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Dove le pietre sono parole

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Dove le pietre sono parole
LA NATURA, I PAESAGGI
LA NATURA, I PAESAGGI: SARDEGNA
SARDEGNA
Dove le pietre
sono parole
AGOSTO 2001 SUPPLEMENTO ALLEGATO AL N. 244 di AIRONE
Sped. in abb. post. - 45% art. 2 comma 20/b legge 662/96 - Milano
EDITORIALE GIORGIO MONDADORI
LA NATURA, I PAESAGGI
SARDEGNA
Direttore responsabile:
ELIANA FERIOLI
ilSOMMARIO
coordinamento redazionale:
Cesare Della Pietà
redazione:
Antonella Colicchia,
Antonio Lopez, Elisabetta Planca,
Metello Venè
6 GALLURA
dipartimento fotografico:
Lello Piazza (photo editor)
ufficio grafico:
Claudia Pavesi (responsabile),
Catia Quinterio
16 SUGHERA
segreteria di redazione:
Laura Belloni
24 GESTURI
Valerio Agnesi, Stefano Ardito,
Antonella Colicchia, Dario Cossu,
Antonio Lopez, Albano Marcarini,
Nanni Marras, Domenico Ruiu,
Egidio Trainito, Metello Venè
32 BARBAGIA
per le fotografie:
40 NURAGHI
Hanno collaborato:
48 STAGNI COSTIERI
Piero Bevilacqua, Carlo Felice Casula,
Rosalba Mariani, Giampiero
Pinna, Giovanni Sistu, la casa editrice
AM & D edizioni di Cagliari
Consiglieri:
Indirizzo e-mail: [email protected]
Indirizzo postale:
corso Magenta 55, 20123 Milano
Supplemento al n. 244 di Airone © 2001,
L’Airone di Giorgio Mondadori e Associati
S.p.A. Tutti i diritti riservati. Testi e fotografie non possono essere riprodotti senza
l’autorizzazione dell’Editore. Fotolito: Adda
Officine Grafiche, via delle Industrie 18,
Filago (BG). Stampa: Elcograf, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (LC). Airone:
pubblicazione mensile registrata presso il
Tribunale di Milano il 7/3/1981, n. 89.
LE PERLE CONTESE
di Antonella Colicchia
Progetto grafico di Claudia Pavesi
Giuliano Cesari, Maurizio Dell’Arti,
Roberto Cairo, Marco Pompignoli
LE RADICI
di Stefano Ardito
Massimo Demma, Paolo Rondini,
Franco Testa
PRESIDENTE:
DOVE IL PASTORE È RE
di Antonella Colicchia
per le illustrazioni:
URBANO CAIRO
LA GIARA DEI CAVALLINI
di Antonio Lopez
Stefano Ardito, Nevio Doz, Vittorio
Giannella, Johanna Huber, Mastrolillo,
Giorgio Marcoaldi, Gianmario Marras,
Angelo Mereu, Daniele Pellegrini,
Enrico Pinna, Guido Alberto Rossi,
Domenico Ruiu, Egidio Trainito
E ASSOCIATI S.P.A.
UN ALBERO, UNA TERRA
di Albano Marcarini
A questo numero hanno contribuito,
per i testi:
L’AIRONE DI GIORGIO MONDADORI
DOVE IL GRANITO DÀ SPETTACOLO
di Albano Marcarini
LA FOTO
DI COPERTINA
Il nuraghe Santa Sabina, nei
pressi di Silanus. Sono
oltre 8.000 queste costruzioni
censite finora in Sardegna:
inevitabile che l’enigmatico
monumento megalitico finisca
con l’apparire quasi un logo
dell’isola, un marchio che
ne segna tutti i paesaggi, dalle
coste ai monti, alle campagne,
dove il tempo pare essersi
fermato. E per diventare, esso
stesso, paesaggio.
Foto di Angelo Mereu
56 MINIERE
CUORE DI TENEBRE
di Metello Venè
66 LA COSTA
DOVE VOLANO I GRIFONI
di Stefano Ardito
74 TANCHE
I MURI DELL’ARRAFFA-ARRAFFA
di Albano Marcarini
80 PISCINAS
IL NOSTRO SAHARA
di Metello Venè
88 SUPRAMONTE ’
L ANIMA SELVAGGIA
di Stefano Ardito
SOMMARIO
5
DANIELE PELLEGRINI
GALLURA
dove il granito
dà spettacolo
DI ALBANO MARCARINI
Nel Medioevo i Visconti, che in Sardegna operavano da giudi-
✦
ci per conto dei Pisani, avevano sulle loro insegne l’immagine
DOVE SI TROVA
La maggiore area granitica
sarda è la Gallura, la regione
settentrionale dell’isola. Le
principali vie d’accesso fanno
capo a Olbia, porto per i
collegamenti con il continente,
e a Sassari. La strada statale
127 che passa per Tempio
Pausania attraversa in senso
est-ovest tutta la regione.
Pure interessante, sotto il
profilo paesaggistico, la strada
costiera che da Olbia
raggiunge Palau, Santa Teresa
Gallura e Castelsardo.
Sicuramente insolito, infine,
l'itinerario ferroviario, con
locomotiva d’epoca, da Palau
a Tempio. Il servizio
si effettua giornalmente dal
1° luglio al 31 agosto e
offre il modo di apprezzare
le bellezze del paesaggio della
Gallura. (Informazioni:
Ufficio Turistico Ferrovie
della Sardegna,
numero verde 800-460220).
8
GALLURA
e la sua identificazione geografica, che allora però doveva essere ben
più vasta, comprendendo il Nuorese e ampi tratti delle Barbagie.
La Gallura di oggi invece comincia dal Monte Limbara (1.359 m), a ridosso di Tempio Pausania. È la seconda montagna sarda per altezza,
dopo il Gennargentu, e da essa si abbraccia tutta questa parte dell’isola. Non per nulla, il Lamarmora, redigendo la prima carta topografica della Sardegna, vi potè traguardare non solo i monti vicini ma anche Montecristo, e così collegarsi
alla rete trigonometrica della Penisola. Da quassù si dirama un
intricato disegno di valli, raggi
sinuosi che arrivano al frastagliato perimetro costiero immergendosi nel mare. Galleggianti
nel Tirreno (ma da quest’altezza
sembrano a mezz’aria) ci sono
poi scogli, isole e isolotti.
Ai turisti che di queste valli
percorrono le tortuose strade, il
paesaggio appare come un caleidoSOPRA: UN DETTAGLIO DEL GRANITO
DELLA GALLURA. A FRONTE: UN
scopio multicolore: l’azzurro e la
RICOVERO RICAVATO IN UN “TAFONE”.
trasparenza del mare, il rosa dei
PAGINE PRECEDENTI: CAPO D’ORSO
graniti, il verde cupo delle suE L’ARCIPELAGO DELLA MADDALENA.
ghere, scalfito dalle cortecce rossastre. Poche istantanee, ma sufficienti per dare l’idea di un territorio
specialmente determinato nei suoi aspetti ambientali e paesaggistici.
La geologia ci informa che tutta la Gallura appartiene alla vasta
piattaforma granitica paleozoica della Sardegna. Modeste lingue
alluvionali si estendono solo in prossimità del mare. Il granito la fa
da padrone, risultato della imponente opera di disgregazione dell’originario manto di scisti cristallini, emersi dal mare circa 350 milioni di anni fa. Una disgregazione nient’affatto traumatica, ma
quasi accarezzata dall’opera incessante degli agenti atmosferici.
Gli sbalzi termici fratturano la roccia, le acque la dilavano, il vento, recando con sé infiniti granelli di sabbia, lavora di smeriglio. La
forza della natura arriva a volte a forare le pareti di roccia: sono i
ben noti “tafoni”. L’azione combinata della pioggia e del vento, del
sole e del gelo, ha prodotto fantastici monoliti: orsi, elefanti, leoni,
foche, rettili, bestiario favoloso di un giardino pietrificato.
VITTORIO GIANNELLA
PAOLO RONDINI
di un gallo. Potrebbero derivare da qui il nome della Gallura
EGIDIO TRAINITO
‘‘
‘‘
GALLURA
dove
il granito dà spettacolo
La Gallura è disseminata di massi, quasi bombardata attraverso i millenni dalle meteore. Tanti, e di forme così strane, che quando vi si è perduti nel mezzo sembrano animarsi e muoversi, quasi si assistesse ad una immensa migrazione di popoli pietrificati.
(Guido Piovene, 1956)
Questo gioco di forme si riflette anche nel profilo morfologico generale. Il rilievo è tormentato, si direbbe montagnoso se non fosse che
nove decimi del territorio si trovano a meno di 500 metri sul livello
del mare. All’estremità settentrionale, la lunga dorsale sarda si sfalda
in una meravigliosa successione di penisole, anfratti, insenature, cale. Una
morfologia figlia dell’abbassamento del litorale e dell’innalzamento
del mare e che si completa con un corredo di scogli, isolotti o vere isole, di cui La Maddalena e Caprera sono le maggiori.
Se il vento ha effetto sulle pieQUANDO IL VENTO
tre, immaginiamoci sulla vegeSI FA SCULTORE
tazione. Il suo soffio e il sale che
trasporta stremano gli alberi. I
È l’erosione a plasmare i graniti
lentischi e gli olivastri soppordella Gallura: piccoli e grandi
tano la calura, ma non la spinta
blocchi arrotondati scavati
del vento (li si vede prostrati
e scolpiti dai tafoni (lu tavoni,
con la chioma sviluppata da un
in gallurese) disegnano gli
unico lato, come bandiere issascenari dell’interno e lungo le
te su aste deformi). Vicino alla
coste. I primi sono il risultato
1 l’acqua penetra nelle fessure
diffusione del granito in Sardegna
dell'erosione nel sottosuolo,
che agisce sulla naturale
fessurazione della roccia (1).
L’acqua circola nelle fratture e
dissolve e disgrega la roccia
formando depositi di detriti (2).
Quando i sedimenti vengono
asportati dal dilavamento,
rimangono solo i massi
arrotondati, accatastati gli uni
sugli altri (3) e spesso soggetti
a ulteriore erosione con un
processo di desquamazione, “a
pelle di cipolla”. I tafoni si
formano invece in ambiente
aereo (4): è l’azione combinata
del vento e dell’acqua salata
a scavare la dura roccia. Il
vento accelera l’evaporazione
e quindi il deposito di
cristalli di cloruro di sodio che,
aumentando di volume,
disgregano la roccia. Il processo
inizia con l’asportazione di un
primo cristallo: si crea così una
piccolissima nicchia che
progressivamente s’ingrandisce
verso l’alto, per desquamazione
della volta.
(Egidio Trainito)
2 la roccia più tenera si disgrega
3 emergono isolate forme compatte
4 l’erosione prosegue la sua opera
GIANMARIO MARRAS
IL CANDIDO FARO DI CAPO TESTA
SPICCA SUL CAOS DEI MASSI LAVORATI
DALL’EROSIONE. IN ALTO: “L’ORSO”,
LA PIÙ FAMOSA TRA LE “SCULTURE
NATURALI” DELLA COSTA GALLURESE.
STEFANO ARDITO
Lungo le coste della Gallura
si trovano due importanti
aree protette: il Parco
nazionale dell’Arcipelago
della Maddalena, istituito
nel 1996, e l’Area naturale
marina di Tavolara-Capo
Cavallo, istituita nel 1997.
Di notevole rilevanza
la recente realizzazione,
nell’entroterra gallurese, del
Parco regionale
del Monte Limbara, per una
superficie di 19.833
ettari. Vi sono state
individuate 22 aree di
grande interesse
naturalistico fra cui
sugherete, la stazione di
pino marittimo di
Carracanu, la stazione di
pioppo tremolo
di Monte Longheddu,
i boschi di leccio, la
macchia e la vegetazione
di Monte Acuto, la
vegetazione riparia del Rio
Mannu e del corso
superiore del Coghinas.
PAOLO RONDINI
COME È PROTETTA
BECCO DI GRU CORSO
(ERODIUM CORSICUM)
A FRONTE PAESAGGIO DELL’INTERNO
DELLA GALLURA, LUNGO IL CORSO DEL
FIUME LISCIA. IN ALTO: IL MONTE
LIMBARA; I SUOI 1.359 METRI SONO LA
MASSIMA QUOTA DI QUESTA REGIONE.
LUCERTOLA DI BEDRIAGA
(ARCHAEOLACERTA BEDRIAGAE)
inospitale, cresce una grande
varietà di piante: le più tipiche
sono un piccolo geranio, il
becco di gru corso (Erodium
corsicum), endemico dei
graniti di Corsica e Sardegna
nord-orientale, e la borragine
azzurra (Sedum caeruleum),
dai cui fusti carnosi e prostrati
di colore rosso sbocciano
in primavera delicati fiori
celesti.
(Egidio Trainito)
VITTORIO GIANNELLA
Guglie e massi della Gallura
costituiscono l’habitat di una
fauna e di una flora molto
specializzate. I tafoni
possono essere enormi, o avere
l’aspetto delle celle di un
alveare. E spesso sono proprio
loro a offrire i rifugi migliori
agli uccelli: dall’aquila reale
che nidifica sulle guglie
del Limbara al falco pellegrino
che costruisce il nido sia
sulle ripide pareti dell’interno
sia sulle isole. Forse l’ospite
più simpatico dei microtafoni è
il minuscolo scricciolo, che
sceglie sempre anfratti riparati
e strapiombanti. Ma l’animale
più caratteristico dei graniti
galluresi, dal mare alle
zone più elevate, è la lucertola
di Bedriaga (Archaeolacerta
bedriagae), endemica della
Corsica e della Sardegna
nord-orientale. Ha dimensioni
notevoli (arriva fino
a 30 cm di lunghezza), corpo
massiccio e punteggiato,
e origini antichissime (risale a
circa 30 milioni d’anni fa).
Sul granito nelle nicchie
di detrito, apparentemente
FRANCO TESTA (2)
EGIDIO TRAINITO
APPUNTI DI NATURA
costa, dov’è spesso impetuoso, la macchia non ha la forza di ergersi; solamente all’interno prende vigore e portanza, ma è nelle valli
più recondite che diventa vera foresta. Vi predominano, in successione altimetrica, prima la sughera e poi il leccio.
Ancora mezzo secolo fa questo paesaggio poteva considerarsi intatto. Tutto il tratto costiero occidentale della Gallura, da Castelsardo a Santa
Teresa, era privo di strade e di abitati. Il giornalista Benito Spano che
lo visitò nel 1960, per conto de Le Vie d’Italia, lo descrive come “un
lembo di deserto autentico, fra i più spettacolari d’Italia”, per l’imponenza e l’estensione della cornice di dune mobili, in grado di spingersi nell’entroterra a ricoprire di sabbia le più alte colline.
Dopo è venuta la stagione del turismo e delle grandi operazioni
immobiliari. Costa Smeralda, Arzachena, Porto Rotondo si possono
intendere come i più privilegiati luoghi di vacanza o come le più offensive contaminazioni di un ambiente naturale di eccezionale bellezza. Ciò che più disturba sono però le copie riduttive derivate da quei modelli. Buona
parte della costa gallurese è punteggiata di lottizzazioni, vagamente
mimetizzate nel paesaggio. Ma neppure la macchia, con la sua fitta
GALLURA
13
Costa Paradiso e il lontano Capo Testa), s’imbocca un sentiero
che scende a ripidi tornanti. Alla fine della discesa si procede
tra rigogliosi corbezzoli e annosi ginepri fenici sino alla foce
del Rio Pirastru (laghetto retrodunale) e alla spiaggetta sassosa di Cala Tinnari. Risalendo le
rocce al lato opposto dell’insenatura si ritrova il sentiero, che
s’insinua in una fittissima macchia di corbezzoli e lentischi e, dopo
qualche su e giù (vari
tracciati parallele aperti nel tempo da turisti
e pastori), sbuca su un
pianoro disseminato di
affioramenti di granito.
Raggiunte le prime propaggini di dune fossili,
si supera un muro a secco (casolare diroccato),
PAOLO RONDINI
Granito rosa, rigogliosa macchia e mare limpidissimo: non a
caso questo tratto del litorale
gallurese è chiamato Costa Paradiso. Punto di partenza dell’itinerario è il termine della sterrata che dalla strada Castelsardo-Santa Teresa Gallura porta
al Monte Tinnari (216 m). Lasciata l’auto presso un gruppo
di villette (vista splendida sulla
JOHANNA HUBER/SIMEPHOTO
invito alla visita
si costeggia un’insenatura, si
oltrepassa un cancello (richiuderlo!), si valica un ruscelletto
e si sale a uno spiazzo (vi arriva una carrareccia dall’interno) circondato da dune fossili
dove abbondano elicriso e Armeria pungens, che fiorisce a
maggio. Poche centinaia di metri conducono alla spiaggia di
li Cossi: un arco di sabbia dorata chiuso tra alte pareti di granito, con un ruscello che forma
un laghetto trasparente prima
d’incontrare il mare. Ritorno
per la stessa via. L’itinerario si
può percorrere in ogni stagione
e richiede circa 4 ore (a/r).
cortina, può cancellare la grottesca volgarità di certi villini neosardi,
arabeggianti o spagnoleschi, i bizzarri mininuraghi, le terrazze pinnacolari, gli archivolti di granito grezzo e i serramenti in alluminio.
Per ritrovare la vera Gallura bisogna lasciare il litorale e puntare verso
l’interno. Ancora oggi ha la minore densità di abitanti per chilometro
quadrato. Tutto ciò si spiega sulla base di precise ragioni storiche. La
prima colonizzazione, di Còrsi e Toscani, fu sporadica e arrivò dal mare; poi avvenne un progressivo ripiegamento nell’entroterra sotto la
minaccia delle scorrerie saracene; infine, a partire dal XVII secolo, si
ebbe il ripopolamento secondo un insediamento polverizzato e strutturato sugli stazzi contadini. Alcuni centri, come Tempio, si sono sviluppati solo ai bordi meridionali della regione con giurisdizione su
territori vastissimi che giungevano fino alla costa; altri, più marittimi,
come Olbia, hanno una storia illustre che inizia dai Romani (o forse
prima), ma si tratta di eccezioni rivolte al continente più che all’isola.
Per cui il “vuoto” umano della Gallura si può intendere come un prezioso
dono di natura da proteggere. Un ambiente e un paesaggio che hanno
commosso personaggi insospettabili, come Gabriele d’Annunzio. In
una lettera a un tasgiadore – termine che indica un cantante in un coro
di cinque elementi – egli scrisse: “Se tu e gli altri quattro veramente
mi amate, portatemi ad Aggius; e fatemi una capanna in un bosco di
roveri là sul Tumoneusoza ch’io veda il golfo e tutto il lido insino alla
Maddalena, e ch’io sia svegliato ogni alba dal Gallo di Gallura, che ieri mescolava le sue note al vostro coro antico quanto l’alba”.
