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l`immagine del leader il corpo del potere dalla fotografia al cinema

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l`immagine del leader il corpo del potere dalla fotografia al cinema
Dipartimento Comunicazione e Spettacolo
Dottorato di ricerca
Il cinema nelle sue interrelazioni con il teatro e le altre arti
L’IMMAGINE DEL LEADER
IL CORPO DEL POTERE DALLA FOTOGRAFIA
AL CINEMA
Dottorando
Tutor
dott. Giovanni Curtis
prof. Marco M. Gazzano
Scuola Dottorale Culture e trasformazioni della città e del territorio
XXII
ciclo – a.a. 2008-2009
L’IMMAGINE DEL LEADER
IL CORPO DEL POTERE DALLA FOTOGRAFIA AL CINEMA
INDICE
INTRODUZIONE
4
1.0 CORPI NORMATIVI
12
1.1 Il “trattamento” della Storia
13
1.2 Quattro ‘p’ per definire un leader
1.2.1 Personalizzazione
1.2.2 Potere, propaganda, persuasione.
16
16
19
1.3 Leader e Carisma
1.3.1 Un carisma multidisciplinare
1.3.2 Carisma e new media
22
23
26
1.4 Prospettare il corpo
1.4.1 Il corpo notevole del notabile
1.4.2 Il potere e la disciplina
28
30
32
1.5 Corpo docile e normatività
1.5.1 Le pose della sofferenza. Tempesta su Washington
35
41
1.6 Nel limbo tra aristocrazia e borghesia
1.6.1 Preludio alla dittatura. L’occhio di Salomon sui “retroscena” delle classi dominanti
43
46
1.7 La normatività del tiranno. Il caso italiano
1.7.1 Il “totalitarian” look del fascismo
48
49
2.0 UMANO/NON UMANO. IL CORPO TRA RELIGIONE E POLITICA
57
2.1 Tra sacrale e grottesco. Il corpo del Divo Giulio
2.1.1 C’è storia e Storia
2.1.2 Il monologo del Divo
2.1.3 Rilievi sul corpo del testo
2.1.4 Le conseguenze della passione
2.1.5 Il fanciullo Pomicino
58
61
63
66
68
72
2.2 I corpi democristiani di Todo modo
2.2.1 Leader in convento
2.2.2 L'immagine di Moro pre e post mortem
74
74
79
2.3 Inquadrare il Sacro
2.3.1 In equilibrio precario. San Giuseppe da Copertino e il cinema
2.3.2 La costituzione di Cristo in The King of Kings
82
83
87
2.4 L’immagine dei papi
2.4.1 Dalla fotografia al cinema. Da Pio IX a Leone XIII
2.4.2 Pio XII. Comunicazione Corpo Carisma
93
97
101
2
3.0 CIÒ CHE SFUGGE AL CONTROLLO
105
3.1 Corpi sotto controllo
3.1.1 L'organismo che trapela. Frost/Nixon. La sfida
106
113
3.2 I corpi in divenire del grottesco
3.2.1 Il cinema civile tra realismo e caricatura
3.2.2 La scomposizione caricaturale
3.2.3 L’animalizzazione del potere
116
122
126
130
3.3 Documentare il Re nudo
3.3.1 Rendere grottesco il tiranno
3.3.2 I “realismi” staliniani di Čiaureli
3.3.3 Sokurov, l’eroe e il cameriere
133
138
143
150
3.4 L’ossimoro del privato pubblico
3.4.1 Berlusconi l’italiano medium
3.4.2 Il riuso dei corpi tra arte e spot
3.4.3 Lo sguardo della contemporaneità
156
160
167
171
IMMAGINI
175
BIBLIOGRAFIA
184
FILMOGRAFIA
191
Ringrazio colleghi e compagni del dottorato per la loro cara amicizia in questi anni di
condivisione di lezioni, di studio, ma anche di qualche piacevole distrazione. Un
grazie di cuore ai docenti del DI.CO.SPE., e in special modo a Giorgio De Vincenti e
a Veronica Pravadelli per il prezioso e puntuale lavoro di coordinamento. Ringrazio
con particolare gratitudine il mio tutor, Marco Maria Gazzano, per gli utili consigli e la
premura con cui ha seguito l’evolversi di questo lavoro.
3
INTRODUZIONE
Questo studio mira a definire il senso assunto dalla composizione delle
immagini, quando il soggetto rappresentato è un cosiddetto leader. Si parte dal
presupposto che il corpo sia un’interfaccia con l’esterno, il mezzo attraverso cui si
agisce e si comunica con ciò che ci circonda, si sceglie così di osservarlo
specialmente quando diventa espressione d’una leadership che esercita il o un
potere. Per leader si può intendere infatti un personaggio autorevole in campo
industriale, religioso, culturale e soprattutto politico, in grado di rappresentare una
sorta di guida morale, o per le sue qualità carismatiche o, più semplicemente, per il
fatto di occupare un posto di prim’ordine o capace di orientare con le sue idee il
pensiero corrente.
Una ricerca su un oggetto di questo tipo richiede, a nostro parere, di far
riferimento anche a studi di diverso ambito come quelli sociologici, politologici o
storici. Del resto è noto come molte di queste discipline abbiano già da anni iniziato a
prendere in considerazione, nelle loro indagini, i materiali fotografici e audiovisivi. Si
pensi a quanto siano frequenti le riletture degli avvenimenti della vita sociale del
passato che traggono spunto dalla testimonianza di immagini tratte dagli archivi. È
ormai vasta la produzione televisiva ed editoriale frutto del lavoro di consulenza degli
storici in cui la descrizione degli avvenimenti è spiegata per mezzo di materiale
visivo.
Un simile tema richiama, e forse ”pretende”, dunque, un approccio
interdisciplinare, come si evince soprattutto nella parte iniziale del testo, in cui lo
stato dell’indagine, in particolare di quella sociologica e storiografica, risulta
imprescindibile in una ricerca che finora ha paradossalmente interessato poco e
marginalmente il campo degli studi sul cinema. È dunque lo stesso oggetto
dell’indagine a richiedere, invertendo ma solo in apparenza quanto affermato da
Ricoeur, un metodo che si apra alla comparazione tra linguaggi e tra orientamenti di
studio anche molto diversi come la psicologia, la politologia o la sociosemiotica.
Questa ricerca, che non ha pretese di esaustività neppure per campi parziali
d’applicazione, tenta altresì di svelare, scomponendole e decostruendole, le
connotazioni culturali, ideologiche e sociali che agiscono nella rappresentazione che
si dà del leader. Anche gli oggetti d’analisi che saranno utilizzati per questo studio
4
sono stati nella gran parte scelti tra quelli più incisivi, ma al tempo stesso
rappresentativi delle tendenze culturali del tempo in cui sono stati prodotti. Ciò è
essenziale soprattutto in una ricerca di questo genere, che tende a trovare un
equilibrio funzionale tra sincronia e diacronia e tra la ricerca di sistemi codificati e
l’esigenza, propria di un tale tema, di studiare singoli avvenimenti verificatisi in un
fluire storico. Possiamo pensare a questi come a dei “punti in rilievo” come al kairós,
al “momento opportuno”, quello che dà gli spunti all’analisi. Nel cinema, ad esempio,
similmente nella musica, gli accenti ritmici divengono un “segnale” per lo sguardo
dello spettatore che avverte di trovarsi di fronte a una sottolineatura di senso.
Corpo, leader, carisma. Tre termini da cui si partirà per tentare di andare al di là
delle più note definizioni e provare ad articolare un discorso più ampio. Uno degli
obiettivi di tale studio è infatti quello d’individuare, attraverso una serie d’esempi
visivi, le pratiche e le strategie attuate nel campo della fotografia e del cinema – con
analisi rivolte tanto al profilo linguistico, quanto all’ampia varietà delle sue forme
espressive e di comunicazione – utilizzate per enfatizzare o ridimensionare le qualità
di un personaggio.
Particolare attenzione sarà dedicata al leader come corpo espressione di
potere, il corpo cioè di colui che è in grado di dettare le regole nell’ambito delle sue
competenze. Se ne studierà il carisma, termine complesso e vago di etimologia
greca, che fa riferimento al potere fascinatorio esercitato da una persona. La
rappresentazione del potere passa nella maggior parte dei casi attraverso un corpo
che ne diviene l’emblema. Tutti requisiti che in genere si formano e si stabilizzano
con il tempo.
Un punto di partenza di questa prima parte dello studio è quello di verificare se
si possa pensare al corpo del leader come a un enunciato normativo, una figura che
possa divenire, per chi la guarda attraverso delle forme visive, un’indicazione o
perfino un’“ingiunzione” comportamentale. Crediamo infatti che sia interessante
guardare all’immagine del leader come a una costruzione simbolica e metaforica del
potere, una figura che s’innesta funzionalmente in un fotogramma che, per il
cittadino-spettatore, diviene addirittura una “indicazione” sul tipo di regime vigente e
sulle forme comportamentali che da lui quel potere rivendica.
Sempre nel primo capitolo uno studio come quello di G. Freund servirà a far
inoltrare la ricerca nel campo dell’impiego sociale dell’immagine, in connessione con
le motivazioni ideologiche che la concretizzano, sulla base del presupposto che
5
siano ideologici sia gli strumenti che costituiscono l’apparecchiatura fotocinematografica, sia il realismo imposto dalle convenzioni del mezzo1. Tanto le
immagini quanto i dipinti non sono dei riflessi della realtà, bensì attivano un processo
di distorsione che però «costituisce di per sé una testimonianza di fenomeni che
molti storici si prefiggono di studiare: mentalità, ideologia e identità. L’immagine,
materiale o letterale che sia, è una prova efficace dell’“immagine” mentale o
metaforica di sé e degli altri»2. Dunque l’immagine non rispecchia tanto la realtà se
non,
potremmo
aggiungere,
per
delle
tracce
(vedremo
poi
quali
tracce,
testimonianze, o anche effetti di realtà), ma soprattutto esprime una mentalità,
un’ideologia e un’identità culturale che si traducono in pratiche visive. Quello sguardo
per mezzo del quale gli uomini – e i leader in particolare – desiderano o pretendono
di esser “fissati”.
L’analisi di fotografie (come quelle di E. Salomon) e di film (come Tempesta su
Washington – 1962 – di O. Preminger) offriranno spunti per una definizione dei
diversi modi di rappresentare il corpo del potere soprattutto cercando di individuarne
tanto le variabili, quanto gli elementi ricorrenti posti nelle diverse opere. Alla base
dello studio c’è infatti un principio metodologico che, pur muovendo da una
prospettiva
sincronica,
non
disdegna
–
senza
giungere
a
uno
sguardo
eccessivamente storicista – una visione d’insieme che collochi il corpo e le sue
rappresentazioni all’interno di più ampi fenomeni sociali.
A tal proposito è interessante pensare a come un film quale Todo modo, di E.
Petri del 1976, richieda un approccio di questo genere. Si tratta infatti di una pellicola
che si presta a essere osservata centrando l’attenzione sul corpo dei personaggi e su
uno in particolare: quello del democristiano qualificato come Presidente dietro cui si
cela la figura reale e coeva di Aldo Moro. Insomma un personaggio tanto finzionale,
quanto connotato nella realtà. La scelta che compiremo nello studio di quest’opera e
negli altri casi esposti nella seconda parte (come quello più recente de Il divo – 2008
– di P. Sorrentino), è quella di lavorare su dei prelievi esemplari piuttosto che su dei
contributi ampi e sistematici, anche se ciò in alcuni casi comporta il rischio di
eccessive generalizzazioni o di lasciare delle parti non compiutamente indagate.
La nostra intenzione è quella di lavorare su quelle opere o segmenti di film che
divengono componenti rilevanti e carichi di senso, là dove crediamo si trovino quegli
elementi che danno significato al film. La significazione infatti può celarsi anche
1
2
G. Freund, Fotografia e società, Einaudi, Torino 1974.
P. Burke, Testimoni oculari, Carocci, Roma 2002, pp. 35-36.
6
dietro un dettaglio, anche se è preferibile parlare di spunti, che aprono a
un’interpretazione che assume i connotati di un processo. Questo infatti deve
avanzare attraverso l’esposizione di tesi comprovabili che non siano soltanto, come
nel significato medico-anatomico che si può dare al termine «processo», una
semplice “escrescenza” o una “sporgenza” sul corpus testuale.
Particolare attenzione verrà posta alle forme di comunicazione visiva attive in
quelle società che sono state sottomesse all’autoritarismo. Riteniamo infatti che sia
imprescindibile e funzionale farvi riferimento per un percorso che tenga conto delle
vicende sociali, storiche e politiche condizionanti l’immagine del potere. In tal senso i
regimi totalitari rappresentano la forma estrema, e intenzionalmente imposta, di
selezionare, bloccare e costruire una comunicazione irreggimentata. In particolare, al
di là di quanto si è già scritto in passato, è interessante porre questa problematica
all’interno di una più ampia rete di questioni e attivare dei parallelismi come quelli tra
autocrazia e regime “democratico”, o tra il corpo “religioso” e quello “politico”. Ciò
pone delle problematiche riguardanti la ricostruzione storica che viene fatta degli
avvenimenti.
Solo relativamente di recente infatti le immagini sono state considerate come
un’utile testimonianza per una valida rilettura dei fatti del passato. Fino a pochi
decenni fa facevano fede nello studio accademico degli eventi unicamente le fonti e
le cronache scritte, comprese le ricerche scientifiche precedentemente compiute.
Un fenomeno che parte infatti dalla metà degli anni ’60, con studiosi come R.
Samuel, R. Levine e altri storici, che hanno iniziato a comprendere l’importanza delle
fotografie per ricostruire la storia sociale dell’Ottocento, partendo però, in questo
caso dal “basso” della vita quotidiana delle persone comuni. La svolta però
importante e definitiva ci sarà soltanto dalla metà degli anni ’80, quando in campo
accademico si legittimerà il valore di testimonianza dell’opera d’arte rispetto a una
ricerca e a una pubblicistica specialistica, che, in precedenza, ha fatto scarsamente
uso delle fonti visive3. Da qui all’approvazione dell’immagine cine-fotografica per una
ricerca d’epistemologia storica il collegamento è quanto meno scontato. Il rischio di
deriva del senso è insito in qualsiasi giudizio che basi le sue conclusioni soltanto
sulla forma assunta dall’immagine, piuttosto che sull’ampiezza delle fonti
considerate.
Le immagini della vita quotidiana dei personaggi hanno un’importanza relativa
3
Quella che Mitchell ha definito come una “svolta pittorica” (Cfr. W. Mitchell, Iconology. Image, Text,
Ideology, Univ. of Chicago, London-Chicago 1986).
7
negli studi scientifici che puntano a ricostruire le macro-vicende storiche, mentre
mantengono un rilievo nella ricostruzione dei modi e comportamenti di vita legati al
passato, alla percezione degli accadimenti da parte di chi li ha vissuti, alle
meccaniche che nel sociale hanno portato al loro sviluppo. Osservando i
documentari, composti spesso da sequenze spurie o riguardanti la sfera privata delle
figure del potere, ci si chiede se sia possibile mostrare l’evoluzione delle vicende
storiche attraverso questo tipo d’immagini. Si tratta di capire se esse – oltre a
testimoniare l’evoluzione della cultura visiva nella società e suscitare quesiti sul
rapporto tra personaggi storicamente esistiti e la raffigurazione che ne è stata data –
siano utili a dipanare le questioni strettamente storiografiche. Per fare questo occorre
passare anche attraverso una ricerca che sia in grado d’interpretare il significato
storicizzato delle immagini e, per mezzo di un lavoro di scomposizione, comprendere
cosa possa affiorare da esse, quali siano e che importanza abbiano queste
testimonianze.
Abbiamo detto dell’immagine come “fonte”, ma a questa nozione vogliamo
affiancare quella espressa da G. Renier, che aveva preferito parlare di “tracce” che
dal passato si proiettano nel presente4. L’idea è che non ci si trovi di fronte a semplici
“prove”, ma che si tratti di una condivisione con il già trascorso che consenta
d’“immaginare il passato vividamente”. Si comprende che le convenzioni della pittura
e della fotografia sono state utilizzate come un espediente per avvicinare lo
spettatore temporalmente e spazialmente alle figure sacre ad esempio e che è
fondamentale partire dall’iconografia del passato per giustificare le scelte compiute –
come nell’analisi di The King of Kings (1927) di C.B. DeMille – nel momento in cui
l’autore ha pensato di girare un’opera sulla passione di Cristo. Ma ciò non significa
rinunciare all’analisi della sintassi adottata nelle opere prese in esame. Il cinema,
infatti, quando esplicita i passaggi che avvengono tra la fase di ripresa dalla realtà e
la sua proiezione su di uno schermo cinematografico, produce nello spettatore un
effetto di conoscenza dei suoi meccanismi, mentre l’occultamento dei processi
intercorsi agisce creando un plus-valore ideologico.
In tempi in cui la comunicazione è tanto “manipolabile”, quanto determinante nel
decretare l’affermazione di un’idea politica, assume grande importanza filtrare la
ricerca sul potere e sulle sue forme espressive, attraverso una rilettura critica che
accresca la portata metaforica delle parole di R. Barthes, quando afferma che «in un
4
G.J. Renier, History. Its Purpose and Method, Allen & Unwin, London 1950.
8
primo momento, per sorprendere, la Fotografia fotografa il notevole; ben presto però,
attraverso un ben noto capovolgimento, essa decreta notevole ciò che fotografa»5.
Ci sembra che soprattutto questa possa essere l’“intuizione” dell’immagine
popolare (o meglio populistica): è definibile “potere” ciò che viene in maggior misura
raffigurato come tale e, a certe condizioni, importa relativamente poco la forma con
cui l’immagine si presenta, ciò che interessa è che essa rende “notevole” qualsiasi
cosa venga esposta. Questo fa intuire perché basti talvolta anche solo mostrare
acriticamente l’immagine di un personaggio (o anche dell’autocrate di turno) perché
egli, a prescindere dalle sue vere o presunte qualità retoriche, venga adottato dal
pubblico. I media audiovisivi rispondono dunque a un bisogno apparente d’equilibrio
tra prossimità (virtuale) e separazione (sostanziale) che il potere, soprattutto quello
populistico, si prefigge di mantenere nei confronti dei cittadini.
Dopo che nel primo capitolo si sarà cercato di rivelare la forza normativa,
esplicativa e regolativa contenuta nell’immagine del leader e, nel secondo, si saranno
condotte una serie di analisi su opere – di finzione e non – che fungano da nesso
proficuo tra le altre due parti di cui si compone la ricerca, la terza e conclusiva parte
della tesi riguarderà il controllo a cui il leader è sottoposto o si auto-costringe.
In questo senso s’inizierà parlando, in relazione all’idea classica di “sacralità”
che dovrebbe di norma appartenere alla figura del capo, di come il suo corpo possa
essere controllato e in particolare di come il cinema abbia spesso rappresentato il
corpo del potere come involucro intangibile. Agli esempi che avremo portato nella
seconda parte – iniziando dall’Andreotti visto da Sorrentino, per finire con un corpo
“santo” quale quello dei pontefici (in particolare alcuni dei papati che si alternano nei
100 anni che vanno da Pio IX a Pio XIII) – sono integrati da una ricerca
interdisciplinare che abbraccia sia il teatro con A. Artaud, che la pittura con F. Bacon,
giungendo alla filosofia di G. Deleuze. Tutti autori che hanno visto nel corpo un
elemento che può oscillare tra l’organico e il rifiuto di ogni organizzazione interna a
esso (l’organismo).
Quando l’organico trapela, anche sulla scia di quanto detto nel corso della
lettura interpretativa de Il divo, il rischio è la perdita del controllo e con esso la perdita
del potere. È in quest’ottica che viene analizzato un altro film recente come
Frost/Nixon. La sfida (2008) di R. Howard in cui la mdp si sofferma sul corpo
5
R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 1980, p. 35.
9
eccessivamente carico di tic, sudorazione, eccessi d’ira, tensioni che evidenziano e,
se vogliamo, svelano come l’ex presidente americano non abbia un perfetto controllo
di sé.
Ma il corpo che sfugge al controllo rischia di divenire corpo caricaturale, corpo
degli eccessi, che si lascia osservare nel mangiare e che non nasconde la propria
organicità (come gli orifizi corporei, la sessualità, le espressioni, i gesti). Ciò può fare
di lui un corpo da caricatura che, ad esempio, potrebbe avvicinarlo all’animale. Nella
pittura di Callot, Hogarth o dei Carracci, soprattutto di Annibale, si ricorre ai medesimi
paragoni uomo-bestia che hanno dimostrato, a partire dalle caricature di Leonardo da
Vinci fino alla contemporaneità, di suscitare un’influenza forte e duratura. Sulla
stessa linea si pone l’idea di animalizzazione a cui il potere si presta e che ha visto
nascere da Hobbes in poi (per finire all’analisi che ne fa J. Derrida6) un paragone
continuo tra il leader e la bêtise. Del resto le immagini che maggiormente ricordiamo
di Mussolini a piazzale Loreto portano, anche attraverso l’interpretazione di letterati,
a un paragone diretto tra il dittatore italiano e l’immagine di “sconcia bestia” che se
ne era voluta dare7.
Si passa dunque alla fase dimostrativa di come il potere possa subire delle
riletture che giungono addirittura alla trasfigurazione grottesca. La ricomposizione o
“rilocazione” delle immagini è un altro elemento che sfugge a qualsiasi controllo,
anche quando esso è ferreo come nelle dittature. Queste del resto rappresentano un
esempio estremo, ma anche indicativo, e a tutt’oggi ancora valido, di una volontà di
gestire attentamente la libertà comunicativa. Nel cinema del periodo staliniano, e in
particolare in M. Čiaureli (se ne analizza La caduta di Berlino del 1949), affiora la
contraddizione tra il corpo sacralizzato del dittatore sovietico e quello “caricato” del
nemico Hitler, ma la riflessione è sul modo del regista di giocare sul simulacro
realista dell’uso di immagini di repertorio che vogliono suggerire un’oggettività che
contrasta con i fatti realmente accaduti e con l’immagine data ai due capi.
A questo punto la domanda che ci si pone è se sia realistico o minimamente
scientifico rileggere – sulla scia degli esempi di A. Sokurov e di altri – la biografia o le
parti della vita di un personaggio illustre attraverso uno sguardo che potrebbe essere
quello di un’individuo qualsiasi (Hegel ci ricorda che nessun uomo è un eroe per il
proprio cameriere). È questa una prospettiva che riguarda molto da vicino la
comunicazione odierna dedicata ai leader e non solo a quelli contemporanei.
6
7
J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), Jaca Book, Milano 2009.
Si citeranno a tal proposito autori come O. Del Buono, C.E. Gadda e L. Meneghello.
10
In continuità con la prima parte della ricerca sarà interessante ripensare alle
considerazioni di Barthes ne La camera chiara, e della famosa immagine della
madre, non soltanto e semplicemente nell’ottica di un ulteriore che viene “verso di
noi”, ma riesaminarle ponendole in relazione con il corpo del leader, come di corpo a
noi noto, in grado cioè di attivare un coinvolgimento anche passionale – euforico o
disforico che sia – nel preciso istante in cui lo si riconosce. Il corpo del leader è
dunque un corpo patemico e “familiare” al nostro sguardo e ciò conferma anche la
lettura normativa che se ne farà: di corpo in grado di assumere per lo spettatore un
valore d’ingiunzione comportamentale. A tal proposito riteniamo sia a tutt’oggi utile
rileggere il passato attraverso l’immagine reiterata e centrale che si fa del corpo del
capo nelle dittature e confrontarla con quella delle odierne democrazie ad alto tasso
massmediatico.
Partendo da queste considerazioni, è intuibile che il discorso giunga, nell’ultima
parte della ricerca, a interrogarsi su ciò che accade nella contemporaneità. Da una
parte c’è il riuso, spesso dissacrante, che ad esempio viene fatto negli spot
pubblicitari e nell’arte (si pensi alla socialističeskij art – arte socialista – sovietica
degli anni ’70) delle icone più famose del passato o del presente (come Mao Tse
Tung, W. Churchill, Marx, Lenin, Stalin, Che Guevara, Gandhi, Hitler o anche con i
leader contemporanei come Sarkozy, Obama, Gordon Brown, Zapatero e
Berlusconi), dall’altra c’è lo sguardo dei media sempre più deciso a penetrare nella
vita privata di questi leader. Spesso però sono stati loro stessi a “cavalcare la tigre” di
una comunicazione che sempre di più si connota come un rovesciamento del
Panopticon – di cui parlava Foucault – e in direzione di uno sguardo per cui, per
citare Z. Bauman, «non sono più i pochi a guardare i molti, ma i molti a guardare i
pochi (Synopticon) ».
Lo sguardo si focalizzerà a questo punto sull’esempio italiano più recente, ossia
quello relativo all’immagine del leader nell’epoca del berlusconismo e sulla strategia
comunicativa dello stesso Berlusconi (un fenomeno considerato come indicativo) che
pensiamo abbia molti punti di contatto con quella adottata nei reality show Tv: un
esercizio d’equilibrio continuamente in bilico tra la finzione e la realtà.
11
Capitolo primo
CORPI NORMATIVI
“Dobbiamo diventare
il cambiamento che
vogliamo vedere”
(Mahatma Gandhi)
12
1.1 Il “trattamento” della Storia
Gli esempi che saranno presi a riferimento in questa ricerca sono naturalmente
parziali ma cercano di coprire alcune delle principali aree d’indagine sul tema,
soprattutto per chi le osserva dal punto di vista delle ricerche sul cinema e sulla
fotografia. Un approccio il nostro che, per il tema trattato, non può che fare
riferimento a una teorizzazione della storia e a uno studio epistemologico che non
ponga in contrasto il dato diacronico con le esigenze di una ricerca che fissi come
riferimento il momento storico in cui si compie. L’attenzione verso il dato storiografico
rompe solo in piccola parte una prospettiva d’analisi che predilige, come si vedrà nel
testo, un approccio di tipo sincronico.
Si è consci che non si può che guardare all’«oggetto di ieri nel suo rapporto con
un soggetto di oggi» e che tale rapporto non possa che rivelarsi come un passato in
relazione «di estraneità con colui o con colei che effettua l’osservazione»8. Pur
consapevoli dell’impossibilità di una lettura attualizzata, non si è però totalmente
incapaci - per usare, sul versante del cinema, i termini filosofici di Hans-Georg
Gadamer9 - di accedere a una conoscenza obiettiva del valore d’epoca di
quell’oggetto di ieri. Uno studio storico condotto con criteri scientificamente validi è
fondamentale per comprendere le varianti e le invarianti di senso presenti in testi
visivi che, nel nostro caso in particolare, proprio per il loro carattere sociale e politico,
mantengono una forte ricaduta anche sul presente.
Si pensi al senso che assume e/o mantiene il corpo del tiranno nella nostra
società, nel caso italiano quello di Mussolini, e di come, ad esempio, lo studio di
Sergio Luzzatto10 si mostri come un utile apporto di testimonianze e di indizi per la
successiva costruzione di un paradigma teorico sui corpi “assunti” dal potere e
specificatamente su quelli “tirannici”. Un circolo virtuoso in cui, a loro volta, tali
paradigmi11 sono indispensabili per attivare campi di ricerca, quesiti, orientamenti
nuovi e quindi ulteriori letture - pur sempre innovanti, processuali e parziali - dei fatti
8
A. Gaudreault, Il ritorno del pendolo: storia di un ritorno in forza…della Storia, in G.P. Brunetta,
Storia del cinema mondiale, vol. V, Einaudi, Torino 2001, p. 222.
9
Cfr. H.G. Gadamer, Verità e metodo. Vol. 1: Lineamenti di una ermeneutica filosofica,
Bompiani,Milano 2001.
10
Cfr. S. Luzzatto, Il corpo del duce. Un cadavere tra immaginazione, storia e memoria, Einaudi,
Torino 1998.
11
Si intende per paradigmi la definizione che ne dà Thomas S. Kuhn di acquisizioni generalmente
riconosciute che per un certo periodo forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a chi
pratica un campo di ricerca.
13
storici.
L’analisi comparativa tra media, che lo studio dell’immagine del leader sembra
per sua natura agevolare, può considerarsi proficua proprio perché intesa quale
parallelo tra linguaggi che si «affrontano […] come processi semiotici diversi che in
questo affrontamento esaltano le loro differenze e ravvivano le loro capacità di
produrre senso»12. La ricerca sull’immagine del potere è in questa logica un percorso
pluridirezionale.
Immagini di diversa natura come possono essere quelle di finzione, confrontate
con quelle registrate “dal vero”, con i leader autentici. La difficoltà dell’ekfrasis propria
del mestiere di chi fa analisi, riguarda la scelta dei modi e la complessità insita nella
descrizione verbale delle immagini. E uno studio che prende a riferimento l’immagine
fissa della fotografia insieme a quella in movimento del cinema, vive di questa
difficoltà. Si tenga dunque conto delle logiche differenze che si possono riscontrare
tra le prime - cioè di immagini centripete13, tendenzialmente concluse in sé e che
dunque concentrano l’occhio sulle parti di cui si compongono - e i fotogrammi in
sequenza di un ventiquattresimo di secondo, che permettono all’occhio di fare solo in
parte opera di scanning e lasciano piuttosto spazio, per dirla con Jacques Aumont, a
delle impressioni d’insieme14. E ciò naturalmente agisce, come ci ricorda Susan
Sontag15, anche sulla memoria che conserva lo spettatore dei diversi generi di
immagine.
La scelta è quella di lavorare su dei prelievi esemplari piuttosto che su dei
contributi ampi e sistematici, anche se ciò talvolta comporta il rischio di eccessive
generalizzazioni o di lasciare delle parti non compiutamente indagate. L’intenzione è
pertanto quella di lavorare su opere o segmenti di film che divengono componenti
rilevanti e carichi di senso, là dove crediamo si trovino gli elementi che danno
significato al film. La significazione infatti può celarsi anche dietro un dettaglio, ma è il
testo nel suo insieme, nei segni manifesti quanto in quelli più velati, a conferire
validità all’analisi. Piuttosto che di dettagli preferiamo infatti parlare di spunti, che
aprono a un’interpretazione che assume i connotati di un processo che avanzi
attraverso l’esposizione di tesi comprovabili e non sia soltanto, come nell’accezione
medico-anatomica del termine «processo», una semplice “escrescenza” o una
12
G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, Pratiche, Parma 1993, p. 36 [corsivo aggiunto].
Nella accezione usata in G. Curtis, Lo sguardo negato. Alterazioni dell’immagine audiovisiva, ETS,
Pisa 2007, p. 163, nota 105.
14
J. Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, Marsilio, Venezia 1991, p. 53.
15
S. Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 1979.
13
14
“sporgenza” sul corpus testuale.
Cercheremo perciò di cogliere quelle complessità e quegli elementi che,
emergendo dalle stratificazioni dei testi, saranno utili alla comprensione delle scelte
compiute e ai caratteri assunti nella rappresentazione del leader nelle diverse opere.
Noi
preferiamo
parlare
di
rilievi
o
punti
in
rilievo
all’interno
del
fluire
costituzionalmente narrativizzato della costruzione filmica. Del resto ogni discorso
sull’anti-narrazione appare particolarmente opportuno quando si parla delle
esperienze visuali contemporanee, caratterizzate in buona parte dalla presenza degli
strumenti digitali. Possiamo pensare a questi “punti in rilievo” come al kairós, al
“momento opportuno”, quello che dà gli spunti all’analisi.
Nel cinema, così come nella musica, gli accenti ritmici divengono un “segnale”
per lo sguardo dello spettatore che avverte di trovarsi di fronte ad una sottolineatura
di senso. La differenza, rispetto alla scansione narrativa nel cinema classico, è che
l’accentuazione ritmica, ottenuta per mezzo di immagini, soprattutto se rielaborate,
riguarda poco o nulla il narrativo, ma assume carattere di mutamento sui modi
percettivi dello spettatore, attraverso un’azione che fa riferimento al suo lato più
strettamente sensoriale e nervoso.
Punti dunque densi di senso, che marcano l’importanza del livello plastico16 del
film e che, si può affermare, sono decisamente pertinenti alla significazione
dell’opera. In tali casi ci troviamo di fronte a immagini che attraverso una messa in
rilievo visiva agiscono sullo spettatore tramite il sistema nervoso, per poi sollecitare
un più ampio processo interpretativo e, di conseguenza, non fanno che alterare e
dilatare il processo di acquisizione dell’immagine stessa17. È una visione che
pertanto modifica, in particolare, il modo di percepire il movimento nell’inquadratura e
la sua resa spazio/temporale, cosa che richiederebbe allo spettatore tempi di
fruizione più lunghi.
I rilievi possono costituirsi tanto come impressione con un’origine addirittura
artistica, quanto come elemento funzionale all’assunto fantastico, visionario o
grottesco della narrazione, come vedremo nell’analisi de Il divo (2008) di P.
Sorrentino (§ 2.1) e in quella del film del 1976 di E. Petri Todo modo (§ 2.2) o,
16
N. Dusi, Il cinema come traduzione, Utet, Torino 2003, p. 273.
Dice Deleuze «La sensazione non è solo tutto il contrario del facile, del definito, del cliché, ma
anche del “sensazionale”, dello spontaneo, ecc. La sensazione ha una faccia rivolta verso il soggetto
(il sistema nervoso, il movimento vitale, “l’istinto”, il “temperamento”, tutto un vocabolario comune al
Naturalismo e a Cézanne), e una faccia rivolta verso l’oggetto (“il fatto”, il luogo, l’evento)» (G.
Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995, p. 85).
17
15
ancora, nel momento in cui tratteremo del leader nei documenti storici (§ 3.3). E in
queste opere uno dei modi per renderle più dense di significati è quello in cui la
relazione tra immagine e narrazione si fa più incerta, e con essa anche le ragioni che
muovono il personaggio di potere. A seconda dell’ottica con cui osserviamo il film, i
punti di rilievo possono mutare e riguardare il piano plastico, narrativo, luministico,
tematico e addirittura musicale, di certo ciò accade ogni qualvolta una sequenza si
separi otticamente dal regime visivo imposto dal testo fino a quel momento.
1.2 Quattro ‘p’ per definire un leader
1.2.1 Personalizzazione
Il campo d’indagine è quello dell’immagine dei leader, soprattutto di quelli
politici, divenuto in questi ultimi anni, anche per la progressiva personalizzazione
della politica, una ricerca che non può lasciare indifferenti gli studiosi dei media visivi.
Rispetto agli Stati che prevedono l’elezione diretta del capo dello stato, la
personalizzazione della politica è un fenomeno che in Italia è avvenuto con gradualità
dall’inizio degli anni Ottanta. Ciò ha portato nel tempo, e soprattutto nell’ultimo
decennio, a un incremento di studi e analisi, anche giornalistiche, sull’immagine che
l’uomo politico dà di sé. La fine del legame tra potere ed élite culturale e
l’affermazione del potere legato sempre più al gotha dell’economia - soprattutto
filtrata attraverso il controllo dei mezzi di comunicazione e quindi della cosiddetta
“opinione pubblica” (termine che anch’esso andrebbe ripensato per l’eccessiva
ampiezza e vaghezza di senso) - si accompagna a un’epoca in cui i corpi, soprattutto
quelli dei leader, sono sempre più scrutati e analizzati fin nei minimi particolari. Si
comprende quale sia il senso di una ricerca di questo tipo che parla dei mutamenti
delle forme di comunicazione, pur senza ricorrere ad alcun eccesso di determinismo
tecnologico o mediatico.
Tutto questo non esula dal farci notare come tali fenomeni abbiano comportato
un ben più profondo mutamento dei costumi che ha riguardato in prima battuta
proprio la stampa la quale, nelle sue modalità di lavoro, sembra sempre più
assomigliare a una trasposizione in lingua scritta dell’immagine di un leader. È con
questa specie di ipotiposi si pensa di pronosticarne e giustificarne al contempo il
16
successo o la sconfitta, oltre che prefigurarne l’operato o, ancor peggio, le qualità
morali. Questo meccanismo segna, paradossalmente, un ritorno agli stereotipi
fisiognomici, spesso celati sotto uno strato di riflessione su quella sfuggente
definizione di ‘carisma’.
Con il tempo è così venuta meno l’antinomia tra spazio pubblico e spazio
privato per cui, anche in Italia, il secondo ambito è sempre più determinante nel
giudizio dei leader. Ciò vale naturalmente per il settore della politica, ma potrebbe
valere anche per la competizione continua che si gioca in altri campi come quello
della finanza, dello spettacolo e dello sport, per tenere nascosti i gusti e
comportamenti, spesso riguardanti la sfera sessuale, dell‘individuo noto.
Parlando delle forme di comunicazione della contemporaneità non si può
prescindere dalla consapevolezza che esse si strutturano sempre più in modo da
aggregare funzionalmente sistemi linguistici diversi, componendosi così attraverso
segni in grado di combinarsi con maggiore libertà rispetto al passato e rivelando una
varietà di possibili associazioni su diversi piani del senso. Un testo che dunque non
può prescindere da un’attenzione nei riguardi delle altre discipline che tanto hanno
approfondito il tema rispetto a quanto poco se ne è scritto nel campo degli studi
sull’immagine. Si tenta così una visione d’insieme sulla rappresentazione del corpo
del potere.
Il leader si configura dunque sempre più come un “accentratore” di elogi e di
critiche, come chi è posto costantemente all’attenzione dell’opinione pubblica,
“gestisce” i sondaggi d’opinione e l’agenda setting. La sua immagine istituzionale è
inestricabilmente legata con le scelte di comunicazione, anche se spesso sono quelli
che i sociologi chiamano indici periferici - criteri superficiali - a determinarne
l’immagine consolidata.
Fermi restando alcuni assunti di base, tale immagine cambia gradualmente,
man mano che cambia anche il modo d’intendere il potere. È un work in progress
che in alcuni periodi subisce delle accelerazioni e dei mutamenti di paradigma dovuti
a periodi rivoluzionari o a profondi cambiamenti che si operano nel corpo sociale. Si
pensi ai profondi sconvolgimenti che hanno segnato il XX secolo tanto nel campo
della comunicazione, quanto in quello politico, la nascita di forti tensioni sociali e di
altrettante spinte totalitarie. Questi cambiamenti hanno dato linfa alle ricerche legate
alla comunicazione politica e, soprattutto in epoche recenti, a un nuovo interrogarsi
sulla sostanza su cui si regge l’immagine del potere, su come abbia preso “corpo” e
17
sul modo in cui viene comunemente intesa dal cittadino.
L‘immagine del leader è uno dei modi preferenziali con cui una società esprime
un’idea del potere18 ed è, per andare nello specifico politico, il modo con cui i
rappresentanti dello Stato costituiscono e modificano i rapporti e le interrelazioni tra il
loro corpo di “leader”, le istituzioni e i cittadini. Per ampliare ulteriormente il discorso
possiamo dire che si tratta di modi con cui la società entra in relazione con se stessa,
non semplici specchi, ma piuttosto spettacolari specchi magici19.
Per questo motivo è d’obbligo far notare che il cinema stesso si fa talvolta
portatore di uno sguardo fortemente orientato al maschile. È frequente infatti che,
anche nel caso si girino film incentrati su importanti figure femminili, come nell’opera
di Margarethe von Trotta del 1986 dedicata a Rosa Luxemburg20, ci troviamo di fronte
a una sceneggiatura costruita in maniera ambigua, perché fatta in modo da rendere
un intreccio che oscilli continuamente tra questioni d’interesse pubblico e vicende
strettamente private. Anzi, il personaggio della Luxemburg, che avrebbe dovuto
rendere lo spirito della filosofa tedesca, fu invece «ritratto prima come donna, poi
come militante, mai come uno dei più importanti teorici marxisti della prima parte del
XX sec.»21.
Tutto sommato nulla di nuovo se si pensa che i film dedicati ai leader sono nella
gran parte dei casi, soprattutto se si parla d’individui di potere, opere che hanno al
centro una figura maschile. Del resto non molto è cambiato con il tempo se è vero,
come ricorda Veronica Pravadelli in relazione al cinema classico americano, che «il
film d’avventura e quello biografico sono generi prettamente maschili, in cui le donne
vengono relegate a ruoli del tutto secondari»22. E il potere accentua questa
distinzione dal momento che, come afferma Laura Mulvey, «l’uomo controlla la
fantasia filmica ed emerge anche come rappresentante del potere […]. Il suo potere
di controllare gli eventi coincide con il potere attivo dello sguardo erotico, ed entrambi
conferiscono un gratificante senso di onnipotenza»23. Il modello stabilizzato del
cinema pretende che sia preferibilmente, se non unicamente, l’uomo a compiere
18
A tal proposito si veda E. Landowski, La società riflessa, Meltemi, Roma 1999.
Rimando a tal proposito ai testi antropologici di Victor Turner e alla sociosemiotica di Erik
Landowski (In particolare Les interactions risquées, in «Nouveaux actes sémiotiques», numero
monografico 101-103, 2005).
20
Rosa Luxemburg (Rosa L., Cecoslov./RFT 1986)
21
Pierre Sorlin, Cinema e identità europea. Percorsi nel secondo novecento, La Nuova Italia, Milano
2001, p. 186.
22
V. Pravadelli, La grande Hollywood. Stili di vita e di regia nel cinema classico americano, Marsilio,
Venezia 2007, p. 103 [corsivo aggiunto].
23
L. Mulvay, Visual pleasure and narrative cinema, in «Screen», a. 1975, n. 16/3, p.12.
19
18
l’azione principale e spesso accade quanto detto per Rosa Luxemburg: la
dimensione femminile, i suoi amori, il suo sentimentalismo devono avere una
posizione preminente rispetto alla valutazione intellettuale.
1.2.2 Potere, propaganda, persuasione.
Il leader ha un potere e il potere c’è laddove si sviluppa un “disporre” del
mondo, una capacità di governare e di produrre, di esercitare insomma un dominio.
Occorre però precisare che per “corpi del potere” non intendiamo letteralmente dei
corpi dotati di potere, come potrebbe far pensare il fatto che si ritenga utile trattare seppur in breve - anche del carisma, ma di corpi d’individui che hanno una qualche
posizione di potere soprattutto nel campo economico, politico e religioso.
Per leader si intende un personaggio autorevole in campo politico, industriale,
religioso o culturale, in grado di rappresentare una sorta di guida morale, o per le sue
qualità carismatiche o, più semplicemente, per il fatto di essere in vista. Leader può
essere anche una personalità di riconosciuta statura culturale, in grado di orientare
con le sue idee il pensiero corrente delle masse, ma particolare attenzione sarà
dedicata, in questa sede, al leader come corpo espressione di potere. In questo
senso può esserci utile tenere a mente quanto affermato da Michel Foucault e cioè
che il potere controlla i corpi dei suoi sottoposti. Soprattutto in considerazione delle
interrelazioni “corporee” che intervengono tra i capi e chi è loro subalterno (§ 1.4.2).
Se il potere è «disseminato, incarnato nei corpi e nelle pratiche dei cittadini […] tale
potere (acefalo e incorporeo) penetra anche tra le carni dei detentori della
leadership, nell’epoca della loro “riproducibilità tecnica”»24.
Un discorso sul leader collima spesso con un discorso sulla propaganda e il
potere il quale, nell’ampia accezione che ne dà nel tempo Foucault, plasma e agisce
sui corpi. Gli studi sulle forme della persuasione hanno riportato ad esempio alle basi
della retorica e allo studio delle strategie linguistiche e discorsive che con essa si
attivano per produrre argomentazioni persuasive. Si è ripescata la terminologia dei
sofisti, i quali parlavano di “fascinazione” e “seduzione” della parola per articolare una
spiegazione che renda e definisca un sostantivo forse più usato, ma non meno
fumoso, quale quello di “carisma”, su cui si tornerà a breve.
24
F. Boni, Il corpo mediale del leader, Meltemi, Roma 2002, p. 14.
19
Quando storicamente si è fatto riferimento alla persuasione in relazione alla
società di massa, si è iniziato a parlare di propaganda. Con la comunicazione
indirizzata a una “massa” di persone, fin dai primi decenni del secolo scorso si è
manifestata la consapevolezza che gli individui posti in gruppo, mostrano un
mutamento d’atteggiamento e in particolare una diminuzione delle capacità di scelta
autonome, a favore di comportamenti uniformanti.
La Germania e l’Unione Sovietica del ’17 e del ’18, gli Stati Uniti degli anni ’20
sono altrettante tappe – e motivi – di questa crescente attenzione verso la
propaganda che faranno da apripista a una nuova, più consapevole e “controllata”
gestione della comunicazione attuata dai regimi dittatoriali tra le due guerre mondiali.
Opere come Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, datata addirittura 189525,
erano utili per fornire, a chi gestiva il potere, indicazioni e suggerimenti sui modi in
cui le masse potevano essere condizionate. Questo fatto trova riscontro, spesso
esplicito, anche negli scritti tanto di Mussolini quanto di Hitler, i quali trassero
certamente ispirazione da un testo di questo genere26. Il concetto alla base di molte
delle scelte propagandistiche attuate in quegli anni dipendeva dal fatto che la massa
era considerata un insieme uniforme di persone pronte a essere orientate in una
certa direzione sulla base di scelte semplici, poco cognitive, ma soprattutto emotive.
Ecco che subentra così la forza di chi è in grado di far riferimento alla dimensione
patemica dell’individuo e della società.
Nel nazismo la propaganda, affidata a Joseph Goebbels, utilizza le
manifestazioni spettacolari per costruire un’immagine del regime – e con essa della
Germania – quanto più possibile facile e gradevole da comprendere per le masse
popolari. Tutti i mezzi di comunicazione sono arruolati a tale scopo e tutti si
mostrarono controllabili e funzionali al raggiungimento degli obiettivi prefissati. Al di là
del cinema, della radio, del teatro anche l’architettura, le manifestazioni sportive,
politiche e d’intrattenimento – e perfino la grafica adottata sui manifesti che
pubblicizzavano tali eventi – erano in grado di mostrare una coerenza e omogeneità
d’insieme che oggi, con linguaggio da studiosi di marketing, potremmo definire come
il frutto di una valida scelta d’identità visiva attuata dai regimi fascista e nazista.
Anche nella comunicazione politica messa in atto nelle democrazie non
mancano naturalmente delle scelte strategiche che si richiamano a tali assunti. Come
nei regimi, anche nelle società democratiche si è assistito alla personalizzazione
25
26
G. Le Bon, Psicologia delle folle, TEA, Milano 2004.
Si veda a tal proposito N. Cavazza, Comunicazione e persuasione, il Mulino, Bologna 1997, p. 12.
20
della politica e ciò è avvenuto in particolare nei sistemi maggioritari che tendono ad
accentrare la scelta sul singolo leader piuttosto che sul partito, sull’idea di Stato o
sulle forze che compongono la coalizione. Questo in linea generale si è
accompagnato a una spettacolarizzazione che, come detto, pone al centro del
discorso la leadership e con essa la strategia comunicativa che fa riferimento alle
ricerche proprie del marketing27.
Nel tempo sono così nati quei concetti alla base dell’analisi sociologica come
quelli di opinion leaders o, soprattutto nel campo della persuasione, di un ordine delle
priorità (l’agenda setting) che condiziona la percezione che il cittadino ha delle
vicende che riguardano la sfera pubblica. A ben vedere concetti e termini che
mantengono nel tempo ancora una centralità nell’analisi che viene fatta dell’influenza
che la comunicazione ha sulla sfera politica. Questo è tanto più vero se si pensa che
con il mutamento degli strumenti della comunicazione a disposizione della politica i
politologi hanno iniziato a parlare di «videopolitica», entrando sempre più con
decisione in altri ambiti che appena alcuni decenni fa sembravano estranei a quelli di
loro pertinenza: si pensi alla deriva spettacolare dell’informazione politica. In questo
campo è così divenuto sempre più scontato parlare di immagini legandole alla
velocità e alla frammentazione dei discorsi, alle affermazioni ad effetto e al proliferare
di una comunicazione sempre più caratterizzata dalla concisione degli slogan.
Al di là però dell’interesse su quanto si traduca in forme di persuasione - le quali
circondano il nostro vivere e interessano ambiti di studio quali la sociologia, la
filosofia, la psicologia, la politologia, l’antropologia etc. - la nostra ricerca si concentra
sul corpo nell‘immagine. Non desideriamo infatti interessarci più di tanto al potere
come di una storia fatta di alterne dottrine politiche - anche se per forza di cose se ne
deve tener conto - e neppure vogliamo limitarci a un discorso sugli enunciati intorno a
esse. Il potere ha del resto un’ampia varietà di modi di agire sull’individuo, modi che
vanno al di là dei dati storici, ma si imprimono sul corpo stesso formando una sintassi
complessa, specie se si parla dei corpi legati alla politica. È un discorso che non
riguarda soltanto l’apparato strettamente governativo, anche se, naturalmente, con il
tempo chi si occupa di comunicazione ha sempre più chiara la convinzione che il
potere sia connesso in modo indissolubile alla gestione dei mass media.
27
Per una sintesi di tali tendenze si veda E. De Blasio, Marketing politico, in D.E. Viganò (a cura di),
Dizionario della comunicazione, Carocci, Roma 2009, pp. 1185-1200.
21
1.3 Leader e Carisma
Vediamo intanto di definire cosa s’intende per carisma. Uno studioso come Max
Weber che ha indagato a fondo, da una prospettiva sociologica, i fenomeni che
riguardano gli uomini, il potere e la società, dà al carisma il senso di «una qualità
ritenuta straordinaria» per cui una personalità «viene creduta [esser dotata] di forze e
proprietà soprannaturali o sovrumane, o almeno specificamente eccezionali, non
accessibili agli altri, oppure come inviata da Dio o rivestita di valore esemplare»28.
Una definizione partendo dalla quale è possibile tentare una breve descrizione
dell’evoluzione storica e visiva di questo concetto - che si sviluppa in particolare tra
Ottocento e Novecento - per arrivare ai nostri giorni ed esaminare il significato che in
epoca delle nuove tecnologie della comunicazione - si pensi al Web - si può dare al
carisma e, almeno in parte, cercare di capire quale ruolo possa giocare in una realtà
come la nostra, carica d’immagini poste in una rete globale e digitale, che qualcuno
definirebbe “liquide”, e chiederci in che modo i media possano influenzare o
addirittura creare una figura carismatica.
«Carisma» è termine di derivazione antica e in particolare greca, da χαρις, che
significa grazia e indica raffinatezza e sensibilità artistica, tanto che le Grazie
(Χαριτες) sono considerate delle divinità minori, immaginate come graziose fanciulle,
dotate di luminosità, le Muse, che presiedono all’attività poetica e che pertanto
vengono invocate dai poeti nei proemi per averne protezione.
Nel mondo cristiano, già con Paolo di Tarso il termine carisma subisce un
cambiamento di significato, assumendo la connotazione di grazia in quanto dono
divino, dono elargito da Dio al credente per essere a sua volta donato e messo al
servizio del prossimo. I carismatici sono infatti persone che posseggono doni
particolari, che consentono loro di agire in modo pressoché miracoloso, in quanto
possono guarire, predire, suscitare consensi ed essere riconosciuti come capi, ma
ciò che li caratterizza è la piena disponibilità e l’esigenza di porsi al servizio degli
altri. La stessa autorità di governo viene riconosciuta dalle prime comunità cristiane
come un carisma, in virtù di una vocazione data da Dio. Il capo del cenobio è un
rappresentante di Dio e pertanto i suoi ordini devono essere rispettati
Oggi, in genere si parla di persona carismatica in riferimento a leader politici o
28
M. Weber, Wirtschaft und Gesellschatt, Tübingen 1980 (1922), p. 140; trad. it.
citata in, Economia e società, a cura di P. Rossi, 5 voll., Milano 1980.
22
statisti, che hanno segnato e influenzato, positivamente o negativamente, gli eventi
storici o a personaggi del mondo artistico e dello spettacolo, che hanno caratterizzato
e lasciato un’impronta personale nell’ambito della cultura, o a dirigenti e manager nel
settore pubblico e privato.
1.3.1 Un carisma multidisciplinare
Tra i vari studi sul carisma e le sue implicazioni storiche, sociali e
antropologiche, sono in particolare qui utili da ricordare, oltre a quelli di Weber, anche
le interpretazioni date da David Émile Durkheim e Marcel Mauss. Ma la forte
attenzione verso tale termine non ha lasciato indifferenti neppure gli studiosi delle
discipline psicologiche che vi hanno visto la capacità di esercitare una forte influenza
sugli altri, di trascinare e persuadere grazie a delle doti che possono essere di varia
natura: riguardanti l’uso della parola, l’aspetto o la personalità.
Secondo la concezione di Weber l’autorità carismatica si contrappone alle
forme di potere tradizionali, caratterizzate dalla stabilità delle strutture burocratiche e
da una gerarchia di cariche ben organizzata, poiché rappresenta una forza
profondamente innovativa, che rompe con il “quotidiano” e l’“ordinario”, per lasciare
spazio allo “straordinario” e fa dell’operato del capo una missione di vita, in grado di
coagulare intorno a sé una moltitudine di seguaci, senza i quali l’attuazione del
carisma sarebbe impossibile e dai quali soltanto può provenire l’unica forma di
legittimazione. Ovviamente con il passare del tempo la sua “rivoluzione” perde il
carattere della straordinarietà e si routinizza, e anche questo processo rappresenta
un momento pragmatico.
Nel momento in cui Weber scrive sul carisma tiene presenti le congetture di
Marx e di Nietzsche sulle masse che, sebbene originate da premesse
profondamente diverse, concordano sul presupposto della loro influenzabilità e
plasmabilità, che sono condizioni imprescindibili per la rivoluzione operata dai
demagoghi.
Il capo carismatico, secondo Weber però, si differenzia notevolmente dal
superuomo di Nietzsche, che non è tale per il fatto di possedere doni divini, ma per la
sua capacità di leggersi dentro e di individuare le sue potenzialità, traducendole in
atti, mentre nella concezione weberiana è forte la componente religiosa del dono
23
insita nel concetto di carisma, che si traduce in vera e propria “vocazione”, nel senso
che - almeno in apparenza - pone il leader al servizio dei suoi seguaci.
Questa tipologia del capo carismatico con l’avvento dei regimi totalitari del
primo Novecento dimostrerà, secondo Luciano Cavalli29, anche la pericolosità in essa
insita, e anche il dopoguerra e tutta la fase del post-colonialismo, vedono l’affermarsi
di figure di capi molto imponenti in Asia, America Latina e Africa. Secondo Cavalli,
che ha effettuato profondi studi sulle teorie di Weber, l’affermazione di un leader
carismatico è legata a un momento di eccezionalità, di crisi, che rende possibile
l’affermarsi di un capo carismatico. Secondo tali ipotesi «le irruzioni del carisma sono
precedute da mutamenti di varia natura: crescite demografiche spropositate e
massicce dislocazioni di popolazione, rapidi e disordinati processi di inurbamento,
disorganizzazione e decadenza economica, rivolgimenti nella struttura sociale o
politica»30. E naturalmente incidono nel corso della storia anche le guerre o le
invasioni straniere: è tale infatti la condizione presente in Palestina quando Gesù
inizia la sua predicazione, o quella dei paesi arabi nel tempo in cui vive Maometto,
nonché quella dell’Urss di Lenin e Stalin o della Germania di Hitler. Una caratteristica
infatti accomuna i vari personaggi carismatici, e cioè il fatto che il loro carisma si
manifesti spesso in condizioni di opposizione a un ordine stabilito, la cui autorità
appare minata e che in seguito al loro intervento non potrà più essere ripristinato il
vecchio sistema sostituito, ovviamente, da un nuovo ordine.
L’affermarsi quindi di un leader carismatico presuppone la compresenza di due
realtà dicotomiche, e cioè la distruzione e la costruzione, come si può notare da
molte vicende storiche, quali quelle legate a nomi come Gandhi, nell’opposizione al
colonialismo inglese, Che Guevara, per la sua rivoluzione antimperialista o a
Mandela per la lotta all’apartheid in Sudafrica31. Naturalmente sono capi carismatici
anche Mussolini e Hitler, leader politici giudicati storicamente in maniera molto
negativa, ma intorno ai quali l’attenzione, e talvolta la considerazione, soprattutto nei
periodi pre-bellici, è stata altissima. Vedremo in seguito come essi si sono
confrontati, attraverso le rappresentazioni - spesso anche caricaturali - e le autorappresentazioni, con il cinema e la fotografia.
Restando nel campo socio-antropologico Durkheim proietta invece l’esperienza
carismatica nella dimensione della collettività, nel senso che l’individuo tenderebbe di
29
L. Cavalli, Carisma. La qualità straordinaria del leader, Laterza, Bari 1995, p. 10.
Ibid., p. 25.
31
Cfr. E. Pasini-F. Natili, Carisma. Il segreto del leader, Garzanti, Milano 2009.
30
24
per sé a isolarsi e ad agire unicamente in modo individuale, ma è solo
dall’interazione tra gli individui che si sviluppa «un principio creativo che scaturisce
da un’energia spontanea, capace di integrare le dimensioni individuali attraverso una
rete di significati che vengono così condivisi»32. La dimensione collettiva assume
pertanto una valenza religiosa, nel senso che assume un potere religante, come del
resto accade nei rituali collettivi, da cui si origina una sorta di energia in grado di
abbattere i confini tra le persone.
È chiaro che ciò avviene con più difficoltà nelle società moderne, dove
l’individualismo è molto forte. Per Mauss infatti lo studio del carisma può partire da
prospettive totalmente antropologiche, prendendo cioè spunto dalle ricerche sul dono
presso alcune tribù della Polinesia e della Nuova Zelanda33. Dal momento che il dono
è un elemento fortemente vincolante, che lega in rapporti di reciprocità, è evidente il
nesso tra dono e carisma: entrambi sono in grado di attivare «un circuito di energie
collettive che innestano processi di cambiamento e possono avere un elevato
potenziale trasformativo»34.
