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ANDAR PER MOSTRE DOSSIER IN PRIMO PIANO DOSSIER

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ANDAR PER MOSTRE DOSSIER IN PRIMO PIANO DOSSIER
Tariffa R.O.C., Poste Italiane spa - Sped. in abb. postale, D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1,DCB Forlì - Reg. Tribunale Forlì 6/9/2011 n. 410
Anno XLVII - N. 1 - marzo - aprile 2014 • Abbonamento annuo euro 20,00 - Sostenitore euro 26,00
IN PRIMO PIANO
Febbraio 1944, gli scioperi a Forlì.
DOSSIERPER MOSTRE
ANDAR
Giovanni
Pini:in ilstile
colore
vale più del segno
Passeggiate
Liberty.
MUSICA
DOSSIER
Wildt,
l’anima
e le forme
Michelangelo
a Klimt
Sebastiano
Severi,
note da
nuove
per il violoncello.
52 domeniche con i bambini
in Romagna
Week end divertenti ed educativi a misura di ogni famiglia.
Le domeniche Più beLLe in Romagna con mamma e PaPà
Quando si avvicina il fine settimana
può capitare di non trovare idee per
trascorrere una giornata diversa con
tutta la famiglia: la guida propone
suggerimenti su luoghi, musei, parchi
da visitare e da vivere grandi e piccoli
insieme, in ogni stagione dell’anno.
Per divertirsi e trovare idee e stimoli
per una gita all’insegna della curiosità
e della fantasia.
Per ordini e informazioni: Tel. 0543.798463 Fax 0543.774044 | [email protected] | www.inmagazine.it
SOMMARIO
IN PRIMO PIANO
editoriale
04
Febbraio 1944, gli scioperi a Forlì
di Fabrizio Monti
DOSSIER08
Il famoso degrado
del centro storico.
Passeggiate in stile Liberty
di Ivano Arcangeloni
Tracce di Liberty a Forlì
di Veronica Franco
MUSICA18
Sebastiano Severi, note nuove per il violoncello
di Stefania Navacchia
LIBRI19
Incontri con l’Autore alla XIX edizione
di Camilla Veronese
ricordo21
Lamberto Valli, la sua lezione 40 anni dopo
di Sara Rossi
ANDAR PER MOSTRE
22
Realtà e poesia di Renato Degidi
di Rosanna Ricci
Sguardi d’autore: Mario Bertozzi
di Rosanna Ricci
FORLì UNDERGROUND24
Vita e incredibili avventure di una zecca
di Mario Proli
In cauda venenum
26
Il famoso degrado del centro storico
di Ivano Arcangeloni
«IL MELOZZO»
Già Periodico del Comitato Pro Forlì Storico-Artistica, Forlì
Primo numero 14 marzo 1968
Direttore: Rosanna Ricci
Edizioni In Magazine srl
via Napoleone Bonaparte 50, 47122 Forlì
tel. 0543 798463 - fax 0543 774044
Stampa: Montefeltro di Celli F. - Rimini
Uscita trimestrale.
Reg. al Tribunale di Forlì il 6/9/2011 n. 410
Redazione:
Rosanna Ricci, Roberta Brunazzi, Mario Proli,
Paolo Rambelli, Giorgio Sabatini, Gabriele Zelli.
In copertina cancellata liberty di palazzo Torelli Guarini di
Forlì, realizzata nelle officine Matteucci di Faenza.
Hanno collaborato a questo numero:
Ivano Arcangeloni, Veronica Franco, Fabrizio Monti, Stefania
Navacchia, Sara Rossi, Camilla Veronese.
Facciamo un esperimento sociologico: scendiamo in strada, per le vie del centro, e fermiamo il lieto, e piuttosto sparuto, passante
per chiedergli di rispondere ad alcune domande sul perché il centro storico di Forlì sia
così poco frequentato dai forlivesi. Immaginate di star guardando un qualche servizio
di un qualche Tg, anche di quelli importanti,
nei quali si cerca di raccontare quale sia
l’opinione della gente comune. Cosa pensa
la gente comune, il forlivese medio, del nostro centro storico? Che è in una situazione
di degrado. Ormai per noi forlivesi il “degrado” si abbina solo a “centro storico”. E
perché sarebbe così degradato? Al primo
posto delle risposte troveremo certamente il
problema immigrati. Non che nessuno ce
l’abbia con i negri, per carità, non siamo
mica razzisti qui a Forlì! No, no: niente da
dire contro gli onesti immigrati che vengono
a lavorare a testa bassa, si accontentano di
un tozzo di pane, pagano magari un duecento euro di affitto in nero per alloggiare in
una modesta stanzuccia condivisa con altri
onesti lavoratori, e alla sera vanno a dormire
presto perché stanchi dopo il lungo e indefesso lavorare, e, ça va sans dir, senza contributi previdenziali. Il problema non sono
loro, gli immigrati onesti. Il problema sono
quei perditempo che, non lavorando, bighellonano per ore e ore lungo le vie prospicienti il centro, o addirittura nel bel mezzo della
piazza Saffi, e deturpano col loro sinistro
bighellonare lo sky-line cittadino. E poi, si sa:
bighellona di qua, bighellona di là, alla fine
il passo alla delinquenza è breve. Perché a
sentire la gente comune si scopre che Forlì, ed in particolare il suo centro storico, è
una città pericolosa. Addirittura! Eh, sì: c’è
da aver paura a girar da soli per le vie del
centro di sera, con tutti quegli sbandati che
ti accoltellano per un nonnulla. E per una ragazza, figurarsi, è sempre massima allerta,
poiché quegli scansafatiche bighellonanti ti
vivisezionano con gli occhi, e se potessero
avvicinarsi con quello loro luride manacce,
ah, meglio non pensarci...
Pregiudizio tenace, pervicace, leggenda metropolitana, o meglio comunale, che si propaga di bocca in bocca, pur se non sostenuta da alcuna prova. Se nel Centro Storico
si consumassero tutti quegli accoltellamenti,
quegli stupri, quelle rapine che si raccontano, Forlì sarebbe protagonista delle cronache nazionali tanto quanto una Scampia. Le
statistiche smentiscono il pregiudizio, ma che
se ne fa dei crudi dati statistici la vox populi? Le certezze dell’aritmetica sbiadiscono
di fronte alle incrollabili certezze della fede.
E qui, ormai, è questione di fede. La causa
seconda del degrado è certamente l’incapacità dell’Amministrazione Comunale.
E qui ci ritroviamo di fronte ad un topos letterario assai diffuso, non solo tra gli scrittori forlivesi: il celeberrimo “piove, governo ladro”.
(Segue a pag. 26)
3
IN PRIMO PIANO
Febbraio 1944,
gli scioperi a Forlì.
di Fabrizio Monti
L’antefatto
Il 9 febbraio 1944 i forlivesi apprendono da un manifesto affisso appositamente - che
i giovani delle classi 1922, 1923 e primo
quadrimestre del 1924 sono richiamati alle
armi nell’esercito della Repubblica Sociale
Italiana, entro i cui confini rientrava anche
Forlì. I giovani destinati a combattere al
fianco dei nazisti contro altri italiani devono presentarsi nelle rispettive caserme entro
il giorno 20 di febbraio. La maggioranza
dei richiamati non si presenta, e molti vanno
invece ad ingrossare le fila del movimento
partigiano che si sta organizzando in montagna. Anche in città, tuttavia, i patrioti cominciano ad assestare i primi pesanti colpi
all’apparato nazifascista.
Il 10 febbraio due partigiani, in un agguato eseguito in bicicletta, uccidono il neoreggente della federazione fascista forlivese
Arturo Capanni nei pressi della sua abitazione a San Varano. Il fatto avviene dopo che,
l’11 gennaio 1944, il capo della provincia
Zaccherini aveva imposto a Forlì una serie
di misure relative all’ordine pubblico, tra cui
il divieto di assembramento di due o più persone nelle pubbliche vie e piazze della città. Gli unici autorizzati a circolare durante il
coprifuoco - cioè dalle 8 di sera fino alle 6
del mattino - dovevano camminare al centro
della via e con le mani ben in vista. Inoltre,
la polizia aveva l’ordine di sparare senza
preavviso contro chiunque contravvenisse
alle suddette disposizioni. Il 15 febbraio, a
seguito dell’uccisione del federale Capanni,
il già citato capo della provincia vieta “a
chiunque e per qualsiasi motivo di circolare
in bicicletta o con bicicletta portata a mano,
sia di giorno che di notte, entro il centro urbano di Forlì e Cesena”, specificando che
la forza pubblica ha “facoltà di fare fuoco
nei confronti di quelle persone che, sorprese
a circolare in bicicletta, non ottemperassero
immediatamente all’ingiunzione di fermo”.