PER SAPERNE DI PIÙ
Nei libri: M. Brigaglia, F. Fresi, Tempio e il suo volto, Sassari, 1995. D.
Panedda, Il Giudicato di Gallura, Sassari, 1978. Nei siti: www.legambientegallura.com (ottimo, con molte informazioni sulla natura e il
paesaggio); www.tempioweb.com (con dati sul Parco del Limbara).
I CONTATTI
Associazione escursionistica
Camminalimbara,
via Puchoz 22, 07029
Tempio Pausania
(SS), 079 670704;
Wwf, sezione di
Santa Teresa Gallura, via
Calabria, 07028
Santa Teresa Gallura (SS),
0789 755788.
IL TRAMONTO ACCENDE I GRANITI
CAPO TESTA. A FRONTE, IN ALTO:
LA SPIAGGETTA DI CALA LI COSSI
(COSTA PARADISO), PUNTO D’ARRIVO
DELL’ITINERARIO CHE PROPONIAMO.
MASTROLILLO/SIMEPHOTO
DI
SUGH ERA
un albero, una terra
SUGHERA
un albero, una terra
T E S T O D I A L B A N O M A R C A R I N I F O T O D I G I O R G I O M A R C O A L D I / PA N D A P H O T O
Bande di ladri assaltano le sugherete. Questa la singolare notizia che arriva dalla Barbagia e dal Mandrolisai. Invece di de-
✦
✦
predare il bestiame, ora i malfattori si dedicano a scortecciare
le querce. Segno inequivocabile che coltivare il sughero rende. Si dice, fino a 1 milione di lire al quintale. Molto di più che nel passato, quando
tale attività tradizionale, come altre in Sardegna, sembrava destinata
al declino o, al massimo, a sostenere piccole economie locali.
Oggi la Sardegna copre l’80 per cento della produzione nazionale,
pari a circa 120.000 quintali di sughero all’anno (erano la metà nel
1953). A livello mondiale è invece il Portogallo a farla da padrone con
circa 1.600.000 quintali all’anno. Le sugherete occupano nell’isola oltre 122 .000 ettari. Si estendo- A LATO: IL DISTACCO
DOVE SI TROVA
no non solo nei territori d’origine, come la Gallu- DELLA CORTECCIA,
ORMAI “MATURA”,
ra e il Nuorese, ma anche nella parte centro-me- DAL TRONCO.
La distribuzione della quercia
ridionale: la Stazione sperimentale del sughero IN BASSO, A SINISTRA:
da sughero in Sardegna
di Tempio Pausania, che dal secondo dopoguer- LEMBI ACCATASTATI,
non dipende soltanto da fattori
ra si preoccupa di difendere e valorizzare questo PRONTI PER IL
edafici, ma anche da ragioni
TRASPORTO. PAGINE
genere di coltivazione, ha individuato 16 aree di PRECEDENTI: SUGHERE
economiche che ne
nuovo impianto. Vi figurano il Sulcis, le Giare e NELLA VALLE DELLA
incentivano lo sviluppo
diverse altre zone dove inopportunamente, nel LUNA, IN GALLURA.
in determinate aree. Se le zone
passato, erano state introdotte piantagioni estrad’impianto tradizionale
nee all’ecosistema insulare. Nella Gallura sono circa 8.000 gli addetti
risultano essere la Gallura e
impiegati nel settore e si calcola che 100 ettari di sughereta possano
il Nuorese, oggi troviamo
dare lavoro per cinque anni a dieci persone. Cifre modeste, ma che
ampie sugherete pure nella
se moltiplicate su vasti territori danno un’idea delle ottime prospetBarbagia e nel Logudoro,
tive di quest’attività. Calangiànus, in Gallura, è riconosciuta come la
e in certe parti del
capitale del sughero sardo, con più di 130 aziende che esportano in
Sulcis e dell’Iglesiente.
ogni parte del mondo.
Quella del sughero è una lavorazione antica. La raccolta del prodotto
COME È
non si è mai meccanizzata e, forse,
Non esiste ancora un’area di
non lo sarà mai. Accade una volta oprotezione specificamente
gni dodici anni, su alberi che abbiariservata alla quercia da sughero.
no raggiunto almeno 15-18 anni di
La tutela della pianta si opera
con strumenti che ne sottolineano
vita. Fra maggio e giugno, il bucadosoprattutto la funzione economica:
re – lo scorticatore – incide il fusto
in particolare, la legge regionale 9 febbraio 1994,
con un’accetta e stacca la corteccia. Il
n. 4, che amplia i disposti di una precedente legge
gesto deve avvenire con perizia, il
regionale emanata nel 1989. L’obiettivo di tali normative
è di tutelare le piante da sughero e le sugherete
taglio dev’essere delicato in modo
quali componenti dell’ambiente, del paesaggio,
da non danneggiare il fellogeno (da
dell’economia e del patrimonio culturale della Sardegna
fellòs, il termine greco che designava
promuovendone lo sviluppo e la valorizzazione.
il sughero), ovvero lo strato esterno
✦
PROTETTA
18
SUGHERETE
del fusto che, conservando la capacità di
generare sempre nuove cellule, è responIL VIVAIO FORESTALE DELLA
sabile dell’accrescimento del tronco e darà
STAZIONE SPERIMENTALE
il sughero degli anni a venire. Inciso anDI TEMPIO PAUSANIA.
LA SUGHERA OGGI VIENE
che per linee verticali, l’albero si spoglia coDIFFUSA FUORI DEL SUO
sì della sua veste.
AREALE ORIGINARIO, SIA
La materia raccolta la prima volta è detPER COLTIVAZIONI DA
REDDITO SIA PER LA LOTTA
ta “sughero maschio” e l’operazione si
ALLA DESERTIFICAZIONE.
chiama “demaschiatura”. Quella estratta
le volte successive si chiamerà “femmina”. Le lunghe plance di sughero si accatastano al suolo, prima di essere condotte nelle officine di trasformazione. Lì, dopo una prima selezione e almeno sei mesi di essiccatura
al sole, il sughero viene posto in bollitura e quindi passato alla lavorazione. È così da anni, anzi da secoli: dai tempi dei Greci e dei Romani.
Le vaste sugherete che si estendono sull’altopiano di Tempio Pausania, di Aggius, di Buddusò, che circondano Bitti, Orune, Sorgono e
ammantano i rilievi del Sulcis sono dunque vere “industrie verdi” ad
alto capitale produttivo. Il sughero è un prodotto ecologico di qualità.
Oltre che per fare tappi di bottiglie (l’uso più noto), lo si impiega
ovunque per ottenere materiali isolanti, termici, acustici. Architetti e
designer ne apprezzano la leggerezza e la tattilità, quasi un respiro di
natura quando se ne sfiora con le mani la superficie.
Nello stesso tempo, però, la sughera è l’essenza stessa della Sardegna più
antica. Che cosa sarebbero i nuraghi, le “domus de janas”, gli stazzi
Il sughero viene estratto da lavoratori abili, in modo che si stacca a strisce larghe, alquanto
concave, che vengono bagnate per allargarsi e appianarsi, e infine legate a pacchi come lastre
di gomma rossastra, preziosa quanto il marmo. (…) Gli alberi padri di tanta chiassosa ricchezza rimangono fermi sulle loro profonde radici, scorticati e sanguinanti come martiri; ma
20
SUGHERETE
‘‘
SOPRA: SUGHERETA PRESSO
CALANGIÀNUS. A LATO:
a poco a poco l’aria balsamica li risana, la natura li riveste pietosa d’un primo velo poroso
come la garza che avvolge le piaghe; i ciclamini e i funghi calpestati si risollevano ai loro
piedi e la pernice d’oro svolazza fra i loro germogli. Un’altra èra deve passare prima che
vengano di nuovo martirizzati.
(Grazia Deledda, Novelle, 1912)
SUGHERETE
21
FRANCO TESTA (2)
FRANCO TESTA/COLL. NATTA
GHIANDAIA
dei pastori senza il corredo di un’onusta e protettiva quercia? “Que(GARRULUS GLANDARIUS)
sto paesaggio”, ha scritto il grande botanico Valerio Giacomini, “è a
un tempo fisico e biologico, perché si integra in modo sorprendente
con le strutture rupestri granitiche, che dominano specialmente nella
Gallura. Dal suolo, disseminato di blocchi levigati, emergono le chiome ostinatamente verdi, i tronchi grigi, nocchieruti, contorti di questo
albero frugale, selvatico e domestico, così intimamente connaturato
alla solenne austerità di queste terre”. Eppure, girando per la Gallura, la prima impressione è quasi di pietà. A vederle nelle campagne, fra i
blocchi levigati dei graniti, sui pascoli alle pendici dei monti, queste
querce sembrano gridare vendetta. Sono alberi nudi, decorticati fino
alla divisione del tronco. Un denso rossore riveste il corpo vivo della
pianta. Lo si potrebbe scambiare per sangue, o, meno drammaticamente, leggere come un pudico segno di timidezza. Ecco perché la
quercia da sughero appare come un albero simbolo della Sardegna,
rimarcando per certi versi il carattere schivo dei Sardi e la storia
spesso tragica della loro civiltà.
Il terreno derivato dalla disgregazione delle rocce granitiche, caratterizzato da un’elevata acidità, è il prediletto dalla sughera.
APPUNTI DI NATURA
Per questo vediamo alberi attecchire anche
là dove le condizioni essenziali per la vita
Poco esigente in fatto di suoli
vegetale sembrano quasi nulle. La sua resiLIMANTRIA DISPAR (eccezion fatta per il calcare), la
stenza all’aridità è molto superiore a quella
(IN BASSO: IL BRUCO) sughera può colonizzare terre
del leccio e perciò la sua diffusione può famarginali e suoli poveri
vorire la ricostituzione del paesaggio foredi origine silicea o vulcanica. Le sue ghiande sono
stale mediterraneo, non soltanto in Italia
ricercate da cinghiali, ghiandaie, topi quercini e
ma anche nei vicini Paesi del Maghreb, in
dal bestiame domestico. Le cavità degli esemplari
Grecia e in Spagna. La sughera ha dunque
più vetusti offrono rifugio a martora, donnola, topo
un valore aggiunto, propriamente forestale:
quercino, assiolo, ghiandaia marina, picchio rosso
proteggere i suoli dall’erosione, integrare
maggiore, cinciarella, cincia mora, cinciallegra,
gli ecosistemi naturali, conservare e ricotorcicollo, mentre i rami ospitano i nidi di tortora,
struire paesaggi degradati.
colombaccio, ghiandaia, cornacchia grigia, sparviero,
Può rappresentare allora un’arma efficace
poiana, astore. Ciclicamente, a primavera inoltrata,
le sughere vengono attaccate da milioni di larve
contro la desertificazione e la degradazione dedi lepidotteri, in particolare di Limantria dispar,
gli orizzonti vegetali. Ma è anch’essa minacvoracissimi bruchi pelosi e colorati capaci di
ciata. Da una parte gli incendi, piaga costandefoliare totalmente una foresta. Ma la capacità
te delle nostre foreste; dall’altra l’invasione
di reazione della sughera è straordinaria: superata
di piccoli insetti fitofagi, come Limantria dila fase più virulenta, ricomincia a germogliare e a
spar, Malacosoma neustria, Tortrix viridiana,
produrre nuove foglie: in 30-40 giorni è come prima.
che stanno portando alla defoliazione dei
Il danno subìto lo si può quantificare misurando
boschi. La riduzione della biomassa fotosinl’anello di crescita della corteccia: quello relativo
tetica compromette la produzione di sughero, e pure quella di ghiande che sono la baall’anno dell’invasione
se per l’alimentazione del bestiame brado.
ha uno spessore ridotto
Un’insidia conosciuta ma contro la quale si è
anche del 20 per
lottato con il solito sistema degli antiparassicento. (Nanni Marras)
invito alla visita
PAOLO RONDINI
Isolate, a formare macchie o estesi boschi, le sughere sono
una presenza diffusa. Le indicazioni che seguono sono dunque
solo alcune fra le tante possibili
per incontrare questo paesaggio così affascinante.
1. MONTI. Un’ampia sughereta, in parte tenuta a pascolo,
che si estende lungo la statale
199 Sassari-Olbia presso il paese
di Monti e risale verso un altopiano a leccio e a macchia mediterranea. Nella valle del Rio
Petra Iscotta, la sughereta conserva un sottobosco spontaneo
con varie essenze erbacee, giovani querce e arbusti.
NELLA PAGINA A FRONTE:
UN’ANZIANA DONNA DI LURAS
(SASSARI) SI DISSETA BEVENDO
DA UN MESTOLO RICAVATO DALLA
CORTECCIA DELLA SUGHERA.
22
SUGHERETE
2. MONTE LA ELTICA E SAN
SALVATORE DI NULVARA. A
sud della statale 127, nel tratto
fra Calangiànus e Telti. Fra le
più belle e folte sugherete del
gruppo del Monte Limbara, impreziosite anche dalle forme contorte e bizzarre del granito.
3. ALÀ DEI SARDI. La sughera
domina il paesaggio che circonda il paese di Alà, lungo la statale 389, da Buddusò in direzione di Olbia. La foresta più bella
si trova a est dell’abitato: una
successione di modesti rilievi,
solcati dai rami sorgentizi del
Rio Bolloro. La monotonia della sughereta è rotta qua e là da
piccole radure erbose. A volte la
chioma delle querce è così continua da impedire la crescita del
sottobosco; in altri punti, invece, eriche e corbezzoli coprono
il terreno periodicamente visitato dai cinghiali.
4. L’ALTOPIANO DI BUDDUSÒ.
Seguendo la statale 389 da Buddusò a Bitti, ci si addentra nel
vasto altopiano dove sono le sorgenti del Tirso, il maggiore fiume della Sardegna. Fra isolati
ammassi granitici si distendono ampie sugherete. Molto belle
quelle poste nelle vicinanze del
piccolo lago Sos Canales.
5. SA SILVA MANNA. Lungo la
valle del Temo. Vi si accede dal
cimitero di Montresta, circa 15
chilometri a nord di Bosa. Rivela l’alto grado di adattamento
della sughera. A differenza che
in Gallura, l’ambiente è più umido e il substrato trachitico.
Nonostante ciò, vi allignano superbi esemplari secolari che si
spingono fino al letto del fiume.
6. TRA SORGONO E ORTUERI.
Alle falde occidentali del Gennargentu. Una sequenza di valli e colli granitici, fra i 300 e i
1.000 metri, coperti di fitte sugherete rotte da pascoli, campi
di cereali e vigne che danno i
robusti vini del Mandrolisai.
tari, apportatori di danni più che
di benefici. L’Università di Sassari invece sta ora approntando sofisticati modelli matematici per la
protezione delle sugherete, mentre finalmente s’inizia a procedere
con nuove forme di lotta microbiologica. Una presa di coscienza importante, sostenuta anche dalla Regione Sardegna che, fin dal 1989,
ha promulgato leggi specifiche per la protezione della quercia da
sughero: l’albero dallo spirito tenace e dall’anima dolce.
PER SAPERNE DI PIÙ
www.regione.sardegna.it/ital/sperimentale_sughero/index.html
www.federlegno.it/associazioni/assolegno/gruppi/sughero
I CONTATTI
Gruppo azione locale BarbagiaMandrolisai, 0784 60390.
Stazione sperimentale del
sughero, via Limbara 9, Tempio
Pausania, 079 72200,
e-mail: sperimentale-sughero
@regione.sardegna.it
DOMENICO RUIU
GESTURI
la giara dei cavallini
GESTURI
la giara dei cavallini
DI ANTONIO LOPEZ
EGIDIO TRAINITO
Gèsturi. Il vento caldo dell’estate muove appena l’intricata
macchia di mirti, lentischi e cisti marini di questa piccola savana alberata, sospesa nel cielo, che è la giara. Il tramonto ci
DOVE SI TROVA
Le giare, i caratteristici
altipiani basaltici della
Sardegna, sono situati nella
parte centro-meridionale
della regione (Marmilla,
Trexenta, Sarcidano
e Arborea). Tra queste, la più
nota è la Giara di Gèsturi
(i sardi la chiamano sa Jara),
che dista una settantina
di chilometri da Cagliari. Si
raggiunge seguendo
la statale 131 per Oristano e
deviando, prima di Sanluri,
per Gèsturi-Barùmini.
RAGANELLA COMUNE
(HYLA ARBOREA)
A DESTRA: IN PRIMAVERA I
PAÙLI SI COPRONO DI ANEMONI
E RANUNCOLI. A FRONTE
IN ALTO: PECORE AL PASCOLO
NELLA SUGHERETA. NELLE
PAGINE PRECEDENTI: STALLONE
DELLA RAZZA DI GÈSTURI
SORPRESO TRA LE BIANCHE
FIORITURE DEGLI ASFODELI.
26
GIARA DI GESTURI
MAGNANINA SARDA
(SYLVIA SARDA)
FRANCO TESTA (2)
partengono a privati dei comuni di Genoni, Tuili e Setzu, 180 all’Istituto per l’incremento ippico di Ozieri e il restante alla locale comunità montana. Pascolano liberamente, e sono ghiotti dei ranuncoli
d’acqua che crescono abbondanti in primavera nei paùli, una sessantina di stagni che si formano sulla giara con le piogge invernali. Ma
in estate la gran parte di essi si asciuga e ai cavallini non rimangono
così che le sorgenti per abbeverarsi”.
Quella dei cavallini della giara è una storia tormentata. Prima
degli anni Trenta si utilizzavano
APPUNTI DI NATURA
come animali da lavoro per trebbiare il grano della Marmilla: uUn unico, continuo bosco di
na volta l’anno erano raccolti in
sughere, rigorosamente
branchi e portati giù per le scacurve a bandiera in ossequio
las, i ripidi canaloni che rappreall’imperversante maestrale,
sentano i soli accessi all’altopiacopre l’altopiano di Gèsturi. Rare
roverelle si accompagnano a
corbezzoli, mirti e lentischi. In
primavera è il tripudio del bianco,
con la fioritura simultanea degli
asfodeli, del biancospino, del cisto
marino, del giglio pancrazio
e l’invasione dei ranuncoli che
ricoprono i paùli, avvallamenti
allagati dall’acqua piovana.
