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In una notte di luna vuota

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In una notte di luna vuota
Indice
Linguaggio
7
Il diritto a una poetica
21
Metafore
29
Il congegno metaforico
39
Associazioni
53
Analogie
63
Rime, metriche e altre gabbie
67
Pensieri laterali
73
Pensiero laterale e pensiero dell’altro
89
Impertinenze
97
Girotondi ermeneutici (e impertinenti)
111
Impertinenze scientifiche
119
Metasemantica e altre impertinenze linguistiche
129
L’inferenza
135
Intertestualità
147
Il linguaggio delle immagini
157
Libri illustrati
169
Un pensiero che sa giocare
179
Bibliografia
185
Linguaggio
Linguaggio
Gallipoli, agosto, un’ora circa dopo il tramonto. Giacomo
aveva tre anni. Nel cielo c’era una enorme e sottilissima
falce di luna, così luminosa che pareva quasi che le due
punte si toccassero. Giacomo guardò il cielo, guardò me e
disse: «Guarda, Marco, C’è la luna vuota!».
Il linguaggio è ciò che permette di trasmettere, conservare
ed elaborare informazioni tramite segni e simboli e consente
ai soggetti di rappresentare e comunicare anche contenuti
riferibili ad altro da sé. Il linguaggio umano, a differenza di
quello animale, naturale e apparentemente incapace di evolversi in maniera significativa, è in massima parte appreso,
si evolve nel corso della vita dell’individuo e della specie e
può riferirsi a oggetti astratti mediante l’impiego di simboli
capaci di indicare non soltanto singole cose ma anche classi
di oggetti, cioè concetti.
Il fatto però che la possibilità di usare il linguaggio da
parte degli esseri umani sia il risultato di processi di apprendimento non significa che tutto quello che diciamo e
scriviamo lo abbiamo imparato. Possiamo anche inventare,
creare, improvvisare. Il modo migliore in cui i grandi possono insegnare il linguaggio ai piccoli è quello che permette
loro di apprendere come si fa a inventarlo.
Oggi è diffusa la convinzione secondo la quale la vita
umana si distingue da quella animale proprio per il linguaggio. Per questo l’essere umano viene definito animale
7
In una notte di luna vuota
simbolico, e c’è addirittura chi sostiene che il linguaggio sia
l’unico responsabile della costruzione della nostra immagine
della realtà1 e le parole credono di descrivere il mondo, ma
in realtà lo costruiscono, lo inventano.
Queste sono posizioni estreme, radicali, ma anche chi le
considera improbabili ed eccessive deve ammettere che il
linguaggio, strumento di comunicazione, rappresentazione
e pensiero, condiziona molto la conoscenza del mondo e di
se stessi. Chi ha a disposizione strumenti linguistici raffinati
e complessi pensa e immagina in modo diverso rispetto a chi
invece possiede apparati simbolici sommari e rudimentali, e
le persone linguisticamente più dotate godono di differenti
opportunità di relazione, di conoscenza e di esistenza rispetto a soggetti meno dotati.
È dunque evidente come il modo in cui il linguaggio viene
appreso e si evolve nei bambini determinerà largamente il
destino del loro pensiero e della loro esistenza.
Eppure queste affermazioni, quasi ovvie, non sono
universalmente condivise, o forse non ci si pensa abbastanza. Purtroppo non è infrequente trovare, persino nelle
aule dell’università, e in luoghi ufficialmente «colti», persone che affermano serenamente di non capire quel che
c’è scritto in un testo perché «è troppo difficile», e spesso
esibiscono la loro povertà lessicale, l’incapacità di consultare un dizionario, il perdersi nelle subordinazioni e nella
consecuzio temporum come se questa fosse una caratteristica legittima e positiva, perché, secondo loro e secondo
1
Fra le correnti di pensiero contemporaneo che sostengono la centralità del linguaggio nella costruzione della realtà ricordiamo il Panlogismo, il Logocentrismo
o Pansemiotismo, e il Costruttivismo radicale.
