferita al difensore da un soggetto non abilitato a rappresentare la società
in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali,
attinenti a violazione degli art. 83 e 125 c.p.c.
Cass., sez. I, 11-10-2006, n. 21811.
Qualora la società in liquidazione promuova il giudizio per mezzo del precedente amministratore,
ormai privo di poteri rappresentativi, il vizio che ne consegue concerne la capacità processuale della
medesima società, in quanto relativo alla titolarità del potere di proporre la domanda e non alla
legittimazione ad agire (ossia al prospettarsi come titolare del diritto azionato) e, pertanto, ad un
difetto di legittimazione processuale; il vizio può essere sanato in qualunque stato e grado del
giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per
effetto della spontanea costituzione del soggetto dotato dell’effettiva rappresentanza dell’ente
stesso, ossia il liquidatore, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente
condotta difensiva del falsus procurator; la sanatoria non può essere impedita dalla previsione
dell’art. 182 c.p.c., secondo cui sono fatte salve le decadenze già verificatesi, perché questo limite
attiene alle decadenze sostanziali (sancite cioè per l’esercizio del diritto e dell’azione: art. 2964 seg.
c.c.) e non a quelle che si esauriscono nel processo.
Cass., sez. I, 06-07-2007, n. 15304.
Qualora il giudizio venga promosso da amministratore di società a responsabilità limitata privo di
poteri rappresentativi, il vizio che ne consegue non concerne né la legittimazione ad agire né lo ius
postulandi ma esclusivamente la capacità processuale in quanto relativo ad un difetto di
legittimazione processuale; tale vizio può essere sanato in ogni stato e grado del giudizio, con
efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti per effetto della
spontanea costituzione del soggetto dotato dell’effettiva rappresentanza dell’ente stesso;
l’esclusione dell’effetto sanante stabilito dall’art. 182 c.p.c. per le decadenze già verificatesi non
riguarda le preclusioni che si esauriscono nel processo.
Cass., sez. III, 02-02-2006, n. 2270.
Il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisca in giudizio in rappresentanza
di un ente può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio (e, dunque, anche in appello),
con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della
costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell’ente stesso, il quale
manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus
procurator; tanto la ratifica, quanto la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in
relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto
non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche
invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazioni degli art. 83 e 125 c.p.c.
Art. 182
Difetto di rappresentanza o di autorizzazione.
[I]. Il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando
occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi.
[II]. Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un
vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un
termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o
l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura
alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti
sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima
notificazione1.
1
Comma modificato dalla l. n. 69/2009 per i giudizii instaurati dal 4 luglio 2009.
4. Curatore speciale
T. Milano, 21-12-2005.
Il nuovo art. 2476 c.c., in materia di responsabilità degli amministratori di srl, introduce una
fattispecie di azione sociale, nella quale il socio agisce in veste di sostituto processuale e la società è
litisconsorte necessario; ove, pertanto, il legale rappresentante della società sia chiamato a
rispondere ex art. 2476 c.c. di comportamenti lesivi dell’interesse sociale, sussiste un conflitto di
interessi che può essere risolto soltanto con la nomina di un curatore speciale.
T. Roma, 22-05-2007.
La srl partecipa al giudizio di responsabilità nei confronti dei propri amministratori per mezzo di un
curatore speciale; tuttavia, quest’ultimo non è legittimato ad esperire l’azione di responsabilità in
nome e per conto della società in mancanza di una deliberazione assembleare.
T. Lecco, 02-02-2006.
Il tutore dell’interdetto ed il curatore speciale nominato ex art. 78 c.p.c. - al di fuori delle ipotesi
espressamente previste dalla legge - non hanno il potere di compiere atti personalissimi
nell’interesse dell’interdetto, né quello di esercitare azioni giudiziarie con riferimento ai diritti
personalissimi (in applicazione di questo principio e ritenuto che l’interruzione di un trattamento
necessario a conservare la vita dell’interessato è atto personalissimo che non può essere demandato
ad altro soggetto, il tribunale ha dichiarato inammissibile la domanda di interruzione
dell’alimentazione avanzata dal tutore e dal curatore speciale dell’interdetto per difetto di
rappresentanza sostanziale e processuale).
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; ordinanza, 20-04-2005, n. 8291
Ritenuto in fatto. — Con provvedimento in data 20 luglio 2002, il Tribunale di Lecco, ritenuta la
legittimazione attiva in capo a B.E., in qualità di tutore della figlia interdetta E., rigettò il ricorso,
proposto ex art. 732 c.p.c., con il quale lo stesso, deducendo l’irreversibilità, secondo i criteri della
scienza medica, dello stato vegetativo permanente in cui la predetta figlia si trovava, per effetto di
un trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale occorso nel lontano 1992
— stato in relazione al quale già nel 1999 l’E. aveva una prima volta richiesto l’interruzione delle
cure che ne consentivano la protrazione, ed in particolare dell’alimentazione artificiale —, aveva
avanzato nuova istanza ai fini di ottenere l’autorizzazione a detta interruzione, sottolineando la
necessità di sottrarre la figlia alle condizioni di vita disumane e degradanti nelle quali era costretta a
proseguire la propria esistenza.
Rilevava il tribunale che la nozione di cura del soggetto incapace implica un quid di positivo, volto
comunque alla conservazione della vita del soggetto stesso, con la conseguenza che sarebbe
contraddittorio attribuire al tutore la potestà di compiere atti che implichino di necessità la morte del
soggetto; ed aggiungeva che l’ordinamento giuridico sottende una totale difesa della vita umana, e
che l’autorizzazione al tutore, e cioè a soggetto diverso dal diretto interessato, a far cessare ogni
forma di somministrazione alimentare non trova, allo stato della legislazione, adeguato fondamento
giuridico.
Avverso detto decreto, l’E. propose reclamo alla Corte d’appello di Milano, censurando la
ricostruzione della funzione del tutore operata dal tribunale.
La Corte d’appello di Milano, sezione delle persone e della famiglia, con decreto del 10 dicembre
2003, rigettò il reclamo, facendo riferimento all’inutilizzabilità diretta del principio di
autodeterminazione nel caso del paziente in stato vegetativo permanente, ed al ruolo del tutore,
sottolineando il valore morale delle direttive anticipate di trattamento, ma avvertendo la mancanza
di regole allo stato, e perciò escludendo la possibilità di adottare un’interpretazione integratrice
nella specie, pur nell’auspicio della predisposizione da parte del legislatore degli strumenti adeguati
per la protezione della persona ed il rispetto del suo diritto di autodeterminazione.
Avverso tale decisione, l’E. ha proposto ricorso per cassazione, non notificato ad alcuno.
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c.
Considerato in diritto. — Lamenta il ricorrente la violazione degli art. 357 e 424 c.c., in relazione
agli art. 2, 13 e 32 Cost., ed omessa ed insufficiente motivazione.
Sottolinea come la propria figlia non sia in grado di esprimere alcun consenso, riguardo ad atti che
si configurano come invasivi della sua personale integrità psico-fisica, e richiama la giurisprudenza
costituzionale sull’attinenza della tutela della libertà personale a qualunque intromissione sul corpo
o sulla psiche dell’individuo cui questi non abbia consentito. Pone l’accento sulla tutela della
dignità umana, inscindibile da quella della vita stessa, come valore costituzionale, e richiama, tra
l’altro, l’art. 32 Cost., che preclude trattamenti sanitari che possano violare il rispetto della persona
umana, la cui perdita, in caso di soggetto in stato vegetativo permanente, è in re ipsa. Chiede in
subordine che sia sollevata questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 2, 13 e 32
Cost., dell’art. 357 c.c., o di quelle altre norme che siano da interpretare in modo tale da non
consentire la cessazione dei trattamenti di alimentazione artificiale in atto.
Il procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del
ricorso in quanto non notificato ad alcuno e privo dei requisiti del ricorso per cassazione.
Tali conclusioni sono state contestate dal ricorrente con una memoria depositata nell’imminenza
della data fissata per la camera di consiglio, nella quale, in particolare, si esclude la necessità della
notifica del ricorso al procuratore generale a quo.
L’eccezione del procuratore generale appare meritevole di accoglimento.
La notificazione del ricorso per cassazione, in quanto indispensabile per l’instaurazione del
rapporto processuale, costituisce elemento la cui mancanza determina l’inammissibilità del ricorso.
Tale principio, affermato per i procedimenti contenziosi ordinari, deve ritenersi operante anche nei
procedimenti che si svolgono in camera di consiglio.
Per questi ultimi — e tale è quello di specie — questa corte (ord. n. 6167 del 2002, Foro it., 2002,
I, 3139) ha affermato l’applicabilità di detto principio nei procedimenti con pluralità di parti,
rilevando che la notificazione non occorre solo allorché ricorra l’ipotesi di procedimento di
volontaria giurisdizione unilaterale, e cioè di procedimento nel quale non sia individuabile un
soggetto portatore di un interesse diverso da quello attribuito al soggetto istante.
Occorre pertanto stabilire se nella specie ricorra quest’ultima ipotesi.
Ed al riguardo va sottolineato che, se a tale questione si darà risposta negativa, e cioè se si riterrà
che il presente giudizio è plurilaterale: a) sarà irrilevante, al fine di cui si discute, che le parti
individuate quali contraddittori necessari non abbiano partecipato ai precedenti giudizi, e ciò perché
la loro presenza nell’attuale giudizio sarebbe indispensabile per la costituzione del relativo rapporto
processuale, anche se l’unica decisione adottabile sarebbe la rilevazione del difetto di
contraddittorio nei precedenti gradi di merito; b) non sarà consentita — non essendo prevista — la
rimessione in termini (richiesta in memoria), la quale è stabilita dall’art. 184 bis c.p.c. per casi
specifici e non è applicabile per la rinnovazione della notifica del ricorso che non sia stato notificato
ad alcuno.
Per stabilire se sussistano interessi diversi o addirittura contrapposti a quello oggetto della causa, e,
conseguentemente, se sussistano altri soggetti contraddittori necessari, occorre individuare l’oggetto
della controversia.
Il tutore, ritenendo che l’interdetta versi da moltissimi anni in stato meramente vegetativo, nel
quale a suo avviso è mantenuta mediante presidî sanitari, e che tale stato, in quanto escludente la
dignità umana, fa escludere la ricorrenza della vita intesa nella sua portata minima imprescindibile,
ha chiesto l’autorizzazione alla cessazione di detti presidî.
Va rilevato che tale cessazione dovrebbe — altrimenti non vi sarebbe motivo per l’autorizzazione
alla stessa — condurre a morte il soggetto.
Sulla base di tale individuazione della controversia occorre stabilire se sussistano altri soggetti
interessati oltre l’istante.
Il tutore evidentemente agisce ai sensi del combinato disposto degli art. 424 e 357 c.c., secondo i
quali il tutore «ha la cura della persona del ...».
Premesso che costituisce questione di merito stabilire se l’azione esercitata, come sopra
individuata, possa essere ricompresa nell’indicato potere del tutore, è di immediata evidenza che il
provvedimento di autorizzazione richiesto, che il tutore afferma corrispondente all’interesse
dell’interdetto, possa invece non corrispondervi.
Ed infatti, lo stabilire se sussista l’interesse (al provvedimento autorizzatorio) — prima che
l’attuabilità dello stesso giuridicamente — presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della
morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche)
extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive: con la conseguenza che giammai il tutore potrebbe
esprimere una valutazione che, in difetto di specifiche risultanze, nella specie neppure
analiticamente prospettate, possa affermarsi coincidente con la valutazione dell’interdetta.
A questa stregua, premesso, per quanto ora esposto, che deve ritenersi che l’interdetta nella specie
non sia in condizione di esprimere la propria valutazione, e quindi la propria scelta, deve trovare
applicazione l’art. 78 c.p.c., che prevede la nomina di un curatore speciale al rappresentato «...
quando vi è conflitto di interessi con il rappresentante».
Ad ulteriore supporto di tale conclusione, va rilevato che le numerose norme rinvenibili
nell’ordinamento che conferiscono al tutore specifici poteri in materie attinenti ad interessi
strettamente personali — pur se di carattere non altrettanto essenziale quale quello in esame —
dell’interdetto per infermità (art. 119 c.c., per l’impugnazione del matrimonio; art. 245 c.c., in tema
di disconoscimento della paternità; art. 264 c.c., in tema di impugnazione del riconoscimento del
figlio naturale da parte di chi è stato riconosciuto; art. 273 c.c., in tema di dichiarazione giudiziale
di paternità o maternità naturale; art. 13 l. 22 maggio 1978 n. 194, in tema di interruzione della
gravidanza), appaiono elementi sintomatici della non configurabilità, in mancanza di specifiche
disposizioni, di un generale potere di rappresentanza in capo al tutore con riferimento ai c.d. atti
personalissimi (per un’ipotesi in cui questa corte ha avuto occasione di escludere la proponibilità
della domanda di divorzio per l’interdetto ad opera del tutore, riconoscendogli invece il potere di
chiedere la nomina di un curatore speciale ai fini della proposizione della domanda di divorzio, v.
sent. n. 9582 del 2000, id., Rep. 2000, voce Matrimonio, n. 143).