L’ALTERNANZA CON LA SICCITÀ
ha fatto di questi stagni
temporanei un ecosistema del
tutto particolare, ricco di
DOMENICO RUIU
✦
sorprende nel bosco di sughere di Paùli Maiori di Tuili, mentre le
luci radenti dell’ultimo sole incendiano di rosso i tronchi scorticati e
si riflettono nel rigagnolo della vicina sorgente. È una Sardegna dalla
bellezza selvaggia quella che si profila davanti ai nostri occhi; sembra
che non abbia orizzonte e il cielo ti avvolge al di là delle chiome di
lecci, roverelle e sughere. Una sensazione primordiale, sottolineata
da un possente nitrito in lontananza.
“Stanno per arrivare”, mi sussurra Roberto Sanna, 25 anni, guida
e responsabile del centro Jara di Villasanta, che organizza visite guidate in questo miniparadiso naturale. Sono i cavallini della Giara,
forse gli ultimi cavalli selvaggi d’Europa. Eccoli in fila indiana, l’uno
dietro l’altro. Saranno una ventina, con il manto baio o morello, bassi
di statura, e vengono alla sorgente per dissetarsi. “Sono quasi dei
pony e in media non superano 1 metro e 30 di altezza al garrese”,
spiega Sanna, “hanno grandi occhi a mandorla e una fluente criniera. Nell’intera giara ne vivranno 700, dei quali poco più di 300 ap-
specie singolari. Vi prosperano
insaziabili sanguisughe, i ditischi,
grandi e voraci coleotteri
acquatici, raganelle e natrici. C’è
anche l’unicum: un piccolo
crostaceo lungo pochi centimetri e
dipinto delicatamente di verde,
Lepidurus apus lubbocki,
vecchio di 200 milioni di anni,
che si è adattato alla perfezione
ai cambiamenti stagionali.
QUANTO ALLA FAUNA maggiore,
le presenze più significative sono
il cinghiale, la volpe, la martora,
il coniglio selvatico, la lepre e
la pernice sarda, lo sparviero che
caccia i fringillidi del bosco,
il falco pellegrino, e un’infinità
di migratori sia di terra (tordi
vari, merli, colombacci, beccacce),
sia legati alle zone umide (aironi,
anatre, beccaccini, falco di
palude). Tra gli uccelli nidificanti,
si possono ricordare il frosone,
la tordela, la tottavilla, e le
specie di macchia, come l’averla
capirossa, lo zigolo nero e la
magnanina.
(Domenico Ruiu)
GIARA DI GESTURI
27
La sola salvaguardia
operante
sull’altopiano della
Giara di Gèsturi
è quella del divieto
di caccia, perché
l’area viene
considerata dalla
legge regionale
sull’attività venatoria
un’Oasi permanente
di protezione
faunistica: il divieto
non vale però sui
versanti. Resta invece
ancora sulla carta la
proposta d’istituire il
Parco regionale della
Giara di Gèsturi,
come previsto dalla
legge regionale
sui parchi: la n. 31
del 7 giugno 1989.
28
GIARA DI GESTURI
ancora in salita porta all’altopiano. Si costeggia il Paùli Oromeo e, a circa 3 chilometri dal
parcheggio, a un bivio si svolta
a destra in direzione Paùli Bartili-Zeppara Manna. Superato
un bosco di sughere (frecce verdi), si toccano Paùli ’e Fenu, tra
i più grandi della giara, e quelli
di Bartili e Arriscionis, fino ad
DOMENICO RUIU
COME
È PROTETTA
no, sino ai paesi; a fine raccolto, gli esemplari sopravvissuti venivano
liberati di nuovo sulla giara. Oggi corrono altri pericoli: l’ulteriore inquinamento della razza, definita Equus caballus giarae, causato da incroci con cavalli di taglia superiore; la macellazione; la caccia di frodo.
Fortunatamente, ci sono pure progetti di salvaguardia: a Capo Caccia,
dal 1976, l’Azienda regionale per le foreste, in 12 chilometri quadrati
di natura incontaminata e protetta, ne tiene sotto osservazione una
mandria del tutto rinselvatichita. E da sette anni, sulla giara, l’Istituto
d’incremento ippico opera per
difendere la purezza di questa razza rustica, utile in prospettiva
per sistemi di allevamento brado in terre a clima arido abbandonate dall’agricoltura.
A vederla da lontano, la Giara di Gèsturi colpisce per la curiosa forma di gigantesca piramide tronca, che ricorda i paesaggi africani delle ambe o quelli spagnoli delle mesas. Si tratta di un
vasto altopiano, lungo 12 chilometri e largo 4, con una superficie di 45 chilometri quadrati,
che si eleva sulla pianura circostante mediamente di 550 metri. “Non è l’unica giara della
Sardegna centro-meridionale: vi
si trovano anche le più piccole
Giara di Serri e Giara di Simala o di Siddi”, rivela Luca Pinna, delegato regionale del Wwf.
L’itinerario consente di scoprire
la Giara di Gèsturi nel suo insieme. Si sviluppa ad anello e
tocca i principali paùli (gli stagni creati dalle piogge), i boschi
di leccio, roverella e sughera
e gli ambienti mediterranei a
macchia, gariga e prateria dell’altopiano. Ha uno sviluppo di
una trentina di chilometri (per
effettuarlo a piedi ci vogliono
circa 10 ore, soste incluse), la
metà in mountain bike. Cartografia: tavolette Igm, 1:25.000,
218 III SO Barùmini e NO Genoni; 217 II NE Gonnosnò e
SE Ussaramanna. Equipaggiamento: buona riserva d’acqua e scarpe da trekking.
Dal paese di Gèsturi si sale
per la strada che va alla giara e
dopo 4 chilometri si lascia l’auto al parcheggio di Scala Corte
Brocci. S’imbocca la sterrata di
fronte che, tra mirto e lentisco,
arrivare alla sorgente s’Ala de
Mangianu. Fatta una sosta, si
riprende il cammino per raggiungere le pendici di Zeppara
Manna e un gruppo di stagni
chiamati Paùli Maiori. Poi si
torna indietro, lungo il limite
meridionale dell’altopiano, fino
a Paùli Piccia, un altro Paùli
Maiori e la vicina sorgente, dove al tramonto i cavallini si dissetano; e da qui, fino al bivio di
partenza e il parcheggio.
PAOLO RONDINI
EGIDIO TRAINITO
invito alla visita
testimonianze archeologiche
A SINISTRA: LA VEDUTA
PANORAMICA DELLA GIARA DI
GÈSTURI METTE IN EVIDENZA
LA CARATTERISTICA STRUTTURA
DI QUESTO ALTOPIANO DI
ORIGINE VULCANICA. A FRONTE
IN ALTO: UNA CAPANNA
DI PASTORI IN PIETRA, CON UN
CURIOSO ALTARINO SUL RETRO.
GIARA DI GESTURI
29
QUI A LATO: L’ALTURA DI
LAS PLASSAS, PRESSO
BARÙMINI, AI PIEDI DELLA GIARA
DI GÈSTURI. IL COCUZZOLO
BASALTICO SORMONTATO
DAI RUDERI DI UN CASTELLO
SVETTA DIETRO IL GIALLO
TAPPETO DI CHRYSANTHEMUM
CORONARIUM, IN PRIMO PIANO.
“Sono il segno di passate eruzioni
laviche, in cui il magma traboccò
in diversi centri eruttivi dando
origine a grandi campi di lava,
con scarsa pendenza, che consolidarono sui sedimenti sottostanti. Poi l’azione millenaria
dell’acqua e degli agenti atmosferici erose il suolo dove questo non era protetto dalla copertura lavica solidificata, lasciando tale strato basaltico a un’altezza superiore al suolo confinante, che si è abbassato per
l’erosione”. In altre parole, l’altezza della giara corrisponde
al livello del suolo di circa 3
Vi è un luogo in Sardegna – imprevisto e imprevedibile come il cratere
milioni di anni fa. E sul vasto
di Ngorongoro – dove gli dèi hanno nascosto un campionario di natutavoliere di Gèsturi si riconora mediterranea con l’apparente intenzione di sottrarla agli uomini: si
scono ancora i conetti vulcanici
chiama Giara di Gèsturi e perfino chi già la conosce prova sempre, indi Monte Zepparedda (609 mevariato, quel senso di meraviglia che segue a ogni apparizione imtri) e Zéppara Manna (580 meprovvisa, anche se ripetuta, anche se attesa. (Egidio Gavazzi, 1981)
tri), vette di oggi e madri di ieri.
Preservata dal proprio isolamento e dal lavoro di generazioni di pastori e mandriani, adesso la
giara stupisce per la forza naturale. Boschi di querce, macchia mediterranea fittissima, gariga, praterie e stagni ne fanno il rifugio di una
IL
fauna ricca e varia (vedere il riquadro a pagina 27). E visitandola in quel
Per escursioni,
meandro di sterrate che la percorrono, si possono pure apprezzare i
visite guidate ed
resti di 24 nuraghi, lungo il suo perimetro, e antiche capanne in pietra
educazione
di pastori. Ma nonostante questo patrimonio, manca di un’efficace proteambientale: Centro
servizi Jara, statale
zione ambientale. “Non è ancora stato istituito il Parco regionale della
n. 13 km 40,250
Giara di Gèsturi”, accusa Pinna; “sono trascorsi più di dieci anni dalbivio Villasanta,
la proposta che prevedeva l’estensione su 12.102 ettari dell’altopiano
Serrenti (Cagliari),
e il coinvolgimento di 14 Comuni. Oggi valgono solo i vincoli idro 070 9373022;
Internet: www.jara.it
geologico e paesaggistico del 1992, e da qualche anno il divieto di
Wwf Sardegna,
caccia. È troppo poco per tutelare un’area così preziosa di natura e di
Cagliari,
storia dell’uomo”. E dove si può essere ancora sorpresi dal nitrito
070 670308.
dei cavalli selvatici. L’ultimo branco d’Europa.
CONTATTO
30
GIARA DI GESTURI
NEVIO DOZ
‘‘
‘‘
BARBA GIA
dove il pastore è re
BARBAGIA
dove il pastore è re
DI ANTONELLA COLICCHIA
“Occhi nuovi ci vogliono, per capire la Barbagia. Nuove ricerche che sgombrino il campo da stereotipi e pregiudizi”. È
tagliente Benedetto Meloni, barbaricino di Austis e sociologo
COME
È PROTETTA
Il Gennargentu è il tetto della
Sardegna. Qui in breve spazio si
concentrano le uniche cinque
cime che superano i 1.800 metri
(la più alta, 1.834 m, è Punta
La Marmora). Il profilo arrotondato
della montagna si deve all’erosione
omogenea che ha modellato gli
scisti paleozoici che ne costituiscono
l’ossatura. Solo alcuni nuclei
di granito e spettacolari filoni di
porfidi (formidabile quello
di Su Susciu) interrompono la
continuità del paesaggio.
A MANO A MANO CHE SI SALE dal
fondovalle, le residuali formazioni
di lecceta cedono il passo al bosco
rado di roverelle sino all’area
sommitale, dove resistono
all’imperversare del vento
gli arbusti prostrati
(ginepro nano, pruno
prostrato, ginestra
corsica) che fanno
da felice corollario a
una serie di preziosi
endemismi (santolina
insulare, ribes sardo, aquilegia),
e pure a un cardo esclusivo
(Lamyropsis microcephala)
di cui si conoscono solo minuscole
colonie. All’arrivo dell’estate,
il Gennargentu si avvolge dei
colori delle fioriture (la delicata
viola corsa, l’endemica
Armeria morisii, le sassifraghe,
i vistosi tappeti di genziane)
e della fragranza penetrante dei
fiori violacei del timo.
QUI VIVONO diverse coppie di
aquila reale, che beneficiano
dell’abbondanza di mufloni, lepri,
piccoli mammiferi e serpenti.
La pernice è presente anche alle
quote più alte, dove nidificano
MUFLONE
(OVIS MUSIMON)
il culbianco e, probabilmente, la
monachella. Nei corsi d’acqua,
ricoperti di gallerie di ontano nero,
sopravvivono preziose popolazioni
di trota sarda assieme all’euprotto
(Euproctus platycephalus),
la singolare salamandra locale.
A NORD E A OVEST del massiccio,
il granito prende il posto dello
scisto. È un susseguirsi di monti
accavallati, che un’erosione
eccentrica ha scolpito in forme
bizzarre, rivestite di boschi
di querce. Il paesaggio rupestre
suscita un’avvertibile sensazione
d’isolamento. È la Barbagia,
cuore segreto della Sardegna,
terra antica di pastori,
di cinghiali, di rapaci, di
presenze elusive,
di vecchie tradizioni
tenacemente conservate.
(Domenico Ruiu)
FRANCO TESTA
EGIDIO TRAINITO
A LATO: PANORAMA DAL “TACCO”
CHIAMATO SA CATTEDRALI, NEI DINTORNI
DI LÀCONI. A FRONTE: IL MONTE
ORTOBENE, SOPRA NUORO, AVVOLTO
DALLE NUBI. NELLE PAGINE PRECEDENTI:
MUNGITURA A BRUNCU SPINA.
APPUNTI DI NATURA
La Barbagia rientra
in parte nei confini del
Parco nazionale del
Gennargentu, istituito
nel 1998 ma di fatto
ancora inesistente.
I tacchi di Perda Liana e
Texile sono protetti
come Monumenti
naturali regionali; il
Corpo Forestale
gestisce
la foresta demaniale
di Montarbu.
DOMENICO RUIU
ambientale all’Università di Cagliari. La sua chiave di lettura del paesaggio è racchiusa in un corposo saggio, Famiglie di pastori (Rosenberg & Sellier, 280 pagine, lire 45.000). Si racconta di Siniele, un paese
posto sulle pendici occidentali del Gennargentu, dove la Sardegna è
pietra, sughere e pecore. Il nome, come quello dei personaggi intervistati, è immaginario, “perché i fatti narrati sono tratti da documenti
personali e rischierebbero di ledere l’onore di persone viventi. Onore
che, da queste parti, è sacro”. Storie e cifre riportate nel libro di Meloni però sono tutte rigorosamente
DOVE SI TROVA
vere, frutto d’interviste e di anni
di ricerche negli archivi comuLa Barbagia, complesso di regioni nella parte centro-occidentale
nali. Capire Siniele significa perdell’isola, si estende lungo il massiccio del Gennargentu. È delimitata
ciò capire Isili, Austis, Orgosolo,
a est da Gennargentu e Ogliastra, a nord dal Supramonte
Aritzo, Belvì. “Leggerne” il terrie dalla Gallura, a sud dal Campidano, a ovest dalla valle del Tirso.
torio aspro e roccioso, modellato
dai venti, fatto di pascoli rudi,
monotoni, inospitali. Dove l’unica traccia della presenza umana
sono gli ovili di pietra e di ginepro,
e i paesi restano ancora isolati e
refrattari ad aprirsi a culture diverse dalla tradizione.
“Il paesaggio risulta segnato
dall’organizzazione pastorale estensiva”, spiega il sociologo.
“Un modello ecologico-economico
raro, che non prevede più l’originaria alternanza fra pascoli e colture di cereali”. L’agricoltura
estensiva infatti è scomparsa negli anni Sessanta, in coincidenza
con le grandi ondate migratorie
che hanno letteralmente spopo-
✦
BARBAGIA
35
la strada di sinistra, che in circa 6 chilometri giunge a s’Arcu ’e su Pirastu Trottu. Da qui, risalite a
destra sul crinale fino al sentiero anulare intorno a
Perda ’e Liana. Si può tornare a San Girolamo sui
propri passi, o scendere lungo un itinerario un
po’ più complesso (tratteggiato sulla carta) che
incrocia Rio sa Onna, costeggia Rio Sammuccu e
torna al bivio iniziale aggirando Serra s’Ilixi.
DOMENICO RUIU
La visita ideale attraverso le terre di Barbagia e
l’incanto della foresta di Montarbu comincia a
bordo del Trenino Verde, pittoresco convoglio locale: si sale a Orroli e, dopo uno straordinario itinerario fra le terre dei pastori, che comprende anche il transito sul ponticello da capogiro che si affaccia sulla contorta valle del lago Flumendosa, si
scende alla fermata San Girolamo. Per informazioni: Ferrovie di Sardegna, settore turistico, e
fax 070 580246; prenotazioni: Direzione esercizio, Cagliari, 070 580075, fax 070 581765.
Da San Girolamo si va a piedi: la meta è Perda ’e Liana, imponente torrione calcareo che domina la foresta. Scesi dal treno, procedete lungo
la ferrovia in direzione del tunnel da cui si è appena usciti. Sulla destra, prendete la mulattiera
che sale ripida per circa 250 metri, fino a incrociare la carreggiabile forestale da imboccare ancora verso destra. Dopo 600 metri si arriva alla
casermetta forestale di Montarbu; continuate sulla strada per s’Arcu e su Pirastu Trottu. Dopo 2
chilometri e mezzo c’è un primo bivio, con strada
che s’immette da destra; andate oltre. Percorsi altri 200 metri, trovate un secondo bivio. Scegliete
PAOLO RONDINI
invito alla visita
lato i paesi della Sardegna centrale.
Coltivazioni a parte, l’ambiente è
rimasto immutato. Tra aprile e giugno, i pascoli sono in piena fase vegetativa e tale periodo coincide con
I TACCHI CALCAREI?
la maggiore produttività delle greggi, quando le pecore hanno appena
I tacchi sono costituiti da una
figliato e vengono munte ogni giorserie di altipiani calcarei incisi e
no. In autunno invece, il ritardo
separati da profonde vallate,
delle piogge può arrivare a mettere
alti qualche centinaio di metri,
in crisi l’economia: pascoli gialli e
che poggiano su un substrato di
aridi, pecore sottoalimentate, morìa
scisti grigi e porfidi rossastri.
di agnelli. “A differenza che sulle
Per spiegarne l’origine occorre
Alpi, non vi sono malghe, stalle, né sifare un viaggio indietro nel
tempo. Con tre fondamentali
stemi d’irrigazione”, fa notare Meloni.
tappe, l’ultima delle quali
“I pastori delle montagne e delle alcoincide con la chiusura della
te colline della Barbagia compiono
Tetide (l’oceano che divideva la
una transumanza a senso unico”.
zolla eurasiatica da quella
Scendono lungo la media e bassa
valle del Tirso fino ai pascoli non coltivati del
Campidano settentrionale o fino ai monti di
Pula e Teulada, dove abbonda la macchia. Pagano un canone ai commercianti caseari che
spesso sono proprietari
o affittuari terrieri.