Molti studiosi, riflettendo sul caso di Hitler, hanno elaborato teorie che
affondano le radici nella psicologia, per cui il capo carismatico è stato a volte
considerato un nevrotico, sul quale avrebbe inciso un rapporto non equilibrato e
sereno con i genitori, o fortemente convinto della presenza nel mondo della
dicotomia Bene-Male, a cui segue l’identificazione nell’uno e la lotta contro un
Nemico a tutti i costi presente, lotta a cui trascina chi lo circonda con il fascino della
sua persona e con le sue capacità persuasorie. Questi disturbi della personalità che
possono favorire l’emergere di capi pericolosi hanno indotto psicoanalisti come Heinz
Kohut e sociologi come David Riesman a considerarne responsabile la società
moderna occidentale, spiegando così anche la disponibilità all’«abbandono totale allo
“straordinario”»35, che caratterizza appunto il comportamento dei leader carismatici.
32
C. Lindholm, Charisma, Basil Blackwell, Oxford 1990, citato in E. Pasini-F. Natili, cit., p. 30.
Si veda a tal proposito M. Mauss, Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società
arcaiche, Einaudi, Torino 2002; tit. orig. Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les
sociétés archaïques, I ed. 1925.
34
E. Pasini-F. Natili, cit., p. 36.
35
L. Cavalli, cit., p. 43.
33
25
1.3.2 Carisma e new media
Cavalli sostiene che nell’ambito della democrazia attuale si sia venuto a creare
il fenomeno della “contraffazione del carisma”, ciò grazie agli effetti dei media, che
tendono a esaltare le qualità fisiche e gli aspetti particolarmente piacevoli di un
carattere, piuttosto che le doti più opportunamente richieste a chi ha incarichi di
potere36. Si ha a che fare con processi comunicativi, in cui degli esperti e curatori
dell’immagine preparano dei modelli comportamentali per i leader, in gran parte
candidati politici, con un risultato tale da suscitare un consenso diffuso, seppur
piuttosto acritico. È naturale che questo tipo di carismatico segue i sondaggi, si
adegua ai luoghi comuni e al sentire della massa. Secondo Weber «l’illuminazione
carismatica della ragione»37 avrebbe prodotto una diminuzione del carisma, ma già
nel ’95 Cavalli prefigura un’Europa in cui i fenomeni delle immigrazioni, delle disparità
sociali, degli scontri etno-culturali (e religiosi, aggiungeremmo col senno del poi),
dell’inquinamento con conseguente perdita di “equilibri cosmici”, e delle strutture
atomiche, siano tali da favorire “lo straordinario” e quindi l’affermarsi dell’elemento
carismatico, nella sua componente meta-razionale.
Bisogna precisare tuttavia che lo sviluppo del mondo del Web e delle nuove
tecnologie della comunicazione non ha determinato, come temuto, un irreversibile
solipsismo in cui il reale è sostituito con il virtuale ma, «al contrario, il mondo del Web
si è rivelato sin dall’inizio – e continua a rivelarsi – un grande motore di creatività,
una fonte inesauribile di nuovi “fenomeni carismatici”»38. Mezzi comunicativi come
You Tube, Wikipedia e più in generale i social networks sono in grado di tradurre e
diffondere un’idea individuale in progetto collettivo, creando forme di scambio e
relazioni di reciprocità simili a quelle che si determinano attraverso il dono e il
baratto. Si verifica pertanto una saldatura tra antico e moderno confluente nel
digitale, che propone il perpetuarsi della tradizione da una parte e la possibilità del
cambiamento dall’altra. È all’interno di questa dialettica che il carisma fa la sua
comparsa, conglobando in sé le inquietudini e le ambiguità della nostra società
postmoderna. In una prospettiva più attuale il carisma rappresenta un progetto di
creatività che riesce a sganciarsi dal singolo individuo e dalle sue doti “magnetiche”,
36
Ibid., pp. 92-93.
M. Weber, cit., p. 94.
38
E. Pasini-F. Natili, cit., p. 42.
37
26
per rendersi condivisibile e catalizzare intorno a sé gli “elementi fluidi della realtà”39.
Un altro elemento essenziale è che il leader carismatico lavori su una
prospettiva a lungo raggio, ciò significa che - come afferma Vittorio E. Parsi «l’azione carismatica è efficace nel presente perché riesce a rappresentare il futuro,
a renderlo immaginabile e possibile». La politica agisce proprio in questa sfera
d’azione, ponendosi come obiettivo quello di «trasformare una visione del futuro in
un percorso possibile, di renderlo comprensibile come terreno di azione, di farsi
carico del fardello dell’incertezza e dell’insicurezza intorno al futuro»40.
Tutto questo, crediamo, si traduce visivamente per mezzo di corpi bloccati e
dinamici al contempo, attraverso gesti e sguardi che paiono indicare e guardare in
una direzione che gli altri ancora non riescono a vedere. Come quelle impressioni
visive a cui tanto peso dà Carl Gustav Jung che, in una intervista del 1938,
paragonando Hitler a Mussolini e Stalin, aveva definito lo sguardo dell’oligarca
tedesco simile a quello di un “veggente” o di uno “sciamano”. E se Mussolini era
indicato dallo psicanalista svizzero come «l’uomo della forza fisica» («Lo si avverte
immediatamente appena lo si guarda. La sua corporatura dà un’idea di muscoli
robusti […] ha la psicologia del capovillaggio»41) e Stalin invece come colui che «sta
divorando la creatura di Lenin» e aggiungendo «è un predatore; non ha fatto altro
che prendersi quello che Lenin aveva creato per affondarvi i denti e divorarlo»42. La
psicologia di Hitler è, invece, di diverso genere:
La sua costituzione fisica non dà un’idea di forza. La caratteristica più evidente della sua fisionomia è
lo sguardo sognante. È questo che mi ha colpito più di tutto nel vedere le fotografie scattate durante la
crisi cecoslovacca: nei sui occhi c’era lo sguardo del veggente. Non c’è dubbio che Hitler rientri nella
categoria dello sciamano. […] La caratteristica segnatamente mistica di Hitler è ciò che lo spinge a
fare cose che a noi sembrano illogiche, inesplicabili, stravaganti e irragionevoli. Ma riflettiamo: persino
la terminologia dei nazisti è chiaramente mistica
43
Chi con fideismo crede nel leader si aspetta che la direzione del suo sguardo
39
Ibid., p. 45.
Ibid., p. 177.
41
H.R. Knickerbocker, Diagnosi dei dittatori, intervista a Jung, in W. McGuire, R.F.C. Hull (a cura di),
Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi, Milano 1995, pp. 162-3.
42
Ibid., p. 163.
43
Ibid., pp. 163-4 [corsivo aggiunto].
40
27
diventi un percorso attuabile verso il cambiamento. Sono molte le statue e immagini
fotografiche e cinematografiche che figurativizzano e suggeriscono tale concetto, le
più frequenti sono in genere quelle dei dittatori che, seppure provenienti da culture
spesso molto lontane, fissano in direzione di un luogo ipotetico, nella gran parte dei
casi verso un orizzonte alto, come per simboleggiare il distacco dalle contingenze
mondane per guardare verso l’utopia.
1.4 Prospettare il corpo
Il corpo è la prima interfaccia tra capo carismatico e popolo, tra leader e
spettatore, per questo la ricerca parte dal corpo e dalla sua immagine, ma a seconda
del contesto disciplinare e metodologico applicato, il corpo è stato considerato in
maniera talvolta radicalmente differente. Ad esempio Durkheim vedeva nel corpo e
nella carne dei “fastidiosi” resti pre-sociali, mentre per Weber il corpo è “fisicità” e
luogo d’applicazione di norme “razionali”.
Nella filosofia marxista - oltre che in Marx, anche in Herbert Marcuse - il corpo è
un prodotto sociale a cui si applica una disciplina per esigenze aliene al proprio
beneficio o, come nella sociologia di Norbert Elias, nella (auto)costruzione di un
corpo civile tramite la costruzione di soglie e barriere che delimitino le zone civili e
stimabili da quelle incivili. Pierre Bourdieu parla di habitus come del modo attraverso
cui un essere sociale assorbe e riproduce la cultura dominante e in cui le classi
costruiscono i propri gusti e le pratiche individuali.
La sociosemiotica, invece, soprattutto nelle sua parte post-strutturalista ha
recuperato le radici fenomenologiche e ha iniziato a considerare il corpo sia nella sua
natura di «fonte-sostrato della significazione, sia come figura semiotica»44. Da questa
prospettiva inoltre il corpo può essere visto come un oggetto tra altri oggetti, come
interfaccia tra noi e il mondo e supporto della soggettività. Una prospettiva utile
quando si andrà ad analizzare l’immagine di Mussolini prendendo spunto dalle parole
di Italo Calvino (§ 1.7.1).
In questo contesto molto vario rivolgeremo invece un’attenzione particolare al
corpo docile con cui Foucault definisce il soggetto, il quale viene di continuo
attraversato e “plasmato” dal sistema di potere. L'apparato delle pratiche e delle
44
I. Pezzini, Immagini quotidiane. Sociosemiotica visuale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 25. L’autrice
qui recupera e specifica quanto detto da Jacques Fontanille (2004, 24).
28
tecnologie di cui si serve la bio-politica agisce sull'anatomia del corpo umano e sulla
popolazione. Non aderire all'opera di normalizzazione messa in atto dalla bio-politica
può significare, secondo il filosofo francese, la caduta da parte dell'individuo nella
marginalità e nella devianza.
In sociologia se ne dà un significato molto ampio, che solo in parte tocca il dato
strettamente religioso, non si tratta infatti tanto di “corpo sacro” ma, citando Georg
Simmel45, di corpo come sfere d’intimità che si relazionano con il contesto sulla base
di rapporti di apertura e chiusura, oppure, come nel caso di Erving Goffman, di lettura
delle rappresentazioni di deferenza e di contegno tra individui46. Ciò, ad esempio,
riporta a un’idea degli attori sociali come di corpi che, attraverso dei riti, vanno
salvaguardati da qualsiasi possibile “profanazione” ad opera di altri individui.
C’è la tutela delle relazioni asimmetriche di potere come quelle, ricorda Enrico
Pozzi, che coinvolgono il corpo del re, del capo in genere, del leader politico, del
leader carismatico, del capo militare, del grande imprenditore, del ricco, talvolta del
divo; ma anche il corpo dei più modesti detentori di micropoteri, di carisma “diffuso”
(Shils), o di potere transitori47. Tutti esempi di corpi che, in piccola o in larga parte,
sono assoggettanti: il modo con cui sempre Pozzi definisce i corpi “sovrani”, in
opposizione a quelli assoggettati48 dei sudditi o di chi, in generale, è sottoposto alle
leggi e alle regole decise da altri individui.
Anche nel passato ci si è interrogati molto sul corpo, utilizzandolo spesso in
modo metaforico e paragonandolo alla struttura sociale e del resto, ancora oggi, ha
una sua validità quanto meno lessicale, fare ricorso alla dottrina dell’organicismo, per
cui lo Stato è un corpo con i suoi organi: un principio di ordine sociale gerarchizzato e
dotato di un coordinamento ben definito. Questo principio parte dall’antichità, fin
dall’idea della polis, ma nella sua terminologia, anche la Chiesa ricorre a paragoni
simili, allorché tra i secoli XI e XII parla di Corpus Mysticum, indicando in tal modo il
corpo organizzato della società cristiana49.
Con l’Umanesimo l’attenzione per il corpo del potere comincia a riguardare
45
Si veda G. Simmel, Sull’intimità, Armando, Roma 1996.
E. Goffman, Interaction Ritual: Essays on Face-to-Face Behavior, Anchor Books, 1967; tr. it. Id., La
natura della deferenze e del contegno, in Id., Il rituale dell’interazione, il Mulino, Bologna 1988, pp. 5161.
47
Cfr. E. Pozzi, Il corpo malato del Leader. Di una breve malattia dell'on. Bettino Craxi, «Sociologia e
ricerca sociale», n. 36, Franco Angeli, Milano 1991, pp. 63-103.
48
Termini adottati in E. Pozzi, Per una sociologia del corpo, «Il Corpo», a. I, n. 2, 03/1994, pp. 130131.
49
Qui si omette di parlare dei mutamenti intervenuti nella storia sul rapporto corpo/stato e si rimanda
al testo classico di Ernst Kantorowicz del 1957.
46
29
anche le figure del potere mondano e non soltanto religioso. E mentre Erasmo da
Rotterdam considera il principe il cuore e il “medico” della repubblica, Thomas
Starkey parla, ad esempio, per la prima volta della dote della bellezza che il corpo del
potere dovrebbe possedere, mentre con Machiavelli si ha invece la trattazione della
“decomposizione” che rilancia in modo forte il problema della sacralità - anche “laica”
- del corpo. Del resto siamo nello stesso secolo in cui Shakespeare, attraverso opere
come Tito Andronico o in Riccardo III, riporta tale tema al centro della riflessione
culturale e politica. Intorno al corpo e alla sua natura “fisica”, si cominciano così ad
articolare una serie di riflessioni dirette e indirette che riportano al problema della
caducità umana, in particolare quando essa riguarda i personaggi di potere.
1.4.1 Il corpo notevole del notabile
Al di là di ogni singola analisi, l’obiettivo di questo studio è quello di proporre,
partendo dall’individuazione dei fenomeni sociali e dei processi culturali in atto, delle
ipotesi più ampie e generali della rappresentazione del leader e del potere. La ricerca
delle generalità è dunque il fine principale, che passa però per la ricerca delle
particolarità e singolarità degli esempi presi in esame, qualcosa di simile alla scienza
del singolare perorata da Roland Barthes. Il corpo nell’immagine, del resto, compone
e dimensiona più di qualsiasi altra cosa lo spazio ed è al contempo, uno spazio
individuato e individuabile. Rappresenta cioè un elemento di specificità che richiede
all’osservatore un’attenzione che renda ancor di più suddivisibile lo spazio
dell’immagine in unità discrete.
Quanto detto crediamo valga tanto più se il corpo che osserviamo è un corpo
noto, un corpo riconoscibile e questo, naturalmente con le dovute differenze, ci porta
alla mente proprio quanto detto da Barthes ne La camera chiara, nel momento in cui
egli pone al centro del suo discorso una fotografia che ritrae un corpo a lui noto per
eccellenza: quello della propria madre50. Paradossalmente, infatti, in entrambi i casi
noi percepiamo un’implicazione patemica che, seppure con diverse “sfumature”, è
dovuto al fatto di trovarci davanti all’immagine di un corpo che riconosciamo e che ci
coinvolge.
Con il senno del poi sappiamo che i linguaggi visivi sono divenuti sempre più
50
Cfr. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003, pp. 69 e sgg.
30
dei mezzi privilegiati per attivare le riflessioni sull’assoggettante51, ma anche sul
contesto sociale in cui agiscono. C’è, tanto nella fotografia, quanto nel cinema quando non sono strettamente sperimentali fino alla totale astrazione - la natura di
mezzi di registrazione e riproduzione di tutte le forme che fanno parte del mondo
visibile. Tra queste, ci sono i corpi: l’“entità” che per eccellenza può agevolare un
immediato processo di identificazione tra spettatore e personaggio e che si configura
come rappresentazione virtuale, oggetto percepito come presente e allo stesso
tempo assente.
Se la fotografia «conserva la traccia di una scrittura d’ombra», come afferma
Jean Baudrillard, essa è al tempo stesso «“scrittura di luce”, e dunque il segreto di
una fonte luminosa venuta dalla notte dei tempi». Il tutto tradotto con strumenti da cui
«traspare soltanto l’iperrealtà della tecnica come effetto speciale (lo sfocato stesso è
un effetto speciale)»52. In questo vediamo però anche un gioco, seppur simulacrale e
bidimensionale, fatto di colori, di forme e di volumi. E in questo costituirsi della
fotografia in vuoti e pieni, in chiari e scuri è tutt’altro che immune il leader, anzi di
tutto questo costituisce una variabile: il “notevole” del “notabile”, di colui che è “degno
di nota”.
Il corpo nell’immagine copre uno spazio, cambia la percezione di un panorama,
modifica del resto la lettura e la descrizione analitica di un’inquadratura, diventa un
accentratore dell’immagine. Il corpo del leader amplifica tutto questo ed è, in quanto
corpo di persona nota, per eccellenza, un corpo centripeto. Il funzionamento
dell’occhio umano del resto, posandosi preferibilmente su ciò che già conosce e
riconosce, agevola questo risultato. Le variabili naturalmente sono infinite: il contesto,
il punto d’osservazione, il “portatore” di carisma, la riconoscibilità del soggetto sono
tutti elementi che condizionano l’immagine. Il corpo del leader diviene un dettaglio
rilevante posto all’interno di un’immagine che, come ricorda Baudrillard, è «una
visione del mondo nel suo dettaglio»53. Potremmo dire che il corpo del fotogenico, del
leader e in particolare del carismatico, incidono (se non “influenzano”) su ciò che li
circonda nell’immagine non meno che nella vita reale. Se la fotografia, soprattutto per
il suo essere un particolare dispositivo, non è realtà oggettiva e il corpo del leader
non è un corpo qualsiasi (in caso contrario perché farne oggetto di ricerca?), allora le
51
Si pensi alla nascita delle prime forme caricaturali che hanno in Leonardo un nobile precursore (§
3.2.3).
52
J. Baudrillard, Fotografia. L’ombra del reale, in «la Repubblica», 30.04.2009, p. 47 [tratto da Id.,
Ombre et photo, in F. L’Yvonne (a cura di), Jean Baudrillard, L’Herne, Parigi 2004, pp. 231-2].
53
Ivi.
31
due cose non possono che interagire, e per certi versi confliggere, ma verso una
forma rappresentativa con elementi di peculiarità. La persona rappresentata è
importante se sappiamo che ricopre cariche di leadership o se non la conosciamo
ma, guardando gli onori e le attenzioni a lei attribuite, attiviamo - per citare Aristotele
o Charles S. Peirce - un processo abduttivo attraverso cui capiamo che si tratta di un
“notabile”, in quanto è colui che “spicca” tra la massa.
Un elemento che agisce in un punto preciso del film o della fotografia e che
finisce per agire sull’insieme, sulla totalità dell‘immagine. Una posizione che può
ricordare quella di Deleuze, il filosofo che utilizza il cinema perché in esso intravede
un valido esempio di totalità. E che se non può avere un’idea del mondo
osservandolo direttamente, attraverso il film riesco a percepire qualcosa di “più vero”
del mondo reale.
Per il corpo del leader vale dunque ancor di più quanto detto da Barthes: «la
Fotografia fotografa il notevole; ben presto però, attraverso un ben noto
capovolgimento, essa decreta notevole ciò che fotografa»54. Il corpo nell’immagine, al
di là di quello “notabile”, accentua comunque quel suo possedere i caratteri di
“territorio“, per adottare una metafora spaziale che ricaviamo da Salvatore Natoli55,
un luogo cioè singolare proprio perché ci consente di rintracciare degli elementi di
specificità. Vedremo come, al di là di taluni fattori costitutivi, nei diversi corpi dei
leader si rinvengano tali specificità e sono proprio queste a costituire un senso
generale e insieme particolare. La normatività nasce da tale assunto, allorché un
sistema selettivo si innesta in un processo discorsivo con cui si articola una certa
idea di potere. Com’è possibile, ad esempio, considerare il fenomeno berlusconiano
o quello di Obama senza interrogarsi su quanta parte sia comune agli altri leader e
quanta, invece, sia peculiare al personaggio che lo rappresenta?
1.4.2 Il potere e la disciplina
Può il corpo del leader di potere fare funzione d'ingiunzione comportamentale
per i cittadini? Per rispondere proviamo a riflettere - prendendo spunto dalle ricerche
di Foucault sull’epoca moderna ma partendo dal XVII secolo - sul fatto che così come
lo Stato, e prima ancora la sovranità, controlla il corpo dei suoi cittadini-sudditi, allo
54
55
R. Barthes, La camera chiara, cit., p. 35
S. Natoli, La verità in gioco, Feltrinelli, Milano 2005, p. 75.
32
stesso modo i corpi, attraverso cui il potere si esprime, divengono figure in cui
“specchiarsi“. L'idea di fondo è che dal controllo biologico – che punta, sempre
nell’idea epistemologica del filosofo francese, a regolare i livelli di natalità, mortalità,
salute, longevità, fertilità o alla definizione di ciò che è o non è mentalmente sano,
finendo così per vigilare sui comportamenti della massa e dei singoli individui – si
passi a disposizioni ugualmente indotte: quelle di corpi che il regime politico vigente
considera rappresentativi del proprio pensiero sulla società e sul mondo. Un rapporto
tra potere e individuo che, anche in questo caso, non ha al centro la norma
attraverso la conoscenza.
In sintesi Foucault, tra la fine degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, compie
una complessa riflessione sul corpo del soggetto moderno immerso nella disciplina a
cui il potere lo induce. La disciplina è dunque collegata alle forme di punizione messe
in atto e ai modelli educativi, militari, lavorativi e sanitari. Del resto la conoscenza
viene attivata attraverso dei saperi con cui il potere definisce, per esempio, ciò che è
normale e ciò che non lo è. Da questo assunto egli parte per analizzare le forme
ritenute di devianza, un principio a cui è direttamente legato il concetto di resistenza
attuata da chi si oppone all'ordine istituito dal potere. Ma questa resistenza è
costituita dal potere stesso in quanto, paradossalmente, ne è il complemento.
Il corpo, naturalmente, è centrale allo studio che Foucault fa sul manifestarsi dei
regimi discorsivi e sul formarsi delle varie istituzioni disciplinari. «I corpi sono le
superfici in cui si inscrive il potere», afferma Natoli riferendosi al filosofo56, e tale
considerazione è compiuta nel senso di un nesso tra corpo e dominio.
Secondo tale idea il potere è realtà effettuale, che si esercita e che dunque si
compie in quanto «il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo
stesso»57. Ciò richiede che si localizzi un oggetto su cui il potere eserciti il proprio
dominio e che consenta - similmente a un’ immagine - di leggervi gli effetti che esso
produce.
Adottiamo qui i termini di Foucault in modo non totalmente innocente, le
differenze di ottica con cui si guarda al potere sono evidenti. Da parte del filosofo, il
potere si traduce nei corpi sulla cui superficie è possibile vederne le tracce. Da par
nostro il potere ci interessa non tanto osservandolo direttamente attraverso il corpo,
quanto “filtrandolo” per mezzo dell’immagine che del corpo si dà. Dunque i piani
sembrano distanti, ma non lo sono poi tanto, dal momento che la rappresentazione
56
57
S. Natoli, cit., p. 68.
M. Foucault, Potere-corpo, in Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1977, p. 138.
33
dei corpi dei leader è essa stessa riflesso di un sapere.
Pur partendo dall’idea che il potere non abbia corpo, Foucault punta a indagare
il tipo di sapere che si crea dalla relazione tra corpo e potere; un “sapere” che
produce una circolarità con il potere e di cui crediamo faccia parte anche la figura del
leader. C’è un’apparente similitudine tra i corpi dei leader e i corpi viventi su cui sono
“scolpiti” i segni del dominio, in realtà noi ne indaghiamo l’immagine che può essere
l’epifania di tale potere. Se Foucault parlava del corpo dei cittadini, dei “sudditi”, noi
trattiamo del corpo dei “capi”, in quanto riteniamo che il corpo del leader sia, non
meno degli altri corpi, un luogo su cui il potere si localizza, su cui dunque il potere
direttamente e/o indirettamente agisce, soprattutto se s‘intende il leader nell‘ampia
accezione di cui si diceva all‘inizio della ricerca.
Ci rifacciamo così a uno degli assunti della cultura e dell’epistemologia
contemporanea, affermando che il corpo parli così come lo fa qualsiasi altra cosa
reale vista come segno. La tesi è dunque anche quella che il corpo del leader stesso
sia un segno attraverso cui il potere comunica un'ideologia corrente che può
assumere addirittura i caratteri della normatività. E lo stesso corpo è al contempo
quello del capo ed espressione, spesso inconsapevole, di un sistema e di
un'ideologia costantemente mutanti.
Il potere agisce sul corpo del cittadino per mezzo di effetti d’insieme che
assumono determinate forme espressive, tra le quali riteniamo che una delle
manifestazioni più influenti sia il ricorso alle immagini e in particolare a quelle dei
leader. Si parla al plurale perché al di là dei singoli casi - che saranno qui portati ad
esempio e che rappresentano dei leader che nel loro ambito hanno o hanno avuto
una posizione preminente - si è scelto di tenere, in uno studio sulle immagini del
potere (o dei “poteri”), uno sguardo d’insieme.
Sappiamo che le stesse immagini, in contesti temporali differenti, assumono un
diverso significato. Il fatto di vivere in un mondo in cui l’immagine prolifera a
dismisura ne ha alterato quel carattere d’essenzialità di cui la retorica visiva era
maggiormente dotata nel passato.
34
1.5 Corpo docile e normatività
Oltre che carisma, anche aura è un termine difficilmente maneggiabile la cui
complessità, non consentendo una definizione univoca e definitiva, non facilita il
lavoro di chi l’adotta. L’aura per Benjamin è l’apparizione unica di una lontananza,
per quanto possa essere vicina58 e, potremmo aggiungere, che nell’era della
riproducibilità tecnica, anche il body politic, non solo l’arte, soffre di perdita d’aura
anche a causa di come la Tv trasforma lo sguardo e quindi la relazione spaziotemporale di ogni evento, compreso quello più importante e che meno dovrebbe
essere trasformato: quello dei riti. Riti che perdono la loro unicità allorquando il
leader deve e vuole mostrarsi il più possibile, lasciando che la sua immagine sia
continuamente scrutata da una infinità di mezzi di registrazione audiovisivi.
Della perdita dell’aura ha parlato Boni quando ha trattato le trasformazioni
seguite all’impatto della società con i media elettronici, in particolare nell’ambito dello
studio «delle trasformazioni del rituale e del simbolismo politico […] dei detentori del
potere»59. In effetti i termini fondamentali alla base della sua ricerca, non troppo
diversamente da come si procederà in più punti di questo studio, sembrano tratti
dalla religione, anche se, come vedremo, è vero che non si tratta di un percorso a
senso unico, che porta dalla religione al potere “laico” del sociale, ma uno scambio
doppio. E così accade anche quando alle moderne forme mediatiche si sostituiscono
quelle classiche della pittura. Julia Kristeva ad esempio vede nello scorcio
prospettico del Compianto sul Cristo morto (1475-78) di Mantegna la scelta di una
posizione anatomica che tende all’indecenza e alla brutalità60. Anche un corpo laico e
rivoluzionario come quello de La morte di Marat, nel dipinto di David del 1793, è un
corpo che può essere immediatamente paragonato a quello del Cristo, ma non
bisogna dimenticare che “mediatore” di tale scambio d’identità è il mezzo pittorico:
quello della Deposizione (1602-04) del Caravaggio il quale a sua volta, com’è noto, si
rifaceva a soggetti non proprio sacrali.
Sappiamo di quanto il corpo (rappresentato) del “figlio di Dio” sia un termine di
paragone per i cristiani. È l’intera comunità, infatti, a formare il corpo di Cristo e del
corpo di Cristo a cibarsi simbolicamente. E del resto il confronto tra potere e religione
58
W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità
tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 70.
59
F. Boni, Il corpo mediale del leader, Meltemi, Roma 2002, p. 7.
60
Cfr. J. Kristeva, Holbein's Dead Christ, in Id., Black Sun: Depression and Melancholia, Columbia
University Press, New York 1989, pp. 105-138.
35
passa anche per la cultura cristologica, si pensi al modo in cui Giorgio Agamben ha
parlato del corpo politico come di un corpus sacrum come di colui che oscilla tra
corpo insacrificabile e capro espiatorio61.
Queste considerazioni, inoltre, sul trattamento del corpo in pittura possono
ricordare l’antico rito dello jus spolii, che prevedeva l’esposizione del corpo del papa
dopo la morte, oscenamente spoglio. Un ulteriore rituale di degradazione, solo in
apparenza contrastante con l’idea dell’impassibilità della carne dei santi e dei beati di
ogni epoca. L’evento soprannaturale risiede proprio nel fatto che da una parte si ha
prova trattarsi di un corpo costituito da parti e carne umane, dall’altra che la morte
terrena non lo ha scalfito. C’era dunque il ricorso ai cosiddetti “rituali di
degradazione” del corpo del sovrano-papa62.
In tal senso anche le riprese televisive di un politico che in un tribunale risponde
dei dubbi che possono affiorare dalla propria condotta pubblica, potrebbe esser lette
come una sorta di rituale di degradazione. È stato Meyrowitz a parlare di perdita
dell’aura del leader politico nel momento in cui è scrutato da telecamere e obiettivi
fotografici63.
Si possono rileggere, sulla scia di tanta ricerca del passato, i corpi del potere
come per esempio i corpi sacralizzati dei re64 e individuare, giungendo al presente, la
causa della perdita dell’aura nei mutamenti che nei leader ha apportato il cambio
della ritualità, soprattutto per lo sfruttamento dei moderni sistemi di comunicazione.
Si è visto del resto come l’ampliamento delle ricerche in campo sociale e storico
abbia contribuito a rinnovare l’interesse di molti teorici di varie discipline verso le
pratiche visive applicate al corpo, in particolare ai modi in cui si “traduce” in immagini.
Naturalmente una tale prospettiva non può che suscitare il nostro interesse in
particolare se osserviamo che essa comporta un mutamento di paradigma che si
accompagna con il variare delle forme di comunicazione e con esse il naturale
61
Cfr. G. Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995.
Si veda a tal proposito H. Garfinkel, Condition of successful degradation cerimonies, in «American
Journal of Sociology», 95, 1955, e P.P. Giglioli, S. Cavicchioli, G. Fele, Rituali di degradazione.
Anatomia del processo Cusani, il Mulino, Bologna 1997.
63
Cfr. J. Meyrowitz, No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior, Oxford
University Press, New York 1985; trad. it. Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul
comportamento sociale, Baskerville, Bologna 1993.
64
Si pensi alle note ricerche di Marc Bloch (M. Bloch Les Rois Thaumaturges. Ètude sur le caractère
surnaturel attribuè à la puissance royale particuliàrement en France et en Angleterre, Colin, Parigi
1961; trad. it., I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re
particolarmente in Francia e in Inghilterra, Einaudi, Torino 1973) o a quella di Ernst H. Kantorowicz
(E.H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies. A study in Medieval Political Theology, Princeton
University Press, 1957; trad. it., I due corpi del Re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale,
Einaudi, Torino 1989).
62
36
mutare dei testi. Per dirla in altri termini preferiamo considerare il corpo come un
discorso, come una forma testuale ma non rigida, bensì con i contorni spesso
sfumati, provando però ugualmente a rintracciarli. Un testo che nel tempo ha un
enunciatore sempre meno stabile proprio perché sempre più poggiante e imitante,
nel suo modo di concepirsi e adattarsi alle forme di comunicazione attraverso cui si
produce e si diffonde. E di esempi dei mutamenti intervenuti rispetto al passato ce ne
sono diversi.
È parte ormai della storia televisiva nazionale l’impressione che suscitò il volto
atterrito e imbarazzato del politico democristiano Arnaldo Forlani che rispondeva alle
domande del pubblico ministero durante un’udienza del processo Cusani a Milano. È
anche, tra i tanti significati che è possibile trovarvi, l’immagine di un leader che perde
la “sacralità” fino a quel momento attribuita al suo ruolo65. Le rivelazioni (e i vuoti di
memoria), la bocca secca e imbiancata ai bordi, la voce incerta davanti alla corte di
un tribunale aprono il discorso a questioni che si collocano in uno spazio intermedio
tra il privato e il pubblico o, per dirla con Goffman, tra la scena e il retroscena66. Un
luogo che lascia campo libero agli aspetti emotivi ed espressivi prima relegati
essenzialmente all’ambito privato.
Se in alcuni casi tale il luogo “liminale” della comunicazione è sfruttato a
vantaggio del personaggio (si pensi alle capacità comunicative dell’ex attore e
presidente statunitense
Ronald Reagan), in altri casi il politico rischia di essere
travolto dalla sua stessa volontà di “cavalcare la tigre” dei mass media. Per tal caso i
primi esempi che vengono in mente sono quelli di un altro capo di stato americano,
Bill Clinton – il presidente dell’esibizione con il sax davanti alle telecamere e
dell’interrogatorio in differita della registrazione integrale dell’interrogatorio del 17
agosto 1998 per il cosiddetto Sexgate67 – e dell’attuale leader italiano Silvio
Berlusconi68. Casi, quest’ultimi, in cui la dissacrazione parte da una particolare
65
Il caso di Forlani a uno dei processi di Tangentopoli è forse paradigmatico di come tale incapacità
di controllare la propria immagine in una situazione come quella del tribunale milanese, rappresenta la
fine di una certa politica e di un certo modo di gestire i rapporti con i mezzi di comunicazione. Forse il
capo democristiano resta uno dei pochi grandi leader usciti completamente oltre che dalla scena
politica, anche dalla cronaca, proprio per essere divenuto in quella fase storica, a causa della sua
incapacità di gestire lo sguardo “impietoso” della telecamera, uno dei simboli della disfatta di un’intera
classe politica.
66
E. Goffman, The Presentation of Self in Everyday Life, Anchor Books, New York 1959; trad. it., La
vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino, Bologna 1969.
67
Lo stesso Clinton alcuni mesi prima (gennaio ’98) veniva ritratto in delle foto, probabilmente
altrettanto costruite a tavolino, in cui si vedeva mentre, a Virgin Islands, ballava con sua moglie.
68
Non che nel passato siano mancati le indiscrezioni sui potenti, si faceva dicerie sulle amanti di molti
presidenti come Roosevelt, Eisenhover o Kennedy, ma si rimaneva - come dice in una intervista Erica
Jong a «L’Espresso» (5 febbraio 1998, p. 52) - sul piano della “chiacchiere di corridoio”, ma con
37
gestione dei mezzi di comunicazione e dalla confusione che si pone tra spazio
pubblico e spazio privato, appunto tra ciò che rappresenta la scena e ciò che
dovrebbe restare nel retroscena. Il fatto stesso che un certo uso della comunicazione
possa ritorcesi contro chi lo mette in atto, soprattutto se si tratta di un premier
politico, dimostra ancora una volta che ci si trova di fronte a un corpo percepito da
tutti i cittadini come normativo.
Il ricorso stesso alla ritualità che ogni forma di regime politico mette in pratica,
rende l’idea di come il capo, anche quello “transitorio”, assuma un significato che
trascende una visione strettamente laica. Facendo semplici esempi delle prassi
d’insediamento dei leader (si pensi alla cerimonie di Washington per i presidenti
americani), o alle rigide ritualità d’incoronazione (come quella dei reali inglesi) o, per
restare in Italia, alle cerimonie che rievocano i defunti (come le commemorazioni al
“milite ignoto” - sorta di corpo-martire nazionale - o al luogo condiviso del
ritrovamento, ma non di morte, di Aldo Moro) si comprende come sia stato opportuno
parlare, non solo per le dittature, ma anche per l’Occidente democratico, di “religioni
civili”. Il mutamento dei rituali di “deferenza e contegno”, per ricordare la terminologia
di Goffman, si svolge non più faccia a faccia, ma è filtrato dagli strumenti audiovisivi
potenzialmente più distanti, ma al tempo stesso più “penetranti”. Ne è prova la
cronaca dell’incoronazione di Elisabetta del 2 giugno del 1953, per la cui cerimonia i
consiglieri reali ritennero opportuno - per non offendere le autorità presenti - evitare
di disporre le telecamere in una posizione migliore rispetto a quella degli invitati, e di
non trasformare le fasi più solenni della cerimonia stessa. Il concetto di fondo è,
secondo Paddy Scannell, che le immagini in televisione avrebbero potuto annullare
l’aura data dall’evento reale69.
In linea con tali ipotesi, su cui torneremo più compiutamente nella parte
conclusiva della nostra ricerca, possiamo ritenere che se i corpi dei grandi dittatori
degli anni ’20-30 sono corpi costruiti sulla fotografia e in piccola parte sul cinema,
quelli di leader odierni come Berlusconi o Chavez sono corpi della televisione (o
percepiti tali). Confini labili, naturalmente, ma che potrebbero collocare un leader
come Obama – si pensi all’importanza assegnata ai sistemi di comunicazione da lui
adottati e implementati – nell’alveo dei mezzi che fanno riferimento al digitale, e in
particolare al web. Del resto già nel 1993 Régis Debray parlava di «telecorpo»
Clinton pare che gli americani pensino che il presidente «debba intrattenere» il pubblico, perfino
chiarire ogni dettaglio di ciò che avvenne con la Lewinsky.
69
P. Scannell, Media events, «Media, Culture & Society», n. 17, 1995, p. 154.
38
all’interno di una «videocrazia» (!) in cui «la personalizzazione tende a rovinare la
personificazione»70, intesa quest’ultima come morale trascendente.
Questi corpi presidenziali assomigliano sempre più a “corpi sincretici” con una
varietà d’influenze e di significati e che puntano a condensare in se stessi lo Stato.
Attraverso di loro sembra che si avveri una concezione del corpo statale che ha in
Giuseppe Bottai, come ricorda Luzzatto, uno dei suoi teorici, il quale affermava: «non
è più lo Stato che è l‘uomo in grande, ma l‘uomo che è uno Stato in piccolo»71.
L’idea di corpo “plasmabile” è presente in tutti i regimi politici anche se in quelli
autoritari del Novecento è stata certamente più evidente, essi infatti hanno adottato
per tali scopi – si pensi ad esempio al fascismo – scelte educative legate, almeno nei
grandi centri, allo sport, all’igiene, all’omologazione attraverso esercitazioni e
militarizzazione dei ragazzi, alla gestualità, ai luoghi ricreativi e di vacanza: si pensi
alla pratica delle colonie estive. Il modello di riferimento è sempre quel corpo del
capo il quale, come ora ben sappiamo72, è a sua volta plasmabile, si tratta sempre
più di corpi “docili”, ampliando i termini di Michel Foucault, che praticano la cura del
sé attraverso diete, palestre, fitness, massaggi, chirurgia plastica e ogni altra forma di
manipolazione del corpo. Potremmo dire che ogni ruolo richiede sempre un physique
du rôle particolare. Anche i papi - e Benedetto XVI, con le sue attente e significative
scelte d’abbigliamento, ne è chiara dimostrazione - sono perfetti esempi di questa
cura del sé73.
E non è secondario, in questo contesto, parlare del corpo papale di cui
tratteremo in modo più esaustivo nel secondo capitolo (§ 2.4). La sparizione infatti
quasi totale dei re assolutisti - o ancor meglio di quelli taumaturghi del Medioevo - ha
lasciato come unica, o quasi, figura “sdoppiata”74, quella del papa. Un corpo quello
del sovrano che diviene egli stesso Paese, come nel caso del Re Sole Luigi XIV
(“L’Etat c’est moi”) il quale, come ricorda Nicholas Mirzoeff75, da monarca piuttosto
fragile, diviene lo Stato.
Sappiamo come nelle dittature, nel fascismo e nazismo in particolare, la cura
70
R. Debray, Lo Stato seduttore, Editori Riuniti, Roma 1993, p. 25.
S. Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 130.
72
Si pensi al corpo di Berlusconi, ma anche ai correttivi stile “Photoshop” operati su alcune immagini
di Nicolas Sarkozy da parte del giornale “amico” «Paris Match». Come il ritocco che dimagrisce il
presidente francese a torso nudo in barca nell’edizione del 9 agosto 2007, o quello imperfetto del 18
settembre 2008, in cui spunta dal nulla la gamba di una guardia del corpo che era stata cancellata.
73
Cfr. M. Foucault, La sauci de soi, Gallimard, Paris 1984; trad. it. La cura del sè, Feltrinelli, Milano
1985.
74
I due corpi del re che Kantorowicz (1957) definisce come corpo naturale e corpo politico.
75
N. Mirzoeff, Bodyscape. Art, modernity and ideal figure, Routledge, Londra 1995.
71
39
del corpo e la sua plasmabilità siano obiettivi indispensabili da conseguirsi attraverso
l’esercizio fisico al fine di addestrare i cittadini, fin dalla giovane età, a certe regole
comportamentali e al combattimento. Si può individuare un nesso tra idea del corpo,
sessualità e nazionalismo in un rapporto difficile da dipanare, ma in cui «virilità e
femminilità, razza e purezza, gioventù e bellezza, salute e rispettabilità sono centrali
per la definizione del corpo della Nazione»76. La reale venerazione è però quella che
veniva tributata al corpo dei capo.
E Luzzatto in effetti ha parlato per il corpo del Duce, ancor più che per quello
del Fuhrer, di istrumentum regni, cioè di strumento (mezzo) di potere e di quest’idea
noi sottolineiamo l’importanza che assume, sia per il fascismo, sia per il nazismo,
nelle strategie della rappresentazione77. Si pensi al ruolo fondamentale svolto da
figure come Joseph Goebbels a dimostrazione di quanto, già allora, si fosse coscienti
dell’importanza assunta dai corpi nella comunicazione. Ricordiamo tutti le immagini
fotografiche di Hitler mentre, davanti a uno specchio, provava la sua resa gestuale
perfettamente studiata come quella di un attore.
Il principio è che tutto il corpo debba tradurre lo Stato effettivo e prefigurare
quello ideale. Tutto diventa metafora dell’obiettivo, che poi è uno degli elementi
fondamentali su cui si edifica la costruzione di un carisma, obiettivi che il sistema di
potere impone e s’impone di raggiungere. Naturalmente più autoritaria è la figura, in
particolare se rappresenta un regime autocratico, più essa condensa ed è incaricata
di veicolare una molteplicità di sensi.
L’idea di un corpo normativo non confligge con l’idea del potere che ha
Foucault, il quale, ricordiamo, afferma che il potere non ha corpo, ma che si insinua
nei corpi dei sudditi/cittadini. Leggere nei corpi di potere la normatività e
nell’immagine un mezzo privilegiato perche questa normatività si figurativizzi, fa
anche riferimento a posizioni filosofiche che ritengono che «le operazioni dei corpi
sono operazioni reciproche: ciò significa che ogni azione, sia pure quella più
propriamente singolare, è riflesso di sistema»78, in cui «il potere incarnato non può
essere diverso dai corpi stessi, ma deve rappresentarne l’immanente necessità; deve
essere norma e legge»79. Corpo normativo che diviene “la” norma, ma soprattutto un
corpo-norma, una regola, una figura e un sapere da rispettare e da condividere
76
77
78
79
F. Boni, op. cit., 28 [corsivo aggiunto].
S. Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 16.
S. Natoli, Le verità in gioco, cit., p. 75.
Ivi, p. 90.
40
proprio perché universalmente noto e da cui non si può prescindere.
1.5.1 Le pose della sofferenza. Tempesta su Washington
C’è un film in cui vediamo in modo evidente il passaggio tra la scena e il
retroscena dei personaggi politici. In Advise and Consent (Tempesta su Washington,
USA 1962) Otto Preminger sceglie di costruire un film che esprima in maniera decisa
il cinismo della politica in cui le tattiche e le incertezze degli avvenimenti si palesano
fin dai corpi e dalle pose da essi assunti.
La storia narra del presidente degli Stati Uniti (Franchot Tone) che sceglie
Robert A. Leffingwell (Henry Fonda) come Segretario di Stato non molto amato dagli
altri senatori e maggiorenti del suo stesso partito. Questo accende una feroce lotta
politica condita da complotti e manovre ricattatorie che sfociano addirittura in un
suicidio. Giunti quasi alla fine dei giochi e al conseguimento dell‘advise and conset
da parte del Senato (da qui il titolo originale), la morte del presidente imporrà uno
stop a tutto questo, ma lascerà allo spettatore una conclusione monca e tutt’altro che
consolatoria.
Il presidente è mostrato mentre, nella tensione delle responsabilità e delle
scelte, fuma molto, nel farlo assume pose ricurve - un segno del malessere fisico che
lo porterà alla morte - e siede sghembo sui manici delle poltrone. Ma sono anche
pose dell’intimità che distinguono il momento pubblico da quello privato, anche
perché Preminger sa bene della differenza tra i due momenti. Per il regista
l’attenzione tra l’atteggiamento politico che si tiene pubblicamente e quello “oscuro”
della privacy è uno dei temi che ritornano costantemente80. È dalla stridio dei
comportamenti - esplicitati come detto anche dal modo di rappresentarne la figura
che nasce lo sviluppo drammatico che il film mette in scena.
Sono le passioni che minano l’integrità di quasi ogni uomo. Nel caso di
Tempesta su Washington c’è quella “indicibile” dell’omosessualità - con il
personaggio di Brigham "Brig" Anderson (Don Murray) che scoperto si suiciderà oppure una militanza politica sbagliata in epoca di guerra fredda (quella nel partito
80
Si veda a tal proposito l’analisi che del film fa Giovanni Rizzoni nel breve testo La democrazia al
cinema, Meltemi, Roma 2007, il commento di Tino Ranieri, Il sapore del potere nel cinema americano,
Circolo del Cinema di Imola, Imola 1967, pp. 16-22 e quello di Olivier Eyquem, Figure di eroi e
percorsi di attori, in G. Carluccio (a cura di), Otto Preminger, regista, Kaplan, Torino 2009, p. 187.
41
comunista), o ancora l’ambizione politica e l’ingordigia di potere (comune agli uomini
di entrambi gli schieramenti).
In questo caso è importante soffermarsi sulla figura presidenziale che, nella sua
umanità e nel suo malessere fisico, ricorda naturalmente quella di Franklin D.
Roosevelt: un presidente morto, neppure diciassette anni prima del film, per cause
naturali nel corso del suo mandato presidenziale e che, come ricordano le cronache
era, al pari del personaggio di finzione, un gran fumatore spesso fotografato con la
sigaretta tra le dita.
Una figura indiscussa quella del presidente, ma in un film che, nella
rappresentazione delle trame messe in atto anche nello spauracchio comunista oltre che omofobo - ricorda gli avvenimenti, ancor più vicini storicamente al film,
legati all’affaire della “lista nera” (1950-56 circa) stilata dagli uomini del senatore
Joseph R. McCarthy.
Poco o nulla è solare in quelle stanze dei “bottoni” e ciò serve a ribaltare
l’apparentemente stabile equilibrio dei poteri e dei principi di trasparenza governativa.
La realtà della politica americana è osservata con un equilibrio in cui il cinismo
politico, di cui il film è intriso, è mitigato da un senso dello Stato tipicamente, almeno
negli enunciati, statunitense. L’edulcorante al duro giudizio che trapela dal film nasce,
per esempio, dal modo in cui si mostra come uno dei componenti dell’opposizione al
senato: il corpo dell’anziano senatore repubblicano - impersonato da Charles
Laughton - che diventa il simbolo della vecchia America, con la sua durezza,
l’impudenza della sua classe politica (in cui rientra la visione tutt’altro che ingenua di
Preminger81), ma anche l’espressione della lealtà.
Questo modo di raffigurare, proprio di diverse opere americane, tali uomini,
malati e anziani, come portatori di principi di equità e giustizia, assume anche i
caratteri di una rappresentazione nostalgica rivolta al passato e ai suoi uomini di
potere. Un punto di vista che ai nostri occhi non può che sembrare velato di certa
ingenuità, ma che assume, proprio in quanto costante auto-rappresentazione, i
caratteri della normatività non scritta.
Allo stesso tempo, però, il corpo del politico è anche rappresentazione
mediatica e gesto inteso come actio retorica. Un corpo che, potenzialmente, può
81
È interessante osservare quest’opera nella prospettiva di un testo che è parte di un gruppo di «film
“politici” […] che mettono in scena delle figura di leader e il loro confronto con le istituzioni, l’ordine
stabilito e ogni sorta di abuso» (O. Eyquem, Figure di eroi e percorsi di attori, cit., p. 187). Si tratta di
opere di Preminger che coprono un decennio e che, oltre che Tempesta su Washington, conta anche
Corte marziale (1955), Santa Giovanna (1957), Prima vittoria (1965) e Il cardinale (1963).
42
persuadere e ingannare chi lo osserva, in quanto, come nel recondito dei pensieri e
delle convinzioni più intime, può celare segreti indicibili: e anche in questo caso
l’ambigua lezione del maccartismo è ancora ben viva nel film di Preminger.
1.6 Nel limbo tra aristocrazia e borghesia
L’invenzione di Andrè-Adolphe-Eugène Disderi del 1854 della fotografia carte de
visite, una foto incollata su classico biglietto da visita 10 per 6 centimetri, in otto copie
a basso prezzo. La grande espansione di questa invenzione, che porta lo studio
Disderi a contare circa ottanta dipendenti, modifica nel tempo il formato standard del
ritratto, diffondendo in gran numero le immagini delle personalità del tempo che,
come Napoleone III e l‘imperatrice Eugenia, papa Pio IX e Abraham Lincoln, posano
spesso per queste fotografie che cominciano a comparire in gran numero nei
salotti82. Campeggiando ormai pure in quelli della piccola borghesia e talvolta in
forma di fotomosaico in cui il fotomontaggio mostrava il coesistere nella stessa
immagine di gruppi e categorie sociali, ci sembra che pure questo tenda a
conservare, anche quando è espresso in forma caricaturale, un’idea di società
rigidamente strutturata per classi. Questi mosaici fotografici sono anche dei modi per
mantenere in vita, pur con i dovuti distinguo, quelle che Pierre Sorlin ha definito come
immagini sintetiche83. Immagini cioè che, come quelle di genere pittorico, erano in
grado di condensare più informazioni relative a fatti e personaggi posti in realtà in
tempi e spazi diversi.
Il potere ottiene così un valido strumento per “fissare” e «sintetizzare i segni
della classe dominante»84 raggiungendo finalmente un pubblico ampio e popolare.
Dal quel momento l’immagine fotografica diviene inoltre il testo fonte per successivi
ritratti a olio che “guadagnavano” in realismo e sottraevano il personaggio di turno a
prolungate sedute di posa davanti al pittore.
È l’epoca del proliferare di studi fotografici che raggiungono capillarmente le
diverse zone della città e al tempo stesso gli artisti e intellettuali cominciano subito a
82
E se Nadar è stato considerato il fotografo dell’opposizione all’impero, Disderi era quello ufficiale
dell’impero di Napoleone III, ma la differenza più importante era l‘assenza d’espressione con cui il
secondo immortalava i suoi clienti. A tal proposito rimando a J. Prinet-A. Dilasser, Nadar, Einaudi,
Torino 1973, p. 74.
83
Si veda P. Sorlin, I figli di Nadar. Il «secolo» dell’immagine analogica, Einaudi, Torino 2001.
84
G. Fiorentino, Dalla fotografia al cinema, in G.P. Brunetta (a cura di), Storia del cinema mondiale,
vol. V, Einaudi, Torino 2001, p. 60.
43
interrogarsi su questo strano connubio tra arte e industria. Ma soprattutto si assiste
alla “democratizzazione” dell’immagine di ritratto, prima riservato alla pittura ora
relativamente diffuso con la fotografia tra tutti gli stati sociali85.
Ma la fotografia diviene anche passione. Il succitato Napoleone III di Francia ne
comprende probabilmente subito le potenzialità e non solo si fa fotografare
diffondendo la sua immagine come nessuno aveva potuto fare prima di lui, ma ne
diviene egli stesso un utilizzatore. Oltre a viaggiare con i suoi fotografi personali86,
pare si dilettasse personalmente nella fotografia essendosi fatto costruire e inviare paradossalmente per un imperatore di una nazione che allora era all’avanguardia in
questo campo - un apparecchio direttamente dall’Inghilterra. Wladimiro Settimelli
spiega però questa stranezza con il giudizio non ancora “nobilitante” di cui godeva il
nuovo strumento per cui «si è dovuto concludere semplicemente che l’imperatore
non voleva far sapere, in Francia, di questa sua passione»87.
Non sempre però è così, nelle democrazie come quella americana, per
comprendere la grande considerazione di cui inizia a godere il ritratto fotografico per
la sua capacità di diffondersi tra la popolazione e iniziare a incidere anche sulle
elezioni presidenziali. Si pensi proprio al presidente Lincoln il quale, una volta eletto
alla Casa Bianca, sosterrà in diverse occasioni che il merito era stato anche della
bella posa con cui fu fotografato nel 1860 da Mathew B. Brady88.
Ma la comprensione delle potenzialità della fotografia va di pari passo con i
primi tentativi di censura e sulla comprensione del potenziale di falsificazione insito
nello strumento non meno che in pittura. Tale consapevolezza si rileva tanto
nell’“appassionato” Napoleone III, quanto dai reali inglesi in occasione della guerra di
Crimea89 o nelle censure attuate dai principi piemontesi nell’ultima guerra
d’indipendenza.
85
Mutamento perfettamente intuito, ad esempio, da Baudelaire che anche per questo motivo si
opponeva all‘invenzione.
86
Scelse i fratelli Bisson per farsi seguire, con tanto di voluminose attrezzature, fin sopra il Monte
Bianco e farsi immortalare con la consorte a testimonianza dell’impresa. Del resto è interessante
soffermarsi un attimo sui Bisson per capire i cambiamenti che comportò l’avvento della fotografia: i
fratelli compresero l’opportunità di cambiare lavoro rispetto al padre. Il vecchio Bisson era noto, infatti,
per la sua esperienza di pittore di stemmi araldici nobiliari.
87
W. Settimelli, Storia avventurosa della fotografia, Effe, Roma 1976, p. 82. Anche se in questo testo
le conclusioni dell’autore contrastano un po’ con ciò che scrive la Freund, la quale racconta di come
Napoleone III, «sul punto di partire per l’Italia alla testa del suo esercito, il 10 maggio 1859, si fermò
davanti allo studio di Disderi per farsi fotografare, mentre l’intero esercito, in file serrate, con l’arma
imbracciata, lo aspettava» (G. Freund, Fotografia e società, Einaudi, Torino 2007, p. 52).
88
W. Settimelli, cit., p. 139.
89
Si pensi all’invio in Crimea di Roger Fenton il quale fa sì sfoggio di coraggio nello spostarsi sul
fronte di guerra, ma le sue fotografie sono tra i primi esempi di immagini scattate per compiacere ai
propri finanziatori.
44
Il corpo borghese si accosta dunque al corpo aristocratico e, anche
figurativamente, diviene un corpo che aspira alla leadership, e se gli aristocratici
nobilitano il nuovo strumento grazie al simulacro della loro immagine, la piccola
borghesia - e i fotografi più tecnici che artisti - lo “volgarizza”. Al tempo stesso si
compie una mediazione, già iniziata in realtà nella pittura della fine del ’700, in cui
l’immagine della borghesia comincia a divenire - negli abiti, nelle pose, nei caratteri
fisici e nella composizione - sempre più dominante. Tutto questo era iniziato però con
il desiderio della borghesia emergente di “somigliare” all’aristocrazia. Ciò non poteva
chiaramente bastare all’imperatore francese per non fargli pensare che, mostrarsi
intento all’utilizzo di un apparecchio fotografico, si addicesse poco al suo lignaggio,
anche se non molti anni dopo si assisterà a Vittorio Emanuele III che, nel corso della
Prima guerra mondiale, sarà al fronte con una macchina fotografica tra le mani.
L’Ottocento è dunque anche l’attesa che si compia un mutamento di gusto e di
considerazione che valorizzi finalmente il nuovo strumento, e che riguarda, come
afferma Gisèle Freund, anche la stessa borghesia che continuava, paradossalmente,
a guardare con sentimento nostalgico al fascino - o probabilmente all’aura esercitata dai modi di raffigurazione del passato in cui «“farsi fare il ritratto” era uno di
quegli atti simbolici per mezzo dei quali i membri della classe sociale ascendente
rendevano visibile a se stessi e agli altri la loro ascesa»90. Un fenomeno che si
conferma con la tecnica fotografica, la quale deve proprio alla già ampiamente
praticata auto-rappresentazione pittorica, e con pose statuarie91, la sua immediata
diffusione commerciale. Il costo contenuto giustifica del resto ampiamente la
mancanza in buona parte dei casi del ritocco migliorativo - pur essendo tecnicamente
praticabile fin dal 1855 - o il tanto gradito effetto trompe-l’oeil del ritratto pittorico.
L’immobilità della posa dei corpi acconciati con i migliori abiti sono ciò che avvicina
l’immagine fotografica al ritratto e alla statuaria, nelle immagini rituali che il coenunciatore piccolo borghese o leader richiedono al fotografo manca l’istantaneità:
tutto può e deve essere collocato in un ordine precostituito e in cui il corpo dei
soggetti trovi il suo pendant nel bric-à-brac degli oggetti d’arredo che lo studio mette
a loro disposizione.
90
91
G. Freund, cit., p. 7.
I. Pezzini, Immagini quotidiane. Sociosemiotica visuale, Laterza, Roma-Bari 2008, p. 178.
45
1.6.1 Preludio alla dittatura. L’occhio di Salomon sui “retroscena” delle classi
dominanti
La normatività deriva anche dalla distanza che si pone tra spazio pubblico e
quello privato. Se nel cinema questo iato l’abbiamo rilevato nella brevissima analisi di
Tempesta su Washington, nelle fotografie di Erich Salomon (1886-1944) il principale
motivo di “scandalo” risiede dallo svelamento dei reali retroscena a margine dei
grandi eventi della storia.
La fotografia solo in parte, e per ovvi motivi, sostituisce la caricatura e un
esempio ci viene proprio dalle immagini dotate d’ironia desacralizzante da parte di
quest’artista tedesco che rappresenta in questo modo soprattutto i gruppi di persone
di potere. Anche le star del cinema però non sfuggono al suo intento dissacratorio,
anzi per meglio dire, de-sacralizzante (fig. 1).