E la conferma dell’inesistenza, in capo al tutore, di una rappresentanza generale degli interessi
dell’interdetto con riguardo a siffatto genere di atti si rinviene nella previsione codicistica della
necessaria nomina, da parte del giudice tutelare, non appena avuta notizia del fatto da cui deriva
l’apertura della tutela, oltre che del tutore, anche del protutore (art. 346 c.c.), nonché nelle ulteriori
previsioni che «il protutore rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in
opposizione con l’interesse del tutore».
«Se anche il protutore si trova in opposizione di interessi con il minore, il giudice tutelare nomina
un curatore speciale» (art. 360 c.c.).
È ben vero che le menzionate norme sono inserite nella «tutela dei minori»; ma tale tutela è
richiamata nella sua interezza per l’interdizione, alla quale pertanto è applicabile: l’art. 424 c.c.,
infatti, sancisce che «le disposizioni sulla tutela dei minori ... si applicano ... alla tutela degli
interdetti ...».
Le conclusioni raggiunte non contrastano né possono ritenersi derogate dalla convenzione sui diritti
dell’uomo e la biomedicina, fatta ad Oviedo il 24 aprile 1997 — della quale la l. 28 marzo 2001 n.
145 ha autorizzato la ratifica — dal momento che tale convenzione prevede che il rappresentante
legale (o comunque un’apposita autorità od altro soggetto) possa esprimere il consenso che
l’incapace non è in condizione di dare (art. 6), ma non preclude ai singoli Stati di fissare condizioni
specifiche — che essa convenzione non ha previsto — per la validità della prestazione del consenso
(sostitutivo).
L’affermata sussistenza di altro soggetto quale necessario contraddittore nel giudizio costituisce
ragione sufficiente per la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso. Rimane pertanto assorbita la
questione, proposta nella memoria, relativa alla necessità o no della notifica del ricorso al
procuratore generale a quo.
La ravvisata inammissibilità del ricorso esclude l’esame del merito, e, quindi, anche della questione
di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente.
CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza, 16-10-2007, n. 21748
Il giudice può autorizzare il tutore — in contraddittorio con il curatore speciale — di una persona
interdetta, giacente in persistente stato vegetativo, ad interrompere i trattamenti sanitari che la
tengono artificialmente in vita, ivi compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiale a mezzo di
sondino, sempre che: a) la condizione di stato vegetativo sia accertata come irreversibile, secondo
riconosciuti parametri scientifici, b) l’istanza sia espressiva della volontà del paziente, tratta dalle
sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dai suoi
convincimenti.
In tema di attività medica e sanitaria, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace
comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore un
potere «incondizionato» di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente
incoscienza; nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso
sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli:
egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest,
deve decidere non «al posto» dell’incapace né «per» l’incapace, ma «con» l’incapace: quindi,
ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato,
tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo
quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di
riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche.
In tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non
incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita; di fronte al rifiuto della
cura da parte del diretto interessato, c’è spazio - nel quadro dell’«alleanza terapeutica» che tiene
uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di
ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di
offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e
c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale; ma
allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di
curarsi come principio di ordine pubblico; né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche
quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un
comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto
esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso
naturale.
Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario:
senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario
per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è
nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di
rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi; il
consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di
trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra costituzione (la quale
vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana»
in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua
persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che
orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più
intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e
quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori
della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresì di eventualmente
rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche
in quella terminale.
In tema di interpretazione della legge, all’accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora
eseguito all’interno dello stato, può assegnarsi - tanto più dopo la legge parlamentare di
autorizzazione alla ratifica - una funzione ausiliaria sul piano ermeneutico: esso dovrà cedere di
fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzato nell’interpretazione di norme
interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad esso conforme (principio espresso in
relazione alla convenzione del consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo sulla biomedicina, fatta a
Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001 n.
145, ma non ancora ratificata dallo stato italiano).
A. Milano, 09-07-2008.
Deve autorizzarsi il tutore di una persona interdetta, giacente da circa sedici anni in stato vegetativo
persistente, a disporre l’interruzione del trattamento vitale, realizzato mediante alimentazione e
idratazione con sondino nasogastrico, ferma la somministrazione di sedativi, tanto corrispondendo
alla volontà ipotetica della paziente, desunta, almeno in via presuntiva, da sue precedenti
affermazioni, nonché dalla sua personalità e dal suo stile di vita, alla stregua della concorde
prospettazione di tutore e curatore speciale e delle dichiarazioni dei testimoni.
In fatto e in diritto. — 1. - Cenni sugli antecedenti di fatto e processuali e sul contenuto della
sentenza di cassazione con rinvio da cui ha tratto causa l’attuale fase decisoria. Il 18 gennaio 1992
si verificò un incidente stradale a seguito del quale fu diagnosticato ad E.E., che vi era rimasta
coinvolta, e che era allora appena ventunenne (essendo nata il 25 novembre 1970), un gravissimo
trauma cranioencefalico con lesione di alcuni tessuti cerebrali corticali e subcorticali, da cui derivò
prima una condizione di coma profondo, e poi, in progresso di tempo, un persistente stato
vegetativo con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi di ogni
funzione percettiva e cognitiva e della capacità di avere contatti con l’ambiente esterno.
Dopo circa quattro anni dall’incidente, E.E. — essendo stata accertata la mancanza di qualunque
modificazione del suo stato — fu dichiarata interdetta per assoluta incapacità con sentenza del
Tribunale di Lecco in data 19 dicembre 1996. Fu nominato tutore il padre, B.E.
Dopo altri tre anni circa prese avvio una lunga vicenda giudiziaria snodatasi in tre principali
procedimenti consecutivi, nei quali il tutore, deducendo l’impossibilità per E. di riprendere
coscienza, nonché l’inguaribilità/irreversibilità della sua patologia e l’inconciliabilità di tale stato e
del trattamento di sostegno forzato che le consentiva artificialmente di sopravvivere
(alimentazione/idratazione con sondino nasogastrico) con le sue precedenti convinzioni sulla vita e
sulla dignità individuale, e più in generale con la sua personalità, ha ripetutamente chiesto,
nell’interesse e in vece della rappresentata, l’emanazione di un provvedimento che disponesse
l’interruzione della terapia di sostegno vitale.
Nel primo procedimento, instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c. depositato in data 19 gennaio
1999, l’istanza del tutore fu dichiarata inammissibile dal Tribunale di Lecco (perché ritenuta
incompatibile con l’art. 2 Cost., letto ed inteso come norma implicante una tutela assoluta e
inderogabile del diritto alla vita) con decreto depositato il 2 marzo 1999, poi confermato in sede di
reclamo dalla sezione «persone minori e famiglia» della Corte d’appello di Milano con decreto del
31 dicembre 1999, Foro it., 2000, I, 2022 (da questo giudice reputandosi invece sussistente una
situazione d’incertezza normativa tale da non consentire l’adozione di una precisa decisione in
merito all’istanza d’interruzione del trattamento di alimentazione/idratazione forzata).
Nel secondo procedimento, instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, la medesima
istanza fu disattesa dal Tribunale di Lecco con decreto depositato il 20 luglio 2002 (con cui si
ribadiva il principio di necessaria e inderogabile prevalenza della vita umana anche innanzi a
qualunque condizione patologica e a qualunque contraria espressione di volontà del malato), ancora
una volta poi confermato dalla predetta sezione della Corte d’appello di Milano, in sede di reclamo,
con decreto del 17 ottobre 2003 (ivi reputandosi comunque inopportuna un’interpretazione
integrativa volta ad attuare il principio di autodeterminazione della persona umana in caso di
«paziente in stato vegetativo permanente»).
Quest’ultimo provvedimento fu successivamente impugnato dal tutore con ricorso straordinario per
cassazione (ex art. 111 Cost.), dichiarato inammissibile dalla Suprema corte con ordinanza n. 8291
del 20 aprile 2005 (id., 2005, I, 2359) per difetto di partecipazione al procedimento di un
contraddittore ritenuto necessario, e da individuarsi nella persona di un curatore speciale della
rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c.
Nel terzo procedimento, avviato, a seguito della predetta ordinanza, con ricorso depositato in data
30 settembre 2005, il tutore chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti
nominato nella persona dell’avv. Franca Alessio (da indicare dunque, più esattamente, come
«curatrice» speciale), la quale prestò adesione all’istanza del tutore.
Tale istanza fu non dimeno dichiarata ancora inammissibile dall’adìto tribunale con decreto
depositato il 2 febbraio 2006 (questa volta reputandosi che il tutore non fosse legittimato, neppure
con l’assenso della curatrice speciale, a esprimere scelte al posto o nell’interesse dell’incapace in
materia di diritti e «atti personalissimi»).
Il decreto fu però riformato dalla sezione «persone minori e famiglia» della Corte d’appello di
Milano, in sede di reclamo, con provvedimento in data 16 dicembre 2006 (id., 2007, I, 571).
In tal caso, infatti, la corte, andando di contrario avviso rispetto al Tribunale, reputò ammissibile il
ricorso in ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante
legale dell’incapace ex art. 357 e 424 c.c.
Tuttavia, esaminando e giudicando nel merito l’istanza del tutore, la corte la giudicò insuscettibile
di accoglimento, sul rilievo secondo cui l’attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire
alle idee espresse da E. all’epoca in cui era ancora pienamente cosciente un’efficacia tale da
renderle idonee anche nell’attualità a valere come «volontà sicura della stessa contraria alla
prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita».
Proposto dal sig. B.E. ricorso per cassazione (notificato il 6 marzo 2007) anche avverso tale
decisione, peraltro autonomamente impugnata anche dalla curatrice speciale con un ricorso
incidentale sostanzialmente adesivo a quello principale, la Suprema corte si è infine pronunciata con
sentenza n. 21748 in data 16 ottobre 2007 (ibid., 3025) disponendo la cassazione dell’impugnato
provvedimento e il rinvio della «causa» per una nuova decisione, relativamente alle parti cassate
(secondo la disciplina di cui agli art. 384, 392 e 394 c.p.c.), ad altra sezione della medesima Corte
d’appello di Milano.
La Suprema corte, in particolare, ha accolto i ricorsi proposti sia dal tutore che dalla curatrice
speciale di E.E., nei limiti meglio specificati in motivazione, reputando, in estrema sintesi, che:
— in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume
rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita
attraverso il riconoscimento di una regola, presidiata da norme di rango costituzionale (in
particolare gli art. 2, 3, 13 e 32 Cost.), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione
terapeutica;
— pertanto è la prestazione del consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà
non solo di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico, ma
anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le
fasi della vita, a costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento
sanitario;
— il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno
nel caso in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del
suo stato di totale incapacità, con la conseguenza che, nel caso in cui, prima di cadere in tale
condizione, egli non abbia specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate,
quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse
venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza, al posto dell’incapace è autorizzato ad esprimere tale
scelta il suo legale rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche
l’interruzione dei trattamenti che tengano artificialmente in vita il rappresentato;
— tuttavia questo potere-dovere che fa capo al rappresentante legale dell’incapace non è
incondizionato, ma soffre di limiti «connaturati» al fatto che la salute è un diritto «personalissimo»
di chiunque, anche dell’incapace, e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a
valutazioni della vita e della morte che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o
religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che per ciò stesso
devono essere pur sempre riferibili al soggetto-malato, anche se incapace;
— un primo limite, coessenziale alla scelta del rappresentante, va in particolare ravvisato nella
necessità che tale scelta sia sempre vincolata, come attività rappresentativa, e nella concretezza del
caso, al rispetto del migliore interesse (best interest) del rappresentato;
— due ulteriori ed indefettibili condizioni si riassumono poi nel seguente principio di diritto, cui
deve conformarsi il giudice di rinvio:
«Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo
permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto
artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed
idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale,
il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle
misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in
presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un
rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli
standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima
possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del
mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova
chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti
dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti,
corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di
dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare
l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita,
indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del
soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa»;
— alla luce del suddetto principio, il decreto impugnato, reso dalla Corte d’appello di Milano nella
pregressa fase del procedimento, non si sottrae alle censure articolate dal tutore e dal curatore
speciale di E.E., poiché, pur risultando «pacificamente dagli atti di causa che nella indicata
situazione si trova E.E., la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un
grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era
ventenne), e non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere,
alcuna dichiarazione anticipata di trattamento», la corte di merito ha comunque omesso di indagare
adeguatamente sulla sussistenza dell’altra imprescindibile condizione idonea a legittimare la scelta
del rappresentante intesa al rifiuto dell’alimentazione artificiale, ossia non ha ricostruito la
«presunta volontà» di E. dando rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, o più in generale
alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti; accertamento che dovrà
quindi essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi
dall’istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore
speciale).