“L’aspetto più esclusivo di queste terre, retaggio dell’alternarsi tra pascolo e agricoltura, è però l’uso del Cumonale”, sottolinea Meloni. “Significa ‘terra di tutti’. Da sempre è utilizzata, a rotazione, dalle famiglie di pastori che vi spostavano le greggi in
cerca di foraggio. È terra per la quale ogni Comune fissa ancora una
percentuale da adibire a seminerio (coltivazioni di cereali), a ghiandatico, legnatico o pascolo, e stabilisce quali famiglie possano accedere
alla raccolta (di grano, ghiande, legname) e quale canone debbano
pagare. È soprattutto per l’uso di queste terre, inserite in un complesso e parcellizzato sistema di proprietà agraria unico della Barbagia,
che si sono perpetuate antiche faide, vere e proprie guerre di paese,
fenomeni di abigeato e incendi e, non ultima, la strenua opposizione
alla creazione di un parco. Il suo funzionamento (vedere a pagina 94)
prevedrebbe infatti chiarezza e trasparenza sull’utilizzo del suolo.
Pratiche (o divieti) di semina e di pascolo, opere di manutenzione degli ovili, che fermino l’erosione e l’incuria. Oggi una cinquantina di
gruppi pastorali piuttosto forti occupano queste terre quasi a loro piacimento e le amministrazioni non riescono a contrastarli”.
DANIELE PELLEGRINI (2)
A LATO: IL “TACCO” DI TEXILE. IN BASSO:
GINEPRI SECOLARI PRESSO ARCU CORREBOI.
NELLA PAGINA A FRONTE: LA PARETE
CALCAREA DI PILINCANIS NEL GENNARGENTU.
SONO NATI NEL MARE
africana), la formazione del
Mediterraneo e delle sue isole.
240 MILIONI DI ANNI FA. Alla
fine dell’era Paleozoica, quella
porzione della crosta terrestre
che successivamente
sarebbe diventata la Sardegna
conobbe un periodo di
tranquillità dal punto di vista
tettonico. Per circa 70 milioni di
anni, fino al Giurassico, gli
agenti atmosferici erosero le
rocce metamorfiche e cristalline
di cui era fatta, creando
un vasto altopiano ondulato.
170 MILIONI DI ANNI FA
(Giurassico). Movimenti
verticali della crosta terrestre
inabissarono la regione, che
fu ricoperta da un mare poco
profondo (epicontinentale,
per i geologi). In queste acque
calde e vitali sedimentarono
le rocce calcaree, piene
di fossili di molluschi, che
costituiranno in seguito i tacchi.
130 MILIONI DI ANNI FA (fine
del Giurassico). La regione
riemerge definitivamente. Sul
vasto altopiano calcareo si
forma una rete idrografica che
dà origine a profonde valli e
rilievi calcarei isolati: appunto i
tacchi. Negli ultimi 7 milioni di
anni (Plio-pleistocene) l’erosione
fluviale e carsica causa
una drastica riduzione dei
calcari e il riaffioramento
delle rocce paleozoiche (570240 milioni di anni fa). Un
processo che continua sotto i
nostri occhi. (Valerio Agnesi)
BARBAGIA
37
DANIELE PELLEGRINI
ISTITUITO CON DECRETO MINISTERIALE
NEL 1998 MA DURAMENTE OSTEGGIATO
DALLA POPOLAZIONE LOCALE.
‘‘
‘‘
DONNE DI DÈSULO NEL TIPICO COSTUME
BARBARICINO. IL PAESE SI TROVA NEL
PARCO NAZIONALE DEL GENNARGENTU,
La donna, nei periodi di assenza del pastore, prende tutti i pesi sulle spalle. Un po’
diventa il capo, un maschio
a metà, va all’orto, innaffia,
raccoglie le olive. Una sola
divenne bandito, a Orgosolo,
si chiamava Paska Devaddis.
(Giuseppe Fiori, 1968)
IL CONTATTO
Wwf, Nuoro, 0784
288016-202953.
Ad Aritzo: Proloco,
0784 629808;
Museo etnografico,
0784 629223.
A Dèsulo: Proloco,
0784 619887.
Su Internet: www.
parcogennargentu.it:
link sui singoli comuni,
ambienti, itinerari.
38
BARBAGIA
Capito ciò, si può fare un passo ulteriore. Scoprire che le terre
dei pastori non sono tutte uguali. Antropologi e geografi parlano in effetti, al plurale, di Barbagie. “Questo intarsio di orizzonti
piatti, profondamente sconnesso e inciso, è composto da diversi
cantoni, per molto tempo isolati l’uno dall’altro”, scrive Michel Le
Lannou (1941). “È un sistema che
va dal massiccio del Gennargentu, dai Supramonti interno e costiero, dalla Gallura meridionale fino al solco del Tirso”, spiega il geomorfologo Valerio Agnesi. “Semplificando, vi sono comprese: la Barbagia di Bitti, segnata dal bastione calcareo del Monte Albo; quelle di Orotelli, di Ollolai e di Belvì. Quest’ultima risulta caratterizzata dal sistema dei tacchi calcarei (vedere il riquadro nella
pagina precedente) intervallati dalle valli scistose del più ricco bacino
idrografico sardo: al centro c’è il rilievo di Perda ’e Liana, dal quale
partono i tre corridoi dell’alto Flumendosa e dei rii Flumineddu e
Pardu. Tra queste valli si estende, infine, la Barbagia Seulo”.
Diverse Barbagie, stesso habitat e stesse architetture. Qui il lavoro contadino (campi di pochi ettari coltivati a grano, orzo, fagioli, fave, patate,
qualche vigna, un po’ di ulivi e, sui pendii più elevati, mandorli) non
ha lasciato tracce, a parte alcune capanne, rifugio provvisorio quando
piove. Fanno eccezione, nella Barbagia centro-meridionale, Dèsulo e
Fonni, dove il territorio consente la presenza di cereali, castagni, peri
e ciliegi fino a 1.200-1.300 metri; gli orti arrivano a 1.600 e i coltivi recintati (detti “terre chiuse”) s’incastrano nei terreni da pascolo secondo una geometria della sussistenza in cui non si spreca neppure un
palmo di terra. In prossimità dei villaggi, si trovano siepi e muri a
secco. Gli animali vivono rigorosamente fuori dell’abitato. I cuìles
(ovili) stanno in montagna e svolgono la doppia funzione di riparo
per gli animali e per l’uomo. La zona per le pecore è a cielo aperto,
contraddistinta da sa corte (dove vengono chiuse per la mungitura).
Nei dintorni s’incontra spesso una chiesetta campestre. Nei paesi le
case sono addossate l’una all’altra, sovrastate dal campanile o dalla
sagoma di qualche palazzetto baronale. Colpisce la densità degli abitati, in confronto ai vasti spazi spopolati dove si pratica la pastorizia.
E colpisce anche l’antica (bio)edilizia: le case in granito (di Olzai, Gavoi,
Fonni), con travi e porte in castagno o ginepro, mattoni in terra cruda,
battenti in ferro. Di estrema modernità, buon auspicio per il futuro.
NURA GHI le radici
NURAGHI le radici
T E S T O D I S T E FA N O A R D I T O F O T O D I A N G E L O M E R E U
Senza i nuraghi, la Sardegna sarebbe un’altra cosa. Da un capo
all’altro dell’isola, le fortezze di pietra sorvegliano le vie di conessuno
o tracce
municazione e i pascoli, occhieggiano sulle città e i paesi,
≥ 0,1/km2
sembrano ricordare ai frettolosi uomini e donne d’oggi la lunghezza e
la complessità della loro storia.
Alcuni di essi – i più noti – sorgono vicino alle strade, ma non hanno perso per questo in suggestione. Il nuraghe Santu Antine si alza
accanto alla Carlo Felice (la strada più trafficata, che unisce Sassari a
Cagliari) in territorio di Torralba. Il Palmavera, il più bello del nordovest, lo sfiorano i turisti diretti a Capo Caccia. Il Losa, imponente e famoso, è sullo svincolo tra la
Carlo Felice e la superstrada
per Olbia.
SU NURAXI, IL GIGANTE
Altri celebri siti – Su Nuraxi a Barùmini, il nuraghe
Scavato tra 1949 e 1955, il nuraghe
Genna Maria di VillanovaSu Nuraxi di Barùmini, 60 km da
forru, il Lughèrras dell’altoCagliari, è il complesso megalitico
piano di Abbasanta – si tropiù importante dell’isola. Gli studi
vano in angoli più tranquilstratigrafici hanno evidenziato
li. Altri ancora, come lo stra4 fasi di costruzione (in colori
ordinario nuraghe Mereu
diversi nella piantina). Alla più
del Supramonte di Orgosolo,
antica (fase A) risale la torre
sorvegliano i luoghi più selcentrale, 10 metri di diametro, in
vaggi della Sardegna.
origine completata in altezza da una
I nuraghi sono tanti, tanterza camera (ora ne restano due) e
tissimi. Le carte dell’Igm ne
da una ghiera in aggetto. La torre fu
segnalano 3.117, gli archeologi
poi inglobata (fase B) in un bastione
a 4 lobi che però si rovinò al
punto da richiedere l’erezione
di un muro di rifascio spesso 3
metri (fase C). Dopo, Su
Nuraxi decadde, assorbito
nelle costruzioni del
circostante villaggio (fase D):
nel IX secolo a.C. l’aspetto era
già più o meno quello attuale.
0,1- 0,35/km2
0,35 - 0,6/km2
≤ 0,6/km2
DOVE SI TROVANO
PA O L O R O N D I N I ( 2 )
I nuraghi sono presenti in
tutta la Sardegna, variamente
distribuiti (sopra, le aree
colorate indicano la densità
per km2). La concentrazione
più alta è negli altipiani di
Abbasanta, Campeda e della
Valle dei Nuraghi: attraversati
dalla statale 131 Carlo Felice,
si raggiungono facilmente
anche dalla superstrada che
collega quest’ultima con Olbia.
FASE A XVI-XIV secolo a.C.
FASE B XIV-XII secolo a.C.
FASE C XIII-X secolo a.C.
FASE D X sec. a.C.- III sec. d.C.
42
NURAGHI
IL NURAGHE SU NURAXI,
BARÙMINI. PAGINE PRECEDENTI:
IL NURAGHE SANTA SABINA,
NELLE CAMPAGNE DI SILANUS.
A
Gli altipiani centrali della Sardegna danno la possibilità di fare
molte escursioni a piedi, a cavallo o in mountain bike. Attenzione: spesso orientarsi è difficile perché i sentieri non risultano
evidenti, e la segnaletica non c’è. Non è questo il caso, comunque, per l’itinerario da Torralba a Bonorva (a lato): tutto in terreno aperto, non presenta problemi di orientamento. Percorso a
piedi, richiede 4-5 ore. Si parte dal centro di Torralba; imboccata la vecchia statale per Cagliari, dopo circa 1.500 metri si
piega a sinistra, si passa sotto la superstrada, si sale alla chiesetta di San Giorgio e si scende a visitare il nuraghe Santu
Antine, con quello di Barùmini il maggior esempio di architettura megalitica. Si riparte verso il ben visibile nuraghe Oes, si
attraversa la ferrovia e si continua sull’altopiano, scavalcando i
muri a secco delle tanche, fino al nuraghe Don Furadu. Superato un ponte si procede a sud senza via obbligata, aggirando a
sinistra lo sperone roccioso che regge il nuraghe Feruledu.
Una salita nel vallone di Campu de Olta porta a una strada
sterrata, che a sua volta immette su quella asfaltata che proviene da Giave. Seguendo quest’ultima si passa accanto ai caratteristici Tres Nuraghes per salire infine a Bonorva. Il ritorno
si può effettuare in treno (le corse utili sono però pochissime).
PAOLO RONDINI
invito alla visita
ne hanno censiti oltre 8.000. I primi vennero costruiti quasi 4.000 anni fa,
quando l’uomo aveva già eretto nell’isola luoghi di culto e le sepolture rupestri poi chiamate domus de janas (case delle fate). Altrettanto
primordiali, e affascinanti, sono i santuari a pozzo: come quello presso Santa Cristina, sull’altopiano di Abbasanta, o Su Tempiesu presso
Orune, nel Nuorese. Qui gli antichi Sardi praticavano il culto dell’acqua e celebravano sacrifici. Pozzi e scalinate, chiusi da coperture in
pietra che li riparavano dalle intemperie, stupiscono per stato di conservazione ed eleganza.
Da quello che sappiamo di loro, i Sardi del Paleolitico e del Neolitico erano dei pacifici agricoltori. Il quadro cambiò con l’arrivo delle
nuove armi di bronzo. Diventati prevalentemente pastori (una caratteristica destinata a durare nei millenni), gli abitanti dell’isola si diedero a
guerricciole e saccheggi su larga scala. “Da allora noi sardi siamo uniti
nell’invidia, e divisi nella pace”, commenta Gavino Ledda, lo scrittore di Sìligo (Sassari) autore di Padre padrone.
I costruttori dei nuraghi non erano dediti solo alla guerra. Per conoscerli meglio, è bene parlare con Giovanni Lilliu, il decano dell’archeologia sarda (è nato a Barùmini 87 anni fa) che, oltre a dirigere il
memorabile scavo di Su Nuraxi, ha fornito un contributo decisivo alle
ricerche sui primi abitanti dell’isola. “Prima delle invasioni fenicie,
puniche e romane, la Sardegna era ricca, legata al resto del mondo mediterraneo”, rivela lo studioso. “La sua civiltà aveva molte affinità con
quella della Grecia arcaica. Gli insediamenti nuragici ci hanno dato
sculture di pietra e bronzo, vasi, armi raffinate che testimoniano di
una cultura complessa ed evoluta”. Fiorente dal 1800 fino al 400 a.C.,
la civiltà nuragica era di tipo pastorale, divisa in tribù analoghe a quelle
dei popoli italici della Penisola: governate da capi eletti, vivevano in
uno stato di conflittualità permanente. È il succedersi di attacchi e
scorrerie a spiegare l’impressionante proliferazione dei nuraghi.
Nonostante gli scontri, la Sardegna intorno al 1000 a.C. era aperta e prospera. “Gli scavi hanno dimostrato che i Sardi nuragici sapevano navigare, e commerciavano con le Baleari, la Grecia e il Me-
IL NURAGHE LOSA, SULL’ALTOPIANO
DI ABBASANTA: CON LA SUA
STRUTTURA A TRE LOBI, È FRA I PIÙ
BELLI E MEGLIO CONSERVATI.
A FRONTE: IL NURAGHE MANNU
NELL’ENTROTERRA DI CALA
GONONE, DA POCO RESTAURATO.
L’ARCHEOLOGIA
Reperti e testimonianze della
Sardegna nuragica sono
custoditi nei musei archeologici
di Torralba ( 079 847298),
Ittireddu ( 079 767623),
Dorgali ( 0784 96113),
Sardara ( 070 938613) e
Villanovaforru ( 070
9300050). In quest’ultimo
centro merita una visita
la bottega di Roberta Cabiddu
( 070 9300001),
artista che lavora riproducendo
lo stile e le tecniche
artigiane degli antichi. Da non
perdere, ovviamente,
i musei archeologici di Cagliari
( 070 655911) e Sassari
( 079 272203). L’elenco dei
musei dell’isola è sul sito
www.emmeti.it/Arte/Sardegna.
NURAGHI
45
APPUNTI DI NATURA
‘‘
CREDITO
FRANCO TESTA
in sardo, è uno scinco dal corpo lucido e tozzo
Nelle campagne di Esporlatu, nel Goceano,
con piccole zampe. Quando il nuraghe ha ancora
c’è un nuraghe dal nome strano: Erismanzanu.
la camera interna gli ospiti più usuali sono
Significa ieri mattina e come mai abbia questo
i pipistrelli. Ma nel Supramonte, pure i mufloni
nome non si sa. La stranezza più evidente di quel
cercano a volte riparo nei resti delle torri
nuraghe sono però i quattro lecci alti 3 metri che
nuragiche. Sui terreni umidi sono invece i rospi
crescono rigogliosi sulla cima della torre. Proprio
a rintanarsi tra le grosse pietre, mentre la
il leccio, assieme al lentisco, è uno dei problemi
testuggine marginata (Testudo marginata) vi si
maggiori per gli studiosi che scavano i nuraghi
ritira nelle ore notturne.
perché le sue radici penetrano profondamente
(Egidio Trainito)
nella struttura in pietre
della costruzione, spesso
sconvolgendone le parti basse.
dio Oriente. Calcoliamo che allora
ANCHE ROVERELLE e frassini a
l’isola desse da vivere a 200-250.000
persone: un livello a cui si tornerà
volte rendono arduo il lavoro
solo nel XV secolo”, prosegue Lildegli archeologi; mai comunque
liu. “Come i Greci che si riunivano
come la salsapariglia (Smilax
a Olimpia o a Delfi, i Sardi delle
aspera), che avvolge i ruderi
età del Bronzo e del Ferro s’incontracon le sue fronde intricate e
spinose. Nemico degli
vano in santuari che dovevano godearcheologi, questo arbusto (che
re di qualche forma di extraterritoin Toscana chiamano
rialità. La tendenza a vedere nel
GONGILO
stracciabrache) ha però doti
passato le radici di certi stereotipi
(CHALCIDES
OCELLATUS)
officinali. Il decotto ottenuto
di chiusura e arretratezza associati
dalle radici essiccate (altri
all’isola è un grave errore, in cui gli
adoperano le bacche) è usato
storici cadono periodicamente”,
in varie zone dell’isola come
sottolinea il professore.
diuretico, per le infiammazioni
A mettere termine a questa “età dell’oro” furono, alla fine, le occudi reni, fegato e prostata,
pazioni straniere. I Fenici, giunti intorno all’XI secolo a.C., si limitaroper le dermatiti, e soprattutto
no a fondare modesti empori costieri. Invece i Cartaginesi, sbarcati
contro il mal di pancia.
nel 535 a.C., cominciarono a conquistare l’interno. “La guerra, lunga e
SE CHIEDETE invece a
sanguinosa, spinse i Sardi a ritirarsi nelle zone più impervie e a isolarsi dal punto di vista economico e culturale. Una situazione che
un archeologo qual è l’animale
continuò sotto Roma e ancora nel Medioevo”, conclude Lilliu.
che s’incontra più spesso
Ma il racconto storico e la visita dei musei e dei nuraghi più noti –
nei nuraghi, la risposta
Santu Antine, Losa, Palmavera, Barùmini – non bastano per capire i
arriverà immediata: il gongilo
Sardi di 3.000 anni fa. Il fascino di queste opere dell’uomo si esprime in
(Chalcides ocellatus).