Dal 12 febbraio anche i viaggi in corriera
sono limitati e consentiti solo previa richiesta motivata e prodotta almeno 24 ore prima della partenza. L’uccisione del federale
Capanni, oltre ai divieti citati, provoca una
4
Le lavoratrici dello storico
calzaturificio Trento dei
Fratelli Battistini (archivio Zoli).
5
IN PRIMO PIANO
Gli interni della SAOM,
Società Anonima Orsi Mangelli,
in un’immagine degli anni ‘30
(si ringrazia il sig. Betti).
immediata e violenta reazione fascista: in
poche ore oltre duecento persone sono prelevate dalle proprie case, dai ritrovi pubblici
e dalle strade cittadine ad opera della Guardia nazionale repubblicana. Pochi giorni
dopo è ufficializzata la notizia che dieci antifascisti forlivesi detenuti nelle carceri della
Rocca di Ravaldino sono stati trattenuti come
ostaggi e deferiti alla sezione regionale del
Tribunale speciale fascista, rischiando certamente la condanna a morte se i responsabili
della morte del federale non si fossero costitutivi alle autorità fasciste. Prevedibilmente, il divieto di usare la bicicletta non è ben
ricevuto dalla popolazione, molto legata al
mezzo a pedali. Per la grande maggioranza dei forlivesi è l’unico mezzo di trasporto,
ed è indispensabile per chi quotidianamente
dalle campagne deve raggiungere il capoluogo per commerciare i pochi prodotti utili
6
a un’esistenza che si faceva ogni giorno più
dura a causa delle ristrettezze belliche. Secondo quanto riportato dal testimone oculare
Antonio Mambelli, nel suo diario in data 16
febbraio, è questa la ragione per cui molti
operai forlivesi non si presentano al lavoro
in attesa di conoscere le zone percorribili in
bicicletta, avviando di fatto lo sciopero.
Lo sciopero: 16 - 20 febbraio 1944
L’ordinanza che proibisce l’uso della bicicletta è solo il pretesto per innescare un
clamoroso sciopero nelle fabbriche forlivesi,
a quel punto è chiaro a tutti, dopo vent’anni
di violenta e totale repressione per il mondo
del lavoro da parte del regime fascista. Lo
sanno bene anche gli organi della Repubblica Sociale, lasciandone testimonianza
nei documenti ufficiali che si scambiano in
quel frangente, ora conservati negli archivi. E lo sciopero è il risultato auspicato dal
movimento antifascista, che nelle principali
fabbriche forlivesi aveva trovato terreno fertile, si era facilmente radicato e, forte del
consenso degli operai, vi aveva costituito
delle cellule clandestine. Forlì, infatti, nel
1944 si può definire una città industriale,
la quale, seppur ridimensionata a causa degli avvenimenti bellici, può contare su una
classe operaia di circa 5.mila lavoratori.
Una classe operaia che - forte dei successi
delle commissioni interne clandestine, ottenute durante le lotte dentro gli stabilimenti
nei mesi precedenti - decide di astenersi
dal lavoro anche il giorno successivo. Si stima che, il 17 febbraio, 2mila operai non
entrarono nelle fabbriche, seguiti dopo la
pausa pranzo dalla maggioranza dei lavoratori. Il 18 febbraio non si presenta negli
Officine di guerra in una
foto di Maceo Casadei.
stabilimenti la quasi totalità dei dipendenti.
Lo stesso 18 febbraio il questore di Forlì convoca “informalmente” la commissione clandestina della Orsi Mangelli, i cui operai erano
capofila dell’agitazione, per raggiungere un
compromesso e porre fine allo sciopero. A
quel punto le rivendicazioni operaie si palesano al di là della questione delle due ruote: vengono richiesti il miglioramento delle
condizioni economiche e più eque distribuzioni di alimenti e di generi di prima necessità, rivendicazioni che il questore accoglie
verbalmente. Ma per convincere gli operai
forlivesi a rientrare al lavoro è necessaria - il
20 febbraio - l’affissione dei manifesti recanti
la revoca ufficiale del divieto di circolazione
in bicicletta. Lo sciopero continua compatto
per tutto il 19 febbraio e parte del 20, allargandosi anche agli stabilimenti di Cesena.
Come ulteriore prova della valenza politica
che lo sciopero ha assunto, gli operai ottengono dal questore Larice la rassicurazione
che i dieci ostaggi non corrono alcun pericolo di morte. Alcune testimonianze riportano
che Larice, da ultimo, fu convinto a dare questa garanzia dopo la lettura di un volantino
firmato dal Partito Comunista, che lo riteneva
“responsabile” della vita dei dieci ostaggi.
Tornando al nostro cronista Mambelli, in
data 17 febbraio questi annota nel suo diario, riferendosi al secondo giorno di sciopero: “Gli operai non hanno nemmeno stamane ripreso il lavoro ed è stato fra essi diffuso
un volantino alla macchia, dal che appare
il carattere politico della protesta […]. Voci
di taglio di fili della corrente elettrica allo
stabilimento Orsi Mangelli: gli operai ritenuti fautori del sabotaggio e del movimento
sono già tenuti d’occhio, però nessun arresto
la polizia e le guardie repubblicane hanno
operato. […] In relazione all’uccisione di Arturo Capanni, si dice che il capo provincia
e questore sarebbero concordi nel non voler
gravata la mano sui disgraziati ostaggi in
loro potere; il processo contro di essi pare
rinviato a lunedì”. Il diarista forlivese era
quindi al corrente della svolta politica dell’agitazione degli operai e della trattativa tra
questi e i governanti repubblichini di Forlì,
e quindi dell’accresciuto potere contrattuale
dei partecipanti alla Resistenza.
Il bilancio dello sciopero
Gli storici che si sono occupati di questi
eventi concordano nel ritenere lo sciopero
un’importante vittoria politica della Resistenza forlivese. Di fatto, questa agitazione non
fu solo una spontanea reazione di popolo, ma anche e soprattutto il risultato di un
difficile e costoso lavoro organizzativo delle forze antifasciste, le quali - tramite una
rete clandestina che collegava tutto il nord
- stavano già da settimane organizzando
uno sciopero generale che avrebbe dovuto
coinvolgere tutto il nord occupato dai nazisti. Si sarebbe dovuto svolgere il 21 febbraio, ma per diverse ragioni fu spostato
al 1° marzo. Forlì così anticipò e fu banco
di prova dei più estesi scioperi del marzo
1944, che coinvolsero le principali città
del nord d’Italia e che rappresentarono una
svolta determinante nella lotta antifascista
in Italia. Finito lo sciopero, il mese di febbraio a Forlì prosegue “normalmente” tra
difficoltà sempre maggiori ma anche con
un’accresciuta fiducia in una futura vittoriosa lotta di Resistenza. Il 21 febbraio Forlì
subisce un’ondata di freddo intensissimo, la
razione individuale di latte è fissata in 100
grammi e il costo della carne bovina sale
da 20 a 22 lire al chilo. Il 24 febbraio
don Pippo Prati è nominato abate di San
Mercuriale, mentre il diarista Mambelli,
nell’ultimo giorno di febbraio, annota che
“da parecchi giorni la piazza delle Erbe è
deserta, quasi vuote le botteghe, i prodotti vengono direttamente requisiti negli orti.
[…] Centinaia di renitenti [alla leva] hanno
abbandonato la città e le campagne vicine, dirigendosi alla montagna”.
Dossier
passeggiata in stile liberty.
di Ivano Arcangeloni
Tornare ai Musei di San Domenico per una
nuova mostra è sempre un’emozione. Gli
spazi espositivi sono bellissimi: la ristrutturazione del San Domenico è davvero uno dei
più bei regali che la città potesse offrire ai
concittadini ed ai tanti turisti che vengono da
fuori, ormai da molti anni, per le mostre che
vi si organizzano. C’è una bellissima folla
domenicale tra le sale della mostra, sento
accenti francesi, tedeschi, inglesi e cadenze
non romagnole, peccato che fuori di qui la
prima cosa che vedranno di Forlì è l’orrendo palazzo grigio già sede dell’Enel, che
andrebbe immediatamente e spietatamente
raso al suolo, e le discutibili geometrie cementizie del parcheggio Montefeltro... Non
si può avere tutto: è già molto che da un po’
di anni a questa parte il turista capitato a
Forlì per la mostra possa, perfino di domenica, trovare un bar o una trattoria aperti nei
paraggi della mostra: all’inizio, ai tempi del
Melozzo o del Palmezzano, non era certo
così, e si provava quasi vergogna a dover
instradare chi chiedeva consigli per un pranzo a prendere le vie delle anonime periferie.