A seguito di tale pronuncia, il pregresso procedimento di reclamo è stato riassunto dal tutore,
originario reclamante, con ricorso depositato in data 5 febbraio 2008 e assegnato — secondo
predeterminato criterio tabellare previsto per il caso di cassazione di provvedimenti emessi dalla
sezione «persone minori e famiglia» — a questa prima sezione civile.
Nel procedimento si è costituita con propria memoria la curatrice speciale, non opponendosi, ma
aderendo nuovamente all’istanza del tutore.
Ha formulato le sue conclusioni anche l’ufficio del pubblico ministero, in persona del sostituto
procuratore generale designato, chiedendo il rigetto del reclamo o, in subordine, un supplemento
istruttorio.
Sentite le parti all’odierna udienza, e disposta ed esperita in tale frangente un’integrazione
probatoria con l’audizione del sig. B.E., che ha riferito profusamente in relazione alle concezioni di
vita che aveva avuto modo di esprimere E. prima di cadere in stato di permanente incapacità, e più
in generale sulla sua personalità, questa corte ha assunto la riserva di decidere che provvede ora a
sciogliere.
……
5. La legittimazione ad agire e la sostituzione processuale
Cass., sez. II, 06-03-2008, n. 6132.
La legittimazione ad agire e contraddire deve essere accertata in relazione non alla sua sussistenza
effettiva ma alla sua affermazione con l’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito d’una preliminare
valutazione formale dell’ipotetica accoglibilità della domanda; tale accertamento, pertanto, deve
rivolgersi alla coincidenza, dal lato attivo, tra il soggetto che propone la domanda ed il soggetto che
nella domanda stessa è affermato titolare del diritto e, da quello passivo, tra il soggetto contro il
quale la domanda è proposta e quello che nella domanda è affermato soggetto passivo del diritto o
comunque violatore di quel diritto; inoltre, il difetto della relativa allegazione, e dimostrazione, in
quanto attinente alla regolare costituzione del contraddittorio e, quindi, disciplinata da inderogabile
norma di diritto pubblico processuale, è rilevabile anche di ufficio; invece, l’accertamento
dell’effettiva titolarità del rapporto controverso, così dal lato attivo come da quello passivo, attiene
al merito della causa, investendo i concreti requisiti d’accoglibilità della domanda e, quindi, la sua
fondatezza (nella specie, non avendo il ricorrente dimostrato la sua qualità di erede della parte,
deceduta nelle more, nei cui confronti si era tenuto l’appello, in quanto la dichiarazione sostitutiva
dell’atto di notorietà da lui resa non ha valore probatorio nel processo civile, il ricorso per
cassazione è stato dichiarato inammissibile).
Cass., sez. I, 10-01-2008, n. 355.
La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di
promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la
deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione
dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente
dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento; da essa va
tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è
consentito l’esame d’ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si
configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e
nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata (nella specie, la suprema corte, rigettando il
ricorso avverso la sentenza impugnata, ha ritenuto sufficiente, ai fini della legittimazione passiva
dei convenuti, che nella domanda attorea essi fossero indicati quali autori di illeciti
anticoncorrenziali rientranti nella previsione della disciplina dettata dalla l. n. 287 del 1990, la quale
regola le azioni di nullità e di risarcimento dei danni nascenti dall’illecito anticoncorrenziale,
attinendo invece al merito la questione se gli stessi convenuti fossero in concreto esonerati
dall’applicazione della normativa antitrust per avere agito nell’ambito di una delle ipotesi di
esenzione disciplinate dalla legge).
T. Milano, 13-02-2008.
Il titolare di warrants azionari, prima dell’esercizio del suo diritto, non ha legittimazione ad agire ai
sensi dell’art. 2497 c.c., poiché non è in condizioni di lamentare il danno che detta norma è tesa a
ristorare: egli è infatti titolare solo di un «diritto d’opzione», cioè di un «bene della vita» diverso
dall’azione o dalla partecipazione azionaria, né può ritenersi creditore della società, poiché è titolare
solo del diritto potestativo di accettare la proposta di emettere nuove azioni al prezzo già
concordato, non di un diritto di credito.
Cass., sez. III, 13-12-2007, n. 26253.
Nell’assicurazione per conto di chi spetta ha diritto all’indennità chi al momento dell’evento
dannoso risulti proprietario della cosa o titolare di un diritto reale o di garanzia su di essa, mentre il
contraente, anche quando si trova in una relazione di custodia con la cosa, può pretendere
l’indennità in luogo dell’avente diritto se quest’ultimo presti il proprio consenso ovvero se ciò sia
previsto da apposita clausola (nella fattispecie, relativa ad un contratto di assicurazione stipulato dal
vettore in favore del proprietario delle cose trasportate, la suprema corte ha rigettato il ricorso
avverso la sentenza di merito che aveva dichiarato la carenza di legittimazione del vettore ad agire
contro l’assicuratore per il pagamento dell’indennizzo, a seguito della rapina su un furgone
portavalori, dal momento che i valori perduti non appartenevano al vettore, ma ad altro soggetto, e
che non poteva ravvisarsi nel comportamento dell’assicurato, che non aveva profittato
dell’assicurazione, il di lui «espresso consenso» a che il contraente esercitasse i diritti derivanti
dalla polizza, ai sensi del 2º comma dell’art. 1891 c.c.).
Cass. civ. Sez. lavoro 24.03.2004 n. 5912
La "legitimatio ad causam" è espressione del principio dettato dall'art. 81 c.p.c., secondo il quale
nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge. Ciò comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a
prevenire una sentenza "inutiliter data" - la verifica, anche d'ufficio in ogni stato e grado del
processo (con il solo limite della formazione del giudicato interno sulla questione) e in via
preliminare al merito, dell'astratta coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che,
secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della
pronuncia richiesta. La questione relativa alla legittimazione, pertanto, si distingue nettamente
dall'accertamento in concreto che l'attore e il convenuto siano, dal lato attivo e passivo,
effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio; tale ultima questione, infatti, concerne il
merito della causa e deve formare oggetto di specifica censura in sede di impugnazione, non
potendo essere sollevata per la prima volta in cassazione. (Nel caso di specie, (nella specie, uno
stato dedotto per la prima volta in cassazione) difetto di legittimazione attiva dell'INAIL riguardo
ad una controversia in cui un lavoratore agiva in diritto per il riconoscimento della rendita per
malattia professionale, avendo prestato attività lavorativa esclusivamente all'estero).
Cass. civ. Sez. II 03.02.1998 n. 1039
Il controllo della legitimatio ad causam demandato al giudice non implica il dovere di procedere
d'ufficio ad atti istruttori ad hoc allorquando le parti si siano presentate in lite dichiarandosi in
possesso delle qualità richieste e nessun contrasto sia sorto in proposito, ovvero quando la tardività
della contestazione non consenta lo svolgimento del contraddittorio sull'argomento, mentre il detto
controllo può essere esercitato d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, sulla scorta degli
elementi acquisiti in causa.
Cass., sez. I, 17-07-2007, n. 15946.
Costituisce giudicato interno l’accertata legittimazione passiva sostanziale di una parte nei cui
confronti siano stati liquidati i danni, dopo che essa si è dichiarata sostituta processuale di altra
parte rimasta contumace e condannata genericamente in via non definitiva, quando, pur emergendo
l’inesistenza di tale sostituzione da un documento in atti (nella specie, la procura al difensore), dopo
la costituzione dell’interventrice dichiaratasi successore, né il giudice di primo grado ha ritenuto di
chiedere d’ufficio, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., a detta parte (una società) di regolarizzare la sua
costituzione nella qualità di incorporante di altra società, né le controparti hanno contestato tale
sostituzione processuale che non è stata impugnata con l’appello, proposto proprio dall’interventrice
erroneamente costituitasi ancora come sostituta e nella stessa qualità, anche se nel corso del
secondo grado l’appellante abbia denunciato l’errore nella dichiarazione, chiedendo di integrare il
contraddittorio nei confronti della parte sostituita.
T. Napoli, 20-10-2005.
L’azione introdotta dall’art. 2476, 3º comma, c.c. è azione sociale in quanto finalizzata alla
reintegrazione del patrimonio sociale e la legittimazione attiva del socio configura un’ipotesi di
sostituzione processuale dello stesso alla società, la cui partecipazione al giudizio non è richiesta
per difetto di litisconsorzio necessario.
TRIBUNALE DI NAPOLI; sentenza, 20-10-2005
Motivi della decisione. — (Omissis). Gli attori hanno domandato «in via preliminare revocare dalla
carica gli attuali amministratori sig. Scotti Pasquale ed Antonio Marzio».
Si reiterano in primo luogo i rilievi formulati dal relatore con il decreto ex art. 12, 3° comma, d.leg.
5/03.
Più esattamente, ribadita la qualificazione dell’istanza de qua alla stregua della previsione di cui
all’art. 2476, 3° comma, c.c. e, quindi, in termini senza dubbio cautelari, va rimarcato che Filippo
Di Meglio e la Dega tourist s.n.c. di Gennaro Della Vecchia e fratelli non hanno né proposto, così
come prescrive l’art. 24 d.leg. cit., apposito ricorso al relatore medesimo in epoca successiva alla
sua designazione da parte del presidente della sezione, né attivato, in epoca antecedente, i poteri di
designazione prefigurati a vantaggio del presidente dall’art. 24, 1° comma, ultima parte, d.leg. cit.
Conseguentemente, è da condividere il postulato affermato, sulla scorta dell’insegnamento
dottrinario (in dottrina si è chiarito che «la necessità di ‘formalizzare’ con autonomo e separato atto
la richiesta di cautela discende, per un verso, dall’autonomia della tutela cautelare rispetto alla causa
di merito pur già pendente e, soprattutto, dal rispetto del principio del contraddittorio, che deve
consentire alla parte che resiste alla cautela di esaminare il contenuto della domanda e svolgere
difese anche scritte»), col decreto ex art. 12, 3° comma, d.leg. cit., in virtù del quale l’omessa
ottemperanza a siffatto onere di forma preclude la delibazione dell’istanza cautelare di revoca degli
amministratori Scotti e Marzio (benvero il condiviso postulato aveva già trovato espressione in
giurisprudenza con riferimento alla cautela del sequestro invocata nella citazione introduttiva del
giudizio di merito: cfr., in tal senso, Trib. Roma 17 gennaio 1996, Foro it., Rep. 1996, voce
Sequestro conservativo, n. 33).
Si opina in secondo luogo, pur ad assumere (nonostante l’esplicita caratterizzazione in guisa
preliminare della domanda) che parte attrice intenda conseguire la revoca in via definitiva, sulla
scorta di una cognizione piena e non sommaria, degli amministratori (la domanda di revoca in via
preliminare degli amministratori Scotti e Marzio, pur ribadita nell’istanza di fissazione d’udienza,
risulta del tutto pretermessa ed in alcun modo figura nelle conclusioni di cui alla comparsa
conclusionale), che un’istanza siffatta sia da reputare, alla stregua della reale portata dell’art. 2476,
3° comma, c.c., inammissibile, giacché di già al momento della sua proposizione il diritto in
concreto azionato non era neppure astrattamente configurabile (la dottrina spiega che costituisce
condizione dell’azione «l’esistenza di una norma che contempli in astratto il diritto che si vuol far
valere. Questa prima condizione dell’azione si chiama possibilità giuridica»).
Segnatamente si reputa che la menzionata novella disposizione codicistica non contempla affatto, a
differenza di quanto prefigurato all’art. 2259, 3° comma, c.c. (scritto in tema di società semplice),
un’azione, a cognizione piena, finalizzata all’attuazione giurisdizionale del diritto sostanziale
(evidentemente e parallelamente non previsto) di ciascun socio di s.r.l. a conseguire la revoca
definitiva del titolare ovvero dei titolari dalla carica gestoria: il paradigma normativo di cui all’art.
2476, 3° comma, c.c. prevede unicamente, in singolare connessione con l’azione sociale di
responsabilità ossia con un’azione (di cognizione) di condanna, una mera azione cautelare che, in
quanto rivolta all’interinale caducazione dell’atto costitutivo, nella parte in cui reca indicazione
giusta il disposto dell’art. 2463, 2° comma, n. 8, c.c. delle persone degli amministratori, ovvero
della decisione dei soci assunta ai sensi dell’art. 2479, 2° comma, n. 2, c.c., riflette i caratteri di
un’azione (di cognizione) costitutiva, azione costitutiva di cui, nondimeno, non vi è traccia alcuna
nel letterale dettato dell’art. 2476 c.c.