Un’opera che esprime la desacralizzazione e la disgregazione del potere
attraverso pose goffe, mentre bevono, si muovono sfocandosi, si atteggiano e ridono
in modo scomposto, dormono a bocca aperta, immagini tutte che ricordano, con le
dovute differenze tecniche e linguistiche, le opere di fotomontaggio-collage che
videro la luce nella Germania tra le due guerre. E l’opera di Salomon si pone proprio
al centro di questo periodo operando, tra l’altro, solo nel lustro che va dal ‘28 al ’33
per poi essere anch’egli vittima della carneficina di Auschwitz.
Restano le sue opere che testimoniano l’attenzione per i soggetti, spesso
personalità della politica e della finanza, visti però con uno sguardo derisorio, da
prospettive sghembe, coesistenza di parti nitide con accentuazioni di sfocature in cui
i personaggi, posti naturalmente su piani differenti, divengono corpi rubati e fissati
quasi istintivamente senza flash perché sulla più sensibile lastra di vetro rispetto alle
pellicole di allora. Anche un evento storico d’importanza primaria come la Conferenza
dell’Aja del 1930 (fig. 2), diviene l’occasione per riportare le seriose, baffute e ben
abbigliate personalità dell’incontro a una dimensione umana fatta di noia, sonno e
gesti di stanchezza a una dimensione fanciullesca e finire per svelare cosa si cela
dietro l’inganno pomposo dell’ufficialità. Si tratta in realtà di foto su corpi di potere che
portano a una nuova oggettività - riaffermata e al tempo stesso negata - dello
strumento meccanico (del resto, pur trattandosi di immagini “rubate”, questi come
altri personaggi si prestano in modo mansueto allo scatto) per creare delle figure
caricaturali. Immagini che al tempo stesso divengono la “vaga” immagine di un’epoca
46
e lo sberleffo avanguardista su corpi “troppo” umani: i mossi futuristi, le casualità
dadaiste e l‘aspetto antiborghese e quasi onirico di tutto l‘insieme.
Il corpo del potere è spesso immerso in luoghi claustrofobici, ambienti mai in
“campo totale” ed è dunque osservato e sbeffeggiato con sarcasmo anche quando
sembra che accada l’inverso e l’oggetto dell’ironia sia chi fotografa (fig. 3).
L’arte di Salomon entra a pieno titolo tra quelle opere che tra le due guerre, e
soprattutto in Germania, osservano con occhio caustico, e forse contribuiscono a
provocare, il disgregarsi definitivo del vecchio mondo a cui già il primo conflitto aveva
inferto il colpo decisivo. Lo sguardo sarcastico del fotografo non è lo sguardo
“politico” come di altri nella Germania di allora ma, proprio per questo, svela come
nessun altro la distruzione verso cui inesorabilmente si sta avviando la società di cui
pure è parte integrante. Le immagini “inattese”92 del fotografo berlinese sono
paragonate dalla Freund alle caricature di Honoré Daumier93, questo è in parte vero
per la carica ironica in entrambe contenute, ma troviamo che le immagini di Salomon
abbiano perso la carica “positivista” che si rintraccia in un fustigatore di costumi come
l’artista francese. In tal senso è simile a un altro fotografo della Germani di quel
periodo, August Sander, le cui immagini furono censurate nel 1934 perche «i suoi
“volti nel tempo” non corrispondevano all’archetipo nazista della razza»94. Come per
Salomon, anche le sue opere sono rivolte nella gran parte all’ambiente borghese di
una società in decadenza: quella della Repubblica di Weimar. Comune anche il
destino tragico che li porterà alla loro morte: Sander in prigione, Salomon nei campi
di concentramento. Anche quest’ultimo interrompe quasi del tutto la propria attività di
fotografo nel 1933, proprio alla fine di quella repubblica e nell’anno dell’ascesa al
potere di Hitler. Un passaggio simbolico forte verso un’era in cui cadranno
definitivamente i corpi che Salomon aveva fotografato sostituiti da figure ancor
peggiori e che prefigureranno anche il suo destino di uomo ebreo. Le sue immagini forse perché claustrofobiche, parzialmente sfocate, inaspettate e un po’ fortuite sono il riflesso della fine di un’epoca, ma sono anche la perfetta dimostrazione di
come il nostro sguardo sia quello del soggetto di oggi su un oggetto di ieri e al tempo
stesso intrise di quel senno del poi di cui l’immagine inevitabilmente s’impregna
(Barthes). Crediamo invece che le sue fotografie siano invece l’espressione,
92
Il suo libro d’immagini del ‘31 (E. Salomon, Berühmte Zeitgenossen in unbewachten Augenblicken,
Stuttgart 1931) è tradotto con “Contemporanei celebri fotografati in momenti inattesi“.
93
G. Freund, cit., p. 102.
94
R. Barthes, La camera chiara, cit., p. 36.
47
apparentemente più tranquillizzante, di ciò che artisti rivoluzionari come John
Heartfield e George Grosz manifestano con maggiore nettezza: la violenta caricatura
dei ceti dirigenti della Germania di allora.
Tanto nei disegni e litografie di Grosz - che pure riprende la lezione di Daumier quanto, più velatamente, nella fotografia - non fotomontata come in Heartfield - con
venature espressioniste di Salomon, c’è un’identica carica de-sacralizzante che svela
la volgarità reazionaria che si cela sotto l’apparente rispettabilità dei ceti di potere,
tanto economici, quanto politici. In Salomon troviamo così un’immagine del 1930 con
le pose impudiche e ciarliere delle moglie di alcuni politici tedeschi, o l’immagine
sempre del ‘30 in cui coglie l’avidità dell’editore W.R. Hearst mentre consulta dei
dispacci, o la scelta di fotografare dei personaggi scegliendo d’inquadrarne la
silhouette corpulenta.
Anche nel cinema negli stessi anni si rintraccia qualcosa di simile. Ad esempio
in Charlie Chaplin troviamo un modo simile con cui mettere in ridicolo dei “caratteri”
non troppo dissimili, e in effetti anche il personaggio anglo-americano più noto
mostra la sua condizione sempre in contrapposizione con le figure di casta superiore
con cui entra in contatto. Ciò accade fin dalla scelta del costume di Charlot: fuori
taglia e con le toppe, ma con taglio che ricorda una passata eleganza. Anche
Salomon è interno (per i suoi natali da una famiglia di banchieri), e al contempo
esterno (anche la sua famiglia ha subito le conseguenze della sconfitta prussiana
nella guerra ’14-18) all’ambiente che fotografa e questo, ci sembra, trapeli
perfettamente dal suo sguardo disincantato.
1.7 La normatività del tiranno. Il caso italiano
La società della prima metà del Novecento si caratterizza dal punto di vista
comunicativo come entità in cui l’immagine davvero vale più di mille parole, dal
momento che il tasso di analfabetismo è molto elevato per cui il cinema è, insieme
alla radio, l’unico mezzo diretto e in grado di fornire a qualsiasi cittadino delle
indicazioni, comprese quelle comportamentali e ideali di un regime. Si parla di
indicazioni in quanto la ricaduta reale sulla popolazione è difficile da quantificare,
così come è difficile valutare la consistenza di questo tipo d’influenza e la sua durata,
anche a causa di un pubblico di cultura e provenienza sociale molto varia.
48
Sono anni in cui aumenta la consapevolezza che un forte mezzo per infondere
nel cittadino – soprattutto in quello con strumenti politici e culturali limitati – il legame
con la leadership e con le indicazioni normative è sempre più il corpo del capo
quando questi diviene “culto”, un termine che riporta immediatamente alla sua
accezione sacra95, in quanto si pone al centro di ogni discorso in ragione dei
significati simbolici che veicola in sé.
Spetta a noi capire come si traduca in immagini questo tipo di influenza e
trovare delle prove di come per tutto il secolo scorso i regimi politici, anche quelli
democratici, oltre che essere maggiormente consapevoli della forza della
comunicazione visiva, l’abbiano utilizzata in funzione di scelte d’indirizzo in cui il
corpo del leader diveniva un corpo normativo. Tale tendenza ha naturalmente subito
un’accelerazione con i regimi autoritari, che sono stati uno straordinario, seppur
distopico, laboratorio di sperimentazione comunicativa. È questo il motivo per cui
vogliamo, un po’ provocatoriamente, parlare del germoglio di una comunicazione
“integrata” o addirittura, prendendo a prestito un termine dal marketing, di un total
look ante litteram da parte dei regimi.
1.7.1 Il “totalitarian” look del fascismo
George Orwell per scrivere prima Animal Farm (1945) e poi 1984 (1948) mostra
d’ispirarsi ai recenti e coevi – come lo stalinismo – regimi totalitari vedendoli come i
primi abbozzi di una società completamente controllata attraverso dei mezzi di
comunicazione che, oltre ad avere un Big Brother che parlava a una sterminata
massa di persone, aveva soprattutto un ben più inquietante controllo sulle masse
attraverso un occhio elettronico che spiava continuamente gli individui, un panopticon
all’ennesima potenza.
In realtà però nei regimi di allora ciò che ancora dominava, per ragioni
propriamente tecnologiche, era il periodo in cui erano i molti a (dover) osservare i
pochi. Si può riconoscere questa fase se si pensa alle grandi adunate militari, all’uso
dell’immagine fotografica e cinematografica, ai discorsi tenuti da luoghi elevati su
grandi piazze e nel continuo spostarsi – soprattutto del Duce – per l’intera nazione.
C’è il desiderio di mostrarsi e comunicare con una parte sempre più ampia della
95
Naturalmente proprio per il suo senso sacrale, sappiamo che il corpo di culto non si limita a quello
del tiranno, ma nel tiranno ha il suo più forte esempio.
49
popolazione e in questo è possibile vedere un precursore della tendenza al
Synopticon di cui parla Zygmunt Bauman96.
Del resto anche nel rapporto che s’instaura tra i fedeli di una religione nei
confronti del Sacro s’individuano sia il panopticon, sia il synopticon a seconda della
prospettiva da cui si osserva il fenomeno. La capacità del panopticon non è che la
dote preliminare che il Pantocrator deve possedere, il presupposto da cui muove un
essere divino che voglia “comandare su tutto”.
Con il senno del poi dei regimi democratici, quelli che almeno in parte tutelano
la privacy individuale, notiamo sempre più come non manchino di comportare dei
rischi per le istituzioni, anche un’eccessiva espansione del synopticon, un fenomeno
cioè che moltiplica all’eccesso l’attenzione sui “leader”.
Un fenomeno che nelle grandi dittature era lungi dal verificarsi, solo a causa di
un parziale sviluppo tecnologico nel campo delle comunicazioni. Ciò che però
comincia a intravedersi con chiarezza è l’evolversi parallelo dell’immagine che si dà
l’istituzione autoritaria e dei mutamenti “reali” che tali regimi venivano ad assumere.
In tutto questo un ruolo di primo piano era svolto dal corpo del tiranno e la situazione
italiana, in questo senso, fu il più singolare campo di sperimentazione. Una sorta di
officina politica, ma anche un laboratorio di comunicazione sempre più integrale.
La gradualità nei mutamenti nei ritratti del Duce che Calvino, con grande
sagacia, riporta alla memoria, è una delle prove di questa trasformazione
scientemente condotta. La sua esposizione parte dal 1929, anno di cui lo scrittore, in
prima elementare, ricorda la litografia di Mussolini “ancora in abbigliamento
borghese” che campeggia sulla parete laterale (quella centrale, con una attenta e
simbolica disposizione spaziale, era ancora prerogativa del Re).
Osservando la descrizione che lo scrittore fa del Duce quando afferma che non
«s’era mai visto in Italia un uomo di stato rasato, senza barba né baffi, e questo era
già di per sé un segno di modernità»97, dà una prima indicazione di come il corpo sia
un basilare portatore d’informazioni. Intanto c’è una modernità che ha come primo
riferimento l’aspetto dei corpi dei presidenti – ma anche dei divi cinematografici –
americani. Inoltre si connota per un richiamo contestuale alla tradizione e
all’innovazione, come può far pensare l’uso dell’ormai classico tight su di un corpo
96
Cfr. Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2008 [Id., In Search of Politics,
Polity Press, Cambridge 1999]
97
I. Calvino, I ritratti del Duce, in Id., Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Mondadori, Milano
1996, p. 212.
50
giovane e in parte, quanto meno perché glabro, rivoluzionario nei costumi. Con pose
e maniere – ma anche espressioni linguistiche e pronunce – che esprimono al
contempo dei modi che vanno da quelli di un condottiero antico, a quelli da isolenza
plebea.
Sono queste le due anime forse contraddittorie, certamente eclettiche che ci
sembra accompagnino l’immagine del fascismo e di Mussolini fino alla fine dei suoi
giorni: da una parte quella rassicurante della tradizione, dall’altra quella innovativa e
vagamente rivoluzionaria. In realtà la normalizzazione aveva riguardato lo stesso
regime, lo squadrismo aveva lasciato spazio alla meno eclatante opera dell’Ovra, la
polizia segreta fascista che opererà dal ’30. Ma anche per un ragazzo «i ritratti
ufficiali del Duce s’identificavano con una disciplina senza imprevisti»98 e in cui ai
bambini si chiedeva di fare la faccia alla Mussolini.
Un ulteriore passaggio avviene quando la testa del Duce comincia a essere
raffigurata non più frontalmente o di tre quarti, ma di profilo. E qui avviene un
ulteriore passaggio in cui la “testa” diviene “cranio” ed è fondamentale, affinché ciò
accada, che la rasatura sia totale, fino a riguardare i capelli. Siamo negli anni ’30 e si
verifica quella che lo scrittore chiama la trasformazione che valorizzava la perfetta
sfericità del cranio, ma unitamente a una conformazione taurina. Ciò che però
preferiamo notare è ciò che Calvino e in una parentesi, quasi di sottecchi, definisce,
parlando del corpo del dittatore, come un «oggetto di design»99. Ma poco dopo,
altrettanto fugacemente, parla di un ritratto di Mussolini sviluppato in stile «cubista»,
nel senso «che era a forma di cubo con lineamenti geometrici», un’immagine che gli
fa pensare a uno «stile fascista» che è «improntato alla modernità delle superfici
lisce e squadrate» che si sovrappone e si identifica con lo «stile Novecento»100. E
Calvino prosegue in questa “dissimulata” analisi di design (e di total look)
riconoscendo un identico stile nella scritta DVX.
La logica è quindi che con il tempo il corpo del Duce viene plasmato come a
divenire un oggetto di stile moderno con tanto di font e di caratteri di riferimento (noi
alla scritta DVX – che a Calvino giustamente ricorda REX e al tempo stesso un
numero Romano - potremmo aggiungere la famosa M scritta sia come una cifra
latina, in minuscolo e quasi bambinesca101).
98
Ibid., p. 213 [corsivo aggiunto].
Ibid., p. 214 [corsivo aggiunto].
100
Ibid., p. 215.
101
Modi vagamente bambineschi che, a pensarci bene, ritornano spesso nell’iconografia del Duce,
come nel corpo e testa glabra, nell’espressione imbronciata e nel suo costante riferimento alla
99
51
Queste prime prove di design dei corpi non valgono soltanto per Mussolini,
anche l’esercito comincia infatti ad adottare, al posto degli elmetti stile Prima guerra
mondiale, quelli d’aspetto ben più teutonico, a forma di “cupolone”, ma più moderni
perché appartenenti «a una nuova era del disegno industriale»102. Ciò si connota
come un’assonanza visiva, e assolutamente sinergica, con l’immagine di profilo del
Duce che tende a esaltare – a proposito di un umano che tenta di sfuggire dalla
propria eccessiva “umanità”, per dirla con Nietzsche – il cranio come parte di un
corpo fatto di ferro. A tal proposito ricordiamo che la retorica del regime menzionava
spesso il fatto che Mussolini fosse figlio di un fabbro ed egli stesso, e fin dai discorsi
del ‘22, si paragonava alla figura paterna di «un fabbro che piegava sull’incudine il
ferro rovente […] e ora ho il compito ben più aspro e più duro di piegare le anime»103.
Capitava persino che la scenografia di grandi eventi prevedesse che la base
d’appoggio del Duce, come nel caso della sua visita ai nuovi stabilimenti Fiat di
Torino nel maggio del 1939 (fig. 22), potesse essere un’incudine.
Tutti esempi di come ci sia stata una continuità di simboli tra gli esordi del
regime e le sue fasi di declino, ma soprattutto come questo simbolismo sia stato
modulato e innovato nel tempo attraverso i discorsi, la grafica, le divise, le
scenografie, i mezzi di comunicazione, gli eventi e gli audiovisivi percepiti ormai
come straordinari mezzi di diffusione d’immagini e di corpi allegorici.
A questo punto Calvino analizza la ritrattistica di quella testa dotata d’elmetto –
e divenuta essa stessa oggetto irrigidito104 – come farebbe con il frutto di un progetto
industriale, tanto
da sembrare
l’attenta descrizione,
con
linguaggio
quasi
specialistico, di un’opera di design o di marketing.
Sotto l’elmo prende rilievo la mascella, che acquista un’importanza decisiva per la scomparsa della
parte superiore della testa (occhi compresi). Dato che le labbra vengono tenute sollevate (posizione
innaturale ma denotante forza di volontà) la mascella sporge sia in avanti sia lateralmente. La testa
del Duce da quel momento risulta dunque composta essenzialmente di elmo e mascella, i cui volumi
purezza e all’istintuale.
102
Qui addirittura Calvino giunge a paragonarli alle forme date alle automobili del periodo (I. Calvino,
cit., p. 219).
103
P. Chessa, Dux. Benito Mussolini: una biografia per immagini, Mondadori, Milano 2008, p. 7.
104
Una testa ormai resa totalmente calva che trae probabile ispirazione da Eric von Stroheim,
apparentemente poco opportuna per un uomo politico, ma così attuale nell’idea di rifarsi a un
personaggio del cinema o della televisione. Un passaggio da corpo ad altra entità, tanto che nel suo
diario del 27 agosto 1936, Giuseppe Bottai dirà, ricordandolo come una visione, “non l’uomo, ma la
statua stava dinnanzi a me. Dura pietrosa statua”.
52
si controbilanciano, e controbilanciano la curva dello stomaco che sta cominciando allora a prendere
rilievo […] ciò che sotto l’elmo va inevitabilmente perduta è la valorizzazione della fronte pensosa
105
.
E anche Chessa parla di un funzionamento simile a un «messaggio
pubblicitario, prima di diventare propaganda prodotta in serie dalla macchina del
consenso»106. Si aggiunga poi che anche nelle divise (come del resto nel passo di
marcia) il riferimento estetico “alla moda” nella seconda metà degli anni ’30, è
divenuto quello ben più marziale della Germania nazista e questo è visibile nella
stessa divisa mussoliniana di Maresciallo dell’Impero, anche se il passaggio
fisiognomico più rilevante avviene tra il riconoscimento dei Patti Lateranensi del 1929
e i primi anni del decennio successivo.
Man mano diventa l’icona di un regime tutto sommato popolare, l’immagine che
di lui trapelerà è sempre più centrata sulla figura del capo, quasi un logo della forma
assunta dallo stato e richiesta al cittadino.
Si tratta di un corpo che, nel suo mostrarsi al contempo vivo e morto, regola
anche l’idea dell’esistenza e soprattutto della sua conclusione, la religio mortis che,
nella tradizione fascista, diveniva la “bella morte” destinata a chi vive e combatte per
un ideale. Ed è Mussolini stesso, nel parlare delle ferite ricevute nella Grande
Guerra, ad aver «situato la propria vicenda biografica sotto il segno del binomio
vita/morte, o addirittura morte/risurrezione»107.
Nel libro Storia di un anno il Duce si descrive come un uomo dal fisico
martoriato, ma resistente all’inverosimile. Quasi la rivelazione di un corpo immortale
che, nel corso della sua esistenza, aveva affrontato duelli, incidenti stradali e aerei,
innumerevoli tentativi d’attentati ed era stato colpito, durante la guerra, da numerose
schegge. E questo processo di auto-reificazione prosegue nelle parole del Mussolini
quasi definitivamente sconfitto del 1944, quando si descrive come un corpo, ma
sempre dal cranio “blindato”, una sorta di “panzer”. Termini che ricordano l’estetica
futurista come di una sostanza dalla natura dinamica e perfino “metallica”108.
L’idea di eternità del Duce, soltanto scalfita dai numerosi tentativi occorsi nel
tempo di attentare alla sua vita, si riscontra anche nelle rappresentazioni della
propaganda, ed è probabilmente vero ciò che afferma Luzzatto quando chiede: «il
105
I. Calvino, cit., p. 219.
P. Chessa, cit., p. 5.
107
S. Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 4.
108
Si veda B. Mussolini, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota, Mondadori, Milano
1944.
106
53
duce vivo non aveva forse un rigore statuario, ovvero una fissità cadaverica?». Ciò
doveva «garantire al corpo del capo carismatico la curabilità dell’istituzione ch’egli
incarnava e in qualche modo esauriva: la curabilità di un monumento, cioè di un
oggetto inanimato, indistinguibile per natura da un corpo imbalsamato»109.
Il corpo del duce diviene nel tempo una sorta di “rigido” instrumentum regni e
questo è dimostrato anche dal dibattito che tra il ’26 e ’36 si animerà sul modo di
rappresentare artisticamente il corpo del Duce. Una discussione che tra l’altro
coinvolge anche i pubblicitari e che finisce per trasformare Mussolini, nella concreta
formula usata da Calvino, in oggetto di design. Ma la comunicazione del dittatore è
per forza di cose contraddittoria allorquando, nel presentarsi al contempo come
umano e straordinario, non lo pone al riparo da eccessi comunicativi.
È per questo motivo, ad esempio, che l’attenta regia del Minculpop tenta di
precisare con minuzia la strategia da tenere, modulando le scelte comunicative
affinché, pur senza l’apporto dei moderni sondaggi, tenessero conto dei mutamenti di
popolarità e di attese della popolazione. Si pensi all’ordine impartito a giornali e
riviste in occasione di una visita di Mussolini a Bologna in cui si chiedeva di
pubblicare solo foto con il Duce tra la folla e nessuna con lui solo o in compagnia
unicamente delle autorità110. Il “suggerimento” punta a favorire, almeno attraverso le
immagini, il rapporto con le masse che, con le tragiche vicende della guerra e la
conseguente perdita di popolarità, portò a prediligere l’orizzontalità dell’immagine,
rispetto alla ben più gerarchica e “responsabilizzante” distante verticalità del capo nei
riguardi della folla.
Sono molti gli esempi che si possono ricavare dalle cineteche in cui
s’individuano le scelte del regime di costruire o consolidare delle gerarchie attraverso
la sintassi e la plasticità compositiva delle immagini. La stessa posizione dei corpi
che attorniano il capo/leader nel fotogramma, esprime una ben precisa strategia
enunciativa e in tal senso è possibile distinguere quanto meno due macro-fasi. Una
prima in cui la sua figura è spesso ripresa in luoghi e ambiti poco “maestosi” ed è
affiancata fisicamente a quella di altri gerarchi (in particolare ai capi quadrunviri della
“marcia”): immagini che fanno del Duce un primus inter pares. E un secondo periodo
in cui il “controllo” delle immagini è più rigoroso e la sua figura è proposta sempre
109
Ibid., p. 23.
A. Schwarz, «Fotografia del Duce possibilmente con l’elmetto», in A Mignemi (a cura di),
Propaganda e mezzi di comunicazione di massa tra fascismo e democrazia, Ed. Gruppo Abele, Torino
1995, p. 70.
110
54
come dominante.
Le sue competenze pregresse e la grande attenzione che Mussolini pone sulla
sua resa visiva non possono che confermare una certa consapevole conoscenza dei
mezzi di comunicazione per cui è possibile supporre una stretta osservanza del
sistema gerarchico dei ruoli. Del resto è circa negli stessi anni in cui comincia a
operare l’Istituto Luce che si afferma l’idea che attraverso il cinema si possa
“ricostruire” la realtà. Ciò si percepisce perfettamente analizzando le idee e l’attività
di regista e teorico del cinema di Ejženštejn che risentono dell’influenza dell’impegno
rivoluzionario nel Proletkult e da un’attenta lettura della psicoanalisi e dell’indagine
sui processi psicologici inconsci dello spettatore cinematografico.
Si afferma il concetto che il cinema debba rispecchiare e osservare le cose da
un punto di vista prossimo a quello del proletariato e che l’arte possa essere una
pratica sociale in grado d’influenzare ideologicamente e, dunque, anche negli atti, il
pubblico. Le forme espressive che traducono tali idee travalicano, quanto meno
indirettamente, i confini dell’URSS tanto che anche in Italia l’Istituto Luce comincia ad
applicare, seppur con moderazione, quei tagli d’immagine che sembrano il frutto
della lezione figurativa dell’arte sovietica fatta di prospettive inusuali, inquadrature
sghembe, effetti d’ombra e contrasti chiaroscurali intensi.
La stessa mimica del Duce – come l'espressione accigliata del viso, i gesti
secchi e a scatti, le labbra serrate e protese dopo una breve frase – possono essere
visti come segni di riconoscibilità del “prodotto” Mussolini, uno “stimolo alla vocazione
mitopoietica degli italiani. Qui provocatoriamente parliamo di un totalitarian look dei
regimi in generale: un unico modo di manifestarsi, con una simbologia sempre
uguale e ricorrente e che in Italia si traduce nella M di Mussolini, nei teschi, nel saluto
a braccio teso, nel predominio del nero, nel volto di profilo o nei fasci e altro.
Proprio perché – similmente a quelle che sono le parti che compongono
un’identità visiva111 omogenea – la simbologia e le immagini adottate di prassi dai
regimi nascono da riusi, ricorrenze, evocazioni e assemblaggi culturali che, offerti
come coerenti, sono in realtà assolutamente spuri. Si tratta di forme rappresentative
che invitano a un’identificazione e che consentono associazioni che rimandano a
significati in grado di stratificarsi nel tempo. Lo scopo finale è realizzare «un nuovo
stile di vita che dava forma e ordine al caos della modernità. Plasmando la coscienza
111
Nell’accezione adottata da J.-M. Floch, Identità visive. Costruire identità a partire dai segni (Parigi
1995), FrancoAngeli, Milano 1997.
55
delle masse»112.
Il corpo è, tanto più in un regime, “traduzione” del potere, al punto che nella
percezione delle masse si pensa a uno stato fisico di Mussolini sempre più rigido e
innaturale che – soprattutto dall’epoca della sua fase calante di popolarità nell’anno
più prossimo all’inizio della guerra – porta all’idea che potesse essere malato, se non
addirittura morto113. Il corpo del Duce è dunque un corpo manipolato tanto prima che
dopo la sua morte114. È un corpo da “trattare” con cautela, anche per evitare che con
la morte diventi un corpo mitizzato tanto quanto quello di Hitler lo divenne con la sua
sparizione. È il corpo “ingiuntivo” di Mussolini a subire il trattamento della Storia, un
corpo non più unico ma che a piazzale Loreto viene posto “egualitariamente” tra altri
corpi, su cui vengono collocate delle scritte che ne attestano un’identità viceversa
vaga. Con quella drammatica esposizione della morte si assiste, tra le altre cose, al
tentativo di figurativizzare un contrappasso morale che valga sia per l’uomo, sia per il
regime politico che esso rappresentava. Le innumerevoli immagini di quei momenti
sono, oltre che l’animalizzazione del nemico (come si vedrà nel par. 3.2.3), un mezzo
per fissare nell’immaginario collettivo un confronto oppositivo: la comparazione,
anche se ugualmente violenta, tra due regimi politici che si connotano,
evidentemente, con due idee contrapposte di società115.
112
E. Gentile, Il culto del littorio, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 188.
Un fenomeno che sappiamo si è verificato anche nell’immaginario delle altre società dittatoriali. In
Italia si arrivò a leggende in cui si affermava di un corpo di Mussolini addirittura imbalsamato e
mostrato a piazza Venezia rigido e con il braccio teso. Fatto riportato in A.M. Imbriani, Gli italiani e il
Duce. Il mito e l’immagine di Mussolini negli ultimi anni del fascismo (1938-1943), Liguori, Napoli
1992, pp. 54 e sgg.
114
Il corpo del Duce morto resta un fattore di tensione che ha il suo culmine nella cerimonia di
tumulazione avvenuta nel 1957 a Predappio, quella che, un paio di anni dopo, Fellini rievoca ne La
dolce vita nelle battute di un anziano ex-gerarca fascista.
115
Un’idea “comparativa” che è rilanciata dalla lettera anonima che un ufficiale, reduce dalla prigionia
negli Stati Uniti, spedisce nel 1945 al governo italiano e in cui descrive come un quotidiano americano
avesse posto in prima pagina, divisa in due, da un lato la foto di Mussolini appeso e dall’altra quella di
Roosevelt, da poco scomparso, con una scritta che comparava la “civiltà” statunitense a quella
italiana. (Cfr. Luzzatto, cit., p. 77).
113
56
Capitolo secondo
UMANO/NON UMANO.
IL CORPO TRA RELIGIONE E POLITICA
“Sappiamo dal Vangelo che
quando fu chiesto a Gesù che
cosa fosse la verità, lui non rispose”
(Giulio Andreotti)
57
2.1 Tra sacrale e grottesco. Il corpo del Divo Giulio
Il corpo “sacralizzato” del politico si presta dunque a letture psicologiche
“blasfeme”, a forme di alterazioni nei gesti e nei corpi più o meno giustificate dallo
svolgersi della narrazione. Scelte comunicative che possono avvenire alla luce del
sole soltanto in un regime liberale e democratico, in cui il potente può essere deriso,
e il cui potere – un po’ come accade durante il carnevale – accentua la sua natura
ridicola e, se vogliamo, più “bassa”, quella corporea. Si rende così il leader umano e
assimilato nell’organismo a quello del cittadino, come se fosse indispensabile
riaffermare che si tratti di una relazione tra entità niente affatto differenti. La
democrazia, del resto, si afferma solo se non pone tra potere e cittadino la stessa
distanza che intercorre tra un re e un semplice suddito.
Spesso il ruolo del politico è letto – al di là del comportamento opportunamente
pragmatico che egli è costretto talvolta ad assumere (la cosiddetta realpolitik) – come
portatore di atteggiamenti cinici e, al tempo stesso, spregiudicati. Questo ne fa,
insieme alla sua più o meno diffusa popolarità, un personaggio che per eccellenza è
da temere e al tempo stesso, proprio per ragioni di “equità”, da irridere. Un’irrisione
che può limitarsi alla leggera ironia, e che finisce per essere sostanzialmente uno
“sfogo”, ma che conferma i ruoli sociali in essere, oppure una satira che mette in
discussione, con la durezza e il sarcasmo, le qualità umane di chi la subisce. Questo
fa in modo che si aprano squarci nella gestione del potere e sulle persone che lo
gestiscono. Narrare in questo senso del potere significa capirne fino in fondo certi
atteggiamenti, e ciò richiede talvolta il ricorso a un’analisi interiore e psicologica del
personaggio che poi potrà essere esibita, criticata o perfino ridicolizzata.
La sua costruzione psicologica – rientrante in buona parte nella sfera intima,
personale se non addirittura inconscia, è fatta oggetto d’indagine soprattutto per quei
momenti in cui lo si osserva nei gesti intimi e apparentemente informali. I mezzi di
comunicazione scelgono e suggeriscono allo spettatore quali siano questi “momenti”
in cui affiora la vera personalità dell’uomo politico in questione, ma anche in questo
caso, come si può immaginare, nascono ugualmente dei dubbi sull’oggettività e
legittimità di tali osservazioni. Spesso avviene attraverso le immagini fotografiche,
quelle che sono maggiormente in grado di fissare un gesto ridicolo, uno sguardo
ambiguo o un momento di debolezza. Altra cosa quando bisogna cercare di fissare
58
questi momenti meno “controllati” in un flusso continuo di immagini. Qui la
ricostruzione richiede la conoscenza certa delle abitudini personali del potente, c’è un
maggior bisogno di “narrativizzare” le immagini o, come accade nei biopic, di
renderle biografiche. Ritratti umani che proprio perché complessi sono più semplici
da realizzare post mortem, in cui gli episodi sfuggono al controllo del fu potente, in
cui i fatti e le interpretazioni si storicizzano e dunque si fissano e in cui nuovi episodi,
quelli più intimi e oscuri, riaffiorano più facilmente dal passato.
Dunque nella narrazione documentaristica e filmica la messa in forma di questi
aspetti risulta molto più articolata e complessa. Vedremo, in un paio di esempi
cinematografici, come sia possibile superare le difficoltà legate al dover mostrare e
narrare, quando lo scopo è farlo in maniera piuttosto polemica, di leader politici che
all’epoca della realizzazione dei film erano ancora viventi. Todo Modo, girato e
sceneggiato da Elio Petri nel 1976, è un film ispirato all’omonimo romanzo di
Leonardo Sciascia116 che ha come personaggio-fulcro un politico democristiano che
sembra l’alter ego di Aldo Moro. Nello stesso partito milita un altro personaggio
politico dalla cui storia muove Paolo Sorrentino, il quale ne Il divo (2008) narra di un
particolare periodo storico della vita di Giulio Andreotti.
Il cinema, rappresentando le vite dei personaggi ha spesso tentato di
oltrepassare il dato più strettamente biografico e ha cercato d’indagare le motivazioni
e lo spirito più profondi che animano i personaggi. Lo ha fatto sia per le figure di
leader totalmente di finzione – si pensi ai tanti film hollywoodiani che hanno messo in
scena immaginari presidenti degli Stati Uniti – sia mettendo in scena personaggi
realmente esistiti. Osservando infatti le diverse opere si possono trovare gradi
differenti di attenzione per gli aspetti più privati e legati ai segreti e vicende familiari
dei personaggi, oppure è possibile notare un’altrettanto ampia varietà di film che, nei
confronti dei politici, sono strettamente agiografici. Spesso le critiche per l’operato o il
comportamento tenuto dal personaggio sono al centro della rappresentazione,
mentre, in altri casi, predomina nell’opera fiction l’interesse per la ricerca di ipotesi
sulla personalità: la parte più intima e psicologica del politico rappresentato.
Crediamo che Il divo, film di Paolo Sorrentino del 2008, sia interessante da
analizzare proprio da quest’ultima prospettiva.
Nel biopic dedicato ad Andreotti si lascia intendere che anche questo
«presidente», come quello di Todo Modo (alias Aldo Moro), al di là della sua tempra e
116
L. Sciascia, Todo Modo, Einaudi, Torino 1974.
59
dell’apparente tranquillità esibita, abbia delle angosce che trovano sfogo per il suo
malessere attraverso altre vie d’uscita. Il testo pare suggerire, ad esempio, che i
frequenti mal di testa di cui il politico soffre siano il frutto di questa inquietudine
sotterranea, al pari di quando in lui si manifestano le visioni del suo compagno di
partito scomparso Moro. Questi del resto ci pare siano gli indizi e il leitmotiv che
guida tutto il film di Sorrentino.
La rottura in questo film di una linearità narrativa rigida – a causa dei frequenti
flashback e soprattutto per la presenza di scene che si configurano come aperture di
senso e “rilievi” visivi – servono a raccontare la vita di un personaggio politico
attraverso un metodo di ricomposizione di episodi che hanno, al tempo stesso, lo
scopo di ricostruire una fase storico-politica e dei personaggi che quest’epoca
l’hanno vissuta divenendone protagonisti. Si parla in particolare della corrente
andreottiana della DC, del suo leader – Giulio Andreotti (Toni Servillo) – e delle figure
maggiorenti di cui era costituita. Si vedrà come questa frammentazione narrativa sia
funzionale a un’opera che deve parlare attraverso metafore visive con la predilezione
per uno sguardo grottesco. Vedremo inoltre come sia utile costruire la figura perno
attraverso l’interazione con altri personaggi che operano per delinearne, talvolta per
contrasto, come nel caso dei politici Paolo Cirino Pomicino e Franco Evangelisti, il
carattere: sorta di “spalla” dell’attante principale del film.
Proveremo a seguire questo percorso e lo faremo ponendo in risalto i numerosi
elementi che fanno pensare a una cosciente contrapposizione tra la quasi sacralità
con cui è mostrato il corpo del protagonista e quella più mondana di chi lo affianca.
Tutto ciò serve a definire una rilettura del corpo, soprattutto quello di un leader
politico attraverso un punto di vista particolare. Per verificarla ci sembra opportuno
andare per gradi e prendere a riferimento lo studio che Gilles Deleuze aveva
compiuto in relazione al trattamento operato sui corpi nel teatro di Antonin Artaud e
nella pittura di Francis Bacon117. Prospettiva che richiama a una sorta di antitesi tra
corpo “inorganico” e corpo “organico”. Del resto un’opera che abbia subito, almeno in
parte, un processo di digitalizzazione, favorisce l’affiorare di influenze di natura
pittorica o, per dirla in maniera più generale, “compositiva”. È interessante notare
come tale discorso sia funzionale all’analisi del film che ci apprestiamo a fare118. La
117
G. Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata 1995. Con questo testo
l’autore compie un’analisi dei dipinti di Bacon, soffermandosi in particolare sul trattamento a cui viene
sottoposta la Figura e sul senso da essa assunto nelle opere in relazione con il resto dell’immagine.
118
Si è andati in questa direzione anche quando si è parlato (Curtis, 2008) dell’influenza della pittura
in opere cinematografiche di autori come David Lynch e Matteo Garrone.
60
rimediazione operata soprattutto attraverso il digitale – sempre più è in grado di
“incorporare” con la sua azione altri media e forme mutuate da altri linguaggi –
s’inserisce perfettamente, seppur circoscritta al tema di fondo della nostra ricerca, al
discorso sull’opera di Sorrentino
Ne Il divo, infatti, ci sono diversi e innovativi modi di costruire la sintassi
dell’opera: le scritte sovrimpresse, quasi ologrammi descrittivi di avvenimenti e
personaggi; il primeggiare di una colonna musicale tanto esplicativa da assumere
quasi un ruolo di attante; la suddivisione del film in segmenti facilmente distinguibili;
gli innesti e i disinnesti dal registro realistico in direzione di quello grottesco119 e
visionario; un’opera che fluttua con leggerezza tra il grottesco, il realistico, il
simbolico, il dadaista e il surrealistico (si pensi alla scena di presentazioni degli
andreottiani in cui udiamo uno strano fischiettio che richiama il loro sguardo in
macchina, uno sguardo a sua volta “interpellante” lo spettatore); la riflessione
metalinguistica sul fenomeno televisivo; una sintassi fatta di aperture e di ellissi tra
scene che dettano un cambio accentuato di ritmo, di musica e di ambienti, linee e
forme (si pensi alle scenografie e al barocchismo di certe architetture contrapposte
ad altre fortemente geometriche e razionaliste – come nella scena dell’uccisione del
giornalista Pecorelli120).
2.1.1 C’è storia e Storia
Il divo ambienta la narrazione all’inizio degli anni ’90, un periodo particolare
tanto della vita nazionale, quanto di quella del protagonista Giulio Andreotti. Le
vicende hanno inizio nell’aprile 1991 con la nascita del VII governo Andreotti e
narrano la fase storica successiva alla caduta dei regimi comunisti dell’Est, l’epoca
delle bombe di mafia, di Tangentopoli e dei grandi attentati a Giovanni Falcone e
Paolo Borsellino, degli arresti e suicidi eccellenti e del trapasso tra le cosiddette
Prima e Seconda Repubblica. In tutto questo s’inseriscono le vicende politiche e
119
Uno stridio di sguardi tra loro contrastanti ma che, come accade per il surrealismo, è fondamentale
per il concetto che guida le scelte alla base dell’opera.
120
E sappiamo come la costruzione del paesaggio si rivesta spesso di connotazioni di carattere etico
e dunque leggibile anche da una prospettiva politica e del resto, come afferma Sandro Bernardi,
l’ambiente è «un vero e proprio personaggio, un interlocutore, molte volte uno spietato antagonista nei
confronti dei personaggi […] una soglia appunto in cui s’intravedono i limiti della cultura e della
conoscenza» (S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Venezia 2002, p. 18). Ciò
sarebbe tanto più interessante da indagare se si riflette al complesso delle opere di Sorrentino.
61
umane di Andreotti, i processi per mafia, quelli legati alla morte di Pecorelli e
direttamente associati alla sua presunta partecipazione alla loggia P2.
Fatti nazionali e fatti privati si confondono nel parlare di un personaggio che,
come l’allora presidente del consiglio, conosce come nessun altro, le questioni che
hanno segnato la storia della Repubblica dal secondo dopoguerra all’epoca descritta
dal film. L’opera sceglie di rappresentare pubblico e privato di Andreotti riletti
soprattutto attraverso il ricorso e l’evocazione della vicenda che, si tratta dell’ipotesi
principale esposta dal film, ha segnato più interiormente l’uomo politico: il rapimento
e l’omicidio di Aldo Moro. Si evocano, in particolare, le lunghe fasi convulse della
segregazione dello statista democristiano, i forse “troppo tiepidi” tentativi fatti per
salvarlo e l’ascolto di brani di una lettera (spesso immaginaria), tra le tante scritte
durante la prigionia e che diverranno il suo testamento.
La storia che ci viene raccontata del personaggio Andreotti è quella di un uomo
che è passato attraverso tutte queste vicende ma che sembra, almeno così appare,
non averne subito gli effetti e non essere stato, per usare un suo noto motto,
“logorato dal potere”. L’opera, che oscilla in modo ambivalente tra storia pubblica e
privata, mostra la mediocrità del personaggio attraverso la metodicità e la ripetitività
dei gesti quotidiani, lasciando trasparire una cultura piccolo borghese121. Si
osservano così il pasto frugale, l’abitudine d’iniziare la giornata prestissimo e sempre
con una visita presso la sua parrocchia, l’isotopia del ricorrere di alcune azioni come
quella di prendere un farmaco effervescente, la prossemica corporea e dei suoi gesti
(si pensi alla scena in cui la sua segretaria spiega i significati attribuiti ai movimenti
delle dita e delle mani), la sua fredda inespressività ecc. La figura di Andreotti si
presta in pieno allo “studio” che Sorrentino compie sull’uomo e sul suo convivere con
le passioni a cui - forse per il suo understatement e la sua freddezza122, da cui oggi
quasi tutti politici paiono fuggire - egli perfettamente risponde. Il Belzebù (uno dei
soprannomi a lui affibbiati) che pare il portatore di segreti politici indicibili e che tutti
vorrebbero conoscere, ma che l’autore tralascia per indagare le passioni più intime e
renderle spettacolari.
E il tema dello “spettacolare” e quello del “sacro”, si condensano perfettamente
già nel titolo completo del film: Il divo. La spettacolare vita di Giulio Andreotti. Il
121
Vi riconosciamo una strategia non troppo dissimile a quella messa in atto da Hannah Arendt
quando parla della “banalità del male” nel suo omonimo libro.
122
Nel film viene attribuita a Moro la frase secondo cui Andreotti è «un regista freddo e impenetrabile,
senza dubbi, senza palpiti, senza un momento di pietà umana».
62
termine «divo» ha la sua origine dal latino divus, traducibile con divino. Erano divo o,
al femminile, diva anche le figure che si ponevano tra il mondo terreno e quello
sacro, soprattutto le figure di potere o, più in generale, gli uomini di particolare
importanza. Essi, dopo la morte, erano riconosciuti come divinità e pertanto tributari
di culti come, ad esempio, gli imperatori Augusto o Giulio Cesare, il “divo Giulio”: un
altro degli appellativi andreottiani.
Tutto questo avviene in un film che si presta particolarmente, proprio per la sua
struttura a episodi, a una lettura per “segmenti”, dunque a una rimodulazione
dell’intreccio attraverso rimandi e “ritorni” continui ai temi che ne strutturano il senso.
Inoltre ci troviamo di fronte a un’opera che si costituisce, per usare i termini di De
Vincenti, come «cinema espressivo ed emozionale [che] passa per la negazione
delle spettacolarità consuete»123. Ne Il divo, che analizzeremo solo per la parte
strettamente legata al discorso sull’interpretazione del corpo del potere, si assiste a
continui rimandi alla costruzione del corpo politico come a una contrapposizione tra
sacro e profano o, per usare un dualismo già delineato, tra corpo organico e
inorganico.
2.1.2 Il monologo del Divo
C’è una scena in particolare che attrae immediatamente l’attenzione, quella del
monologo in cui A., con le mani giunte sul grembo, è seduto su uno scranno di foggia
antica124 in una stanza che sembra un soggiorno: probabilmente quello della sua
casa (min. 71). Il personaggio inizia parlando con il suo usuale tono di voce basso,
ma man mano che prosegue nel suo monologo-confessione aumenta la voce fino a
quando giunge a urlare ma senza muovere o scomporre minimamente il suo corpo.
È
il punto di massima tensione, il punto in cui espone il suo discorso sulla
pericolosità insita in chiunque cerchi la verità, per cui afferma che
Roberto, Michele, Giorgio, Carlo Alberto, Giovanni, Mino, il caro Aldo per vocazione o per necessità,
ma tutti irriducibili amanti della verità, tutte bombe pronte ad esplodere, che sono state disinnescate
col silenzio finale, tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, invece è la fine del mondo e noi
123
124
G. De Vincenti, Il concetto di modernità nel cinema, cit., p. 42.
Sedia in legno con braccioli e un’alta spalliera.
63
non possiamo consentire la fine del mondo.
Principio quella della pericolosità della “verità”, che assume valenza metaforica,
soprattutto se la si accosta alle diverse tematiche riguardanti da vicino, e per vari
motivi, il personaggio del film: la morte, la politica, la giustizia e la religione. Alla fine il
tono di voce torna di nuovo alla calma, la tensione è come svanita e Andreotti si
mostra nuovamente nel suo abituale stato emotivo controllato. Il monologo sulla
verità, che appare ridondante nella costruzione diegetica è, paradossalmente,
particolarmente interessante da analizzare. La sequenza infatti, proprio perchè
inessenziale allo sviluppo dell’intreccio, assume valore di sottolineatura, quella di una
messa in rilievo (§ 1.1).
Restando al piano plastico è un’immagine in cui la figura, escluso il volto
parlante, risulta decisamente statica. C’è un costante alternarsi di inquadrature
ravvicinate che vanno dalla figura intera al primo piano al mezzobusto per tornare di
nuovo al primo piano, e poi ancora allontanarsi con un mezzobusto. La staticità del
corpo è data dal fatto che il personaggio sia seduto sopra uno scranno, e questo è
uno dei fattori che ci fanno pensare che l’autore, per la realizzazione di questa scena,
si sia ispirato al noto ritratto che Diego Velázquez realizzò nel 1650 per papa
Innocenzo X.
Questa è una delle sequenze che nel film assumono un significato di rottura
rispetto al fluire della narrazione. Per meglio dire, essa sollecita a un percorso
interpretativo ancora più particolare e interessante, se si riflette sul fatto che ad un
certo
punto
il
personaggio
arriva
ad
alterarsi
fino
all’urlo:
praticamente
l’interpretazione che dà Francis Bacon del dipinto di Velázquez125.
E se non può avvenire, come in Bacon, che ci sia l’eliminazione, attraverso la
defigurazione, di qualsiasi elemento di carattere figurativo, illustrativo e narrativo126,
di certo si ha come risultato quello di allontanare lo spettatore dai classici modi
descrittivi del cinema e indirizzarlo verso uno stimolo – per citare Deleuze nella sua
analisi del pittore anglo-irlandese – maggiormente rivolta alla “sensazione”, ai sensi e
all’istinto e meno alla parte razionale del discorso che pure, inevitabilmente, trapela
dal monologo.
125
Sono diversi i dipinti e gli studio che Bacon fa che sono ispirati all’opera di Velázquez.
Per una definizione e spiegazione più ampia del concetto di defigurazione mi permetto di
rimandare a G. Curtis, Identità defigurate. Il corpo rilevante, in A. Ottai (a cura), Passages.
Drammaturgie di confine, Bulzoni, Roma 2008, pp. 109-148.
126
64
Del resto anche lo sfondo assolutamente simmetrico e in leggera penombra,
accentra fortemente lo sguardo direttamente sul corpo del personaggio. Osservando,
tra l’altro, con attenzione l’immagine, si scopre che la simmetria è costruita attraverso
elementi che riportano decisamente all’idea di corpo sacro (fig. 5). A causa infatti dei
due grandi termosifoni, dei due dipinti e dei due piedistalli per le statuette ai lati del
personaggio, con alle spalle quello che sembra un pendolo in legno con cassa a
terra, c’è un richiamo immediato a una composizione d’altare e dunque al paragone
del personaggio a una figura cristologica che, per come è posizionata, fa proprio
pensare a una croce. Un “Cristo” che però non ha le braccia aperte della
crocifissione, per accogliere su di sé, secondo la teologia, i peccati dell’uomo ma,
come si osserva in tutto il film, un corpo richiuso in sé, con le mani giunte: una
personalità che attua un forte controllo sul proprio organismo.
Una corrispondenza simmetrica che, a conferma di quanto detto, ritroviamo in
diversi punti del film127 e che consolida la natura polisemica dell’opera: una specie di
altare, ma anche una scenografia che irride ai gusti mediocremente piccolo borghesi
che si attribuiscono al personaggio e, infine, all’idea che dietro quella composizione e
razionalizzazione degli spazi ci sia il tentativo di controllare ogni dissimmetria intesa
come qualunque elemento irrazionale e imprevedibile. Tale proporzione visiva nasce
dalla consapevolezza che in tal modo si ottiene fin dagli elementi scenici, con il
supporto di un’inquadratura perfettamente centrata e frontale, un consapevole effetto
ritmico e dunque una rima visiva che rispecchia la natura e l’aspirazione che l’opera,
evidentemente, attribuisce al personaggio: quella cioè di avere il controllo di tutto,
dove sia bandita qualsiasi casualità. Un ulteriore richiamo a un Dio “pantocrator”.
La luce che appare dall’alto alla fine del monologo è come una luce divina che
illumina i contorni in leggera controluce, ma che al tempo stesso lascia tutto il resto
sotto un’inquietante ombra d’oscurità. È una nuova riprova dell’interpretazione
cristologica che diamo alla scena. Del resto c’è una frase di Andreotti che torna nel
film che afferma come il caso non esista, ma esista solo in volere di Dio.
Questa scena mostra anche un altro elemento d’interesse, A. che parla e urla
guardando poco più in alto rispetto al classico sguardo in macchina, ma non c’è
dubbio che si tratta, al tempo stesso, di un discorso interiore e di un mettere il
pubblico, come in un a parte teatrale, a conoscenza delle proprie convinzioni,
attraverso un intimo momento introspettivo. In questo monologo è come se il
127
Si pensi alla scena del bacio con Riina (min. 65’50’’).
65
personaggio agisse su di un palcoscenico, con spazi ben delimitati e stabiliti, in
un’immagine che costituisce un luogo liminale, tanto da prefigurare una dimensione
temporale e spaziale altra.
2.1.3 Rilievi sul corpo del testo
Il monologo richiama l’attenzione proprio perché diviene un “rilievo”, un fattore
di rottura rispetto al normale fluire della narrazione, un elemento di modernità per la
sua capacità di esplorare le possibilità del cinema attraverso immagini talvolta più
disnarrative128 di quanto sembri a un primo sguardo. Ne esce un surplus, una
precisazione che – se ci si limitasse al testo del monologo – apparirebbe quasi
ridondante, ma che invece lavora molto sulla voce, su una phoné in grado di attivare
una comunicazione più diretta tra “l’interno” del personaggio e quello dello spettatore
e non nel senso di una mera immedesimazione. Lo spettatore sembra quasi indotto
ad abbandonare il fluire dei significanti a favore di una voce-parola che perde in parte
il suo valore di testo trasmissibile. È una scena che, proprio per la sua marcata
inverosimiglianza profilmica, appare ingiustificata sul piano diegetico.
Immagini appunto “visionarie”, che si configurano come “rilevanti” generando un
effetto di straniamento, pari a quello di un qualsiasi testo (pittorico, teatrale, letterario
ecc.) che sveli la sua natura di enunciato finzionale e, in tal modo, inibisca qualsiasi
identificazione, rendendo palese la natura artistica e fittizia dell’opera per cui lo
spettatore mantiene, anzi potenzia, la sua funzione di osservatore critico di quel che
percepisce.
Ricordando ancora l’uso della figura nell’opera di Bacon, anche quella di
Andreotti è una forma a riposo in cui, piuttosto che un corpo in movimento, agisce sul
volto una specie di deformazione, un’energia che opera interiormente, ed è leggibile
più come un processo inconscio che, proprio per questa sua natura, il personaggio
non riesce a controllare. È un corpo che in apparenza si scompone tra parti
controllate e altre che lo sono meno, in una scena che ha l’ambizione – per dirlo
ancora con le parole del pittore – di rendere percepibile il grido anziché l’orrore del
malessere che agisce nel suo profondo. Un effetto assolutamente simile a ciò che
Bacon vedeva affiorare dal ritratto di Innocenzo X e che, per restare sull’asse Artaud128
Cfr. F. Vanoye, Cinéma et récit I. Récit écrit récit filmique, Nathan, Paris 1989, pp. 199-202.
66
Deleuze, è «un corpo che fugge, ossia fuoriesce dell’organismo […] Fugge dalla
bocca aperta ad O»129, ossia passa per l’organo che «diventa punto di fuga del
soggetto attraverso il grido»130.
L’urlo della scena del monologo esprime visivamente lo sforzo che il leader
politico compie per contrastare i propri sconvolgimenti interiori. Questo può essere
considerato uno dei modi con cui il cinema – e ancor prima la pittura e il teatro – ha
rappresentato l’inconscio. Tale percorso porta alla rimodulazione di ciò che
conosciamo dell’identità dei soggetti rappresentati. Lo scopo di Sorrentino è quello di
ricostruire le pulsioni che agiscono sul corpo del personaggio. Si configura dunque
come un’ipotesi in cui s’immagina che un corpo non possa contenere e gestire senza
ripercussioni, e con tanta freddezza, tali sentimenti. Fossero anche quelli procurati
dalla sola passione che è incontrovertibile che il personaggio provi: quella politica e,
marginalmente, perché appena accennata, quella delle corse ippiche. Egli stesso
afferma come ci sia «solo la politica» e sottolinea come abbia pianto per la morte
della madre e lo abbia fatto solo in un altro paio di occasioni, «quando morì De
Gasperi e la prima volta che fui nominato sottosegretario».
Il controllo delle proprie reazioni è uno dei grandi temi che emergono dal film e
si vede anche dall’imperturbabilità del volto e del corpo nelle altre scene, in cui le
passioni sono relegate a un livello di confidenza – come nella scena “interiore” del
monologo o della faticosa rivelazione di una vecchia passione per Mary Gassman –
o, più semplicemente, pulsioni da reprimere: si pensi all’elogio che Vittorio Sbardella
(Massimo Popolizio) fa del suo ex capo-corrente quando, a un collega di partito, fa
notare l’impassibilità con cui reagisce alla sconfitta alla corsa presidenziale «guarda
e impara come si sta al mondo».
Il film però suggerisce immediatamente che quest’opera di repressione degli
istinti deve comportare, in chi la compie, non pochi problemi. Non è casuale infatti
che la scena iniziale del film sia quella in cui il protagonista ha conficcati sulla fronte
degli aghi nel tentativo di combattere il mal di testa. La composizione di questa scena
afferma fin da subito un parallelo tra Andreotti e l’immagine dell’iconografia del
Messia131: come Cristo con la sua corona di spine. Anzi dal momento che siamo
all’inizio del film, è facile immaginare che lo spettatore non conosca affatto il disturbo
129
G. Deleuze, Logica della sensazione, cit., p. 109.
M.P. Pozzato, La pittura di Francis Bacon nel videoclip Radio, in Nicola Dusi e Lucio Spaziante (a
cura di), Remix-Remake. Pratiche di replicabilità, Meltemi, Roma 2006, p. 247.
131
Termine che deriva dall’ebraico «mašiah» che significa «unto», ossia il “prescelto” del signore.
130
67
di cui soffre abitualmente. Questo a conferma dell’immediato parallelo tra lui e il
corpo sacro per eccellenza.
L’immagine che più di tutte crea il parallelo tra Andreotti e Cristo è però quella
della cena che segna la sua candidatura al Quirinale (min. 38) in cui, come
nell’Ultima cena di Leonardo, sono tutti seduti allo stesso lato del tavolo, il punto di
vista dello spettatore è dalla parte opposta e A., al centro, è affiancato dagli “apostoli”
della sua corrente. Assente solo il “giuda” Sbardella (passato alla corrente “dorotea”),
ma con la fidata presenza dell’“Evangelisti” (Flavio Bucci) che afferma che la corrente
è «un impero teocratico» con un solo capo-divinità: Giulio Andreotti. Le parole
attribuite all’ex ministro Rino Formica in coda al film (min. 96) servono a confermare
tale idea e a condensare un po’ tutte le peculiarità che il film attribuisce all’uomo:
«Andreotti è un extraterreno, non avevamo colto la sua appartenenza a un filone di
pensiero che ha reso immortale la storia della chiesa. In lui convivono duemila anni di
storia, c’è il sacrificio di Cristo, la papessa Giovanna, l’inquisizione, i Borgia e la
diplomazia».
2.1.4 Le conseguenze della passione
Si è detto che la dicotomia che emerge più forte dal film sia quella tra
organismo umano e negazione di ogni elemento di organicità. Questa opposizione
porta con sé una delle riflessioni più proficue tra quelle avviate nel nostro studio,
come quella tra corpo sacralizzato del potere e corpo laico e “umano”.
Il corpo e il volto sono il luogo di quel trattamento che Deleuze chiama
defigurazione, e la loro “umanità” è messa a dura prova perché spinta all’estremo,
fino alla negazione o sottrazione delle sue componenti organiche. Il corpo è visto
come qualcosa che si deforma, oggetto in divenire, in grado di modificarsi anche per
mezzo di “protuberanze ed orifizi” come afferma, similmente ad Artaud e Bacon,
Gianni Canova il quale aggiunge: «che corpi siffatti non desiderino più, e siano del
tutto incapaci di godere è quasi un banale e straziante corollario»132. In tal senso
l’inconfondibile sagoma133 e l’impassibilità di Andreotti, anche se non sono definibili
132
G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani,
Milano 2000, p. 147.