8
Linguaggio
molti la «realtà» sta altrove, e loro sono gente concreta,
«pragmatica».
Sarebbe ingiusto incolpare di questo stato di cose soltanto il dominio della tecnica, il culto del denaro e della produttività e del mercato. Troppo spesso nella scuola, che rimane
il primo luogo in cui viene consumata l’esperienza culturale
e sociale della condivisione e della partecipazione, la conquista (apprendimento) dei linguaggi e delle lingue non viene
vissuta come una conquista di libertà, di autoaffermazione,
come la scoperta del piacere di creare, conoscere e attingere
alle fonti della conoscenza, ma come una costrizione, un obbligo, una fatica imposta dall’alto della quale molti soggetti
in formazione non intravedono il senso. Come se la lingua
fosse soltanto una materia come le altre, non uno strumento
di pensiero e di condivisione dei pensieri, come se non riguardasse tutte le materie, le conoscenze, i saperi.
Chi, fin da piccolo, scopre invece che con il linguaggio si
può giocare, scoprire, conoscere e inventare, e saperlo usare
consente oltretutto di essere apprezzati e stimati, acquisterà
precocemente interesse e passione per esso non solo come
strumento utile, ma anche come oggetto fine a se stesso,
come occasione di appagamento di curiosità, di piacere, di
creazione, di poesia. Dal che consegue inevitabilmente che
fra le responsabilità più importanti di chi educa c’è senz’altro
l’iniziazione e la trasmissione di conoscenze e competenze di
carattere simbolico e linguistico. Questo non vale solamente
per gli insegnanti, ma per chiunque educa e istruisce. Perché
non c’è conoscenza che possa prescindere dalle parole, dalle
frasi e dai racconti che la rappresentano.
Il modo in cui il linguaggio delle parole viene insegnato
ai bambini, sia a scuola che nell’ambiente domestico, oscilla,
9
In una notte di luna vuota
Piccolo Plauto by M. Dallari, «Rivista Infanzia» (inedito).
10
Il congegno metaforico
Il congegno metaforico
Condensazione, spostamento e associazione sono tre
parole chiave per cercare di capire i meccanismi propri del
funzionamento del pensiero simbolico-metaforico. Termini,
questi, che più che dagli studiosi del linguaggio ci vengono
suggeriti da psicologi e psicoanalisti. Ma poco importa. Ciò
che questi concetti ci aiutano a capire è che la produzione
di una metafora ha bisogno di sfuggire a un’idea di pensiero
e di comunicazione di tipo esclusivamente lineare e consequenziale.
L’invenzione di una metafora presuppone un’interruzione
della continuità del pensiero e del discorso. C’è uno scarto,
un’interruzione della prevedibilità, così da produrre un’apparente incoerenza capace di suscitare un momento di stupore
e rivelarsi poi come un guizzo di intensità espressiva. È un
po’ come se guardassimo qualcuno che cammina mettendo
normalmente un passo dietro l’altro, poi, all’improvviso, costui accennasse un passo anomalo, facesse una piroetta, o
una capriola. Poi riprendesse a camminare normalmente.
E noi, ripensando a quella scena, potremmo accorgerci che
quell’apparente digressione dalla coerenza e dalla continuità
ha reso il suo percorso più significativo, persino più idoneo a
raggiungere la meta prescelta. Che non era soltanto quella di
raggiungere un punto di arrivo, ma di fare un percorso capace
anche di avere senso per se stesso. D’altra parte, se una cosa
del genere non fosse possibile non esisterebbe la danza.
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In una notte di luna vuota
Sigmund Freud ci ha spiegato come i meccanismi simbolico-metaforici dello spostamento e della condensazione
sono il motore che fa funzionare il complicato linguaggio
del sogno,1 quando varie catene associative, che dalla zona
profonda dell’inconscio vogliono emergere e galleggiare al
livello della coscienza, trovano il loro punto di intersezione
(condensazione) in un’immagine capace di rappresentare
tutto l’insieme dei problemi e degli argomenti che l’hanno
generata. E molte volte il significato di una rappresentazione
è trasferito su un singolo particolare di questa, su qualcosa
che a questa rappresentazione è legato o collegato.