Al cospetto delle descritte opzioni della «riforma» opina il collegio che l’elaborazione
giurisprudenziale non può in alcun modo insinuare nel tessuto normativo dell’art. 2476 c.c.
un’azione costitutiva a cognizione piena mirante alla (pronuncia di) revoca definitiva degli
amministratori dall’ufficio gestorio: l’applicazione analogica dell’art. 2259, 3° comma, c.c. appare
indiscutibilmente preclusa dal carattere tipico della tutela costitutiva, destinata ad esplicarsi, in
dipendenza della riserva di legge di cui all’art. 2908 c.c., nei soli casi previsti dal legislatore, e,
quindi, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, dal suo carattere eccezionale, connesso alla tendenziale
intangibilità, pur da parte dell’organo statuale giurisdizionale, della sfera di esplicazione
dell’autonomia costituzionalmente garantita (art. 41, 1° comma, Cost.) ai privati.
Né, al contempo, vi è margine per reputare che il provvedimento cautelare di revoca ex art. 2476,
3° comma, c.c. abbia di per sé attitudine ad acquisire definitiva efficacia in dipendenza della
«stabilità» assicurata dalla «riforma», nonostante il mancato inizio ovvero l’estinzione del giudizio
di merito, ai provvedimenti d’urgenza ed ai provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti
della decisione di merito, sì che possa a pieno titolo esser pronunciato pur dal collegio in fase di
decisione (sulla scorta di una domanda di revoca definitiva dell’amministratore dalla carica
gestoria) in presenza di gravi irregolarità gestionali generatrici di conseguenze pregiudizievoli per il
patrimonio societario.
Ciò che osta ad una simile soluzione esegetica, è, parimenti, l’omessa prefigurazione di un’azione
costitutiva a cognizione piena, facultante ciascun socio alla richiesta giudiziaria di revoca definitiva
dell’amministratore e, quindi, la mancata prefigurazione nel sistema della «riforma» della correlata
sentenza (decisione) di merito: invero non possono in via cautelare essere «definitivamente»
anticipati gli effetti atti a scaturire da una statuizione (costitutiva) di merito non espressamente
prevista. D’altronde, la proiezione dell’efficacia del provvedimento cautelare di revoca oltre il
tempo successivo all’affermazione giurisdizionale della responsabilità gestoria, si tradurrebbe,
sostanzialmente, nella «pretoria» enucleazione di un provvedimento costitutivo a carattere
definitivo che il legislatore non ha inteso prevedere e, comunque, non ha previsto, con susseguente
ed inevitabile violazione della riserva di legge di cui all’art. 2908 c.c. (nel quadro dell’originale
connessione prefigurata tra il provvedimento cautelare di revoca di valenza costitutiva e la
statuizione a cognizione piena di condanna, il disconoscimento della pretesa risarcitoria, pur con
sentenza non passata in giudicato, vale senza dubbio a determinare, ai sensi dell’art. 669 novies, 2°
comma, c.p.c., l’inefficacia della revoca interinalmente disposta; nondimeno, l’affermazione della
pretesa risarcitoria del pari vanifica il provvedimento cautelare, ripristinando nella titolarità
dell’ufficio gestorio la persona o le persone che ne sono state provvisoriamente rimosse. Né tale
ultima soluzione appaia aberrante: nel quadro della significativa «contrattualizzazione» del diritto
societario conseguente alla dilatazione, quasi illimitata per la s.r.l., dei margini dell’autonomia
statutaria, per giunta la collettività dei soci, in dipendenza dell’omesso richiamo, nell’ambito della
disciplina della s.r.l., dell’art. 2383, 3° comma, c.c., non può, nonostante la presenza di una giusta
causa, procedere alla revoca degli amministratori).
Gli attori, in dipendenza della costituzione della Gestione nuove terme comunali s.r.l. in persona
del legale rappresentante pro tempore ovvero della società di cui essi stessi sono soci ed il cui
patrimonio, asseritamente menomato dagli atti di mala gestio dei convenuti Borsò, Postiglione,
Scotti e Marzio, mirano a reintegrare, hanno, nella memoria di replica ex art. 6 d.leg. cit.
specificamente rivolta nei confronti della medesima s.r.l., dedotto l’inopportunità della costituzione
della G.N.T.C. s.r.l., giacché unica e reale beneficiaria dell’azione di responsabilità all’uopo
esperita, altresì evidenziando il conflitto d’interessi in cui verserebbero i due componenti del
consiglio di amministrazione convenuti in proprio con la spiegata azione ex art. 2476 c.c.
Su tale scorta, nella memoria ex art. 6 d.leg. cit., gli attori medesimi hanno invocato la declaratoria
di nullità della comparsa di costituzione e risposta della Gestione nuove terme comunali s.r.l. per
violazione dell’art. 4, 1° comma, d.leg. cit., non avendo, tra l’altro, la società convenuta preso
posizione sui fatti dedotti ex latere actoris e formulato conclusioni, ed hanno altresì chiesto
«accertare e dichiarare anche l’illegittimità e, comunque, la nullità della delibera assembleare
(n.d.e.: recte, consiliare) del 3 luglio 2004 (n.d.e.: delibera con cui si è disposto per la costituzione
della società nel presente giudizio), giacché assunta in palese conflitto di interesse» (così memoria
di replica ex art. 6 d.leg. cit.).
Ritiene il collegio che la società G.N.T.C. sia priva di legittimazione a resistere, giacché, di già alla
stregua della prospettazione di parte attrice, la società convenuta non è in alcun modo prefigurata
quale titolare dell’asserito debito risarcitorio cui si correla l’azionata pretesa creditoria (la dottrina
spiega che la «domanda non è accoglibile, neppure ipoteticamente, se il diritto affermato nella
domanda stessa non è affermato come diritto di colui che propone la domanda e contro colui nei cui
confronti si propone la domanda»; in giurisprudenza, cfr. Cass. 16 novembre 1982, n. 6126, id.,
Rep. 1982, voce Procedimento civile, n. 74, secondo cui il controllo del giudice sulla sussistenza
della legitimatio ad causam, nel duplice aspetto di legittimazione ad agire e a contraddire, si risolve
nell’accertare se, secondo la prospettazione del rapporto controverso data dall’attore, questi ed il
convenuto assumano, rispettivamente, la veste di soggetto che ha il potere di chiedere la pronunzia
giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla, con la conseguenza che, qualora da tale controllo
risulti che già secondo la prospettazione dell’attore, quest’ultimo ovvero il convenuto non possano
identificarsi col soggetto rispettivamente avente diritto o tenuto a subire la pronunzia
giurisdizionale, il giudice deve rigettare la domanda rispettivamente per difetto di legittimazione
attiva o passiva).
Non s’ignora che si è in dottrina prospettata la necessità di chiamare in giudizio la società.
All’uopo si è evidenziato che l’art. 2476, 3° comma, prima parte, c.c., nel legittimare ciascun socio,
sia o meno, a sua volta, amministratore ed indipendentemente dal quantum della sua partecipazione
societaria, all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori (che l’azione
alla cui proposizione è, ai sensi del 3° comma dell’art. 2476 c.c., abilitato ciascun socio, sia l’azione
sociale, l’azione cioè finalizzata alla reintegrazione del patrimonio della società, lo si desume senza
dubbio dalla correlazione sistematica con l’actio prefigurata al 6° comma del medesimo art. 2476
c.c., ove, invece, è riprodotta nel tessuto normativo della s.r.l. l’azione individuale del socio e del
terzo di cui, in tema di s.p.a., all’art. 2395 c.c.; d’altro canto, che trattasi dell’azione sociale di
responsabilità lo si evince ulteriormente dalla previsione del 5° comma dell’art. 2476 c.c., giacché
in tanto l’azione può essere oggetto di rinuncia o di transazione da parte della società, in quanto,
appunto, si tratta dell’azione sociale), prefiguri una vera e propria legittimazione straordinaria ad
agire ovvero un’ipotesi di sostituzione processuale, di legittimazione all’esercizio in nome proprio
di un diritto altrui. Su tale premessa, argomentando analogicamente dalla disposizione di cui al 3°
comma del novello art. 2393 bis c.c., scritto in tema di s.p.a. e disciplinante l’esercizio dell’azione
sociale di responsabilità da parte dei soci di minoranza, si è concluso, nonostante l’assenza di una
corrispondente previsione nel corpo della disciplina della s.r.l., specificamente dell’art. 2476 c.c.,
per la necessità della partecipazione al giudizio della società.
Siffatta impostazione non è da condividere.
In primo luogo, giacché «complica» un tessuto normativo, quale quello dell’art. 2476 c.c., che non
contempla affatto la partecipazione al giudizio della società in guisa di litisconsorte necessario.
In secondo luogo, giacché difetta il presupposto, postulato dall’art. 12, 2° comma, delle preleggi,
della «somiglianza rilevante» (la regolamentazione di una data fattispecie alla stregua della
disciplina dettata per un caso simile postula non già una somiglianza qualunque, sibbene una
«somiglianza rilevante» ovvero che ambedue le fattispecie siano accomunate da una qualità
essenziale, che costituisca al contempo la ragione principe — eadem ratio legis — in virtù della
quale sia stata, per il caso espressamente previsto, dettata quella determinata e non altra disciplina):
la facultas agendi accordata alla minoranza qualificata di cui all’art. 2393 bis, 1° comma, c.c. non
ha motivo di esplicarsi in caso di attivazione dell’organismo collettivo, sicché l’esercizio
dell’azione sociale di responsabilità da parte della minoranza ex art. 2393 bis, 1° comma, c.c.
sembra legittimarsi, essenzialmente se non esclusivamente, nel caso in cui l’assemblea abbia
ritenuto, nel solco della disposizione di cui all’art. 2393, 1° comma, c.c., di non deliberarla ossia,
essenzialmente se non esclusivamente, in caso di inerzia della società, del soggetto titolare del
diritto sostanziale, la cui omessa attivazione, appunto, assurge, tra gli altri ed in aderenza con
quanto sancito in linea generale dall’art. 2900 c.c., a presupposto del potere surrogatorio accordato
alla minoranza.
Viceversa con la legittimazione di ciascun socio di s.r.l. all’esercizio dell’azione sociale di
responsabilità non interferisce in alcun modo l’inerzia della società.
Certo, l’iniziativa del socio ex art. 2476, 3° comma, c.c., così come quella della minoranza
qualificata ex art. 2393 bis c.c., si risolve a beneficio dell’organismo collettivo. Tuttavia non sembra
vi sia margine per caratterizzare la mancata attivazione della s.r.l., del soggetto titolare della pretesa
risarcitoria, quale imprescindibile presupposto dell’iniziativa del singolo socio. E ciò tanto più se è
a dubitarsi, così come (nonostante, in verità, taluni autorevoli dissensi) si dubita, della possibilità di
esplicazione della legittimazione attiva della s.r.l. sulla scorta di un percorso decisionale analogo a
quello dettato per la s.p.a., in dipendenza della sua mancata previsione nel contesto normativo
dell’art. 2476 c.c., più esattamente sulla scorta di un modulo, pur non collegiale, di decisione circa
la proposizione dell’azione assimilabile a quello di cui al 1° comma dell’art. 2393 c.c. (significativi,
al riguardo, sono pure il disposto e, quindi, il silenzio in parte qua dell’art. 2479, 2° comma, c.c.).
In questi termini opina il collegio che il conferimento a ciascun socio della legittimazione
all’esercizio dell’azione di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. sottenda, abbia valenza di attribuzione
ex lege ad ognuno dei componenti della compagine collettiva, benvero ai soli fini dell’esercizio
dell’azione sociale di responsabilità, del potere di diretta gestione e di diretta rappresentanza,
sostanziale e processuale, dell’impresa sociale: all’unico scopo della reintegrazione del patrimonio
della società menomato dall’atto di mala gestio dell’amministratore o degli amministratori in carica
la soluzione prescelta dall’art. 2476, 3° comma, c.c. riproduce sul terreno della s.r.l. le opzioni
positive di cui agli art. 2257, 1° comma, e 2266, 2° comma, c.c. ovvero la regola per cui ciascun
socio è amministratore e rappresentante della società.
In siffatta prospettiva, che appare confortata dalla possibilità esplicitamente prevista (in verità in
via sussidiaria) dall’art. 2475, 3° comma, c.c. di strutturazione e di funzionamento dell’organo di
gestione ai sensi dell’art. 2257 c.c. ossia secondo il modello dell’amministrazione plurima
disgiuntiva, è a reputarsi che il socio o i soci attori, ancorché non spendano formalmente il nome
della società nell’attivarsi e costituirsi in giudizio (è il caso di specie), onde reintegrare non già il
proprio (come sarebbe, se ad esser esercitata fosse l’azione di cui al 6° comma dell’art. 2476 c.c.)
sibbene il patrimonio della società depauperato dalle negligenti condotte degli amministratori,
agiscano nondimeno in nome e per conto della società medesima. Del resto, specificamente con
riferimento alle società in nome collettivo di fatto, si è ritenuto che non occorre che le
manifestazioni esteriori, atte a rivelare ai terzi l’agire del socio in nome della società, assurgano alla
spendita del nome dell’altro o degli altri soci, essendo sufficiente che il comportamento di chi
agisce per la società sia tale da rendere palesi al terzo il vincolo sociale e l’esplicazione dell’attività
nell’interesse comune (cfr., in tal senso, Cass. 18 marzo 1986, n. 1843, id., Rep. 1986, voce Società,
n. 302).