Tilicuccu, tiligugu, ziricuccu
pieno nel loro rapporto con gli spazi, i rilievi, la vegetazione dei paesaggi
in cui si elevano. Chi non teme le scarpinate può andare nel Supramonte e incamminarsi verso il nuraghe Mereu o il villaggio di Tiscali,
nascosto in una profonda dolina. Ben più comodo è percorrere gli altipiani del cuore dell’isola, dove il paesaggio è rimasto quasi immutato
nei millenni. Tra la Valle dei Nuraghi e gli altipiani di Abbasanta e
Campeda, le sughere, il basalto, gli esigui appezzamenti a pascolo
permettono d’immaginare la Sardegna com’era al tempo dei pastori
nuragici. Centinaia di piccoli e grandi ruderi si confondono con le
rocce, spuntano all’improvviso tra asfodeli e ferule. Gli uomini dalle
armi di bronzo sembrano potersi materializzare dal nulla.
PER SAPERNE DI PIÙ Claudio Finzi, Le città sepolte della Sardegna, Newton Compton, 1982. Rainer Pauli, Sardegna, Idea Libri, 1990 (il capitolo
sull’archeologia). Stefano Ardito, Sui sentieri della storia, De Agostini,
1992, e A piedi in Sardegna I, Iter, 1993 (per le escursioni tra i nuraghi).
È tutto un popolo a mostrarsi nelle statuine bronzee di Sardegna; dai capi, i re pastori, ai
guerrieri, alle donne dolenti per la morte dei figli in combattimento; dagli umili popolani
contadini e artigiani ai pastori di buoi; dagli eroi ai superstiti delle continue razzie e guerriglie. E inoltre animali, domestici e selvatici, modellini di nuraghi, faretrine votive, e tante, tantissime navicelle, segno tangibile di un’abitudine al mare.
(Claudio Finzi, 1982)
46
NURAGHI
ANCORA IL NURAGHE SANTA SABINA. NELL’AREA RESTANO ANCHE UN POZZO CULTUALE E UNA TOMBA.
DOMENICO RUIU
STAGNI COSTIERI
le perle contese
GUIDO ALBERTO ROSSI
STAGNI
COSTIERI
le perle contese
DI ANTONELLA COLICCHIA
Assolti. Così, il 24 ottobre 1996, la pretura di Oristano ha mandato a casa Giuseppe ed Emiliano Sanna e Fabrizio Paddi. A
trascinarli sul banco degli imputati era stata la famiglia Manca.
✦
DOVE SI TROVANO
Gli stagni costieri interessano
soprattutto la provincia di
Oristano (oltre 5.500 ettari,
3.000 dei quali nella penisola
del Sinis). Segue Cagliari,
con 1.600 ettari nei dintorni
della città. Zone umide
minori sono disseminate
nell’immediato entroterra di
molti tratti di litorale.
Proprietaria dello stagno di Mistras, affidato in gestione alla Cooperativa Molluschicoltori, non tollerava che i ragazzi calassero la lenza e
considerassero le acque lagunari possesso di tutti. “Sono demaniali”,
ha invece ribadito il giudice. Un principio generale, introdotto con
una legge regionale (la 39 del 1956), difeso dai tribunali in decine di
processi e confermato dalla Corte Costituzionale. La legge, che abolisce i diritti feudali sugli stagni, non fu certo un regalo. La strapparono i poverissimi pescatori di Cabras a suon di scioperi, occupazioni, scontri con la polizia.
Oggi le zone umide che circondano Oristano – 5.500 ettari di vasche e canali scavati per farvi confluire il pesce dal
mare aperto, vederlo crescere e
venderlo – sono nelle loro mani.
FRANCO TESTA (2)
✦
POLLO SULTANO
(PORPHYRIO PORPHYRIO)
APPUNTI DI NATURA
Gli stagni dell’Oristanese sono un
grandioso mosaico naturale.
Cabras, vasto e circondato da un
fitto ed esteso canneto, oltre a
ospitare migliaia di anatidi e di folaghe,
è l’ambiente ideale per l’airone rosso, il
tarabusino e lo schivo tarabuso, che vi nidificano
regolarmente. Paùli Maiori, di modeste
dimensioni e al centro di una piana intensamente
coltivata e pascolata, è circondato dal più esteso
canneto naturale della Sardegna, dove vive una
delle più importanti popolazioni di pollo sultano
dell’isola. Per facilità e abbondanza di specie è
preferibile però s’Ena Arrubia. Durante il passo
50
STAGNI COSTIERI
GOBBO RUGGINOSO
(OXYURA LEUCOCEPHALA)
autunnale la superficie dell’acqua appare
spesso interamente ricoperta di uccelli:
folaghe, moriglioni, mestoloni, alzavole,
morette, rari fistioni turchi e, nelle zone
prossime al mare, avocette e fenicotteri.
Il complesso degli stagni di Marceddì e
San Giovanni (divisi solo da uno sbarramento
artificiale) è una grande laguna aperta a
diretto contatto con il mare. D’inverno la
popolano edredoni e beccacce di mare. Infine
Sale ’e Porcus, nella penisola del Sinis: una
laguna temporanea interdunale, priva di
collegamenti al mare, alimentata esclusivamente
dall’acqua piovana e salata per evaporazione.
È un luogo incantato. A fine estate, quando i
temporali ripristinano la laguna, si colora di rosa:
sono i fenicotteri che ogni anno, puntualmente,
ritornano dopo aver nidificato nelle acque
francesi della Camargue.
(Domenico Ruiu)
VEDUTA AEREA DELLO STAGNO DI
CABRAS, IL PIÙ ESTESO DELLA
PROVINCIA DI ORISTANO. NELLA
DOPPIA PAGINA PRECEDENTE: UN
GRUPPO DI FENICOTTERI ROSA NELLO
STAGNO DI SALE ’E PORCUS,
NEL COMUNE DI SAN VERO MILIS.
COME SONO PROTETTI
invito alla visita
PONTIS,
A
CABRAS. SULLA
SPONDA, I RESTI DI UN RIPARO DI CANNE.
O meglio, in quelle delle cooperative che gestiscono la pesca, e degli
abitanti sui quali incombe una sfida: difendere il delicato ecosistema
di terra e acqua da cui dipende l’economia locale e tramandare una
cultura che è scolpita nel paesaggio.
L’ambiente e la storia dello stagno di Cabras, e la gerarchia feudale
della peschiera, sono stati raccontati con insuperata efficacia da Giuseppe
Fiori nel suo Baroni in laguna (Edizioni del Bogino, Cagliari, 1961). A
quarant’anni di distanza, lo scenario non è molto cambiato. Stessi canali, qualche bicicletta che li costeggia, le barche in fila nel porticciolo. I pescatori riposano sulle sedie impagliate, fuori delle case. È cambiata però l’economia. Nel 1600 le acque erano demaniali, cioè della
Corona spagnola. Finché Filippo IV chiese ingenti prestiti a un genovese, Gerolamo Vivaldi, offrendo come garanzia stagni, peschiere e
dipendenze di Cabras e Santa Giusta. Nel 1853, gli eredi di Vivaldi
cedettero gli stagni a un barone di Oristano: don Salvatore Carta. Le
36 famiglie di eredi (Carta-Boi-Corrias) sono quelle che si opposero
per tutti gli anni Cinquanta all’abolizione dei diritti feudali (in soldoni, pretendere il pagamento di un canone e decidere a chi concedere
il diritto di pesca). “Dal 1982, quando la Regione sottrasse la gestione
ai baroni, pesca e manutenzione vengono affidate a cooperative di pescatori”, spiega Francesco Meli, detto Caboni (il gallo), presidente della
IL FASSONE
Nuova Cooperativa Pontis. “Attualmente, a un
consorzio di 11 società, che dà lavoro a 390 adIn sardo, su fassoi. È la tipica
detti. Le acque (40 milioni di metri cubi) fornibarca costruita con il fieno palustre,
scono 3.000-4.000 quintali di pesce. Il novellame
a parte gli scalmi di canna e i sostegni in tamerice,
tradizionalmente utilizzata dai palamitai (pescatori
(muggini, spigole, orate, sogliole, anguille) endi anguille) che vi trasportavano il palamito (corda
tra dal mare, trova nutrimento e cresce senza allunga e fitta di ami) e una fiocina. La struttura
cun mangime. Può capitare (l’ultima volta è staè la stessa delle imbarcazioni in uso presso antiche
to nel 1999) di vedere i pesci a galla, a pancia in
civiltà: quelle egizie di papiro, quelle peruviane
su. Il caldo qui ha fatto evaporare l’acqua e
del lago Titicaca e di Dioca, sul Golfo Persico.
marcire la materia organica. Risultato: 2.200 etSotto: l’evoluzione nei secoli, in 4 fasi, di su fassoi.
tari di fango puzzolente da spalare dai fondali,
1
2
spettacolo è offerto dalla vegetazione di piante resistenti alla
salsedine (salicornia, giunchi e
tamerici), ideale per la nidificazione di molte specie di uccelli.
Perfetta per fare birdwatching
la parte nord-occidentale dello
stagno.
(Dario Cossu)
DOMENICO RUIU
PESCHIERA
supera un maneggio e
si devia a sinistra su una sterrata. Si prosegue,
ancora per 1 chilometro
e mezzo, fino ad arrivare alla riva settentrionale di Paùli ’e Sali. Da
qui si avanza, a piedi o
in bicicletta, costeggiando le rive dei due stagni,
separati da una lunga e
stretta lingua di terra e
basse dune. L’habitat, la
vegetazione e le numerose specie di uccelli rari
(tra cui il pollo sultano) rendono la visita di estremo interesse.
MISTRAS. Da Cabras, passato
il canale scolmatore, s’imbocca
sulla sinistra una strada bianca
e, all’altezza dell’itticoltura Sa
Còcciula Bogài, si svolta a destra. Giunti sulle rive, il primo
LO STAGNO DI S’ENA
ARRUBIA, DI FRONTE ALLA PINETA
DI ARBOREA (ORISTANO).
3
4
PAOLO RONDINI
LA
Ogni stagno merita la visita, da
affrontare binocolo alla mano,
con due semplici accorgimenti:
scarpe comode (stivali in autunno-inverno) e prodotti antizanzare (in primavera-estate).
A chi ha poco tempo ne consigliamo tre, all’insegna della varietà. Piccoli e di acque salmastro-dolci Mar ’e Paùli e Paùli
’e Sali; più grande e salato quello di Mistras. Prima di esplorarli, è bene osservarne i contorni dall’alto della Torre del
porto di Cabras, da cui si domina l’incantevole puzzle di terra,
acqua e mare dell’Oristanese.
MAR ’E PAÙLI E PAÙLI ’E SALI.
Sono entrambi sul lato nordorientale dello stagno di Cabras. Lasciato l’abitato si percorre l’asfaltata verso Riola per
circa 1 chilometro e mezzo, si
PAOLO RONDINI
EGIDIO TRAINITO
Come zone umide d’importanza
internazionale, gli stagni sardi
sono protetti dalla Convenzione di
Ramsar. La legge Galasso inoltre li
sottopone ai vincoli validi per le
zone di grande interesse
paesaggistico. La Regione si limita
a definire gli stagni “oasi
faunistiche” dov’è vietata la caccia
e a stabilire, come avviene in
mare, periodi di riposo biologico
durante i quali è proibito pescare.
Paùli ’e Sali è stato gestito dal
Wwf assieme alla Cooperativa
Pontis per due anni, nell’ambito di
un progetto Life dell’Unione
Europea. Ma l’amministrazione
comunale non ha garantito la
continuità, com’è accaduto anche
a Paùli Maiori e a s’Ena Arrubia.
Nel Cagliaritano, la zona
di Molentargius-Saline-Poetto è
inclusa, dal 1989, nelle aree
protette regionali.
(D. C.)
MOLENTARGIUS E LE SALINE
Cagliari è circondata da una sequela di stagni.
A nord-ovest, l’ampia laguna di Santa Gilla, ricca
di pesce e meta abituale di folaghe, limicoli,
aironi, soprattutto cormorani. Più a sud, le saline di
Macchiareddu, separate dal mare da uno stretto
cordone dunale, ideali per volpoche, avocette e
fenicotteri. A est, a ridosso della periferia urbana,
Molentargius e Quartu, tra i più importanti stagni
del Mediterraneo. Qui sono state censite 180
specie avicole e, nei giorni d’intenso movimento
migratorio, sono state contate 20.000 presenze.
“LO STAGNO DI MOLENTARGIUS, fino a non molti
anni fa, veniva percepito come un buco di quella
grande ciambella che è Cagliari: uno spazio
dai confini incerti, dalla funzione dubbia, colpito
dal degrado e dall’inquinamento. Un intralcio
all’espansione della città”. Perciò, Vincenzo Tiana,
Stefano Pira e altri studiosi e ambientalisti sardi
hanno fatto due cose. Conoscere il passato di questi
1.600 ettari di laguna e saline, e progettarne il
IL CONTATTO
futuro. “Diecimila anni fa Molentargius era già un
centro di produzione del sale, risorsa che è stata
la ricchezza di Cagliari fino all’Ottocento, quando
lo sviluppo della ‘catena del freddo’ ha ridotto
l’importanza del sale come conservante per gli
alimenti”, spiega Pira. “Nel Settecento, nel porto
rimanevano stabilmente ancorate 50 navi svedesi
(che trasportavano il sale in Scandinavia dove
veniva usato per conservare aringhe e sardine)”.
LA PRODUZIONE È CESSATA 17 anni fa e da tale
cambiamento sono derivati svantaggi (perdita del
lavoro), ma pure opportunità. “Chiusi gli impianti
(motopompe comprese), il livello dell’acqua scende
anche di decine di centimetri al giorno”, continua
Pira. “Pioggia e scarichi urbani hanno aumentato
la quota d’acqua dolce e materiale organico, che ha
favorito l’arrivo dell’avifauna”. Oggi siamo a un
passo dall’istituzione di un parco. Una legge
trasferirà alla Regione il demanio delle saline. E, con
esso, 120 miliardi per la bonifica. Una parte servirà
all’area protetta per cui l’Associazione pro parco
di Molentargius-Saline-Poetto si batte da anni.
DANIELE PELLEGRINI
il ‘raccolto’ bruciato nei falò”. Una scena d’altri tempi, se non
fosse per gli indennizzi pagati
dalla Regione e per un discusso
progetto del Consorzio di Bonifica. Obiettivi: immettere nello stagno acqua dolce (nella misura ideale per l’acquacoltura) prelevandola dal fiume Tirso, attraverso il canale Mar ’e Foghe. E praticare iniezioni di ossigeno liquido, in
tre diverse zone, per evitare il fenomeno dell’eutrofizzazione.
“Interventi da attuare con il pieno accordo tra comunità scientifica, pescatori e protezionisti”, avverte Mena Manca, che allo stagno
ha dedicato il libro I pescatori di Cabras (S’Alvure Edizioni, Oristano, 1990). Mentre gli stagni, con i pesci che vi ingrassavano, venivano tolti dalle mani dei baroni per essere affidati a coloro che ci lavoravano, prendeva sempre più corpo una nuova consapevolezza.
Si è capito, insomma, che il valore complessivo di questi specchi
d’acqua non si può limitare a puro fatturato: che è fatto anche di elementi naturali, flora e fauna, ed estetici. E che, in quanto tale, appartiene a tutta la collettività. “Ridurre il numero dei cormorani (oltre
10.000 esemplari) che saccheggiano le peschiere (un problema irrisolto), proteggere i canneti, monitorare temperatura e salinità delle
acque sono un impegno globale”, sottolinea Mena Manca. “Se un
aspetto della vita degli stagni entra in crisi, s’incrina l’intero sistema economico-ecologico”. E allora, addio pesca, addio turismo, addio tutto. Tornerebbero i tempi dei baroni in laguna.
Molto attiva nella zona
di Cagliari, dove ha una
segreteria ( 070
655230) e un sito Internet
(www.apmolentargius.
sardegna.it), è
l’Associazione pro parco
di MolentargiusSaline-Poetto, presieduta
da Vincenzo Tiana.
(Ettore Arrigoni degli
Oddi, 1901)
54
STAGNI COSTIERI
CAGLIARI VISTA DALLE SALINE
SANTA GILLA DOVE, DAL 1993,
NIDIFICANO I FENICOTTERI ROSA.
NELLA PAGINA A FRONTE: UN AIRONE
SOSTA NELLO STAGNO DI CABRAS.
DI
ENRICO PINNA
‘‘
‘‘
...nuvole viventi adombrano il cielo, confondendosi roteanti
nell’aria: è il carnevale degli acquatici...
STAGNI COSTIERI
55
DANIELE PELLEGRINI
MINIERE
cuore di tenebre
TESTO DI
METELLO VENÈ
FOTO DI
VITTORIO GIANNELLA
Manlio, che là dentro ha sputato l’anima, ha pianto e ha perso
più di un amico, dice che la miniera è un’assurdità. “Un monumento al vuoto, un edificio a rovescio: invece di aggiungere
✦
DOVE SI TROVANO
La stragrande maggioranza
delle miniere sarde si trova
nel Sulcis-Iglesiente, nella
Sardegna sud-occidentale
(provincia di Cagliari), in
un’area che occupa circa
2.500 chilometri quadrati da
Fluminimaggiore, a nord,
fino a Capo Teulada, a sud
(il punto più meridionale
dell’isola). I centri più
importanti sono Iglesias
(Iglesiente), Carbonia
e Sant’Antioco (Sulcis).
58
MINIERE
mattoni li togli, invece di costruire disgreghi”. Il punto di partenza
per un viaggio nelle cattedrali a testa in giù, che voltano le spalle al cielo
per cercare il buio, può essere proprio un incontro con Manlio Massole, minatore per vocazione e poeta per natura, che un giorno di tanti anni fa mollò un comodo posto di maestro alle scuole elementari
di Buggerru (Cagliari) per scendere a scavare sottoterra, “mettere
le mani addosso alla vita e farci la lotta, dannazione”.
È lui uno dei più appassionati cantori
del Sulcis-Iglesiente, l’“altra” Sardegna:
A DESTRA: LA LAVERIA
LAMARMORA (1897).
20.000 ettari di suolo e relativo sottosuolo,
SERVIVA A SEPARARE PIOMBO
montagne e pianure plasmate e rimodelE ZINCO DALLE SCORIE.
late da 40 miniere e 3.000 immobili mineIN BASSO: LA MINIERA
SECONDO IL PITTORE ALIGI
rari. Un’isola nell’isola, che sa di piombo,
SASSU (1950). NELLE
carbone, zinco e rame (la quasi totalità
PAGINE PRECEDENTI:
del prodotto nazionale) ed evoca soffeLA MINIERA DI MONTEPONI.
renza e disperate lotte sindacali; una realtà che negli anni di piena attività mineraria (tra il 1850 e i primi anni Sessanta) ti faceva “abbandonare ogni mattina il sole per
sprofondare nell’umidità grigia” e oggi, in epoca di Internet e globalizzazione, offre le sue ferite, i suoi magnifici ruderi e i suoi uomini alla memoria. “Le pale meccaniche ormai tacciono, ma il nostro mondo non morirà”, ci disse Manlio nel 1995, quando chiuse
l’ultima miniera. “Sogno un grande parco minerario, visite guidate ai
vecchi impianti, ex minatori pronti a raccontarsi”.