La metafora ha sempre bisogno di un certo spazio di ambiguità, dev’essere interpretata, non decodificata, perché,
come ci suggerisce un altro psicoanalista, Jacques Lacan
(1974, p. 497): «la metafora si costituisce nel punto preciso
in cui il senso si produce nel non-senso».
Può succedere, per esempio, di desiderare di abbandonare la casa nella quale si vive, e questo è un desiderio che abita
la mente di molti adolescenti. Allora, magari, si sogna di
perdere la chiave di casa, che rappresenta, attraverso un processo di condensazione simbolica, la casa, tutto quello che
c’è dentro e tutto ciò che è affettivamente associabile a essa.
Oppure si può essere in conflitto con qualcuno e sognare che
accade qualcosa di sgradevole al suo cane, al suo cappello,
alla sua automobile, spostando l’immagine di quella persona
su un oggetto che le appartiene e che può metaforicamente
ricondurci a essa. Una metafora funziona quando il simbolo
1
I più conosciuti scritti di Freud sulla metafora e sull’interpretazione dei sogni sono:
Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio (1966a) e L’interpretazione dei
sogni (1966b).
40
Il congegno metaforico
utilizzato è associabile a ciò che, sia pure indirettamente e a
volte tortuosamente, si vuole indicare.
Una metafora, dunque, sostituisce un significato che
manca o che viene nascosto, poiché se fosse evidente renderebbe il messaggio inefficace, troppo banale o troppo inquietante. Quando diciamo che una persona «è mancata» o «non
c’è più», o che «ha finito di soffrire», usiamo una metafora
per dire, in maniera non troppo brutale, che è morta.
A volte la metafora può essere anche un po’ ipocrita, ma
anche in questo caso risponde a un’esigenza affettiva ed estetica che ha un suo fondamento antropologico e un suo orizzonte di senso. Poi ci sono metafore che sono tali dal punto
di vista formale anche se non provocano nessuna alterazione
emotiva in chi le legge o le ascolta: sono quelle che ormai
si sono trasformate in modi di dire, frasi fatte, costrutti o
parole usati per indicare qualcosa che nella lingua non ha
un termine specifico corrispondente: l’esempio più noto è
il «collo della bottiglia», costruzione metaforica entrata ormai nell’uso comune. La parte alta della bottiglia ormai la
chiamiamo tutti così e questo modo di dire non è neppure
più una metafora vera e propria, ha perduto ogni carattere
trasgressivo dal punto di vista linguistico, ed è diventato a
sua volta un termine canonico.
Queste metafore consolidate si chiamano catacresi,
e vengono utilizzate e riconosciute senza che il pensiero
simbolico-metaforico si attivi nell’emittente e nel ricevente.
Molte metafore, similitudini e modi indiretti di definire o
indicare qualcosa sono in realtà catacresi, perché ne riconosciamo immediatamente il significato senza bisogno di alcun
processo interpretativo.
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Rime, metriche e altre gabbie
Rime, metriche e altre gabbie
Ebbene sì, lo ammetto, sono un amante e un sostenitore della rima. La rima che Dante Alighieri, nel Convivio,
definisce: «quella concordanza che nell’ultima e penultima
sillaba far si suole», e più avanti, in senso più lato: «Tutto
quel parlare che in numeri e tempo regolato in rimate consonanze cade».
Dante e i suoi amici facevano un gioco che anch’io ho
avuto il piacere e la fortuna di praticare, in gioventù, nelle «osterie di fuori porta» di gucciniana memoria in quel
di Modena e Bologna: ci si trovava intorno a un tavolo fra
amici, con bottiglia di vino d’ordinanza, e ognuno doveva,
rispettando metrica e rima, aggiungere un verso a quello
declamato dal vicino. Il turpiloquio era tassativamente vietato: troppo facile fare le rime con le parolacce. Inutile dire
che chi sbagliava, incespicava o si bloccava, pagava da bere.