Cass., sez. II, 23-01-2007, n. 1389.
Il creditore agente in surrogatoria ex art. 2900 c.c., e quindi con veste di sostituto processuale del
debitore, non può essere equiparato a un soggetto terzo - come tale libero di provare con qualsiasi
mezzo la simulazione ex art. 1417 c.c. - atteso che si viene a trovare, per la natura stessa dell’azione
esercitata, nella stessa posizione, processuale e sostanziale, del debitore surrogato, con la
conseguenza che sono a lui applicabili tutti i limiti probatori inerenti la posizione del debitore
sostituito.
6. Il giudizio con pluralità di parti
6.1.
Il litisconsorzio necessario
Cass. civ. Sez. I 23.09.2003 n. 14102
Al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al
giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario solo
allorquando l'azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico
oppure all'adempimento di una prestazione inscindibile, incidente su una situazione
inscindibilmente comune a più soggetti, di modo che, se pronunciata in assenza del contraddittorio
di tutte le parti interessate, l'emananda sentenza sia priva di alcuna pratica utilità; pertanto, non
sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario allorché il giudice proceda in via meramente
incidentale e con effetto limitato alle parti in giudizio ad accertare una situazione giuridica che
riguardi anche la parte in esso non presente, dal momento che tale accertamento può ben compiersi
e produrre i suoi effetti tra dette parti del processo, senza chiamare in giudizio l'altra, la quale, in
quanto pretermessa, non subisce alcun pregiudizio dall'accertamento incidentale, inidoneo a
costituire giudicato nei suoi confronti. Sulla base dell'enunciato principio, la S.C. ha escluso la
necessità del litisconsorzio in un giudizio volto al pagamento di una somma di denaro richiesta da
un contraente nei confronti dell'altro sulla base di un negozio, tra gli stessi stipulato, che aveva
modificato un precedente contratto, al quale aveva partecipato anche un altro soggetto.
Cass. civ. Sez. III 03.02.2004 n. 1940
Il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la
situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa, alla
stregua di un accertamento da effettuarsi sulla base del "petitum" (e cioè in base al risultato
perseguito in giudizio dall'attore, in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia
partecipe, onde non privare la decisione dell'utilità connessa all'esperimento dell'azione proposta
indipendentemente dalla natura del provvedimento richiesto. (Nella specie, riguardando la
controversia l'esistenza, validità e risoluzione di contratti di locazione (e subaffitto) e di comodato
di un fondo di destinazione ad uso civico concesso in affitto dal Comune, ed essendo stati tali
contratti conclusi dall'affittuario del predetto fondo con terzi, la S.C. ha escluso che potesse
configurarsi un'ipotesi di litisconsorzio necessario col Comune).
Cass. civ. Sez. III 17.11.1998 n. 11550
Il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la
situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in
maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe onde non privare la decisione
dell'utilità connessa all'esperimento dell'azione proposta indipendentemente dalla natura del
provvedimento richiesto, non essendo di per sè solo rilevante il fatto che la parte istante abbia
richiesto una sentenza costitutiva, di condanna o meramente dichiarativa. (Fattispecie in cui si
controverteva tra le parti della qualità di una di esse di coaffittuario di un fondo agrario. La S.C. ha
confermato la sentenza di merito che aveva affermato la necessità di integrare il contraddittorio nei
confronti del concedente).
Cass. civ. Sez. III 04.06.2004 n. 10649
Quando il proprietario di un immobile denunci i danni provenienti da un immobile confinante per
conseguire una pronuncia di condanna all'esecuzione di opere e lavori idonei ad eliminare i danni
medesimi l'appartenenza di detto immobile a più comproprietari determina l'esigenza di
integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti tali comproprietari, stante la loro qualità di
litisconsorti necessari, in relazione alla inscindibilità ed indivisibilità dell'obbligazione dedotta in
causa, con la conseguenza che la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di uno dei
litisconsorti necessari può essere fatta valere dal litisconsorte pretermesso; tuttavia, l'eccezione di
difetto del contraddittorio per omessa citazione di un litisconsorte necessario non può essere
proposta per la prima volta nel giudizio di cassazione qualora su tale questione sia intervenuto il
giudicato, ovvero se il presupposto e gli elementi posti a fondamento di essa non emergano con
ogni evidenza dagli atti del processo di merito, non essendo possibile in sede di legittimità valutare
nuove prove o svolgere attività istruttorie.
Cass., sez. II, 18-11-2008, n. 27412.
L’azione con la quale i comproprietari di un fabbricato chiedono, nei confronti dei comproprietari
dell’immobile confinante, la rimozione, o comunque l’arretramento a distanza legale, di opere
abusivamente eseguite, dà luogo ad un litisconsorzio necessario passivo e, dunque, in appello ad
una ipotesi di cause inscindibili ai sensi dell’art 331 c.p.c., in quanto la modificazione della cosa
comune non può essere disposta od attuata pro quota in assenza di alcuno dei contitolari della
proprietà del bene su cui dovrebbe effettuarsi la rimozione o l’arretramento a distanza legale; ne
consegue che la mancata notificazione dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado a
taluno dei comproprietari vizia la sentenza di appello che sia stata emessa senza l’integrazione del
contraddittorio con il comproprietario pretermesso e tale vizio può essere fatto valere come motivo
di ricorso per cassazione anche dalla stessa parte cui sia imputabile, in quanto, per un verso, la
sentenza di primo grado non passa in giudicato nei confronti dei pretermessi in presenza
dell’impugnazione di altre parti e, per altro verso, la sentenza che non sia pronunciata nei confronti
di tutti i comproprietari risulta comunque ineseguibile e, quindi, inutiliter data.
Cass., sez. III, 16-01-2009, n. 972.
Nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi sono legittimati a contraddirvi tutti i soggetti entrati
nel processo esecutivo che abbiano interesse a che l’atto impugnato non sia annullato e, quindi,
anche i creditori intervenuti, seppure non siano muniti di titolo esecutivo; ne consegue che, ove non
venga eseguita, né prima né dopo la scadenza del termine perentorio assegnato, l’integrazione del
contraddittorio disposta dal giudice nei confronti di un creditore intervenuto non munito di titolo
esecutivo, non si produce la sanatoria della nullità dell’atto introduttivo del giudizio ed il giudice è
tenuto a dichiarare d’ufficio la mancanza di tale sanatoria, non potendo, in assenza delle parti
necessarie, giudicare del merito della domanda.
Cass., sez. II, 17-03-2006, n. 6056.
In tema di condominio degli edifici, l’azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha
ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condomini, è relativa a un rapporto
sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i
condomini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno
partecipato al giudizio; d’altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina
specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di
obbligazioni indivisibili dall’art. 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all’art. 1317 c.c., secondo cui
gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi
componenti dell’obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri.
Cass., sez. II, 27-02-2009, n. 4856.
La rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all’amministrazione dei beni facenti parte della
comunione legale spetta, a norma dell’art. 180 c.c., ad entrambi i coniugi e, quindi, ciascuno di essi
è legittimato ad esperire qualsiasi azione di carattere reale (come, nella specie, quella di
rivendicazione) o con effetti reali diretta alla tutela della proprietà o del godimento della cosa
comune, senza che sia indispensabile la partecipazione al giudizio dell’altro coniuge, non vertendosi
in una ipotesi di litisconsorzio necessario.
Cass., sez. II, 13-02-2008, n. 3474.
Il contraddittorio nel giudizio tra tutti i partecipanti, od i loro eredi, all’atto impugnato per
simulazione è necessario solo quando la nullità che ne deriva all’atto venga posta a fondamento
dell’azione e non già quando il suo accertamento formi oggetto di una mera eccezione e debba
essere effettuato in via incidentale e senza efficacia di giudicato.
Cass., sez. II, 02-03-2007, n. 4901.
La fattispecie della simulazione, sia essa assoluta o relativa, integra una ipotesi di litisconsorzio
necessario tra le parti del contratto solamente nel caso in cui il relativo accertamento risulti proposto
in via principale, e non anche quando ad esso si proceda in via meramente incidentale, nell’ambito
di un altro e diverso procedimento volto ad una pronuncia che non incida direttamente sul
patrimonio del contraente pretermesso, ma sia destinata a produrre i suoi effetti unicamente tra le
parti del processo.
Cass., sez. lav., 23-06-1998, n. 6214.
Nelle controversie aventi ad oggetto situazioni di interposizione fittizia nella prestazione di lavoro,
nelle quali il rapporto di lavoro intercorre apparentemente con l’appaltatore di manodopera
(soggetto interposto), ma sostanzialmente con l’appaltante, non sussiste litisconsorzio necessario tra
interponente ed interposto; pertanto, nell’ipotesi in cui il giudizio vertente sulle richieste dei
lavoratori nei confronti dell’interponente si sia svolto nei gradi di merito in contraddittorio anche
con il soggetto interposto, la notificazione tardiva del ricorso in cassazione a quest’ultimo non
impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c.
Cass., sez. III, 11-02-2009, n. 3338.
La circostanza per cui una domanda di condanna all’adempimento di un’obbligazione venga accolta
nei confronti di più soggetti in via solidale non giustifica di per sé che il processo, che ha avuto in
primo grado natura di litisconsorzio facoltativo, si configuri in sede di impugnazione come processo
su causa inscindibile, sia che impugni il soggetto che ha ottenuto la condanna solidale sia che
impugni alcuno dei condannati in solido; ne consegue che, di regola, in appello si applica in tali casi
il disposto dell’art. 332 c.p.c. e non quello dell’art. 331 c.p.c.
Cass., sez. II, 23-02-2009, n. 4382.
L’azione con la quale si chiede, nei confronti dei comproprietari dell’immobile confinante, la
rimozione, o comunque l’arretramento a distanza legale, di opere assunte come abusivamente
eseguite, dà luogo ad un litisconsorzio necessario passivo e, quindi, in appello determina la
configurazione di una ipotesi di cause inscindibili ai sensi dell’art. 331 c.p.c.; ne consegue che la
mancata citazione in appello di uno dei litisconsorti costituisce un vizio rilevabile d’ufficio in ogni
stato e grado del processo.
Cass. civ. Sez. I 01.08.2003 n. 11736
La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere di indicare le persone che
debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l'esistenza.
Cass. civ. Sez. lavoro 02.07.2001 n. 8894
La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere non soltanto di indicare le
persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l'esistenza,
ma anche quello di indicare, se l'eccezione è proposta in cassazione, gli atti del processo di merito
dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione.
Cass. civ. Sez. III 04.06.2004 n. 10649
Quando il proprietario di un immobile denunci i danni provenienti da un immobile confinante per
conseguire una pronuncia di condanna all'esecuzione di opere e lavori idonei ad eliminare i danni
medesimi l'appartenenza di detto immobile a più comproprietari determina l'esigenza di
integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti tali comproprietari, stante la loro qualità di
litisconsorti necessari, in relazione alla inscindibilità ed indivisibilità dell'obbligazione dedotta in
causa, con la conseguenza che la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di uno dei
litisconsorti necessari può essere fatta valere dal litisconsorte pretermesso; tuttavia, l'eccezione di
difetto del contraddittorio per omessa citazione di un litisconsorte necessario non può essere
proposta per la prima volta nel giudizio di cassazione qualora su tale questione sia intervenuto il
giudicato, ovvero se il presupposto e gli elementi posti a fondamento di essa non emergano con
ogni evidenza dagli atti del processo di merito, non essendo possibile in sede di legittimità valutare
nuove prove o svolgere attività istruttorie.
Cass. civ. Sez. III 29.07.2002 n. 11149
Qualora il giudizio venga promosso contro alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, a norma
dell'art. 102, comma 2, c.p.c. il giudice deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in un
termine perentorio da lui stabilito, non solo all'udienza di prima comparizione, come previsto
dall'art. 180, comma 1, c.c., ma anche nel corso del giudizio, e quindi anche quando la non integrità
del contraddittorio venga rilevata in sede di decisione della causa. Ne consegue che è errata la
sentenza con la quale il giudicante, rilevata la mancata integrazione del contraddittorio, ne faccia
discendere l'inammissibilità della domanda, anzichè l'adozione del provvedimento ordinatorio
imposto dall'art. 102, comma 2, c.p.c.
Cass. civ. Sez. II 06.09.2002 n. 12980
In caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da uno dei litisconsorti a seguito delle
domande rivoltegli in sede di interrogatorio formale, se non può acquistare valore di prova legale
anche nei confronti delle persone diverse dal confidente, in quanto costui non ha alcun potere di
disposizione in ordine a situazioni giuridiche che fanno capo a altri distinti soggetti del rapporto
processuale, consente al giudice di apprezzare liberamente la dichiarazione confessoria e trarne
elementi di convincimento valutabili secondo i principi delle logica comune, anche nei confronti
degli altri litisconsorti.