133
Deleuze parlerebbe della conformazione della sua schiena di A. come di una pulsione che imprime
la sua forza in un punto ben preciso, anche se, a differenza di come avviene con le figure di Bacon,
non variabile del suo corpo.
68
come defigurate, spingono fatalmente a riflessioni di questo tipo.
Oltre a quanto detto in precedenza, sono molteplici gli esempi che nel film
instaurano il dualismo tra sacro e mondano. C’è la scena dell’incontro del
protagonista con la moglie dell’ambasciatore francese (Fanny Ardant), che si
conclude con la strana richiesta della donna di abbracciare e baciare (min. 25) quel
corpo imbolsito, imbarazzato – forse perchè frena la sua attrazione per la donna – e
quasi da rigida marionetta del presidente. Come detto in relazione al corpo del
potere, in particolare il corpo del tiranno sempre fissato e reso mitico dagli strumenti
di riproduzione visiva, è un corpo che notoriamente suscita il desiderio di toccarlo e
abbracciarlo. Una voglia resa impossibile da ovvie ragioni di sicurezza e di
opportunità e che quindi lo trasforma in un corpo “intangibile”. La scena
dell’abbraccio assume soprattutto questo significato: la desacralizzazione del potere
che ritorna a una dimensione privata, passionale, addirittura carnale.
Resta l’incapacità di comprendere fino in fondo cosa passa davvero in testa a
un uomo tanto enigmatico: poco prima, infatti, era stato consigliato alla donna di
“interpretare” i movimenti delle mani per comprenderne e scoprirne l’umore. Trapela
dalle battute del politico, il desiderio di “limitare” la sua natura umana, come quando
afferma di non avere “vizi minori”, oppure quando sostiene «non ho mai baciato mia
madre, mai», o ancora, nell’impassibilità impacciata che esibisce nella scena, a metà
strada tra il realistico e il visionario, dell’ipotetico bacio con il boss Riina.
Il film però ci mostra anche scene che ne rivelano la natura umana e talvolta
perfino grottesca, natura intima che il personaggio non riesce a nascondere, ad
esempio, nella scena in cui, preoccupato per l’incombente processo di mafia,
cammina con passo svelto, quasi accelerato e al buio (min. 73) facendo su e giù nei
corridoi della sua casa. Oppure nella scena con l’Idrolitina e davanti a un piatto di
amatriciana. O la scena che lo riprende nei luoghi d’intimità (e per eccellenza
baconiani) del bagno o nella camera da letto. È all’interno di quelle sfere d’intimità
rappresentate dai luoghi meno accessibili della sua casa, che il personaggio svela
maggiormente se stesso e le proprie angosce.
È proprio nella scena del bagno che Andreotti vede infatti riflesso sul suo
specchio (min. 89) – in un’immagine doppia della coscienza – l’immagine di Moro
seduto a terra. Si tratta della scena fondamentale tra quelle, almeno sei volte in tutto
il film, che evocano lo statista democristiano e che dunque lo configurano, nella
raffigurazione psichica del protagonista, come una presenza costante e inquietante.
69
L’immagine riflessa crea un leggero effetto che, freudianamente, possiamo definire
“perturbante”. La figura di Moro in più occasioni è raffigurata attraverso il ricordo delle
immagini più dolorose che vengono in mente: seduto in terra e con alle spalle la
stella brigatista a cinque punte durante i cinquantacinque giorni di prigionia e la
scena dell’esecuzione finale nel portabagagli della Renault rossa. Moro serve, infatti,
a dar voce soprattutto a una lettura particolare dell’uomo Andreotti, che viene
descritto dalla vittima con queste parole particolarmente dure e significative:
Si può essere grigi ma onesti, si può essere grigi ma buoni, grigi ma pieni di fervore, ebbene on.
Andreotti, è proprio questo che le manca, quell’insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità senza
riserve, che fanno i pochi democratici che ci sono al mondo. Durerà un po’ più, un po’ meno, ma lei
passerà senza lasciare traccia.
È proprio il rapimento di Moro che suscita in lui una delle poche reazioni
incontrollate che il personaggio ricordi (min. 29): «ebbi dei conati di vomito, una
reazione incontrollabile. Ci imbarazzano le reazioni incontrollate, ma in fondo ci
rassicurano, perché ci dicono che siamo vivi e umani».
Lo stato di malessere è uno stato trasmissibile sinestesicamente, lo spettatore
prova sul proprio corpo le sensazioni psichiche di ciò che il personaggio mostra di
sentire. Il film di Sorrentino riproduce preferibilmente attraverso i gesti quotidiani, il
malessere che suppone abbia il protagonista. Si attiva, inoltre, quella che in termini
psicologici è chiamata capacità riflessiva con cui, pur senza dare definizioni
univoche, in linea di massima s’intende «la capacità di un individuo di rappresentare
e ipotizzare il funzionamento mentale altrui, di rappresentarsi la possibilità che gli altri
possano fare ipotesi sul proprio e altrui funzionamento mentale»134. Si tratta
insomma di un film che produce un continuo gioco tra visionario e realistico, che in
parte corrisponde alla dicotomia tra straniamento e immedesimazione “riflessiva”.
Il pericolo principale per il personaggio è rappresentato da quelle che, per dirla
con il titolo di un altro film di Sorrentino, sono “le conseguenze dell’amore”. Questo è
ben evidenziato dalla rivelazione a Cossiga, già accennata, della sua giovanile e
dirompente infatuazione per una donna (min. 92).
134
A. Imbasciati, M. Margiotta, Compendio di psicologia, Piccin, Padova 2004, p. 170.
70
Francesco, io devo proprio confessarti qualcosa che non ho osato mai dire a nessuno, neppure a me
stesso […] ma deve restare tra di noi. Io ho sempre avuto un segreto, una passione, una passione per
Mary Gassman, mi toglieva il sonno, mi toglieva il respiro. Al Liceo non facevo che pensare a lei, poi
mi sono sposato e l’ho dimenticata.
È una scena che può essere letta in maniera quanto meno duplice, da una
parte un’interpretazione, certamente corretta, è sortita da più parti, secondo cui il
massimo segreto rivelabile da Andreotti sia quello di un ingenuo sentimento
giovanile; dall’altra una lettura che a noi sembra altrettanto giustificata e forse,
addirittura preferibile, certamente meno scontata. Facendo infatti riferimento a quanto
già troviamo nelle opere precedenti di Sorrentino, la scena parla di una tentazione,
del rischio evitato a fatica di cedere alle “corruzioni” insite in una passione amorosa
vera. Il personaggio è consapevole e vive quella sua passione come un segreto, un
cedimento al suo comportamento assolutamente sorvegliato, un “errore giovanile”
che poteva avere delle “conseguenze” incontrollabili. L’idea di fondo che muove il
personaggio è che l’uomo viva di equilibri fragili che una passione può facilmente e
irrimediabilmente alterare.
La sig.ra Enea (Anna Bonaiuto), la segretaria, pare sia la figura che meglio ha
compreso la personalità del suo capo, tanto da divenire quasi una sacerdotessa dei
suoi segreti e da distoglierlo da tentazioni pericolose. Ciò si evince perfettamente
nella sequenza in cui distrugge le lettere d’amore che il suo capo aveva ricevuto nel
corso degli anni, ma che aveva sempre nascosto e conservato, «io a lui non gliele ho
fatte mai vedere».
Il personaggio è e vuole rimanere un corpo intangibile e se vogliamo “sacro”,
nell’accezione di un organismo che limita, anche se con qualche cedimento, gli
aspetti passionali, deboli, umani. La sua inviolabilità è nel film messa alla prova
dall’abbraccio, di cui si è detto, da parte della moglie dell’ambasciatore, così come
nella vita sono le accuse di mafia pendenti su di lui a toglierne l’aura di intoccabilità.
Allo stesso modo è osservandolo nella sua quotidianità più banale (il bagno,
l’amatriciana, l’idrolitina, il gelato ecc.) che l’opera ne mette in dubbio lo spessore
umano e culturale. Il film però attenua in apparenza ogni giudizio e lo fa in quei punti
71
in cui ricorre all’ironia. Questa è usata, a esempio, nella scena del bacio e in quella
poco successiva in cui si evoca la caccia a cui, secondo le testimonianze di alcuni
pentiti, il politico avrebbe partecipato. S’irride alla sua incapacità di tenere in mano un
fucile, è così se ne svela il lato antieroico e decisamente comico con lo sguardo in
macchina finale, come per chiedere aiuto a chi lo osserva. Il suo corpo in questi casi
assume dei comportamenti grotteschi, simili ai modi in cui veniva rappresentato il
“presidente” di Todo modo dietro cui si scorge la figura di Moro.
Tanto Il divo quanto Todo modo sono film che sembrano partire dalla
rappresentazione analogica, ma per smentirla come “semplice” traccia del reale, e lo
fanno attraverso un’immagine che, filtrata dal grottesco, torna a essere nuovamente
una riflessione sullo strumento cinematografico. Opere che potrebbero essere
accusate di scegliere talvolta la via della caricatura ma che, al di là di ogni uso
facilmente ironico, prediligono soprattutto un certo sarcasmo.
2.1.5 Il fanciullo Pomicino
Il dualismo tra corpo sacro e corpo grottesco è perfettamente evidenziato dal
rapporto che lega A. a un altro personaggio che ritorna diverse volte nel corso degli
intrecci: Paolo Cirino Pomicino (Carlo Buccirosso).
Questo personaggio, bambinesco fin dal nome, si presenta tale in diverse
scene. Innanzitutto è per eccellenza un corpo organico fin dalla prima scena: la sua
apparizione avviene tra due donne, le sue segretarie. Egli nello scendere dall’auto le
saluta pizzicandole sulla guancia, il gesto dà alla relazione una connotazione di
confidenza che va al di là del semplice rapporto professionale. Si riconosce in lui,
molto basso tra donne belle e alte, un’ambivalenza tra paternalismo e fare
bambinesco, ma in un modo tale da non cancellare quanto di carnale è insito in certi
gesti e atteggiamenti135. Ulteriore dimostrazione di questo è la scena della festa (min.
18) in cui la contrapposizione tra il corpo inorganico di Andreotti e quello
estremamente organico di Pomicino emerge con tutta la sua forza. Da una parte il
presidente seduto, quasi immobile, che riceve una fila interminabile di “questuanti”,
dall’altra Pomicino che, dopo averlo salutato e ringraziato, si scatena in una danza
135
In psicanalisi, come nel cinema questa connotazioni non sono per nulla in contrasto. L’esempio
cinematografico più lampante che ci viene in mente è il ruolo che teneva Harpo Marx, il “fanciullo”
biondo dei fratelli Marx.
72
frenetica, comprensiva di abbracci e baci alle molte donne da cui è circondato.
Sono corpi di potere, ma in opposizione tra loro, anche perché, come si è
compreso nel tempo, non devono essere per forza corpi tendenti al sacrale e tali da
annullare completamente i propri bassi istinti. Anche nella scena della cena
“leonardesca”, Pomicino è colui che porta al tavolo un’enorme mozzarella di bufala
campana, «la ragazza obesa di Mondragone», ma Andreotti ha davanti a sé soltanto
un bicchiere con soluzione effervescente per il suo proverbiale mal di testa.
L’istintuale, la debolezza del desiderio in un corpo fanciullesco come quello di
Pomicino, traspare anche nella scena in cui improvvisamente si mette a correre in
uno dei corridoi del parlamento (min. 42). Un istinto improvviso, ma anche
un’affermazione di potere, che lo porta a correre così come farebbe un bambino, a
prendere velocità e scivolare urlando in quello spazio quasi completamente vuoto
(fig. 6). Subito dopo si ferma, si sistema la cravatta e torna al ruolo sociale che
richiede autocontrollo. È un’ulteriore scena di messa in “rilievo”, apparentemente
fuori dal contesto narrativo, ma che apre a una molteplicità di letture, operando
liberamente sulle metafore e sul piano degli istinti legati al gioco, sia pure di “potere”.
Il personaggio di Pomicino dunque, per il suo dar sfogo ai desideri e agli istinti,
è il “sodale” ideale del suo molto più sorvegliato capo. L’opera, come spesso accade,
mette in risalto il contrasto tra la natura delle due figure, trasformando il ministro
campano in una sorta di perfetta “spalla” del personaggio principale.
Tutto ciò è perfettamente funzionale a un film che prova a rompere con i clichè
di chi in passato ha cercato di rappresentare la politica o, ancor meglio, le sue
logiche interne. Sorrentino ci mostra come un pattino a rotelle che percorre
improvvisamente il corridoio parlamentare, sconvolgendone gli equilibri politici –
compreso quello che avrebbe dovuto portare Andreotti alla presidenza della
repubblica – sia una metafora dell’attentato a Falcone che porterà, nel maggio del
1992, all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro. È ancora una trovata visiva attraverso cui il
film mostra, come se si trattasse di un gioco fanciullesco o dadaista, la possibilità di
alterare una situazione già indirizzata. Si tratta, al di là dell’ulteriore nota grottesca, di
un traslato dell’instabilità propria di ciò che è umano e che il potere cerca di
sconfiggere attraverso l’illusione di un controllo, che riporti tutto al prestabilito, a una
scelta compiuta a tavolino. È contro-politica perché opposta a chi si sforza di dar
sempre l’impressione di gestire ogni situazione, di far credere che un qualsiasi
avvenimento sia immancabilmente preordinato.
73
In un testo che rompe i cliché, strutturandosi in dimensioni spaziali e temporali
instabili – anche per mezzo di quelle messe in rilievo a cui si faceva cenno –
l’elemento dell’inatteso diviene funzionale all’assunto, solo in parte fantastico e
visionario, che l’intreccio narrativo si è dato.
2.2 I corpo democristiani di Todo modo
Definite alcune delle caratteristiche del film di Sorrentino, faremo un breve
parallelo con Todo modo, l’opera di Elio Petri, dal momento che pur essendo molti i
punti di differenza tra i due film, altrettanto forti sono i punti di contatto, non ultimi la
“visionarietà” della struttura e della costruzione narrativa e l’uso che questi film fanno
dei corpi dei personaggi principali.
Gli elementi di similitudine tra i due film risiedono anche nel fatto che le figure
principali “svelano” la loro vera natura attraverso l’interazione con altri personaggi
che ne lasciano affiorare la personalità più intima: scherzosamente potremmo dire si
torni al luogo comune secondo cui “comprendo davvero chi ho davanti se osservo
con chi si accompagna”, ma soprattutto pare si possa interpretarne l’intima
personalità già dallo stridio che emerge dal contrasto tra corpi.
2.2.1 Leader in convento
Le vicende di Todo modo si svolgono presso l’albergo di Zafer, ma le
scenografie di Dante Ferretti lo fanno sembrare piuttosto un moderno eremoconvento, presso cui sono chiamati a raccolta democristiani di varie correnti operanti
nel campo dell’industria, della finanza, delle banche, nei vari enti parastatali, ma
soprattutto capi politici. Essi, come ogni anno, vi svolgono tre giorni di esercizi
spirituali, ma in questa occasione, si ritrovano nel momento in cui in tutto il Paese si è
diffusa una strana “epidemia” che sta colpendo, uccidendole, molte persone136
(siamo nel pieno della stagione terroristica).
Gli incontri di preghiera, condotti da don Gaetano (Marcello Mastroianni),
sarebbero in realtà l’occasione per dare risposta alle spinte che chiedono il
136
E’ utile ricordare che la storia è girata e ambientata durante la lunga stagione terroristica e nel
pieno della cosiddetta “strategia della tensione“.
74
rinnovamento tanto della struttura del partito, quanto della gestione morale nel
governo del paese. Tra litigi continui e violenti, il vero scopo di fondo è quello di
conservare il potere, ma si verificano degli omicidi, in apparenza senza motivo, che
elimineranno, uno alla volta, i personaggi più in vista del partito. Alla fine morirà
anche il protagonista, il fulcro delle vicende, che è indicato nel corso di tutto il film
con l’appellativo di “Presidente” (Gianmaria Volontè).
Questa figura principale è mostrata come un personaggio conciliante e tutto
sommato benevolo, ma allo stesso tempo il film ne lascia trasparire, oltre che
l’enorme sete di potere, il fondo d’ipocrisia che sembra animarlo. La critica del film al
personaggio è piuttosto esplicita, chi guida la Democrazia Cristiana, il partito più forte
dell’epoca e citato più volte nel corso dell’opera, non può che essere complice della
corruzione di cui quell’organizzazione si macchia. Sono gli anni del cosiddetto
“compromesso storico” tra DC e PCI e il film interviene fortemente nelle vicende
politiche coeve tanto da suggerire, e in modo piuttosto esplicito, che il personaggio
del Presidente, altri non sia che l’alter ego dell’allora leader democristiano Aldo
Moro137. In realtà la similitudine è fin troppo evidente con colui che pagherà con la
vita il tentativo di rendere sempre più strutturale l’alleanza di potere e d’intenti tra le
due maggiori forze politiche italiane dell’epoca. Grazie infatti al minuzioso lavoro
compiuto dall’attore Volontè, che giunge quasi alla ricerca mimetica, si arriva a
identificarlo immediatamente nel politico democristiano.
Il personaggio del “Presidente” risalta, però, proprio perché è posto in relazione
con le altre figure democristiane, raffigurate spesso come personaggi grossolani,
tracotanti e sempre cinici, di cui il Presidente si circonda.
Anche per l’Andreotti de Il Divo avviene qualcosa di simile. Le figure da cui è
circondato ne qualificano la caratura morale, più di quanto faccia egli stesso
attraverso il proprio corpo. In un certo senso la vera “statura” del personaggio
Andreotti nasce, secondo Sorrentino, più dal confronto con i maggiorenti del suo
gruppo politico che la sua segretaria, la sig.ra Enea, definisce, con un gioco di parole
meteorologico, come «una brutta corrente». Il corpo del leader in questo, come in
Todo modo, ma potremmo allargarlo a qualsiasi altro caso, si forma anche attraverso
le figure di cui – colpevolmente – si circonda. Si ricorderà il modo di qualificare certa
politica spregiudicata di cooptazione che porta a quelle che, nel gergo politico e
137
Morandini però vi vede anche una parte di Andreotti (dice «80% Moro e 20% Andreotti»). Ma nella
descrizione fisica e d’altro che il film ne fa, Andreotti sembrerebbe piuttosto un altro personaggio,
quello filo-americano.
75
giornalistico, sono definite “armate Brancaleone”, o il “circondarsi di nani e ballerine”.
Formule costruite intorno a personaggi grotteschi, che si circondano di figure dai
modi e comportamenti contrastanti con l’idea di dirittura morale. Men che meno
esprimono quella sorta di “ascetismo” delle forme e dei costumi, che certe idealità
politiche sembrano chiedere – o addirittura ingiungere – a chi sceglie l’impegno
politico.
L’Aldo Moro di Todo modo tenta di essere sospeso in aria come una figura a
metà strada tra il divino, il terreno e l’intellettuale, ma deve scontrarsi con la
tentazione del corpo e, come detto, con le figure di cui si circonda. Nell’ambiente
costituito nella gran parte da politici ineleganti e spesso debordanti, il corpo di Moro è
tra quelli che risalta, così come si distingue – mostrando l’attenta ricerca sulle figure
che il regista ha messo in atto nella scelta del casting – Vondrano, il quale assume la
filiforme silhouette di Ciccio Ingrassia. Un corpo ascetico per eccellenza che, pur non
salvandolo dal destino che segnerà l’intero gruppo (sarà anzi uno dei primi a essere
ucciso), non terrà fede al ruolo assegnatogli da un simile corpo, mostrandosi non
meno d’altri un ipocrita e falso fustigatore del malcostume democristiano.
Il Presidente è visto nelle sue forti insicurezze e nella sua, solo apparente,
modestia, come di chi è consapevole e cerca di contrastare, la propria natura umana
e dunque le sue debolezze. Il suo corpo è curvo, soprattutto al cospetto del sacro, in
particolare tende a prostrarsi di fronte al corpo bello e sicuro di sé di Don Gaetano.
La sua voce, inoltre, non esprime mai la tracotanza del potere, è sempre calma fino a
divenire flebile, sospira e tentenna quasi nell’esprimere un parere, mostrando la sua
indecisione nella lettura dei segni. In questo modo Volontè tenta di ri-modellare il suo
personaggio in modo da poterne esprimere le ambiguità che porta in sé fino a
configurare, già sul piano plastico, l’ipocrisia delle posizioni assunte. Anche nelle
parole di Petri si legge questa trasformazione fisica del corpo dell’attore «Volontè
divenne evanescente, camminava come se fosse sulle nuvole, parlava a bassa voce,
non ti guardava negli occhi»138 e il fatto di aver addirittura studiato in moviola, con lo
stesso Volontè, il comportamento pubblico di Moro e di averne ripreso molti
comportamenti, in particolare certi suoi atteggiamenti rituali durante incontri formali,
non attenuano il senso di grottesca comicità che dal film trapela.
Quantunque Petri in seguito sottolinei come i risultati dei primi due giorni di
lavorazione – a causa di un effetto inaspettato in cui il corpo del Presidente
138
Intervista tratta da I. Pezzini, Immagini quotidiane, cit., p. 75.
76
democristiano risultava addirittura «nauseante» – siano stati «cestinati», l’effetto
conclusivo che la recita produce nello spettatore è comunque quello di una
rappresentazione grottesca in linea, del resto, con l’accentuazione recitativa
caratteristica anche di altre performance dell’attore milanese. E se dalle parole del
regista esce un lavoro persino “di asciugatura” recitativa, rispetto agli originali
atteggiamenti che Aldo Moro teneva, in realtà l’effetto finale non sembra fare sconti al
pesante sarcasmo di cui il leader politico viene fatto oggetto nel film.
In questo senso anche le critiche che piovvero sull’“imitazione” di Volontè non
possono che esser lette attraverso la lente di una critica di forte matrice ideologica, e
valutate, quindi, nella prospettiva di chi considera il cinema come campo di
applicazione del suo impegno “militante”. Quel giudizio si basava sull’assunto che
non si potesse fare un film che avesse contenuti rivoluzionari, adottando un
linguaggio proprio di un sistema reazionario. L’idea di fondo era che non fosse
sufficiente l’“impegno” e la politicizzazione dei contenuti, se si fosse rimasti ancorati
all’ideologia dominante e borghese che – anche senza scomodare Barthes – è insita
in modi diversi nelle varie forme di comunicazione.
Altri tempi, ma queste stesse critiche, allo stesso modo in cui colpivano le opere
di Petri, potrebbero essere rivolte oggi anche al film di Sorrentino. La ricerca
psicologica compiuta dal parte del regista, sul personaggio principale de Il Divo, è
tesa a rendere tutta la complessità della sua figura, ma ci si potrebbe chiedere: che
importanza possono avere, nella valutazione dei comportamenti di un politico, le
motivazioni interiori che se ne possono dedurre? Sul piano politico certamente
nessuna, ma per ciò che attiene a Sorrentino probabilmente qualcuna sì. E questo
accade proprio in ragione del suo percorso autoriale di lettura sul genere umano, in
particolare maschile, che può rendere “pretestuoso” perfino l’utilizzo di un
personaggio e della storia biografica che ne ricava. Ne Il Divo, infatti, il personaggio
di Andreotti funge da modello universalmente valido. È il perfetto paradigma adatto,
come si è cercato di dimostrare, per continuare a parlare dei rischi legati alle
“conseguenze” a cui può portare un improvviso amore o, ancor più in generale,
qualsiasi forma di passione che non sia attentamente gestita o soppressa.
Anche Petri compie un percorso non troppo dissimile che passando, ad
esempio, attraverso opere come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto
(1970) o La classe operaia va in paradiso (1973), giunge a un personaggio, non più
77
metaforico e simbolo dell’arroganza reazionaria, com’era il personaggio del capo
della Squadra Omicidi di Indagine139, ma a una figura ben più nota e reale che verrà
additata e che diverrà, come si percepisce da Todo modo, il simbolo e la pietra
angolare del cinismo e della falsità del potere rappresentato da Aldo Moro.
E’ anche per questo suo modo di essere percepito, come il volto, tutto sommato
benevolo, di un potere che non è neppure volgare e sguaiato che, probabilmente,
Moro diventerà l’ideale vittima della furia terrorista. Si tenta però di far riprodurre a
quel corpo anche l’afflizione tutta psicologica di un politico che, come dice Petri dello
stesso Moro, è per la sua natura un «uomo che, probabilmente, avendo una
coscienza più sottile, viveva drammaticamente e angosciosamente questo suo
ruolo»140. Il personaggio del Presidente si mostra infatti più che penitente, come
richiederebbe la pratica religiosa, afflitto da complessi di colpa. I continui ritmici ed
energici sospiri con cui accompagna le sue preghiere sono il tormento di chi è pronto
di nuovo a peccare. Quei sospiri, infatti, al cospetto di una donna, Giacinta
(Mariangela Melato), si trasformano velocemente in ansimi sessuali. Un ruolo che lo
stesso regista definiva addirittura come quello di un «Gattopardo all’ennesima
potenza»141.
Per quanto regista e attore siano stati restii a riconoscerlo, nel film si assiste
inevitabilmente a una deformazione tragicomica per cui i personaggi, e in particolare
quello del politico democristiano, sono resi in maniera grottesca. Questo oscillare tra
corpo ascetico e corpo grottesco è rappresentato perfettamente dal pregiato
“caratterista”, quale è Ciccio Ingrassia, utilizzato proprio per la sua inconfondibile alta
e magra figura. Il personaggio di Vondrano esprime con la sua figura lo stato di un
uomo che per aver «rubato per il partito» dichiara, per una vita fatta «di astinenza, di
penitenza […] come un martire» che «la punizione è stata eccessiva». Una scena
drammatica, ma che assume ben presto caratteri di tragicomicità quando Vondrano,
come un personaggio sottratto alla coeva commedia sexy, si toglie i vestiti di dosso
e, in modo volutamente grottesco, batte ridicolmente le mani sulle sue natiche e
mostra d’indossare una specie di cintura di castità in cuoio.
Si tratta, tanto per Petri, ma soprattutto per Sorrentino, di corpi di potere politici
139
Anche se si tratta di una figura vagamente ispirata al commissario Luigi Calabresi (altro
personaggio “petriano” che sarà ucciso appena due anno dopo il film da mano terrorista) e che
richiama alla mente i fatti di Milano successivi alla Strage di piazza Fontana (dicembre 1969):
l’inverosimile suicidio dell’anarchico Pinelli nella questura meneghina.
140
I. Pezzini, cit., p. 75 [corsivo aggiunto].
141
Ivi.
78
che divengono utili per parlare d’altro, mentre nella gran parte dei casi avviene il
contrario: i fatti e i modi in cui si narrano sono metafora di una spesso dissimulata
ideologia politica. La stessa scenografia di Todo modo diviene il simbolo della
situazione italiana dell’epoca. Si compone infatti di luoghi claustrofobici, con
inquadrature sghembe, luoghi e persone che la mdp osserva attraverso usci, visioni
decentrate e angolari, obiettivi che spiano da porte socchiuse e soprattutto schermi
in funzione e disseminati ovunque nell’edificio - televisori da osservare, ma da cui si
è a nostra volta scrutati - che compongono un ambiente decisamente orwelliano142.
L’assunto da cui muovono questi registi è quello secondo cui, attraverso uno sguardo
grottesco sui corpi e sulla società - come spesso accadeva talvolta loro malgrado
nella commedia italiana - si possa fare un discorso che diventi metafora della politica
e del costume italiani.
2.2.2 L'immagine di Moro pre e post mortem
Ci sono immagini che divengono patrimonio comunitario di una nazione, proprio
perché si connotano come delle icone fortemente rappresentative di una situazione o
di un personaggio. Si tratta di fotogrammi «culturalizzati» o meglio continuamente
“rimedializzati” che spesso oscurano tutti quelli precedenti. Di immagini che hanno
questa capacità ce ne sono molte, si pensi, per limitarci al tema del leader, a quella
dei tre vincitori della Seconda guerra mondiale Churchill, Roosevelt e Stalin,
fotografati a Yalta nel 1945, oppure a Nikita Kruscev all'Assemblea dell’Onu nel 1960
con in mano la sua scarpa o ancora, a un'immagine qualsiasi tra quelle ufficiali di
Mao Zedong che moltiplicata e trasformata in “marchio”, è resa popolare nel '73 da
Andy Warhol.
Per l'Italia l'immagine di Aldo Moro davanti al simbolo a cinque punte delle BR
(fig. 7) è divenuta una delle immagini primarie della sua e nostra storia, tra quelle che
meglio rappresentano una cesura tra due epoche diverse. Vediamo lo statista tornare
improvvisamente alla sua natura umana attraverso un'immagine che – con quella
camicia sbottonata, la canottiera a vista e un volto smagrito su di un corpo non più
sacrale, ma leggermente curvo ed evidentemente inerme – prima sarebbe stata
142
Anche gli spazi esterni confermano questa visione ambientale claustrofobica. Sappiamo che c’è
un’ epidemia, ma l’impressione che si ha, è che qualsiasi luogo sia sporco e totalmente ammorbato.
La fotografia ci rende un’immagine che fa sembrare l’aria stessa grigia, irrespirabile.
79
nascosta e relegata al piano personale, ma che da quel momento è offerta allo
sguardo impudico dell'intera comunità. Una cesura che diventa anche metafora tanto
di un destino individuale, quanto della Storia collettiva: la fotografia cioè che meglio
rappresenta l'apice della forza terrorista, ma anche – lo sappiamo ora – della sua
prossima conclusione.
Ciò riporta all'affermazione di Barthes (1980) secondo cui l’immagine di un
personaggio ormai scomparso, ma potremmo dire con qualsiasi altro destino, si
carica e sembra profetizzare la sorte che lo attende. È un modo con cui Barthes
conferma la sua idea di “connotazione”, seppur a posteriori. Si potrebbe parlare
d’una connotazione successiva, col senno del poi, quelle proprie degli accadimenti
già storicizzati (anche quando privati e individuali) di un corpo e del suo destino ma,
più rispettosamente dell’idea primordiale di Barthes143, comunque di connotazioni
ideologiche, cioè di come l’interpretazione che si fa degli eventi, mutino la lettura
delle immagini. Abbiamo l'immediata percezione di come questo possa verificarsi,
osservando l’immagine di Moro prima, durante il suo sequestro e dopo la sua morte.
Un corpo di leader pensato nel cinema (in Todo modo del 1976) e ripensato sempre
nel cinema dieci anni dopo (Il caso Moro) ma, indicativamente, sempre con lo stesso
interprete: Gian Maria Volontè. Un “riuso” dello stesso corpo che, per dirla in termini
barthesiani, palesa, dietro l’apparente “naturalità”, il frutto retorico di precise posizioni
ideologiche e culturali.
Dal film di Ferrara a quello per la tv di Gianluca Tavarelli del 2008 (Aldo Moro Il presidente) sono state almeno cinque le opere che hanno incentrato il proprio
racconto sulle vicende di Moro e sui 55 giorni del suo sequestro. Il film di Marco
Bellocchio Buongiorno, notte (2003) suggerirà quasi una resurrezione per Moro, o
meglio, lo rappresenterà in un’accorata e onirica scena finale che, pur posta in un
luogo tutto sommato quotidiano e “anonimo”, trascende da ogni visione realistica.
La trasformazione della sua immagine ha inizio fin dalla sua prigionia e dalle
prime lettere giunte alla famiglia e al ministro dell'Interno. Ed è gioco facile, per gli
stessi DC, rinnegare quelle lettere che Moro inviava loro. Troppa la differenza tra gli
atteggiamenti tenuti fino a quel momento dal politico e ciò che trovava espressione in
quelle lettere. Si disse immediatamente che erano frutto di una costrizione se non
addirittura di una scrittura sotto dettatura da parte dei suoi sequestratori.
Isabella Pezzini afferma che da questi avvenimenti del 1978 si avvia quel
143
Cfr. R. Barthes, 1957, ma si veda anche 1964 “Rhétorique de l‘image”, in Communications, tr. it.,
“Retorica dell‘immagine”, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 2001, pp. 22-41.
80
«processo di perdita dell’aura che ha subito da allora la politica»144 e di conseguente
desacralizzazione, che nasce dal rapimento Moro e che trae alimento da quel
cambiamento di «strategia enunciativa» che confligge con «l’Immagine attestata e
soprattutto attesa di Moro»145. La tesi di Agostino Giovagnoli è che mentre Moro
cerca di dar valore alla sua posizione d’ostaggio nelle mani delle BR, dal di fuori, si
conduce un’operazione contraria: quella che punta a «diminuire il valore
dell’ostaggio»146, la strategia è quella di far pensare che il vero Moro e la sua
immagine più reale sia «quella da lui mostrata nella libertà», in contrasto con quella
«sfigurata dalla violenza fisica e psichica»147.
Ciò porta a un cambiamento radicale del modo di percepirne la figura, per cui le
sue lettere, per diversi motivi, dovevano essere false. Al di là delle motivazioni
politiche, si trattava di un’epoca in cui la «sacralità» degli uomini di potere era ancora
molto sentita. I cittadini conoscevano poco o nulla della loro vita privata e solo nel
tempo si assisterà alla personalizzazione della politica che ora viviamo, in cui le
vicende personali dei leader precedono ormai per importanza il ruolo istituzionale che
essi rappresentano. La deriva non ha mai smesso di avanzare e di incrementare nel
tempo la sua forza divenendo talvolta una sorta di culto della personalità che l’Italia
credeva di essersi lasciata definitivamente alle spalle con la caduta del regime
fascista.
Difficile ora immaginare quanto quelle lettere di Moro alla famiglia potessero
essere considerate come una violenta messa in pubblico dell’intimità di un politico
che ancora oggi, a distanza di oltre trent’anni, non smette di suscitare imbarazzo
nella scena politica nazionale. Per comprendere la pudicizia, almeno pubblica, con
cui era considerato ogni elemento affettivo e della vita privata da parte dei leader
politici democristiani si pensi alla testimonianza riportata dalla figlia di uno di essi.
Racconta che in tanti anni solo una volta ascoltò una considerazione del padre,
Amintore Fanfani, che faceva immaginare che lui e la prima moglie, Biancarosa, si
fossero scambiati un bacio148. Non troppo diverso era per i leader degli altri partiti, si
pensi al grande risalto che ebbe nel 1988, tra i militanti politici del PCI in particolare, il
bacio davanti all’obbiettivo fotografico tra Achille Occhetto, allora segretario del
144
145
146
147
148
I. Pezzini, Immagini quotidiane, cit., p. 72.
Ibid., p. 71.
A. Giovagnoli, Il caso Moro. Una tragedia repubblicana, Il Mulino, Bologna 2005, pp. 111-118.
Ibid., p. 121.
Episodio tratto dalla puntata intitolata Rieccolo! de La storia siamo noi.
81
partito, e la sua compagna Aureliana Alberici149.
Il cinema ha rappresentato attraverso diverse pellicole questa figura inquietante
di Moro, non ultimo Il divo che pur parlando, come detto, fondamentalmente di
Andreotti, ha utilizzato il trauma del rapimento dello statista pugliese come motivo
ricorrente e “rilevante” nelle vicende di vita dell’altro politico democristiano.
La sua figura ha subito interpretazioni e letture varie, spesso diametralmente
opposte sia rispetto al registro satirico-grottesco del film di Petri, sia a quello
strettamente cronachistico e politico de Il caso Moro (1986) di Giuseppe Ferrara. È
interessante vedere come lo stesso attore Gianmaria Volontè che si era cimentato
nel ’76 nella figura del leader doroteo, accetti di nuovo, a distanza di dieci anni, di
riprenderne le sembianze ma con un film completamente diverso. A quel
grandguignol che serviva a Petri per descrivere la DC, segue un’opera giocata su
una rappresentazione che si accredita come veritiera e realistica, per cui già dal titolo
si fa esplicito riferimento a un “caso”. Il film assume dunque i caratteri, i termini e i
toni dell’indagine giornalistica, così come la recitazione di Volontè che deve adattarsi
al nuovo registro e divenire, nei limiti dello stile dell’attore, dimessa e giocata sui
intonazioni più sfumate. Una figura che è ugualmente accorata rispetto al film di dieci
anni prima, ma poggiante su una sofferenza più realistica e meno grottesca, privata
in particolare di qualsiasi venatura d’ipocrisia che connota il suo personaggio del ’76.
La figura di Moro ne esce umanizzata, lo sguardo dell’attore e del regista aderiscono
ai patimenti del politico tornato uomo, anche perché a svolgere il ruolo di antagonisti
nel film sono in questo “caso” i brigatisti, ma anche chi, al di fuori di quella prigione,
compie delle scelte mai del tutto precisate.
2.3 Inquadrare il Sacro
Per il regista di cinema, non meno che per il teologo, il corpo del Dio incarnato che nel corso della storia ha avuto la sacra Sindone come principale riferimento
visivo di natura “reale” - e quello delle altre figure “sacre”, rappresenta qualcosa di
problematico e talvolta d’ingombrante. Ciò vale anche per chi, nel tempo, ha cercato
di opporsi a questa trascendenza del corpo, operando sul tema stesso del Sacro:
basti pensare, per citarne alcuni, a Pasolini e, per altri versi, a Ciprì e Maresco o a
149
Il cosiddetto “bacio di Capalbio” fu scattato da Elisabetta Catalano e pubblicata nel luglio 2008 dal
«Venerdì di Repubblica».
82
Martin Scorsese. Il cinema del resto è consapevole della difficoltà, per la sua natura,
di rappresentare ad esempio i santi nell’atto di compiere imprese mirabolanti poiché
rischierebbe di ottenere più un effetto comico che semplicemente dissacratorio150. È
per questo che si limita al gesto discreto e credibile e, in quanto poco spettacolare,
votato essenzialmente all’ascetismo.
2.3.1 In equilibrio precario. San Giuseppe da Copertino e il cinema
Non che dei santi si sia data soltanto una rappresentazione sacrale e scevra da
ironie, così come non sempre, nella storia della chiesa sono state beatificate e
santificate unicamente figure ieratiche e austere. Per esempio in C’era una volta
(1967) di Francesco Rosi, l’immagine che viene data di un frate santo realmente
esistito, San Giuseppe da Copertino, sembrerebbe contraddire quanto affermato in
precedenza sul difficile, se non impossibile, utilizzo da parte del cinema d’immagini
che mostrino fenomeni strani e inspiegabili.
Questo santo “volante”, per le sue vicende biografiche e spirituali ha, infatti,
ispirato anche altri autori e registi come Edward Dmytryk, Carmelo Bene e, sempre
limitandosi all'ambito del cinema, uno sceneggiatore come Ennio De Concini. Il
regista americano Dmytryk rappresenta l'umile frate in Cronache da un convento
(1962) ma uno dei commenti, che nello stesso anno la pubblicazione d’ispirazione
cattolica di «Segnalazioni cinematografiche» fa del film, è che esso si costituisca di
«una serie di notazioni più fastidiose che divertenti», in cui la santità è «ridotta ad un
fatto puramente esteriore, sostenuta da prodigi curiosi e stravaganti anziché da virtù
cristiane solidamente praticate».
Carmelo Bene, invece, cita brevemente il santo in una scena della sua opera
del 1969, Nostra Signora dei Turchi, ma poi gli dedica addirittura un'intera
sceneggiatura, A boccaperta151, in cui emergono le “particolarità” di quel santo
dall'espressione attonita, «idiota» come lo definisce Bene (il quale si pone sulla
stessa linea di chi è consapevole, come afferma il Vangelo, che Dio non si rivela ai
150
Nel discorso rientrerebbero in parte anche quei film che si riferiscono a religioni “lontane”, quali il
buddismo. In questi casi il cinema ha talora mantenuto quegli effetti di spettacolarità che nella cultura
occidentale parevano assumere connotati di “esotismo” e che meriterebbero una trattazione ulteriore
con competenze specifiche sulle altre religioni.
151
Si veda la prima delle tre parti di cui si compone il libro di Bene: A Boccaperta, Einaudi, Torino
1976.
83
sapienti e agli intelligenti, bensì ai piccoli senza talento), che levita estatico alla
visione di una semplice raffigurazione della Madonna, ma che viene deriso e posto
dai suoi confratelli alla “guardia dei porci” (episodio che viene evocato, seppur di
sfuggita, in una frase di un frate anche nel film di Rosi).
De Concini nel 1998 pubblica un libro Il Frate volante. Vita miracolosa di san
Giuseppe da Copertino152 da cui, nello stesso anno, afferma di voler ricavare un film
sul santo. Le motivazioni che non portano alla realizzazione di quest'opera per la
televisione sottolineano ancora una volta la difficile resa cinematografica che può
caratterizzare la narrazione delle vicende legate a una storia come quella del santo
pugliese. La lettura della pre-sceneggiatura di De Concini suscita nell'ambito
ecclesiastico, come ricorda Corrado Galignano, delle «serie preoccupazioni sulla
sua ispirazione di fondo e su alcuni suoi contenuti»153 a causa della libera
interpretazione che della storia del santo proposta dallo scrittore. Padre Francesco
Costa, ad esempio, parla addirittura di «una caricatura» a cui viene sottoposta la
figura di Giuseppe154. Ma è proprio l'eccentricità manifesta nella storia del frate, che
si presta di per sé a delle interpretazioni ampie e interessanti. Non è un caso che
intellettuali del livello dei sopraccitati siano stati ispirati da una tale figura.
Da tutto questo si evince che lo stesso frate minore è, per chi della chiesa
cattolica comprende solo in parte la carica e la “rivelazione”, ancora una presenza
ingombrante e ricordiamo che già a suo tempo Giuseppe da Copertino finì innocente,
ma con l'accusa di messianismo, davanti al Tribunale dell'Inquisizione a Napoli.
Ma torniamo al film di Rosi. La storia di C’era una volta è ambientata intorno al
’600 durante l’occupazione spagnola del meridione d’Italia, un luogo che, per l’idioma
espresso, si presume essere il territorio campano. Rodrigo (Omar Sharif) è un
principe spagnolo che un giorno, disarcionato dal suo inquieto cavallo bianco,
tornando al suo palazzo, vede volare in cielo Giuseppe da Copertino (Leslie French)
(fig. 8). Avute alcune misteriose indicazioni dal santo e ripreso il suo cammino, vede
che una contadina, Isabella (Sofia Loren), si è impossessata e sta utilizzando proprio
152
E. De Concini, Il Frate volante. Vita miracolosa di san Giuseppe da Copertino, Edizioni San Paolo,
Milano 1998.
153
C. Galignano, Il cinema, in AA.VV., Il frate volante. San Giuseppe da Copertino nella cultura e nella
memoria, Manni, San Cesario di Lecce 2003, p. 45.
154
Costa, docente di Francescanesimo, Metodologia Scientifica e Liturgia presso la Pontificia Facoltà
Teologica “San Bonaventura” al Seraphicum di Roma, esprime tali preoccupazioni nella rivista «Il
Santo dei voli», n. 1, 1999, pp. 2-3 [corsivo aggiunto].
84
il cavallo perso dal principe. Da quel momento varie vicissitudini porteranno, grazie
anche a una successiva nuova apparizione del santo ormai morto e con tanto
d’aureola, al lieto fine favolistico in cui la bella e povera Isabella, sposa l’affascinante
e potente principe Rodrigo.
In realtà se osserviamo il film di Rosi vediamo che la narrazione155 assume in
più parti un registro magico e ciò consente, come si evince dallo stesso titolo
favolistico, la perfetta integrazione, in una storia che parla di principi, di bellissime
villane, di streghe, incantesimi, della presenza di un santo che, come vuole la
leggenda, pare levitasse ma, nel caso del film, dovremmo dire restava “sospeso”
come un aquilone. Il santo è infatti leggero, quasi da essere trasportato dal vento e
volteggia in aria per ore, come si evince dalle parole dei suoi confratelli, fino a
ridiscendere in terra e giocare con i bambini, il tutto con lo sfondo musicale che Piero
Piccioni vira su toni da atmosfera fantastica. Del resto, le biografie del santo, parlano
di un frate che, una sorta di fra Ginepro - come i cinefili ricordano nell’umile e bella
descrizione che ne fa Roberto Rossellini - è una figura bonaria, ingenua e
apparentemente semplice.
Anche nel Francesco, giullare di Dio di Rossellini (1950) le figure tutt’altro che
marginali di frate Ginepro e di Giovanni il semplice156, rompono con la classica
rappresentazione di santità ieratica che, come si è detto, è un cliché quasi obbligato,
che molto spazio aveva trovato fino a quel momento nel cinema, tanto da restare
dominante fino ai giorni nostri. Una semplicità nei costumi e nella cultura che, sia nel
caso di San Giuseppe da Copertino, sia nell’altro francescano Ginepro, virano verso
una santa follia e un perenne stato d’ingenua fanciullezza. Del resto nella scena in
cui rivediamo nuovamente il santo di Copertino – nella parte finale del film dove
riappare, anche se ormai morto, per dare istruzioni a Isabella (Sofia Loren) – viene
raggiunto in volo da altri santi (quelli che lui, indicativamente, definisce “quelli della
rassegnazione”) che lo rimproverano, come un bambino, per la sua fuga e uno di
essi arriva perfino a tirargli le orecchie (fig.9)!
Il corpo fanciullesco anche in questo caso157 lo ritroviamo direttamente collegato
al corpo grottesco, infatti il finale del film, con il matrimonio tra il principe e la
155
Che per luoghi, personaggi e intrecci ricorda, e probabilmente se ne fa ispirare, quel contenitore
straordinario di fiabe popolari, anch’esse in dialetto campano, qual è la raccolta Lo cunto de li cunti
(1634-36) di Giambattista Basile.
156
Del resto il film è ispirato sia a episodi tratti da I fioretti di San Francesco, sia da La vita di Frate
Ginepro.
157
Ma vedremo anche come ne Il Divo accade qualcosa di simile tra le figura ieratica di Andreotti
contrapposta a quella di Cirino Pomicino.
85
principessa, è una festa popolare che coinvolge anche i poveri del regno, i cui corpi
senza potere sono i corpi della fame e della sguaiataggine (fig. 10). La macchina a
spalla vibra e si sofferma su quel caos di corpi di sudditi grotteschi, uomini e donne
ammassati e informi, che lottano per accaparrarsi il cibo del banchetto, prendendolo
con le mani.
Bachtin, nel suo studio dedicato all’opera di Rabelais, vede nell’«aspetto
estremamente importante delle immagini del banchetto […] il significato “basso”
corporeo in senso topografico»158 delle figure rappresentate. Corpi abbigliati con
vesti putride e pezzate, bocche sdentate su carni flaccide e grasse o, all’opposto,
estremamente smagrite. Cavità da cui deborda quella momentanea opulenza, corpi
claudicanti di quella sorta di freak, di fenomeni da baraccone, che urlando mangiano
e spingono il cibo in altre bocche. Nella scena della bidonville seicentesca in cui vive
Isabella c’è un anticipo dei “brutti, sporchi e cattivi”, con cui Scola rappresenterà il
sottoproletariato urbano di Roma negli anni ‘70 del post-boom economico.
Nel film di Rosi si assiste, attraverso l’escamotage della fiaba, alla compresenza
di corpi sacri (santi e principi) e di corpi grotteschi (sudditi e animali), i quali entrano a
contatto e condividono gli stessi spazi. Uno studio sulle credenze religiose - che
naturalmente non può trovare spazio in queste pagine - dimostrerebbe che questo
non è un fenomeno meno raro di quanto si pensi. Si capirebbe il motivo per cui ci
sono figure di santi particolarmente popolari, santi che attraverso il proprio corpo, le
stimmate, la levitazione, le piaghe, la malattia, il dialogo con animali, si avvicinano
all’umanità del corpo dei loro stessi fedeli, ma da cui sono, al tempo stesso,
distaccati. Corpi che danno prove reiterate, per chi è credente, di santità: quei
miracoli che seppur espressi a volte in gran numero, sono accolti con estrema
cautela dalla chiesa e riconosciuti tali solo per un numero limitato (uno per
la
beatificazione e uno per la santificazione). Corpi a metà strada tra il sacrale e il
grottesco e che, anche attraverso la popolarità degli animali e i simboli attraverso cui
sono raffigurati, si rendono immediatamente riconoscibili allo spettatore (si pensi a
San Giuseppe con il maiale, a San Rocco con il cane, ai guanti di Padre Pio ecc.)
158
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione
medievale e rinascimentale, (Mosca 1965) Einaudi, Torino 1979, p. 329 [corsivo aggiunto].
86
2.3.2 La costituzione di Cristo in The King of Kings
Al di là degli esempi appena descritti, la rappresentazione del Sacro è stata una
delle prove più complesse per l’immagine cinematografica e fotografica, per linguaggi
cioè che in genere operano per mimesi del reale. La storia e la fortuna del cinema
come e più di altri media, si costruisce sulle pratiche sociali, non soltanto sulle sue
tecniche produttive. È opportuno quindi ricordare come nell’analisi sia importante che
gli aspetti plastici e figurativi e le contaminazioni tra linguaggi entrino in connessione
con i modi e le culture di fruizione del testo, oltre che con le contemporanee opere di
medesimo argomento. Tanto più per un cinema che, come è avvenuto per il Sacro,
ha avvertito – soprattutto ai suoi inizi – il bisogno di conservare la memoria di altre e
diverse sostanze espressive. In particolare, crediamo che l’individuazione e il riuso
dei cliché artistici che costituiscono fattori d’immediata riconoscibilità per i personaggi
rappresentati, abbia spesso rischiato di scontrarsi con il realismo dei corpi filmati.
Portiamo ad esempio i modi di composizione filmica messi in atto in The King of
Kings (Il re dei re) del 1927 del regista Cecil B. DeMille, che meglio rappresenta i
caratteri peculiari di Hollywood. Si cercherà di capire come nell’America degli anni
’20 si possa mostrare il soprannaturale, e il modo in cui le tecniche di ripresa e
d’inquadratura del Sacro si innestino nella cultura cinematografica del periodo in
questione, e infine, come realmente sia espresso e dunque concepito il corpo sacro.
La storia è quella classica della Passione di Cristo, ma se ne individuano alcune
difformità. Ad esempio Maria Maddalena, a differenza del racconto tradizionale, non
è una prostituta quanto, in linea con tante donne “fatali” e immorali, protagoniste del
cinema dello stesso periodo, una cortigiana che si circonda di molti uomini facoltosi.
L’immissione nella storia di una tale figura è del resto una vera e propria isotopia
tematica intertestuale delle opere di quel decennio: lo stesso DeMille così come altri
autori quali von Stroheim e Murnau ricorrevano costantemente a questo personaggio
ambiguo e lussurioso per rappresentare una società in disfacimento. Dunque il
mutamento che tanto incide sulle figure di Maria Maddalena e di Giuda, guarda caso
nel film suo amante, è assolutamente funzionale all’instaurarsi di un parallelismo tra
società antica e società del presente (altro topos che ritroviamo nel cinema
contemporaneo americano). Del resto in quest’opera di filone religioso si trova la
sintesi e il successo della classica formula hollywoodiana del kolossal: il sangue, il
sesso e la Bibbia.
87
I mutamenti che intervengono nel racconto da una parte richiamano i tópoi
narrativi del cinema hollywoodiano di allora, ispirato, come nel caso di questa
Maddalena-femme fatale, a molta cultura cinematografica nordica e mitteleuropea di
derivazione espressionista, dall’altro, sul piano plastico, da quelle che erano le forme
espressive proprie del cinema USA. La stessa illuminazione scenografica si basa
infatti sull’utilizzo, nel cinema americano anni ’20, di tre direttrici luminose più
importanti, la luce principale (key light laterale all’inquadratura), quella di riempimento
(fill light che illumina lo sfondo) e quella, che in special modo interessa questo studio,
di controluce o luce di contrasto (il backlighting), importante perché è la luce che,
intervenendo alle spalle e soprattutto, posta spesso al di sopra del soggetto ripreso,
funge per il pubblico da sottolineatura ai personaggi principali. Questa “triangolazione
luminosa” è lo stile visivo che “marchia” il cinema coevo159. Si tratta di una luce che
modella lo spazio e che “informa” sulla consistenza dei materiali, collocandovi i corpi
dei personaggi, dando allo spettatore una peculiare impressione dell’intero spazio
scenico che se ne produce.
Nell’estetica hollywoodiana la luce centrata innaturalmente su di un corpo ha
dunque una funzione di orientamento allo sguardo che mette in evidenza il
personaggio principale. Si tratta di una luce significante che ottiene anche un
ulteriore effetto: essa sottolinea una gerarchia d’importanza tra i personaggi in cui
generalmente «l’enfasi è posta sul protagonista, la figura più frontale e meglio
illuminata»160. In The King of Kings, infatti, l’immagine di Gesù è sì illuminata dall’alto,
come quella di altri personaggi del cinema di allora, ma il contrasto tra la luce tenue
posta sui figuranti e quella sul Dio fattosi uomo, è reso particolarmente evidente
dall’intera retorica del discorso visivo. L’illuminazione in chiave alta lascia talvolta
spazio a effetti maggiormente chiaroscurali della low-key che sottolineano, per
mezzo di questo accentuato dualismo luministico, il chiarore delle vesti di Gesù che,
infatti, rispetto all’oscurità degli abiti degli uomini, serve a sottolineare tutto il sistema
dei valori oppositivi tra il divino e l’umano.
A conferma di tale ipotesi non c’è soltanto la derivazione espressionista della
scelta degli indumenti161 e del contrasto giocato sulla particolare organizzazione
cromatica dei chiari e degli scuri, ma soprattutto è ravvisabile la conferma della
159
Si veda D. Bordwell-K. Thompson, Cinema come arte. Teoria e prassi del film, Il Castoro, Milano
2003, p. 238.
160
Ibid., p. 235.
161
Similmente al contemporaneo film di Murnau Aurora (1927).
88
grande attenzione dedicata al piano simbolico delle immagini per mezzo di un
segmento del film: la scena in cui, per la prima volta, vediamo il Messia.
È un’immagine piuttosto raffinata sul piano espressivo, si tratta della sequenza
di una bambina cieca che cerca Gesù finché non giunge al suo cospetto. A questo
punto accade qualcosa di significativo: c’è il miracolo e la soggettiva della bambina
che pian piano riacquista la vista. Lo svelamento vede Cristo circonfuso da un alone
luminoso, ma ciò avviene in maniera strettamente funzionale alla credibilità del
racconto. L’intreccio della sceneggiatura fa in modo che il simbolico sia
verosimilmente giustificato nella diegesi narrativa. Quella luce figurativizza
esattamente 1) il recupero della vista della bambina; 2) il valore simbolico che nasce
dalla relazione tra purezza e fanciullezza, e che svela Cristo nella sua vera natura e,
3) il piano metaforico, di colui che è – traendolo dalla Genesi – la “luce che rompe le
tenebre”.
Anche in questo caso siamo di fronte a una riproposizione dell’iconografia
pittorica e in particolare di quella medioevale, infatti la cosiddetta “mandorla”, dentro
cui si pone l’immagine sacra, è la rappresentazione di un’emanazione luminosa che
nasce dalla stessa figura dipinta. In qualsiasi religione monoteista, ma anche in molte
politeiste, il Dio è luce e DeMille è perfettamente conscio che nella sua
rappresentazione bisogna agire fortemente sulla luce e sulla possibilità che essa ha
di svelare o di nascondere i caratteri fisici del “corpo del santo”. Del resto queste
tematiche sono certamente familiari al regista il quale, lo ricordiamo a semplice
supporto della nostra teoria, è molto credente e figlio di un predicatore della chiesa
episcopale.
Nelle immagini del Cristo di The King of Kings è presente una rottura tra ciò che
evoca la classica iconografia religiosa e ciò che esprime il Sacro. Inoltre l’opera si
colloca in un contesto culturale e, soprattutto, cinematografico che ha solo in parte
superato il concetto che certe immagini siano desacralizzanti e pertanto improponibili
al pubblico. In questo senso quel cinema è meno evoluto di quanto lo sia un dipinto
del Caravaggio: i valori plastici che vuole affermare lo rendono come la prosecuzione
delle arti nobili, ma tra queste, di quelle iconograficamente meno dirompenti.
Sul livello della pratica fruitiva evidentemente il modello di spettatore
cinematografico degli anni Venti è percepito come rassicurato da un simile tipo
d’immagine che certamente fa parte dei saperi condivisi e questo ci aiuta a
comprendere le basi culturali della sua percezione oculare: probabilmente un Cristo
89
che perde i connotati visivi della sua sacralità sarebbe stato smitizzante e dunque
inaccettabile per un pubblico di massa come quello che popolava i cinema di quegli
anni. Invece si attua una strategia dell’istanza enunciazionale che, pur non
poggiando sul realistico, riesce, attraverso dei déjà-vu, a “nascondere se stessa”.
Per analizzare in parte queste problematiche interpretiamo in maniera sintetica
la costruzione dell’immagine nella scena della lapidazione di The King of Kings. La
sequenza mostra Gesù davanti al tempio che, abbigliato in chiaro, neppure risponde
alle guardie di Caifa che gli chiedono provocatoriamente cosa farebbe dell’adultera
(figura stranamente molto presente nel cinema di quegli anni e che dunque è
familiare al pubblico), mentre si sposta lentamente tra la folla urlante: il cartello
didascalico dice laconicamente «chi è senza peccato scagli la prima pietra» ed egli
chinandosi, scrive in terra i peccati di chi vorrebbe procedere alla lapidazione della
donna.
La raffigurazione del Cristo conferma subito quegli elementi che il cinema trae
dalla pittura, seppure filtrandola attraverso la fotografia dei primordi: il personaggio è
infatti inquadrato frequentemente a figura intera a sottolineare, attraverso l’alta e
magra statura, oltre che le vesti bianche, la carica di ascetismo che, anche nella
composizione, rimanda a delle immagini mistiche. Alle pose apparentemente naturali
dei lapidatori, si oppone la composta eleganza del personaggio di Gesù e si
comprende come la significatività di questi elementi plastici sia pertinente al piano
del contenuto. Del resto il suo corpo deve esplicitare immediatamente – come ha
affermato il regista – le fatiche nel camminare a piedi, le notti di preghiera e i lunghi
giorni di digiuno. L’estrema semplicità apparente con cui si mostra il personaggio è
evidentemente un richiamo all’umiltà e al fatto che da sempre le figure del Sacro
sono legate all’esperienza dell’imperturbabilità e della temperanza.