E devo dire che modestamente, grazie anche alla massiccia
influenza dei versi in rima baciata precocemente assimilati dalle tavole del Corriere dei piccoli diretto da Giovanni
Mosca (grande padre di figli degeneri), ho pagato poche
volte. Dante Alighieri, Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Guido Guinizzelli, fra giri di Chianti e fette di pane azimo col
lampredotto e la finocchiona, hanno costruito quel dolce stil
novo che faceva sì che Guittone d’Arezzo, forse escluso dalle
serate all’osteria per ragioni di età, carattere, o da problemi
di salute, commentasse quei versi guardando i ragazzacci
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In una notte di luna vuota
stilnovisti in cagnesco e brontolando: «Quant’è oscura vostra
parladura».
Al di là degli aneddoti e dei ricordi, penso davvero che i
dispositivi rappresentati dalle metriche e dalle rime siano una
risorsa importante per il pensiero e per la sua espressione,
perché rappresentano ciò che per un grafico è la gabbia.
Quando un grafico deve costruire una tavola composta
da scritti e immagini, o deve impaginare un libro o una rivista, per prima cosa crea la gabbia, cioè suddivide gli spazi
ancora vuoti decidendo se mettere lo scritto a tutta pagina,
o su due o tre colonne, dove collocare le immagini, titoli e
sottotitoli, didascalie, ecc. La gabbia, pagina per pagina, può
anche essere trasgredita, e chi non ha dimestichezza con il
lavoro grafico molte volte, non individua le caratteristiche e
i riferimenti della gabbia.
Ciò accade soprattutto quando il prodotto non è fortemente standardizzato dal punto di vista grafico, come un
libro scritto o una rivista scientifica, ma ha caratteristiche di
movimento, sorpresa e creatività, come un libro per bambini
o un depliant pubblicitario. Eppure la gabbia c’è, e il grafico
sa che solo facendo i conti con queste prescrizioni canoniche, che lui stesso si è dato, può costruire un prodotto in cui
l’eventuale trasgressione (per esempio la decisione per cui
in quella particolare pagina non si mette lo scritto su due
colonne) acquista carattere e valore di rottura creativa della
continuità e può essere riconosciuta come tale. Altrimenti
verrebbe percepita come disordine. La regola-gabbia impone
al grafico di svolgere quel difficilissimo compito che Albert
Camus (1998, p. 88), in una delle pagine dei suoi taccuini,
assegna a se stesso come scrittore: «andare fuori misura
nella misura».
68
Rime, metriche e altre gabbie
Rima e metrica costituiscono la gabbia formale di chi vuol
mettere un pensiero in versi. La ricerca della parola che fa
rima, la costruzione della frase secondo i limiti sillabici stabiliti da quella particolare scelta metrica impongono una
ricerca fonetica che arricchisce il lessico mentre fa scoprire
che non esiste la parola giusta ma ce ne sono tantissime, e
ciascuna di esse può essere sostituita con un sinonimo, una
perifrasi, una metafora.
Ci sono anche i rimari, dizionari delle rime con cui si
possono fare giochi bellissimi e scrivere con facilità qualche
verso monorima, una di quelle composizioni poetiche che
ripetono sempre la stessa rima alla fine di ogni verso.
Io sono affezionatissimo al Rimario letterario della lingua italiana curato da Giovanni Mongelli e pubblicato dalla casa editrice Hoepli di Milano, giunto ormai alla quarta
edizione.
Lo apro a caso, trovo tutte le parole che hanno il suffisso
-eno e, in un attimo, ecco una stralunata e fantascientifica
monorima:
C’era un alieno
seduto sul fieno
di un terrapieno
che malgrado un forte dolore al duodeno
scriveva in numeri seno e coseno
sopra un taccuino di molibdeno.