6.2 Litisconsorzio facoltativo e interventi
Cass. civ. Sez. II 12.06.2001 n. 7908
Il provvedimento discrezionale di riunione di più cause lascia immutata l'autonomia dei singoli
giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni; pertanto, la loro congiunta trattazione lascia
integra la loro identità tanto che la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite pur
essendo formalmente unica si risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise:
conseguentemente, la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione ad ogni singolo
giudizio, posto che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza,
non potendo essere coinvolte in quest'ultima soggetti che non sono parti in causa.
Cass. civ. Sez. III 22.01.2004 n. 1103
In materia di procedimento civile, in caso di litisconsorzio facoltativo, pur nell'identità delle
questioni, permane autonomia dei rispettivi titoli, dei rapporti giuridici e delle singole "causae
petendi", con la conseguenza che le cause, per loro natura scindibili, restano distinte, con una
propria individualità in relazione ai rispettivi legittimi contraddittori; e con l'ulteriore conseguenza
che la sentenza che le definisce - sebbene formalmente unica - consta in realtà di tante pronunzie
quante sono le cause riunite, le quali conservano la loro autonomia anche ai fini delle successive
impugnazioni, che ben possono svolgersi separatamente le une dalle altre, senza che ne derivino
interferenze reciproche fra i diversi giudizi susseguenti, e senza che venga compromesso l'interesse
all'unitaria trattazione di questioni di identico oggetto, che ben può trovare soddisfazione nell'esame
delle separate impugnazioni nella medesima udienza.
Cass. civ. Sez. lavoro 01.06.2004 n. 10530
Il diritto che, a norma dell'art. 105 c.p.c., primo comma, il terzo può far valere in un processo
pendente tra altre parti, in conflitto con esse (ipotesi nella quale si configura un intervento
principale) o solo con alcune di esse (ipotesi di intervento litisconsortile o adesivo autonomo),
legittimante l'autonoma impugnazione della sentenza che abbia statuito in senso sfavorevole alla
parte adiuvata, a differenza dell'intervento meramente adesivo, escludente tale legittimazione, deve essere relativo all'oggetto, ovvero dipendente dal titolo, e, quindi, individuabile,
rispettivamente, con riferimento al "petitum" o alla "causa petendi". (Nella specie, la S.C. ha
ritenuto ammissibile il ricorso proposto dalla CGIL nei confronti della sentenza che aveva accolto la
domanda di un legale - diretta ad ottenere il pagamento delle competenze in relazione all'attività
difensiva da lui svolta in un giudizio nei confronti dell'INPS per la rivalutazione della pensione di
reversibilità - giudicando di tipo litisconsortile l'intervento spiegato nel giudizio promosso dal
professionista dalla stessa CGIL, la quale aveva sostenuto la tesi secondo la quale quest'ultimo non
avrebbe potuto pretendere il pagamento richiesto, avendo operato per oltre venti anni in regime di
convenzionamento con la confederazione, in virtù di un patto alla stregua del quale egli avrebbe
dovuto fornire gratuitamente assistenza legale agli iscritti ed ai cittadini che si rivolgessero alle
strutture del sindacato).
Cass. civ. Sez. II 12.05.2003 n. 7273
Nell'ipotesi di chiamata in causa di un terzo per comunanza di causa, la domanda del convenuto si
estende direttamente al terzo senza necessità di apposita istanza quando la chiamata stessa sia
rivolta a sentire affermare la esclusiva responsabilità del terzo, a prescindere dal fatto che tale
responsabilità sia poi riconosciuta o meno in via esclusiva dal giudice, e ciò in quanto il giudizio
verte sull'individuazione del responsabile sulla base di un rapporto (obbligazione "ex illicito")
oggettivamente unico. Analoga estensione viceversa non si verifica nel caso di chiamata del terzo in
garanzia (propria o impropria), stante l'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in
un unico processo.
Cass., sez. III, 03-11-2008, n. 26421.
Il litisconsorzio tra assicuratore e responsabile del danno, ai sensi dell’art. 23 l. n. 990 del 1969,
sussiste nell’ipotesi di esercizio dell’azione diretta nei confronti dell’assicuratore ai sensi dell’art.
18 dell’anzidetta legge e non in quella in cui il danneggiato agisce direttamente ed esclusivamente
nei confronti del responsabile del danno; in tale ultimo caso, se il responsabile chiami in garanzia
l’assicuratore, attesa l’autonomia sostanziale del rapporto confluito nel processo per effetto della
chiamata, la domanda proposta dall’attore non si estende automaticamente al terzo ma tale
estensione deve essere espressamente richiesta (la suprema corte, in relazione a fattispecie anteriore
all’entrata in vigore del d.leg. n. 209 del 2005, in applicazione del riportato principio, ha cassato la
sentenza impugnata affermando che, a fronte di due distinti ed autonomi rapporti processuali domanda di risarcimento del danno ex art. 2054 c.c. proposta dall’attrice nei confronti del
responsabile civile e domanda di garanzia spiegata da quest’ultimo nei confronti della società
assicuratrice senza che l’attrice avesse esteso alla stessa la domanda già formulata nei confronti del
convenuto - riguardando la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’impresa
designata esclusivamente il rapporto processuale responsabile civile-assicuratore, eventuali vizi
relativi alla chiamata in causa dell’impresa designata rilevavano solo nella autonoma controversia
tra il convenuto e l’assicuratore ma erano privi di conseguenze quanto alla diversa controversia tra
l’attrice e il convenuto).
Cass., sez. III, 21-10-2008, n. 25559.
La domanda principale dell’attore si estende automaticamente al chiamato in causa dal convenuto,
quando la chiamata del terzo sia effettuata per ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla
pretesa attorea, individuandosi il terzo come l’unico obbligato nei confronti dell’attore, in posizione
alternativa con il convenuto ed in relazione alla medesima obbligazione dedotta nel giudizio;
viceversa, l’estensione automatica della domanda dell’attore al terzo chiamato dal convenuto non
opera quando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso, ed in
particolare, ove l’azione abbia natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità
del terzo differente ed autonomo rispetto a quello invocato dall’attore (nella fattispecie, relativa alla
domanda del proprietario di un terreno per i danni causati dai lavori stradali eseguiti dall’impresa
commissionata da un comune, la suprema corte ha cassato la sentenza della corte di merito che
aveva condannato solidalmente al risarcimento anche il direttore dei lavori, invece chiamato in
causa dal comune a titolo di garanzia).
Cass., sez. III, 08-11-2007, n. 23308.
Il principio dell’estensione automatica della domanda principale al terzo chiamato in causa dal
convenuto non opera quando lo stesso terzo venga evocato in giudizio come obbligato solidale o in
garanzia propria od impropria, essendo in questo caso necessaria la formulazione di un’espressa ed
autonoma domanda da parte dell’attore.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza 25 giugno - 3 dicembre 2002 la Corte d'Appello di Firenze, in riforma della
decisione di primo grado, condannava l'appellante
C.L.E. a pagare ad
E.C. la
somma di L. 88.314.100 oltre interessi e rivalutazione, per i danni da infiltrazione di acque luride
(proveniente da una fognatura) verificatisi in una autorimessa di proprietà della stessa E..
I giudici di appello respingevano invece la domanda della
E. di condanna in solido per i
medesimi danni del Condominio di (OMISSIS), dando atto che nessuna domanda era stata proposta
dalla originaria attrice contro il Condominio di (OMISSIS).
Non poteva, pertanto, essere confermata la decisione del primo giudice, il quale aveva
rilevato che in ogni caso, poichè il Condominio di (OMISSIS) e la
C. utilizzavano
entrambi il medesimo condotto fognario, non importava a quale titolo gli stessi ne avessero
conseguito il possesso (se quindi come proprietari ovvero ad altro titolo), dovendo entrambi
rispondere in solido dei danni provocati dalle infiltrazioni provenienti dalla rottura del condotto.
La Corte territoriale osservava che non vi era alcuna prova del fatto che il Condominio di
(OMISSIS) fosse anche esso proprietario della fognatura dalla quale erano derivati i danni
denunciati dalla E.. Tra l'altro, non era stato acquisito un atto di costituzione della servitù
relativa a tale fognatura.
Un diritto di questo genere non poteva in alcun modo essere usucapito, in mancanza di opere
visibili e permanenti, destinate al suo esercizio.
In nessun modo pertanto il Condomino di (OMISSIS) poteva essere chiamato a rispondere dei
danni subiti dall'immobile dell' E..
In tal modo, doveva ritenersi superata anche ogni questione relativa alla domanda di manleva
proposta nei confronti della
C..
I giudici di appello osservavano che, al contrario, la
C. aveva riconosciuto sin dalla comparsa
di costituzione in primo grado di essere titolare di una servitù di scarico di acque reflue
costituita per destinazione del padre di famiglia in favore dei propri immobili ed a carico di
quelli di proprietà della E..
Del resto, la
C. non aveva mai contestato di dover rispondere dei danni in questione,
avendo invece censurato la decisione di primo grado nella parte in cui l'aveva condannata a
risarcirli in solido con gli altri titolari della servitù. Invece che per la sola parte a suo carico.
La Corte territoriale riduceva poi il risarcimento per lucro cessante, tenendo conto del fatto
che solo una parte dei locali era divenuti inagibili e che in parte le infiltrazioni erano dipese anche
da altre cause, non imputabili alla
C. (quali la mancanza di idoneo scannafosso e le
condizioni della strada sotto la quale scorreva la fogna). Di queste cause - secondo la Corte
territoriale - doveva essere chiamata a rispondere la stessa
E., che pertanto non poteva essere
risarcita per i danni derivanti direttamente dalle stesse.
Per il danno emergente, i giudici di appello davano atto che la E. aveva concordato con le
altre parti per quanto riguarda l'ammontare delle spese di ripristino dei luoghi, consistite nel
rifacimento del pavimento e della relativa piastrellatura.
Avverso tale decisione
C. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da cinque motivi.
Resistono il Condominio di (OMISSIS) e la
E. con controricorso (questa ultima e il solo
condominio di (OMISSIS) hanno proposto anche ricorso incidentale).
Il Condominio di (OMISSIS) resiste con controricorso al ricorso incidentale della E..
La E. ed i due Condomini hanno depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Devono innanzi tutto essere riuniti i tre ricorsi, proposti contro la medesima decisione.
Il primo motivo del ricorso principale della
C. riguarda la violazione di norme di Legge (artt.
1061 e 1062 c.c.).
La servitù costituita da un condotto di scarico fognario non potrebbe mai dirsi non apparente
e quindi non occorrerebbe, come invece ritenuto dalla giurisprudenza, un accertamento da farsi
caso per caso.
Il motivo deve tuttavia considerarsi assorbito, per ragioni di ordine logico, a seguito
dell'accoglimento dei due motivi che seguono.
Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia contraddittoria motivazione e
violazione delle norme sull'obbligo di custodia (art. 2051 c.c.) posto a carico anche
dell'utilizzatore Condominio di (OMISSIS).
Secondo tale disposizione di legge, ed anche in base all'art. 1117 c.c., l'onere della custodia e
quindi della conservazione delle mura e delle fondazioni di uno stabile condominiale compete al
Condominio e non anche al proprietario della porzione sulla quale insiste la parte abbisognevole
di riparazioni.
Con il terzo motivo, sotto altro profilo, la ricorrente principale denuncia ulteriore vizio di
motivazione.
Costituiva circostanza del tutto pacifica che il Condominio di (OMISSIS) utilizzasse - se non ne
fosse anche proprietario - del condotto fognario in questione.
Tra l'altro lo stesso Condominio, costituendosi in giudizio in primo grado, si era dichiarato pronto
ad eseguire tutte le riparazioni del caso. I verbali delle assemblee dello stesso Condominio acquisiti agli atti - confermavano che il Condominio aveva accettato di eseguire le opere
necessarie per eliminare i danni causati dalle infiltrazioni.
I due motivi da esaminare congiuntamente sono fondati.
Contrasta con evidenti ragioni di logica sostenere che il Condominio di (OMISSIS) pur utilizzando
il condotto fognario non dovesse rispondere dei danni causati dallo stesso, al pari della altra
utilizzatrice.
Le ragioni che hanno condotto i giudici di appello ad affermare la responsabilità della
C.
avrebbero dovuto indurre gli stessi ad accogliere la domanda della attrice anche nei confronti del
Condominio.
In questa ottica, già il primo giudice aveva affermato che sia questo Condominio che la
C.
dovevano rispondere dei danni causati dalla fognatura, nella loro qualità di utilizzatori della
fogna.
Essi, infatti, ne avevano "il possesso e rispondono quindi della sua manutenzione, sia che avvenga
quali proprietari, sia che ciò avvenga quali titolari di un diritto di servitù su detto fognone".