Il segmento visivo scelto ha in sé una forte componente simbolica, a cominciare
dalla sequenza in cui il personaggio traccia sulla polvere parole dense di significato.
La scena citata della lapidazione, per assumere sacralità, deve far tacere Cristo,
facendolo esprimere soltanto con gesti tanto evidenti quanto semplici per la forza che
vogliono evocare.
Tali perché, sia l’atto stesso di accovacciarsi, ponendosi quindi in una posizione
più bassa rispetto agli altri uomini, tra l’altro esplicitamente peccatori, sia il porre le
proprie mani sulla terra sono indici di modestia, oltre che il suo collocarsi tra il terreno
e il divino.
90
Ciò è confermato anche dal fatto che egli attraverso la scrittura rende esplicite
delle verità, ma lo fa collocandole nel campo dell’aleatorio, come può esserlo lo
scrivere sulla polvere e attivando nello spettatore, con quei silenziosi gesti, anche
un’evocazione diretta ad altri sensi, in particolare alla dimensione tattile, che pone in
secondo piano la pur richiamata parte sonora (ricordiamo che Gesù nella scena della
lapidazione, lunga oltre tre minuti, pronuncia unicamente quella frase). Si tratta di
una sinestesia percettiva, un’unità profonda dei sensi che rende difficile la distinzione
tra i diversi canali sensoriali.
Il gesto “sacro” trova espressione dunque in atti tanto tranquilli – come
composta sarà poi la sofferenza di Cristo sul Calvario – quanto capaci di esprimere
grande forza interiore, una sequenza che quasi mancando di verosimiglianza sembra
favorire la collocazione del personaggio in una dimensione mitica.
I movimenti sono dunque gesti che non richiedono parole poiché, come afferma
Ugo Volli, «il mistico dev’essere silenzioso, perché sa che l’esperienza del sacro lo
è»162 ed è tale sia perché si avverte comunque la “tensione” di ciò che, prendendo a
prestito la frase di Barthes (1980) sul punctum, è l’“indicibile che vuole esprimersi”,
sia perché nella sequenza analizzata è realmente silenzioso, ha il dovere di parlare
piano ma, come nei casi delle parabole, affermando concetti forti. Più che dell’enfasi
gestuale la ricerca è quella di un’espressione visiva delegata alla sguardo del Messia
(da qui la scelta di un attore con grandi occhi chiari e intensi). Il corpo sacro che
emerge da quest’opera è un corpo dalla voce e dai gesti contenuti, dalle espressioni
controllate, è dunque un corpo che per eccellenza è in totale opposizione a quello
grottesco delineato da Bachtin nella sua opera dedicata a Rabelais.
Secondo tale schema il ritmo espresso da ciò che è divino è diverso da quello
umano, il corpo ad esempio rinuncia apparentemente a enfatizzare quello che si
mostra troppo legato (come le passioni) alla vita terrena, il corpo divino subisce infatti
un effetto di rallentamento sui movimenti. Questo si evince anche dai gesti del
personaggio di The King of Kings, ma diviene funzionale pure alla costruzione di
attese e di stati tensivi nello spettatore. Se non è il dinamismo fisico di Gesù a creare
tensione, lo è la sua calma nel caos e, a comporre un contrasto di tipo aspettuale, è
la sua gestualità pacata, stridente in mezzo all’urlare scomposto dei lapidatori. Il
mutamento ritmico è dato dalla posa accovacciata e rischiosamente accerchiata in
cui si trova Gesù, ma plasticamente anche dalla sua tunica chiara tra le altre scure,
162
U. Volli, Apologia del silenzio imperfetto. Cinque riflessioni attorno alla filosofia del linguaggio,
Feltrinelli, Milano 1992, p. 12.
91
la sua solitudine tra la moltitudine (sarà e deve essere così anche nell’unico caso in
cui compie dei gesti violenti: la cacciata dei mercanti dal tempio) o la solitudine nella
contrapposizione: si pensi alla forza simbolica della crocifissione. E proprio perché è
posto tra due ladroni si esalta il sistema dei valori oppositivi su cui il film si fonda.
Nelle altre immagini il corpo di Gesù è essenzialmente un corpo “bloccato”, che
riprende l’iconografia classica ma si mostra come svuotato, un corpo manichino che
è Sacro in quanto tale, che viene discorsivizzato, ma resta plasticamente isolato
quasi come corpo estraneo tra altri corpi. Per dirla con Jacques Fontanille163
l’involucro corporeo di Gesù pare costituito da una materia diversa rispetto a quella
umana, e le stesse forze che dovrebbero animare la carne sollecitandola,
scuotendola o facendola vibrare, non sembrano invece intaccarla minimamente.
È per questo motivo che la rottura dell’ordine del divino imposta dal testo
diviene, nell’atto finale a cui è sottoposto il diafano e angelico Gesù, un gesto contro
l’“intangibile” corpo sacro, una bestemmia e un’azione sacrilega. Piuttosto le forze
che sembrano emergere dal corpo-attante sono quelle interne, un corpo senza
organi ma che esprime le forze che in esso agiscono. In questo senso è indicativa la
scena del trasporto della croce in cui a Gesù si avvicina un uomo ben più forte di lui
(elemento sottolineato dalla frase di un bambino che dice «se avessi io la tua forza
porterei la croce») e che in una maniera che richiama l’immaginario americano – e in
cui si potrebbe intravedere un’ulteriore metafora – dice in didascalia «porterò io per
te la croce, amico». L’uomo però si rende conto, mentre la solleva, che riuscirà a
trascinarla solo con grande fatica, mentre Gesù non sembrava lamentarsene più di
tanto grazie, evidentemente, alla sua forza interiore (che si traduceva in forza fisica).
Se nel corso del film il corpo di Gesù si isola rafforzando il suo essere
membrana ermetica164 rispetto ai contatti che ha, essa deve restare integra e le
scelte delle inquadrature sembrano confermare questa impressione: se la sequenza
infatti del pentimento di Maria Maddalena, quando bacia le vesti o i piedi di Gesù,
avviene quasi completamente fuori quadro, il bacio di Giuda è mostrato come un
“tradimento” e un “sacrilegio” perché, toccando, per la prima volta nel film, il volto
impassibile di Cristo, compie un gesto di rottura dell’opposizione semantica,
mantenuta costantemente per tutto il testo, tra ciò che è umano e ciò che pertiene al
divino.
È in quest’ottica che il corpo del Sacro tende di solito a far tacere ciò che di più
163
164
J. Fontanille, Figure del corpo. Per una semiotica dell’impronta, Meltemi, Roma 2004, p. 174.
Si veda J. Fontanille, cit., p. 179.
92
strettamente umano esiste165, e quello di Gesù, rifacendosi tanto ad Artaud, quanto a
Deleuze, sembra un corpo senza organi, anzi senza funzioni organiche e il mistico,
del resto, cosa fa se non negare a se stesso qualsiasi desiderio e bisogno corporale?
Ciò si collega anche alla pratica dell’imbalsamazione dei corpi santi che, solo
perdendo la loro parte organica, mantengono la loro integrità. In tutto il testo, anche
nella scena dell’“ultima cena”, Gesù è l’unico che non vediamo mai ingerire cibo o
bevanda, egli non ha bisogno di fare un percorso contemplativo, è già in quanto tale
un corpo ascetico e, visto il carattere ineffabile dell’esperienza mistica166, non rimane
che agire sul corpo (anche per sottrazione), una forma che suo malgrado “esprime”.
È netta la scelta del film di accentuare quegli elementi che siano altamente
evocativi, perché facenti parte di quel bagaglio di saperi e di prassi storicamente
condivise dagli spettatori cristiani. Un testo che, escludendo quei fattori ritenuti meno
idonei perché troppo mondani per un’opera d’ispirazione sacra, punta invece a
riprodurre, quasi per simulazione, un percorso ascetico.
2.4 L’immagine dei papi
Dopo aver affrontato il discorso relativo all’immagine assunta dal corpo sacro,
accenniamo a un corpo tanto terreno quanto rivestito di valore soprannaturale, come
nel caso di quello dei pontefici, considerati già nell‘appellativo dato loro, delle
«santità».
Il fatto che nel papa si concentrasse, in passato ancor più che nel presente, un
doppio potere167, quello temporale e quello spirituale, rende particolarmente
interessante accennare, proprio perché richiama fortemente la ricerca che stiamo
portando avanti e ciò è tanto più utile se si parte dall’assunto che qualsiasi forma di
potere tende a sacralizzarsi, cioè a rendersi e, soprattutto, a rappresentarsi come
dotata di corpi sacri, o meglio, costituiti da “sostanze” diverse rispetto all’uomo
comune.
165
Ci riferiamo in particolare al film analizzato in questo testo, ma anche a tutte quelle opere che
hanno affrontato il corpo santo senza rimarcarne la sostanza più umana e dunque secolare. E se la
religione stessa, seppur con molte cautele, ha riconosciuto una componente terrena ai corpi sacri, ben
altra cosa è riuscire a tradurne in immagini l’essenza senza suscitare, come si è visto soprattutto per il
cinema più recente, forme di riluttanza.
166
Si veda a tal proposito Victor I. Stoichita, Visionary experience in the golden age of spanish art,
Reaktion Book, Londra 1995, p. 95 (tr. it. Cieli in cornice. Mistica e pittura nel secolo d’oro dell’arte
spagnola, Meltemi, Roma 2002).
167
Pier Damiani nel suo De Brevitate (1064) definisce il papa, “il re dei re”.
93
Spirituale e mondano coesistono dunque nei corpi e nei gesti dei papi che,
paradossalmente, nello svelare la loro umanità, la loro natura umana, non perdono le
doti carismatiche e sacre. Si pensi agli esempi a noi prossimi di Giovanni XIII (19581963) o, ancor più di recente, di Giovanni Paolo II (1978-2005).
Dalla sua scomparsa si è parlato molto nei media delle qualità carismatiche e di
grande comunicatore possedute da Karol J. Wojtyla168, un papa che all’inizio del suo
pontificato ha subito diverse critiche169, per il modo di mostrare e non nascondere
attraverso gesti rituali la natura umana del suo corpo. Questo, però, non sta limitando
nella pratica e nell’immaginario la sua beatificazione che, del resto nasce, come
noto, da una richiesta popolare. Destino di chiunque, e sono innumerevoli gli esempi
a tal proposito, il popolo senta a lui “vicino” e ne riconosca e ne apprezzi le qualità
morali e umane. Un papa che con l’elezione, oltre che al particolare modo di
concepire la sua missione come quella di un vero e proprio globetrotter, non ha
rinunciato ad alcune attività piacevoli e a comportamenti che ne evidenziano il calore
umano. Si pensi al suo amore per lo sport, per lo sci in particolare e alla sua fisicità
ostentata nei contatti anche corporei con una grande varietà di persone e in tutto il
mondo, compresi gli abbracci al corpo femminile, fino ad allora un vero e proprio
tabù, a cui i predecessori nei secoli non avevano, almeno in immagini pubbliche, mai
derogato. Un corpo in cui la natura spirituale non è stata minimamente intaccata
dall’umanità con cui ha vissuto le grandi sofferenze e la malattia da cui è stato colpito
in profondità. Un organismo che, proprio per questo, è stato accostato dai media, in
ragione di tali patimenti, al corpo sofferente di Cristo, facendo tornare nel nostro
discorso, al corpo “matrice” del cristianesimo, quello da cui, per la chiesa romana,
tutto muove.
È interessante dunque definire il modo in cui il corpo della massima carica
assunta nel sistema clericale cattolico, venga tradizionalmente pensato e le
motivazioni teologiche e pratiche che alimentano questa tradizione. Al tempo stesso,
seppur velocemente per ragioni di spazio, è utile riflettere sui mutamenti intervenuti
anche all’interno della curia romana. Riteniamo infatti possa essere un utile
168
Un testo che ripercorre il rapporto del papa polacco con i media è quello di Giuseppe Mazza (a
cura di), Karol Wojtyla, un pontefice in diretta, Rai Eri, Roma 2006.
169
Fin dall’inizio l’arcivescovo di Genova Siro Siri disapproverà, da un punto di vista conservatore, i
costumi tenuti da Giovanni Paolo II. Così come farà, da posizioni opposte e più “liberali”, anche il
teologo cattolico dissidente Hans Küng il quale pone, tra le contraddizioni che secondo lui emergono
dal pontificato di Wojtyla, la sua capacità di grande comunicatore attraverso strumenti moderni che
agevolano il «rapporto con la laicità», ma che mostrano anche la «sua incapacità di dialogare con un
pubblico critico» (Corriere della Sera, 2 gennaio 2006)
94
paradigma delle trasformazioni che comporta il cambiamento tecnologico e delle
comunicazioni di massa. La modernità anche comunicativa, intesa in questo caso
come l’insieme dei mutamenti sociali che determinano cambiamenti anche nella
diffusione dei saperi, non si ferma, al di fuori delle mura vaticane, ma opera in esse
e, inevitabilmente, ne condiziona le strategie comunicative.
È come se il potere, tanto religioso, quanto più in generale quello mondano e
politico, aspiri a una doppia natura: da una parte divina e spirituale e dall’altra umana
e temporale, e sembri così replicare, ma in modo ben più prosaico, l’esperienza e
l’essenza di Cristo.
E il corpo diviene, inoltre, come afferma Agostino Paravicini Bagliani, la
congiunzione di queste due nature, tanto che nella chiesa c’è spesso, come nelle
parole di Innocenzo III (1198-1216), l'identificazione tra la figura del papa (caput) con
quella del “corpo” ecclesiale. Per questo motivo «quando la Chiesa è malata, il cuore
del papa ne è afflitto. Il papa fa corpo con la Chiesa [...]Intono al 1300 Egidio
Romano non esiterà a dire che “il sommo pontefice che dirige il vertice della chiesa
[…] può essere detto la chiesa”»170.
Questa posizione è tanto più utile se, non limitandoci come in questo caso alla
figura del capo religioso, la si paragona a quella del capo politico, una figura che si
identifica con la nazione o con l’istituzione che rappresenta171.
Il papa è inevitabilmente dotato di una fisicità che talvolta, nel corso della
millenaria storia della chiesa, si è posta in contrasto con le regole che lei stessa si è
data e con le altissime funzioni che un pontefice è chiamato a svolgere. È utile
ricordare come le regole della castità siano state in alcuni casi aggirate nel passato
dai pontefici, ma la chiesa nei secoli è riuscita ugualmente a costruire e imporsi riti e
ordinamenti che tendevano a controllare ogni prevalenza del corpo sullo spirito. La
caducità della vita doveva bastare a convincere i cristiani, a volte “intimorendoli”,
dell’opportunità di tenere dei costumi rigorosi172. Intorno all’anno mille, ad esempio,
Pier Damiani nel suo De Brevitate (1064) si soffermava su un dato particolare:
170
A. Paravicini Bagliani, Il corpo del papa, Einaudi, Torino 1994, p. 94.
Senza voler sembrare irriverenti, è ciò che non troppo differentemente accade, mutatis mutandis,
al ruolo che un testimonial assume quando viene identificato con il prodotto che pubblicizza. Si attiva
cioè un meccanismo d’immediata associazione metaforica tra un uomo e il prodotto a cui è unito
visivamente.
172
Si diffondono nel tempo racconti e le riflessioni sulla caducità del corpo e di quanto sia
ingannevole lo splendore di ciò che è terreno, come quelle di Giacomo di Vitry il quale, entrando il 17
luglio del 1216 nella chiesa di Perugia in cui era stato posto il corpo da poco morto di Innocenzo III ne
trovò la salma spogliata dei preziosi paramenti e abbandonata seminuda a terra e in stato di
decomposizione.
171
95
nessun papa in dieci secoli di storia della chiesa romana aveva vissuto e “regnato”
più a lungo di Pietro e questo topos della brevità del pontificato non avrà vita breve,
terminerà solo nell’Ottocento con i due più longevi papati della storia della chiesa.
Quelli di Pio IX e di Leone XIII, durati rispettivamente 32 e 25 anni173.
Caso vuole che proprio questi pontefici si trovino sul soglio di Pietro nella fase
di passaggio tra due epoche di grandi mutamenti nel campo della conservazione e
riproduzione dell’immagine attraverso tecniche analogiche. Per questo motivo ci
soffermeremo, seppur brevemente, su di loro. Pio IX è infatti il primo papa a essere
fotografato, mentre Leone XIII, il primo, nel 1896, a farsi riprendere da un operatore,
immediatamente dopo l’invenzione l’anno prima, del cinematografo.
Ma per i papi la pietra di paragone, il riferimento più importante deve restare
l’esempio di Cristo, di colui che fu «sottratto alla vita nel mezzo dei suoi anni […] e
strappa una vita lunga al vicario affinché non insuperbisca di tanta felicità»174. Anche
per questi motivi al potente corpo papale si affiancano una serie di simboli che
ricorrono diverse volte nei secoli, nei riti attraverso cui il pontefice è chiamato a
ricordare, pur nel suo ruolo di Vicario di Cristo, la sua natura caduca. Troviamo
dunque la cenere, le ossa mortuarie, la stoppa di lino175 e perfino gli escrementi176,
simboli che spingono i pontefici a mostrarsi, pur nella grandezza del ruolo ricoperto,
come esseri umani: fragili e soggetti alla morte.
Anche nel corpo del pontefice alto e basso convivono e in questo senso perfino
gli escrementi, con il loro carico di espressività grottesca, diventano parte dei rituali
ecclesiastici nel loro massimo livello. La sedia di pietra davanti al portico della
basilica di San Giovanni in Laterano venne chiamata “stercorata”, e il suo significato
derivante da “stercus”, richiama il fango, l’immondizia e, per l’appunto, il letame ed
escremento. Del resto tutto ciò risponde all’altro assunto che viene evocato per la
figura sacra secondo cui non è il luogo che santifica l’uomo, ma l’uomo il luogo177.
173
Dopo di loro solo quello di Giovanni Paolo II si collocherà a una lunghezza intermedia di ben 27
anni.
174
R. S. De Arevolo, Redorici episcopi Zamorensis […] Speculum vitae humanae […] intermixto de
brevitate vitae pontificum Romanorum, Francoforte1689, libro II, capp. 1-7, pp. 226 contenuto in A.
Paravicini Bagliani, Il corpo del papa, cit., p. 16.
175
Che viene usata per essere bruciata a causa della sua combustione veloce, che brucia tanto in
fretta quanto la vita umana e mostra la natura transitoria dell’uomo.
176
In Giobbe 35,15 e nella Genesi 18,27 c’è il passo che intima: “ricordati, uomo, che sei polvere e
che polvere ritornerai”.
177
O, come afferma Ostiense, «Quia non ubi Roma est, ibi papa est, sed e converso»
(Ostiense/Hostiensis Summa aurea (1253), Lugduni 1588, f. 30 r, ad X, 1, 8, 4, vedi De corpore B.
Petri sumptum).
96
2.4.1 Dalla fotografia al cinema. Da Pio IX a Leone XIII
Cosa è accaduto allorquando un papa è entrato in contatto per la prima volta
con i nuovi strumenti fotografici e cinematografici? Ciò che si evince è che l’idea che
abbiamo di un pontefice nasca in parte dalla sua politica, ma come spiegare allora il
grande fascino esercitato da certi pontefici tradizionalisti come Karol Wojtyla o come
Giovanni M. Mastai Ferretti , papa Pio IX (1846-1878)?
Quest’ultimo è addirittura indicato come il papa della «modernità», un aggettivo
che sembra contraddire la politica molto conservatrice dell’ultimo vero “papa-re”, che
si batterà con molta energia contro la perdita del potere temporale della chiesa e
contro l’unità d’Italia. Ma senza entrare più di tanto nell’aspetto “politico” legato al
papato più longevo della storia, cerchiamo di definirlo come uno stadio di passaggio
nelle forme di comunicazione e non solo religiose. È utile del resto ricordare che ogni
pontefice ha tenuto linee di comportamento molto diverse nella comunicazione,
corrispondentemente alle differenze che, come si diceva, sono riscontrabili dal punto
di vista delle scelte di natura teologica.
Di Pio IX abbiamo infatti diversi ritratti fotografici ma, a causa dei lunghi tempi di
esposizione dell’immagine e, probabilmente, per ragioni di etichetta, era difficile poter
riprendere un pontefice nella libertà e “casualità” dei suoi movimenti. Per questo
motivo la posa fotografica era studiata e fissata nello stesso modo con cui si studia la
posa per un ritratto. Non è infatti un caso che si è trovata una raffigurazione pittorica
di papa Mastai, che ricalca quasi alla perfezione – se non fosse per il volto ingentilito
perché reso più dolce e “amorevole” nel suo sguardo – la matrice, il testo fotografico
fonte (figg. 11-12). Un ritratto che rispetto alla foto viene reso anche più elegante,
attraverso “migliorie”, come rendere corpo e sedia più allineati e simmetrici, la parete
di fondo decorata con disegni, lo stemma del Vaticano, della nobile famiglia dei
Mastai e con la scritta autoreferenziale ed esplicativa del papa raffigurato: «Pio IX».
Tutto reso in una calda tonalità di rosso, che crea effetti di rima e accenti attraverso
richiami coloristici con il pavimento (che nella foto è appena accennato), con le
scarpe e con lo scranno papali.
È questo un buon motivo per cui si potrebbe parlare di ritrattistica mimetica, che
resta «pittura» per un numero variabile di elementi che la distinguono dalla lastra
fotografica. Se quest’ultima conserva infatti i caratteri di una seppur relativa
immediatezza e di una varietà di esecuzioni, solo attraverso la tecnica pittorica si
97
poteva all’epoca intervenire, come si è detto, addolcendo i lineamenti del volto
raffigurato. Del resto, anche gli altri ritratti del pontefice marchigiano si connotano
come un corpo in posa classica e in atteggiamenti ben studiati, ma soprattutto, è
possibile notare in tutti i ritratti a lui dedicati il medesimo tentativo di rendere la sua
espressione più benevola.
Stranamente, quei dipinti non tendono a ridurre la corporatura, piuttosto
“abbondante” del pontefice, anzi da una comparazione con le fotografie sembra reso
anche più “tondeggiante” di quanto lo fosse in realtà. Si può supporre che, se non ne
beneficiava nell’ascetismo dei tratti, ne traeva vantaggio la sua immagine paterna e
bonaria, non diversamente da ciò che si è verificato con papa Giovanni XXIII, del
resto definito, similmente a Pio IX, un pontefice amato dal popolo dei fedeli.
Ricordiamo che il corpo del pontefice solo di rado era visibile attraverso ritratti a
figura intera e con immagini a colori, piuttosto esso era visto dai fedeli per lo più per
mezzo di stampe di piccolo formato e raffigurato a mezzo busto (fig. 13). Si trattava,
per meglio dire, di riproduzioni vicine - più che alla fotografia (che pure comincia pian
piano ad affiorare dal taglio che si dava a quelle immagini) - all’iconografia da
immaginetta sacra.
Le fotografie stavano divenendo anche per il Santo Padre, non troppo
diversamente da quelle scattate agli aristocratici e alla nascente borghesia, un
sostituto della pittura, un oggetto considerato poco o nulla artistico ma dotato di
maggiore verosimiglianza, tanto da farsi sostituto ideale, oltre che ritratto pittorico,
anche dell’immaginetta a stampa. Sono “un’impronta diretta” che testimonia delle
fattezze di quell’uomo a cui sono attribuiti - anche per scelta dello stesso Pio IX - i
caratteri dell’infallibilità e della «santità». Un uomo che però è fisicamente lontano
dunque, per i fedeli presenti in tutto il mondo, difficilmente raggiungibile.
Anche l’immagine funebre, che prima era soltanto un calco o una riproduzione
diffondibile a fatica, diventa una testimonianza, una “cronaca” dell’avvenimento
luttuoso a cui sempre più sarà data pubblica diffusione. Papa Mastai è infatti anche il
pontefice di cui, oltre che a ritratti in vita o al calco della maschera funebre, si iniziano
a fotografare e a conservare le immagini, anche quelle della sua morte, avvenuta nel
1878 (fig. 14). La fotografia delle origini però si presta poco a una raffigurazione
composita e sacralizzata, che invece si vede, in particolar modo, in certe immagini
agiografiche (fig. 15).
Le molte immagini che hanno per soggetto Pio IX fanno comprendere che
98
stiamo parlando di un pontefice che iniziava a manifestare una sempre maggiore
dimestichezza e attenzione per i mezzi di comunicazione, strumenti che hanno
particolarmente lo scopo e l’interesse a parlare delle figure del potere, degli eventi
mondani o, come nel caso della chiesa, degli uomini legati all’amplissimo fenomeno
della religiosità. Tra tanta pubblica attenzione non possono mancare le caricature
talvolta dovute alla forte carica anticlericale che viveva il giovanissimo Stato italiano
(come quella che lo vede a braccetto – evocando quasi, per via della tunica, una
figura femminile – di un “nemico” militare e politico come Vittorio Emanuele II di
Savoia – moriranno entrambi nel 1878 - fig. 16).
Papa Leone XIII (1878-1903), Vincenzo Gioacchino Pecci, è invece il primo
papa filmato nella storia. La troupe che compie le riprese nel 1896, dunque, solo
pochi mesi dopo la presentazione ufficiale dell’invenzione del cinematografo, è
guidata dal torinese Vittorio Calcina, un vero e proprio operatore-pioniere e
concessionario per l’Italia settentrionale della società dei fratelli Lumière. Calcina
chiede all’anziano papa, promulgatore della Rerum Novarum, l’autorizzazione a
filmarlo, e la ottiene poco dopo. Oggi parleremmo di scoop e in effetti un permesso di
tal genere non era cosa da poco conto. Il papa era certamente un personaggio
pubblico, ma è altrettanto indubbio che lo strumento di ripresa era assolutamente
innovativo ed è nota la cautela con cui l’istituzione religiosa abbia fatto attenzione
nell’accostarsi ai nuovi mezzi, scientifici o spettacolari che fossero.
Un altro operatore autorizzato a riprendere Leone XIII è l’americano William
Kennedy Laurie Dickson, il quale gira «su commissione dei vescovi americani»178 e
come collaboratore della Edison, il filmato nel 1898. Il papa sembra mostrare in
quelle immagini un leggero imbarazzo, ma al tempo stesso appare rallegrato dal
trovarsi davanti al nuovo strumento. In entrambe le occasioni esibisce un
atteggiamento benevolo e piuttosto paziente. In particolare delle riprese di Dickson
abbiamo diverse tracce, naturalmente di breve durata, ma che mostrano papa Pecci
in oltre una mezza dozzina di situazioni179 che, possiamo immaginare, dovevano
apparire per i coevi fedeli cattolici di tutto il mondo «di forte impatto emotivo grazie
all’alto grado di verosimiglianza»180. Per quel papa, nato nel 1810 – dunque molto
178
D. Vigano, Cinema e Chiesa. I documenti del Magistero, Effatà, Cantalupa (To) 2002, p. 17.
Si contano in effetti diverse sequenze in cui il papa è visto in carrozza, nei giardini vaticani, seduto
sulla sedia gestatoria, circondato dalle guardie svizzere ecc.
180
D. Vigano, cit., p. 17.
179
99
prima anche della nascita della fotografia – divenire il soggetto di un medium in piena
evoluzione e tanto affascinante doveva apparirgli tutto sommato divertente. Un
pontefice innovativo e moderno che sia nella ripresa del ’96 che in quella di due anni
dopo si mostra in maniera accondiscendente mentre traccia «con la mano destra, un
segno di croce di benedizione. Benedizione verso chi? Verso i fedeli che avrebbero
assistito alla proiezione, non c’è dubbio, ma inevitabilmente anche rivolta proprio a
quel mezzo di comunicazione-espressione che in seguito, dal soglio di Pietro,
sarebbe stato collocato fra le cose “miranda”, fra le cose “mirifica”»181.
Bisogna considerare che Leone XIII è stato filmato la prima volta ottantaseienne
(1896) e lo si vede, in quelle brevi immagini di Calcina, mentre si sposta in carrozza
nei giardini papali, scende e si siede su una panchina e, senza particolari fasti, se
non per essere accompagnato da qualche guardia, o essere affiancato da un
segretario che gli impartisce alcune benevoli indicazioni, mentre, piuttosto divertito,
esegue i sue gesti. Un’altra sequenza visibile è quella del papa che, al suo passaggio
in carrozza benedice guardando verso la mdp. Allora a scanso d’equivoci il suo gesto
a dita aperte sembra direzionarsi piuttosto verso coloro – tecnici e altre figure – che
sono posti dietro la macchina da presa. La benedizione è una benedizione senza
vigore, la mano smunta del pontefice fa dei gesti ampi e lenti in cui le dita non
formano il solito gesto a tre (pollice, indice, medio) ma le rimangono tutte aperte e la
mano è quasi in orizzontale nel fare il segno di croce.
La sua figura mingherlina e il suo volto sorridente parrebbero stridere un poco al
paragone con altri papi. Se estrapolassimo cioè quelle immagini dal loro contesto
umano, sociale e culturale, penseremmo a un modo eccentrico di gestire i mezzi di
comunicazione rispetto a papi quali l’austero e un po’ algido principe Pacelli, Pio XII di cui parleremo in seguito brevemente - o al grande comunicatore Giovanni Paolo II.
Quell’anziano papa potrebbe erroneamente ricordarci un anziano guidato da un
badante da cui riceve indicazioni.
È però ugualmente paradigmatico ripensare a papa Leone XIII e metterlo in
relazione con papa Giovanni Paolo II (1978-2005) e con la sua notevole capacità
comunicativa, la sua padronanza dei mezzi di comunicazione e la sua preparazione
all’uso dell’immagine. Una propensione, oltre che una dote probabilmente coltivata
anche grazie alle sue giovanili esperienze di teatro, a saper gestire la presenza di un
181
E.G., Laura, L’anima religiosa del cinema. Le iniziative dei cattolici, in A. Piersanti (a cura di),
Cento anni di biennale e di cinema: la presenza della chiesa, Ente dello Spettacolo, Roma 1996, p.
77.
100
uditorio vasto, anche se ampio come quello che si cela dietro una telecamera. Si
pensi alla gradualità con cui i papi – non senza sforzo – hanno dovuto cominciare
sempre di più a convivere con le immagini. In antichità il papa era raffigurato in
stampe e dipinti, il simbolo papale non era dato dalla sua figura, bensì dalla bolla
papale con cui comunicava inderogabilmente le sue scelte. Dal papa imbarazzato,
che per ragioni di luce è costretto a farsi riprendere nel giardino, al papa che scia con
assoluta naturalezza, ce ne corre!
2.4.2 Pio XII. Comunicazione Corpo Carisma
Dopo aver trattato, attraverso uno sguardo fugace sulle immagini lasciate da
Pio IX e Leone XIII, il passaggio paradigmatico dalla pittura alla fotografia e da
questa al cinematografo, portiamo un ulteriore esempio, forse quello più interessante,
relativo a Pio XII (1939-1958). Il venerabile papa Pacelli è infatti l’ultimo papa
nobile182 a essere stato elevato al soglio di Pietro, ma a noi interessa per essere
stato il primo pontefice ad apparire in televisione. E questo avviene ben prima del
saluto in diretta che il pontefice fa per l'istituzione, il 6 gennaio 1954, della
“Televisione Europa”183. In realtà già dalla fine degli anni '40 la sua figura comincia a
divenire familiare tanto in Europa, quanto al di là dell'Oceano, in America.
Eugenio Pacelli è un papa dai numerosi interessi e curiosità, di certo è anche
un attento osservatore dei nuovi sistemi di comunicazione audiovisiva. Le immagini
televisive lo mostrano con dei gesti studiati, quasi teatrali, ed è un pontefice che
sembra muoversi come su un palcoscenico e che, per le sue qualità, è in grado di
padroneggiare le prime grandi folle che un papa sia stato capace di attirare. Sarà
descritto, per il carisma che emana e per il suo aspetto fisico, come un uomo
sospeso tra terra e cielo. Il suo corpo alto, magro e diafano gli dona una presenza
scenica unica rispetto a chi lo precede e che i fedeli apprezzano tributandogli
popolarità. Pio XII è un papa che tiene a valorizzare, anche grazie alla sua altezza
182
Anche se i titoli di marchese e di principe erano, per la famiglia Pacelli, di recente conseguimento.
Risalgono infatti al periodo tra il 1853 e 1858 e sono dovuti alla fedeltà mostrata dagli avi del pontefice
al papa Pio IX, sia durante l'esilio di Gaeta tra il 1848 e 1849, sia per come Marcantonio Pacelli
represse con particolare durezza, nel suo ruolo di Sostituto del Ministro degli Interni, i patrioti
rivoluzionari che si opponevano al papa.
183
È proprio quello stesso giorno infatti che vide la luce quest'ente europeo – che diverrà in futuro la
più nota “Eurovisione” – a cui aderiscono le emittenti televisive nazionali di Italia, Francia, Germania,
Belgio, Olanda, Svizzera, Danimarca e Gran Bretagna.
101
statuaria, il physique du rôle che «sacralizza» il corpo di cui la «provvidenza» lo ha
dotato e che agevola il suo sforzo di mantenere la solennità del ruolo che ricopre.
Le immagini fotografiche lo mostrano, infatti, sempre piuttosto serio e pensoso,
spesso impassibile anche davanti all'altrui sorriso (fig. 17). Quel viso imperterrito ben
si confà a un corpo rigido e austero. È l'immagine di un papa che sembra staccarsi
dalle questioni terrene – egli stesso definisce il suo ruolo quello di «un pastore
angelico che porta il suo gregge sulle vie della pace» – ma che opera
pragmaticamente e anche con durezza talvolta, nelle questioni politiche del suo
tempo184.
Dalle prediche rese invece davanti alle telecamere o mdp si nota una retorica
enfatica, anche se in realtà non troppo maggiore di quella di altri uomini, come ad
esempio avveniva per i leader politici, ma soprattutto si vede una gestualità continua
e accentuata. Con le sue lunghe braccia traccia direttrici quasi sempre indirizzate al
cielo e con gli occhi accompagna i suoi gesti con sguardi verso l'alto, tutto volto a
sottolineare tali gesti con voce stentorea e con sentite e convinte suppliche. Questo
non stupisce se si considera come la ritualità religiosa conservi molte delle regole
della retorica e, in particolare, dell'actio e, di conseguenza, della recitazione.
È interessante però notare soprattutto il suo modo di rivolgersi allo spettatore
per mezzo di sguardi e movimenti in avanti, indirizzati verso l'obbiettivo che
sembrano voler cercare, e non con poco vigore, una prossimità, un'interpellazione
corporea e sinestesica, con chi lo osserva al di là dello schermo. Traspare da tali
immagini un forte desiderio di comunicare e trasmettere il proprio credo a chiunque
sia in ascolto. I larghi movimenti delle braccia sembrano quelli di un attore che
teatralizzi molto l'espressione corporea e osservando tali immagini si percepisce lo
sforzo comunicativo che questo papa ultra settantenne – era nato nel 1876 – mette in
atto.
Con il tempo e l'avanzare degli anni, le immagini di Pio XII sono sempre più
quelle che si trovano sulle riviste tendenti a fotografarlo in atteggiamenti dalla forte
carica simbolica, come mentre accarezza, connotandosi come nuovo S. Francesco,
degli agnellini o mentre tiene in mano un cardellino (fig. 18). La carica allegorica
184
Proprio per questo motivo, le voci di critica non mancano, ad esempio Pasolini lo definisce come
un «Papa politico e perciò enigmatico» e in una sua poesia a lui dedicata, intitolata A un papa (P. P.
Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961), scrive: «Quanto bene tu potevi fare! E
non l’hai fatto: non c’è stato un peccatore più grande di te». La poesia ha parole di accusa che
tendono a descriverlo come ambiguo. Ma è certo che a dispetto di una sua apparente ambiguità, dei
silenzi o delle rigidità, fu un papa molto popolare, probabilmente rispondente a certi canoni che erano
attribuiti popolarmente al ruolo che era chiamato a svolgere.
102
contenuta in queste immagini è di facile decifrazione e sembra, con l'avanzare
dell'età, suggerire un'esistenza che già guarda a stati ultraterreni. Del resto, in alcune
riprese fatte in tempi immediatamente prossimi alla sua morte – come in un filmato
girato mentre parla alla folla radunata davanti alla residenza estiva di Castel
Gandolfo – lo vediamo spaesato, quasi che confuso stia assistendo a una delle sue
visioni. E infatti di apparizioni – come quella di Cristo che confida a monsignor
Domenico Tardini, futuro Segretario di Stato di Giovanni XXIII – questo papa pare ne
abbia diverse. È l'ultimo periodo della sua vita a essere segnato da premonizioni e da
miracoli a cui afferma di aver assistito personalmente, come il giorno in cui,
passeggiando nei giardini vaticani, rivela di aver visto il Sole che, similmente agli
accadimenti di Fatima, girava vorticosamente.
Crediamo che papa Pio XII debba essere visto nel tempo in cui opera, e il suo è
stato certamente, anche nel campo della comunicazione, un atteggiamento
pragmatico. Negli stessi anni del fascismo ha ottenuto grandi e importanti incarichi
religiosi ed è salito al soglio pontificale nel 1939, a guerra iniziata e poco prima della
fase conclusiva del regime. Oltre la sua cultura politica anche la sua “enciclopedia”
comunicativa appare comune ai potenti del periodo in cui è vissuto. Un'epoca in cui il
potere si esercitava attraverso
uomini dotati di forte carisma, che parlavano su
balconi davanti a grandi folle, che utilizzavano un'enfasi e una gestualità con
espressioni e movimenti corporei molto accentuati, che curavano in ogni dettagli, fino
alla censura, le forme soprattutto visive della comunicazione: praticamente il ritratto
dei grandi dittatori del periodo, ma anche caratteri che riconosciamo, pur con i dovuti
distinguo, nel papa stesso.
Le parti di riprese di ciò che oggi chiameremmo il backstage di un filmdocumento filmato da Luis Trenker nel 1942, Pastor Angelicus, sono particolarmente
utili per comprendere e avvalorare le conclusioni che traiamo dall'analisi delle
immagini lasciate di sé da questo pontefice. Esse ci mostrano la sua attenzione alla
cura di ogni aspetto delle riprese, in cui lo osserviamo nel suo portamento serio e
austero. Pacelli legge, modifica e approva la sceneggiatura, poi “recita” alla
perfezione il suo ruolo da “protagonista”. Ripete con pazienza le scene, i gesti e le
pose, tanto da girare per ben tre volte la passeggiata – non troppo diversa da quella
compiuta a suo tempo da Leone XIII – nei giardini vaticani. Il pontefice si occupa
persino della scenografia, è consapevole della sua importanza e del vasto numero di
persone che vedranno quel film. Fa delle prove del discorso e dei gesti per curare la
103
sua presenza scenica. Tutto questo per esprimere una ieraticità che risulta
potenziata da quel suo modo di allargare, come un angelo, le braccia, di portarle
verso il cielo, accompagnando il gesto con lo sguardo verso l'alto, come se stesse
assistendo a una visione soprannaturale.
Un papa attento alla comunicazione come nessuno prima di lui, così come lo
erano i leader che in quel periodo andavano per la maggiore, e non è un caso,
probabilmente, che Pio XII sia stato il primo pontefice a istituire l'Angelus domenicale
dalla finestra di Piazza San Pietro. È immaginabile come la sua alta statura, la sua
voce stentorea, le sue parole enfatiche, unite a una gestualità particolarmente ampia,
siano state frutto di una ricerca e di uno studio sugli atteggiamenti da tenere di fronte
a grandi masse di persone per risultare vicino e visibile e parimenti – per il suo
essere presente, ma posto in posizione elevata e distante – intangibile e sacrale,
solenne e austero. E del resto esempi similmente affascinanti non mancano di certo
in quel periodo.
Il caso di Pio XII mostra come sempre più i pontefici siano parte del rutilante
mondo dell'immagine, tanto da esserne addirittura a loro volta “travolti”. Papa Pacelli,
ad esempio, nel suo lento declino per la malattia sarà fotografato morente sul suo
letto e le immagini saranno vendute a diverse testate giornalistiche. Dello stesso
papa saranno mostrate anche le immagini, questa volta consapevoli ma non meno
impudiche, riprese subito dopo la sua morte, con il corpo rivestito ma, naturalmente,
non ancora integralmente composto, che svela i segni e l'inclemenza della morte: la
bocca aperta dell'ultimo respiro185. Un declino lento quello di Pio XII, che i media
seguono con attenzione, esattamente come, quasi mezzo secolo dopo, faranno con
l’altro pontefice grande comunicatore: Giovanni Paolo II. Tra questi due pontefici se
una differenza si può immediatamente riscontrare, è però la naturalezza con cui il
papa polacco riesce a gestire i mezzi di comunicazione.
185
Questo probabilmente fa parte di un diverso modo di considerare la morte nel tempo. Riteniamo
che le immagini fotografiche aventi per soggetto la morte in tutte le sue forme siano infatti frutto di
costumanze che, in continua modificazione nel tempo, meritino di essere approfondite con ulteriori
studi e ricerche.
104
Capitolo terzo
CIÒ CHE SFUGGE AL CONTROLLO
“Il carnevale è finito”186
186
Il dirigente di polizia (G.M. Volontè) in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (E.
Petri, 1970).
105
3.1 Corpi sotto controllo
Il corpo mediatico è un corpo “profanato” da occhi che percepiscono le
espressioni con visioni ravvicinate che inoltre la ritagliano, la moltiplicano e la
scompongono. Tutto questo resta sulla scia di quanto osservato da Joshua
Meyrowitz187, seppur con un eccesso di determinismo, che vedeva nella visione
perfino ravvicinata del corpo del potere la causa prima della desacralizzazione e la
conseguente perdita dell’aura. Il corpo esprime così la sua natura umana, la
possibilità di ammalarsi, di ferirsi, di sudare, di mostrare stanchezza, noia o qualsiasi
altra forma espressiva.
La medializzazione del leader comporta infatti anche una maggiore attenzione
ai discorsi sulla salute, così come a quelli sulla vita e sulla morte. Il caso di papa
Wojtyla è evidente, la telecamera era libera di soffermarsi sul quel corpo instabile in
una maniera assoluta, senza precedenti, e nessuno poteva (e forse voleva) opporsi
alle regole di una comunicazione impudica che mostrava il suo volto gonfio,
incontrollato e sofferente, stringendo talvolta fino al primissimo piano. Il corpo del
leader, soprattutto quello politico e religioso, sembra sempre più “appartenere” alla
comunità e siamo lontani dal modo in cui la famiglia di Aldo Moro rivendicava per sè
e non per lo Stato il corpo del congiunto ucciso188.
C’è un film recente, infatti, che si regge quasi completamente sull’indagine che
la macchina da presa è chiamata a fare sul comportamento tenuto da un ex
presidente degli Stati Uniti nel momento in cui decide di concedere una lunga
intervista. Il suo tentativo è quello di riabilitare la propria figura politica ormai
compromessa dal più dirompente degli scandali politici che la nazione americana
abbia mai conosciuto. Quel presidente è Richard Nixon e il film del 2008 prende il
titolo dai cognomi dei due protagonisti della vicenda realmente accaduta:
Frost/Nixon. Il duello. Di questo film parleremo più compiutamente in un secondo
momento (§ 3.1.1), ma a questo punto è utile un preambolo che ricordi quanto,
soprattutto per chi si ponga in una posizione di leadership, il contenuto verbale dei
187
J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento sociale,
Baskerville, Bologna 1993 [No Sense of Place. The Impact of Electronic Media on Social Behavior,
Oxford University Press, New York 1985].
188
Sulle questioni relative alla rappresentazione della morte si veda A. Abruzzese–A. Cavicchia
Scalamonti (a cura di), La felicità eterna. La rappresentazione della morte nella TV e nei media,
Nuova Eri/Rai, Torino 1992.
106
suoi discorsi debba restare sotto il proprio saldo controllo.
A livello teorico si ritiene che le parole siano in gran parte sotto il dominio di chi
le pronuncia, mentre sia molto più complesso mettere un freno ai comportamenti non
verbali. Il rischio in tal caso è quello di esprimere messaggi non coerenti dal
momento che ci sono una serie di atti che restano più “sfuggenti” e il corpo e la sua
immagine aprono all’ampio campo della comunicazione non verbale. E parlando di
queste forme ci riferiamo ai segni paralinguistici legati all’intonazione della voce, al
riso, al pianto, alle pause, ai sospiri, ma anche al semplice – perché apparentemente
“incontrollato” – colpo di tosse o al ricorso degli «uh» o «ehm» durante le
conversazioni o i discorsi. Tutte forme che rientrano tra i segni di cui la
comunicazione si dota per significare.
Tra queste comunicazioni non verbali, le espressioni del volto sono quelle più
indicative per comprendere la predisposizione del personaggio verso il suo
interlocutore e le emozioni, prettamente visive, che in lui si suscitano. Sono sei le
emozioni considerate di base: felicità, tristezza, sorpresa, paura, rabbia, disgusto e
sono universalmente associate a determinati movimenti dei muscoli facciali.
Parlando dei comportamenti nello spazio si intendono ad esempio le reazioni alla
vicinanza o lontananza tra individui, l’uso della pacca sulla spalla o del bacio sulla
guancia, del saluto con la mano e gli altri modi che può avere una persona (nel
nostro caso un leader) per evocare un rapporto patemico con l’interlocutore, sia esso
un elettore, un fedele di confessione religiosa, un associato, un cliente etc.
Se l’espressione del volto mantiene una certa dose di controllabilità, meno facile
è gestire i gesti di nervosismo o l’incrinarsi della voce in alcuni passaggi. Ancora
meno i tic o la sudorazione che divengono spesso segnali inequivocabili dell’ansia e
dello stress dell’interlocutore.
Da qui l’assoluta necessità, tornando a quanto detto in precedenza per Il divo,
di mostrare come quel politico in particolare nasconda qualsiasi emozione e come
essa possa essere intuita unicamente dal movimento delle mani, vedi la scena con la
Ardant. Dai gesti cioè interpretare cosa il personaggio di Andreotti stia pensando.
Anche in questo caso il film suggerisce che si tratti dell’unico “mancato controllo” –
oltre naturalmente il mal di testa - da parte di una persona invece assolutamente
controllata.
Per ciò che attiene all’incapacità da parte dell’uomo di controllare alcune proprie
107
reazioni sarà il caso di far cenno a ciò che affermava Deleuze in relazione alla
funzione assunta dagli organi nel corpo umano. Il filosofo francese, infatti, parlando
ne il suo Logica della sensazione di Francis Bacon fa riferimento ad Antonin Artaud
soprattutto per la sua idea di farsi “corpo senza organi” e con questo tende a
sottolineare come nell’opera del pittore anglo-irlandese
la Figura è esattamente il corpo senza organi […] il corpo senza organi è carne e nervo; è percorso da
un’onda che traccia in esso vari livelli; la sensazione sarebbe l’incontro dell’onda con le Forze che
agiscono sul corpo […]; quando è riferita al corpo in questo modo, la sensazione cessa di essere
rappresentativa, diventa reale; e la crudeltà sarà sempre meno associata alla rappresentazione di
qualcosa di orribile, sarà mera azione delle forze sul corpo, o sensazione (il contrario del
sensazionale).
189
Artaud, infatti, per farla finita col giudizio di Dio, come recita il titolo del suo testo
del 1947 per la radio, inizia la sua battaglia con gli “inutili” organi corporei, decidendo
così di disfarsi dell’organismo – sì perché più che di fronte a un corpo senza organi,
si è davanti a un corpo senza organismo, senza cioè l’organizzazione degli organi
ma dotato di organi “provvisori” – e ciò porta a far emergere il corpo, così come, ed
ecco il paragone con la pittura di Bacon, il disfacimento del volto è il mezzo per far
affiorare la testa.
Idea utopica, precisata nella stagione conclusiva dell’autore francese, il corpo
senza organi è quello da cui sono eliminate le parti che possono far disperdere la
forza vitale dell’essere umano o da cui viceversa potrebbero accedere delle entità
estranee e avverse al corpo stesso. Sarebbero dunque da abolire gli organi della
sessualità, gli orifizi e ogni apertura umana190: Deleuze e Félix Guattari191 hanno letto
in quest’affermazione l’evocazione di un corpo “compatto”, potenzialmente privo
addirittura degli arti e ridotto al solo tronco, l’idea di corpo come un «uovo pieno
prima dell’estensione dell’organismo e dell’organizzazione degli organi, prima della
formazione degli strati»192.
189
Gilles Deleuze, Logica della sensazione, cit., p. 104.
Soprattutto a questo potrebbe portare una più ampia interpretazione delle diverse scene di
sodomizzazione che si rintracciano nel precursore dei film “baconiano” Ultimo tango a Parigi.
191
G. Deleuze-F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, in Mille piani. Capitalismo e
schizzofrenia, Castelvecchi, Roma 2006, pp. 237-259.
192
Ibid., p. 242.
190
108
Il corpo senza organi cerca di opporsi a quello grottesco delineato da Michail
Bachtin193 quando, nell’opera di Rebelais, individua un corpo luogo di continui flussi,
in sostanza un corpo in divenire in cui, dopo ventre e membro virile, sia la bocca ad
avere
la posizione più importante, poiché essa inghiotte il mondo, e infine il deretano. Tutte queste
protuberanze e orifizi sono caratterizzati dal fatto che appunto in essi vengono scavalcati i confini fra
due corpi e fra il corpo e il mondo, e hanno luogo gli scambi e gli orientamenti reciproci. È questo il
motivo per cui gli avvenimenti principali nella vita del corpo grottesco, gli atti del dramma corporeo - il
mangiare, il bere, i bisogni naturali (e altre escrezioni: traspirazione, secrezione nasale, starnuti),
l'accoppiamento, la gravidanza, la nascita, la crescita, la vecchiaia, la malattia, la morte, lo
spezzettamento, lo smembramento, l'assorbimento da parte di un altro corpo - avvengono ai confini
tra il corpo e il mondo, o tra il corpo vecchio e il corpo nuovo
194
Per non mostrarsi grotteschi i personaggi devono infatti interrompere qualsiasi
flusso e scambio tra interno ed esterno dei propri corpi. Non è un caso che quello
della contemporaneità è un corpo giunto alla quasi totale censura della gestualità,
ormai limitata ad ambiti particolari, pena l’essere considerati vittime di nevrosi. Siamo
pertanto di fronte alla negazione dell’organismo, nella direzione di un ascetismo che
si sforza di eliminare ogni carattere di comicità dalla propria figura.195 Questi corpi
senza organismo, nel tentativo di evitare qualsiasi spreco, finiscono per perdere
anche i loro caratteri identificativi pur di accreditarsi come entità assolutamente
compatte e separate dallo spazio in cui operano.
Nel suo testo dedicato ad Artaud, Alessandro Cappabianca ha richiamato un
paio di esempi di uomo tronco che si riscontrano nel cinema contemporaneo alla
scrittura del poeta francese: è il caso del personaggio senza braccia né gambe
interpretato in Freaks di Tod Browning (id., USA 1932) da Prince Randian o del corpo
rigido e compatto dei severi personaggi interpretati da Erich von Stroheim. In
particolare le parti da ufficiale tedesco come nell'interpretazione di Eric von Eberhard
nel film di A. Holubar The Heart of Humanity (USA 1918) o in quella del capitano von
193
M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione
medievale e rinascimentale, (Mosca 1965) Einaudi, Torino 1979.
194
Ibid., p. 347.
195
Si veda a tal proposito anche il saggio sul corpo contenuto in Gianni Celati, Finzioni occidentali,
Einaudi, Torino 1975.
109
Rauffenstein ne La grande illusion di J. Renoir (La grande illusione, Fr. 1937) o nella
parte del field marshal Erwin Rommel nel film di B. Wilder Five Graves to Cairo (I
cinque segreti del deserto, USA 1943).
Dice infatti Cappabianca: «Non si tratta solo del suo portare la divisa come una
corazza, come una specie di seconda pelle, che rende il suo corpo rigidamente
compatto – al di là delle motivazioni narcisistiche – ma anche della propensione
generale di Stroheim, come “corpo d’attore”, al “risparmio”, proprio in ragione inversa
allo “spreco” che costituisce la sua sigla di regista»196. La leggenda di Stroheim
regista è infatti legata alla ricchezza e agli sprechi produttivi, le sue interpretazioni
d’attore sono invece esempi di parsimonia recitativa. Non si trovano infatti mai
sguardi o gesti enfatici e tanto meno si esplicitano emozioni, secrezioni197, succhi
vitali e «sperma, in un risparmio che l’ultimo Artaud avrebbe senz’altro approvato»198.
Cappabianca analizza i personaggi interpretati da von Stroheim vedendo in loro
un perfetto esempio di rigore, di tenuta fisica più che morale, e anche per Sorrentino
le due cose vanno nella realtà dei fatti disgiunte. Egli vede in Andreotti l’esempio più
lampante di corpo che si mostra almeno in pubblico privo di organi o, quanto meno,
fa del tutto per nasconderli o dissimularli.
Come visto (§ 2.1.4), nessuno spazio è concesso alla passione (esclusa quella
per la politica), all’amore e tanto meno al sesso e riaffiora così quanto affermato da
Belpoliti che parla di Andreotti e di altri politici di quella generazione, come di uomini
che «sembravano non avere un corpo, non esistere come corpi»199. Una della
maggiori cause della fallibilità del leader è il cedere al desiderio e in particolare alla
sessualità: sono molti gli esempi che si potrebbero fare, anche traendoli delle
cronache recenti in cui l’uomo, esposto per le sue debolezze o meglio per mancata
remissio, al giudizio della pubblica opinione, perde il controllo e cede - o quanto
meno rischia di cedere - la sua posizione sociale e la leadership. Non basta
evidentemente quanto appreso da Deleuze, il quale afferma che «la rinuncia al
196
A. Cappabianca, Artaud, L’Epos, Palermo 2001, p. 56 (ma su tale argomento, per una trattazione
più diffusa, si veda dello stesso autore anche L’immagine estrema: cinema e pratiche della crudeltà,
costa & nolan, Milano 2005).
197
Cappabianca porta l’esempio di Foolish Wives (Femmine folli, USA 1923), in cui il personaggio del
falso principe Karamzin «si rivela particolarmente avaro di quelle secrezioni di cui i colleghi suoi e
anche di Artaud, gli attori e le attrici, fanno grande e smodato spreco: le lacrime […] immergerà le dita,
non visto, nella caraffa dell’acqua e, portandosi la mano alla fronte, lascerà cadere con studiata
parsimonia qualche goccia di false lacrime sulla tovaglia candida» (Alessandro Cappabianca, Artaud,
cit., p. 56).
198
Ibid., p. 59.
199
M. Belpoliti, Il corpo del capo, Guanda, Parma 2009, p. 92.
110
piacere esterno»200 può configurarsi come una forza e non come una debolezza, in
cui tale rinuncia diviene «la conquista di uno stato in cui il desiderio non manca più di
nulla, si riempie di se stesso e costruisce il proprio campo d’immanenza. Il piacere è
l’affezione di una persona o di un soggetto, è il solo mezzo per una persona di
«ritrovarsi» nel processo del desiderio che la oltrepassa»201
In un paio di punti de Il divo assistiamo inoltre a una trasfigurazione del corpo di
Andreotti anzi, per restare sul parallelismo tra trattamento della figura secondo la
linea che da Artaud porta a Bacon e a Deleuze, diremmo si tratti quasi di un
momento defigurante. La prima immagine è relativa ad Andreotti in auto, impassibile,
con la scorta che cerca di aprire la portiera apparentemente bloccata (min. 58), lo
osserviamo dall’esterno dietro il finestrino su cui batte la pioggia (fig. 19). I contorni
del suo volto perdono di definizione in quella sfocatura profilmica oggettiva202 che
s’inserisce in un’ulteriore immagine in rilievo. La sequenza, che ha la durata piuttosto
lunga e che sul piano diegetico non appare minimamente giustificata, costituisce,
come molte parti del film, una sottolineatura di senso di cui sarebbe interessante
conoscere le motivazioni. L’altra immagine che ottiene un effetto metaforico è quella
in cui il politico democristiano è ripreso insieme alla moglie riflesso in uno specchio
opaco (min. 68) che, nella penombra in cui è avvolta la casa, cancella i loro
lineamenti. Quasi come se si trattasse di fantasmi, di residui del passato, di figure
che hanno perso la loro nettezza. Uno specchio che, come accadrà alcune scene
dopo con l’apparizione nel bagno di Moro, svela la vera natura dei personaggi, la loro
parte più intima e nascosta. Un cambio di dimensione spaziale che avviene fin dal
cambiamento imposto al regime visivo adottato fino a quel punto nel film, e che mette
in rilievo e richiede la comprensione di un ulteriore significato da dare al film.
Scene in cui la deformazione del corpo di Andreotti avviene in spazi chiusi e
soprattutto grazie a ostacoli che s’interpongono alla visione: specchi che, a causa
dell’annerimento e delle scrostature, riflettono in maniera imperfetta o finestrini su cui
batte la pioggia. Si tratta di “barriere” poste nel mezzo a ostacolare lo sguardo dello
spettatore e in grado di creare una tensione tra il poter e non poter vedere, cosicché
200
Per tale discorso Deleuze porta ad esempio l’amor cortese il quale non va confuso, nella
distinzione che si ritrova in R. Nelli, L’érotique des troubadours, Privat, Tolosa 1963, con l’amor
cavalleresco.
201
G. Deleuze-F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizzofrenia, cit., p. 246 [corsivo aggiunto].
202
Rimando per una trattazione più completa sulle visioni sfocate a G. Curtis, Lo sguardo negato, cit.,
pp. 221 e sgg.