A merito degli organizzatori va anzitutto
ascritta la scelta del titolo della mostra, il sobrio “Liberty - uno stile per l’Italia moderna”,
che non richiama, illudendoli come fanno
altri organizzatori, i gitanti della domenica
citando grandi nomi di artisti dei quali poi
in mostra si vede un’unica opera, di dubbio
interesse. Questa sul Liberty non è infatti una
mostra griffata: mancano i grandi nomi capaci di attrarre da soli migliaia di visitatori,
ma non se ne sente la mancanza, e a giudicare dalle presenze di questi primi giorni
di apertura la capacità dei Musei di San
Domenico di creare percorsi che sono autenticamente formativi, di fare mostre attente
e particolarmente curate sul piano filologico
e storico, è ormai nota e riconosciuta anche
al di fuori dei confini forlivesi. Così si può
passeggiare per le sale della mostra scoprendo opere davvero interessanti, ed anche
imparando molto di quegli anni, di quel primo Novecento così ricco, anche in Italia, di
audaci artisti “nuovi”, come il faentino Domenico Baccarini, morto a soli venticinque
8
“L’enigma umano” (1900),
di Giorgio Kienerk;
da sinistra, “Il Dolore”,
“Il Silenzio” e “Il Piacere”.
9
Dossier
“La passeggiata al Bois de
Boulagne (I coniugi Lydig)”
(1909), di Giovanni Boldini
(in alto, a destra).
“Aracne” (1893),
di Carlo Stratta
(in alto, a sinistra).
10
Vaso floreale (1900 c.a.),
attribuito ad Adolfo De Carolis
(in basso, a sinistra).
“La danza delle ore” (1899),
di Gaetano Previati
(in basso, a destra).
“Tritone e Nereide” (1895),
di Max Klinger.
anni, ma già circondato da un cenacolo di
emuli, di cui si possono ammirare due pregevoli autoritratti, uno in abito spagnolo ed un
altro frontale, con il volto perso su un fondale
nero, o gli autori degli straordinari poster che
fanno bella mostra di sé nel lungo corridoio
del piano terra, in continuità con quelli già
ammirati per la mostra Novecento, tra cui
citerò lo straordinario Fisso l’idea di Marcello Dudovich, realizzato per la Federazione
Italiana di Chimica Industriale per pubblicizzare l’inchiostro: di spalle un possente corpo
maschile, dalle forme michelangiolesche, inginocchiato a terra che scrive su un muro immaginario il “Fisso l’idea” dello slogan, fino
a che il nero dell’inchiostro scende dal muro
immaginario a riempire di sé la stessa figura
umana, quasi ad anticipare la Body Art degli ultimi anni del Novecento. Nelle piccole
salette del piano terra spicca una deliziosa
La danza delle Ore di Gaetano Previati,
che poi però lascia in mostra due altre opere
decisamente meno riuscite. Nella danza tutto è lieve e lieto, etereo: le aggraziate Ore
hanno le sembianze di donne dal gusto decisamente preraffaellita che si inseguono, rapi-
de e un po’ sapide, tenendosi ad un anello
sospeso nel cielo dorato. Peccato che qui lo
spazio sia poco, e la danza non abbia il
risalto che merita: “Ma non vedi che è pieno
imbullonato, cosa vuoi vedere qui?” commenta qualcuno alle mie spalle cercando di
trascinarsi via la moglie...
Salendo gli spazi si fanno meno asfittici, e
lo scalone d’onore è circondato dagli imponenti pannelli de Il poema della vita umana di Giulio Aristide Sartorio, nei quali la
levità della danza delle Ore e della regina
di Sabra del grande Burne-Jones che apre
la mostra, sembra essersi dissolta, trasformata nel suo opposto: un cavallo che emerge
dal piano del pannello centrale in un balzo
tridimensionale è come scuoiato. Nel suo
scalpitio verso di noi vive di una esuberante
invincibile vita, eppure è scarnificato come
se fosse pronto per il macellaio: lontananza
tematica forse solo apparente dalla levità di
stampo preraffaelita. Questi artisti indagano
il confine incerto che separa la luce del giorno dalle tenebre della sera, si collocano su
quel diaframma tra vita e morte, tra leggerezza e dramma, e risiede esattamente in que-
Definizione di stile
Questa è l’acuta definizione di “liberty”
che Panzini aggiornò più volte
tra il 1905 ed il 1935 nel suo
“Dizionario moderno”:
Come aggiunto di stile, vale press’a
poco come stile floreale o stile nuovo
o aesthetic style o ars nova. liberty
è il nome del proprietario di uno
stabilimento di Londra ove si vendono
mobili di ogni stile, ma specialmente
informati a quell’arte stilizzata che
muove dall’Inghilterra e che ebbe i
suoi primi banditori in Giovanni Ruskin
e in Guglielmo Morris. Quest’arte fu
specialmente applicata all’industria,
mobili, stoffe, parati, ed ebbe per
intento di infondere il senso del gusto
e del bello anche per ciò che riguarda
la vita comune. Non ci fu barbiere, che
non facesse dipingere la sua bottega
in stile floreale o liberty; non droghiere
arricchito che non eleggesse mobili di
tale disegno, o ordinasse all’architetto la
villa o la dimora informata a tale stile.
Cfr. lo stile razionale che domina in
Italia, anche nelle chiese!
11
Dossier
“La Signora in rosa”, (1916)
di Giovanni Boldini.
sto loro liminare la loro forza crepuscolare.
Non prendono mai veramente niente sul serio, eppure è tutto così terribilmente serio perché il tragico è nella vita stessa, lei sì poco
seria. Ecco perché il percorso della mostra
può essere illuminato dalla poetica in punta
di piedi del Gozzano: “Notte e silenzio intorno. Tutto tace. / Come in un sogno d’armonia perplessa / al Poeta ventenne è già
concessa / l’ultima pace” [Suprema Quies].
Le sezioni della mostra
1.Inizio.
2. L’età della comunicazione.
L’arte della pubblicità.
3. Torino, Esposizione 1902.
L’esaltazione della linea.
4. La diffusione dello stile.
5.L’architettura.
L’immagine del moderno.
6. Ascendenze Europee.
Contaminazione e confronti.
7. Svolgimenti locali.
Baccarini e il suo cenacolo.
8. Così partìa le rose e le parole:
figure della letterature, figure dell’arte.
9. Il fascino dei materiali.
Metamorfosi del quotidiano.
10.Geni musicali.
11.Il mito. La vita come enigma
12.Sogni e allegorie.
13.Dal senso panico della natura
alla linea floreale
14.Ritratto di una società al femminile
15.La montagna incantata.
L’io nella solitudine dei ghiacciai
16.Nel segno della secessione.
Le grandi decorazioni
17.Il destino e la gloria.
Nel segno di Michelangelo
12
Sempre del Sartorio è il Pico re del Lazio
e Circe di Tessaglia: un’altra armonia, per
quanto perplessa. Pennellate dense nella
schiuma delle onde marine che si dischiude
al passaggio di Pico, e nelle nuvole rosa del
cielo crepuscolare, di quel rosa così barocco
e lezioso che solo i poeti e la vita possono
di tanto in tanto concedersi. O ancora ecco
La Sirena: una barca su cui è steso un corpo
nudo, di carnagione mediterranea, proteso
verso l’acqua. Qui giace sospesa, sollevata,
appena sfiorata dalle braccia del giovane,
la Sirena stessa, dalla carnagione così pallida da trasfigurarsi in un sogno di donna, i
capelli vermigli scompigliati, sparsi sulle acque del lago, sembrano quelli di una Maddalena, ma non penitente. Armonia, certo:
armonico il viluppo semicircolare di corpi e
legni, armonico il digradare di colori, dall’oscurità del legno alla chiarità del corpo di
“La spiga” (1909),
bronzo di Amleto Cataldi
(a sinistra).
“Pavonessa” (1903-1904),
di Domenico Baccarini
(in alto, a destra).
“La primavera classica” (1914),
di Galileo Chini
(in basso, a destra).
13
Dossier
Il taglio del nastro inaugurale
della mostra, affidato ad Ivano
Dionigi, Magnifico rettore
dell’Universitò di Bologna.
Foto Giorgio Sabatini.
lei, ma armonia non classica. A spezzare
l’incanto della perfezione irrompe la sensualità, il turbamento dei sensi, il non detto nello
sfiorarsi dei corpi, la loro provocante nudità.