E il sogno, in effetti, si è realizzato. O quasi. Nel senso che in
questi anni il parco è stato fatto, l’hanno chiamato Parco geominerario storico e ambientale della Sardegna, l’ha riconosciuto come
sito d’interesse mondiale nientemeno che l’Unesco, nel 1997. Pec-
‘‘
‘‘
MINIERE
cuore di tenebre
“Bisogna scendere. Sottoterra. All’imbocco del pozzo si lasciano il sole e le nuvole.
Si lasciano la moglie e i figli. Solo Dio, forse, ci si porta appresso nella parte più intima di noi se anch’Egli non ci abbandona laggiù fuggendo la materia più profonda.
Nel terribile mondo della roccia e del buio sopravvivono solo uomini di roccia e di
buio che hanno necessità di dimenticare la coscienza di essere uomini”.
(Manlio Massole, minatore e poeta, 1993)
MINIERE
59
SOPRA:
IL POZZO DI ESTRAZIONE SANTA
BARBARA; È IL “GIOIELLO” DELLA
MINIERA DI SAN GIORGIO. IN BASSO,
A DESTRA: LE “MONTAGNE ROSSE”,
DEPOSITI DI SCORIE PRESSO MONTEPONI.
COME SONO PROTETTE
Dal 1997, le aree
minerarie sarde sono
sotto l’egida
dell’Unesco, che
nell’ambito della nuova
rete mondiale dei
geositi-geoparchi ha
istituito il Parco
geominerario storico e
ambientale della
Sardegna, promosso
dalla Regione e
dall’Emsa (Ente
minerario sardo).
Il territorio dell’isola è
stato diviso in 8 aree; la
principale (65 per cento
del parco) è quella
del Sulcis-IglesienteGuspinese. L’intento è
di conservare e
valorizzare il patrimonio
architettonico delle
miniere dismesse,
aprendole al turismo e
impiegando gli ex
minatori e i loro familiari
in attività “socialmente
utili”. L’area comprende
anche due parchi
naturali: Monte LinasMarganai (a nord-est
di Iglesias, 22.000
ettari) e Sulcis (tra
Carbonia e Cagliari,
68.868 ettari).
60
MINIERE
cato che, tra cavilli burocratici e ritardi legislativi
(ed è storia di questi giorni), tutto è ancora sulla
carta. Compresa la “riconversione” di ex addetti
al settore estrattivo in attività “socialmente utili”
(turismo in loco, bonifica del territorio). Così, da
un lato vedi gioielli di archeologia industriale in piedi
per miracolo; dall’altro incontri uomini e donne
che reclamano un futuro, e lo fanno nel classico
stile del minatore disoccupato: occupando. Come
Rosina Carta, di anni 88, che nel giugno scorso si
è autoreclusa nei cunicoli di Porto Flavia, dove
da piccola seguiva il padre cavatore, a capo di un
gruppetto di donne. O come Giampiero Pinna, 50 anni, già presidente dell’Ente minerario sardo (adesso in liquidazione) e consigliere regionale diessino, paladino degli “uomini di pietra”: nel novembre 2000 ha lasciato il suo ufficio di Cagliari per scendere nelle
gallerie di Monteponi, a Iglesias, dove al momento in cui scriviamo
è tuttora asserragliato con 400 fedelissimi.
In attesa che il parco decolli, l’agenda dell’Igea (l’istituto di ripristino ambientale nato dalle costole dell’ente minerario) è fitta d’impegni. Occorrono molti soldi (circa 2.000 miliardi preventivati), e il
tempo stringe. Dagli anni Cinquanta, quando cominciò il lento e graduale abbandono delle
miniere perché era venuta meno
la convenienza alla “coltivazione”, il degrado ha fatto passi da
gigante. L’acqua è risalita dalle
falde freatiche, allagando e danneggiando gli impianti. Ruggine e salinità hanno corroso i palazzi delle direzioni, le falegnamerie, i pozzi, gli eleganti archi
ottocenteschi delle laverie.
Per le strutture che rischiavano il crollo, come la straordinaria laveria Lamarmora di Nebida (foto a pagina 59) e il capolavoro d’ingegneria Porto Flavia
(vedere il riquadro a pagina 62),
sono già stati effettuati corposi
lavori di restauro. Altre stanno
aspettando il restyling. E presto
partiranno dei veri e propri progetti
di “destinazione archeologica”: a
Montevecchio, vicino alla cittadina di Guspini, il sindaco Tarcisio Agus preannuncia la “messa a punto di un percorso sotterraneo completo, attraverso la
miniera, lungo 800 metri”.
Così, insomma, verrà valoriz-
APPUNTI DI NATURA
È una mattina di aprile del 1952.
Francesco Salis, 25 anni,
professione minatore, infila dei
candelotti di esplosivo in un
tratto di parete della miniera di
San Giovanni, a 5 chilometri da
Iglesias. L’attesa. Lo scoppio. E la
meraviglia: quando il polverone
si dirada, al di là del muro “si
scorse il paradiso”. Fu scoperta
così, per puro caso, durante il duro lavoro
di un pugno di operai, una delle cavità carsiche
più antiche e affascinanti della Sardegna: la
grotta di Santa Barbara (qui sopra; vedere anche
Airone Sardegna, maggio 1994).
Costituita da un grande salone ovoidale (50 metri
di larghezza, 70 di lunghezza e 25 di altezza;
potrebbe contenere un palazzo di quattro piani) e da
un canalone inferiore che finisce in un laghetto,
questa cavità è considerata fra le
più antiche del mondo: le
dimensioni dei colonnati calcarei
mineralizzati a piombo e zinco
che la contraddistinguono, e
soprattutto l’esclusiva presenza di
cristalli di barite (solfato di bario)
a nido d’ape, hanno permesso
di datarne l’origine a oltre 500
milioni di anni fa. Nel corso
dell’esplorazione, il visitatore
resta colpito dalle straordinarie
forme di alcune concrezioni: le “canne d’organo”,
incredibile cascata calcarea; le “orecchie d’elefante”,
stalattiti che sembrano sfoglie; la cosiddetta
“ballerina”, che il tempo ha modellato a forma di
bambola. Per il momento, l’accesso a Santa Barbara
avviene sempre attraverso il “buco” aperto
dal minatore Salis, ed è quindi vietato ai turisti.
Nel progetti del parco geominerario, tuttavia,
rientra pure uno studio per una sua futura fruibilità.
(segue a pagina 64)
MINIERE
61
1
PAOLO RONDINI
3
4
2
PORTO FLAVIA, CAPOLAVORO DA SCOGLIERA
1 Piombo e zinco, in arrivo dalla
vicina laveria, entrano nella
galleria superiore trasportati da
un convoglio a trazione elettrica.
2 Il minerale viene scaricato in
9 grandi silos, che a loro volta lo
riversano sul nastro trasportatore
della galleria inferiore. 3 Il nastro
porta il minerale verso lo sbocco
sul mare, dov’è montato un
braccio mobile. 4 Piombo e zinco,
attraverso il braccio orientato,
finiscono nella stiva del mercantile.
Si apre sulla scogliera antistante
il faraglione del Pan di Zucchero,
e a vederlo pare un castello
delle favole, con quel nome di
donna inciso a caratteri cubitali e
le finestrine buie che guardano
nel vuoto. Invece, è una delle più
straordinarie opere d’ingegneria
mineraria al mondo.
Realizzato nel 1924 dall’ingegner
Cesare Vecelli, della società
francese Vieille Montagne, che
volle dedicarlo alla figlia morta
prematuramente, Porto Flavia
aveva lo scopo di facilitare il
trasporto di piombo e zinco dai
vicini impianti di Masua al mare,
dove stavano in attesa apposite
imbarcazioni. Fino ai primi anni
Venti, le operazioni erano infatti
affidate unicamente al sudore dei
minatori, che portavano a spalle
il minerale in recipienti da
50 chili e lo caricavano sulle
bilancelle, piccoli vascelli a vela.
COME FUNZIONAVA. Con
l’inaugurazione di Porto Flavia
tutto cambiò. Nel ventre della
montagna si scavarono due
gallerie sovrapposte. In quella
superiore entrava una sorta di
trenino a trazione elettrica, con
i vagoncini colmi di piombo
e zinco in arrivo dalla laveria; il
materiale veniva poi riversato
in nove grandi silos, che
lo passavano su un nastro
trasportatore montato
nella galleria inferiore (vedere
il disegno). Quest’ultimo
sbucava all’esterno, sul mare,
attraverso un braccio mobile
che scaricava direttamente
i minerali su grossi mercantili, che
da allora in avanti sostituirono
le piccole e inadeguate bilancelle.
La resa di Porto Flavia era di
circa 500 tonnellate di piombo e
zinco all’ora: otto volte in più
rispetto ai metodi tradizionali.
L’impianto venne abbandonato
negli anni Sessanta.
IL “GIOIELLO” OGGI. Potrebbe
ormai essere questione di giorni:
dopo un’accurata sistemazione
dei percorsi interni, Porto Flavia
è praticamente pronto per le
visite guidate. In attesa
dell’apertura, la struttura può
essere ammirata in tutta la sua
maestosità anche dal mare. Info:
Il faro di Masua, 0781.47125,
e-mail: [email protected]
A SINISTRA: LA MINIERA DI MASUA.
DA QUI IL MINERALE VENIVA PORTATO AL
VICINO IMPIANTO DI PORTO FLAVIA
(A FRONTE E IN ALTO), CHE LO RIVERSAVA
DIRETTAMENTE NELLE STIVE DELLE NAVI.
62
MINIERE
MINIERE
63
invito alla visita
strade asfaltate
strade sterrate
miniere
I CONTATTI
Su Iglesias e dintorni:
Biblioteca comunale
di Iglesias (Cagliari), 0781 41795. Per visite
al bacino minerario:
Cooperativa La
Gherardesca, Iglesias
(CA), 0781 33850.
Museo etnografico e
Tempio di Antas:
0781 580990.
64
MINIERE
dopo circa 8 chilometri si arriva alla miniera di Nebida, nel
cuore del golfo di Gonnesa: da
non perdere la discesa (400 scalini) alla splendida laveria Lamarmora, costruita nel 1897 e
ristrutturata. Procedendo sull’asfalto si giunge alla miniera
di Masua: ne fa parte l’impianto di Porto Flavia (vedere il riquadro a pagina 62). Proprio
di fronte alla costa, si staglia
il caratteristico scoglio calcareo chiamato Pan di Zucchero
PAOLO RONDINI
L’“anello” Iglesias-Fluminimaggiore-Iglesias (circa 100 chilometri) è sicuramente la via più
indicata per esplorare il parco
geominerario. Gran parte del
percorso è asfaltata e si può effettuare in auto; una mountain
bike a bordo è comunque auspicabile, per affrontare gli sterrati più stretti nei pressi degli impianti. Prima di lasciare Iglesias, vale la pena fare una visita ai reperti intorno alla città: il
villaggio abbandonato di Seddas Moddizzis (strada per Carbonia, grande sterrata a sinistra all’altezza del cavalcavia
della statale 126); nei pressi, il
pozzo Santa Barbara della miniera San Giorgio, le miniere di San Giovanni e di
Monteponi. Seguendo poi
le indicazioni per il mare,
(133 metri). All’altezza delle ultime case di Masua ha inizio uno stradone in salita che porta
al villaggio minerario di Montecani. Continuando ancora, si
ridiscende verso la costa; lasciata sulla destra la miniera di
Acquaresi, a sinistra s’imbocca
una stradina per l’incantevole
Cala Domestica, ideale per un
tuffo e un po’ di sole. Più avanti, si arriva a Buggerru (laveria di Malfidano) e si procede
lungo la bellissima spiaggia di
Portixeddu. Ripiegando all’interno, s’incontra un bivio: a sinistra si va alle miniere di Ingurtosu e Montevecchio, a destra si passa Fluminimaggiore.
La strada che prosegue per Iglesias (la statale 126) offre interessanti deviazioni verso la
grotta di Su Mannau (lunga 7
chilometri), il tempio punico
romano di Antas e le cosiddette
“miniere montane”.
zato il bello della Sardegna mineraria. E pure il brutto. Perché miniera è anche scorie, e buchi nella roccia, e fanghi di
scarto intrisi di zinco, piombo,
cadmio. Inquinano, certo. Ma
sono parte integrante di un
paesaggio davvero unico. A
Monteponi, per esempio, subito fuori Iglesias, si trovano le “montagne”. Costeggiano la provinciale, hanno un’altezza di una ventina di metri e al tramonto, col sole radente, si tingono di rosso. I curiosi le ammirano, i turisti le scalano, i
naturalisti le odiano: non sono altro che gli scarti zincosi della vicina
miniera. Però verranno risparmiati. Li metteranno in sicurezza, in modo
che non si dilavino a ogni temporale, inquinando pericolosamente
l’ambiente. Così anche la natura chiuderà un occhio di fronte a uno
degli ultimi, fragili ricordi degli oscuri “palazzi al contrario”.
PER SAPERNE DI PIÙ Un libro: Paesaggi e architetture delle miniere (Sandro Mezzolani e Andrea Simoncini, Editrice Archivio fotografico sardo, 1993, 394 pagine, 120.000 lire). E due siti Internet: www.sulcisiglesiente.it (su storia del territorio, singoli paesi, archeologia e turismo) e
web.tiscalinet.it/forparcogeominerario (per informazioni sul parco minerario).
DOMENICO RUIU
LA COSTA
dove volano i grifoni
D I S T E FA N O A R D I T O
Molti litorali dell’isola aspirano al titolo di costa più bella della
Sardegna. Se il granito e le acque della Costa Smeralda sono
✦
DOVE SI TROVA
L’ultima roccaforte
del grifone sardo è la costa
nord-occidentale dell’isola,
tra Bosa e Capo Caccia.
La si raggiunge in pochi
chilometri da Porto Torres
(dove arrivano i traghetti da
Genova) e in circa 150
da Olbia. Da Cagliari, si segue
la statale 131 Carlo Felice
fino a Macomer, e qui si
devia verso Bosa. Si può anche
utilizzare il vicinissimo
aeroporto di Alghero-Fertilia.
famosi nel mondo e le falesie e le calette del golfo di Orosei
sono le uniche a meritare la definizione di wilderness, la splendida costa di Alghero e Bosa può rivendicare un altro pregio. È un po’ meno
selvaggia, e certamente meno nota; solo lì comunque è possibile ammirare l’elegante volo planato del grifone.
Fino a un secolo fa, il grande avvoltoio era diffuso praticamente in
tutta l’isola. Vent’anni or sono lo si poteva osservare ancora nel Supramonte di Oliena. Oggi sono allo studio alcuni progetti di reintroduzione. Le uniche colonie
autoctone, però, nidificano nel
nord-ovest della Sardegna, sui
calcari di Capo Caccia e sulle
La roccia è coperta di
scure falesie di basalto che domacchie e cespugli bassi,
minano l’estuario del Temo.
il colore sembra scarso
Distanti in linea d’aria una
giacché il nero domina
cinquantina di chilometri, questi
con il grigio: ma quel nedue ambienti hanno paesaggi
ro, quel grigio diventano
piuttosto diversi tra loro, anche
colori di straordinaria
se uniti – oltre che dalla contiintensità sotto quel cielo
guità geografica e dall’icona del
e quelle nuvole attizzati
grifone – dalla bellezza, dalla visenza posa dal vento.
cinanza del mare, dalla forza del
(Guido Piovene, 1961)
maestrale che spazza le alture
della Nurra con una violenza
sconosciuta al resto della regione. Tra i due sorge Alghero, cuore della Sardegna catalana e città più
bella dell’isola (vedere il riquadro a pagina 70).
Verso nord, i bianchissimi calcari di Capo Caccia formano il promontorio più spettacolare di tutta la Sardegna, e offrono il più tipico dei
paesaggi costieri mediterranei. Poco ripido a oriente, dove pendii rivestiti di fitta macchia scendono in direzione dell’insenatura di Porto
Conte, il capo presenta un aspetto prettamente dolomitico in direzione del mare aperto, dove le scogliere verticali si allungano per chilo-
‘‘
‘‘
✦
COME È PROTETTA
Anche se non figura sugli elenchi ufficiali, l’Arca di Noè (4.000 ettari) è una delle più importanti aree protette della
Sardegna, ed è formalmente compresa dal 1999 nel Parco regionale di Porto Conte (5.200 ettari)
che è però assolutamente inesistente sul terreno. Non c’è traccia nemmeno delle riserve naturali di Capo Caccia (2.515
ettari) e della Valle del Temo (4.699 ettari), previste dalla legge regionale n. 31 del 1989.
La legge nazionale n. 979 del 1982 ha previsto l’istituzione della Riserva marina di Capo Caccia-Isola Piana.
68
LA COSTA DEI GRIFONI
VITTORIO GIANNELLA
LA COSTA
dove volano i grifoni
LE BIANCHE SCOGLIERE
DI CAPO CACCIA. NELLE PAGINE
PRECEDENTI: LA COSTIERA DI
BOSA OSPITA L’ULTIMA COLONIA
DI GRIFONI DELLA SARDEGNA.
Santa Maria, e nelle poderose
fortificazioni (qui sopra,
i bastioni) scandite dalle torri
di San Giovanni, degli Ebrei
e de l’Esperò Reial (lo Sperone
Reale). L’integrazione fra
catalani e sardi è iniziata nel
1708 con la fine della
dominazione spagnola, e si è
progressivamente consolidata.
Parlare di contrapposizione tra
i due gruppi, oggi, sarebbe
sbagliato e fuorviante. Non c’è
dubbio, però, che la gente
de L’Alguèr conservi uno stretto
rapporto con Barcellona e la
Catalogna, e che Alghero e
Sassari – che pure distano solo
35 chilometri – non si amino
troppo. I sassaresi, per andare
al mare, preferiscono puntare
verso Stintino e Castelsardo.
NEVIO DOZ (2)
LA PRESENZA DI OVINI ALLEVATI
ALLO STATO BRADO ASSICURA AI
GRIFONI ABBONDANZA DI CIBO.