111
l’effetto ottenuto è quello di un corpo in disfacimento che, con la perdita di stabilità
degli organi e dei caratteri fisici, ricrea un effetto di senso perfettamente
corrispondente alle incertezze che il personaggio sembra vivere in quel momento
storico.
Allo stesso tempo è anche l’immagine che l’autore ritiene sia la più veritiera del
politico, quella che ne altera i lineamenti e che dà al cinema una capacità che in un
romanzo dell‘Ottocento - come accade ne Il ritratto di Dorian Gray, che precede di
poco (1891) la nascita del cinematografo - si poteva dare a un dipinto: la forza di
svelare ciò che con altri mezzi non era possibile riuscire a dire. Tradurre cioè la vera
natura del personaggio, la sua immagine più profonda203.
Si tratta in ogni caso di modi d’alterazione dell’immagine che si oppongono a
una visione realistica e apparentemente oggettiva. In un’epoca di relativismo mal
interpretato, in cui si stenta a dare alle immagini statuto di verità accertata, il film
propone una visione del corpo del leader che ne ricostruisce l’operato ma ne
reinterpreta persino la figura. Questa tende a esprimere i valori che il leader incarna,
basti pensare per similitudine, all’interessante libro di Belpoliti che applica una
prossemica che prende le mosse dallo studio dei vecchi ritratti fotografici di
Berlusconi, per svelarne la “vera” personalità. Nel caso del film di Sorrentino, si va
oltre, si reinterpreta il corpo, lo si defigura, lo si rende inorganico, lo si altera nei
lineamenti. In questo modo l’autore afferma la sua libertà creativa e dunque
reinterpretativa che, attraverso il cinema, egli è “giustificato” a fare. Siamo in linea
con quanto diceva Pasolini nel più famoso dei suoi scritti corsari relativamente al
ruolo che l’intellettuale svolge nella società. Dello sguardo che va al di là delle
apparenze e che riesce a unire e figurativizzare quei punti che altri non sono neppure
in grado d’individuare.
Allo stesso tempo riteniamo che tali immagini siano dei modi per attingere ad
altre forme e linguaggi artistici, modi per far perdere al cinema lo statuto di semplice
riproduttore della realtà, e aprirsi a linguaggi ulteriori. Si rientra così in quei campi in
cui, sottratto al puro regime narrativo, il cinema libera il suo potenziale creativo e lo
fa, più che per aderire a un linguaggio postmoderno, per attivare una più profonda
riflessione sul suo statuto. Forme che quando non sono giustificate diegeticamente,
203
Interessante comparare tale conclusione con un’intervista rilasciata da Sorrentino in cui si
commenta la prima reazione stizzita di Andreotti che, alla visione del film a lui dedicato, lo definiva
“una mascalzonata”. Egli, sottolineando la forza “svelatrice” del cinema, affermando inoltre «che non
viaggia solo sui binari della pura rappresentazione dei fatti ma anche su quelli dell'emozione» (Si veda
http://cineuropa.org/interview.aspx?lang=it&documentID=84378).
112
si aprono a significati e sensi ulteriori. L’effetto mosso, le sovraesposizioni, l’effetto
panning o, come accade ne Il divo, le sfocature e le visioni opache non fanno altro,
se usati con cognizione di causa, che aprire squarci di senso che sottraggono
l’immagine all’imposizione, anche se mai davvero assoluta, della componente
narrativa, per farla svolgere coinvolgendo lo spettatore anche sul piano delle
sensazioni. Un linguaggio più prossimo a quello di altre arti o, per meglio dire, che è
in grado di “tradurne” degli effetti attraverso una perdita di densità figurative. Pur con
le differenza del caso, che non stiamo qui ad elencare, quanto detto rende plausibile
una comparazione tra il corpo “politico” dell’opera di Sorrentino con quello defigurato
dell’opera pittorica di Bacon di cui parla Deleuze.
3.1.1 L'organismo che trapela. Frost/Nixon. La sfida
La padronanza del corpo, come abbiamo visto, passa per la negazione o
almeno la sorveglianza dell'organismo, questo significa che più sono “profonde” le
forze e le motivazioni che agiscono più l'autocontrollo diventa, come nel caso dei tic,
difficile da applicare. Nel cinema italiano si è spesso ricorso al tic per caratterizzare
certi personaggi come, ad esempio, quello di Enrico Marletti (Enrico M. Salerno) de
L’ombrellone (D. Risi, 1965) o come del barone Fefè Cefalù (Marcello Mastroianni)
nel già citato Divorzio all’italiana di Germi. Gesti più minuti ma che, gonfiati dai
primissimi piani della mdp e visti sul grande schermo, divengono un giudizio – come
sottolineato da Dürrenmatt – moralistico che, proprio perché meno esplicito, si rivela
nei confronti della società e le figure di cui si compone più subdolo e sprezzante. Un
segno meno accentuato ma che, pur ponendosi sullo stesso piano, sostituisce la
sguaiataggine di alcuni classici volti della commedia nostrana: si pensi a I mostri del
1963 sempre di Risi.
Partendo da questo assunto facciamo, convinti che sia giustificato, un salto
spaziale e temporale e vediamo come l'opera di Ron Howard, Frost/Nixon. Il duello,
ci mostri quanto sia costato caro all'ex presidente americano Richard M. Nixon, il
mancato autocontrollo. Il film racconta un preciso periodo della vita dell'uomo politico
il quale nel 1977, dopo le dimissioni di tre anni prima per l'impeachmet subito a
causa del cosiddetto e noto scandalo del Watergate, cerca di riabilitare la sua figura
attraverso una lunga e ben retribuita intervista in quattro parti con il giornalista
113
britannico David Frost. Il film mostra come l'ultimo degli incontri tra Nixon (Frank
Langella) e Frost (Michael Sheen) sia quello più drammatico, quello in cui l'ex
presidente cede di schianto alle pressioni del giornalista che finalmente e
inaspettatamente condurrà alla perfezione l'ex presidente, con un serrato e intenso
faccia a faccia, verso la rivelazione del suo opinabile punto di vista sulle prerogative
del potere e dunque all'assunzione delle proprie responsabilità. Non basterà neppure
l'interruzione improvvisa ordinata dal più stretto collaboratore di Nixon per fermare
quel fiume di rivelazioni. Nixon si è ancora una volta svelato attraverso i media.
Per Nixon non restava infatti che la confessione delle sue malefatte, ma
soprattutto lasciar spazio all’ultimo dei suoi errori, quello di considerare l’affaire
Watergate sì un errore, mostrando però eccessiva indulgenza verso se stesso nel
pensare che i mezzi adottati fossero da considerarsi assolutamente legittimi per un
presidente. Un’idea che, come si evince del resto anche dalla sua gestione della
Casa Bianca, è piuttosto muscolare della politica e delle strategie da mettere in atto.
Il suo svelarsi va al di là del rivelare il proprio punto di vista sul potere, nel testo
infatti la personalità, la tensione e le insicurezze di entrambi i contendenti affiorano
attraverso i dettagli del non detto. Un fattore, ed entriamo nel dato storico, seppur
controverso204, che il film di Howard evoca attraverso delle immagini di repertorio,
che Nixon aveva già pagato a un alto costo, nello scontro del 1959 con John F.
Kennedy per la presidenza, le espressioni non controllabili del suo corpo, la sua
sudorazione, il suo malessere fisico e tutto ciò che in quella occasione sembrò dare
l’impressione di nervosismo e d'incapacità di controllo della situazione, in
contrapposizione alla giovane verve del suo sfidante che diverrà infatti presidente.
L’ex presidente “dimissionato” in questo “duello” in quattro fasi davanti alle
telecamere con il poco esperto di questioni politiche, Frost, sembra inizialmente
padroneggiare la situazione e avere la meglio sull’intimorito giornalista. Ma nel quarto
e ultimo incontro che il contratto prevedeva, Nixon non riesce a gestire l’impostazione
aggressiva dell’intervistatore e ancor meno le scoperte dei suoi collaboratori e le
considerazioni poste sul tavolo di quel confronto/scontro.
Centrandosi sulla costruzione del personaggio cinematografico, l’immagine che
il regista propone per Nixon, pur non essendo assolutoria, non ne sottrae il lato
204
Ad esempio Louis Liebovich tenta, dati alla mano, di confutare l’idea che la vittoria di Kennedy sia
attribuibile alla differenza fisica tra i due dicendo che la Tv non era il media preferenziale di quegli anni
e che, in ogni caso, la qualità delle immagini in bianco e nero non erano tali da risultare determinanti
per un tale risultato (L. Liebovich, The Press and the Modern Presidency. Myths and Mindsets from
Kennedy to Election 2000, Praeger, Westport CT 2001).
114
umano e intimo, in cui i tic, il suo egocentrismo e la sua avidità (mostrando, in diverse
parti del dialogo, la sua “propensione” al guadagno e al denaro), non fanno che
umanizzarlo al di là di facili letture critiche che pure la figura originale non manca di
alimentare. In questo senso si vedono alcune similitudini con l’opera di Sorrentino,
mentre si traccia la considerevole distanza (parliamo di film sostanzialmente coevi)
con il film W (2008) che Oliver Stone ha dedicato a un altro presidente americano,
George W. Bush.
È dalle stesse parole di Nixon che scopriamo le sue dis-qualità che nel passato,
al nascere della comunicazione politica visiva, gli costarono addirittura la presidenza
a favore del giovane e più brillante Kennedy. È sempre lui che parla della sua
sudorazione e dell’attenzione a detergersi dal sudore, della capacità – tornando, nel
film, a parlare addirittura dell’episodio del 1959 – che il politico deve avere di non
mostrare tensione, facile irritazione e tic. Il tic è come detto la cosa più complessa da
gestire, è infatti per sua natura incontrollato, talvolta intermittente e brusco, si attiva a
causa dalla contrazione di uno o più muscoli e, proprio per questo motivo, fa
direttamente riferimento alle forze che agiscono interiormente e che, riprendendo
Deleuze, sono forze “organiche”.
Se il gioco psicologico si svolge fuori e dentro lo sguardo della telecamera, dal
film si evince come tutto il resto debba essere controllato nel momento performativo
dell’intervista, compresa la ricerca dei punti deboli dell’avversario e la capacità di
reazione ai colpi subiti e ai cambi di strategia. È la visione ravvicinata “scrutante” di
Nixon a tirarne fuori le “magagne” espressive ed emotive. S’instaura dunque con lo
spettatore (in tal caso quello cinematografico) un rapporto empatico che però
evidenzia la bassa caratura morale e sottolinea il contrasto con il ruolo politico che
aveva svolto nella vita e lo fa anche attraverso il suo corpo ormai appesantito e
stanco.
È l'immagine in movimento rispetto a quella “fissa” ad accentuare taluni fattori
come l'andatura o le contrazioni nervose, ma Nixon è un personaggio che
meriterebbe ancora più attenzione per il suo passare in diverse occasioni nella morsa
della comunicazione e nell'uso propagandistico che se ne è fatto. Noto è anche il
ricordo delle interviste a personaggi e collaboratori che ripercorrono i suoi
atteggiamenti arroganti, la sua presunzione, la scarsa propensione al politically
correct, l'abitudine a qualche bicchiere di troppo, le scelte politiche spesso segnate
dall'indecisione e da un linguaggio sottilmente razzistico: come nel caso delle infelici
115
battute sugli ebrei (a proposito delle quali Henry A. Kissinger in parte omette, ma
potrebbe dire molto205).
Ma al di là i questi tratti, quello che si evince dagli esempi finora portati, è il
rischioso crinale esistente tra sacralizzazione del corpo e il suo carattere grottesco
che i mezzi di comunicazione, soprattutto quelli avversi, hanno interesse a svelare.
3.2 I corpi in divenire del grottesco
Al di là delle oscillazioni tra comico e raccapricciante il grottesco mantiene in
realtà una forza dirompente e vitale che trae linfa proprio dall’ambiguità che
contraddistingue ciò che ha pochi tratti univoci e distintivi, ed è questo che ne fa una
forza rigeneratrice. La sua irruente energia è data proprio dal fatto che consente di
far notare come chi ricopre importanti cariche nella società sia istintivamente poco
incline ad agevolare lo sviluppo di figure che potrebbero rimpiazzarlo.
Tale esigenza di salvaguardia e di conservazione dello status quo è per sua
natura in opposizione alle forze della vita e della rigenerazione. Che poi la
rigenerazione abbia in sé anche una forte componente distruttiva e mortale verso ciò
che si è cristallizzato è un altro discorso. Tutto questo sembra impossibile da
sistematizzare in maniera univoca, ma piuttosto pare caratterizzarsi per una ricerca
d’equilibri tra estremi che però non giunge mai a un definitivo compimento. C’è una
dialettica tra forze contrapposte che da una parte spingono verso la negazione sul
piano dei bassi istinti, dall’altra premono per un rinnovamento che dia come risultato
la creazione di un ex novo.
Questo accostamento conflittuale tra potere e grottesco, due lati in realtà della
stessa medaglia, alimenta una miscela esplosiva che spinge i leader a tentare di
tenerli ben distinti. Ciò deriva dal fatto che la rappresentazione di molte delle forme
discorsive grottesche possono esser fatte derivare dalle espressioni carnascialesche
in cui le strutture del potere sono messe in discussione. Ciò può essere visto come
una affermazione del “basso” in ambiti e linguaggi artistici tenuti in considerazione
soltanto in quanto percepiti come il frutto della cultura riconosciuta. L’ufficialità di
certe circostanze è espressa attraverso forme che richiedono il rispetto e
205
Si pensi ai suoi due testi dedicati soprattutto ai suoi anni di collaborazione con la presidenza
Nixon: cfr. H.A. Kissinger, I miei anni alla Casa Bianca, Sugar, Milano 1980 e Id., Anni di crisi, Sugar,
Milano 1982.
116
l’adempimento di una serie di rituali, il cui numero e la cui flessibilità sono spesso
proporzionali all’importanza degli eventi.
È nell’ambito “ufficiale”, del resto, dell’arte figurativa rinascimentale che il
termine “grottesco”, derivato da «grotta», trae la sua origine. La «pittura grottesca»,
infatti, è il nome dato a certe decorazioni che si pensa siano state ispirate ai dipinti
affiorati alla fine del ‘400 dai resti sotterranei della Domus aurea di Nerone a
Roma206. E la definizione data a tale genere di pittura non si connota da subito di
significati positivi. Ma l’imagerie grottesca, come la definisce Bachtin, investe ormai
«una vasta area della prassi e delle forme discorsive umane che parte dalle feste
popolari […] per giungere alle arti figurative e alla letteratura, cioè alla
formalizzazione testuale di un fenomeno antropologico»207.
Le feste carnevalesche si nutrono di una forza dirompente proprio perché sono
comicamente il simbolo del ribaltamento, dell’avvicendamento, mentre l’immagine
che il potere vorrebbe sempre trasmettere è quella della conservazione, quella della
stabilità dei proponimenti, della solidità delle idee e dei valori che accompagna. Il
potere può palesare in sé il grottesco, ma convogliandolo in pratiche ben distinte e da
esso controllabili, facendolo cioè restare un atto ben delimitato di fantasia e di
creatività in un contesto che gli faccia assumere un ruolo moderatamente
dissacrante: più o meno quello che spettava al giullare di una corte tardo medioevale.
Al tempo stesso la commedia grottesca che non propone alternative allo status
quo è intrisa di un moralismo pessimista, come lo può essere il finale amaramente
ambiguo della scena in barca del film di Pietro Germi del ’62, Divorzio all’italiana.
Ma l’esigenza di stabilità del potere si oppone all’ambivalenza festosa della
fantasia, soprattutto a quella che assume connotazioni grottesche, proprio perché
esso è, come ricorda Roberto De Gaetano, «un corpo in divenire, alterato nelle sue
parti e nei suoi organi» e che, proprio per questo motivo «distrugge la posizione
sociale dell’individuo iscrivendolo nell’ordine del ciclo naturale. L’accentuazione delle
protuberanze e delle parti cave è l’accentuazione di tutto ciò che nel corpo presiede a
funzioni biologiche e riproduttive […]. Il corpo grottesco è tale perché evidenzia tutto
ciò che lo mette in relazione con il resto del mondo; ciò che gli sottrae la sua ideale
compiutezza e autosufficienza»208.
206
Si veda per approfondire C. Acidini Luchinat, La Grottesca, in Storia dell'arte italiana, parte III, vol.
IV., Forme e modelli, Einaudi, Torino 1982, pp. 161-200.
207
R. De Gaetano, Il corpo e la maschera, Bulzoni, Roma 1999, p. 7.
208
R. De Gaetano, cit., p. 11.
117
Riferendoci alla filosofia di Deleuze209, sappiamo infatti che gli organi
relativamente indipendenti dal resto del corpo possono essere accentuati e
deformati, così come possono subire un processo inverso ed essere “sottratti”. Si
tratta in ogni caso di quelle parti che “emergono” dal compatto involucro corporeo e
che più facilmente si prestano alla trasformazione grottesca: i nasi, le orecchie, i seni,
i deretani, i falli ecc. Il grottesco accentua questi elementi finendo così per
“umanizzare” troppo l’individuo. E non si tratta di una condizione statica, ma è un
divenire, è l’estremo a cui può giungere il realismo ed è dunque solo in apparenza un
frutto dell’immaginario.
Tutto questo è stato riscontrato in un film che apparentemente avrebbe poco a
che vedere con la commedia: Il Divo di Sorrentino. Con il bambinesco (fin dal nome)
personaggio di Cirino Pomicino, l’elemento grottesco è fatto deflagrare nella sacralità
di un salone della Camera dei deputati: una folle corsa, seguita dallo scivolamento
finale, che per un momento altera lo status di quel luogo di potere. Un film in cui le
parti cave e le protuberanze, pur non vedendosi, vengono spesso richiamate in
maniera indiretta: per questo motivo si usa tanto il registro simbolico, quanto quello
metaforico. Assistiamo dunque a una “gradualità” che tende al grottesco e, come
nella tradizione italiana, Il divo è anche commedia, ma non gioiosa quanto piuttosto
“nera” come quella degli anni ’60. Ciò conferma quanto il grottesco sia la
“manipolazione” di un modello culturale stabilizzato.
Il divo così come del resto un altro film recente come Il caimano (2006) di Nanni
Moretti – altro regista avvicinato alla commedia visionaria soprattutto agli inizi della
sua carriera – alternano elementi di tragicità con parti decisamente comiche e,
principalmente per Sorrentino, grottesche. Parlando di “corpo organico” si possono
trovare dei puntuali riferimenti nella tradizione cinematografica italiana e in particolare
nell’influenza che su di essa ha avuto la letteratura gotico-grottesca di Dante, quella
realista e comica del Boccaccio, il maccheronico di Teofilo Folengo o la letteratura
carnevalesca di Giulio Cesare Croce – tutti predecessori e ispiratori di Rabelais e di
Cervantes.
Le stesse maschere dei personaggi sorrentiniani ricordano proprio quelle
dell’antica commedia dell’arte, il cui carattere grottesco «è evidenziato anche in
chiave iconografica: il profilo irregolare e pieno di sporgenze, le posture accentuate, i
209
In particolare ci riferiamo al già citato testo Francis Bacon. Logica della sensazione e a quello
dedicato al corpo “senza organi”: G. Deleuze, F. Guattari, Come farsi un corpo senza organi?, in Mille
piani. Capitalismo e schizzofrenia, Castelvecchi, Roma 2006.
118
corpi piegati, le gobbe, le pance, i pizzi, i cappelli a punta»210. Il corpo grottesco, del
resto, è
un corpo esagerato, eccessivo, che perde le linee che definiscono le sue forme e i suoi organi,
evidenziando le protuberanze e le parti cave. Il corpo esagerato è la prima forma della disarticolazione
del mondo e della sua identità fondata sul riconoscimento, l’individuazione e il rapporto armonico delle
parti dell’unità corporea. Il corpo scomposto e disarticolato è l’immagine della disarmonia fra soggetto
e mondo. Il corpo statico, senza movimento […] è il corpo che fonda un’identità già-data, individuata
psicologicamente e socialmente
211
.
Il grottesco per Dürrenmatt212 è però anche un mondo senza volto perché il
volto si trasfigura in una maschera e diventa di conseguenza l’incarnazione
dell’ambivalenza del grottesco. E nella prospettiva del drammaturgo e saggista
svizzero, soltanto il grottesco può restituire l’essenza di una realtà dominata dalla
fatalità e dal caos, che invece la prepotenza del potere e le convinzioni della ragione
desidererebbero sottomettere. Un simile abbaglio non può che diventare la vittima
preferenziale della derisione che il grottesco mette in atto e l’arroganza del potere ha
molti modi per essere raffigurata. Si pensi alla fisiognomica alterata dal batuffolo che
Gian Maria Volontè infilava sotto il labbro inferiore del personaggio del dirigente di
polizia nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (E. Petri, 1970)213.
Un volto reso in questa maniera volitivo, sfrontato e, se vogliamo, dotato un po’ di più
di una mascella “mussoliniana”.
Sia in Todo modo che ne Il divo si assiste alla dimostrazione di come il potere e
l’eros siano passioni e in particolare delle pulsioni e dei desideri da dover gestire e
trattenere. Il personaggio di Andreotti descritto da Sorrentino pratica l’annullamento
delle pulsioni che nel film riemergono solo attraverso un processo, per mezzo cioè da
una scalfittura che ricorda la teoria della crepa da cui muove Maigret, il personaggio
di Simenon. Essa attende infatti proprio l’emergere di una crepa di umanità dalla
corazza. Usando un traslato è un po’ il medesimo lavoro compiuto dallo studioso che
cerchi d’indagare un testo in profondità.
210
R. De Gaetano, cit., p. 22.
Ibid., pp. 10-11.
212
Si veda F. Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo, Einaudi, Torino 1982.
213
In riferimento a questo film e al rapporto tra sessualità e potere nei film di vari registi tra cui
Bellocchio, Ferreri, Petri si veda di Maurizio Grande, Eros e politica, Protagon, Siena 1995.
211
119
Con il realismo dalle forme allucinatorie che Petri ci propone, assistiamo a dei
corpi di leader che esprimono, ossimoricamente, la loro onnipotente impotenza.
L’uso del tratto carico, che apre naturalmente al caricaturale, disfa il realismo
ponendolo all’interno di espressioni allucinatorie. In Petri questa rottura della realtà
verso la deformazione viene sottolineata da molti dei coevi critici cinematografici
“militanti” degli anni ’70, come quelli di «Filmcritica», «Ombre rosse» o «Cinema
nuovo» che s‘interrogano sul linguaggio più adatto e coerente per esprimere taluni
contenuti ideologico-politici. E tali alterazioni espressionistiche operate dai suoi film
comportano, a loro giudizio, una sorta di costrizione autoritaria che non favorisce
l’interpretazione autonoma dello spettatore. In altri termini, l’opera di Petri, al pari di
quella di autori come ad esempio Gillo Pontecorvo o Costa Gavras214, si configura
come uno stile che, imposto da un autore “autoritario”, opera sul piano spettacolare
dell’immagine (per mezzo di accellerazioni, di zoomate o di visioni allucinate e
grandangolari) e così facendo si sottrae al “democratico” apporto di chi assiste che,
viceversa, dovrebbe essere indotto a una presa di coscienza consapevole. Ciò si
pone all’interno del nostro discorso in prospettiva dei cambi di paradigma che
avvengono nella critica e nell’analisi nel corso della storia.
Una tale prospettiva agli occhi del presente risulta almeno in parte ingenua,
tanto da aprire alla problematica relativa a come considerare la rappresentazione
deformata del leader. Il politico (e non solo) ha infatti sempre temuto che la sua figura
possa essere rappresentata in maniera “dissacrante”.
Bisogna, però, tener presente che il sarcasmo, spesso grottesco, con cui
venivano raffigurati alla metà del secolo scorso gli aderenti ai partiti di sinistra,
giustifica, almeno in parte, chi ha considerato la satira un espediente reazionario e
per questo più vicino all‘orientamento conservatore215. La maniera del resto con cui
ancora oggi opera, soprattutto nel giornalismo televisivo, la dissacrazione nei
confronti del leader è sempre quella di rendere ridicolo l’avversario politico. La sua
azione è efficace proprio perché agisce ancor più in profondità e in modo subdolo dal
momento che non fa riferimento a motivazioni ben argomentate che sollecitino il
piano cognitivo dello spettatore, bensì è una messa in ridicolo che può assumere
214
Come ricorda Claudio Bisoni ne Le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani. Appunti sulla
ricezione del cinema politico italiano tra gli anni Sessanta e Settanta in «Close up», a. XII, n. 23, dic.
2007–mar. 2008, pp. 18-29.
215
Non erano certamente benevoli con la sinistra i settimanali satirici come «Il Travaso», «Candido»
o il «Marc’Aurelio» e solo con gli anni ’70 si cominceranno a intravedere delle pubblicazioni satiriche
integralmente di sinistra. Si veda a tal proposito A. Chiesa, La satira politica in Italia, Laterza, RomaBari 1990.
120
persino i caratteri del razzismo o, quanto meno, di una scelta di campo compiuta a
priori in cui l’avversario (politico, ma anche sportivo, finanziario, culturale etc.) è
descritto come un individuo meschino, inadeguato o troppo esiguo.
Questa carenza di argomentazioni rimanda a un’immagine caricatura che si
vena in tal modo di una componente populistica e demagogica. In questo senso la
canzonatura fa inevitabilmente riferimento al cliché del corpo “sacro” e cerca, in
modo discriminante, di colpire l’avversario o i gruppi antagonisti nel loro punto debole
o quello convenzionalmente ritenuto tale.
Per contro c’è chi vede nel farsi beffa del potente, con la sua conseguente
dissacrazione, l’espressione di valori di democrazia e dell’uguagliamento sociale e
dunque ne sottolinea gli aspetti positivi che trovano nel popolo un’adesione piuttosto
ampia. Si pensi alla famosa scena in cui il personaggio di Don Ersilio – che Eduardo
De Filippo interpreta nell’episodio Il professore nel film di De Sica L’oro di Napoli
(1954) – non trova modo migliore della pubblica derisione per castigare un nobile mal
visto dalla popolazione perché, con apparente arroganza, faceva spostare le
bancarelle al passaggio della sua auto. L’escamotage che Don Ersilio propone e
spiega ai suoi concittadini del rione è quello di “guarire” l’arroganza del titolato per
mezzo della cura del «pernacchio», la quale doveva essere “somministrata” al
nobiluomo a ogni passaggio e in due dosi: all’uscita di casa e al suo rientro. Il
dispregiativo sfottò aggirava, nel pieno del più stereotipato spirito napoletano, lo stato
di diritto e otteneva immediatamente il risultato che i cittadini, tramite le carte bollate
e a causa dell’inveterata sfiducia nella giustizia e dei suoi tempi lunghi, non
avrebbero mai ottenuto contro un simile rivale. L’espressione pienamente grottesca
del pernacchio è l’espressione popolare e, al tempo stesso, esaltazione della
“napoletanità”, ma è anche una giustizia che – seppur “sommaria” – si ottiene tramite
il ribaltamento dei codici sociali imposti.
Il recente passato ha offerto numerose prove di quanto il leader possa subire
dei processi mediatici che finiscono per abbassare la sua forza carismatica. Si è fatto
cenno ad esempio, parlando dell’affaire Clinton-Lewinski (§ 1.5), di come la perdita
del potere passi anche attraverso la riduzione del corpo del leader a espressione
grottesca in cui addirittura si verifica una sineddoche tra i corpi e le loro “deiezioni”
per cui «Clinton diviene la macchia di sperma: la macchia conservatasi sul vestito di
Monica che diviene il vestito dell’America»216.
216
F. Boni, cit., p.80.
121
La rappresentazione del leader attraverso una caratterizzazione grottesca è un
modo – citando Ejzenštejn – per unire un una sola figura «due metodi espressivi
unitari e contraddittori (il comico e il patetico)»217. E, tornando dalla cronaca alla
fiction, è ciò che accade al personaggio di Andreotti nella scena in cui cammina
continuamente avanti e indietro, a passo svelto, in ciabatte, al buio del corridoio di
casa nel momento in cui il film vuole rappresentare il periodo maggiormente
problematico della sua vita: le fasi del processo a cui è sottoposto a Palermo. Oppure
si pensi alla scena dell’inverosimile partecipazione del politico, in giacca e cravatta,
alla battuta di caccia in cui imbraccia un fucile che, a un certo punto, si apre con
l’attore che si volta a guardare verso la mdp. Si tratta di altrettanti esempi del ricorso
congiunto al comico e al patetico che meglio descrivono una della due sfumature di
grottesco di cui parla il regista e teorico sovietico218 a proposito dell’«unione formale
dei due elementi (comico e patetico) senza il processo della conversione dell’uno
nell’altro [che] rappresenta il grottesco soprattutto nel suo aspetto comico»219.
3.2.1 Il cinema civile tra realismo e caricatura
L’accusa che le riviste di cinema, soprattutto quelle maggiormente politicizzate,
rivolgevano a talune opere che negli anni ’60 e ’70 avevano per oggetto
problematiche di carattere ideologico-politico e affermavano, ad esempio, che la lotta
al “sistema” trasposta al cinema non poteva adottare un linguaggio ripreso da quello
della commedia – quello proprio della satira italiana – così come non doveva essere
uno “spettacolo” e non poteva cioè essere compromesso con le meccaniche
dell’intrattenimento di derivazione capitalistica. In Italia il realismo aveva lasciato
spazio, fin dagli anni ’60220, a opere con accenti grotteschi e spesso ciò era avvenuto
proprio sul versante più “politico” della nostra cinematografia: generi che, come la
commedia, avevano perso i loro caratteri più patetici e fatti propri quelli “deformanti” e
217
S.M. Ejzenštejn, Stili di regia, Marsilio, Venezia 1993, p. 13.
L’altra riguarda il caso in cui «l’unione di comico e patetico non come meccanica compresenza,
ma come conversione dell’uno nell’altro, ne determina l’aspetto fondamentale: il grottesco che, pur
rimanendo comico, lascia trasparire il suo carattere più proprio: il raccapriccio» (S.M. Ejzenštejn, cit.,
p.13).
219
Ibid.
220
Ma che è possibile riscontrare anche in opere precedenti di autori considerati neorealisti si pensi al
grottesco, ma utopico e favolistico, del Vittorio De Sica di Miracolo a Milano (1951). Un film che del
resto suggerisce, fin dal principio, un’idea che è assimilabile al “mondo alla rovescia” proprio dei
Proverbi fiamminghi di Bruegel il Vecchio (1559): un riferimento dunque di derivazione pittorica.
218
122
spesso “cinici” della satira. Questi aspetti si riscontrano infatti in autori e registi con
stili molto diversi come D. Risi, P. Germi (almeno in parte), F. Fellini, M. Ferreri, C.
Zavattini, P.P. Pasolini, passando – oltre che per Petri – anche per E. Scola e N.
Moretti e giungendo ad autori recenti come Ciprì e Maresco e al già citato Sorrentino.
Ciò non ha evitato che si continuasse per molto tempo a guardare con sospetto alle
opere che non aderiscono totalmente ai codici del realismo, in particolare a quelle più
lontane dal cinema diretto o da quello con forte accenti documentaristici. E del resto
in opere come quella di Ferreri si assiste proprio alla degradazione del realismo di
cui pure il film è intriso.
È dunque un ampio territorio, quello grottesco, che ricade tra le forme estetiche
rifiutate da questa critica, soprattutto per i suoi aspetti peculiari oscillanti tra un effetto
caricaturale e uno raccapricciante, tra la comicità e la tragicità, tra l’ironico e il
mostruoso. Componenti di un cinema che non possono rientrare nei gusti di chi
separa nettamente la ricerca del realismo da quella che al massimo, può aspirare a
un più generico appellativo di “civile”. Quest’ultime opere, tra cui quelle di Petri,
erano accusate, pertanto, di mancare del necessario materialismo che invece era
possibile trovare nei film di J.-L. Godard e J.-M. Straub. Per tutti questi motivi il
cinema del regista romano era poco amato dai “francesisti”, compresi quelli della
critica nostrana.
Roy Menarini paragona l’opera di Sorrentino a quella di Petri, proprio perché
trova tanto ne Il divo, quanto in Todo modo «una visione kafkiana e brechtiana della
DC»221. Ma a ben vedere queste componenti sono proprio quelle che, negli anni ’70,
motivarono le maggiori critiche ai film del regista romano. Si pensi al giudizio dato a
un film come La classe operaia va in paradiso (1971), secondo cui gli «strumenti
interpretativi vengono giudicati molto confusi: un mix di Kafka, Freud e filosofia
esistenzialista, che porta a una analisi di tipo qualunquista». Critiche che affermano
come «nel cinema di Petri, per esempio, i riferimenti a Brecht non possono che
apparire superficiali, in quanto il regista non si porrebbe il problema dei pericoli della
mistificazione sul piano specificamente linguistico»222.
Punto centrale di tali critiche è dunque l’uso di certe risorse spettacolari
considerate inadatte – oltre perché capitalistiche, autoritarie ed eticamente
221
R. Menarini, Il cinema politico in Italia dalla fine della prima repubblica al voto post-ideologico, in
«Close up», a. XII, n. 23, dic. 2007-mar. 2008, p. 15.
222
C. Bisoni, Le masse, la lotta di classe, i gesti gramsciani, in «Close up», a. XII, n. 23, dic. 2007mar. 2008, p. 22.
123
inopportune – a parlare di questioni che invece atterrebbero a un cinema pienamente
materialista. La deformazione del reale - e il grottesco si pone su questa linea di
lettura del mondo - ottunde, secondo le posizioni qui delineate, le capacità
interpretative dello spettatore: si tratta di opere solo in apparenza brechtiane e
dunque sostanzialmente mistificatorie. E di Todo modo del resto non è una
bestemmia affermare che la recitazione di Volontè pare suggerire, checché ne dica lo
stesso Petri, una scelta di deformazione espressionista della realtà dei gesti e dei
comportamenti tenuti dallo stesso personaggio del Presidente alias Moro. Il rischio è
quello di entrare nel campo sdrucciolevole delle imitazioni o, ancor peggio, della
caricatura di un leader politico.
Oggi difficilmente Sorrentino potrebbe meritare di ottenere un tale genere di
critica anzi, nella gran parte dei casi ha visto riconosciuto il coraggio di aver
affrontato un soggetto e dei temi certamente coraggiosi. Il film ha inoltre il merito di
ribaltare un assunto che si trova piuttosto di frequente nel cinema italiano: parlare
della società per realizzare una metafora del malcostume politico. Questo non
esclude però che in esso si possano riconoscere taluni elementi che, ricordando
quanto appena detto sul cinema “civile”, possono ritornare utili all’interpretazione del
film.
Nell’opera di Sorrentino l’inversione avviene in quanto, trattando come ne Il divo
del potere politico, si scopre in trasparenza un discorso sull’uomo e sul suo modo di
vivere le passioni, di qualsiasi natura esse siano e qualsiasi siano le conseguenza a
cui portano. Ma ciò avviene da una prospettiva, quella di parlare dei fatti e fare nomi
e cognomi dei personaggi implicati, che difficilmente può essere tacciata di
qualunquismo o di vaghezze “esistenzialiste”.
Quello di Francesco Rosi invece più che cinema “civile” è fondamentalmente
“militante”. Le sue posizioni politiche sono ben note e il punto di vista tracciato dai
suoi film ha molte parti in comune con il comune sentire di chi militava nella sinistra e
in particolare nel partito comunista. Un’ulteriore conferma di questo potrebbe venire
dalle considerazioni che un altro regista, Paolo Benvenuti, ha fatto in relazione alle
posizioni politiche assunte da Rosi in un film come Salvatore Giuliano (1961) che
paradossalmente si discostava tutto sommato poco dalla linea ufficiale governativa e
democristiana che vedeva in Giuliano l’unico o maggior colpevole (una sorta di capro
espiatorio) dei fatti eversivi avvenuti in Sicilia nel secondo dopoguerra, considerando
quegli avvenimenti degli episodi ascrivibili a semplice “banditismo”. Una posizione
124
diametralmente opposta rispetto alla lettura ben più inquietante e carica d’indiziaria
che ne fa invece Benvenuti con Segreti di stato del 2003.
Se nel cinema di Rosi gli elementi di visionarietà contenuti in opere come Le
mani sulla città, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto o Cadaveri
eccellenti sono preziosità linguistiche incastonate su d’una base di posizioni politiche
ben chiarite nel corpo dall’enunciato filmico, in un’opera come Il divo il “pretesto”
sembra, viceversa, essere il tema politico che fa da sfondo alla vicenda. Ma trattare
di un politico come Andreotti non si traduce per Sorrentino in un discorso militante e
tantomeno è tout court ascrivibile a un enunciato palesemente politico. Egli piuttosto
preferisce parlare dell’uomo, ma anche in questo modo riteniamo che riesca
ugualmente a formulare un giudizio etico se non addirittura ideologico. Il grottesco di
Sorrentino (e direi anche quello di Petri, pur con tutte le polemiche che questi
suscitò) fa parte del filone di rilettura del potere attraverso il leader e per mezzo delle
sue debolezze. Insomma uno dei problemi fondamentali di Todo modo, di cui invece
Il divo non può più risentire, è quello di entrare nelle vicende personali, evocandone
addirittura la sfera più intima della sessualità, in una fase storica che rappresenta la
conclusione di un’epoca in cui, come afferma Belpoliti, a causa della precedente
«sacralizzazione del Duce» si afferma «il basso profilo, antisacrale, dei politici italiani
dal 1945 in poi. De Gasperi, Nenni, Togliatti, Andreotti, Fanfani e Moro sembravano
non avere un corpo, non esistere come corpi, forme visibili del potere politico»223.
Ci sembra che quanto detto sull’ideologia applicata al cinema s’innesti in quella
tradizione che vede l’artista, dall’arte greca antica in poi, come testimone oculare del
mondo e degli avvenimenti storici a lui contemporanei. Ci sono ad esempio autori
che ritengono che, attraverso l’occhio del cinema, si possa svelare l’inganno insito in
un personaggio politico. Si è visto come Petri, parlando del Presidente di Todo modo,
definiva Aldo Moro, a cui si era ispirato, come una figura gattopardesca. Egli puntava
a un film dell’“impegno”, da non confondere con il cinema ideologico e che anzi,
proprio per questo, era condannato da molti critici militanti. Come Il divo di Paolo
Sorrentino è però un’opera che si regge sulla “visionarietà” della struttura e della
costruzione narrativa e sull’uso che entrambi i film fanno dei corpi dei personaggi
principali.
Uno degli elementi di similitudine tra le due pellicole risiede anche nel fatto che
le figure principali “svelano” la loro vera natura attraverso l’interazione, talvolta
223
M. Belpoliti, cit., p. 92 [corsivo aggiunto].
125
grottesca, con altri personaggi che ne lasciano affiorare la personalità più intima:
scherzosamente potremmo dire si torna al luogo comune secondo cui “comprendo
davvero chi ho davanti se osservo con chi si accompagna”, ma soprattutto pare si
possa interpretarne l’intima personalità già dallo stridio che emerge dal contrasto tra i
corpi e nei corpi.
3.2.2 La scomposizione caricaturale
Compreso perché la caricatura e il grottesco non rientrano a pieno nell’idea che
si aveva in Italia del cinema politico, vediamo quali caratteristiche ha e per quale
strada diventi ugualmente immagine fustigatrice dei costumi dei potenti. La caricatura
nel mondo classico è soltanto letteraria e, fino agli inizi dell’arte moderna, non se ne
concepisce una di tipo figurativo. Nel pensiero greco s’intravede nella caricatura la
componente comica e quella del carattere. Il comico individua ed esagera alcuni
caratteri particolari che poi “estrae” da un individuo. L’emersione di questi fattori,
soprattutto con l’immagine, rompe dunque l’equilibrio tra tutte le parti costituenti una
figura e ciò crea una disarmonia che poi è uno dei caratteri con cui si connota il
carattere del brutto. La caricatura, in questo senso, ha anche una relazione con la
fisiognomica proprio per la scelta che compie di evidenziare le brutture del soggetto
rappresentato attraverso le esagerazioni dei dettagli anatomici.
Trattando di leader e di potere a noi interessa anche la natura moralistica della
caricatura, in quanto nata con l’intento di sottolineare i difetti e i vizi di chi la subisce.
Il fatto poi che punti a suscitare il riso dello spettatore, suggerisce anche un rapporto
di superiorità nei riguardi della sua vittima: la supremazia della virtù che canzona chi
è in difetto. Questa messa in ridicolo del vizio ha radici antiche e ha una sua
derivazione diretta nel ridendo castigat mores dei latini, infatti l’assenza del fattore
comico sottrae al testo uno degli elementi irrinunciabili della satira morale: si pensi ai
volti deformati che ritroviamo nelle cattedrali gotiche, alle maschere tipologiche ma
generiche della commedia all’italiana o a qualsiasi deformità fisica che punta a
suscitare disgusto per ciò che è mostruoso (come Brueghel) o a evocare figure e
luoghi infernali, come nel caso di Bosch.
Una definizione di caricatura può essere legata inoltre ad almeno un paio di
concetti, uno di ordine strutturale: «una forma grafica della metonimia, la parte per il
126
tutto, ma una parte che non intacca la integrità fisionomica del tutto» e un altro di
ordine psicologico in cui essa, rimarcando i difetti e le deformità della persona «ne
rivela per così dire il movente»224. Anche in questo senso la scelta di un dettaglio e il
suo metterlo in evidenzia diviene un rilievo nel corpo testuale, una maniera per
rimarcare un carattere di un personaggio e farlo metonimicamente attraverso un
dettaglio “selezionato”.
Nella caricatura infatti si fa opera di selezione, un po’ come accade per
qualsiasi opera d’arte, si pensi agli alberi sempre più scarni dipinti tra il 1909 e il
1912 da Piet Mondrian225. In queste opere infatti l’iconicità dell’immagine si riduce a
poche linee che - in questa prima fase espressionista e figurativa dell’artista
olandese - lasciano ancora riconoscibili gli oggetti. Allo stesso modo, man mano che
si priva l’opera caricaturale di dettagli, gli elementi scelti sono preferiti (ed enfatizzati)
in ragione del mantenimento della riconoscibilità visiva che si vuole dare al soggetto
rappresentato. E non a caso parliamo di pittura dal momento che essa nel nostro
discorso
cinematografico
sulla
caricatura,
è
un
riferimento imprescindibile.
L’individuazione del soggetto è dunque fondamentale nel momento in cui si ha a che
fare con la critica sociale a personaggi noti attraverso un mezzo che li pone in
ridicolo e con opere che mantengono un’alta densità figurativa. E accade ciò che
abbiamo chiamato una sorta di sottolineatura e la definiamo tale in quanto, come
possiamo vedere in Mondrian, così come nella già citata opera di Bacon, le poche
linee che noi riconosciamo risultano immediatamente ben evidenziate. Quindi poche
linee (una selezione di queste) e ben rimarcate (dunque sottolineate).
Nella caricatura avviene proprio questo, gli elementi “irregolari” di un volto, di un
corpo o - per uscire in parte dal figurativo - di un atteggiamento, sono per diversi
motivi enfatizzati dall’artista, il primo motivo è prenderne gli elementi di riconoscibilità
immediata di una persona, il secondo e terzo e per fare ironia o sarcasmo sulla
conformazione corporea, sui comportamenti e sulle posture. Chi ha un volto regolare
deve naturalmente essere comunque riconoscibile per non rendere forzata la
caricatura. Allora in questi casi ci sarà un prendere più elementi “normali” ed
accentuarne solo quelli che hanno parvenza di irregolarità. La bruttezza di un volto
ritratto da un pittore del Rinascimento poteva essere addolcita - con grande
224
V. Rubiu, La caricatura, Sansoni, Firenze 1973, p. 8.
Si pensi, ad esempio, alle sue opere in successione: L’albero rosso (1909-10), L’albero argentato
(1911) e Melo in fiore (1912). Dipinti resi sempre più “essenziali” fino alla graduale rarefazione
figurativa che nel tempo, per il pittore olandese, diverrà astrazione (Cfr. P. De Vecchi-E. Cerchiari,
Arte nel tempo, vol. 3, tomo II, Bompiani, Milano 1995, p. 494).
225
127
soddisfazione del committente -, ma non poteva essere stravolta nelle caratteristiche
peculiari di un volto, pena l’irriconoscibilità della persona raffigurata. La caricatura è,
rispetto alla ricerca armonica tentata dal ritratto, un debordare dal corpo armonioso in
direzione del volto come eccesso espressivo e rappresentazione di uno stato
psichico e mentale alterato.
Attraverso Algirdas J. Greimas sappiamo che ogni opera coglie dalla realtà
soltanto dei tratti minimi rispetto alla ricchezza di elementi di cui si costituisce. Nella
pittura “classica” è stata spesso la cura dei particolari ad essere sottolineata226. La
precisione del tratto e la capacità di rendere convenzionalmente realistici dei
paesaggi era spesso fondamentale, e per alcune opere lo è ancora. Nell’arte
contemporanea, nelle opere che fanno riferimento ancora ad immagini figurative, la
selezione degli elementi da ricreare avviene secondo altri criteri, ossia si riprendono
degli elementi della figura che si vuol mostrare e far riconoscere in modo più o meno
immediato, ma lo scopo non è quello di una perfetta mimesi, quanto piuttosto la
reinterpretazione attraverso canoni sempre più lontani dal classicismo. Possiamo
operare una distinzione per le opere cosiddette iperrealiste, in cui la riproduzione
(pur non essendo comunque integrale) deve rispecchiare quanto più possibile i
particolari di una certa persona fin dalla proporzione degli elementi fisici originali.
Nell’Espressionismo ciò che, come dice il nome stesso della corrente, doveva
essere manifestato era spesso lo stato d’animo dell’artista che dipingeva l’opera e
attraverso l’alterazione dei colori e delle forme, si riportavano sulla tela delle
sensazioni. Se ne L’Urlo di Munch, ad esempio, si esprime soprattutto lo
stravolgimento di un’espressione fisica, nell’opera di Bacon sono le forze ad essere
evidenziate nella pittura e, come affermava – semplificando – il medesimo artista
anglo-irlandese, a lui non interessava il terrore da cui nasce l’urlo, ma la forza
dell’urlo stesso.
Tornando a quanto detto nell’analisi de Il divo (§ 2.1), se per Bacon l’Innocenzo
X del Velàzquez esprime nella compostezza della sua figura il profondo disagio dato
dalla tragicità dell’uomo, lo stesso soggetto nella sua opera è espresso
tematicamente e figurativamente attraverso l’urlo che il pittore spagnolo sembra
invece reprimere nel dipinto di tre secoli prima.
Bacon non s’insinua nell’uomo ma esprime le forze e le angosce umane che da
esso traboccano. La sua scelta è quella di estrarre soltanto una parte degli elementi
226
Un esempio dei più noti è la pittura perfettamente definita, e rispettosa maniacalmente delle
proporzioni, del Canaletto, ma molti altri potrebbero essere citati.
128
che sono funzionali al suo discorso.
Ma restiamo ancora per un attimo alla scena del monologo de Il divo. Al di là
delle considerazioni che questa immagine ci consente di fare nel riportarci all’idea
pittorica di Bacon, abbiamo scoperto che questa sequenza del film di Sorrentino fa
riferimento, seppure in parte, ad altre immagini. Si tratta di alcune fotografie che
ritraggono Andreotti per un servizio pubblicato sul numero di «Panorama» del 13
marzo 1997. Tra quegli scatti c’è la foto del politico in copertina con alla base una
grande scritta in rosso e giallo: “Belzebù e i suo processi”. Ma ciò che maggiormente
ci interessa notare è il fatto che la sua figura, per richiamare visivamente il titolo, è
illuminata con effetto fortemente contrastato e chiaroscurale, per mezzo di una fonte
luminosa proveniente dal basso: appunto una luce diabolica. E questa serie di
fotografie firmate da Francesco Zizola è ancora più interessante se compariamo la
scena del monologo de Il divo con una delle immagini interne (fig. 20). In tal caso le
similitudini sono assolutamente incontrovertibili, dal momento che notiamo la comune
disposizione centrata e simmetrica dei corpi, la stessa posizione delle mani, così
come un’identica tipologia di sedia su cui i personaggi politici siedono.
Per la fonte luminosa c’è invece una differenza, e di non poco conto. Se pure
entrambe le immagini “drammatizzano” la scena allo stesso modo, l’illuminazione
data alla scena del film è ugualmente radente, ma proiettata dall’alto. Basta questo
per ribaltare l’assunto della prima immagine - la luce diabolica dal basso - e farla
divenire una luce di rivelazione, quasi una luce divina: l’unica a cui Andreotti
“risponde” e la sola che può “rivelarci” delle verità. Si tratta di una voce di
confessione in cui il personaggio palesa la filosofia che guida il proprio
comportamento. Una luce di “rilievo”, che fa trapelare ciò che al personaggio, nelle
condizioni normali di vita, non potrebbe mai sfuggire. È un pensiero, un “a parte” che
diventa un segreto da confessionale, non rivela tanto degli episodi nascosti della sua
vita politica, bensì fa riferimento a qualcosa di più intimo e personale: ciò che ad
Andreotti non potrebbe mai sfuggire dal suo autocontrollo.
Si chiude in un certo senso il cerchio che dalla pittura porta alla fotografia almeno figurativamente - e giunge al cinema.
129
3.2.3 L’animalizzazione del potere
Il corpo sacralizzato del “capo“ e del despota in particolare - per la tentazione,
spesso assecondata, di mostrarsi sempre più come corpo-icona - suscita in chi ne
abbatte il potere, il desiderio e l’obbligo di ucciderlo in più modi, fisicamente,
metaforicamente e nel ricordo da tramandare ai posteri. Ciò, come detto, accade
quasi sempre per mezzo della distruzione fisica e talvolta per la sua definitiva
caricaturizzazione, quella che ne fa un corpo-paranoico (come nel caso di Hitler227) o
un corpo-bestiale (come quello di Mussolini).
L’impiccagione per i piedi del Duce a piazzale Loreto è stata infatti interpretata
simbolicamente anche come la sua “animalizzazione”, come un maiale appeso e
posto, dopo la sua uccisione, a suggellare, sotto lo sguardo di una massa-testimone,
la sua definitiva caduta e lo svelamento della sua vera natura. Del resto è dal
Medioevo che l’impiccagione per i piedi rappresenta il colmo del trattamento
infamante e, oltre che all’immagine del macello, alla degradazione animalesca, è
l’atto dimostrativo della morte del tiranno davanti ai comuni “sudditi” che divengono
così testimoni e complici. Le immagini di quell’avvenimento mostrano così che un
gagliardetto fascista, fatto impugnare al Duce ormai morto, diviene uno scettro da
monarca carnevalesco. E gli spari e gli atti verso quel corpo sembra che abbiano la
funzione di testimoniare il disprezzo popolare e vedere quei corpi descritti come “belli
grassi”, ma che grassi non erano, diviene un espediente per dimostrare, in corpore
vili, «l’esistenza di un complotto affamatore orchestrato dal duce sulla pelle degli
italiani»228.
Sembra quasi che il fine di tali sia quello di far vedere alla massa affamata degli
italiani, Mussolini e gli altri come pezzi da macelleria, per usare la formula di Oreste
Del Buono229. Del resto tali forme di comparazione tra leader e bestia torneranno
spesso nella letteratura del dopoguerra e fanno parlare
230
Mussolini come di una sconcia bestia
Carlo Emilio Gadda di
o descriverlo, nell’autobiografia di Luigi
231
Meneghello, come Duce macellato
.
La rappresentazione o il gioco di metafore, però, tra il potere e gli animali non si
limita naturalmente a Mussolini, ma parte da lontano e ha riguardato le favole
227
228
229
230
231
Rimando all’analisi della rappresentazione del corpo di Hitler ne La caduta di Berlino (§ 3.3.2).
S. Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 66.
O. Del Buono, La debolezza di scrivere, Marsilio, Venezia 1987, p. 54.
C.E. Gadda, Lettere agli amici milanesi, Il Saggiatore, Milano 1983, p. 50.
L. Meneghello, Bau-sète, Rizzoli, Milano 1988, p. 38.
130
dell’antichità (il lupo e l’agnello della tradizione classica in Fedro, ripresi poi da La
Fontaine), così come le indicazioni di Machiavelli con il principe che deve essere al
tempo stesso leone e volpe o si G. B. della Porta che ne parla nel suo De humana
physiognomia, in relazione agli stati passionali ed emotivi degli uomini. In arte i
manieristi come Callot, Hogarth o dei Carracci, soprattutto di Annibale232, ricorrono ai
medesimi paragoni uomo-bestia che hanno spesso nelle caricature di Leonardo da
Vinci un’influenza forte e duratura. L’artista toscano, infatti, «giunse a una specie di
montaggio meccanico delle passioni, sino al punto che in una pagina di schizzi e di
disegni il “furore” è presentato come una proprietà anatomico-fisionomica comune
all’uomo e alla bestia, e le fauci aperte di un cane e di un leone». Un motivo
d’interesse è inoltre quello di trovarsi di fronte, come ricorda Vittorio Rubiu, a
«un’operazione condotta a freddo, senza nessuna pretesa d’introspezione
psicologica, ed anzi con lo scrupolo di tenersene lontano»233.
Questo sguardo al comportamento, supportato dall’ironia sulla corporeità dei
personaggi messi in ridicolo, lo ritroviamo anche nella politica recente, come nei
soprannomi affibbiati ai politici quali il “cinghialone” che appellava Bettino Craxi, il
“coniglio mannaro” di Arnaldo Forlani, “lo squalo” di Vittorio Sbardella, “la volpe“
andreottiana o il “caimano“ con cui Moretti evoca, nel suo omonimo film, il
personaggio di Berlusconi. La disumanizzazione del nemico ha vari modi per agire,
può farlo attraverso immagini ambigue “rubate” fotografando le espressioni strane,
oppure facendo ricorso alla caricatura e alla satira.
Sappiamo però che questa disumanizzazione, come nella fattispecie del gesto
compiuto verso il despota italiano del ventennio, può essere letta anche solo nella
sua veste tragica che pure immediatamente l’immagine ispira, oppure può essere
definita come la presa di coscienza attraverso cui l’uomo riconosce i propri limiti e
dissolve la propria vanitas. Vediamo in che modo.
Esempi di come la politica, attività prettamente umana, è ripensata anche
attraverso figure translitterate prese in prestito dal regno animale in cui umano e
animale si mescolano entrando nel campo dell’istintivo. La prevedibilità della politica
e del potere è così negata e riaffermata attraverso gli stereotipi con cui gli animali
sono conosciuti. Tutto ciò non è paradossale se si pensa che la Ragione non può
non tener conto di “leggi” altrettanto se non più vincolanti: quelle imposte dalla
natura. Da una parte c’è dunque il tentativo dell’uomo di essere altro rispetto alla
232
233
Più fonti ne fanno l’inventore del ritratto “carico” o “caricato”.
V. Rubiu, La caricatura, Sansoni, Firenze 1973, p. 5.
131
bestia, dall’altro di riconoscere quantomeno, anche prima delle teorie darwiniane, la
condivisione di un luogo e di un destino.
Jacques Derrida ha visto in questo l’impossibilità del Soggetto di vedersi come
un’entità autonoma e razionale tout court, un Soggetto che evidentemente sfuma
verso la bestia, ma anche la bêtise, termine che in francese indica “stupidità” e
“imbecillità”234.
A quel punto anche il potente torna, quanto meno, alla sua dimensione umana,
terrena, mortale se non addirittura istintiva e dunque “limitata”. Questo porta però a
pensare anche all’idea di Thomas Hobbes dello Stato visto come un Leviatano, ma
soprattutto alle sue successive riflessioni sull’uomo come parte ambigua e indefinibile
della politica in quanto costruttivamente non troppo dissimile dall’animale. Il filosofo
inglese non facendo mai riferimento all’anima, riconduce i pensieri e le passioni
umane a stimoli esterni al corpo, ma queste finiscono per dare origine a dei moti
interni difficilmente controllabili. L’unico fattore, ma suscettibile di sbaglio, che può
frenare un tale impulso naturale è l’esperienza pregressa.
È un tragitto oscuro attraverso cui la Vita trascina l’uomo verso il suo lato
animale, ma Derrida non vede questo come il frutto di un drammatico collasso della
ragione verso l’istintuale, verso il “basso“, ma piuttosto vi riconosce l’espressione di
una condizione propria dell’uomo e di una Vita polisemica e proprio per questo
ambigua. La linea dunque tracciata porta dall’“alto” di Dio al “basso” della bestia,
passando per l’uomo e, naturalmente, per il sovrano - figura più del passato che del
presente, ma metafora ancora valida - il quale si pone quasi come il vero perno della
questione da dover dirimere. Si ritorna, insomma, alla supposizione iniziale, in cui al
discorso tragico se ne preferisce uno sulla relatività della natura umana e sulla sua
misteriosa oscurità. Un’indeterminatezza che rende l‘uomo, come capiremo con le
teorie evoluzioniste, naturalmente senza più scandalo e dissacrazione, comparabile
alla bestia. Più difficile accettare che tale ambiguità sia connaturata a chi il potere lo
gestisce, a chi dovrebbe essere un prescelto, e che in quanto “conduttore” degli altri
si immagina sia il migliore, appunto “il” leader.
234
Cfr. J. Derrida, La bestia e il sovrano. Volume I (2001-2002), Jaca Book, Milano 2009.
132
3.3 Documentare il Re nudo
Le immagini vivono dell’ambiguità del loro perdurare nel tempo e se quelle
riprese durante riti ed eventi pubblici contengono già tale carattere, quelle private dei
“fuori-scena” si prestano ancor di più a tale doppiezza interpretativa. Come ci ricorda
Bazin, infatti, «il reportage dell’incontro di Yalta o delle comparizioni di Stalin sulla
Piazza Rossa […] possono evidentemente essere utilizzati per la gloria di un uomo
politico vivente, ma in ragione stessa della loro realtà essi restano fondamentalmente
ambigui. È l‘uso che se ne fa a conferire loro un senso apologetico. Essi hanno
valore solo all‘interno di una retorica e in rapporto ad essa»235.