Perplessità che si fa più esplicità nel Tritone e Nereide di Max Klinger che dialoga
dalla parete di fianco con La Sirena. Qui lo
sfiorarsi diventa esplicita effusione sensuale,
ma la pupilla rossa della Nereide, e le sue
squame che un po’ sgraziatamente avvolgono il Tritone, ci riportano ad affacciarci sugli
abissi del macabro. E poi molto altro... forse
troppo altro. Vero è che l’arte con il Novecento si fa arte totale, e il Liberty fuoriesce
dalle tele per farsi oggetto di consumo, ed
ecco quindi in mostra mobili, ceramiche (alcune notevoli), vetri (un po’ pochi vetri liberty
in mostra), architettura. Ma la tendenza al
gigantismo della mostra rischia di sfinire il curioso visitatore, a meno che non sia animato
da una missione da compiere, come quella
di scrivere un trafiletto per Il Melozzo. E poi
c’è qualche intrusione forse un po’ discutibile: la sezione dedicata all’architettura, un po’
14
scarna, ospita anche i disegni del Sant’Elia,
che forse non è dei più rappresentativi architetti liberty italiani. Così anche il lungo corridoio con i ritratti femminili, o quello con i paesaggi montani sembrano un po’ “tirati per i
capelli”: forse si poteva frazionare la mostra?
Renderla un pochino meno “ricca”? Concentrarsi di più su quanto di bello vi è accolto?
Comunque, pur con questi difetti, il pomeriggio è stato ben speso. Si scende allo shop,
ancora ci accompagna un senso di appagamento ed anche una certa fierezza civica: sì,
accade proprio qui, a Forlì, non siamo alla
Tate Britain o alla Alte Nationalgalerie, no
no, siamo ai Musei di San Domenico, siamo
proprio a Forlì: anche a Forlì può capitare
di vedere una bella mostra d’arte! Ma poi si
tenta di tornare al guardaroba: qui qualcosa non va. Il budello dell’ingresso è troppo
stretto, e la confluenza contemporanea di
chi è in fila per entrare, di chi è in fila per
riconsegnare le audioguide, di chi le deve
chiedere, di chi deve accedere al guardaroba, di chi deve uscirne, rende tutto caotico
e faticoso. Ma ci riusciamo, ed eccoci finalmente fuori, nel rosa del crepuscolo, davanti
a noi il palazzaccio grigio dell’Enel... Non
si può avere tutto, siamo pur sempre a Forlì,
mica a Parigi!
ORARIO DI VISITA:
da martedì a venerdì: 9.30-19.00;
sabato, domenica, giorni festivi:
9.30-20.00. Lunedì chiuso.
21 aprile e 2 giugno aperto.
La biglietteria chiude un’ora prima.
Riservato gruppi e scuole
tel: 0543 36217
Informazioni e Prenotazioni
tel: 199 15 11 34
Sito web: www.mostraliberty.it
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Dossier
TRACCE di liberty a forlì.
di Veronica Franco
Il liberty a Forlì ha lasciato ben poche tracce. “L’età del progresso e dell’ottimismo come ha scritto Roberto Balzani nella premessa al catalogo della mostra - da noi
fu piuttosto segnata dal protagonismo comunale in campo imprenditoriale e tecnologico, dalle municipalizzate, dalle scuole e
dai servizi sociali: ambiente troppo povero
e troppo poco colto, nel Cittadone giunsero pallidi riflessi di questa corrente”.
Questo non significa però che ad un occhio più attento (e paziente) non possano
rivelarsi delle gradite sorprese. Muovendo
proprio dai Musei San Domenico, infatti,
ci si imbatte subito in Palazzo Romagnoli in due affascinanti soffitti floreali (e in
due opere di Giovanni Marchini - “L’uomo
e il cane” e “Donna con i piccioni” - che
pur essendo dei primi Anni Venti rendono
apertamente omaggio al gusto calligrafico
e decorativistico dell’Art Noveau), mentre
nel vicino Palazzo Torelli Guarini di corso
Garibaldi è possibile ammirare una splendida cancellata in ferro battuto dello stabilimento faentino di Francesco Matteucci,
dalle cui officine - con cui collaborava il
pittore Giannetto Malmerendi - uscirono
anche le cancellate di Palazzo Albertini,
in piazza Saffi, e di Palazzo Paulucci de
Calboli, che affaccia sulla fiancata sinistra
di San Mercuriale.
Risalendo corso Garibaldi fino a piazza
Saffi merita una pausa l’insegna realizzata
(in realtà già nel 1927) da Leonida Emilio
Rosetti per la cartolibreria Raffoni, mentre
uscendo dalla piazza verso nord, prima di
imboccare corso Mazzini, ci si trova sulla
sinistra il cine-teatro Apollo (in via Mentana, 8) realizzato nel 1913 su disegno
dell’ingegnere Sesto Baccarini che si era
ispirato ad alcuni teatri austriaci (da cui il
primo nome della sala di “Kursaal”). Nulla
è sopravvissuto invece di un altro cinemateatro, l’Esperia, la cui sala era stata decorata da Cesare Camporesi.
Sempre sulla sinistra, risalendo corso Mazzini si trova Palazzo Numai Foschi (in via
Pedriali, 12), noto soprattutto per le vicende di cui fu protagonista nel Rinascimen-
16
Cancellata di Palazzo Torelli
Guarini, in corso Garibaldi,
realizzata nelle officine
Matteucci di Faenza.
Foto Giorgio Sabatini.
Il caffè ristorante “Alla Vittoria”, nei
pressi di Porta Mazzini, progettato
dall’architetto Leonida Emilio
Rosetti (immagine tratta da “Forlì
fra “800 e 900” di Elio Caruso).
to e per l’elegante cortile quattrocentesco
con portico su tre lati, ma che merita di
essere citato anche con riferimento al liberty perchè una della sale che ospitano il
museo ornitologico fu decorata a tempera
nel 1925 da Francesco Olivucci con un
fregio a finta ringhiera (in corda e ferro)
che, poggiando su una fascia blu con motivi stilizzati, racchiude dei motivi vegetali
(così come merita di essere ricordato che
a identificare la mano di Olivucci fu pochi
anni fa il pittore Francesco Giuliari).
Tornati su corso Mazzini e percorsolo fino
alla porta ci si trova davanti all’ex caffè ri-
storante “Alla vittoria”, l’esempio più compiuto di architettura liberty nella nostra città, progettato da Leonida Emilio Rosetti nel
1900, come struttura ricettiva al servizio
della vicina stazione ferroviaria. La caratterizzazione dell’edificio è affidata ai semplici elementi compositivi e decorativi del
prospetto: dalle eleganti ringhiere di ferro
battuto agli ornamenti plastici con ghirlande, teste femminili, finestre ad occhiali,
propri del contemporaneo gusto floreale
europeo. Sempre sui viali che abbracciano
il Centro Storico, vicino all’opposta Porta
Ravaldino, si può quindi ammirare il Villino
Soprani, realizzato tra il 1938 ed il 1940
sempre da Leonida Emilio Rosetti, omaggio
nostalgico all’ormai perduta architettura
Art Nouveau. Nel decennio precedente,
cioè a partire dal 1926, fu drasticamente
rimaneggiata secondo i dettami dell’epoca
la facciata settecentesca di Palazzo Benzi
(al 26 di via dei Mille 26) ricorrendo alla
pietra artificiale. Il progetto realizzato da
Virginio Stramigioli potè valersi per la decorazione esterna dell’opera dello scultore
Giuseppe Casalini, mentre a Francesco
Olivucci e Gino Mandrone fu affidata la
decorazione degli interni.
Alla fine degli Anni Venti risale anche il
Villino Sardi di via Cairoli, realizzato su
progetto sempre di Rosetti, sull’area degli
ex-orti Masini, per contenere al piano terra un laboratorio artigianale con relativa
sala mostra, per la produzione di materiale di decorazione. I fronti sono incorniciati
da alte lesene che sottolineano gli spigoli
dell’edificio ed esaltano la smussatura del
prospetto, dove due grandi finestre tripartite segnalano la centralità funzionale del
villino. Le decorazioni ad affresco degli
esterni sono di Cesare Camporesi.
Nei pressi di via Cairoli, ovvero in corso
della Repubblica ed in piazza Solieri meritano ancora una citazione il Circolo Mazzini (ultimato nel 1921) che vide la collaborazione di Leonida Emilio Rosetti con
Cesare Camporesi, e l’edificio di ingresso
dell’ex Ospedale Civile, progettato da
Giovanni Tempioni nel 1905, accomunati
oggi dalla medesima funzione di sedi del
polo universitario forlivese.