70
LA COSTA DEI GRIFONI
metri, sfiorando i 300 metri di altezza. Queste rocce hanno attirato
l’attenzione di grandi nomi dell’alpinismo come Cesare Maestri, Alessandro Gogna e Manolo.
Dal piazzale dove termina la strada asfaltata, i 656 gradini della Escala del Cabiròl (la scala del capriolo, in catalano) conducono alla
Grotta di Nettuno, che si apre al livello del mare e contende a quella
del Bue Marino il titolo di principale “grotta turistica” dell’isola. All’interno, dove una lapide ricorda
le visite di re Carlo Alberto, si trovano un lago dalle acque trasparenti, ampi saloni e imponenti formazioni di stalattiti (la più vistosa è la
cosiddetta “Reggia”).
Ancora più a nord, oltre la torre
cinquecentesca della Pegna che segna con i suoi 271 metri il punto più
elevato del promontorio, un vasto
pianoro ondulato è il cuore dell’Arca
di Noè, la riserva di 4.000 ettari gestita dall’Azienda forestale regionale che protegge la ricca avifauna locale e vari mammiferi “importati”
da altre parti della Sardegna. Le strade sterrate e i sentieri dell’area
protetta consentono di avvistare daini sardi, mufloni, cavallini della
Giara e asini bianchi dell’Asinara.
Verso il largo, altrettanto spettacolari e rocciose di Capo Caccia, l’Isola Foradada e l’Isola Piana sono frequentate dal falco pellegrino e
dalla berta, uno dei più rari uccelli marini italiani. I grifoni nidificano
sulle pareti di Punta Cristallo, e continuano purtroppo a diminuire di
numero. Oggi si parla di non più di due o tre esemplari.
Non sappiamo se gli avvoltoi siano stati disturbati dagli scalatori
(pochissimi) o dai motoscafi (fin troppi) che passano ai piedi della
scogliera in estate. Non c’è dubbio, però, che le pecore e i pastori sono spariti da tempo dal promontorio di Capo Caccia, dalla costa
invito alla visita
La strada che collega in 63 chilometri Bosa con
Capo Caccia è una delle più panoramiche della
Sardegna, e permette di osservare con calma la
costa. Lasciata Bosa (meritano una visita il castello e la chiesa di San Pietro extra Muros) il
tracciato sale fino a un piccolo valico, poi scende in direzione del mare. Questa è la zona dov’è
più facile avvistare i grifoni. Poco più avanti,
merita una deviazione a piedi la ben visibile
Torre Argentina, che si raggiunge prendendo
un’evidente carrareccia. Poi la strada si alza di
nuovo fino alle pendici di Monte Mannu: alcuni
slarghi consentono di posteggiare per ammirare
dall’alto i canaloni e le scogliere di Capo Marargiu. Un lungo tratto solitario ma meno spettacolare conduce alla spiaggia di Cala Griecas e
all’inizio del litorale di Alghero. La zona è ottima per fare un bagno. Oltrepassata la città, la
visita del nuraghe Palmavera precede l’arrivo a
Porto Conte, una delle insenature più belle della
Sardegna. Imboccando la strada per Santa Maria La Palma e Sassari si possono raggiungere
Porto Ferro e il lago di Baratz. Accanto al borgo
PAOLO RONDINI
I turisti arrivati ad Alghero
possono credere di aver sbagliato
paese. Nei cartelli stradali le
vie si chiamano carrer, le piazze
plaça, le porte portal. Anche
il dialetto della città che i suoi
abitanti chiamano L’Alguèr
non è il Logudorese parlato nel
resto della provincia di
Sassari, ma una forma arcaica
di catalano: la lingua
di Barcellona e delle Baleari.
Tra le comunità “straniere”
immigrate a partire dal
Medioevo in Sardegna (liguri a
Carloforte, ponzesi a Cala
Gonone, còrsi alla Maddalena),
quella dei catalani di Alghero
è la più consistente. A far
traversare loro il mare, dal
1355, furono gli Aragonesi che
avevano conquistato da poco
l’isola. Scopo dichiarato, “tenir
apretada e sotmesa la naciò
sarda”. Per un secolo, come i
neri nella Johannesburg prima
di Mandela, i sardi furono
ammessi in città solo dall’alba
al tramonto. Per lavorare.
La ricchezza e l’importanza
militare della Alghero catalana
si manifestano ora nel gotico
della chiesa di San Francesco,
del suo chiostro e del Duomo di
GIANMARIO MARRAS
ALGHERO,
ECHI DI CATALOGNA
punti di particolare
interesse dell’itinerario
di Tramariglio si trova l’ingresso dell’Arca di Noè. La successiva salita porta al piazzale del Belvedere, affacciato sull’Isola Foradada, da cui
comincia il sentiero (un’ora e mezzo tra andata e
ritorno) per la torre della Pegna. La strada termina al piazzale di Capo Caccia da dove parte
la Escala del Cabiròl. L’estremità del promontorio è un’area militare e chiusa al pubblico.
IL PITTORESCO CENTRO STORICO
DI BOSA, AFFACCIATO SUL TEMO
E DOMINATO DAL CASTELLO.
MASSIMO DEMMA
Il grifone ha appena finito di lisciarsi le penne.
Avverte il refolo buono e si lascia cadere nel vuoto
ad ali aperte. Scivola verso l’alto, e l’orizzonte si
spalanca. Di fronte a un mare intensamente blu, si
estende la lunga dorsale carsica che unisce Punta
Cristallo al monumentale spuntone di Capo Caccia.
Di qua le due grandi isole, la Piana e la Foradada;
di là invece un dolce avvallamento
occupato in parte da una pineta artificiale:
lo chiamano l’Arca di Noè ed è
un piccolo eden ricco di fauna (anche
cavalli della Giara e asini albini
dell’Asinara) e di eccezionali
specie botaniche, come un
vasto tappeto di centaurea
LA COSTA A NORD DI BOSA (SI
RICONOSCE TORRE ARGENTINA)
BATTUTA DALLA MAREGGIATA.
GRIFONE
(GYPS
FULVUS)
PERNICE SARDA
(ALECTORIS BARBARA)
orrida, astragali e pulvini di ginestra corsica,
circondato da palme nane e ginepri contorti.
ORA IL GRANDE RAPACE fa rotta verso sud e punta
su Capo Marargiu. Il paesaggio, scosceso e
precipite, è tipicamente pastorale. Nelle dorsali più
spoglie sono sopravvissuti solo alcuni lecci
modellati dalla furia del maestrale. È posto buono
per pernici, lepri e conigli selvatici. Vi abbondano
piccoli roditori e rettili, per la gioia di poiane
e gheppi. Doppiato Capo Marargiu sarà l’andesite,
antica roccia vulcanica con molte sfumature,
a comporre il paesaggio generosamente coperto di
lentisco e di olivastro. Il pascolo è brado, così
capita spesso che un capo vada a male. Della sua
presenza si accorgeranno per primi i corvi
imperiali e le cornacchie grigie. Poi sarà il turno
della volpe. Infine arriveranno loro, i grifoni.
I rapaci si alzano nella tarda mattinata, quando
l’aria riscaldata dal sole offre le correnti
ascensionali che li sostengono senza fatica.
sempre più antropizzata di Alghero e anche dalla piana bonificata della Nurra, diventata ormai da qualche decennio una
delle zone agricole più fertili di
tutta la regione.
Trenta chilometri più a sud, il
paesaggio è completamente diverso.
Fra le creste e i torrioni rocciosi
di Monte Mannu e il tranquillo
centro storico di Bosa, si affacciano sul Mar di Sardegna lo stesso
basalto e le stesse querce da sughero che formano verso l’interno gli altipiani di Abbasanta e
della Campeda. Muri di pietre
costruiti dai pastori con fatica secolare separano i fazzoletti (verdi per gran parte dell’anno, gialli e riarsi in estate) dei pascoli e
dei campi. Quando il maestrale
soffia e il cielo appare corrucciato, è facile immaginare di essere
in Cornovaglia o in Irlanda.
Tra Cala Griecas, Capo Marargiu, Torre Argentina e Bosa, si
viaggia lungamente senza incontrare tracce di presenza umana. Qui, al contrario che a Capo
Caccia, il grifone gode di ottima salute. Lo confermano le strisce bianche degli escrementi che macchiano la roccia e segnalano che ci sono
dei nidi, fatti con rami, frasche e asfodeli sulle pareti di Badde Orca e
del Monte Pittada. Ogni giorno gli avvoltoi si lanciano in volo verso la
strada costiera, sorvolano Bosa e la foce del Temo, prendono quota
con larghi centri concentrici. Quindi virano decisamente a oriente, e
puntano verso i pascoli degli altipiani dell’entroterra. Lì trovano le
carcasse di pecore e capre di cui hanno bisogno per nutrirsi.
“Anche quest’anno è andata bene”, sorride Saverio Biddau, la
guida naturalistica di Bosa che condivide con l’amico Antonello Cossu il difficile ruolo di guardiano dei grifoni. “All’ottantina di adulti che hanno costruito i loro nidi sulla costa si sono aggiunti una dozzina di piccoli che hanno preso il volo a primavera. Pure stavolta birdwatcher,
escursionisti e fotografi sono stati attenti. Se ci si apposta come si deve, e si conoscono i luoghi, i grifoni adulti possono essere osservati
senza problemi. Avvicinarsi ai nidi nel periodo della cova, invece, può
provocare la fuga dei genitori e la morte per fame dei piccoli”.
“Ho iniziato a fotografare i grifoni trent’anni fa, tra le rocce del Supramonte. Poi la diminuzione delle pecore e dei pastori li ha cacciati
dalle montagne dell’interno. Ora vengo a cercarli qui, sul litorale di
Bosa, dove gli avvoltoi sembrano destinati a durare”, spiega Domenico Ruiu, il più noto fotografo di animali dell’isola. Chissà se un giorno, anziché dirigersi nell’entroterra, qualche giovane grifone nato
sulle falesie di Bosa spiccherà il volo per ritornare a Capo Caccia.
DOMENICO RUIU (2)
FRANCO TESTA
APPUNTI DI NATURA
SOLO POCHI ALBERI RIESCONO
A RESISTERE ALLA FORZA DEL
VENTO, COME QUESTO LECCIO
SCARNIFICATO DAL MAESTRALE
SUI PENDII DEL MONTE MANNU.
IL CONTATTO
Per vedere i grifoni, conviene
affidarsi alle guide Saverio Biddau
( 0347 7691333) e Antonello
Cossu ( 0347 5482718).
Informazioni sull’Arca di Noè si
possono richiedere all’Ispettorato
delle Foreste di Sassari ( 079
2088940). La Cooperativa
Dulcamara ( 079 999197)
raggruppa una dozzina di aziende
agrituristiche della Nurra.
LA COSTA DEI GRIFONI
73
EGIDIO TRAINITO
TANCHE
i muri
dell’arraffa-arraffa
TANCHE
i muri dell’arraffa-arraffa
‘‘
DI ALBANO MARCARINI
A volte il paesaggio si può paragonare a una pila di vecchi
no i lembi delle copie vecchie di mesi. Gli angoli sono un po’
DOVE SI TROVANO
Questo genere di paesaggio
si può ancora incontrare
in alcune parti degli altipiani
centro-settentrionali
dell’isola. Le zone di più fitto
impianto sono l’altopiano
di Abbasanta, il Meilogu e la
Campeda, il bordo della
Planargia. Ciò non toglie,
comunque, che il reticolo
delle tanche persista anche
in altre zone – come nel
Nuorese –, seppure in forma
frammentata e degradata.
76
TANCHE
gualciti, le pieghe non sono più perfette, la carta è ingiallita. Così è
per certi paesaggi che non reggono il peso della modernità. Ne restano schiacciati ma talvolta, ai margini o negli interstizi, conservano
elementi di continuità, qualche nesso con il passato. Sono quelle piccole cose – un sistema di disporre i campi o erigere case, l’uso dei
materiali, una data vegetazione, una geomorfologia – che in origine, e
in modo ben più importante, erano servite a identificarlo come “un”
paesaggio, diverso da altri.
Alcuni studiosi chiamano gli
effetti di questa progressiva involuzione “archeologia del paesaggio”. Non si limitano a cercare le ultime tracce dei paesaggi
del passato, ma tentano anche di
ricostruirne le vicende, scorrendo la pila dall’alto verso il basso.
Se dovessimo applicare tale metodo alla Sardegna, l’area maggiormente indicata sarebbe quella degli altipiani centro-settentrionali
e gli oggetti di studio la tanca e il
vidazzone: due reliquati di paesaggio, di forma e struttura diversissime, ma decisivi per la
storia della Sardegna rurale.
SOPRA E A FRONTE: TANCHE A RIPOSO
E COLTIVATE SULL’ALTOPIANO DI
Per i non sardi questi termini
ABBASANTA, NELL’ORISTANESE. NELLE
suonano
forse oscuri. Ci soccorre
PAGINE PRECEDENTI: SANTA MARIA
l’agronomo Francesco Gemelli
ISCALAS A COSSOINE, NELLA CAMPEDA.
che, intorno al 1776, scrive: “Le
tanche, così appellate dal sardo ‘tancare’, cioè chiudere, sono terreni
serrati di siepe, o di muro. Intendo invece vidazzoni le terre divise ab
antiquo con una linea ideale in due o più regioni, una d’esse ogni anno destinasi alla seminagione, restando l’altra all’uso del pascolare”.
Due modi di definire lo spazio rurale, chiuso o aperto a seconda del tipo
di conduzione: privata, o “particolare”, nella tanca; pubblica e collettiva nel vidazzone. Quest’ultimo è una corruzione del termine habitacione: lo riporta la Carta de Logu, atto amministrativo della fine del
XIV secolo relativo ai terreni esclusivi di una data comunità.
Sin da epoca remota, infatti, ogni villaggio aveva terre di sua pertiNEVIO DOZ (2)
✦
‘‘
Tutta la media valle del Tirso è frammentata in parcelle, dette tancas, dalle forme irregolari, piccole
e nude quelle in prossimità dei villaggi, più vaste e cosparse di macchie e qua e là di querce da sughero quelle più lontane; tutte comunque circondate da muri nerastri formati da grossi blocchi di
basalto, che raramente presentano delle brecce e che impediscono la visuale a ogni osservatore che
non si metta in posizione più elevata, per esempio su un nuraghe.
(Alberto Mori, 1966)
nenza. L’isolamento e le condizioni naturali spingevano all’organizzazione autonoma delle comunità. I lotti lunghi e stretti del vidazzone erano
sorteggiati tutti gli anni tra i capifamiglia. Si gettava il seme in una
delle due “regioni” lasciando l’altra a riposo, ripasciuta per 12 mesi
dal pascolo degli ovini. “Ci fu un tempo, non molto lontano”, sintetizza lo scrittore Salvatore Cambosu in Miele amaro, “in cui la terra era
aperta come un mare, dove pastori e contadini affrontavano le stagioni, godendola sotto consuetudinarie intese, e spartizioni rotatorie: in
una specie di comunismo rurale”. Riservate alle vigne, agli orti, agli
uliveti che cingevano da vicino il villaggio, le tanche avevano una distribuzione più limitata; gli unici latifondi riguardavano le terre più
lontane e accidentate, dominio assoluto dei pastori transumanti.
Questo prevalente sistema dell’uso collettivo delle terre superò usurpazioni feudali, aggressioni coloniche esterne e ogni altro tentativo di
spoliazione arrivando intatto alle soglie dell’Ottocento. Il suo improvviso scardinamento avvenne con la legge delle Chiudende, emanata il 6
ottobre 1820 da Vittorio Emanuele I. Il provvedimento, sostenuto tacitamente dai pochi grandi possidenti e, in buona fede, da chi pensava
che lo sviluppo della proprietà privata fosse uno strumento di progresso, diede facoltà ai Comuni di frazionare il loro demanio, ven-
LEGENDA
1 il reticolo delle tanche nella
campagna di Abbasanta:
allontanandosi dal centro abitato,
aumenta l’estensione degli
appezzamenti cintati. I punti rossi
indicano i nuraghi.
2 ricostruzione del vidazzone nei
pressi di Muravera. Le terre, di
proprietà comune e sorteggiate
ogni anno, erano in parte lasciate
a pascolo e in parte coltivate.
PAOLO RONDINI (2)
giornali. Giorno dopo giorno, la pila aumenta. Sotto, spunta-
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strade asfaltate
sentieri bordati
da muri
muri a secco
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seminativo
pascolo
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1
2
MASSIMO DEMMA
UPUPA
(UPUPA
78
EPOPS)
TANCHE
UNA DELLE ROCCE VULCANICHE
DI
invito alla visita
Circondata da muretti di pietra,
lei stessa tutta in pietra, la chiesa di Santa Maria Iscalas domina la campagna di Cossoine,
circa 40 km a sud di Sassari. Da
qui può partire un giro – in bicicletta o in auto – che, cercando
ciò che resta del sistema delle
tanche, porta a scoprire un paesaggio rurale di rara suggestione. Da Santa Maria Iscalas si
va a imboccare verso nord la
Carlo Felice (principale arteria
dell’isola) fino a Giave, dove si
possono vedere i pinnetti, piccoli edifici rustici coperti in pietra quasi a imitare le rocce vul-
caniche sparse nella campagna.
Da qui a Bonorva (visitare il
museo archeologico) e poi, con
una deviazione, al paese-fantasma di Rebeccu: un pugno di
vicoli stretti e vecchie case in
pietra abbandonate. Nella piana sottostante, decine di appez-
SPARSE NELLA CAMPAGNA
GIAVE, NEL LOGUDORO.
EGIDIO TRAINITO
dendolo, affittandolo o addirittura regalandolo a privati. Il muro o la siepe servirono per circoscrivere e difendere i nuovi diritti acquisiti. E vennero dei momenti in cui il muro fu il riparo dietro al quale asserragliarsi armati,
perché, come si può intuire, si
verificarono abusi di ogni genere, aggravati dalla mancanza di
qualsiasi censo o catasto.
La legge non diede i risultati
dichiarati. I contadini non avevano i capitali per sfruttare i fondi; molti non furono neppure in
grado di realizzare le chiusure,
indispensabili per legittimare le
proprietà. Per i possidenti e per
quanti godevano di una certa
autorità fu gioco facile incamerare a prezzi irrisori ciò che i più
miseri non potevano mantenere.
Si diffuse un detto, valido evidentemente per pochi: “Qui hat
tanca hat banca” (Chi ha tanca ha
“tavola”, ossia è benestante).