Tutto è modificato dal tempo e persino i mutamenti nella tecnologia applicata ai
linguaggi visivi non fanno altro che accentuare queste differenze. Si pensi alla voce
stentorea – secca e aspra – dei vecchi commentatori dei filmati che siamo abituati a
riascoltare ancora oggi nei documentari. Essa è dovuta in gran parte agli strumenti di
registrazione dell’epoca, anche se non mancava una nuova estetica “vocale” che
aveva il suo cantore nella figura e nelle doti della voce di Guido Notari236.
C’è un regime di visibilità ormai globale e il livello di penetrazione da parte dei
mezzi di comunicazione nelle vite private dei leader è massimo, soprattutto se essi
non fanno uso di particolari filtri di discrezione. È considerazione comune che la
televisione abbia modificato le strutture e i processi dei rituali di rappresentazione del
potere, una dimostrazione viene, ad esempio, proprio dalle considerazioni fatte nel
precedente capitolo in cui si analizzava la nascita di una comunicazione “dal
balcone” da parte dei dittatori del ‘900, ma anche da parte di papa Pio XII. L’effetto
tragicomico che suscita oggi nello spettatore la visione delle buffe espressioni di
Mussolini mentre parla dal balcone alla folla sottostante, nasce proprio dal mutato
sistema comunicativo a cui facciamo riferimento a seguito dei cambiamenti
intervenuti nei mass media.
Questo esempio porta alla memoria l’immagine assolutamente impietosa che
dava lo zoom delle telecamere quando inquadravano in primissimo piano papa
Giovanni Paolo II: si tratta di una delle massime espressioni del modo in cui la
sofferenza è spettacolarizzata fino a rendersi ibrida soprattutto quando la ritualità con
235
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, cit., p. 42.
La sua voce, priva di qualsiasi inflessione dialettale, è divenuta il simbolo sonoro della storia
audiovisiva del fascismo, a cominciare all'esperienza radiofonica dell'EIAR, fino ai commenti dei
cinegiornali. È, in particolare, la voce ufficiale del cinegiornale Luce, di svariati documentari e, dal
1946 sino agli anni '50, dei servizi della nota Settimana Incom.
236
133
la sua rigida messinscena - i riti che richiedevano la partecipazione del papa - viene
senza scandalo a integrarsi con una rappresentazione di retroscena - quella che
rimanda continuamente a una grave malattia che lascia segni indelebili su di un
corpo237.
Nel caso di Mussolini invece le sue immagini con espressioni ridicole facevano
riferimento a un sistema più simile a quello “teatrale“, pensava cioè di parlare
unicamente alle masse assiepate in basso e non certamente a un pubblico di
telespettatori. Del resto, come ricordava la Freund in riferimento a Charles De Gaulle
«un personaggio è reso simpatico, antipatico o ridicolo a seconda dell’angolo visuale
in cui è ritratto. Una fotografia del generale […] presa dall’alto ne allungava il naso,
presa dal basso gli faceva un mento enorme e una fronte altissima. L’utilizzazione
dell’immagine fotografica diventa un problema etico, dato che è possibile servirsene
di proposito per falsificare i fatti»238.
È dunque possibile affermare che tali visioni costringano il fruitore a modi
difformi
di
sensorialità
da
dover
costantemente
rimodulare
che
agiscono
particolarmente, ad esempio, durante la visione di documenti filmati montati in parte
con testi originali e in parte con nuove produzioni finzionali. Tali immagini ambivalenti
(vecchie e nuove al tempo stesso) pongono, in relazione al quoziente di veridicità,
dei dubbi verso ciò che rappresentano. Il problema è se lo spettatore/soggetto
scopico possa fidarsi completamente del proprio sguardo. Proprio per questo motivo
tale immagine diviene, oltre che racconto sul mondo (anche se appena abbozzato),
soprattutto riflessione metadiscorsiva e lavoro critico sui testi preesistenti.
Il discorso sull’uso che si può fare nel documentare il corpo del potere si può
suddividere per semplicità quanto meno in tre parti:
- Messa in scena del potere da intendersi come la rappresentazione rituale ed
esplicitamente enunciata messa in atto dal potere;
- Autorappresentazione del leader intesa come rappresentazione semi-ufficiale
del corpo del leader;
- Rappresentazione come retroscena che compare quando è frutto di immagini
237
Simile alla pietosa immagine della caducità umana che ci mostra il divo cinematografico, ad
esempio un simbolo della bellezza e prestanza come fu l’attore Christopher Reeve, relegato quasi del
tutto immobile su una sedia a rotelle.
238
G. Freund, Fotografia e società, cit., p. 143.
134
“rubate” o ricavate da archivi della vita non ufficiale del leader.
In realtà, e sempre più spesso, la leadership è rappresentata in maniera ibrida
in quanto si mettono insieme in maniera più o meno indotta, immagini di varia natura.
Un fenomeno che oltre che nei documentari ritroviamo anche nelle forme moderne
come quegli dell’infotaitment. Gli stessi politici si autorappresentano attraverso
composizioni che – affiancando immagini ufficiali con altre “famigliari” e con altre che
esplicitano il proprio fare enunciatico – suggeriscono una verosimiglianza da album
fotografico privato, ma esposto in pubblico.
Naturalmente in questi casi si fa in gran parte riferimento alla natura del testo
fonte e solo in parte all’uso o riuso che se ne è fatto nel tempo. In questo senso l’uso
ibrido dei vari modi di rappresentare il corpo del politico è funzionale a quello delle
immagini per la propaganda. Si pensi a quanto in tal senso possono essere utili le
immagini che ritraggono il lato più espressivo dei corpi e dei volti del leader, il corpo
assonnato, sudato, malato, deformato, trasformato.
La “rappresentazione di retroscena” in tal senso è perfetta e la bassa qualità
dell’immagine è assolutamente funzionale a un uso “plasmabile” dell’immagine. Si
pensi a come i rotocalchi utilizzano le foto da paparazzi per screditare i personaggi
noti nel loro stato fisico e/o mentale.
A proposito del già citato presidente repubblicano Nixon (§ 3.1.1), Gisèle Freund
ricorda come nell'ottobre del 1969 il «New York Times» pubblica una presentazione
di un libro fotografico di David Douglas Duncan che contiene trecento immagini
scattate durante i congressi dei due partiti durante le fasi di scelta dei rispettivi
candidati per la presidenza degli Stati Uniti. L'articolo era posto nel supplemento
letterario del quotidiano e conteneva quattro foto del futuro presidente. La scelta delle
immagini fatta dal recensore di un giornale che si opponeva all'elezione del
repubblicano poste «fuori dal loro contesto facevano apparire Nixon stupido e
antipatico»239, ma in realtà «le quattro fotografie, da lui scelte espressamente per
illustrare il suo testo, erano controbilanciate nell'album di Duncan da altre fotografie
che mostravano Nixon in atteggiamenti favorevoli»240. Questo naturalmente porta la
Freud a concludere che la «scelta delle fotografie era determinata dalla posizione
politica del «New York Times» piuttosto ostile al partito repubblicano e al suo
239
240
G. Freund, Fotografia e società, cit., p. 142.
Ibid., p. 143.
135
candidato»241
A volte basta l’apparizione di una fotografia per dare spazio a una serie di
considerazioni tanto che in alcuni casi le foto più che rappresentare paiono ripresentare, «rendere presente, per qualcuno, qualcosa o qualcuno di assente, come
per lo stesso Barthes accadde nel caso della celebre foto della madre nel giardino
d’inverno»242. Ciò è ancor più utile se consideriamo che, naturalmente, lo stesso riconoscere presuppone per prima cosa la conoscenza, e questo implica che
l’immagine che abbiamo di fronte non è costituita da qualcosa che ci è estraneo, ma
qualcosa con cui abbiamo avuto a che fare. Qualcosa di cui abbiamo custodito nel
tempo degli elementi, dei dettagli a noi familiari (a prescindere da qualsiasi rapporto
di parentela, come invece si verifica tra Barthes e la madre) e che, proprio per questo
motivo, suscita in noi una presa. Il corpo del leader del passato ri-mostrato attraverso
delle immagini inedite - possibilmente tratte da qualche archivio ancora non
completamente prosciugato - ci rende un aspetto diverso del personaggio a noi noto,
ma che può più o meno corrispondere all’idea che di lui ci siamo creati. Dobbiamo
dunque conoscere il destino della persona raffigurata perché la sua immagine ne sia
“impregnata” e accada un po’ quello che dice Leonardo Sciascia quando scrive che
un uomo che muore tragicamente è, in ogni punto della sua vita, un uomo che morirà
tragicamente243.
Le cose si complicano ulteriormente nel momento in cui di quel personaggio
storico - e ricordiamo che le immagini più frequenti della Storia risalgono a non oltre
un secolo - subiamo ancora il carisma o siamo sensibili alle sue idee. Tutto riporta a
un discorso sostanzialmente “passionale”, in particolare quando il soggetto raffigurato
suscita ancora un forte interesse e un’adesione ancora viva da parte degli spettatori,
in un’opera documentaristica che raccoglie delle testimonianze, dei ricordi individuali
all’interno di una ricostruzione che richiama fatti generali.
Le immagini hanno un’attrattiva dovuta, in larga parte, a elementi passionali
che, similmente a come accade con l’immagine di un congiunto, che sia amato o
odiato, finiscono per richiamare un pubblico di “appassionati”. Viceversa come
spiegare il prevalere nei documentari di quei temi che, a proposito di passioni,
richiamano ancora oggi un ampio pubblico “nostalgico” o, al tempo stesso,
241
242
243
Ivi.
I. Pezzini, Immagini quotidiane, cit., p. 169.
L. Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile, Sellerio, Palermo 1989, p. 155.
136
contrapposto (sprezzante, odiante, apprezzante etc. ma, a distanza di molti decenni,
ancora poco “indifferente”)?
Ciò si connota, come dice Robert Rosenstone, con la presenza di forze che non
trovano spunto «nell’analisi o nella teoria, nella combinazione dei dettagli in
un’argomentazione solida e logica, ma nell’evocazione di un’emozione, nel bozzetto
di un personaggio singolo, nella magica abilità della memoria verbale e visiva di
portare nel presente un mondo passato e identità passate»244.
Tale discorso è tanto più interessante se lo si rapporta alle figure politiche più
importanti dell’era dell’immagine. Anche i regimi politici più repressivi e catastrofici,
infatti, come le dittature non smettono di suscitare ancora delle passioni come una
nostalgica memoria del passato che «ha assunto un diverso aspetto, invero
sorprendente, quando è stata intesa come rimpianto di un periodo indubbiamente
disastroso. Gli italiani sono stati sia affascinati sia ironici rispetto al fascismo. È vero
che il padre del protagonista di Amarcord aveva ingoiato l’olio di ricino delle Camicie
nere, ma in fondo era un vecchio seccatore; e il fascismo, con le sue mascherate, le
dimostrazioni di piazza, il suo Mussolini ritratto tra i fiori, sembrava infantile,
innocuo»245. Considerazioni che inoltre riattivano alla perfezione il discorso sul corpo
reso grottesco e un modo preferenziale attraverso cui il cinema italiano traccia i profili
della storia patria.
Walter Benjamin nota come un soggetto che si trovi di fronte a un ritratto
fotografico per prima cosa sarà interessato all‘identità della persona rappresentata e
non, a differenza di quanto accade con i dipinti, all’arte dell’esecutore246. Al tempo
stesso, tanto per il filosofo tedesco, quanto per Barthes, quell’osservatore è spinto
verso la ricerca della sintesi del destino della persona ritratta nella foto e,
aggiungiamo, ciò avviene in particolar modo se egli ne conosce il destino. Questo è
particolarmente interessante se parliamo delle immagini dei personaggi noti, e un
leader lo è certamente, già scomparsi. La qualità tecnica delle immagini passa in
secondo piano allorquando emerge il dato di cronaca documentaristica del
personaggio che risalta sulla scena. Il fatto che poi il leader, e non esclusivamente
politico, sia circondato in continuazione da operatori dell’immagine soprattutto di
244
R. Rosenstone, History, memory, documentary, in «Cineaste», a. 1989, n. 17/1, p.14.
P. Sorlin, Cinema e identità europea. Percorsi nel secondo novecento, La Nuova Italia, Milano
2001, pp. 188-9.
246
Si veda W. Benjamin, Piccola storia della fotografia, in L’opera d’arte nell’epoca della sua
riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000.
245
137
natura giornalistica (politica, spettacolo, rosa etc.), nella quasi totalità dei casi, pone
in primo piano l’immagine come resoconto cronachistico e ciò determina in gran
parte la messa in secondo piano di ogni elemento di artisticità. Tanto il leader, quanto
l’operatore finiscono, troppo di frequente, per far apparire il prototipo del personaggio
fotografato o ripreso: un «prototipo» non troppo diverso dal “Pierre idéal” di cui
parlava Jean-Paul Sartre ne L’Imaginaire247.
E la televisione è per eccellenza il medium che «mescola epoche diverse,
inserendo come esempi o illustrazioni frammenti di cinegiornali, riproduzioni o
testimonianze. Inoltre, radio e televisione generano nuova televisione; i loro archivi
sono una fonte inesauribile, costantemente disponibili e rinnovabili, di programmi
futuri»248.
La storia ricostruita attraverso una composizione totalmente finzionale, come
accade in genere al cinema, «è paragonabile alla storia scolastica, mentre la storia
televisiva ha il fascino di una memoria sempre presente»249. Questi elementi visivi
sono però più rigidi delle parole e anche se in questo modo recuperano una parte di
origini, circostanze e interpretazione esplicativa degli avvenimenti soffrono
dell’ambiguità dell’essere nati in contemporanea all’evento e non dopo. La differenza
con il resoconto scritto è proprio in questo.
3.3.1 Rendere grottesco il tiranno
Le dittature si confermano uno straordinario anticipatore e un esempio estremo
delle tendenze e dei rischi latenti legati alla gestione del potere e delle forme di
comunicazione, esempi che mantengono, anche nell’epoca presente, una validità
comparativa. L’interesse che tali modelli di governo mantengono è normale se si
pensa che ci si trova di fronte a forme di controllo in cui risulta, ad esempio,
inaccettabile ogni messa in grottesco di un capo che per eccellenza non può essere
raffigurato in tal modo.
Il regime quanto più è assolutistico, tanto più ha il pieno controllo dei mezzi di
247
«Quel che cerchiamo attraverso il quadro non è Pietro quale poté apparirci l’altro ieri o un giorno
determinato dell’anno scorso: è Pietro in generale, un prototipo che serve da unità tematica a tutte le
apparizioni individuali di Pietro» (J.-P. Sartre, Immagine e coscienza. Psicologia fenomenologica
dell’immaginazione, Einaudi, Torino 1976, p. 86 - corsivo aggiunto).
248
P. Sorlin, Cinema e identità europea. Percorsi nel secondo novecento, La Nuova Italia, Milano
2001, p. 181.
249
Ivi.
138
comunicazione, accade comunque che a un regime come quello fascista
mussoliniano, quantunque «fosse assai scrupoloso nel curare la propria immagine e
nel selezionare i propri ritratti fotografici […] qualcosa sfuggiva alla sua accorta
regia»250. Del resto il Duce, a differenza del Fuhrer, non avrà, ad esempio, mai un
proprio fotografo personale251.
Ma l’effetto grottesco può anche essere involontario come quando notiamo fino
a che punto la macchina da presa sottolinei del Duce «spietatamente ogni smorfia e
ogni automatismo dei gesti» ma, come sottolinea Italo Calvino, «Mussolini non tardò
a impararlo, e credo che seguendo cronologicamente i filmati dei suoi discorsi si
veda come il suo controllo d’ogni gesto e d’ogni pausa e d’ogni accelerazione del
ritmo oratorio sia divenuto sempre più funzionale»252.
Una conferma di quanto detto da Calvino la troviamo nell’osservare il ben altro
atteggiamento tenuto dal Duce nelle immagini di un’opera di Marco Bertozzi
Predappio in luce (2008) in cui è mostrato, nell’economia del documentario, in poche
e brevi immagini. In una di queste (ma anche le altre non si discostano poi molto) c’è
Mussolini che nel premiare una donna anziana ha i gesti e i modi di un recitante. A
differenza di ciò che accadeva nelle sequenze riprese durante i discorsi dal balcone
di piazza Venezia, già pochi anni dopo è consapevole del ruolo che svolge e della
presenza dell’operatore e manca quel “fraintendimento” mediatico tra Mussolini che
recita per la folla e lo sguardo indiscreto della mdp che ne svela l’espressività buffa.
E del resto, come sottinteso in precedenza (§ 1.7), il Duce «non ha soltanto incarnato
il potere: lo ha recitato»253. Il corpo del tiranno va sempre più verso una deriva che lo
porta a essere quello che, come nota acutamente Giuseppe Bottai, nel «mondo dei
teatranti» si può definire un «gran “generico”»254, uno sorta di “Zelig” in grado di
assumere una pluralità di sembianze a seconda delle esigenze e degli indirizziindicazioni che la sua immagine ritiene debba dare alla popolazione.
Diversamente da quelle private, queste riprese ufficiali non presuppongono in
genere dei punti di opacità e, ancor meno, qualcosa che sfugga o che rischi di
250
S. Luzzatto, «Niente tubi di stufa sulla testa». L’autoritratto del fascismo, in AA.VV., L’Italia del
Novecento. Le fotografie e la storia. Il potere da Giolitti a Mussolini, vol. 1, Einaudi, Torino 2005, p.
117 [corsivo aggiunto].
251
Si veda a tal proposito É. Michaud, Les portraits de Hitler soin-ils charismatiques?, in O. Bonfait-B.
Marin (a cura di), Les portraits du pouvoir, Somogy-Académie de France à Rome, Roma 2003, pp.
177-191.
252
I. Calvino, I ritratti del Duce, in Eremita a Parigi. Pagine autobiografiche, Mondadori, Milano 1996,
p. 217.
253
S. Luzzatto, Il corpo del duce, cit., p. 19 [corsivo aggiunto].
254
G. Bottai, Diario 1935-1944, Rizzoli, Milano 1982, p. 212 (29 luglio 1940).
139
apparire, per usare i termini adottati da Barthes, come un “terzo senso”255. Viceversa
gli inediti d’archivio si prestano a letture in grado di aprire delle faglie di “ottusità”,
fratture o “emergenze” che mettano in crisi il mito attraverso l’umanizzazione del
soggetto, soprattutto se già sacralizzato256.
Come riportare allo spettatore di oggi il clima dell’epoca? Che cosa suscitava
nei cittadini la visione di quel volto? Per rispondere almeno in parte a queste
domande difficilmente maneggiabili può essere utile tornare alle parole di Calvino.
Per il quale il contatto continuo delle immagini del Duce era (ma forse si potrebbe
usare anche il presente) premessa e costruzione di attese257. E parlando sull’effetto
che tali immagini hanno sullo spettatore odierno riteniamo che possa intervenire
anche l’effetto denunciato da Bazin il quale, in relazione alle sequenze della Storia
“ufficiale”, parla del connotarsi delle immagine a seconda della predisposizione dello
sguardo che le sta osservando. A tal proposito il teorico francese spiega come, ad
esempio, il «montaggio di Leni Riefenstahl sul Congresso di Norimberga, Triumph
des Willens, appare allo spettatore democratico come un argomento contro
Hitler»258, e ciò accade ancor di più, possiamo aggiungere, se ci troviamo davanti a
opere rimontate che si fondono con altre immagini ma di tipo “privato”, quelle dette di
retroscena.
Ma le variabili non si limitano al non avere o avere, come nel caso del dittatore
tedesco, un interprete autorizzato della propria immagine. Luzzatto enuncia –
confermando così l’attenzione sempre più diffusa degli storici verso le pratiche e i
dispositivi dei mezzi di riproduzione visivi – le varie cause per cui può sfuggire il
controllo dell’immagine.
La “manipolazione” poteva avvenire anche nelle «scelte di formato, ritagli
d’inquadratura, ritocchi d’immagine»259 e, ancora, per le «ulteriori mediazioni: la
didascalia ufficiale di una data fotografia, la destinazione editoriale di tale immagine,
le modalità d’impaginazione, l’entità delle tirature»260, senza dimenticare la grande
difficoltà di controllare l’insieme dei vari stadi del lavoro che avveniva nei laboratori
255
R. Barthes, Il terzo senso, in L’ovvio e l’ottuso. Saggi critici III, Einaudi, Torino 2001, pp. 42-61.
Si pensi ad alcune immagini del Duce da cui, nel tempo, man mano, scompaiono tutte le figure
che durante l’evento lo circondavano. Un fenomeno che va di pari passo con la graduale diminuzione
dei gerarchi dal balcone di palazzo Venezia e con la progressiva monumentalizzazione del suo corpo.
257
Un punto questo che si lega naturalmente con quanto detto (§ 1.7) sull’effetto di “ingiunzione” e sul
senso di potere che il regime politico vigente trasmette. Ingiunzione al pensiero ma soprattutto al
comportamento.
258
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, cit., pp. 42-43.
259
S. Luzzatto, «Niente tubi di stufa sulla testa», cit., p. 117.
260
Ibid., p. 118.
256
140
del Luce. Se il Duce non è solo nell’immagine, ci sarebbe da valutare la relazione
con i gerarchi e con la folla, senza parlare di tutti i rapporti spaziali – orizzontali e
verticali – che riguardano la composizione dell’immagine. In casi del genere è forte il
rischio di liberare dei sensi come quelli che Barthes definisce come “ottusi”.
Calvino però, a differenza di quanto pensa lo storico genovese, ha ragione nel
parlare di “auto-rappresentazione”, in quanto nella gran parte dei casi si riferisce a
raffigurazioni fortemente istituzionalizzate (come possono essere quelle disposte sui
muri delle classi di scolaresche o addirittura a effigi numismatiche e filateliche). In tal
senso è difficile immaginare che esse non siano passate all’attento vaglio, nella loro
forma testuale sostanzialmente conclusa, da parte di tutta l’organizzazione
propagandistica fascista oltre che del Duce stesso. E almeno in queste immagini
poco davvero “sfugge” al controllo.
Del resto le foto private del Duce che scia, nuota o va a cavallo erano poche e
venivano diffuse solo perché, si diceva, si doveva confutare le voci – in genere
attribuite a giornali stranieri – che lo davano malato. Al tempo stesso è interessante
rilevare che, proprio con la figura di Mussolini, le attenzioni verso i fatti di retroscena
rispetto all’ufficialità politica cominciano a non essere marginali. Del resto, come
afferma Chessa, «Mussolini come duce accede a uno status superiore di culto […]
che solo superficialmente può paragonarsi alla religione, ma piuttosto somiglia ai
meccanismi spontanei dello star system americano. E della pubblicità: DUCE va
scritto tutto in maiuscolo impone Achille Starace»261. Se ne comprende il motivo se si
pensa a quanto l’attenzione del Duce per la propria immagine anche privata nasca fin
da poco dopo la sua ascesa al potere. Già nel ’23, infatti, appare sulla copertina di
«Illustrazione italiana» del 4 febbraio e in questo modo sceglie di travalicare «il limite
dell’informazione politica, trasformando un gesto privato in un fatto di interesse
pubblico: si fa fotografare a cavallo, per la prima volta»262.
Una conferma ulteriore di quanto qualcosa potesse sfuggire è data dal fatto che
c’erano degli ambiti in cui il regime dava, quanto meno informalmente, la possibilità
di fare foto meno censurate e meno rigorosamente ufficiali: ad esempio quelle
destinate al mercato giornalistico straniero. Tutto sommato significava dare all’estero
l’impressione di una nazione in cui i diritti di libertà di stampa non fossero
completamente soppressi. L’importanza data da Mussolini alla diffusione soprattutto
verso l’esterno dei fatti privati – che tra l’altro suggerirebbe anche non poche
261
262
P. Chessa, cit., p. 7.
Ibid., p. 11.
141
puntualizzazioni sui molti parallelismi con la politica odierna – è dimostrata da un
ulteriore passaggio: quello del 1931 che vede il Duce essere a disposizione per
un’intera giornata del fotografo tedesco all’epoca piuttosto famoso in patria, Felix H.
Man. In questo caso tutto il “retroscena” della vita privata di Mussolini, compresi i figli,
la sua dimora di Villa Torlonia e i fatti di routine, servivano ad affermare la sua
immagine
di
«governante
borghese
e
[…]
magnifico
come
un
principe
rinascimentale»263. Un’immagine in equilibrio precario se rapportata a quella interna
che l’ideologia fascista cercava di darsi: «essere insieme una rivoluzione e una
restaurazione»264
L’equilibrio che l’Istituto Luce era chiamato ad assumere era ad esempio quello
di riuscire a far apparire come naturale anche le immagini più retoriche e frutto della
messinscena del regime, motivo per cui i suoi operatori dovevano sì essere
istituzionali, ma al tempo stesso fare in modo che le situazioni non risultassero,
all’occhio
dello
spettatore,
del tutto
innaturali o, per dirla
con
Barthes,
supercostruiti265.
Da tali esempi è possibile concludere però che l’immagine del potere si pone
sempre tra due estremi: quello di una composizione che appaia come la più naturale
possibile e quella degli eventi ufficiali in cui la ritualità non ha bisogno di
verosimiglianza. Ciò non significa che non ci siano tentativi di mediare tra queste due
posizioni: è il caso dei gesti, più o meno improvvisati, che rompono con l’etichetta e
che scompigliano i codici della comunicazione politica, come il caso di quelli a cui ha
abituato Silvio Berlusconi e che, tra interpretazioni serie e facete, fanno notizia anche
all’estero.
Ben più storicizzato però del berlusconismo è un altro esempio di un tentativo di
far affidamento sulla verosimiglianza e sulla “sacrale” ritualità del corpo del leader, un
esempio che ritroviamo nel cinema sovietico del periodo staliniano in cui
263
Ibid., p. 15.
S. Luzzatto, «Niente tubi di stufa sulla testa», cit., p. 129.
265
Barthes usa il termine di supercostruito in occasione di uno scritto dedicato a una mostra composta
da immagini “choc” che rappresentavano foto orrorifiche in cui però si notava la posa costruita
appositamente con militari che guardano scheletri e altri vicini a dei teschi. Immagini che ci
defraudano di ogni capacità critica, in cui ogni giudizio è sottratto allo spettatore, in quanto
scontatamente “a senso unico”. Il “mito” nasce dal mascheramento che nasconde le rappresentazioni
culturali dietro a un’illusoria naturalezza. Questo meccanismo, secondo Barthes, tende a veicolare un
ulteriore significato in cui il leader si accredita di capacità che fanno riferimento a qualità che
trascendono le normali capacità umane e il suo essere frutto di fenomeni storici spiegabili a livello
culturale, ma si apre ad altre significazioni che il testo porta in sé. Il controllo e l’uso consapevolmente
“indirizzato” dei mezzi di comunicazione non fa altro che far pensare come l’immagine provochi
«naturalmente il concetto, come se il significante fondasse il significato» [R. Barthes, Miti d’oggi
(Parigi 1957), Einaudi, Torino 1989, pp. 210-211].
264
142
rintracciamo, a distanza di oltre sessant’anni, ancora nuovi spunti d’interesse.
3.3.2 I “realismi” staliniani di Čiaureli
Il cinema sovietico non risente dei limiti che a quello italiano si imponevano
nella rappresentazione dei leader viventi: Mussolini non è mai stato rappresentato
direttamente, mentre Stalin lo è stato forse perché, come afferma Bazin, «il
materialismo storico doveva logicamente trattare gli uomini come dei fatti, dar loro
nella rappresentazione dell’avvenimento il posto generalmente proibito in Occidente
prima che la “distanza storica” non sia intervenuta per togliere questo tabù
psicologico»266. Ma ciò, anche in Urss, accade solo con Stalin e già prima della
seconda guerra mondiale.
È naturale che si possono riscontrare differenze e similitudini tra la
rappresentazione che dava di sé Mussolini e quella che dava Stalin di se stesso. Si
pensi ad esempio all’analogia riscontrabile ne Il giuramento (Kljatva, Urss 1946) di
Michail E. Čiaureli, quando vediamo il personaggio del leader comunista che,
passeggiando sulla Piazza Rossa, incontra un gruppo di coltivatori con un trattore
mal funzionante. Egli prontamente risolve il loro problema meccanico e, montato sul
mezzo, lui che non metteva piede in un villaggio da decenni, improvvisa un giro e un
breve discorso. Tutto questo richiama alla memoria le immagini di alcuni anni prima
di Mussolini, uno stesso attivismo - anche l’italiano, tra i molti modi, si mostra tra i
contadini su di un trattore - e anche un paternalismo altrettanto simile con cui il capopadre dà l’esempio-ingiunzione al popolo-figlio267.
Ma prendiamo a riferimento un’altra delle opere che il georgiano Čiaureli dedica
alla storia dell’Unione Sovietica e in particolare alla figura di Stalin: La caduta di
Berlino (Padenie Berlina, Urss 1949).
La storia ci mostra subito un lavoratore e il direttore di un’acciaieria che
vengono premiati per la loro capacità produttiva e l’invito all’operaio a incontrare il
leader comunista. I luoghi di vita e gli uffici dell’industria non sono troppo diversi da
quelli che vedremmo in un contemporaneo film americano. Lo scoppio della guerra
porta il protagonista Aljosha a combattere contro i nazisti, a rendersi protagonista
266
Ibid., p. 33.
In tal senso si veda G.P. Piretto, Agonia, morti e resurrezioni del compagno Stalin, in N. Vallorani
(a cura di), Dissolvenze, Saggiatore, Milano 2009, pp. 53-70.
267
143
anche in battaglia e a ritrovare la donna che stava per sposare prima del conflitto.
Nell’opera i fatti personali del protagonista s’intrecciano con i grandi
avvenimenti della storia e in un montaggio parallelo si vede Stalin che prende le
decisioni strategiche e l’operaio che, sembra suggerire il film, esegue dal “basso” le
scelte assunte nelle stanze del potere. Naturalmente il messaggio è quello di una
compattezza nazionale che lega il capo supremo al semplice operaio. La conclusione
è un lieto fine rappresentato dalla vittoria sui nazisti e dall’amore ritrovato.
Il film è da subito una rassegna di donne e uomini che mostrano concordia e
gioia di vivere; si citano i grandi poeti russi come Puskin e Majakovskij, ma al
contempo si evoca la grandezza di un “predecessore” del tiranno, Pietro il grande. E
mentre si ascoltano delle frasi tipo «lunga vita al compagno Stalin che ci ha reso
felici», Lenin è ricordato attraverso immagini in cui lo si vede a fianco al suo
successore in una foto che, a differenza del film a colori, è in bianco e nero e fa
pensare a una continuità tra poteri rivolta al contempo al presente e al passato.
Tutto questo preannuncia l’incontro dell’operaio con il dittatore. Vediamo per la
prima volta il personaggio di Stalin (interpretato ancora da Michail Gelovani) mentre
zappetta e si prende cura delle piante del suo piccolo orto. I suoi gesti sono gentili e
pacati, indossa una camicia bianca e mostra immediatamente grande cortesia
andando incontro all’eroe delle acciaierie e invitandolo in casa.
Poco dopo ci sarà la guerra a interrompere quell’idillio e quella pace sociale che
sembravano essersi creati nella società sovietica. Ma la guerra è anche l’occasione
per mostrare le qualità del capo, al pari di tutti gli stereotipi che servono a descrivere,
per contrasto, i nazisti tedeschi, compresa l’immagine di un bambino impiccato che
ricorda i luoghi comuni già presenti fin dalla prima guerra mondiale nella sue prime e
decisive forme di propaganda bellica attuate tramite i mezzi di comunicazione di
massa.
Anche in questo caso la prima sequenza a guerra iniziata mostra Stalin
tranquillo e di profilo mentre ascolta con attenzione ciò che dicono i suoi consiglieri
militari, subito dopo con voce calma e volto riflessivo enuncia le sue decisioni.
Insomma un uomo che esprime saggezza ascoltando i consigli di chi lo circonda, ma
anche capace di prendere decisioni. È interessante la scelta del regista di mostrare
gli originali delle immagini della difficile parata che regolarmente si svolse sulla
Piazza Rossa a Mosca il 7 novembre 1941.
144
La cosa però più interessante è il confronto che il film propone tra Stalin e Hitler
il quale è mostrato, in totale opposizione al leader sovietico, come un personaggio
isterico se non addirittura folle.
La prima scena di Hitler è quella in cui viene elogiato da una serie di delegati di
Spagna, Turchia, Giappone, Italia e soprattutto da emissari del Vaticano. La polemica
politica, con i blocchi di alleanza, è immediatamente mostrata con una costruzione
narrativa fortemente didascalica che esprime senza motivi di dubbio il modello di
spettatore - che Italo Calvino, in uno scritto dedicato proprio a questo film, definisce
“ingenuo”268 - a cui l’opera di Čiaureli si rivolge, ma soprattutto ci sembra che il film
faccia anche riferimento alla realtà politica dell’anno della sua produzione, il 1949. Ad
esempio il Vaticano e i suoi cardinali sono visti come dei saldi alleati del nazismo e
sono appellati dallo stesso Hitler, con gran divertimento di tutti, come dei «veri
nazisti» che «dovrebbero indossare la divisa». Particolarmente rilevante è però la
perorazione che il dittatore nazista fa quando chiede al cardinale un’enciclica papale
contro i comunisti: ricordiamo infatti come proprio nello stesso anno del film, il 1949,
papa Pio XII attraverso la Congregazione del Sant'Uffizio pubblica un documento
attraverso il quale la Chiesa cattolica dichiara ufficialmente la sua contrarietà
all'ideologia comunista e che da subito sarà considerata una vera e propria
scomunica per chi manifesta tali idee. L’immissione nella sceneggiatura dei dialoghi
di una battuta che riporta in maniera così netta dei riferimenti in linea con la cronaca
politica del periodo, rappresenta un esempio ulteriore dell’attenzione che con il senno
del poi gli autori “dovevano” avere per gli avvenimenti del momento.
Vediamo inoltre Hitler mentre urla, si arrabbia con tutti, non ascolta perfino le
proposte di maggior saggezza dei suoi più fidati consiglieri. Questi piuttosto che
stimarlo paiono temerlo e ne paventano in particolare l’instabilità caratteriale e le
reazioni incontrollate: tutto l’opposto di come invece Stalin è mostrato nel film. Di
Hitler risulta manipolata la voce in particolare, quella cioè che secondo alcuni, come
Gustav Jung269, è la vera e sola arma di persuasione in possesso del Fuhrer. Ma le
opposizioni proposte non si limitano a questo.
La propaganda anti-nazista che il film cerca di veicolare utilizza tutti gli
strumenti a sua disposizione fino a far divenire, o “rivelare”, Hitler (nella realtà così
algido e impenetrabile) come una figura grottesca. Ne accentua infatti tutte le
268
I. Calvino, Difendo "La caduta di Berlino", «Cinema Nuovo», n. 120-121, 15 dicembre 1957.
Si veda l’intervista di H.R. Knickerbocker, Diagnosi dei dittatori, in W. McGuire, R.F.C. Hull (a cura
di), Jung parla. Interviste e incontri, Adelphi, Milano 1995, p. 166.
269
145
espressioni e le smorfie, lo abbiglia con vestiti larghi e di pessima fattura. E così li
descrive nella realtà anche Jung che, nel parlare della visita del Duce a Berlino a cui
assiste di persona, afferma che «Mussolini riempie tutta la sua uniforme, mentre a
Hitler vanno larghi anche i suoi vestiti normali! Hitler è tutto maschera»270. Abiti che
nel caso del film sono particolarmente “comodi”, seppur simili agli originali, e servono
a fare assumere al corpo del dittatore, a causa della loro foggia fuori misura e poco
adatta alla figura che ricoprono, un aspetto comico e, potremmo dire, clownesco! Le
sequenze suggeriscono un uomo inetto rispetto al ruolo che ricopre, anche perché
oltre che a presentare tratti paranoici, è affetto da infantilismo, come si evince da
atteggiamenti capricciosi e dal fatto che, allo stesso modo di un bambino, lo si vede
ossessivamente mangiarsi le unghie. Del resto, come ricorda Calvino, è lo stesso
dittatore tedesco ad accentuare «la vibratilità nervosa del proprio aspetto (viso, baffi,
ciuffo) o della propria voce, adottando un suo stile di gesticolazione e di oratoria tali
da sprigionare un’energia fanatico-isterica»271.
Con il film di Čiaureli non è la prima volta che vediamo rappresentata
l’“instabilità” di Hitler e, seppur con il nome di Hinkel, già Chaplin lo aveva mostrato,
ne Il dittatore (The Great Dictator, USA 1940), attraverso un “fantoccio” che «dai
baffetti, dalla taglia, dal colore dei capelli, dai discorsi, dal sentimentalismo, dalla
crudeltà, dalle collere, dalla follia»272, ma anche con gesti impulsivamente ripetuti,
voleva renderci la “vera” maschera del Fuhrer, la «catarsi ideale di Hitler»273.
Si ritorna al tema dell’incapacità di controllare il proprio corpo quando si assiste
alla presenza di tic nervosi, di “ossessioni ingovernabili” e al paragone di queste con
la nevrosi o, addirittura e in modo improprio, con la follia, nell’accomunare tutto ciò
che “proviene” dalla mente e che non si riesce volontariamente a gestire. Del resto
anche durante l’incontro segreto tra Hermann Goering e il personaggio di fantasia,
l’inglese Bedstone (che tra l’altro con quel “Bed” sembra ironicamente evocare il
nome di Churchill, Winston), quest’ultimo, riferendosi a Hitler, dice al comandante
tedesco: «dovete liberarvi del vostro pazzo».
Un ulteriore spunto polemico e di differenziazione è dato dal fatto che i capi
nazisti sono mostrati sempre come autoritari con i loro sottoposti, mentre la
“democrazia” sovietica mostra come si fondi su un rapporto paritario e di “naturale
270
271
272
273
Ibid., p. 188.
I. Calvino, I ritratti del Duce, cit., p. 218.
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, p. 51.
Ivi.
146
condivisione”, capace di suggerire una relazione egualitaria tra chi comanda e chi è
chiamato a eseguire. In realtà siamo nel pieno della fase più intensamente paranoica
del dittatore georgiano il cui regime utilizza tutte le possibilità propagandistiche e
mediatiche del periodo per consolidarne l’immagine di successore predestinato di
Lenin. La caduta di Berlino è una delle principali opere di propaganda del periodo
che rispondono, quantunque Čiaureli li definisca «documentari artistici»274, a una
ricostruzione non fattuale, bensì artificiosa degli avvenimenti e, quel che più ci
interessa, a un’altrettanto falsa rappresentazione del corpo e degli atteggiamenti da
parte di Stalin.
Il finale del film, con il suo atterraggio a Berlino dopo l’occupazione della città,
mostra di nuovo il dittatore in una giacca bianca che lo fa spiccare da quel muro
uniforme di persone in abito scuro. Al tempo stesso i suoi gesti e le sue parole
nuovamente pacate trovano particolare risalto perché pronunciate in mezzo alla folla
festante fino ai limiti del caos. Al tempo stesso il film in modo schizofrenico nega e
afferma la distanza tra il capo e il popolo: Stalin va a stringere la mano ai generali
vincitori della guerra, citati per nome, ma quando Natasha chiede di baciarlo, il suo
bacio si limiterà a posarsi pudicamente a sinistra del petto dell’uomo. Questa scena
fa il doppio con una precedente in cui l’emozione di Aljosha, al suo primo incontro
con Stalin, lo porta maldestramente a indietreggiare fino a calpestare le rose del suo
giardino. Insomma, si afferma una pari dignità, ma il culto del capo rimane e rende
Stalin un capo supremo quasi intangibile.
In questa breve analisi di La caduta di Berlino desideriamo però soffermarci
anche su un’altra scena indicativa, quella che raffigura l’incontro di Yalta del febbraio
1945. Sono citate le immagini ormai note dell’incontro tra i vincitori della guerra:
Winston Churchill, Franklin D. Roosevelt e Stalin. È interessante notare come la
figura dei tre connotata come più furba e ambigua è quella del primo ministro
britannico, ma è ancor più utile soffermarsi sul presidente americano. La malattia di
Roosevelt, che a breve come sappiamo lo porterà alla morte, è rappresentata dal suo
restare seduto rispetto alla mobile verve degli altri partecipanti all’incontro. Il corpo
del presidente statunitense è un corpo segnato dalla malattia, e il film parla anche in
questo caso con il senno del poi, tanto che gli atteggiamenti tutto sommato benevoli
con cui è tracciata, la rendono una figura quasi del tutto positiva. Questo
evidentemente, oltre che un atto pietoso verso una persona scomparsa quattro anni
274
Riferendosi anche alla succitata opera del ’46, Il giuramento.
147
prima dell’uscita del film, nasce probabilmente dal desiderio di sottolineare uno stridio
tra il leader del new deal e il suo successore Harry Truman che, ricordiamo, nel 1948
era considerato il primo responsabile della grande tensione nata con l’aggiramento
aereo del blocco di Berlino Ovest da parte dei sovietici. Insomma il presidente della
cosiddetta guerra fredda nella contrapposizione tra blocco sovietico e paesi
occidentali: insomma la grande paura comunista.
Si nota dunque come opere di questo genere per essere spiegate pretendono
dall’analista forti competenze anche nel campo storico. Esse vanno collocate non
solo in relazione al periodo della Seconda guerra mondiale in cui la narrazione si
situa, ma richiedono soprattutto la comprensione di come le figure rappresentate
sono spesso prese a pretesto per parlare della presente fase in cui l’opera è
prodotta. È un realismo che punta alla somiglianza corporea degli attori con i leader,
ma che ne altera i caratteri, mentre ne accentua, come nelle caricature, i gesti.
Čiaureli decide di accentuare il realismo attraverso immagini che ricostruiscono in
maniera spettacolare i luoghi verosimili della guerra, e utilizza in un film a colori le
immagini di repertorio e le fotografie in bianco e nero del recente passato. Fa parte
del realismo formale anche la scelta corporea degli attori in cui Stalin è mostrato
effettivamente con la sua bassa statura di “piccolo padre”, ed è quasi sempre più
basso di chi lo circonda. Insomma più che un solo realismo, il film gioca su vari
registri di “realismo”, ma sempre virando sugli indirizzi politici e ideologici propri del
comunismo sovietico.
E del resto, a conferma di una strategia di più ampia portata nelle scelte
cinematografiche compiute nell’Urss, si pensi a quanto afferma Bazin a proposito di
un film dello stesso anno di quello di Čiaureli. Anche ne La battaglia di Stalingrado Prima parte (Stalingradskaya bitva I, Urss 1949) di Vladimir Petrov, infatti, la
differenza di trattamento tra Roosevelt e Churchill è notata dal teorico francese che
riferendosi al primo dice che la «somiglianza era lontana, benchè favorevole, mentre
Churchill [ndr. sempre interpretato da Viktor Stanitsyn] era francamente (e
volutamente) caricaturato»275. Ma colpisce notare quante similitudini sia possibile
ritrovare nell’analisi che Bazin fa del film di Petrov.
La dicotomia tra la serenità del capo e il caos in mezzo a cui si trova è per
Bazin «l’opposizione fra il campo di battaglia e il Cremlino, il disordine apocalittico
275
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1973, p. 34 [corsivo aggiunto].
148
della lotta militare e il silenzio laborioso dell’ufficio di Stalin» e addirittura, «nella
Battaglia di Stalingrado questa serenità pensosa e quasi solitaria è peraltro
curiosamente opposta all’atmosfera isterica dello stato maggiore di Hitler»276.
Insomma davvero poche differenze tra le due opere. Non diverso neppure l’approccio
alle fasi vere e proprie della battaglia che fungono da pretesto e “sfondo” narrativo
per esaltare la grandezza del genio staliniano soprattutto perche si dà un’immagine
della guerra «equivalente […] ai reportage d’attualità colti sul vivo», una guerra «in
qualche modo amorfa, senza punti cardinali, senza evoluzione visibile, una specie di
cataclisma umano e meccanico ma apparentemente altrettanto disordinata di un
formicaio»277. Appunto il formicaio da cui emerge la “forza calma” dell’oligarca del
Cremlino.
Lo stesso realismo dunque con cui è descritta La Battaglia di Stalingrado fa
pensare a una rappresentazione veritiera che spinge Bazin a chiedersi, non
diversamente da come la visione di La caduta di Berlino ci ha fatto riflettere su una
identica questione, se un film si dà «tanta pena per mostrare nella sua ampiezza
materiale la resistenza di Stalingrado, come potremmo ingannarci su quella del
Cremlino?». Come pensato in precedenza, si opera a favore di film di propaganda
che per essere efficaci devono lavorare su vari piani di realismo. In tutto questo la
rappresentazione del corpo è uno degli strumenti preferenziali attraverso cui agire.
La strategia utilizzata è quella di mettere il corpo del leader in situazioni dicotomiche
che creino dialetticamente, e chi meglio dei comunisti sovietici può farlo, delle antitesi
“visive” prima che tematiche. Questo contribuisce all’elaborazione del mito staliniano,
il quale naturalmente supera l’ideale dell’ingegno e della sensatezza propri della
natura umana, ma aderisce invece a quello dell’infallibilità e dell’intangibile distacco
che c’è tra l’umano e la sua “essenza” divina. A questo almeno aspirava Stalin nel
farsi rappresentare, come accade ne Il giuramento dello stesso Čiaureli e nelle opere
successive, come “predestinato” alla sostituzione di Lenin. La panchina dell’incontro
tra lui e il suo predecessore la vediamo anche in una foto in b/n ne La caduta di
Berlino, e questo ci sembra tracci una linea di continuità figurativa, logica e tematica
tra le opere. Il fatto poi che Stalin sia posto, ancora vivente, su uno schermo
cinematografico, in testi in cui si raccontano con realismo i grandi avvenimenti del
recente passato, lo consegna direttamente alla Storia anzi, come intuito da Bazin, sta
a dimostrare che «l’identificazione si è ormai definitivamente compiuta fra Stalin e la
276
277
Ibid., p. 38.
Ibid., p. 39.
149
Storia» ed è avvenuta non troppo diversamente dal trattamento riservato alla salma
di Lenin, attraverso cioè una «mummificazione cinematografica»278.
Questo fenomeno è tanto più accentuato ne La caduta di Berlino che, anche nel
modo stesso di concepire le arti da parte di un regime come quello dei Soviet, è
svelatamente uno strumento di manipolazione politica della storia. Un testo cioè che
si sente in dovere di tradurre immediatamente in cinema le indicazioni che giungono
“dall‘alto” sulle contemporanee scelte di politica interna ed estera. In tutto questo si è
visto come il trattamento della leadership in opere quali quella di Čiaureli si riafferma
con l’attento dosaggio di voci, gesti e posture in cui l’uso e la rappresentazione
strategica del corpo giocano un ruolo assolutamente centrale. Del resto i significati
simbolici che nell’Unione Sovietica di quel periodo in particolare si davano al culto del
corpo del capo trovano conferma nel trattamento assegnato a Lenin e poi - nella
buona e cattiva sorte - allo stesso Stalin. Così come trova altrettanto conferma, ma
per contrasto, l’opposto destino riservato al corpo e all’immagine di chi - per mezzo
dell’NKVD e del suo capo più tristemente noto, Lavrentij P. Berija - era considerato
un nemico del regime. La sparizione fisica e la damnatio memoriae di qualsiasi sua
immagine o scritto che riporti alla mente il suo ricordo.
3.3.3 Sokurov, l’eroe e il cameriere
È tutt’altro che una damnatio memoriae quella che si riserva ai corpi dei potenti,
soprattutto se si tratta di avversari o addirittura nemici ideologici e politici.
Proseguendo nell’esempio russo-sovietico, la sua cinematografia non ricorda Hitler
soltanto in film come La caduta di Belino, ma lo fa costantemente, anche in opere di
tutt’altro genere come quella di Aleksandr N. Sokurov che precede il suo ben più
noto Molokh (Moloch, Rus.-Ger. 1999).
Ritroviamo infatti Hitler nel racconto che Sokurov fa di una delle sue prime
opere che sembra alla base delle sue future scelte stilistiche. Alla fine degli anni
Settanta il regista siberiano ricorda di aver ritrovato, tra alcuni pezzi di pellicola della
sala di montaggio della scuola di cinema di Mosca, delle vecchie immagini. Si tratta
di sequenze «ritraenti, o meglio spianti Adolf Hitler in un momento di “raccolta”, o
cedimento, o concentrazione, tra il tremendamente umano e l’apparentemente
278
Ibid., p. 45.
150
demoniaco, gli occhi semichiusi»279, spezzoni dunque che egli monterà componendo
un cortometraggio intitolato Sonata dlja Gitlera (Sonata per Hitler, Urss 1979-89) in
cui tali “intimistiche” immagini fanno da contrappunto con quelle famose e “ufficiali”
delle adunate inframmezzate con altre di varia natura dove, ad esempio, si
osservano i retroscena – invero tutt’altro che rassicuranti – del Führer mentre
accarezza il suo cane o s’intrattiene con dei bambini.
S’intuisce come questo primo lavoro realizzato mentre è ancora un allievo della
scuola VGIK (si diplomerà infatti proprio nel ’79) faccia da preludio all’opera futura
del regista e alle sue ossessioni di ricostruire il privato di alcuni grandi personaggi
della storia, i momenti di abbandono, quelli che sfuggono al loro controllo. Dettagli da
cui costruire delle ipotesi, frammenti attraverso cui rappresentare l’intimità di un
personaggio che, viceversa, sarebbe sacralmente inavvicinabile e che gli saranno
utili per immaginare un’opera come Moloch, in cui si assiste alla «prostrazione fisica
di Hitler, fittizia (per quanto attestata dai documenti storici), l’angoscia ossessiva del
proprio corpo maleodorante e difettoso sofferta da chi sogna il trionfo di una razza
dal fisico perfetto, sembrano racchiudere qualche indizio della miserabile essenza
originaria da cui derivano l’ideologia e la Weltanschauung del Führer»280.
Qualcosa di simile capita ancora di trovare in un’altra opera di Sokurov il quale
– prendendo spunto da una ben precisa immagine ritraente un altro rivoluzionario
come Lenin, malato e su una sedia a rotelle che guarda verso l’obiettivo con gli occhi
sbarrati della malattia – ricostruisce in Telets (Taurus, Russia 2001) il suo statuto di
personaggio mitico, morto fin da quando è ancora in vita. La riconoscibilità di cui il
corpo noto è dotato, crea nello spettatore un legame affettivo, patemico e passionale
più o meno intenso. Lo spettatore, con la visione di quel corpo, riconosce una
corrispondenza nostalgica, una relazione di prossimità che si rinnova a ogni reiterato
uso che si fa di quelle immagini. Il passato evoca un riconoscimento che ha già in sé
la consapevolezza della sorte toccata al personaggio ed è soprattutto la sua notorietà
a consentirci di conoscerne il destino e di connotare l’immagine con la sorte toccata
al soggetto raffigurato.
I mezzi audiovisivi cercano d’impossessarsi anche delle testimonianze
fotografiche, plasmandole per le proprie esigenze. Il documentario storico, ad
esempio, punta a dare una duratività alle foto che inquadra in movimento e che, pur
nella bidimensionalità del supporto, le “circumnaviga” con lentezza. Le immagini
279
280
G. Bursi, Quei suoi tre incontri, in «Cineforum», a. 45 (2005), n. 450, p. 8 [corsivo aggiunto].
R. Chiesi, Moloch, in «Segnocinema», a. 20 (lug.-ago. 2000), n. 104, p. 45.
151
sono così percorse e svelate un po’ alla volta per suscitare una leggera suspense e
la “mancanza” per quel senso d’insieme che lo spettatore è chiamato con difficoltà a
ricomporre. Un effetto che è frequente vedere con l’immagine fotografica, ma che è
anche assimilabile al rallentamento di ritmo, quasi un ralenti281 che Sokurov utilizzava
in Sonata per Hitler in cui una «veloce inquadratura, dilatata temporalmente […],
ricorre ossessivamente cinque, sei, sette volte a interrompere la violenza del
vitalismo dell’uomo coi baffetti, e a contraddirlo». Si tratta appunto di quell’inserto in
cui il Fuhrer «appare inaspettatamente affaticato, prostrato, sembra afflosciarsi
spento su una sedia»282. Una rottura del ritmo reiterata che ha la pretesa (almeno in
parte utopica) di far trapelare più che il vero carattere dei personaggi, la sostanza
umana e la profonda fragilità che è alla base delle loro scelte. Il fatto che poi il tiranno
stia come sfinito intento a fregarsi nervosamente le mani, stride ulteriormente con i
caratteri del corpo del leader carismatico, visto come quello di chi non mostra mai
timori nè cedimenti al dubbio e che – a differenza dello sguardo rivoltoco a terra che
Hitler mantiene in questi fotogrammi – utilizza il proprio sguardo per indicare la via da
percorrere.
In queste immagini si produce un effetto simile a quello ottenuto quando si fa
scorrere l’obbiettivo della camera su parti e dettagli di un’immagine fotografica. Un
caso in cui l’immagine in movimento cerca di superare i limiti della messa in posa e di
recuperare, con l’ingrandimento del particolare, quell’elemento che riporta al “reale”
inteso però come “casuale”: ciò che è incontrollabile o spontaneo. Tutto questo è più
facile che si verifichi con l’immagine istantanea, quelle ritrovate e “censurate” dalla
Storia, quelle che, per meglio spiegare a cosa ci riferiamo, mostrano ad esempio un
Mussolini “piccolo borghese” mentre, su una spiaggia neppure lontanamente amena,
è sorpreso con tutta la famiglia ai bagni.
I ralenti, inoltre, a cui nei documentari vengono spesso sottoposte le immagini di
repertorio, hanno una funzione particolare, vogliono “avvicinare” le immagini alla
fotografia, consentendo di attivare un contributo maggiore da parte dello spettatore.
Qualcosa di simile a quanto dice, anche in modo un po’ troppo radicale, Barthes
quando - nel momento in cui si chiede se il cinema gli dia il tempo di aggiungere
qualcosa all’immagine – afferma: «non ne ho il tempo: davanti allo schermo non sono
libero di chiudere gli occhi, perché altrimenti, riaprendoli, non ritroverei più la stessa
281
Vedendo il corto ci si rende conto che non si tratta di veri ralenti ma, nello scorrere sempre più
frenetico del film, questi assumono solo l’aspetto di un rallentamento ritmico.
282
R. Chiesi, cit., p. 45.
152
immagine; io sono costretto a una voracità continua […] ma nessuna pensosità; di
qui il mio interesse per il fotogramma»283. Ecco. Il documento rallentato punta alla
riflessione del suo spettatore cercando, in modo più o meno funzionale, di avvicinarsi
al fotogramma, di mutare le coordinate temporali e spaziali e di coinvolgere lo
spettatore in una ricerca dei dettagli che, quanto meno, si approssimi (citando ancora
Barthes), allo studium, e far applicare il nostro sguardo a ciò che stiamo osservando.
Nel caso di Sokurov si aggiunge il contrasto tra le sequenze pubbliche di Hitler a
normale velocità e quelle private, frenate e riflessive.
Si cerca di scomporre, di ingrandire e di rallentare la successione dei
fotogrammi «per avere finalmente il tempo di sapere», il linguaggio dell’immagine in
movimento, soprattutto quella “storicizzata”, prova dunque a trovare un escamotage
per andare verso quella fissa ma rischia di scoprire, nel percorrere un po’ quel cul de
sac che già Antonioni nel suo Blow-Up (1966) aveva suggerito e attraverso cui la
«Fotografia giustifica tale desiderio, anche se poi non lo soddisfa»284. La foto è l’arte
della fissità, anche quando sembra non esserci posa; il cinema è immagini che si
susseguono: altra arte, altra semiotica, altra fenomenologia.
Il documentario rallentato, ad esempio, mantiene e trasmette una sua
“sospensione di energia”285 che fa riferimento al sensoriale e che si trasforma in
“richiesta” interpretativa. Il cinema infatti riesce a rendersi meno illustrativo quando
depotenzia la sua parte “cinetica”, ossia quando, come nelle immagini filmiche di cui
si fa l’analisi, tende a fissare dei punti quasi extra narrativi (definibili anche
disnarrativi) che si configurano come punti di rilievo. E questi momenti sono
“puntuali” proprio in ragione della rottura che si consuma rispetto al registro fino a
quel momento adottato e al cambio d’intensità ritmica che si viene a innestare nel
fluire del testo. Nell’esempio tratto da Sokurov si tratta di una reiterazione cadenzata
di momenti di “arresto” simili, ma comparabili a un “fermo-immagine” fotografico:
istanti del film in cui la sospensione fisico-narrativa gioca un ruolo fondamentale nel
favorire un rafforzamento della metaforicità delle immagini. Queste, nella loro limitata
283
R. Barthes, La camera chiara, cit., p. 56.
Ibid., p. 100. Ma Barthes ritorna sul concetto anche poco dopo affermando che «bisogna […] che
mi arrenda a questa legge: io non posso approfondire, penetrare la Fotografia. Posso solo esplorarla
con lo sguardo, come una superficie immobile. La Fotografia è piatta, i significati della parola: ecco
che cosa devo per forza ammettere» (Ibid., p. 106).
285
Non ci sembra fuori luogo adottare qui una definizione che ricorda quella che Carmelo Bene
utilizza in relazione al suo modo di concepire la performance. Egli parlava di «energia sospesa» o, se
si preferisce, d’immagini che, nel normale fluire del film, creano una sospensione densa di “senso” e,
dunque, un’energia che dall’immagine perviene allo spettatore divenendo richiesta di forza
interpretativa.