Niente di più e niente di meno.
Oppure col suffisso -ea:
O mia dolce Dulcinea
bella come un’orchidea,
pagherei una ghinea
69
Impertinenze
Impertinenze
Pertinenente è ciò che «appartiene a», in senso figurato
e non, che riguarda un determinato argomento, che «spetta
a», e deriva dal latino pertinere. La pertinenza riguarda due
ambiti, quello dell’utilità e quello del senso comune. Qualcosa può essere più o meno pertinente, cioè utile, adeguato,
adatto, a risolvere un problema, a svolgere un compito, a
riparare un guasto. È un bullone del calibro giusto rispetto
alla vite, o la soluzione adatta a risolvere un problema ma
anche la voce cantante che parte con il tempo e la tonalità
«giusti» sull’accordo dell’orchestra.
Il concetto di pertinenza non riguarda però solo il fare
ma anche il pensare e il dire il proprio pensiero. Spesso la
coppia pertinente-impertinente corrisponde a quella, tipica
del pensiero razionalista e molto diffusa (anche a sproposito)
in ambiente scolastico, consistente nella contrapposizione
dei termini giusto e sbagliato.
Spesso viene ritenuto giusto e pertinente non solo il termine, la frase o l’idea che, rispetto a un’ipotesi, a un quesito, a un problema posto, «funziona» e risulta adeguata, ma
anche quella che sembra giusta soltanto perché è scontata.
Pertinenti sono le due parole di circostanza, le frasi consolatorie, la massima lapidaria detta a commento di qualcosa
che fa sì che tutti facciano di sì con il capo; basta non tradire
l’attesa di rassicurante pacificazione che tutti si attendono.
Viene chiesto a qualcuno di fare un’orazione funebre? State
97
In una notte di luna vuota
certi che non dirà nulla che gli astanti non sappiano già, e
tacerà tutto ciò che magari molti sanno ma potrebbe turbare
l’assenso consolatorio rintracciabile attorno alla rassicurante
funzione della banalità.
Nei testi delle orazioni funebri si trovano concetti che nella comunicazione quotidiana sono irrintracciabili: probità,
devozione, rettitudine, oblatività, ecc. E c’è l’assolutizzazione
di caratteristiche per loro natura relative e limitate nel tempo: la maternità, la paternità… E che dire dei proverbi che,
come le barzellette già sentite cento volte, qualcuno continua
ad affabulare, girando poi lo sguardo in cerca di sorridente assenso? Luca di Montezemolo trova in terra un fascio
di banconote? Qualche ateneo dà una laurea ad honorem a
Rita Levi Montalcini? Piove sul bagnato! Un parlamentare
inquisito viene fotografato sullo yacht di un capomafia? Un
famoso calciatore romano fa visita a un istituto per afasici?
Dio li fa e poi li accompagna! Eccetera. Ma se uno stile pertinente di pensiero e di comunicazione si avvale soprattutto
dei meccanismi che Edward De Bono ha definito pensiero
verticale, va da sé che il terreno fertile del pensiero laterale
risulta allora essere l’impertinenza.
Torniamo un momento alla coppia concettuale giustosbagliato e all’idea di errore che si porta inevitabilmente appresso: non è infrequente che ciò che per qualcuno è errore,
per altri sia provocazione, trasgressione, sperimentazione.
L’errore, concettualmente e pragmaticamente, è definito
da un margine, un limite, ma ogni confine è dotato anche di
una zona franca.
Michel Foucault ha sottolineato come ogni gesto trasgressivo sia ambivalentemente funzionale alla valorizzazione del
concetto di limite.
98
Impertinenze
Limite e trasgressione devono l’uno all’altra la densità del
loro essere. Non c’è limite al di fuori del gesto che l’attraversa, non c’è gesto se non nell’attraversamento del limite.