Così, l’immobilismo e l’arretratezza che si volevano combattere diventarono invece prassi comune
e nel chiuso orizzonte della tanca si retrocedette spesso all’incolto o al pascolo brado. Infinite
le ricadute negative: il riaprirsi
dell’atavico astio con i pastori
PIETRE IN EQUILIBRIO APPARENTEMENTE
(costretti a pagare per accedere
PRECARIO NEL MURO DI UNA TANCA
ai pascoli chiusi), la discontinua
SULL’ALTOPIANO DI ABBASANTA. NELLA
vocazione colturale e la polvePIANURA, DOVE NON C’ERA PIETRA,
LE TANCHE ERANO DELIMITATE DA SIEPI.
rizzazione (attraverso le eredità)
dei fondi, la nascita di un proletariato alla mercé dei padroni. Nel 1860 il Nuorese fu teatro di una
sommossa popolare (detta del Su connottu, “il conosciuto”) che rivendicava il ripristino delle antiche consuetudini, ritenute più eque.
Ma la conseguenza più visibile fu la trasformazione di migliaia di ettari
di campagne aperte in una frastagliata maglia di campi cintati. Vennero impilati miliardi di pietre per centinaia di chilometri, a volte per perimetrare proprietà d’infime dimensioni. Se in pianura, non disponendo di pietre, le tanche si dividevano con le siepi, negli altipiani la
presenza dei muri diventò ossessiva. Ne furono assoggettati i tavolati vulcanici centro-occidentali, il Nuorese, le colline dell’Anglona, del
Logudoro e del Sassarese. Ne rimasero esenti la Barbagia e il Gerrei,
terre a prevalenza pastorale, e le pianure meridionali.
Dopo le riforme fondiarie del dopoguerra, le ricomposizioni e la
mai troppo deprecata disattenzione verso questi segni della memo-
zamenti agricoli testimoniano
le successive divisioni di proprietà che hanno scomposto il
paesaggio sardo. Tornati sulla
strada principale, il giro finisce
a Sant’Andrea Prius, la cui
necropoli con le Domus de Janas (tombe ipogee scavate nella
trachite) è uno dei siti archeologici più importanti e forse meno noti della Sardegna. (E. T.)
PAOLO RONDINI
Probabilmente nessuno saprà
mai quanti chilometri di
muretti a secco percorrano le
campagne, le colline e gli
altipiani rocciosi dell’entroterra
sardo. Incredibile per
estensione, questo ambiente
artificiale è stato evidentemente
apprezzato da una
moltitudine di piccoli animali:
rettili, uccelli e mammiferi ci
vivono dentro, vi si riproducono
e vi trovano rifugio.
L’UCCELLO più caratteristico è
l’upupa, inconfondibile
per il volo sfarfallante, che
depone le uova e alleva
i figli nelle nicchie tra i sassi.
Non occorre il suo andirivieni
a segnalare la presenza del
nido, basta usare l’olfatto:
il suo odore forte e acre non
può passare inosservato.
A minacciare il nido dell’upupa
ci pensa un altro inquilino
dei muretti a secco: la donnola.
Piccola e furtiva, trova
anch’essa rifugio tra le pietre,
dove spesso sceglie anfratti
grandi abbastanza per farne la
propria tana e partorire.
BIACCHI E LUCERTOLE escono
dai loro nascondigli quando
la temperatura sale. Il
rettile più particolare che si può
incontrare sui muretti a secco
dell’isola è però l’algiroide
nano (Algyroides fitzingeri).
Endemico di Sardegna
e Corsica, è davvero un peso
piuma, lungo solo 4 cm (coda
esclusa). Pure il tarantolino
(Phyllodactylus europaeus) di
giorno si nasconde nei pertugi
delle tanche: geco di abitudini
unicamente notturne, è tipico
delle isole del Tirreno e si
distingue dagli altri gechi per il
colore scuro, le punte delle
dita allargate e la coda rigonfia,
quando, come spesso accade,
è rigenerata.
(Egidio Trainito)
NEVIO DOZ
APPUNTI DI NATURA
ria, dell’immensa trama petrosa restano solo alcuni brani. A guardarli non
rendono la dimensione del fenomeno, però forse bastano a spiegarlo.
Bisogna tuttavia salire l’altopiano di Abbasanta, aggirarsi per le campagne di Borutta nella zona del Meilogu, scandagliare la Campeda
fra Macomer e Bonorva. Lì, forse, di fronte all’avida pretesa di un
possesso mai scritto sulle carte, anche se fisicamente tracciato sulla
terra, si possono capire le crude parole di un vecchio ritornello sardo:
“Tancas serradas a muru/fattas a s’afferra-afferra/si s’ifferru esseret terra/si
haìan serradu puru” (Tanche cinte da muro/frutto dell’arraffa-arraffa/se all’inferno ci fosse terra/avrebbero recintato pure quella).
PER SAPERNE DI PIÙ M. Le Lannou, Pastori e contadini di Sardegna, Edizioni della Torre, Cagliari, 1992. A. Terrosu Asole, “I paesaggi d’altipiano e il mondo pastorale”, in La Sardegna, vol. I, Edizioni della Torre, 1982. L. Del Piano, La sollevazione delle Chiudende, Cagliari, 1971.
TANCHE
79
VITTORIO GIANNELLA
PISCINAS
il nostro Sahara
VITTORIO GIANNELLA
PISCINAS
il nostro Sahara
DI METELLO VENÈ
“È stata un po’ come una storia d’amore, di quelle brevi e violente, che ti rimangono per sempre qui”. La manona tocca il
cuore e il Grande Arrabbiato, con le iniziali maiuscole come
PROTETTA
82
PISCINAS
‘‘
‘‘
piace a lui, si riscopre Grande Innamorato. Di più: “Prigioniero di
una magia che mi terrà avvinto a sé fino all’ultimo dei miei giorni”,
dice Giampaolo Pansa, 66 anni, condirettore de L’Espresso, notista
✦
politico al vetriolo e scrittore di rara maestria. Travolto da un’insolita passione nell’azzurro mare di Sardegna: non donne, ma dune.
Quelle di Piscinas, in Costa Verde: 5 chilometri quadrati di Sahara
in provincia di Cagliari, maestose colline d’ocra alte fino a 60 metri che il
vento ha cesellato granello su granello e la natura ha guarnito qua e
là di erbe spartane e ginepri secolari. “In Italia non c’è nulla di più
DOVE SI TROVA
bello”, gongola l’illustre Stregato dalla Duna. E ti racconta di un
amore nato nel più classico dei modi: la voglia di vacanza, un conoL’area di Piscinas occupa
scente che fa le presentazioni... “Un giorno di pochi anni fa ti leggo
circa 5 chilometri quadrati
un trafiletto di un collega che parla di un paradiso di sabbia e mare
lungo la Costa Verde
cristallino, con in mezzo uno strano alberghetto ricavato da un anti(Sardegna sud-occidentale), a
co deposito minerario. Così, a scatola chiusa, ho prenotato una cacirca 100 chilometri da
mera per qualche giorno: avevo in mente la trama di un nuovo roCagliari. È attraversata dal
manzo e tanto bisogno di un posto tranquillo”.
Rio Piscinas e dal Rio
Il seguito della storia è scritto proprio fra le righe di quel romanzo,
Naracauli. I centri abitati
uscito nel 1998 e appena ristampato: Ti condurrò fuori dalla notte (Sperpiù importanti della
ling Paperback, 14.500 lire). Trama: un giornalista del Corriere della
zona sono Arbus e Guspini.
Sera sparito nel nulla, un’intraprendente ragazza francese che lo cerca. E lo trova: fuggito da tutto e da tutti, indovinate un po’ dove? “In
NELLA PAGINA A FRONTE: LO
verità, pensavo di farlo finire in Maremma. Ma un paio di giorni a PiSPARTO (AMMOPHILA LITTORALIS),
PIANTA TIPICA DI QUESTI AMBIENTI,
scinas sono bastati a farmi cambiare idea: il luogo ideale per esiliarsi
CONSOLIDA LE DUNE. PAGINE
dalla realtà non poteva essere che qui”.
PRECEDENTI: LA MOLE DELLE DUNE,
E già lo immagini, mentre pensa, e scrive, e arranca sugli immensi
ALTE FINO A 60 METRI, SI STAGLIA
pendii sabbiosi, ed entra in un mondo “che ti accoglie e ti parla”. Il
SUL VERDE DELL’ENTROTERRA.
fustigatore dei piani alti del Palazzo che cede ai piani alti della
Costa Verde, “le dune come regine
COME È
che mostrano al mare le loro corone
L’area delle dune fa parte della Riserva naturale del Monte Arcuentu
di ginepro”. Il cronista di razza
e Rio Piscinas, che si estende per 10.972 ettari;
che si appassiona, e, pur ribaa sud confina con la Riserva naturale di Capo Pecora, promontorio
dendo “non sono un ecologo”,
tufaceo (con imponenti cordoni di dune) di 1.659 ettari.
trascorre le serate a documentarNel cuore del piccolo Sahara sardo, l’antico deposito minerario
collegato alla miniera di Ingurtosu, oggi trasformato
si nella piccola biblioteca delin un alberghetto, è stato dichiarato monumento nazionale
l’Hotel Le Dune, l’alberghetto ex
(1985) dal ministero dei Beni Culturali
deposito che da queste parti è
per il suo particolare interesse storico e artistico.
un esempio di come archeologia
Angela era tesa a un solo obiettivo: scorgere la striscia azzurra del mare, sotto il globo rosso del sole che si avviava al tramonto. E di lì a poco, finalmente, si rese conto di essere al
primo traguardo del suo viaggio: una calma distesa d’acqua, di un bel grigio lucente, e attorno la perfezione delle dune, macchiate di arbusti verde scuro, mentre la sabbia le sembrò
una crema spalmata dovunque, di colore identico a quello del cappuccino con la panna.
Ma qualche istante dopo, Angela fece la prima delle tante scoperte che il mondo di Piscinas teneva in serbo per lei: le dune possedevano mille facce, e le esibivano una dopo l’altra
in un batter d’occhio, per ordine del sole e del cielo. Difatti, nell’avvicinarsi all’albergo, la
sabbia le parve già più scura, quasi marrone, la pelle liscia di un enorme e pacifico animale, sdraiato ventre a terra per scrutare il mare.
(Giampaolo Pansa, 1998)
FRANCO TESTA/COLL. NATTA
GRUCCIONE
(MEROPS APIASTER)
84
PISCINAS
industriale e turismo possano andare d’amore e d’accordo.
Perché nasce la duna? In che modo il vento costruisce castelli di
sabbia che cambiano forma ma non cascano mai? Fa un certo effetto
sentirselo spiegare da uno che non s’è mai occupato di ecosistemi,
ma la competenza acquisita scarpinando tra mare e montagna è indiscussa: “Volevo impadronirmi del segreto di un piccolo universo,
dove tutto sembra finito e, invece, tutto è rimasto vivo”. Finito come
il mondo minerario, di cui pure Piscinas fa parte (vedere il servizio a
pagina 56); vivo come le dune, le sue piante e i suoi animali. E allora
ecco la storia del vento, che per millenni soffia da nord-ovest e rintuzza la sabbia verso l’entroterra; ecco i cumuli color crema colonizzati da vegetali psammofili (letteralmente,
amici della sabbia): la gramigna delle spiagge, lo sparto pungente, i ginepri che si prostrano
assecondando le raffiche. Piante che chiedono
poco, sopportando alti tassi di salinità e facendo quasi a meno dell’acqua, e danno molto: è il fitto reticolo delle loro radici, infatti,
DOMENICO RUIU
SOPRA: UN RAMO SECCO CREA DELICATI GIOCHI D’OMBRA SULLA SABBIA DELLE DUNE. A FRONTE: CERVI (UNA FEMMINA
CON IL CERBIATTO E UN MASCHIO) NELLA MACCHIA CHE SI ESTENDE ALLE SPALLE DELLE DUNE DI PISCINAS.
QUASI STERMINATA, LA SOTTOSPECIE PROPRIA DELL’ISOLA (CERVUS ELAPHUS CORSICANUS) È OGGI IN NETTA RIPRESA.
Lo scenario fatato di Piscinas si spalanca
all’improvviso davanti agli occhi del visitatore che
percorre la strada. Questa scende in strette
curve, fra ruderi spettrali e bosco magnificamente
invadente, da Montevecchio, paese-mausoleo
dell’epopea mineraria. Le dune si ergono alte e si
allontanano per più di 3 chilometri dal mare,
insinuandosi nel bosco e nella rigogliosa macchia.
La sabbia, sottilissima e ambrata, copre
tutto, assecondando gli umori dei venti, così che
il paesaggio è perennemente mutevole. A dare
fissità ci provano tenaci lentischi, cespugliosi ginepri
coccoloni, filliree, corbezzoli e rudi olivastri,
resi striscianti dalla violenza dei venti. Cannucce
selvatiche, sparse tamerici e giunchi indicano
che in passato c’era l’acqua. E poi euforbie e cisti, e
soprattutto una diffusa presenza floreale che,
all’approssimarsi della precoce primavera, spruzza
di colori la sinuosa coltre dorata. Caute pernici
frequentano il limitare delle dune, mentre le lepri vi
si addentrano costantemente. Come le volpi,
che scavano la tana sotto le radici dei ginepri. In
primavera arrivano i gruccioni, che nidificano
a frotte nei pressi del vicino rigagnolo. Topi selvatici,
scarabei, piccoli passeriformi tessono trame di segni
sulla sabbia, per testimoniare la vita sulla duna.
MA LA SCARICA PESANTE di adrenalina al naturalista
curioso l’assicura la visione delle evidenti tracce
del cervo sardo (Cervus elaphus
corsicanus). Orme inconfondibili
svelano lunghe traversate
allo scoperto, raccontando una
frequentazione che parrebbe
fuori luogo soltanto immaginare.
Scampato a uno stermino
che sembrava incombente, il cervo
sardo sta conoscendo qui nuova
abbondanza. Diversi esemplari
vivono ai confini delle dune, che
attraversano regolarmente,
offrendo all’osservatore paziente
e fortunato un’emozione
indescrivibile.
(Domenico Ruiu)
‘‘
DANIELE PELLEGRINI
APPUNTI DI NATURA
Angela comprese di essere soltanto una formicuzza al cospetto della Grande Duna: un’entità che ti catturava,
ti rimpiccioliva e ti annullava. Si fermò a osservare Viotti che marciava più spedito ed era già abbastanza lontano, dentro la vallata di sabbia costeggiante il bastione rivolto all’hotel. Gli sembrò un microscopico bambino
che procedeva lasciandosi alle spalle orme come capocchie di spillo. E destinato, di lì a poco, a diventare invisibile sullo sfondo della piana di Piscinas.
(Giampaolo Pansa, 1998)
che consolida e stabilizza la duna, un po’ come succede con l’intelaiatura metallica nel cemento armato.
“Con la storia di documentarmi per ambientare il libro, in quel periodo a Piscinas ci sono tornato spesso, in ogni stagione”, rivela Pansa. E dall’album dei ricordi saltano fuori, nell’ordine: i bagni in piena
estate nell’acqua “di un turchese perfetto, ma calda no”; l’escursione
in una notte d’inverno per scovare i cervi sardi (vedere anche il riquadro a pagina 85), con “i loro occhi brillanti nel buio, piccoli faretti fissi,
o gemme fosforescenti”. E un paesaggio che contrappone la mobilità nervosa della duna, mai uguale a se stessa, pronta a cambiar forma e colore a seconda di come la accarezzi il sole, all’immutabilità
assoluta del mare. “Ho letto da qualche parte che piace a chi invecchia proprio perché è sempre lo
stesso e non ti fa pensare al tempo
che scorre. Il tempo qui è fermo”, dice Pansa. E l’ha fatto dire pure a
Bruno Viotti, quello del libro, quel
giornalista Stregato dalla Duna che
gli assomiglia fin troppo e, guardacaso, è protagonista “del romanzo che mi è più caro”.
PAOLO RONDINI
IL TRACCIATO DEL BREVE
ITINERARIO CHE PROPONIAMO.
PAGINA A FRONTE: GLI UNICI MODI
PER ESPLORARE LE DUNE SONO
A CAVALLO O, COME QUI, A PIEDI;
NON SONO ASSOLUTAMENTE
AMMESSI I MEZZI MOTORIZZATI.
invito alla visita
Chi va a Piscinas non può fare
a meno di pernottare (o quantomeno fare una visita) al suggestivo Hotel Le Dune ( 070
977130, fax 070 977230). Ricavato da un deposito minerario
della vicina miniera di Ingurtosu, grazie all’intraprendenza
del proprietario Sergio Caroli,
ospita tra l’altro un’interessante biblioteca sulla zona. Da non
perdere, inoltre, la vicina cittadina di Guspini.
LA BANCA DEL TEMPO Si trova
proprio a Guspini. Scopo: “raccogliere il patrimonio dei cittadini (non quello finanziario ma
l’altro, quello delle idee e della
86
PISCINAS
DOMENICO RUIU
SOTTO:
memoria) e reinvestirlo in verde urbano” (da Montevecchio,
edito dal Comune di Guspini, lire 15.000). Così un’area abbandonata ai margini della città si
è trasformata in giardini a tema: c’è l’Aiuola dei ricordi,
con la bicicletta e i ferri del mestiere dell’ex minatore Angelino; il Giardino delle donne del
mondo, con canti, poesie e favole raccontati da ragazze di tutte le età; il Giardino del Paradiso, con le piante e le essenze
dell’Antico Testamento; e addirittura il Giardino della “libridine”, aiuole dedicate a libri e notizie utili. Info: 070 974362.
A CAVALLO SULLE DUNE Esplorare le montagne di sabbia
di Piscinas a piedi è affascinante, ma piuttosto faticoso. Una
buona alternativa è una bella
cavalcata che, partendo dai dintorni di Guspini, arrivi praticamente sul mare (vedere la cartina). La proposta è del Centro
ippico Grazia Deledda ( 338
5443679; minimo 5-6 persone,
prezzo da concordare), situato
in località Coa Nueddas, a un
paio di chilometri dal centro abitato. Si comincia seguendo una vecchia ferrovia, attraversando le interessanti strutture
minerarie di Montevecchio; poi
ci s’immette nel bosco (si può
anche incontrare il cervo sardo)
e si costeggia il Rio Piscinas fino alle dune. Il tempo di percorrenza dell’itinerario è di circa 4
ore. A seconda delle esigenze, si
può fare colazione e cena al sacco oppure al ristorante.
I CONTATTI
Per qualsiasi informazione
turistica sulla zona di Piscinas,
Guspini, Montevecchio e Arbus
si può contattare
Informacittà ( 070 972537;
valido anche per chiedere
una guida naturalistica, utile
soprattutto se si vogliono
organizzare escursioni per
vedere i cervi) oppure
Promoserapis ( 368 53899).
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