284
153
chiarezza (anche quando fissano – per i correnti parametri cinematografici – un
soggetto per più lungo tempo) sono sempre relativamente poco esplicative, proprio
perché richiedono allo spettatore un periodo di lettura prolungato e ritmicamente
difforme.
Ciò non vale solo per il documentario, anche gli esempi delle immagini estratte
dai film di Sorrentino e Petri (§ cap. 2) sono indicativi di questa rottura del collante
narrativo, anche se non bisogna dimenticare che quei fattori che si definiscono come
classici o moderni (come anche postmoderni) «sono istanze dominanti in quel
composto che è il film»286. La messa in discussione della temporalità rigida già
attivata nel cinema moderno diviene ora, in testi sempre più “frammentati”, il tentativo
di creare plaghe temporali semi-autonome rispetto allo scorrere tanto di un’opera
fiction, quanto di un documentario.
Conoscere il destino, “la storia” di chi ho di fronte connota in modo particolare
ciò che osservo, me lo pone in un’altra ottica che mi rende anche un dato temporale
diverso. Vedo la sua giovinezza, la vita che ancora percorre il suo corpo, e dunque
tra gli altri segni di cui si compone il testo c’è il riconoscimento di uno stato personale
che è e che da lì a qualche tempo - anche se non perfettamente precisato - non sarà
più.
A ben vedere la Storia in Sonata per Hitler – ma anche negli altri film in cui
Sokurov tratteggia le figure storiche di Hitler, Stalin e Hirohito – è un dato che delinea
delle impressioni del personaggio e delle sue vicende ma che, ancor più delle altre
produzioni biografiche, mostra «l’indifferenza verso la cronologia e il disprezzo per le
spiegazioni globali e comprensive»287. In tal senso c’è chi rileva come il cinema, «che
per molto tempo aveva accettato il discorso lineare sviluppato in precedenza nei libri
di storia, cominciò a indagare la metodologia degli storici e a contestare la capacità
degli studiosi di ricostruire il senso reale degli eventi passati» fino a giungere,
proseguendo nei termini enunciati da Sorlin, alla «capacità di andare oltre e di offrire
una visione originale della storia spesso provocatoria»288. Certamente Sokurov
esprime una forza quanto meno provocatoria in quanto va sempre in direzione della
scoperta di quelli che sono i lati nascosti dei suoi leader. Al di là delle ricerche
storiche, si tratta spesso di congetture, che sembrano quasi il frutto di scoperte o di
dati di retroscena o, come nel caso di Lenin o Hitler, addirittura di germogliare da
286
287
288
R. De Gaetano, Il cinema secondo Gilles Deleuze, Bulzoni, Roma 1996, p. 103 [corsivo aggiunto].
P. Sorlin, Cinema e identità europea, cit., p. 185.
Ibid., p. 188.
154
singole immagini o brevi sequenze che si configurano così con l’aspetto di
“rivelazioni”.
Tra le cose che sfuggono al controllo dell’analisi storica più rigorosa e dello
stesso potere c’è dunque la possibilità “democratica” di accostare il leader ma,
almeno nei casi citati, senza modo di replica, all’opinione del proprio cameriere289.
Hegel ci ricorda il noto motto secondo cui nessun uomo è un eroe per il proprio
cameriere e non perché l'uno non è un eroe, ma perché l'altro è il cameriere290. Del
resto la letteratura porta molti esempi che hanno posto in primo piano le vicende
personali degli uomini di potere o di cultura ed è stato fatto, di volta in volta per
mezzo dell’escamotage dell’“usciere del Duce”, come per le memorie e ricostruzioni
rivelate – in Memorie del cameriere di Mussolini – da un fantomatico Quinto Navarra
(ma dietro il cui nome si cela in realtà la penna di Indro Montanelli e Leo
Longanesi)291, o attraverso letture biografiche compiute tra l’altro da studiosi
affermati, ma che rischiano di sembrare opere caricaturali292.
Tornando al cinema si riscontra una tendenza simile, che sembra accrescersi
con il tempo e che sembra trovare un’ulteriore anticipazione in un altro film dedicato
al Führer, anch’esso della fine degli anni Settanta. Un’opera come Hitler, ein Film aus
Deutschland, del 1978 di Hans-Jürgen Syberberg è un’opera che è stata ideata come
un contenitore d’informazioni frammentarie e in buona parte non dimostrabili, un
sorta di patchwork in cui «le confidenze volgari del cameriere e i discorsi del Führer
hanno lo stesso spazio. Hitler era talvolta se stesso, o piuttosto la sua
rappresentazione fotografica o cinematografica, talaltra un attore che un despota, o
un ridicolo, pessimo attore, poteva indossare»293.
Si tratta dunque di conclusioni che riteniamo aprano il discorso finale ai modi
d’uso del corpo del potere e dell’immagine del leader nei diversi linguaggi dell’epoca
contemporanea.
289
A titolo d’esempio ricordiamo quanta parte abbiano avuto nella Storia le rivelazioni private fatte
dalle figure che circondavano dei personaggi storici come Diana Spencer, che hanno rischiato di
abbattere una solida monarchia ultra centenaria.
290
Cfr. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Laterza, Roma-Bari 2003.
291
In questo testo si tende a rappresentare il fascismo piuttosto che come un regime aspro nella sua
rigidità ideologica, quanto come una giostra di vanità di cui proprio Mussolini è l’esempio massimo di
una fatuità osservata dal buco della serratura (Q. Navarra, Memorie del cameriere di Mussolini,
Longanesi, Milano 1946).
292
Si pensi, a titolo d’esempio, a due testi come quello del filosofo Pierre Riffard, I filosofi: vita intima,
prefazione di M. Ferraris, Cortina, Milano 2005 o a quello di una storica dell’arte, Francesca
Bonazzoli, L’inganno della scimmia. Crimini e misteri nelle confessioni di venti grandi artisti, Skira,
Milano 2006.
293
P. Sorlin, Cinema e identità europea, cit., p. 184.
155
3.4 L’ossimoro del privato pubblico
Se si passa dall’intervista post “Watergate”, di cui tratta il film Frost/Nixon, al
cosiddetto “Sexgate” che vede coinvolto nella seconda metà degli anni ’90, un altro
presidente americano, Bill Clinton, notiamo i pericoli legati a ciò che può accadere
all’uomo di potere quando si assiste all’«abbassamento della soglia tra “scena” e
“retroscena” in relazione all’intimità dell’“eroe politico”»294. Le condizioni odierne ci
fanno rileggere il passato della comunicazione – quello costituito unicamente da un
paio di reti televisive, dalle voci senza corpo che si ascoltano alla radio, dalle
fotografie di rito o del cinema (con la sua composizione differita) – come quasi a un
mondo dei media avulso dalle reali esigenze dei cittadini. Le mutazioni intervenute
nel tempo come le news incessanti, la trasmissione continua di una pluralità di canali
Tv, o i mille occhi che scrutano e poi sono parti attive della rete, ci fanno pensare a
un surplus informativo, ma anche alle conseguenze ultime di tale fenomeno.
Dal punto di vista della nostra ricerca però la riflessione si incentra ora
soprattutto sul labile confine tra pubblico e privato e tale discorso vale soprattutto se
si comparano le figure note del passato con quelle del presente.
Si è visto come anche lo sguardo a distanza di tempo sui fatti e soprattutto sulle
figure della Storia, che si compie in gran parte attraverso le immagini di repertorio,
non è in grado ugualmente di articolare un discorso storico che renda la continuità
temporale e il parallelismo con il vissuto della quotidianità. Quelle immagini colgono
momenti, sono icone, o parti limitate di un’esistenza, ma in ogni caso si tratta di
materiali separati dal flusso della continuità storica che, proprio per questa puntualità,
tendono a divenire significativi. Sono “storici” solo in quanto frutto di una
testimonianza quale può essere una pellicola ma, come spesso accade, «è il
documento che rende un episodio rilevante»295.
Non c’è dubbio che la scelta dei temi da trattare relativi agli avvenimenti storici è
colpevolmente legata troppo alle fonti e alle testimonianze del passato che più
facilmente si hanno a disposizione. Manca una visione d’insieme, così come la
capacità di ricostruire l’evolversi dei fatti da ciò che abbiamo a disposizione.
Certamente è più facile fare un lavoro di montaggio tra filmati più o meno inediti, che
sono facili da ritrovare negli archivi, più complesso (e forse più costoso) fare un
lavoro di ricerca coerente. È indicativo infatti scoprire quanto sappiamo di ogni
294
295
F. Boni, Il corpo mediale del leader, cit., p. 7.
P. Sorlin, Cinema e identità europea, cit., p. 184 [corsivo aggiunto].
156
gerarca nazista e quanto poco di chi, spesso con la propria vita, ha pagato le
persecuzioni dei regimi autoritari.
Forse sarebbero altri i criteri d’analisi che andrebbero adottati dal momento che
già trent’anni fa Calvino vedeva in Mussolini la traduzione di un corpo da design che
va al di là di una figura individuale e diventa corpo “composto”: il frutto dunque di una
precisa situazione politica. In realtà per le esigenze televisive sembra più indicato
costruire il discorso storico basandosi sulle immagini private, piuttosto che analizzare
in modo corretto quelle pubbliche. Si dovrebbe forse partire da quanto diceva Aldo
Palazzeschi il quale, riferendosi al Duce, si rivolgeva ai suoi lettori invitandoli a
considerarlo uno «specchio fedele nel quale dovete guardarvi» dal momento che è
stato un capo a cui sono state date «quelle mani e quella voce, quegli occhi e quelle
mandibole»296. Ma il suo discorso va al di là delle semplici responsabilità sociali per
l’accaduto, va in direzione di ciò che pensava anche uno stesso gerarca, Bottai: ci si
trovava di fronte a un corpo che si sforzava di compiacere al suo pubblico. È
probabile infatti che quel corpo nascesse dalla sintesi tra immagini costruite per
assecondare lo spettatore e il desiderio di normatività di cui si è detto (§ 1.7).
Un’immagine che diveniva pratica corrente proprio perché mediatrice tra l’esigenza di
accondiscendere il popolo e, al contempo, funzionale al sistema, quasi come
un’ingiunzione comportamentale.
Sembra a volte che l’immagine del capo debba fissarsi ed essere “bloccata”,
come se il continuum non si addicesse a una figura come quella di un leader, e ciò è
accaduto in particolare con le figure dittatoriali. La loro immagine è scelta tra le tante
per risaltare sul contesto ed essere estratta dalle altre e fare in modo che emerga
rigidamente per ritagliarsi un proprio spazio privilegiato. Al di là del riconoscimento
del soggetto noto è spesso il testo stesso a indicarci il locus electus, quello dal
significato più “denso” dal momento che, come sappiamo, anche il trattamento delle
immagini può essere rapportato alle logiche messe in atto dal regime politico
corrente. In tal caso la pur euristica – per usare le parole di Lotman – divisione di un
testo in segmenti da parte dell’analista, risulta maggiormente vincolante. Il
fotogramma o la sequenza audiovisiva scelti come oggetto d’analisi vivono così di
una relativa autonomia dal contesto enunciativo da cui vengono tratte. Ciò avviene
perché esse stesse a volte costruiscono il proprio confine al tempo stesso poco
flessibile (per l’analisi) e meno inderminato (nella configurazione testuale).
296
A. Palazzeschi, Tre imperi…mancati. Cronaca (1922-1945), Vallecchi, Firenze 1945, p. 264.
157
Il leader, similmente a come avviene per un attore297, risalta nelle immagini
anche quando sembra adottare un comportamento «passivo» che nasce cioè da una
“dialettica” visiva tra le figure in campo. L’effetto non è tanto il frutto retorico del
montaggio tra inquadrature o del centramento (centering), che decreta il leader come
figura perno, bensì dalla giustapposizione tra i personaggi presenti nell’immagine. È
anche dal loro comportamento che riconosciamo chi del gruppo è un leader, colui
cioè che su di sé concentra l’attenzione dei presenti. Egli è suo malgrado il centro
della scena e della considerazione. Ciò si esplica ad esempio attraverso gli sguardi
di coloro che lo circondano, di essere il centro di un’immagine sostanzialmente
“centripeta” e che, quanto meno, induce a un’abduzione che ci porta a ipotizzare che
forse la persona che riceve tanti onori e tali attenzioni dagli altri e che è al centro
delle riprese non può che essere una persona importante e autorevole.
Il normale interesse mostrato oggi dai media per le questioni legate alla sfera
privata dei personaggi della politica, della finanza e dello spettacolo, non ha fatto
altro che rendere sempre più sottile quello che era l’elemento di netto discrimine tra il
comportamento tenuto negli spazi canonici della ritualità e quelli dell’intimità. Ciò
comporta anche un accentuarsi delle differenze con le già citate ricerche di E.
Goffman e, successivamente, con quelle di J. Meyrowitz298 i quali hanno in passato
analizzato gli atteggiamenti dei singoli individui nei vari contesti. Gli ulteriori
mutamenti intervenuti nelle comunicazioni e la velocità e la facilità di spostamento
delle notizie, oltre che della conservazione dei dati, hanno favorito la diffusione
mediatica di notizie e d’immagini.
All’apparente immediatezza della Tv, si aggiungono infatti l’ampliamento degli
“occhi” tecnologici in grado di fissare gli eventi. Si tratta di “sguardi” che hanno la
capacità di mutare le coordinate percettive, spaziali e temporali e, all’occorrenza, di
scandagliare e penetrare nei dettagli. L’analisi di opere come quelle incentrate
sull’intervista a Nixon (§ 3.1.1) o sulla vita di Andreotti (§ 2.1) possono essere
considerate una perfetta metafora di come oggi sia sempre più facile e “azzardato”
svelare un particolare o un dettaglio, fosse anche quello di un corpo.
Questo aumento d’informazione però non si traduce automaticamente in un
297
Riprendiamo, ampliandole però in tutt’altra direzione come quella dell’immagine del leader, le
interessanti considerazioni sulla recitazione che ritroviamo in M. Pierini, “Una questione di dinamica”.
Preminger e la direzione degli attori, in G. Carluccio (a cura di), Otto Preminger, regista, Kaplan,
Torino 2009, p. 198.
298
Si veda J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento
sociale, Baskerville, Bologna 1993.
158
sapere critico se non si è consapevoli del funzionamento e delle logiche che
presiedono ai mass media. In apparenza, infatti, i mezzi di comunicazione ci
consentono di osservare gli individui nella loro retorica – nel senso ampio e originale
del termine in cui entra ormai a pieno titolo l’immagine – confrontando i gesti da loro
compiuti durante le manifestazioni pubbliche (comprese quelle televisive), con gli
atteggiamenti tenuti nel privato.
Naturalmente tra nazione e nazione, anche a causa del sistema politico vigente,
cambia il livello d’attenzione da parte dei media per le vicende personali, compresi i
“retroscena” degli avvenimenti. Si è inoltre molto discusso su come il sistema politico
ed elettorale influenzi la comunicazione del leader e si è visto come in Italia il
passaggio al sistema maggioritario prima e la soppressione dei collegi locali per
l’elezione dei parlamentari poi, abbiano spinto a focalizzare l’attenzione dei media
sulla figura dei leader principali. In tal senso è possibile affermare che cambiando il
sistema politico mutano le strategie di produzione non solo strettamente elettorale,
ma della comunicazione genericamente politica. Ma con questi mutamenti variano
soprattutto i modi di significazione e gli effetti che quello stesso corpo produce sullo
spettatore.
In relazione a un costume tanto “sobrio”, si è sempre detto che il rischio legato a
una visione troppo “ravvicinata” del sacro sia quello della sua dissacrazione. Proprio
a causa di questo fenomeno, negli ultimi anni si è cominciato a parlare di un
rovesciamento del Panopticon - lo strumento di cui parlava Foucault secondo il quale
i sistemi del controllo del sapere-potere attraverso cui i pochi osservano i molti - che
diviene il modo con cui una moltitudine osserva un gruppo limitato d’individui, i quali
si connotano come dei privilegiati299. Zygmunt Bauman chiama questo più recente
fenomeno Synopticon, secondo cui «non sono più i pochi a guardare i molti, ma i
molti a guardare i pochi». Un fenomeno che giunge alla “seduzione” di chi sta
guardando e in cui i «grandi e famosi (grandi perché famosi) non aspirano più al
potere di guidare il gregge e quindi non lo ammaestrano più nelle virtù pubbliche;
l’ultimo servizio che possono rendere al loro antico gregge è mettere in mostra la vita
di ciascuno affinché gli altri possano ammirarla, ma anche desiderare e sperare di
imitarla»300.
299
Si veda a tal proposito J.B. Thompson, Political Scandal. Power and visibility in the Media Age,
Polity Press, Cambridge 2000.
300
Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2008 [Id., In Search of Politics,
159
Del resto il ricorso eccessivo al retroscena si oppone all’altrettanto dannosa
politica della “messa in scena”, del ricorso alla formalizzazione in cui il corpo del
potere è elevato a mezzo principale della “finzione” rituale. La strategia politica
odierna è quella di far credere che vita reale e vita rituale possano porsi in continuità,
in realtà, come in una specie di reality, si tratta ugualmente di un simulacro ma che fa
riferimento l’una a un realismo della forma, l’altro a una messa in scena sempre più
esplicitata e che perde dunque di sacralità o, per dirla con Barthes, di costruzione
naturale e dunque resa mitica.
Siamo lontani dall’epoca in cui agli operatori della Rai era fatto esplicitamente
divieto di riprendere le autorità in “atteggiamenti poco consoni” intendendo con
questo perfino le naturali e frequenti occasioni dei pasti. Siamo invece nel pieno degli
effetti di un processo che deriva dalla personalizzazione della politica301 e, in
particolare, dal focalizzarsi dei media sulla figura del leader che così può essere
affiancato, come afferma Boni, a un qualsiasi bene di consumo302.
Trova così conferma l’ipotesi di un leader, e della sua immagine, che diviene
una marca identitaria collettiva, più vicina a un’identità di marca che a quella di un
individuo. Questo è uno degli effetti che ha sui leader l’essere sempre più dei corpi
visti attraverso il filtro televisivo e a breve vediamo come Berlusconi rappresenti il
corpo televisivo per eccellenza in una nazione in cui i mezzi di comunicazione, in
particolare la Tv, sono diventati attori principali delle nostre vicende politiche303.
3.4.1 Berlusconi l’italiano medium
Quando si parla dell’immagine del leader nel presente non si può non fare
riferimento alla televisione e chi si occupa di comunicazione conosce le potenzialità
di questo mezzo e dunque anche i rischi a esso legati. Sa bene, ad esempio, che la
Tv è anche uno strumento che per sua natura, se non gestito con trasparenza, può
divenire, per la sua forza d’imporre l’agenda delle priorità, un mezzo “spietato” nel
suo essere, grazie all’utilizzo d’immagini, un simulacro di oggettività.
Polity Press, Cambridge 1999], p. 76.
301
Si veda a tal proposito G. Mazzoleni, La comunicazione politica, il Mulino, Bologna 1998.
302
F. Boni, Il corpo rifatto della politica, in N. Vallorani (a cura di), Dissolvenze, Saggiatore, Milano
2009, p. 35.
303
Ci permettiamo di omettere i numerosi esempi e motivi che hanno portato al verificarsi di questo
fenomeno particolarmente accentuato in Italia.
160
Berlusconi è l’esempio principe di come un leader possa scegliere di mettere al
centro del proprio “discorso” politico la cura minuziosa e continua del proprio corpo.
Si ritiene comunemente che per gestire a proprio vantaggio i mezzi di comunicazione
audiovisivi, basti una amministrazione attenta del proprio corpo – portando ad
esempio il proprio truccatore, se non addirittura il proprio regista e teleoperatore – e
avere così il controllo quasi totale dell’enunciato, nel tentativo di non far emergere
quegli elementi espressivi che, data la sostanza umana del corpo del leader,
potrebbero divenire ingovernabili304.
Nell’uso recente dell’immagine in politica, e il caso italiano ne è chiaro esempio,
si è verificato uno strappo per cui, un po’ come accade nei reality, non è stata abolita
la soglia tra scena e retroscena, ma si è ampliato a dismisura quello che
Meyrowitz305 definiva un terzo spazio intermedio, quello in cui le attività del privato
sono esposte sulla scena pubblica. La conseguenza per Meyrowitz è la
desacralizzazione del corpo del leader che perde l’aura di sacralità ed egemonia e
che, aggiungiamo noi, può essere sostituita dalla forza del potere e del ricorso
all’autoritarietà. Si rifletta su quanto oggi in realtà il potere, persa ogni autorevolezza,
faccia ricorso ad altri espedienti con lo scopo di limitare la libertà di stampa e
d’espressione: il ricorso a denunce e querele per contenere al massimo ogni forma di
pubblica contestazione. Siamo in un’epoca che Boni definisce «della perdita della
privacy, ma anche quella della sua ossessiva ricerca e difesa»306, in cui la labilità dei
limiti e le continue innovazioni delle piattaforme comunicative ne rendono più
complessa la gestione.
Pur trovandoci nel contesto di una dimensione comunicativa globalizzata, da cui
difficilmente si riesce a prescindere, il nostro punto di vista prende qui a riferimento
una dimensione apparentemente più specifica, quella italiana, ma che come visto nel
corso di questa ricerca, ha dato nell’ultimo secolo un ampio contributo d’innovazione
(è opportuno aggiungere, tanto utopico quanto distopico) nel campo della
comunicazione del potere.
Stiamo operando una ricerca che si incentra sullo sguardo che del leader hanno
i mezzi di comunicazione e sulla comprensione di come funzionino e agiscano in una
società sempre più condizionata dai media e dalle immagini. Per tali motivi riteniamo
304
In questa sede si omette ogni riferimento ad altre figure essenziali come, ad esempio, agli esperti e
consiglieri per la comunicazione, quelli di cui ogni leader di governo usa circondarsi.
305
Si veda J. Meyrowitz, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento
sociale, Baskerville, Bologna 1993.
306
F. Boni, Il corpo mediale del leader, cit., p. 34.
161
di non poterci esimere da uno sguardo, seppur fuggevole, dagli avvenimenti
contemporanei che riguardano il corpo di un leader, quello del premier italiano, che
ha richiamato e continua a richiamare l’attenzione dei media e degli analisti politici e
di costume anche stranieri.
Le domande a cui si dovrebbe rispondere sono molteplici: quanta parte ha il
corpo di un leader come Berlusconi nell’idea che nel presente hanno della politica i
suoi concittadini? Quanto condiziona le istituzione e la politica nel suo insieme? Fino
a che punto un corpo può divenire il fulcro di tutti i discorsi della politica?
Naturalmente ciò che in quest’ambito suscita il nostro interesse non possono essere
altre valutazioni se non quelle relative a una analisi, quanto più oggettiva, della
comunicazione attivata attraverso gli audiovisivi e la fotografia del corpo del leader
italiano. Non si tratta tanto di vedervi delle disfunzioni che agiscono nel corpo della
democrazia, quanto di come sia stato a capo di mutamenti di più ampia prospettiva.
E neppure si cerca di giungere a valutazioni politiche sulla leadership del leader
italiano, quanto del cambiamento apportato nell’immagine del politico dalla pratica
del “berlusconismo”.
Parlando di Berlusconi sappiamo di trovarci di fronte a un fenomeno mediatico e
politico che se non unico al mondo, è del tutto peculiare nel contesto dei paesi
occidentali. Ciò non lo rende meno significativo dal momento che facciamo
riferimento a una rete comunicativa integrata che lo colloca, pur nelle differenze
(sempre più minute) che si possono riscontrare nel mondo occidentale, all’interno di
tendenze e fenomeni ormai transnazionali. Manifestazioni potenzialmente replicabili
e dunque, almeno in parte, generalizzabili pur tenendo a mente l’esigenza, «di
metterle alla prova in istanze particolari» da dover confrontare con «la specificità
storica dei modi della spettatorialità»307. Come del resto anche nell’analisi della
produzione e significazione dei corpi politici per mezzo delle immagini si compiono
inevitabilmente delle generalizzazioni che riguardano i mutamenti del comportamento
sociale in ordine al rapporto del cittadino-spettatore nei confronti della leadership. La
domanda basilare che ci si è posta è: come è percepito il corpo del leader dal
momento che esso è visto fondamentalmente, se non unicamente, attraverso
strumenti audiovisivi e fotografici?
Si è detto da più parti che il corpo del leader italiano si presta all’interpretazione
di più ruoli è cioè al tempo stesso evidenziarne il lato di soldato, allenatore, tiranno,
307
V. Pravadelli, Feminist Film Theory e Gender Studies, in P. Bertetto (a cura di), Metodologie di
analisi del film, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 98.
162
santo, operaio, tycoon, imprenditore, palazzinaro, massaia, cantante, partigiano,
dongiovanni, attore, “cavaliere” e concludendo, di volta in volta, che sia al contempo
Everyman e Superman308, un corpo sacro309, un frutto di ibridismo di genere sessuale
(essere cioè al contempo femminile e maschile)310 o, addirittura, che si tratti di un
corpo-merce, perfettamente inserito «in un circuito di packaging e marketing tra i più
complessi e sofisticati, dove la stessa operazione di chirurgia estetica diviene
elemento essenziale e necessario»311 .
Tutto questo e altro ancora ci rende più inclini a pensare, non dissimilmente da
altri, che Berlusconi sia un personaggio costruito essenzialmente attraverso e per lo
strumento televisivo ma - essendo meno propensi a percepire la Tv come un insieme
uniforme e monolitico - crediamo pure che, volendo applicarci a questo gioco di
metafore, sarebbe più opportuno paragonarlo a un ben preciso genere: quello del
reality show. Per capire però perché sia possibile compararlo a questo prodotto
d’intrattenimento d’origine tipicamente televisiva, partiamo da un presupposto.
Il suo corpo è usato come uno strumento virtuosistico, atto allo stupor mundi. Si
pensi al trapianto dei capelli, ai lifting per il ringiovanimento, alla liposuzione, tutto
concentrato sul corpo di un ultrasettantenne che sembra vantare una specie di
satiriasi, senza contare, di recente, la veloce ripresa dal ferimento milanese del
dicembre 2009. Fenomeni osservati attraverso la lente di programmi d’infotainment e
di surgereality con cui i media esibiscono prontamente il prima e il dopo di trapianti,
incidenti, diete, jogging, etc. Dietro tutto questo c’è il consapevole principio che la
maggioranza degli individui-elettori possa corrispondere allo spettatore medio di un
programma televisivo popolare. Siamo coscienti naturalmente che anche i gesti
meno convezionali dei leader sono preordinati e si dimostrano quasi sempre
funzionali a degli scopi. Un corpo quello del premier che «rovescia l’interpretazione di
Kantorowicz» ormai classica, che vede nel corpo del potere (quello del re) un corpo
doppio che semplificando definiamo sacro e al tempo stesso mortale, Berlusconi è un
corpo multiplo, anzi c’è chi lo definisce, «postmoderno o mediatico» tanto da non
308
Cfr. A. Abruzzese-V. Susca, Tutto è Berlusconi. Radici, metafore e destinazione del tempo nuovo,
Lupetti, Milano 2004.
309
Cfr. G. Parotto, Sacra officina. La simbologia religiosa di Silvio Berlusconi, Franco Angeli, Milano
2007.
310
Un’ipotesi che è possibile ritrovare in F. Cordelli, Il duca di Mantova, Rizzoli, Milano 2004 e in M.
Belpoliti, Il corpo del capo, cit.
311
F. Boni, Il corpo rifatto della politica, in N. Vallorani (a cura di), Dissolvenze, Saggiatore, Milano
2009, pp. 36-37 [corsivo aggiunto].
163
rendere più validi «i tradizionali rituali della rappresentanza»312.
Ciò porta a pensare che perfino gli interventi estetici sul suo volto, a causa del
lifting del 2004, siano stati interpretati come portatori di ulteriori significati – come si
evince dall’analisi che Boni ha fatto di diversi titoli e articoli dei quotidiani – ossia
come se il cambiamento di aspetto fisico e facciale si fosse tradotto automaticamente
in una nuova fase della sua politica313. Nei titoli dei giornali il corpo del leader subisce
uno scivolamento di senso divenendo metafora tout court della politica314. Questo
suscita il nostro interesse soprattutto dal momento che riteniamo possa essere vista
come una nuova dimostrazione del corpo politico come veicolatore ormai primario di
un’idea ben precisa delle istituzioni politiche e infine, seppur in modo “diluito”, di
tacita “ingiunzione” comportamentale da parte del cittadino315. E ciò vale ancor di più
se riguarda chi è al vertice dell’ipotetica piramide di potere. Attraverso il corpo del
capo muta addirittura il modo di concepire il corpo del suddito e la sua sessualità, del
resto il godimento, come affermato da Slavoj Žižek, è un fattore propriamente
politico.
Per il corpo di Berlusconi possiamo adottare i termini utilizzati da Natoli, il quale
parla di corpo e potere in cui il primo è al contempo, anche nell’accezione semantica
più ampia, «spazio operativo e spazio di operazioni» ossia spazio in cui gli
avvenimenti si realizzano. Questo concetto di “operazione” nella sua «valenza
funzionale e nella sua portata strategica», agisce sui corpi facendo in modo che
«ogni azione, sia pure quella più propriamente singolare, è riflesso di sistema»316.
Per ciò che attiene ancora al corpo normativo, Silvio Berlusconi può essere
visto come un leader che procede, anche in politica, nel suo mestiere di media
tycoon o, per dirla con Belpoliti, in quello di «fabbricatore di sogni televisivi»,
attraverso i quali «attiva meccanismi di comportamento simili, o quanto meno li
sfrutta ai propri fini»317. Siamo su un concetto già ritrovato in pieno ne Il Caimano
(2006) di Nanni Moretti318 e anche in questo senso Berlusconi è pienamente un
312
M. Belpoliti, Il corpo del capo, cit., p. 93.
F. Boni, Il corpo rifatto della politica, cit., p. 39.
314
Si porta ad esempio, tra i numerosi che sarebbe possibile fare, oltre allo stesso titolo appena citato
del saggio di Boni, anche a un titolo de «la Repubblica» del 17 gennaio 2004: Quando la politica si fa
il lifting.
315
Naturalmente al pari di altre forme, forse meno immediate di un’immagine, come gli atti compiuti, il
linguaggio retorico e i comportamenti.
316
S. Natoli, La verità in gioco, cit., p. 75.
317
M. Belpoliti, Il corpo del capo, cit., p. 47.
318
A poco vale in questo contesto analizzare quest’opera se non rilanciandone la scelta di incentrare
la sua lettura di fenomeno, quello del berlusconismo, che non è fatto iniziare nel momento in cui
diviene un leader politico, ma molti anni prima, quando lo è già ampiamente nel campo televisivo, nel
313
164
corpo normativo, egli cioè crea delle regole comportamentali che se non sono
sempre praticate, puntano quanto meno a essere riconosciute come legittime e sono,
per rubare dal linguaggio commercial-politichese, sdoganate nel campo in cui il
leader opera. Riteniamo che in tal senso l’effetto che il suo corpo produce non è
troppo diverso da quello preteso da un testimonial per le campagne pubblicitarie.
Le immagini attraverso cui Berlusconi si autorappresenta sono la dimostrazione
della sua capacità di reggere all’obbiettivo fotografico, di sapersi “mettere in posa”,
come afferma uno dei primi fotografi ad averlo ritratto, Roberto Roveri319. Le
immagini successive saranno di Evaristo Fusar, ed esse sembrano mostrarne,
piuttosto che uno sguardo in grado di esprimere un «sogno interiore», per dirla con
Barthes, la sicurezza e la decisione, un senso quasi di sfida nei confronti dello
spettatore che è imposto attraverso uno sguardo che, puntato verso l’obbiettivo, lo
“interpella” direttamente. Ma più che lo svelamento di una parte intima del carattere,
in queste foto Belpoliti vede una maschera e una “postura attoriale” che lo spingono
a ipotizzare anche fascinosi attori a cui l’imprenditore televisivo si sarebbe potuto
ispiare (fig. 21): Humphrey Bogart, William Berry, Alain Delon, William Powell320. In
effetti le pose mostrate scimmiottano quelle delle star e si comprendono i motivi per
cui tali immagini creino ancora imbarazzo321 e si ritorni alla costruzione del corpo
attraverso l’immagine e al paragone tra leader e star.
Riappare qui l’idea di un leader che si è “auto costruito” sulla Tv e che grazie a
essa è stato “modellato”, consentendoci di paragonarlo al fenomeno televisivo del
momento: quello dei reality. I reality sono del resto quei luoghi in cui anche ciò che
sfuggirebbe al controllo non è solo “realistico”, ma è il simulacro ancor più
ingannevole della realtà, perché non meno controllato da una attenta regia. Un luogo
in cui la scena si fa retroscena e viceversa. Berlusconi è divenuto leader politico con
la stessa facilità e velocità con cui, mutatis mutandis, uno sconosciuto diviene un
personaggio televisivo. Una linea di tendenza comune a chi afferma, come nel caso
di Boudrillard, che il cinema si pone al di sopra del reale e la realtà filmata è sempre
un simulacro di quella reale.
momento in cui accede nel mondo simulacrale dell’immagine.
319
M. Belpoliti, cit., p. 34.
320
Ibid., p. 42.
321
L’importanza del controllo delle vecchie immagini si evince anche dal fatto che c’è chi, come fa Miti
Simonetto per Berlusconi, cura la diffusione e la ricerca di immagini non ufficiali e poco gradite ai loro
committenti, pagandole spesso a caro prezzo. Il passaggio da leader privato a pubblico, avvenuta nel
1994, è stato uno spartiacque nel modo di gestione dell’immagine da parte di Berlusconi: da quel
momento ha anch’egli un fotografo ufficiale che lo segue nei suoi spostamenti, anzi, alla bisogna, ha
un intero staff di registi, operatori e truccatori che lo seguono anche nelle altre reti Tv extra Mediaset.
165
Secondo Parsi322 si verrebbe a creare una sorta di contraddizione, in quanto da
una parte il leader deve cercare di aggregare il consenso intorno al progetto sul
futuro, limitando in un certo senso il carisma – che del resto risulta paradossalmente
già sminuito dalla legittimazione legale e burocratica della leadership – dall’altro è
proprio il momento elettorale che legittima il potere nelle democrazie contemporanee.
Ed è il crescente peso dei mass media sulla leadership, a far riemergere il carisma
come elemento mutante, ambiguo ma sempre dominante, dal momento che la
democrazia è strettamente legata al popolo. Il corpo carismatico infatti con il mutare
dei media cambia la propria natura ed è sempre più un prodotto dei media, o meglio
ancora un corpo che con i media e con una certa condizione di potere ha delle
qualità che “chimicamente” edificano il carisma.
Come affermato in precedenza, la deriva che si pone davanti a tutti i leader che
cercano di gestire in modo deciso e talvolta spregiudicato la propria immagine
carismatica è quello dato dalla confusione che si viene a creare intrecciando spazio
pubblico e spazio privato. E in tal senso si può affermare che Bill Clinton e Silvio
Berlusconi siano entrambi esempi e attori, seppur con distinzioni molto nette, di
questa deliberata confusione tra la scena e il retroscena.
Clinton ha subito il primo tentativo d’impeachment “mediatico” con delle
modalità che fanno pensare a una rivalsa per il suo uso disinvolto dell’immagine e
dei media323, ricordiamo il suo jogging davanti ai fotografi, i suoi informali picnic alla
Casa Bianca con i giornalisti, o la forte presenza della sua famiglia nella strategia
comunicativa. Berlusconi da par suo – con il controllo dei mezzi di comunicazione
che lo mettono a riparo, se non dalle gaffes, quantomeno dalle conseguenze che da
esse potrebbero derivare – può legittimamente avere, in una tale ricerca, la funzione
d’epitome e di paradigma e, siamo certi che sia facile previsione pensare che il
conflitto tra le opinioni sull’immagine del corpo berlusconiano sopravvivranno al suo
potere.
322
Per l’intervista di Vittorio E. Parsi si veda in E. Pasini-F. Natili, Carisma. Il segreto del leader,
Garzanti, Milano 2009, pp. 173-189.
323
Ricordiamo il “contrappasso” mediatico del suo interrogatorio ripreso dalle telecamere e poi
mandato in onda in differita e senza alcun taglio, neppure per le domande e le risposte più indiscrete e
intime riguardanti la sua relazione con Monica Lewinsky.
166
3.4.2 Il riuso dei corpi tra arte e spot.
Il tiranno può controllare la propria immagine pubblica anche quando, come
detto per Mussolini (§ 3.3.1), concede degli spazi relativamente liberi al fotografo per
“interpretare” con lo sguardo dello straniero la natura assunta dal regime e dal
personaggio che lo rappresenta. Ciò che è impossibile da realizzare anche
(soprattutto?) per un leader, è fare in modo che la propria immagine non subisca
mutamenti e venga riutilizzata in altri linguaggi e per scopi che hanno poco a che
vedere con le forme, i fini e i motivi per cui erano state inizialmente prodotte. In
un’epoca, infatti, in cui assistiamo all’abbondare di quelle che sono state chiamate
pratiche della replicabilità – come avviene ad esempio con il backstage o il remake e
con l’ampia varietà delle ibridazioni, ricombinazioni e manipolazioni dei documenti
video – accennare a tutte le forme che assume la “ri-mediazione” e la diffusione dei
nuovi modi del riuso delle immagini, riteniamo sia assolutamente funzionale al nostro
discorso.
Non è un caso che mentre nell’occidente abbiamo la pop-art in cui le immagini
dei prodotti commerciali e del consumismo divengono dei simboli anche artistici
universalmente riconosciuti, nell’URSS degli anni ’70 e ’80, la rilettura delle
precedenti forme assunte dal regime sovietico avvenga attraverso le icone dei leader
di un passato ormai lontano come avviene per Stalin, o addirittura “mitizzato” come
nel caso di Lenin. Se l’arte occidentale insisteva sulla presenza oramai eccessiva del
prodotto di consumo, l’immagine fideistica dei capi sovietici voleva amplificare,
sempre attraverso delle “sproporzioni” artistico-visive, la carica ideologica di cui
erano stati portatori in vita.
Gian Piero Piretto sottolinea come, dagli anni ‘70, la sots-art (socialističeskij art
- arte socialista) operava «con i prodotti artistici della cultura di massa real-socialista,
con l’accumulazione di propaganda, di ideologia, con il surplus di retorica, proprio
come la coeva pop-art americana avrebbe fatto con la cultura commerciale e la
sovrabbondanza di consumo di beni materiali»324. Il modo con cui questo avveniva
era quello di mostrare le immagini dei vecchi e “sacri” leader del passato, notissime
ovviamente al pubblico sovietico, “decostruendole” e affiancandole ad altre tratte
dall’arte antica o, similmente all’arte pop americana, ai prodotti commerciali o ai
324
G.P. Piretto, Agonia, morti e resurrezioni del compagno Stalin, in N. Vallorani, cit., p. 60.
167
personaggi e supereroi del fumetto325. Si irride all’«ossessione staliniana per il
classicismo»326 e alla nostalgia, che ancora promana nella Russia di allora, verso
l’arte realistica socialista, ma ciò che a noi interessa è piuttosto la trasformazione che
subiscono i corpi dei leader. Riprendendo l’intuizione di Piretto, che parla di tre morti
di Stalin, è opportuno sottolineare come in realtà si tratta di tre letture storiche che si
traducono in almeno tre differenti usi della sua immagine. Si va dalla morte dell’uomo
con qualità eroiche e quasi divine (la sua immagine in vita e subito dopo la sua morte
avvenuta nel 1953), al tentativo d’obliare la sua figura e memoria che segue alla
denuncia, a partire dal ’56 da parte di Nikita S. Chruščëv, dei crimini e del culto della
personalità dell’epoca stalinista, per giungere al riuso del suo corpo “resuscitato”, in
chiave ormai svelatamente ironica, da parte degli artisti degli anni ‘80-90.
Già il primo “ripensamento” sul corpo del capo morto è accompagnato da
un’azione di traslocamento della sua salma che ricorda molto da vicino il corpo
scomodo di Mussolini. Il corpo di Stalin nel 1961 è spostato infatti dall’edificio in cui si
trovava Lenin a una posizione più defilata, posta tra gli altri eroi dell’Unione Sovietica
e alle spalle del mausoleo. Continuava così, con le stesse “consuetudini” adottate
precedentemente dallo stesso dittatore, l’opera di cancellazione progressiva delle
citazioni e di qualsiasi altra traccia, in primis le immagini della sua esistenza. Identico
trattamento riservato a coloro che riteneva suoi nemici: gli era sufficiente un laconico
ordine o la cancellazione dei loro volti con i sottili tratti di una penna (che si traduceva
immediatamente nel negativo appositamente rovinato nelle parti dei volti), per dare
inizio all’oblio (fig. 22)327.
Nella contemporaneità, però, il riuso dell’immagine dei leader storici, grazie alla
notorietà e alla densità dei significati che portano con loro, non si limita alla
“traduzione” negli altri linguaggi artistici, in quanto subiscono un ampio sfruttamento
325
Si vedano opere come quella della serie Realismo socialista nostalgico (1981-82) di V. Komar - A.
Melamid - coloro che coniarono nel ’72 il termine sots-art - oppure Marlboro, Lenin e Stalin (1985) e
Thwip (1986) di A. Kosolapov, o ancora Staline et Monroe (1991) di L. Sokov.
326
G.P. Piretto, Agonia, morti e resurrezioni del compagno Stalin, cit., p. 61.
327
In tal senso è interessante osservare le immagini di una recente esposizione tenutasi a Trento
intitolata Arte e propaganda nella fotografia sovietica degli anni 1920-1940 in cui sono mostrate due
immagini particolarmente significative, la prima delle quali del 1936 (p. 119) che mostra la
cancellazione del volto di un ufficiale di aviazione soggetto a repressione e posto a sinistra dello
stesso Stalin. La seconda dell’anno successivo (p. 135) ancora più indicativa perché delle otto
persone ritratte l’unica ancora visibile è quella del Presidente del Soviet Supremo Michael Kalinin,
mentre le altre figure di ufficiali dell’Armata Rossa sono tutte vittime dell’epurazione e dunque dai tratti
somatici annullati (A. Baskakov, Arte e Propaganda nella fotografia sovietica degli anni 1920-1940,
CRAF, Lestans (PN) 2009).
168
nel campo “reclamistico”. In molte occasioni infatti lo spettatore ha visto nella
pubblicità l’utilizzo, di volta in volta, di figure e icone politiche come Mao Tse Tung, W.
Churchill, Marx, Lenin, Stalin, Che Guevara.
Si pensi, ad esempio, alla pubblicità della Apple in America con protagonista
Gandhi, il quale sette anni dopo nel 2004, in uno spot girato Spike Lee, diventa suo
malgrado testimonial della Telecom Italia. E non è la prima volta che il regista
newyorkese utilizza immagini di repertorio di leader carismatici per pubblicizzare
prodotti di consumo. Già nel 2000 aveva ottenuto l’autorizzazione da Nelson
Mandela per usare vecchie immagini per creare un'altra pubblicità: sempre per lo
stesso operatore di telefonia (lo spot del 2008 richiama invece delle polemiche sul
modo fraudolento con cui la società si rifà con alcune inesattezze ancora una volta al
discorso pronunciato da Gandhi a New Delhi il 2 aprile 1947328.
Un simbolo, invece, della storia inglese come Winston Churchill è divenuto con
molte polemiche – in quando riprende la sua celebre frase di resistenza antinazista
«let's keep London flying!» – l’immagine di una promozione della Ryanair, così come
è avvenuto (sempre per la stessa compagnia) per altri personaggi politici
contemporanei come Sarkozy (con l’immancabile Carla Bruni), Gordon Brown,
Zapatero e Berlusconi. Ma la pubblicità non ha escluso figure meno note, che per
affermazioni o atti sono salite alla cronaca italiana, per limitarci agli esempi nazionali.
Si pensi all’immagine del ministro Umberto Bossi con il “famoso” gesto del suo dito
medio mostrato durante l’ascolto dell’Inno d’Italia o, in precedenza, all’altro ministro
Padoa Schioppa che nell’annuciare «Mandiamo fuori i bamboccioni» è affiancato,
nell’annuncio della Ryanair, a una lista di tariffe di volo.
Altri esempi sono quelli di Che Guevara che, dopo aver suo malgrado
pubblicizzato dagli orologi ai sigari, dai profumi ai gelati, diventa testimonial della
società d’abbigliamento C.P. Company. Ma un caso particolare invece è quello di
Mao Tse Tung la cui espressione, in una pubblicità circolata in Spagna del 2008 per
delle innovazioni apportate a un suo modello d’auto da parte della Citroën, è
trasformata da una smorfia indispettita della bocca. A proposito delle passioni che
suscita ancora la figura di un politico come Mao sulla minoranze della comunità
cinese del paese iberico, è utile ricordare che quelli immagine fu prontamente
rimossa dai giornali.
Si tratta di immagini che nella gran parte dei casi – almeno quelli che hanno per
328
Si veda a tal proposito http://giovannacosenza.wordpress.com/2008/09/24/povero-gandhi/.
169
soggetto delle figure autoritarie – ci ricordano quanto scritto da Hannah Arendt in
relazione al processo Eichmann329, e alla capacità che hanno talvolta le immagini di
far trapelare quanto di banale ci sia in queste figure. Il tempo e la comunicazione
sono dunque in grado di rivelare quanto di ordinario e ambiguo può trasmette il loro
aspetto e, di conseguenza, quanto di comico si nasconda nella tragicità dei loro
gesti.
Come detto ciò è possibile soltanto con la distanza che da questi personaggi ci
separa e dunque con il senno del poi dovuto al distacco temporale, ed è solo con il
passare del tempo che si riesce a percepire con chiarezza il lato banale e grottesco
di certi personaggi che in vita hanno suscitato tutt’altro sentimento anche se, come si
evince da un articolo di Elisabetta Rosaspina per il «Corriere della Sera», questo poi
configge con gruppi d’opinione che guardano a quei personaggi con occhi molto
meno distaccati. È il caso degli ebrei della Nuova Zelanda che videro, in alcune loro
città, comparire «gigantografie di Adolf Hitler con il braccio teso nel saluto nazista e,
in mano, un trancio di pizza»330. Quell’immagine pubblicizzava la Hell’s pizza e
conteneva una citazione tradotta dal Führer: It is possible to make people belive that
heaven is HELL.
Come si comprende siamo al riuso, in questo caso pubblicitario, di un corpo del
potere che a rigor di logica subisce una banalizzazione compiuta da parte di
un’azienda e in una società che hanno uno sguardo capace di intravedere in quella
figura anche il suo portato e la sua carica di ridicolo. Il rischio però che al tempo
stesso è perfettamente percepito da chi invece è stato vittima di quel personaggio
(come in questo caso gli ebrei neozelandesi) è quello di farne o un mostro – come di
qualcosa che si pone al di là della condizione “umano”, ma che, proprio per questo,
collocherebbe questo fenomeno nel campo delle cose irrazionali e non replicabili –
oppure pensare a Hitler come a una figura tutto sommato lontana e innocua (un po’
come correttamente vede Sorlin – § 3.3.0 – quando guarda all’immagine che in Italia
si è sempre data del fenomeno fascista)331.
329
H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 2001.
E. Rosaspina, Da Mao al Che. E la pubblicità si trasforma in gaffe, in «Corriere della Sera» del 18
gennaio 2008, p. 28.
331
P. Sorlin, Cinema e identità europea. Percorsi nel secondo novecento, cit., pp. 188-9.
330
170
3.4.3 Lo sguardo della contemporaneità
Si è visto come il riuso del corpo di un leader odierno e di un capo del passato
parta da lontano – in questa sede abbiamo portato l’esempio di Hitler riletto in vario
modo da alcuni registi Sovietici – fino ad arrivare all’arte contemporanea. Accade
anche dell’altro, si può vedere infatti come nel cinema, un bandito-leader come Jesse
James possa essere liberamente paragonato a un idealista e guerrigliero come Che
Guevara. Dall’inizio fino alla morte del protagonista, nel film di Andrew Dominik –
L'assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (Assassination of
Jesse James by the Coward Robert Ford, USA 2007) – i riferimenti visivi con il
combattente argentino sono piuttosto evidenti, così come il tentativo, riuscito solo in
parte, di metaforizzare attraverso il’immagine del Che lo spirito anarcoide del
pistolero nord americano. Ciò che però c’interessa in questa sede è prendere atto
dell’esperimento, e ci sembra importi poco agli autori se sia o meno giustificato dalle
due biografie, di evocare nel film un personaggio completamente diverso e
riutilizzarlo come un modello universalmente noto da cui partire per la costruzione di
un personaggio americano della seconda metà dell’Ottocento.
Nulla di nuovo comunque dal momento che le ri-configurazioni attuate nella
contemporaneità comportano che ci siano anche casi in cui sia il leader stesso a
rimodulare il proprio corpo e a renderlo come qualcosa in continuo spostamento. Gli
scivolamenti di senso sono continui e si può concepire il corpo come oggetto
modulabile. Il leader in tal caso non subisce il mancato “controllo” ma è egli stesso a
indirizzarlo, e con il mutarsi del senso muta anche la codifica e l’analisi decostruita
delle immagini. Il corpo del leader è reso pregnante dal suo essere perno formale di
ogni discorso e forma testuale e ciò ne fa anche il centro del discorso ideologico.
Una dimostrazione di come le influenze reciproche tra cinema e politica, tra mondo
dello spettacolo e spettacolarizzazione del potere (e di conseguenza l’inestricabile
intreccio tra finzione e realtà) trovino terreno fertile nel trattamento riservato alle
figure più note, quelle appunto dei leader332.
332
Si pensi a come Marco Belpoliti, nel suo studio sulle foto di Aldo Moro scattate durante il
rapimento, interpreti queste immagini come se si trattasse di una comunicazione pubblicitaria e
insieme come quelle più "vere" di Moro. Lo studioso esamina le polaroid di Moro diffuse dalle Brigate
Rosse per testimoniare della sua prigionia e del suo stato in vita, la prima del 19 marzo 1978, tre
giorni dopo il sequestro, e l'altra di venerdì 21 aprile. Nella prima lo statista appare con il volto stanco
e rassegnato, la testa reclinata e il colletto della camicia sbottonato. L'effetto perseguito è quello di
abbassare un uomo di potere al ruolo di uomo comune, quasi fosse un sovrano detronizzato,
171
Questo fenomeno è più frequente di quanto si creda. Pensiamo a come
l’immagine del Duce sia stata spesso fatta derivare da quella di un attore coevo Erich
von Stroheim333 o quanto meno comparata a quella del Maciste di Bartolomeo
Pagano334. Oppure a tutti gli esempi accennati in precedenza come la strategia
comunicativa, da vere “star”, messa in atto dai presidenti statunitensi come Bill
Clinton o George W. Bush335, o il rimando continuo e reciproco tra Hirohito e Hitler
con la star Chaplin, o le imbarazzanti immagini da divo cinematografico con cui
Berlusconi si fa ritrarre tra la fine degli anni ’70 e inizi ‘80336. Tutti esempi
dell’intreccio e dell’influenza continua tra il potere e il divismo senza contare i
passaggi tra i due campi, per ricordarne un paio per noi tra i più famigliari: Ronald
Reagan da attore a Presidente USA o, inversamente, Irene Pivetti da Presidente
della Camera a presentatrice Tv.
L’influenza della comunicazione del leader però ha soprattutto degli effetti
indiretti, condiziona cioè in particolare l’idea della società che attraverso i massmedia viene veicolata, ed è anche questo aspetto a suscitare il nostro interesse. E il
corpo del leader attraverso cui il potere si esprime non è stato immune da
quest’utilizzo e ciò in un’epoca in cui, come afferma Marco M. Gazzano, «i media
sono stati usati come strumento di dominio, di guerra, di disinformazione e/o di rifiuto
della comunicazione: proprio nel continuo dichiararsi l’esatto contrario». E in
particolare le televisioni «pubbliche e private, generaliste e “di nicchia”, occidentali o
islamiche che siano, hanno fondato il loro potere eccitando gli istinti più arcaici e
primordiali dell’essere umano»337. Le figure del potere si limitano a mostrarsi come
uno strumento per suscitare nello spettatore delle passioni, le quali, naturalmente,
cogliendolo in una posa della sfera privata, quasi intima. Il 21 aprile i giornali riportano una sorta di
meta-fotografia, in cui Moro tiene in mano una copia della Repubblica del giorno 19, il titolo è «Moro
assassinato?». Secondo le indicazioni di Barthes e di John Berger, Belpoliti decifra per noi il
messaggio deliberato dei fotografi carcerieri e quello sotterraneo che Moro ci indirizza attraverso lo
sguardo rivolto all'obiettivo (cfr. M. Belpoliti, Le foto di Moro, Nottetempo, Roma 2008).
333
Si veda A. Cappabianca, L’immagine estrema: cinema e pratiche della crudeltà, costa & nolan,
Milano 2005.
334
In tal senso per comprendere le connessioni iconografiche tra Mussolini e Maciste può essere utile
guardare la recente (2009) edizione video con allegato cartaceo del Maciste girato nel 1915 da V.
Dénizot e R.L. Borgnetto e restaurato nel 2006 dalla cineteca di Bologna.
335
Ci riferiamo, ad esempio, a quando G. Bush sceglie di fare un annuncio – relativamente alla guerra
che si combatteva della fine vittoriosa delle ostilità in Iraq (sic) – scendendo da un jet dopo essere
atterrato su una portaerei.
336
Senza dimenticare la Gerarchia simbolica (corpo con altri/corpo solo) o il fuggire dalle immagini
che ne mostrino quella che egli considera una carenza fisica come l’altezza. L’escamotage adottato
dal leader italiano è, come detto, di derivazione cinematografica e televisiva.
337
M.M. Gazzano, Le strategie della politica e quelle dell’arte: la “video arte” come crogiuolo critico dei
media contemporanei, testo della relazione esposta al XIV Convegno Internazionale di Studi
Cinematografici “Cinema e politica”, Roma 14-17 dicembre 2008, e di prossima pubblicazione su
«Bianco&Nero».
172
fanno riferimento a delle “semplici” sensazioni se non addirittura, per usare la
distinzione di Deleuze, al sensazionale338.
È complesso comprendere fino in fondo come si formi un’ideale339 e come
possa avvenire l’adesione da parte degli individui a quell’idea. Di certo, al di là della
conoscenza e competenza, un ruolo fondamentale è giocato dall’impulso - anche in
senso psicanalitico - di aderire a ciò che sollecita in noi delle istanze irrazionali e
inconsce e la figura dei leader, al di là del ricorso o meno a termini quali carisma,
gioca in tal senso un ruolo fondamentale.
Prendiamo ad esempio quanto detto da Elisabetta Pasini a proposito di Obama,
la quale parla di un’immagine carismatica per così dire contraddittoria, basata per
certi versi su una retorica piuttosto forte, quella del “Yes We Can” che crea
un’equivalenza tra la realtà dello schiavismo – le lotte intraprese dai neri
afroamericani per liberarsi dalla marginalità razziale – e la condizione dei recenti
immigrati alla ricerca di una nuova terra e di una prospettiva certa di vita. Una
retorica che fa, al pari di qualsiasi effetto di carisma, presagire la volontà di realizzare
progetti di grande portata, che affondano le radici in disegni che superano le
possibilità individuali per farsi destino comune. Nel “discorso” – anche visivo – di
Obama c’è il suo back-ground familiare: il suo corpo dalle origini “miste” e
multiculturali, la sua famiglia allargata, l’esotismo del suo luogo di nascita, la sua
educazione inglese. Un “carisma debole”, così lo definisce la Pasini
perché fluido, leggero, oscillante, che può essere fatto di grandi picchi ma anche di cadute improvvise;
un carisma che non impone una visione ma che indica una strada, che non esclude o separa ma che
mette insieme energie, collega, oltrepassa confini, e dà spazio potenzialmente anche ad altre
interpretazioni; un carisma che non si fonda sulla ossessione personale per il potere e sulla centralità
di un ego particolarmente ingombrante, ma insegue piuttosto una energia collettiva, un progetto, un
sogno, nel quale il personaggio può correre il rischio, alla fine, anche di perdersi
340
.
Cambia dunque la percezione del leader in un’epoca in cui i mezzi di
338
Si pensi all’immagine sanguinante di Berlusconi reiterata di continuo dopo il ferimento del
dicembre 2009. Ce ne sono stati di cambiamenti nel giornalismo televisivo dalla rovinosa caduta, del
tutto oscurata dalla Tv, del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi alla Scala di Milano nel
giugno del 1959 e le immagini, cinquant’anni dopo, del premier ferito sempre nella città meneghina!
339
Intendiamo “ideale” nel suo senso più ampio ossia qualsiasi cosa che sia in grado di suscitare, per
dirla in sintesi, attese, passioni e utopie.
340
E. Pasini, «Il Sole 24 Ore» del 06/06/2008.
173
comunicazione come You Tube, Wikipedia e più in generale i social networks sono in
grado di diffondere un’idea individuale traducendola in progetto collettivo. Ci troviamo
di fronte a continui slittamenti di paradigma sulla comunicazione del potere dovuta
anche ai profondi cambiamenti d’opinione che si operano nel corpo sociale. Dei
mutamenti che i leader stessi hanno difficoltà a gestire e che comportano una
rimodulazione continua degli obbiettivi. In tutto questo il controllo del corpo e della
sua immagine conferma la sua centralità in una società che fatica – non meno degli
stessi leader – a prendere le misure alla logica (anch’essa sempre sfuggente) del
funzionamento dei media.
174
IMMAGINI
175
Fig. 1
Fig. 2
Fig. 3
176
Fig. 4
Fig. 5
Fig. 6
Fig. 6
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Fig. 7
Fig. 8
Fig. 9
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Fig. 9
Fig. 11
Fig. 12
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Fig. 13
Fig. 14
Fig. 15
180
Fig. 16
Fig. 17
Fig. 18
181
Fig. 19
Fig. 20
Fig. 21
182
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