La trasgressione non sta dunque al limite come il bianco
sta al nero, come l’escluso all’incluso, come il permesso al
proibito; ciò verso cui la trasgressione si scatena è il limite
che incatena. La trasgressione è la glorificazione del limite.
(Foucault, 1969, pp. 58-59)
Limite, confine, margine, sono parole che definiscono
un’idea, ancor prima di applicarsi a una situazione concreta. Un’idea che ricongiunge la parola errore a quell’idea di
errare e di erranza da cui trae origine: l’errante è colui che
sbaglia, ma anche che vaga, cerca, viaggia, sia in senso reale
che figurato. L’idea del confine occupa uno spazio semantico
sconfinato, è una metafora in continuo movimento.
Per la personalità trasgressiva, o anche solo critica e curiosa, individuare il confine è necessario, com’è necessario
per il giocatore conoscere e accettare le regole del gioco. Perché il confine è il luogo della sfida, la soglia lungo la quale
(non necessariamente oltre la quale) vivere l’esperienza erratica dell’avventura.
Non si tratta dunque, nell’affermare la grande importanza
per l’uomo di essere aperto e disponibile all’avventura intesa
come «rottura» di un quotidiano che rischierebbe di mortificarsi nell’abitudinario e quindi in una passivizzante routine,
di rifiutare il quotidiano quasi che esso fosse sinonimo di una
inevitabile negatività esistenziale. Si tratta al contrario di sapersi difendere dai rischi che essa comporta quando viene in
un certo senso assolutizzata o quando divenga totalizzante;
ovvero si tratta di ricorrere ad alcune esperienze di «rottura»
che, come altrettanti scossoni esistenziali, ne interrompano
la pericolosa linearità. (Foucault, 1969, pp. 58-59)
99
In una notte di luna vuota
L’architettura, arte e scienza al contempo, si presta in
maniera particolare a riflettere su questi temi. L’architetto
bravo e creativo vìola e produce canoni a ritmo vertiginoso.
Basta osservare il Guggenheim Museum di Bilbao, creato da
Frank Owen Gehry, per rendersene conto. Una vertiginosa
trasgressione dei canoni e delle consuetudini prospettiche
e volumetriche ha prodotto stupore e nuovo senso della
bellezza, epigoni entusiasti quanto modesti o addirittura
patetici.
D’altra parte il necessario rigore del calcolo, l’esigenza
della funzionalità, la scelta dei materiali, il richiamo della
bellezza e delle contraddizioni che questa categoria labile e
irrinunciabile si porta appresso, convivono nella pratica di
progettazioni e di produzione di edifici e spazi che attraversiamo e viviamo senza renderci conto, spesso, di come non
solo le grandi opere, ma anche un restauro metropolitano,
la facciata di una banca, un centro commerciale, il decoro
di un portale o le panchine poste in un parco contengano
provocazioni, violazioni, sperimentazioni, errori, orrori che
il tempo redime, stupori che scivolano nell’effimero o divengono abitudine, violazioni che generano canone e norma.
È proprio un filosofo-architetto, Piero Zanini, a proporci
di trasformare l’idea di confine, inteso solitamente come spazio che separa due territori differenti, in un «altro spazio»,
capace di ridurre la sua rigidità ideale e il suo potere storico
e politico.
Andare verso il margine, vivere la liminarità, stare sul confine, richiede a ciascuno di noi la disponibilità e la volontà di
compiere un’esperienza di apprendimento oltre le abitudini,
al di là delle convenzioni e dei preconcetti che ciascuno di
noi può avere. Proprio per il suo approssimarsi a un limite,
100
Impertinenze
anche morale, questa esperienza potrà rivelarsi allo stesso
tempo estremamente violenta, paradossale, emozionante.
Provare il confine e le sue contraddizioni, ma anche la sua
sconfinata vivacità, vuol dire esercitarsi nella pratica della
tolleranza, della convivenza, dello stare fianco a fianco malgrado le rispettive particolarità. Vuol dire anche cercare di
avere uno sguardo più allargato sulle cose, in grado di comprendere aspetti diversi (anche se molto lontani fra loro)
di una stessa realtà come parti di una stessa complessità.