Ogni indagine, pertanto, in ordine alla esatta qualificazione del diritto, passava evidentemente
in secondo piano e risultava addirittura non essenziale ai fini della decisione.
Con il quarto ed il quinto motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione
dell'art. 106 c.p.c. e vizi della motivazione.
I giudici di appello avevano respinto quel capo dell'appello incidentale mediante il quale la
C. aveva richiesto la declaratoria di condanna al risarcimento anche del Condominio di
(OMISSIS) (che si trovava nella medesima situazione dell'altro Condominio), in quanto
utilizzatore dello stesso condotto fognario.
Le ragioni per le quali il Condominio di (OMISSIS) doveva rispondere dei danni erano stati
indicati nei primi due motivi dello stesso ricorso incidentale.
Nessuno dei due motivi (quarto e quinto) appare meritevole di accoglimento.
Correttamente i giudici di appello hanno osservato che, in assenza di una specifica domanda della
E., l'estensione della stessa a detto Condominio non poteva conseguire alla chiamata in causa
effettuata dalla
C., dal momento che detta chiamata non era stata effettuata ai fini della
individuazione del Condominio stesso quale unico responsabile.
Risulta infatti che la
C. non aveva esteso specificamente la domanda nei confronti di questo
Condomino nè in primo grado nè nel giudizio di appello, come aveva accertato la Corte territoriale
e non è stato censurato espressamente dalla ricorrente principale.
Si richiama sul punto il consolidato orientamento di questa Corte per il quale in caso di chiamata
in causa del terzo, egli assume per effetto della, stessa chiamata in causa la posizione di
contraddittore nei confronti della domanda originaria solo se viene chiamato in causa quale unico
responsabile del fatto dannoso, e non anche se viene chiamato in causa dal convenuto per esserne
garantito o in quanto corresponsabile dello stesso fatto; in quest'ultimo caso, se l'attore vuole
proporre domanda anche nei confronti del terzo chiamato, deve formulare nei suoi confronti una
espressa ed autonoma domanda, che potrà trovare fondamento in fatti anche diversi rispetto a
quelli posti a base del rapporto di garanzia, avvalendosi della facoltà disciplinata dall'art. 183 c.p.c.,
comma 4.
Il ricorso incidentale di E. merita, parimenti, solo parziale accoglimento.
La E. con il proprio ricorso incidentale propone quattro diverse ragioni di censura.
Con il primo motivo denuncia violazione di norme di Legge (artt. 1061 e 1062 c.c.). Il motivo si
rivela assorbito per le ragioni già esposte a proposito del primo motivo della ricorrente principale.
Con il secondo motivo la
E. denuncia violazione dell'art. 115 c.p.c., e 1227 c.c., nonchè
omessa, insufficiente ed illogica motivazione.
La
E. denuncia la motivazione della sentenza nella parte in cui la stessa aveva ritenuto che
sarebbe stata possibile comunque una parziale utilizzazione della autorimessa in attesa delle
riparazioni necessarie, da eseguire sulla fognatura.
Il motivo è inammissibile in quanto finisce per sollecitare una diversa interpretazione delle
risultanze processuali, non consentita in questa sede.
Con il terzo motivo la ricorrente incidentale deduce violazione di norme di Legge (artt. 1117 e
2051 c.c.).
Le mura perimetrali di un edificio costituiscono beni condominiali, sicchè compete al condominio
l'obbligo della manutenzione e quello di eliminare eventuali carenze e vizi costruttivi dell'edificio.
Il motivo merita accoglimento.
Si richiama sul punto la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 18 maggio 2001 n. 6849)
condivisa interamente dal Collegio secondo la quale l'obbligo del condomino di contribuire in
misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la
manutenzione e riparazione delle parti comuni dell'edificio e alla rifusione dei danni subiti dai
singoli condomini nelle loro unità immobiliari, a causa della omessa manutenzione e riparazione
previsto dall'art. 1123 cod. civ. trova sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio
non anche in una sua particolare condotta, commissiva od omissiva, che, peraltro, se provata, può
determinare, relativamente alle spese occorrenti per porre rimedio alle conseguenze
negative di tale condotta, la sua esclusiva responsabilità ai sensi dell'art. 2043 cod. civ..
Tale obbligo di contribuzione vale anche per le spese necessarie per eliminare vizi e carenze
costruttive originarie dell'edificio condominiale, salva in questo caso, l'azione di rivalsa nei
confronti del costruttore - venditore e si estende anche alle spese necessarie per riparare i danni
che i singoli condomini subiscono nelle loro unità immobiliari.
Il ricorso incidentale del Condominio di (OMISSIS) riguarda unicamente la compensazione delle
spese del giudizio operata dal giudice di appello.
Sul punto si richiama consolidato insegnamento di questa Corte in ordine alla incensurabilità di
questa statuizione, quando - come nel caso di specie - la stessa sia logicamente motivata e trovi una
sua giustificazione con la natura delle questioni trattate.
Il ricorso principale deve essere accolto limitatamente al secondo e terzo motivo (con
assorbimento del primo motivo ed il rigetto degli altri).
Deve essere rigettato il ricorso incidentale del Condominio di (OMISSIS) e quello della E. (con
l'eccezione del terzo motivo che merita accoglimento con l'assorbimento del primo motivo).
La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio ad altro
giudice, che provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale, assorbito
il primo motivo dello stesso ricorso e rigettati gli altri motivi.
Accoglie il terzo motivo del ricorso incidentale della
E., assorbito il primo motivo e rigettato il
resto.
Rigetta il ricorso incidentale del Condominio di (OMISSIS).
Cassa e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2007.
Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2007
Cass., sez. III, 01-06-2006, n. 13131.
Il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del
convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la
liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo
s’individui come unico obbligato nei confronti dell’attore ed invece dello stesso convenuto,
realizzandosi in tal caso un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il
chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed oggettivo (inserendosi
l’obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l’attore in alternativa rispetto a quella
individuata dall’attore), ma ferma restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività,
l’unicità del complessivo rapporto controverso; il suddetto principio, invece, non opera, allorquando
il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto
dall’attore come causa petendi come avviene nell’ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia,
propria o impropria (nella specie, è stata esclusa la estensione della domanda perché la chiamata in
causa era avvenuta da parte del committente, convenuto per il risarcimento dei danni prodotti
dall’esecuzione di opere edilizie, nei confronti delle ditte appaltatrici, configurandosi come
chiamata in garanzia).
Cass. [ord.], sez. III, 24-01-2007, n. 1515.
In tema di competenza per territorio, con riferimento alla proposizione dell’azione di garanzia,
poiché si ha garanzia propria quando la causa principale e quella accessoria abbiano lo stesso titolo,
ovvero quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande, e si configura
invece la garanzia c.d. impropria quando il convenuto tenda a riversare su di un terzo le
conseguenze del proprio inadempimento in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la
domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via
occasionale o di fatto, gli ordinari criteri di competenza territoriale, quali stabiliti dalla legge o
contrattualmente indicati dalle parti, non rimangono derogati dalla chiamata in causa del soggetto
da cui il chiamante pretenda di essere garantito a titolo diverso (garanzia impropria) da quello
dedotto in giudizio (poiché, nella specie, la domanda principale era fondata su di un contratto
concluso a Genova, e quella di garanzia - impropria - dal convenuto proposta nei confronti del terzo
chiamato, su di un distinto e autonomo contratto, concluso a Napoli, la suprema corte, in sede di
regolamento di competenza avverso la sentenza del tribunale di Genova che aveva dichiarato la
propria competenza sulla domanda di garanzia, per averla invece qualificata come propria, ha
dichiarato la competenza del tribunale di Napoli sulla detta domanda di garanzia impropria).
Cass. [ord.], sez. un., 12-03-2009, n. 5965.
In tema di giurisdizione nei confronti dello straniero, in caso di chiamata in giudizio, da parte del
convenuto nella causa principale, di un soggetto di diritto straniero, dal quale egli pretenda di essere
manlevato, al fine di affermare o negare la giurisdizione del giudice nazionale, ai sensi dell’art. 6, n.
2, convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 - per il quale, in caso di azione di garanzia, il
garante può, di massima, essere citato davanti al giudice presso il quale è stata proposta la domanda
principale - è ininfluente la distinzione fra garanzia propria od impropria, dovendo l’indagine
circoscriversi al solo accertamento della non pretestuosità della chiamata in causa, in quanto avente
il solo scopo di distogliere il convenuto dal giudice naturale.
IN FATTO
La società di diritto canadese "Transport Watson Montreal" ha proposto ricorso per
regolamento preventivo di giurisdizione nel procedimento promosso dalla s.p.a. "Lloyd Italico"
nei confronti delle società "Cosmos" s.r.l. e "Cast Line - C.p. Ships" dinanzi al tribunale di
Venezia, avente ad oggetto, tra l'altro, una domanda di garanzia proposta dalla società Cosmos,
convenuta dall'attrice ex art. 1916 c.c., nei confronti della Watson. L'istanza di regolamento trae
fondamento da una complessa vicenda negoziale, dapprima di compravendita e poi di spedizione e
trasporto, avente ad oggetto un macchinario industriale destinato ad un acquirente americano e
danneggiato nel corso del trasporto.
La società assicuratrice LLoyd Italico, che aveva assunto il relativo rischio, dopo aver
indennizzato l'acquirente, promuove azione di surrogazione ex art. 1916 c.c., nei confronti
dello spedizioniere - vettore (Cosmos), società di diritto italiano, e di uno dei subvettori di cui
quest'ultimo si era avvalso (Cast Line).
Lo spedizioniere - vettore Cosmos, nel costituirsi in giudizio, chiederà, in ipotesi di
accoglimento della domanda, di essere tenuto indenne dagli altri soggetti che avevano curato il
trasporto, e cioè il subvettore marittimo Cast Line (che aveva curato il trasporto da (OMISSIS)), lo
spedizioniere - vettore Dolbec (che aveva curato quello da (OMISSIS)) e il subvettore Watson
(che aveva, infine, effettuato l'ultima tratta di trasporto sino allo Stato del (OMISSIS), destinazione
finale della merce).
La Watson, nell'asserita qualità di società di diritto canadese avente sede in (OMISSIS),
eccepirà preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice italiano, giusta disposto della L. n.
218 del 1995, art. 3, ed esclusa l'applicabilità dell'art. 6 n. 2 della Convenzione di Bruxelles del
27.9.1968 (a mente del quale il terzo chiamato in garanzia può essere convenuto dinanzi al
giudice della causa principale), vertendosi, a suo dire, in tema di garanzia c.d.
"impropria", ipso facto ostativa all'invocabilità della norma speciale.
Resiste con controricorso la Cosmos (convenuto principale rispetto alla domanda di
surrogazione proposta dalla società attrice) e chiede il rigetto del ricorso, opinando che la
domanda di garanzia proposta nei confronti del terzo chiamato vada ricondotta a pieno titolo nel
novero delle garanzie proprie, come tale devoluta alla cognizione del giudice italiano ai sensi
dell'art. 6 del Regolamento CE 44/2001, si come "richiamato come criterio di collegamento dal
nostro diritto internazionale privato".
IN DIRITTO
Il ricorso della Transport Watson Montreal deve essere respinto.
La questione di diritto che esso pone a queste sezioni unite - se, cioè, il giudice italiano possa
legittimamente prendere cognizione di una domanda di manleva formulata dal convenuto (nella
specie, spedizioniere - vettore (OMISSIS)) nei confronti di un terzo chiamato in causa (nella
specie, sub-vettore) persona giuridica straniera (nella specie, di diritto canadese) orbita
apparentemente nella sfera dei (complessi) rapporti e della (non sempre piana) distinzione tra.
garanzia propria e
impropria nell'ambito dell'istituto processuale della connessione
(questione sviluppata funditus ai ff. (OMISSIS) e seguenti dell'atto di impugnazione, e
sintetizzata poi nell'ampio quesito di diritto formulato al successivo folio (OMISSIS)).
Non è seriamente contestabile, in premessa, come, in subiecta materia, la stessa giurisprudenza
della corte non sia mai apparsa del tutto univoca, tanto che, con la pronuncia del 26.7.2004,
queste sezioni unite, rimeditando l'intera tematica della chiamata in garanzia quanto ai relativi
risvolti processuali, hanno in definitiva affermato (senza raccogliere, peraltro, particolari
consensi in dottrina) che, nelle ipotesi in cui sia unico il fatto generatore della responsabilità
come prospettata tanto con l'azione principale che con la domanda di garanzia - anche se le
ipotizzate responsabilità traggano origine da rapporti o situazioni giuridiche diverse -, si
verserebbe pur sempre in ipotesi di garanzia propria, predicabile, pertanto, ove il collegamento
tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del terzo chiamato sia previsto dalla
legge disciplinatrice del rapporto (in applicazione di tale principio, verrà affermata la natura di
garanzia propria in caso di controversia in ordine alla responsabilità per danni subiti da una
partita di merce e cagionati dal vettore contro cui aveva agito l'assicuratore che, avendo pagato la
merce danneggiata, si era surrogato nei diritti del proprio assicurato verso il vettore stesso, il quale,
a sua volta, aveva chiamato in causa la propria società assicuratrice: in conseguenza di tale
qualificazione, la Corte ha definitivamente respinto l'eccezione in ordine alla competenza del
Tribunale adito dalla parte danneggiata, per essere questa divenuta incontestabile in ragione della
mancata eccezione del convenuto in relazione al regime della chiamata in garanzia propria).