17
MUSICA
Sebastiano Severi,
note nuove per violoncello.
di Stefania Navacchia
La carriera di un musicista può essere paragonata ad un viaggio che egli compie nei
vari territori, cioè nei vari repertori della storia della musica. In questo percorso lo strumento non è solo un bagaglio, ma anche un
compagno di cammino con cui mettersi in
dialogo e in gioco.
Il compagno di Sebastiano Severi è da
sempre il violoncello, da quando si diplomò presso il Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, conseguendo anche il Diploma di Violoncellista alla Regia Accademia
Filarmonica di Bologna, diventandone Accademico. Attualmente è primo violoncello con
le orchestre “Bruno Maderna” di Forlì, “Città
Aperta” di L’Aquila e “Pro Musica” di Pistoia. A questa attività unisce anche un interesse per la musica nuova, attraverso il lavoro
con l’ensemble “Fontana Mix” di Bologna.
Proprio per quanto riguarda la produzione
musicale del nostro tempo proponiamo ai
lettori di spostarsi dalla carta alle piattaforme digitali e vedere-ascoltare “Miniatura
X per violoncello” di Nicola Evangelisti,
“andando” su YouTube alla pagina: https://
www.youtube.com/watch?v=_N91JYh0fXY.
18
In questa esecuzione appare chiaro come
Severi evidenzi il lavoro sul timbro, sulle dinamiche, sull’aspetto percettivo del suono e
come abbia compreso le istanze della musica del nostro tempo. A ben ascoltare, però,
questa musica non appare molto lontana a
quella Barocca, produzione nella quale l’esigenza di meravigliare era prioritaria, così
come lo era nelle arti figurative. Ecco allora che timbri aspri, dinamiche esagerate e
suoni a volte “brutti” si ritrovano anche nella
musica del ‘600 e del ‘700. In quel periodo, inoltre, la fisionomia degli strumenti era
in continuo cambiamento e dunque i compositori erano chiamati a sperimentare le
loro possibilità. Queste antiche sonorità dal
sapore così moderno sono state riscoperte
dagli studi filologici di questi ultimi decenni
da esecutori che hanno avuto il coraggio di
riutilizzare strumenti d’epoca.
E proprio questo repertorio è un altro cammino che da tempo sta compiendo Severi,
per il quale ha scelto come compagno di
viaggio un violoncello italiano, costruito
nella prima metà del ‘700. Due tappe importanti di questo percorso sono state il
diploma in musica barocca e conseguentemente il “Premio Cirri” come miglior
diplomato al Conservatorio “Bruno Maderna” di Cesena in musica barocca per
l’anno 2012/2013. Il riconoscimento gli è
stato consegnato il 6 aprile scorso, durante
il “Concerto del Vincitore” nell’ambito della
Rassegna “Ravaldino In Musica”.
Compositore e violoncellista forlivese, Giovanni Battista Cirri, proprio come Severi,
fu Accademico all’Accademia Filarmonica
di Bologna e fu uno dei musicisti che contribuì a sperimentare le tecniche esecutive
dello strumento. Nel corso della serata del
6 aprile è stato eseguito il suo Concerto
Op. 14 n. 3 per violoncello e orchestra. Si
sono ascoltate anche opere di Johann Sebastian Bach, Pietro Giuseppe Gaetano Boni
e Martin Berteau. Accanto a Severi si sono
esibiti l’Orchestra barocca del Conservatorio di Cesena, Filippo Pantieri, direttore artistico della rassegna, Sophie Chang, Josek
Cardas, Anselmo Pelliccioni e Luca Bandini.
Anche in questo repertorio il bagaglio di
Severi è ricco di esperienze e di collaborazioni con l’Accademia degli Astrusi di Bologna e con artisti quali Cecilia Bartoli, Anna
Bonitatibus, Anna Caterina Antonacci, Sara
Mingardo. I cammini sono aperti: il viaggio
di Severi continua...
LIBRI
Incontri con l’Autore
alla XIX edizione.
Gustavo Zagrebelsky
(a sinistra) e Luciano Canfora
saranno a Forlì dopo l’estate,
per presentare il loro saggio
“La maschera democratica”.
di Camilla Veronese
Si pone sotto il segno dell’originalità e della molteplicità dei destinatari la XIX edizione
della rassegna “Incontri con l’Autore”, la più
longeva tra le iniziative culturali della Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì. Oltre alla
rassegna “principale” in programma all’Auditorium Cariromagna, con ospiti scelti tra le
figure di narratori, poeti e studiosi di maggior
rilievo a livello nazionale se non internazionale, la Fondazione si appresta infatti a lanciare quest’anno anche una rassegna dedicata agli scrittori ed agli editori locali ed una
rassegna riservata alle scuole secondarie di
cui saranno protagonisti “Scrittori che narrano
scrittori”. La rassegna principale è stata aperta venerdì 4 aprile da Massimo Franco, già
editorialista di Avvenire ed ora notista politico
del Corriere della Sera, che ha presentato,
insieme all’imam milanese Yahya Sergio Yahe
Pallavicini la sua indagine su “Il Vaticano secondo Francesco. Da Buenos Aires a Santa
Marta: come Bergoglio sta cambiando la
Chiesa e conquistando i fedeli di tutto il mondo” fresca di stampa per Mondadori.
Venerdì 6 giugno sarà quindi ospite della
rassegna uno dei massimi narratori tedeschi,
Matthias Politycki (vincitore, tra gli altri, del
premio letterario Civitas nel 1987, del Bayerischen Staatsförderpreis für Literatur nel
1988, dell´Ernst-Hoferichter-Preis nel 2009 e
del premio LiteraTour Nord nel 2010), di cui
Giovanni Nadiani ha recentemente tradotto
per la casa editrice forlivese CartaCanta il
perturbante “Racconto dell’aldilà”, segnalato
nel 2012 per il pre
stigioso “Independent Foreign Fiction Prize”.
Dopo la pausa estiva sarà la volta dell’inedita coppia formata da Gustavo Zagrebelsky
(ex presidente della Corte Costituzionale) e
Luciano Canfora (uno dei maggiori se non il
massimo filologo classico vivente) che stanno
per pubblicare con Laterza il saggio a quattro mani “La maschera democratica”, sul quale saranno intervistati dal professor Geminello
Preterossi dell’Università degli Studi di Salerno. Altro appuntamento da non perdere nei
mesi autunnali sarà la presentazione in forma
di spettacolo di “Requiem” di Giuseppe Bellosi, che raccoglie i tre poemetti in dialetto
romagnolo del poeta e studioso fusignanese
“È paradis” (Il paradiso), “Bur” (Buio), e “Requiem”, che verranno appositamente raccolti
in unico volume per la rassegna a cura della
casa editrice La Mandragora di Imola. Sul
palco con Giuseppe Bellosi salirà il violoncellista lughese Fabio Gaddoni, collaboratore di
ensemble ed orchestre come I Virtuosi Italiani,
la Filarmonica A. Toscanini di Parma, l’Orchestra del Teatro Regio di Parma, l’Orchestra
del Teatro Comunale di Bologna, I Cameristi
della Scala di Milano e la Filarmonica della
Scala di Milano.
La rassegna dedicata agli autori ed editori forlivesi sarà invece ospite della Sala
Assemblee del Palazzo di Residenza della
Fondazione forlivese l’ultimo venerdì utile di
ogni mese, sempre alle ore 17.00 e sempre ad ingresso libero. Il programma è stato
aperto il 18 aprile dalla presentazione de
“La giostra di Cino Pedrelli”, a cura di L.
Riceputi, cui seguiranno il 30 maggio “Armonicamente. Arte e scienza a confronto” a
cura di Pietro Greco, il 27 giugno la “Guida Storico-Artistica di Lugo, Faenza, Imola
e della Bassa Romagna” di Pierluigi Mores-
sa, il 26 settembre “Tenebrosa Romagna” di
Eraldo Baldini, il 31 ottobre “D’un sangue
più vivo. Poeti romagnoli del Novecento” a
cura di Gianfranco Lauretano e Nevio Spadoni, il 28 novembre “Scritti, lettere, dediche, avvisi ai lettori” di Francesco Marcolini,
a cura di Paolo Procaccioli e il 19 dicembre
“Posizione orizzontale” di Dmitrij Danilov a
cura di Emanuela Bonacorsi.
Spazio quindi agli studenti delle superiori con
i tre appuntamenti al cinema-teatro Apollo
di via Mentana dedicati a quegli autori che
pur ben presenti nei programmi scolastici molto difficilmente riescono ad essere trattati in
classe. Inedito anche il punto di vista offerto,
che non sarà quello della critica letteraria, ma
di altri scrittori che nei grandi del Novecento
riconoscono i propri punti di riferimento. La
rassegna per le scuole è stata così aperta da
Gianluca Favetto che ha raccontato l’11 aprile la funzione che Italo Calvino riconosceva
alla scrittura di finzione, e proseguirà il 10
maggio con Carlo D’Amicis che racconterà
la figura di Pier Paolo Pasolini e con Davide
Longo che il 21 maggio si soffermerà sull’opera di Beppe Fenoglio.
