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Esperimenti “Classici” in Fisica Moderna

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Esperimenti “Classici” in Fisica Moderna
Esperimenti “Classici” in
Fisica Moderna
Università degli Studi Dell'Insubria
Esperimenti “Classici” in
Fisica Moderna
Ricardo Gabriel Berlasso
Indice
Introduzione......................................................................................................1
Ringraziamenti.................................................................................................5
Misura della velocità della luce.....................................................................7
L'esperimento............................................................................................12
Procedura sperimentale.....................................................................14
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone..................................17
L'esperimento............................................................................................19
L'apparecchiatura...............................................................................20
Procedura sperimentale.....................................................................22
Il calcolo del rapporto carica/massa................................................24
Biografia....................................................................................................27
Corpo nero.......................................................................................................29
Planck e i “quanti”...................................................................................32
L'esperimento............................................................................................33
La lunghezza d'onda..........................................................................35
Calcolo della temperatura della lampada......................................36
L'apparecchiatura...............................................................................37
Calibrazione........................................................................................39
Misura..................................................................................................41
Biografia....................................................................................................44
Effetto fotoelettrico........................................................................................45
Einstein e i “quanti”.................................................................................46
L'esperimento............................................................................................47
Biografia....................................................................................................50
Diffrazione di elettroni.................................................................................51
i
Introduzione............................................................................................51
L'esperimento.........................................................................................53
Misura della distanza tra gli atomi...............................................56
Biografie..................................................................................................59
Spettri atomici..............................................................................................61
Introduzione............................................................................................62
L'esperimento.........................................................................................64
Biografie..................................................................................................67
Esperienza di Franck-Hertz.......................................................................69
Introduzione............................................................................................69
L'esperimento.........................................................................................71
Biografie..................................................................................................75
Effetto Zeeman.............................................................................................77
I livelli atomici.......................................................................................78
Le regole di selezione......................................................................83
L'esperimento.........................................................................................84
Biografia..................................................................................................90
Misura della costante di Planck................................................................91
Introduzione............................................................................................91
Semiconduttori ................................................................................92
Semiconduttori “drogati”, giunzioni e diodi...............................95
LED.....................................................................................................98
L'esperimento.......................................................................................100
Bibliografia.................................................................................................103
ii
Introduzione
Il passaggio dalla cosiddetta meccanica classica (cioè da una visione di
un universo continuo e prevedibile) alla meccanica quantistica (dove
tutto si produce “a salti” e si può soltanto parlare di probabilità) è
stato un processo lungo che ha richiesto l'intervento di numerose
menti brillanti che sapessero guardare aldilà delle apparenze.
Attualmente noi siamo abituati a sentir parlare di atomi, fotoni, anche
di “quanti”, nonostante sia passato appena un secolo da quando il (per
noi) semplice concetto di una materia formata da atomi e molecole fu
universalmente accettato. Infatti, uno dei lavori che resero famoso
Albert Einstein insieme alla sua teoria della relatività e all'effetto
fotoelettrico (di cui parleremo più avanti) fu la sua descrizione del
“moto browniano”, che si basava appunto sull'idea che la materia non
fosse continua.
E stiamo parlando del 1905...
In questo manuale saranno presentati alcuni degli esperimenti che si
sono susseguiti nella lunga strada verso la fisica moderna, e verrà
descritto come riprodurli con materiale di laboratorio. Ogni
esperimento è preceduto da una introduzione con le basi teoriche e
con alcuni dettagli storici. Sono stati incluse anche alcune indicazioni
sulla vita dei personaggi responsabili di queste scoperte.
L'ordine nel quale gli esperimenti sono presentati non rispetta la
sequenza temporale: tutte queste scoperte furono fatte in un periodo
1
2
Introduzione
relativamente breve mentre la loro elaborazione teorica spesso è
arrivata parecchi anni dopo. Per esempio, l'effetto Zeeman fu scoperto
nel 1896, ma la sua spiegazione ha dovuto aspettare concetti che si
sarebbero sviluppati molti anni dopo e pertanto in questo manuale
viene descritto come uno degli ultimi esperimenti.
Questa “raccolta di esperimenti” inizia con il meno “moderno” di tutti:
la misura della velocità della luce. Nonostante l'uso di un laser, questo
esperimento può essere realizzato e capito tramite concetti classici.
L'averlo inserito tra gli esperimenti che abbiamo chiamato moderni è
merito del fatto che il valore di questa costante nel vuoto non dipende
dalle condizioni nelle quali è misurata: in altre parole, ci troviamo di
fronte alla base della teoria della relatività.
L'esperimento successivo è la misura del rapporto carica-massa per
l'elettrone, il primo passo verso la fisica atomica.