In senso del tutto speculare rispetto a tale pronuncia possono invece leggersi le sentenze di queste
stesse sezioni unite n. 579 del 1999 (avente ad oggetto una chiamata in garanzia formulata dal
vettore marittimo convenuto in giudizio dal destinatario della merce nei confronti dell'armatore
ritenuto corresponsabile del sinistro), n. 10891 del 2001 (resa in tema di chiamata in garanzia
formulata dallo spedizioniere convenuto in giudizio dal mittente nei confronti del subvettore
corresponsabile del sinistro), n. 5978 del 2007 (in punto di chiamata formulata dal vettore
convenuto in giudizio dall'assicuratore surrogatosi al destinatario nei confronti dei pretesi
corresponsabili del sinistro), mentre espressamente in termini di garanzia impropria viene
ancora ricostruito (Cass. sez. 3^, n. 19050 del 2003) il rapporto scaturente da una domanda di
manleva formulata dal vettore convenuto in giudizio dal destinatario nei confronti dei pretesi
corresponsabili dell'avaria.
Non sfugge al collegio la evidente analogia tra le fattispecie decise con le sentenze dianzi citate e
quella oggetto del presente ricorso, nè pare seriamente contestabile che proprio la qualificazione
del rapporto di garanzia come "impropria" abbia condotto a negare la giurisdizione del giudice
italiano, sulla base dell'(apparentemente) assorbente considerazione secondo la quale "si verte in
tema di responsabilità aventi titolo nell'inosservanza di obblighi scaturenti da contratti
distinti e non interdipendenti" (così, testualmente, la sentenza 10891/2001).
Nondimeno, è fermo convincimento di queste sezioni unite che, sia pur soltanto ai fini di una
corretta individuazione del giudice competente quoad iurisdictionis, la distinzione tra garanzia
propria e impropria debba essere definitivamente superata.
Spunti in tal senso possono trarsi, innanzitutto, dalla analisi della stessa giurisprudenza di questa
corte di legittimità, in particolare dalla sentenza a sezioni unite del 5.11.2001 n. 12627 (che ribadiva
a sua volta un principio già enunciato da Cass. Sez. Un., 21 maggio 1986, n. 3375), ove si
afferma tout court la competenza giurisdizionale del giudice nazionale in una ipotesi di azione
per risarcimento danni da c.d. "bagnamento" proposta da parte del cessionario dei diritti del
ricevitore della merce nei confronti del vettore e del raccomandatario (danesi) e dell'assicuratore
(italiano) del vettore stesso, "sussistendo vincolo di connessione tale da rendere opportuna la
trattazione e la decisione unitaria, davanti al giudice competente dello Stato ove la società
assicuratrice ha la propria sede, in quanto, pur essendo diversi i titoli posti a fondamento
della domanda, identici risultano il petitum e l'oggetto dell'azione e sussiste altresì un rapporto di
alternatività tra le prestazioni dovute".
La pronuncia in esame ricorda, in motivazione, come la norma di cui all'art. 6 della Convenzione
di Bruxelles sia stata oggetto di una pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia delle
Comunità europee (il riferimento è alla sentenza del 27 settembre 1988 in causa 189/87,
Athanasios Kalfelis v. Bankhaus Schroeder), nella quale il giudice sopranazionale avrebbe evocato
un concetto di connessione - quale presupposto necessario per l'applicazione della norma citata del tutto autonomo da quello stabilito dal diritto processuale degli Stati membri, caratterizzato,
cioè, da un nesso tale da generare "l'interesse a giudicare insieme le diverse domande, onde
evitare pronunce che potrebbero essere inconciliabili se le cause fossero decise separatamente",
ritenendo altresì demandato al giudice nazionale il compito di "controllare di volta in volta se
questa condizione è soddisfatta". (La sentenza accolse, in definitiva, la tesi sostenuta
dall'Avvocato Generale, secondo cui la connessione conformemente alla nozione fornita dall'art.
22 della Convenzione - non doveva necessariamente dar luogo ad un litisconsorzio
necessario, essendo sufficiente l'esistenza di un litisconsorzio facoltativo: è, del resto,
significativo ricordare che la competenza speciale stabilita dall'art. 6 viene definita da autorevoli
commentatori tedeschi proprio come "foro del litisconsorzio", il c.d. Gerichtsstand der
Streitgenossenschaft).
Ancor più significativamente, con la sentenza del 26 maggio 2005 (in causa C.77/04, G.I.E. v.
Zurich Espana), la Corte di Giustizia ebbe modo di specificare che, nel caso di un'azione di
garanzia o di una chiamata di terzo nel processo, un convenuto può essere citato davanti al
giudice presso il quale sia stata proposta la domanda principale sempre che quest'ultima non
sia stata proposta per distogliere il convenuto dal suo giudice naturale, aggiungendo ancora che,
ai sensi della relazione Jenard del 1979, l'azione di garanzia "è definita come quella che il
convenuto della causa principale propone contro un terzo allo scopo di restare estraneo agli effetti
del giudizio (come nel caso in cui un assicuratore cerca di far contribuire un altro soggetto che
ritiene responsabile del medesimo evento)", e ribadendo infine che "spetta al giudice
nazionale investito della domanda principale verificare l'esistenza di un nesso di tal genere, nel
senso che esso deve assicurare che l'azione di garanzia non abbia il solo scopo di distogliere il
convenuto dal suo giudice naturale", poichè "l'art. 6 punto 2 della Convenzione non richiede
l'esistenza di nessun altro nesso oltre a quello sufficiente ad escludere la violazione delle norme sul
foro competente".
Infine, con la sentenza 14-03-2006, in causa C-103/05, la stessa Corte di giustizia (sulla
premessa secondo la quale la Convenzione di Bruxelles del 1968 sarebbe stata sostituita con il
regolamento n. 44/2001 con l'intento di unificare le regole che designano il giudice competente a
decidere delle controversie al fine di salvaguardare il funzionamento del mercato interno) avrebbe
avuto modo di precisare come le norme (sia pur con riferimento alle "controversie
intracomunitarie") dovessero presentare "un alto grado di prevedibilità", fondandosi sul
generale principio "nel domicilio del convenuto (...) salvo in alcuni casi rigorosamente determinati
nei quali la materia del contendere o l'autonomia delle parti giustifichi un diverso criterio di
collegamento", anche se il detto foro deve essere completato attraverso fori alternativi, "in
base al collegamento stretto tra l'organo giurisdizionale e la controversia, ovvero al fine di
agevolare la buona amministrazione della giustizia". Sulla base di tali premesse, ritenne la
Corte che, ai fini della legittima instaurazione di una controversia dinanzi, al giudice nazionale
nonostante il chiamato in garanzia fosse soggetto di diritto estero, non rilevasse affatto la natura
del rapporto di garanzia (se essa, cioè, risultasse "propria" o "impropria", secondo una distinzione
cara all'interprete italiano ma sostanzialmente sconosciuta a quello europeo), decisiva risultando,
per converso, "la verifica se il ricorso della società attrice al foro speciale di cui all'art. 6 della
Convenzione abbia, o meno, come unico scopo quello di sottrarre le parti al foro generale del
domicilio del convenuto".
E' convincimento di questo collegio che, alla luce delle considerazioni suesposte, debba
pertanto dirsi definitivamente tramontata la distinzione tra garanzia propria e impropria ai fini di
affermare o negare la giurisdizione del giudice nazionale in caso di chiamata, da parte del
convenuto nella causa principale, di un soggetto di diritto straniero, dal quale egli pretenda di
essere manlevato, onde consentire la celebrazione del simultaneus processus, dovendo l'indagine
circoscriversi, viceversa, al solo accertamento della non pretestuosità di tale chiamata.
Tale indagine - che deve essere compiuta dalla Corte anche attraverso un diretto esame degli atti,
consentito in sede di decisione sulla giurisdizione - conduce, nella specie, ad un risultato senz'altro
non ostativo all'affermazione della giurisdizione del giudice italiano, essendo di palmare
evidenza la non strumentalità e la non pretestuosità della chiamata in garanzia della Watson
(sulla cui effettività non v'è, d'altronde, alcuna contestazione tra le parti).
Il ricorso è pertanto rigettato.
La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate,
attesa la complessità delle questioni trattate e la novità del decisum adottato) segue come da
dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice italiano.
Spese interamente compensate tra le parti.
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2009
Cass., sez. un., 26-07-2004, n. 13968.
Il terzo chiamato dal convenuto, che intenda esser da lui garantito, non può eccepire l’incompetenza
per territorio del giudice davanti al quale è stato evocato qualora il convenuto stesso, non avendo
proposto alcuna eccezione in merito, abbia reso non più contestabile la competenza di detto giudice,
e ciò tanto in ipotesi di garanzia propria, quanto impropria (che si verifica ogni qualvolta, pur
sussistendo un’obbligazione indennitaria, il collegamento del relativo rapporto con quello principale
è meramente occasionale ed estrinseco, senza che per questo rimanga preclusa l’opportunità del
simultaneus processus).
7. Successione nel processo
Cass. civ. Sez. II 26.05.2003 n. 8316
La successione a titolo particolare nel diritto controverso si verifica non soltanto nel caso in cui sia
stato alienato il medesimo diritto che forma oggetto della controversia, ma in ogni caso in cui
l'alienazione importi, per un rapporto di derivazione sostanziale, il subingresso dell'acquirente nella
posizione giuridica attiva o passiva cui inerisce la pretesa dedotta in giudizio, con la conseguenza
che, proposta domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica di un preliminare di
compravendita, il terzo avente causa dal convenuto in base ad un contratto stipulato nel corso del
processo è da considerarsi successore a titolo particolare nel diritto controverso, ed è, pertanto,
legittimato ad impugnare la sentenza pronunciata contro il suo "dante causa".
Cass., sez. III, 24-10-2007, n. 22316.
Nel caso di giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti di impresa assicuratrice in bonis, nei
cui riguardi sia poi intervenuto provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, la sentenza di
condanna pronunciata nei confronti di società assicuratrice non è opponibile al fondo di garanzia
per le vittime della strada che non abbia ricevuto la comunicazione di cui all’art. 25, 2º comma, l.
24 dicembre 1969 n. 990; ne consegue che il fondo non può non esperire il rimedio straordinario
dell’opposizione di terzo ex art. 404, 1º comma, c.p.c., non ricorrendo il presupposto della
possibilità che esso sia in condizione di essere pregiudicato dalla sentenza.
Cass., sez. III, 24-04-2008, n. 10676.
La società di capitali nella quale sia conferita l’azienda di una impresa individuale succede in tutti i
rapporti attivi e passivi di quest’ultima; da ciò consegue che la società nella quale sia confluita
l’azienda di altra è soggetta all’esecuzione forzata fondata su un titolo giudiziale pronunciato nei
confronti del conferente l’azienda, oltre ad essere legittimata a proporre opposizione all’esecuzione
stessa.
Cass. civ. Sez. I 12.03.1999 n. 2200
Il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo ma parte, essendo titolare della
res litigiosa che costituisce l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale in corso (proprietà, diritto
reale limitato, diritto di credito). Il suo intervento nel processo, regolato dall'art. 111 c.p.c., non ha,
pertanto alcun rapporto con le fattispecie disciplinate dall'art. 105 stesso codice, e la sua
esprimibilità, in grado di appello, al di fuori dei limiti rigorosi di cui all'art. 344 c.p.c., trova
giustificazione nella situazione particolare dell'interveniente.
Cass., sez. III, 22-03-2007, n. 6945.
La trasformazione di una ditta individuale in società di capitali, nel corso del processo, integra
un’ipotesi di successione a titolo particolare, secondo la previsione dell’art. 111 c.p.c., con la
conseguenza che il titolare della predetta ditta resta legittimato alla continuazione del processo
medesimo ed all’esercizio del diritto d’impugnazione.
Cass. civ. Sez. I 12.03.1999 n. 2200
Il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo ma parte, essendo titolare della
res litigiosa che costituisce l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale in corso (proprietà, diritto
reale limitato, diritto di credito). Il suo intervento nel processo, regolato dall'art. 111 c.p.c., non ha,
pertanto alcun rapporto con le fattispecie disciplinate dall'art. 105 stesso codice, e la sua
esprimibilità, in grado di appello, al di fuori dei limiti rigorosi di cui all'art. 344 c.p.c., trova
giustificazione nella situazione particolare dell'interveniente.
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