19
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RiCORDO
Lamberto Valli,
la sua lezione 40 anni dopo.
di Sara Rossi
Forlì ha ricordato Lamberto Valli a quarant’anni dalla scomparsa. Il 26 marzo
scorso, nel salone comunale di Forlì, è
stata proiettata una ‘lezione’ di Lamberto sulla Costituzione, con l’attore Massimo
Foschi che ha letto brani da “Vincerà la
vita”, la raccolta di scritti di Valli. Molti gli
interventi di persone che hanno conosciuto
Lamberto Valli e che hanno portato le loro
testimonianze di amicizia e di affetto. Il
suo nome è legato in particolare all’attività di insegnante e di militante delle Acli
(Associazione cristiana lavoratori italiani).
Riportiamo una breve sintesi della vita di
Lamberto così come è stata presentata da
Salvatore Gioiello nel libretto “Nostro fratello Lamberto” scritto nel 1989, in cui sono
riportati vari interventi di chi lo conobbe:
“Lamberto Valli era nato a Forlì nel 1932.
Laureato all’Università di Bologna in Lettere
e Filosofia, si dedicò fin dagli anni giovanili ai problemi dell’educazione. Insegnò
nella scuola media ‘Pascoli’ e al liceo Classico della nostra città. Nel 1962 divenne
docente di ‘Telescuola’ ideata e messa in
onda dalla Rai Tv. Successivamente fu nominato Segretario del Comitato Tecnico per
la Programmazione Scolastica al Ministero
della Pubblica Istruzione. Militante dell’Azione Cattolica e delle Acli, maturò un fervido
impegno sociale e politico: fu consigliere
comunale a Forlì, consigliere d’amministrazione del nostro ospedale, pro-rettore
dell’orfanotrofio ‘Tartagni’ e, dal 1966 al
1971, presidente provinciale delle Acli. La
sua preparazione, puntuale e aggiornata,
sulle problematiche del mondo scolastico e
dell’universo giovani lo condusse a partecipare assiduamente, come esperto, a varie rubriche radiofoniche, ‘Il convegno dei
cinque’, ‘Speciale GR’, ‘Chiamate Roma
3131’. Ebbe incarichi anche presso il Ministero della Difesa, allo scopo di coordinare
iniziative educative e scolastiche fra i militari di leva. In tale ambito fece parte della
redazione televisiva di ‘Tvm’ e collaborò
a ‘Quadrante’, la rivista destinata a questi
giovani, ai quali egli per tre anni consecutivi si rivolse puntualmente ogni quindici
giorni attraverso articoli molto impegnati,
una parte dei quali sono raccolti nel volume
‘Vincerà la vita’, forse il ricordo più tangibile e significativo che oggi ci resta”.
Lamberto Valli morì di tumore il 10 febbraio 1974. La sua ultima toccante lezione
alla radio commosse tutti gli ascoltatori e
rimase impressa nella memoria di molti:
“Voglio soltanto narrare un’esperienza: da
un anno sto cercando di vincere un nemico oscuro che ho dentro, un tumore. So
bene che questa è una parola che fa molta
paura, è quasi una condanna a morte; ma
vorrei dire che questa è una constatazione,
non la morte. Fratelli miei, non si muore
necessariamente di tumore. Si può lottare,
forse si morirà, ma guardate che bisogna
lottare; bisogna credere nelle ragioni della
vita. La vita vale, la vita conta. Guardiamoci dentro: la vita è così bella da vivere
proprio perché c’è l’amore. Noi saremo
misurati solo sull’amore che avremo dato e
che avremo ricevuto. Se noi amiamo gli altri e ci facciamo amare, allora non avremo
paura neanche del tumore. Bisogna avere
fiducia e non bisogna dire di un ammalato
di cancro: ‘È andata, a questo punto compassioniamolo’; fratelli non lasciateci soli.
Se qualcuno ha un parente, un amico con
un tumore, non lo eviti, non lo scansi, non
lo consideri un lebbroso. Gli faccia capire
che è vivo, che l’amore vince sulle cellule
impazzite”.
Concludiamo questo breve ritratto di Lamberto Valli con le parole del giornalista Sergio Zavoli, che fu legato a Lamberto da
grande amicizia: “Lamberto fu un uomo di
parola, oltre che di azione. Certo, non la
parola vana, declamatoria, astratta, dolcificante, edificante, virtuosa, ma una parola che provoca, che urla, che esige; una
parola che si pone rispetto all’altro come
testimonianza. ‘Io ti parlo rispetto a ciò che
sono e sono disposto a farlo’... La sua pedagogia è stata fortemente segnata dalla
politica, non la politica dei partiti ma la
politica dello stare assieme, la politica nel
senso comunitario, del dover mettere insieme i nostri problemi e risolverli in base a
interessi di carattere generale: la politica è
Uscirne insieme”.
Educatore a tutto campo
Lamberto Valli, forlivese, nato il 5
giugno 1932, laureato in lettere e
filosofia, dedicò all’insegnamento
molte delle sue forze. Nel 1962 divenne
docente di “Telescuola”. Nel 1970
fu chiamato a far parte, col ruolo di
segretario, del Comitato Tecnico per la
Programmazione Scolastica al Ministero
della Pubblica Istruzione. Partecipò a
varie rubriche radiofoniche, tra le quali
“Il convegno dei cinque”, “Speciale GR”
e “Chiamate Roma 3131”. Nello stesso
1970 fu incaricato dal Ministero della
Difesa di coordinare iniziative educative
e scolastiche per i militari. In questo
ambito ideò e curò la rubrica televisiva
“TVM”. Ma ciò che lo mise a più diretto
contatto con i giovani di leva fu la
collaborazione assidua a “Quadrante”,
la rivista ad essi dedicata. Dal 1966
al 1971 fu presidente provinciale delle
ACLI. Morì prematuramente nel 1974.
21
ANDAR PER MOSTRE
Realtà e poesia
di Renato Degidi.
di Rosanna Ricci
Un evento che lascerà un segno nel percorso dell’arte forlivese è la mostra retrospettiva ‘Realtà e poesia’ di Renato Degidi (1914 - 2007), allestita dal 19 aprile
al 25 maggio nel palazzo del Monte di
Pietà, residenza della Fondazione Cassa
dei Risparmi di Forlì. Le opere in mostra
sono un’antologia di dipinti realizzati in
circostanze e periodi diversi da Renato
Degidi, artista estremamente riservato e,
per questo, poco conosciuto in città. La
sua attività di docente di disegno nella
scuola media locale gli ha consentito di
venire a contatto con molti giovani, ma,
a parte la sua dedizione ad insegnare le
tecniche espressive dell’arte, non faceva
mai riferimento alla propria attività di artista. Un’attività che spaziava dall’amatissima incisione agli acquarelli, dagli oli ai
disegni e anche alla scultura. La sensibilità
del suo animo si rivelava in maniera sor-
Il paesaggio di Ravaldino
in un opera di Renato Degidi.
prendente nelle acqueforti, ma anche i paesaggi dimostravano una partecipazione
attenta e scrupolosa; lo stesso si verificava
nella produzione a tema religioso. Renato
Degidi, infatti era animato da profonda
fede religiosa e nutriva anche un grande
rispetto per la natura, che traduceva sempre con colori pieni di forza e di armonia.
Tutte le opere in mostra dichiarano una
fondamentale e sostanziale bellezza: segni, colori, luci accarezzano le forme e
traducono in modo vivo ed efficace riflessioni personali dell’autore sull’esistenza,
sui ricordi, sulla quotidianità, ma anche
su indagini psicologiche dei personaggi
rappresentati. E poi il silenzio. Non quello incombente di stanze vuote, ma quello
lirico, lieve, in cui fiori, oggetti, paesaggi
hanno una loro voce e comunicano anche
la dedizione e il piacere dell’artista nell’incidere una lastra.
Degidi si è misurato artisticamente anche con stili e materiali diversi, anima-
to dalla volontà di conoscere e di ricercare sempre cose nuove nel corso della
sua attivitò artistica. Ne sono la prova
alcune forme astratte come quelle di una
imponente scultura o l’attenzione rivolta
all’essenzialità dell’immagine e, di contro
in altre opere, l’estrema precisione anche
nei più piccoli particolari. L’artista Degidi
realizzava opere non per il mercato ma
per se stesso: talora la sua forza creativa
lo orientava verso forme di grandi dimensioni (in particolare le tematiche sacre),
altre volte, al contrario, verso immagini
dalle misure minimali, come quelle di un
francobollo.