La radiazione del corpo nero e l'effetto fotoelettrico ci dimostrano
come fosse necessario considerare la radiazione elettromagnetica, che
dai tempi di Maxwell (1831-1879) si pensava fosse un fenomeno
ondulatorio, come costituita da un insieme di particelle; la diffrazione
di elettroni a sua volta dimostra come quelle che crediamo essere
particelle abbiano in realtà le caratteristiche di un'onda.
Gli spettri atomici sono un altro esempio di esperienze che hanno
dovuto attendere per ricevere una spiegazione teorica: l'esperienza di
Franck-Hertz ci permetterà di toccare anche questo campo.
Il libro si chiude con due aspetti noti sin dall'inizio della storia della
meccanica quantistica: l'effetto Zeeman (a cui abbiamo già accennato)
e la misura della costante di Planck h. La costante di Planck ha
l'onore di chiudere questo manuale in quanto il metodo che noi
useremo per misurarla, per quanto semplice nella pratica, ha bisogno
di concetti presi in prestito dalla fisica dello stato solido.
In tutto il manuale si è cercato di dare più importanza ai concetti fisici
che a formule e derivazioni, che sono presenti solo quando
strettamente necessarie per l'esperimento.
Introduzione
3
Quindi mettiamoci al lavoro!
Buon divertimento!
Como, Ottobre 2007
Ringraziamenti
Prima di tutto, vorrei ringraziare l'Università degli Studi dell'Insubria
che mi ha dato l'opportunità di preparare questo materiale didattico:
non dobbiamo dimenticare che la scienza senza la comunicazione
nulla sarebbe.
Nel processo di composizione di questo testo (come in tutto il resto), è
stato di fondamentale importanza l'aiuto della mia compagna di vita,
Marina Marta Iglesias, che ha letto e commentato ogni parola di ogni
revisione con una cura eccezionale.
Uno speciale ringraziamento per il dottor Daniele Faccio e le
dottoresse Chiara Cappellini e Michela Prest per il loro accurato
lavoro di lettura, “caccia di errori” e dettagliati commenti: è soltanto
mia la responsabilità per qualsiasi errore che sia rimasto.
5
Misura della velocità della
luce
La velocità della luce è stato argomento di grande dibattito nella
storia della scienza.
Empedocle sosteneva che la luce fosse un “qualcosa” in moto, che
quindi richiedeva tempo per il suo viaggio. Aristotele dal canto suo
diceva che “la luce è dovuta alla presenza di qualcosa, però non è
moto”.
Un'antica teoria della visione sosteneva che la luce fosse emessa dagli
occhi, invece di entrarne provenendo da una sorgente. Erone di
Alessandria usò quest'idea per argomentare che la velocità della luce
doveva essere infinita: gli oggetti lontani come le stelle apparivano
appena si aprivano gli occhi.
Da quei tempi, diversi filosofi hanno sostenuto entrambe le posizioni
fino ai primi tentativi (nel Seicento) di misurare tale velocità. Galileo
fu uno dei primi a proporre un esperimento con due osservatori
separati da una grande distanza, però all'epoca non c'erano strumenti
abbastanza precisi per misurare una differenza.
La prima misura quantitativa della velocità della luce è del 1676. Ole
Rømer studiava il moto di una delle lune di Giove, Io, e si rese conto
di una “irregolarità troppo regolare”. I tempi nei quali Io veniva
nascosta alla Terra da Giove si susseguivano in modo molto regolare
7
8
Misura della velocità della luce
(ogni 42.5 ore) quando la Terra si trovava nel suo punto
di massima vicinanza a Giove (H, nel disegno originale
di Rømer riportato in figura). Usando queste misure
per fare una predizione dell'eclissi successiva, Rømer
si rese conto che, man mano che la Terra e Giove si
allontanavano (L e K) si produceva un ritardo, il
quale era massimo nelle condizioni di massima
separazione tra i due pianeti (E) e diminuiva
progressivamente quando si avvicinavano
nuovamente (F e G), fino a coincidere col valore
previsto quando entrambi pianeti erano ancora una
volta alla distanza minima.
Rømer concluse che quel ritardo era dovuto al tempo in più di cui
aveva bisogno la luce per percorrere la maggiore distanza tra la Terra
e Giove, distanza uguale al diametro dell'orbita della Terra quando il
ritardo era massimo. Rømer misurò questo ritardo massimo ottenendo
un valore di circa 22 minuti (il valore oggi accettato è di 16 minuti e
36 secondi), e dato che il valore dell'unità astronomica (una unità
astronomica è uguale al raggio dell'orbita della Terra) era stimato
all'epoca intorno ai 146.5 milioni di chilometri (il valore reale è di
circa 150 milioni di chilometri), calcolò un valore per la velocità di
222000 chilometri al secondo. Dato che il valore atteso (come oggi lo
conosciamo) è di 299792.458 chilometri al secondo, Rømer effettuò
una misura di solo (pensate al periodo!) il 26% inferiore al valore
atteso.