(Zanini, 1997, p. 12)
L’impertinenza è una cosa seria: non è soltanto sinonimo di provocazione o birichinata, ma può essere scoperta e
utilizzata in una sua precisa accezione pedagogica, epistemologica, semiotica e linguistica. Ciascuno di noi può essere
considerato impertinente ogni volta che «tradisce» la norma
e la normalità, intesa sia come applicazione delle consuetudini e delle norme, sia come assunzione di comportamenti o
atteggiamenti che escono dalla prevedibilità.
Luis Prieto, semiologo spagnolo, definisce con il termine pertinenza il legame culturale che c’è tra un oggetto, il
suo nome, la sua funzione convenzionale (Prieto, 1964).
Davanti a un lapis posso indicarlo e dire: «Questo oggetto
si chiama matita, serve per scrivere, quel frutto si chiama
ciliegia, è buono da mangiare e serve a fare una confettura.
Il congegno della pertinenza, che Prieto esamina dal punto
di vista semiologico, è spesso anche la procedura attraverso
la quale si insegna ai bambini il linguaggio delle parole. Gli
adulti educatori tendono, perlopiù, a insegnare ai bambini
parole corrispondenti a oggetti e comportamenti dei quali
vengono spiegate caratteristiche e funzioni convenzionali.
Il gioco dell’impertinenza è qualsiasi contro-procedura utile
101
In una notte di luna vuota
a contrastare l’eccesso di denotazione, di conformismo, di
stereotipo.
Certamente erano grandi impertinenti gli artisti appartenenti al dadaismo, che fecero grande uso del collage, una
tecnica che consiste nel comporre opere bidimensionali utilizzando ritagli di giornale, immagini e altri reperti e
frammenti cartacei che nel contesto originale avevano un
determinato significato e una determinata pertinenza ma
poi, nel nuovo contesto è in relazione con gli altri materiali
visivi, cambiano completamente senso e valore.
Grandi impertinenti sono stati senz’altro Marcel Duchamp, autore della famosa Ruota da bicicletta fissata a uno
sgabello così che entrambi gli oggetti perdono la possibilità
di essere utilizzati e guardati in modo pertinente e convenzionale, e Man Ray, con il suo Cadeau, un ferro da stiro
Man Ray, Cadeau (copia).
102
Impertinenze
Marcel Duchamp, Ruota
da bicicletta (copia).
sul quale l’artista incollò una fila di chiodi, così da renderlo inutile per il suo uso canonico trasformandolo invece in
qualcosa di originale, curioso, inutile come ogni opera d’arte,
e decisamente impertinente.
Fanno dell’impertinenza uno degli aspetti più visibili della loro cifra poetica gli artisti appartenenti al gruppo bolognese Mistiche Nutelle. Questi artisti, fra Dadaismo, Citazionismo, Pop Art, grande abilità tecnica e grafica e altrettanto
103
In una notte di luna vuota
cose la cremina saprebbe di cipolla». Esempio di dettagliata e ineccepibile pertinenza, combinata a una piccola ma
sacrosanta lezione di cucina. Perché è chiaro che una crema
pasticcera all’aroma di cipolla non sarebbe un’impertinenza
ma una schifezza.
Se però prendo a prestito un poco di pensiero lateral-dadaista e assemblo due cucchiai ricombinandoli in modo non
convenzionale ottengo un paio di occhiali «particolari».
Occhiali per chi di quella cosa lì la sa fare a occhi chiusi.
E non è tutto: con un cucchiaio da cucina, una molla,
qualche pezzo di legno e una molletta da bucato posso costruire persino una catapulta.
112
Girotondi ermeneutici (e impertinenti)
Catapulta sparanoci.
Se poi aggiungo al mio repertorio di cucchiai, legno,
chiodi e colla vinilica qualche turacciolo di sughero, posso costruire e varare nel lavello della cucina un suggestivo
pattino, che sarà senz’altro molto apprezzato sulla riviera
romagnola.