Ma la perizia era la medesima in tutte
le sue opere e l’aveva raggiunta anche
grazie agli insegnamenti, in Accademia
a Bologna, da parte di eccellenze come
Giorgio Morandi e Virgilio Guidi. La mostra è un’opportunità da non perdere per
conoscere un artista lirico e raffinato del
Novecento forlivese.
Chi è Renato Degidi
Renato Degidi è nato a Loiano (Bologna)
il 14 maggio 1914 e si è formato
all’Accademia di Belle Arti di Bologna
dove fu allievo di Giorgio Morandi
e di Virgilio Guidi. Ha partecipato
a varie mostre nazionali ottenendo
ovunque premi e consensi di critica.
Pittore, grafico e scultore, ha vinto
il primo premio (1976) alla mostra
nazionale per l’incisione a Genova.
Ha conseguito premi al concorso
“Primavera lombarda” di Milano
e alla Mostra Nazionale del G.A.D.A.
di Firenze (1971). Una sua scultura
in ferro, raffigurante un atleta, si trova
allo stadio del Coni a Pavia. Per meriti
artistici è stato nominato membro
dell’Accademia Tiberina di Roma
e dell’antica Accademia dei Filopatridi.
Hanno scritto di lui e delle sue opere i
pittori Virgilio Guidi e Giacomelli, i critici
d’arte Rezio Buscaroli, Carlo Savoia,
Mario Portalupi, Raffaele de Grada
e Cecil Toumarison nel volume sull’arte
contemporanea edito a Parigi. È incluso
nel Dizionario illustrato degli incisori
italiani del prof. Luigi Servolini.
22
SGUARDI D’AUTORE:
MARIO BERTOZZI.
di Rosanna Ricci
Forlimpopoli è la città di Pellegrino Artusi,
ma è anche la città dello scultore Mario
Bertozzi (nato nel 1927) che all’Artusi ha
dedicato la grande statua che si erge imponente all’ingresso della cittadina romagnola.
Per ammirare le opere di Mario Bertozzi
sono state allestite a Forlì ben due mostre
nel mese di marzo 2014: la prima, “Il segno e la forma”, è stata esposta nel Palazzo del Monte di Pietà dal 1° marzo al 6
aprile; la seconda, “Sculture e disegni”, ha
avuto come sede la Galleria d’Arte Farneti
in via degli Orgogliosi 7, dal 22 marzo al
13 aprile. Bertozzi è molto conosciuto non
solo nella sua città d’origine ma in molte
altre città italiane e straniere in cui ha allestito mostre, ha ricevuto premi oppure ha
realizzato monumenti. Fondamentale per lui
fu l’incontro con lo scultore Giuseppe Casalini che si rese subito conto delle qualità del
giovane e, oltre a fornirgli i primi rudimenti
di disegno e di scultura, convinse i genitori
del futuro artista a fargli frequentare il Liceo
Artistico di Bologna, dove ebbe come insegnanti Cleto Tomba e Luciano Minguzzi. Da
quel momento la creatività di Bertozzi non
ha conosciuto tregua: ha creato sculture di
grandi, medie e piccole dimensioni e ha
allestito mostre in varie città d’Italia, sempre
alimentato da grande amore e dedizione
per l’arte. È lui stesso a spiegare i motivi che
alimentano le sue sculture: “Mi piace modellare e sentire in mano la terra così compatta che crea in me un istinto prepotente, al
punto da aggredirla e ridurla in volumi pieni
e compatti, proprio per il gusto di capirla
e tradurla. È necessario cercare di vedere
dentro quelle immagini che rappresentano
la scultura nella sua verità naturale e, solo
quando posso modellare, sento di diventare
me stesso, raggiungendo la mia realtà”. E
poi la sua grande passione per il disegno.
Una passione che tuttora lo impegna a dipingere, anche con le mani, temi di attualità come gli uragani, al cui sopraggiungere uomini ed animali cercano la salvezza
attraverso la fuga. Il realismo è la linea
espressiva scelta in prevalenza dall’artista.
Ciò non significa, però, che Bertozzi non
Sopra, l’inaugurazione della mostra
nel Palazzo ex Monte di Pietà.
Foto Giorgio Sabatini.
Sotto, un toro in bronzo opera
dell’artista Mario Bertozzi.
si lasci attrarre da forme simboliche come,
ad esempio, il ‘gallotauro’, una figura in
cui si coniugano le caratteristiche salienti
del gallo e del toro perché, come spiega
l’artista, entrambi sono pieni di vitalità, di
forza, di energia, di passionalità. La stessa che non abbandona mai lo scultore.
Per quanto riguarda il segno questo segue l’umore di Bertozzi: dalla delicatezza
dei nudi alla precisione nella sagoma dei
tori, fino all’esuberante ritmo delle immagini dell’ultimo periodo. La partecipazione
dell’artista rende singolare ogni immagine sia essa pittura o sia scultura. In tutte si
registra comunque un animo sensibile che
sa tradurre la realtà e la sua metafora con
grande energia e potenza ma anche, in
molti casi, con infinita poesia.
23
FORLì underground
Vita e incredibili avventure
di una zecca.
di Mario Proli
utti sanno che il ciclo vitale di
una zecca è caratterizzato
da tre stadi e che ogni passaggio da uno stadio all’altro
avviene dopo un pasto di
sangue. Meno conosciuto,
invece, è ciò che di buono e
solidale avviene quotidianamente nelle nostre
città. Perché è un dato di fatto che l’attenzione si concentra facilmente su ciò che sa di
pericoloso e negativo, di pruriginoso, di infedele, come ricorda la regola giornalistica per
attirare i lettori: sesso, soldi e sangue. Ecco il
perché dell’enorme successo della zecca, insetto noto per le doti amatorie, con un nome
che evoca il luogo dove si conia moneta e
che, per natura, brama il sangue. La nostra
storia sotterranea - anche in questo caso scoperta dall’etologo Marfull Polzer a cui si deve
l’intera raccolta di Forlì Underground, che dal
sottoscritto è semplicemente redatta - inizia da
un minuscolo guscio d’uovo di zecca che si è
schiuso nel cortile di un istituto bancario. Poco
distante rilucevano i legni di radica della sede
direzionale, retaggio d’un fasto antico ormai
affacciato sull’erba alta dei giardinetti interni.
In quel luogo ebbe inizio l’esperimento scientifico. A condurlo era un ricercatore, con laurea
in scienze naturali appesa alla parete e una
coraggiosa attività commerciale nell’usato per
cercare di sbarcare il lunario. Egli dedicava il
tempo libero ad applicare soluzioni alchemiche all’entomologia e in quel periodo stava
testando una specie di “cimice” per zecche.
La cimice, intesa come microspia, sarebbe stata inoculata in un adulto femmina che l’avrebbe passata a un uovo. L’oggetto tecnologico
doveva segnalare posizione geografica, registrare suoni, captare pulsioni e altro ancora.
Dopo innumerevoli tentativi andati a vuoto,
finalmente giunse un segnale. Proveniva da
quel cortiletto. L’inventore lo seguì e notò uno
sviluppo attraverso tre periodi di movimento
inframmezzati da due di stasi. La terza pausa decretò la fine del ciclo vitale della zecca
e la necessità di localizzare la “microscatola
nera” per studiarne il contenuto. Venne ritrovata, la microspia, in un cortile vicino all’Ospedale. Dall’analisi emerse quanto segue. Il pri-
24
continuano SUL MELOZZO le storie SURREALI
AMBIENTATE NELLA forlì CONTEMPORANEA.
mo pasto di sangue fu a spese di un piccolo
roditore, un’arvicola probabilmente, e il suo
itinerario spostò l’insetto in un altro quartiere
del centro storico, dove funziona una scuola
professionale; uno di quei posti dove si insegna ai ragazzi un mestiere e viene offerta
la possibilità di apprendimento a chi non è
tagliato per un percorso standardizzato dai
programmi scolastico sempre più sballottati da
riforme e controriforme. I sensori mostrarono la
vitalità di quel luogo fra sport e gioco, conversazioni e laboratori. Nelle vicinanze, la zecca intercettò pure il fervore di un’altra struttura
nella quale si recavano persone in difficoltà
per mangiare, dormire, trovare ascolto e aiuto.