Nel 1728 James Bradley propose un'altra misura astronomica. Bradley
calcolò che, a causa del moto della Terra nella sua orbita, la luce delle
stelle doveva arrivare con un piccolo angolo, il quale dipendeva della
direzione nella quale la Terra si muoveva. Misurando l'angolo di una
stella lungo tutto il corso dell'anno (e con diversi ragionamenti
matematici), riuscì a calcolare una velocità della luce di circa 298000
chilometri al secondo, valore molto simile a quello atteso.
Il primo esperimento “terrestre” ad avere successo fu quello di
Misura della velocità della luce
9
Hippolyte Fizeau nel 1849. L'esperimento di Fizeau era
concettualmente molto simile ad alcune proposte precedenti, come
quella di Galileo: un fascio di luce veniva diretto verso uno specchio a
grande distanza facendolo passare (sia all'andata che al ritorno)
attraverso i denti di un ingranaggio rotante. La luce che passava
all'andata poteva trovarsi di fronte a un dente al ritorno a seconda del
tempo del percorso e della velocità dell'ingranaggio. Regolando perciò
la velocità di rotazione in modo tale che il fascio non fosse bloccato, si
poteva calcolare il tempo necessario alla luce per andare e tornare, e
quindi anche la sua velocità. Fizau ottenne una velocità di 313000
chilometri al secondo. Il suo metodo venne successivamente
migliorato da Marie Alfred Cornu (1872) e Joseph Perrotin (1900).
Leon Foucault migliorò il metodo di Fizeau sostituendo l'ingranaggio
con uno specchio rotante, ottenendo nel 1862 il valore di 298000
chilometri al secondo in aria.1 Il suo metodo fu utilizzato da Simon
Newcomb e Albert A. Michelson (anche lui rivestì un ruolo
importante per la nascita della relatività). Il sistema di Michelson (del
quale noi useremo una piccola variazione) è presentato in Figura 1.
La sorgente luminosa S produce attraverso la lente L, la cui distanza
focale è f, passando per lo specchio N, un'immagine S' su uno specchio
piano fisso R. La distanza tra S e L (considerando N) è uguale a quella
tra L e R, ed è uguale a due volte la distanza focale della lente L.2
1 Riuscì anche a misurare la velocità in acqua, dimostrando che era minore
di quella in aria, come previsto dalla teoria ondulatoria.
2 In questo modo la distanza tra l'oggetto S e l'immagine S' è minima, in
modo di ridurre al massimo l'ingombro del dispositivo.
10
Misura della velocità della luce
2·f – a
Schermo
ω
N
S
P
Specchio
rotante
a
L
Specchio
fisso
2 ·f
S'
R
Figura 1: Il dispositivo di Michelson.
Se lo specchio N rimanesse fisso, la luce rifarebbe all'indietro lo stesso
percorso dell'andata; dati che lo specchio N ruota con una velocità
angolare ω si sarà spostato di un angolo ω·Δt nel tempo Δt impiegato
dalla luce per andare a R e ritornare. Se indichiamo con c il valore
assoluto della velocità della luce, questo tempo sarà
t =
2 a4 f
c
(1)
Misura della velocità della luce
11
Trovando lo specchio in un altra posizione, il fascio che ritorna verrà
deviato, rispetto alla linea che unisce la sorgente S con lo specchio N,
di due volte l'angolo ω·Δt. Ne risulta che la luce al ritorno si sposterà
rispetto a S di una quantità δ pari a (stiamo considerando angoli
piccoli, in modo tale che la tangente dell'angolo sia
approssimativamente uguale all'angolo):
 =
4
 4 f 2−a 2 
c
(2)
Perciò misurando δ si può ottenere il valore di c.
Dobbiamo tener presente gli ordini di grandezza delle distanze di cui
stiamo parlando: se ω ha un valore di circa 1000 radianti al secondo
(approssimativamente 9550 giri al minuto), f di 5 metri ed a di 1
metro, δ sarà di circa 1.3 millimetri; con spostamenti così piccoli, è
difficile distinguere la sorgente dall'immagine che si forma al ritorno.