Pattino da lavandino.
113
Libri illustrati
Libri illustrati
I libri illustrati possono essere considerati una delle più
interessanti risorse di relazione educativa. L’idea che la pagina virtuale del computer possa sostituire un testo illustrato
è, a tutt’oggi, peregrina. Il testo audiovisivo, a sua volta ricchissimo di qualità e potenzialità formative, non è per ora in
grado di assolvere alle funzioni simboliche, rituali, educative
e culturali alle quali è vocato il testo cartaceo. Non fosse altro
per la capacità della carta stampata di permanere, sia pure
usurandosi e assumendo su di sé segni di invecchiamento, di
rimanere presente a lungo nel tempo e nello spazio.
Attraverso l’uso del libro illustrato, a patto che sia di
buona qualità, si può dare vita a un’incredibile quantità di
passaggi di consegne, di conoscenze e di competenze, oltre
a permettere veri e propri riti di passaggio, poiché inizialmente il libro è utilizzato da bambini e adulti insieme, poi
diviene un oggetto che i piccoli imparano a usare anche da
soli, il che consente loro di trovare, già nei primi anni di
vita, informazioni e racconti che essi possono mostrare e
ri-raccontare agli adulti.
Il contenuto del libro apprezzato, che ha interessato ed
emozionato un bambino, diviene per lui patrimonio identitario e risorsa intertestuale. Patrimonio identitario perché
diviene suo, e grazie alla capacità di citarlo e ri-raccontarlo
egli presenta se stesso; risorsa intestestuale perché chi conosce bene un testo lo usa come espediente comparativo e
169
In una notte di luna vuota
associativo di comprensione e di giudizio nei confronti di
altri testi o di fenomeni extratestuali a esso riconducibili.
A differenza di quanto può accadere per il computer
(o anche con le cose ascoltate dalla voce di qualcuno) il
testo stampato resta però fuori dalla mente e dal corpo
del ricevente, come traccia visibile di memoria affettiva e
cognitiva dei dati appresi. La possibilità di ripescare, rievocare, mostrare ad altri le fonti, che sono contemporaneamente frammenti di identità e di conoscenza, di richiamare
all’attenzione nostra e altrui le storie che abbiamo accolto
ed elaborato, magari proponendone una nuova interpretazione, è possibile solamente pescando in quel deposito
dell’identità sito fuori dal nostro corpo che è lo scaffale
dei libri.
Questa operazione non vale solo da adulti ma anche da
piccoli e da molto piccoli: un bambino che va con fierezza
a pescare nella sua stanza un libro che conosce per «far vedere» qualcosa all’adulto o a un amico, mette in scena un
procedimento di costruzione della propria identità, di rinforzo linguistico e cognitivo, costruisce e valorizza modalità
di relazione interpersonale, pratica un rituale difficilmente
sostituibile con qualcos’altro, o con qualche altra procedura
relazionale. E riesce difficile, almeno per ora, pensare alla
crescita di competenze e abilità relative all’uso dei supporti
informatici e di rete, capace di esistere e di evolversi in maniera complessa senza la base cognitiva e simbolica consistente nella relazione iniziatica con il testo cartaceo.
L’artista e illustratrice Chiara Carrer (1999, p. 18) ci fa
notare come il libro illustrato sia composto da cinque codici
interagenti, uno dei quali è l’illustrazione. Essi sono:
170
Libri illustrati
1. il codice iconico (illustrazioni);
2.il codice verbale (testo);
3.il codice grafico della composizione della pagina e del rapporto tra i codici;
4.il codice della confezione, dei materiali, della forma esterna, della copertina, della legatura;
5.il codice del mediatore e della modalità con cui avviene la
lettura.
Chiara Carrer,
illustrazioni
del libro La
piccola Anna
e il piccolo
Hans, Bologna,
Giannino
Stoppani,
2005.
171
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