Fu in questo posto che avvenne la prima lunga pausa e qui, ad un tratto, l’orologio biologico dell’insetto riprese a battere compiendo il secondo pasto di sangue. Vittima: un
canide. Probabilmente un cane visto in città
che di altri canidi, come lupi, sciacalli, licaoni o volpi, non è semplicissimo trovarne. Ma
dal momento che non mancano oggigiorno
case con pitoni e iguane lo spirito scientifico dell’alchimista si assestò sulla definizione
corretta. Il canide doveva essere domestico
e ben curato. Ad ospitarlo una donna che
operava in varie associazioni o meglio in
uno snodo di coordinamento del volontariato. Lo studio delle registrazioni restituiva, infatti, un quadro composto da tante persone che
si adoperano tutti i giorni su differenti fronti:
aiuto ai sofferenti, assistenza agli anziani,
lotta contro le malattie, impegno per la ricerca medica, contrasto all’illegalità, presenza
in strada e nei parchi al servizio di famiglie
e scuole, impegno per l’ambiente, la cultura, lo stare insieme e altro ancora. Insomma,
una specie di esercito in missione per buone
cause fatto di migliaia di soldati operosi e
silenziosi. Dopo molte giornate di volontariato arrivò la seconda pausa che fu interrotta
dall’ultimo pasto di sangue. Questa volta a
prendersi in groppa la zecca, che divenne
presto grande come un seme di cocomero,
fu un gatto. Un gattaccio maschio, finito fuori zona durante la stagione dell’amore felino
e rientrato a casa sua, vicino all’Ospedale
appunto, dimagrito, spelacchiato e con nuove cicatrici. Fu in quest’ultimo periodo che la
zecca mostrò la maggiore intensità emotiva.
Le registrazioni erano chiare. I picchi più alti
di pulsione avvennero durante la passeggiata del gatto sui cornicioni del padiglione
dove vanno i donatori di sangue, di plasma
e dove viene portata avanti la cultura della
donazione. Nelle registrazioni si sentiva una
voce che dava numeri: “6.001 donazioni in
città nell’ultimo anno, 3.495 donatori, 330
giovanissimi di cui maggioranza ragazze.
Questo è aiuto concreto, altro che chiacchiere!”. La vista delle sacche vermiglie e turgide
emozionò a tal punto la zecca che quando,
insieme al gatto, fece ritorno a casa ammosciò il rostro e cadde al suolo vicino alla ciot-
tola delle crocchette. Fu allora che una bandate ucraina notò l’insetto e lo abbrustolì con
un fiammifero. La zecca sublimò la sua vita
in un bagliore infuocato che lesionò irrimediabilmente il dispositivo alchemico. La “cimice” non fu più utilizzabile. Del microscopico
apparecchio funzionava solo il localizzatore
GPS e si era salvata la memoria. Grazie a
questi dati è stato possibile scrivere la storia.
L’inventore ha cercato di ricostruire il marchingegno senza però riuscirvi e ancora oggi,
appena finisce di lavorare, corre in laboratorio per cercare di capire il segreto di quel
magico esperimento.
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In cauda venenum
Il famoso degrado del centro storico.
di Ivano Arcangeloni
Il Comune non fa niente per fermare il degrado. Cosa dovrebbe fare, però, non si sa. Le
mostre del San Domenico, la recente apertura
di Palazzo Romagnoli, quella di Palazzo Talenti-Framonti in piazza, le varie iniziative culturali promosse per rivitalizzare il centro, generosamente finanziate dalla Fondazione Cassa
dei Risparmi di Forlì, non c’è niente che basti.
Cosa dovrebbe fare, allora, il Comune? Tacerò dell’idiota proposta di aprire alle auto perfino piazza Saffi. E cos’altro propone il popolo
degli scontenti? Niente. Pare che ci siano solo
le auto, che l’unico problema siano le auto:
quindi la proposta dirompente e innovativa
degli scontenti consiste nell’ampliare i parcheggi, abbassare i costi della sosta, o addirittura
azzerarli. Punto. Perché se i negozi del centro chiudono è perché le auto non possono
arrivare fino in piazza. Ma prima? Quando
erano aperti e le auto non arrivavano comunque fino alla piazza, perché non ci sono mai
arrivate, come facevano? Ah, la logica, altra
nemica delle incrollabili certezze della fede!
Stranieri, dunque, e incapacità del Comune.
E poi? I nostri interlocutori sollecitati ad individuare una terza causa un po’ si smarriscono,
un po’ si innervosiscono. Una terza causa?
Perché, queste due non bastano? Qualcuno
ci riprova con gli immigrati: non basta averli
messi al primo posto. Sono primi e anche terzi. E poi forse quarti e quinti, fino alla decima
posizione in classifica. Evidentemente non vedono nessuna responsabilità dei commercianti. Forse, e sottolineo forse, se alcuni chiudono
è anche per l’incapacità loro di innovarsi, di
offrire qualcosa di accattivante, di interessante.
In piazzetta don Pippo (già piazzetta delle Poste) ha aperto nel periodo natalizio il negozio
di Emergency, e ha lavorato. Da quando il negozio della cooperativa Equamente è all’inizio
di via delle Torri, ad un passo dalla piazza,
vende di più di prima. Qualcuno, dunque, ce
la fa. Qualcuno vende. Nonostante la crisi, i
negri ubriachi e l’inettitudine del Comune. E
come fa? Non sarà che qualche commerciante di Forlì non sa stare sul mercato?
E l’Iper? Il nostro faraonico Iper? Le cui glorie
sono cantate per tutte le strade della Romagna? Il mitico Punta-di-Ferro? Che già il nome
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è tutto un programma. Pensa se l’avessero
costruito in via Martiri Ebrei. L’avrebbero chiamato “Il Martiri Ebrei”? Dove andate oggi? Al
Martiri Ebrei? Forse sarebbe stato comunque
meglio di “Punta-di-Ferro”...
Non avrà contribuito anche l’Iper al calo di
vendite dei commercianti del centro, allo svuotarsi della piazza? Leggiamo dalle cronache
locali: “Iper aperto a Santo Stefano, grande
ressa al Centro commerciale”, “Più di mille persone in fila per entrare nel centro commerciale
di Forlì, tremila ingressi solo nella prima ora di
apertura”, e ancora: “Al via i saldi, in 25mila
all’Iper”. E da dove vengono quei 25mila? Sì,
in molti verranno da Ravenna, poiché pare
che il nostro Iper piaccia molto anche fuori le
mura. Altri verranno dal forese: è così comodo arrivare all’Iper, così facile parcheggiarci,
e poi la sosta non si paga. E dentro, vuoi
mettere? Tutta quella bella gente, tutti quei bei
negozi, tutta quella scelta... E va a finire che
anche molti forlivesi hanno finito per passarci
le feste, invece di venire in piazza. Dopo poi
se ne pentono, tornano a sera sfiniti e nervosi,
perché non è mica poi così riposante gironzolare dentro all’Iper. E con tutte quelle macchine
si litiga per i parcheggi anche là, mica solo
in centro. Mal di testa, nervi a pezzi, porta-
foglio svuotato. Mai più, mai più, pensa tra
sé e sé, senza osare dirlo ad alta voce, il padre di famiglia incazzato nero perché non ha
potuto godersi la sua partita su Sky. Ma poi
la domenica dopo, inevitabilmente, ci ricasca.
Cosa facciamo oggi? In centro? Con tutti quei
negri bighellonanti? Con tutti i negozi chiusi?
No, dai, facciamo piuttosto un giretto all’Iper,
così compro lo yogurt bio che è finito. E così
si riparte, e si ricomincia. Eh, sì, lo yogurt bio,
ma per favore! Vallo a cercare te lo yogurt bio
tra quei chilometri di scaffali. E già che devi
cercare lo yogurt, vuoi non prendere quelle
sardine a metà prezzo? E la pasta? Ma dai,
guarda che affare, dieci confezioni al prezzo
di otto. Il detersivo per i piatti poi non scade
mica, già che siamo qui prendo anche quello. E poi come sono bassi i prezzi qui, e gli
sconti come sono esagerati! Sì, come no, tanto alla fine quando arrivi alla casa, stremato
dalla ricerca dell’offertona, che poi è sempre
già esaurita, gli lasci sempre quei 120 euro
come minimo. Bell’affare, per un vasetto di yogurt bio. Ma anche qui la logica conta poco.
Le incrollabili certezze della fede non si lasciano certo scalfire da qualche piccola, insignificante disavventura. Perché è vero che Allah è
grande, ma anche l’Iper non scherza.
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1 febbraio-15 giugno 2014
Orario di visita:
da martedì a venerdì: 9.30 - 19.00;
sabato, domenica, giorni festivi:
9.30 - 20.00 - Lunedì chiuso.
21 aprile e 2 giugno apertura straordinaria.
La biglietteria chiude un’ora prima.
Comune di Forlì
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