In Figura 1 è disegnata una riga a 45º indicata con P: si tratta di una
lastra di vetro che si usa per semplificare l'osservazione. Deviando
una parte della luce che ritorna su uno schermo, è possibile vedere di
quanto si sposta il fascio di ritorno rispetto alla sua posizione quando
lo specchio è fermo. In altre parole, con lo specchio rotante fermo e il
tutto allineato in modo tale che il fascio ritorni esattamente per la
stessa strada di andata, si vedrà un punto sullo schermo che poi si
sposta non appena lo specchio comincia a girare: come si vede in
Figura 2, misurando lo spostamento sullo schermo si ottiene il valore
δ.3
3 Dato che gli angoli in gioco sono così piccoli (meno di un centesimo di
grado), si può considerare che sulla lastra i fasci di ritorno con specchio
fermo e specchio rotante siano paralleli (altrimenti la distanza tra i punti
non sarebbe esattamente uguale a δ).
12
Misura della velocità della luce
δ
Schermo
Fascio senza
deviare
(specchio fermo)
Fascio
deviato
P
δ
S
Figura 2: Misura dello spostamento del fascio di ritorno.
Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, i progressi tecnologici
hanno permesso una misura più precisa della velocità della luce che
venne standardizzata soltanto nel 1983, durante la 17 th Conférence
Générale des Poids et Mesures. In questa stessa conferenza venne
standardizzato anche il valore del metro usando proprio la velocità
della luce come riferimento.
L'esperimento
L'esperimento replica fondamentalmente
modificato da Michelson.
l'apparato
di Fizeau
Come si vede in Figura 3, è stato aggiunto uno specchio nel punto O
in modo tale da rendere il setup più compatto. Le distanze indicate
sono tutte espresse in unità di distanza focale della lente. In questa
configurazione si ottiene che a = f; pertanto, considerando
l'espressione 2 risulta
c =
12  f 2

(3)
Misura della velocità della luce
13
f
Schermo
N
Laser
P
1
2 f
Fotodiodo
f
L
O
Oscilloscopio
R
3 f
2 S'
Figura 3: Schema del dispositivo sperimentale.
Importante!!! Grazie allo schema in Figura 3 si ottiene
un'espressione compatta per il valore di c; il setup
sperimentale però non è facile da realizzare. Se si
modificano le distanze tra gli oggetti, la formula per
calcolare c deve essere rivista!
In generale, se indichiamo con D la distanza N-S'
(passando per O), sarà  t = 2cD , e se L è la distanza tra
4D L
il laser e N, risulterà c =  .
14
Misura della velocità della luce
Le distanze devono essere misurate nel modo più accurato
possibile!
Altra considerazione sul montaggio: tanto l'inclinazione
iniziale di N quanto l'orientazione di O non sono
importanti, dipendendo soltanto delle vostre limitazioni di
spazio.
La variazione più importante rispetto agli esperimenti di Fizeau e
Michelson è l'utilizzo del laser al posto della lampada incandescente S:
essendo una sorgente molto brillante, semplifica enormemente la
misura dello spostamento delle “macchie” sullo schermo.
Procedura sperimentale
Attenzione! Anche se di bassa potenza, la luce emessa dal
laser è altamente “brillante”: si deve fare attenzione ad
evitare riflessi non desiderati che possano arrivare agli
occhi. Si devono utilizzare occhiali protettivi ed evitare di
indossare anelli, orologi o qualsiasi cosa che possa dare
una riflessione non controllata.
Lo specchio rotante è controllato da un potenziometro. Il fotodiodo e
l'oscilloscopio in Figura 3 servono a misurare la frequenza di
rotazione dello specchio. Il fotodiodo deve essere posto sul percorso
del fascio in uscita: la frequenza di rotazione viene ricavata dal
segnale alternato osservato sull'oscilloscopio.
Notate che lo specchio ha due facce riflettenti, e pertanto ci sarà
segnale due volte per ogni suo giro: la frequenza ω “vera” sarà
pertanto la metà di quella misurata sull'oscilloscopio!
Quando il motore è fermo, si può controllare la direzione dello
specchio rotante con un piccolo cacciavite che accompagna il motore,
il quale torna utile anche per trovare l'allineamento migliore.
Misura della velocità della luce
15
Attenzione!!! Non lasciare il cacciavite inserito quando si
fa partire il motore!!!
Invece di segnalare i punti di ritorno a
specchio fermo e a specchio rotante per
misurare la loro distanza, lo schermo
che si utilizza in quest'esperienza ha
una riga di riferimento e viene montato
su di una vite micrometrica graduata:
centrando il fascio a specchio fermo con
la riga di riferimento, basta misurare di
quanto si deve spostare lo schermo
quando lo specchio sta girando.
Per tenere sotto controllo il sistema,
conviene che la distanza tra lo schermo
e la lastra di vetro P sia la stessa che tra
vetro e laser.
Figura 4: La misura dello
spostamento.
Va anche tenuto in considerazione che
la lastra di vetro P non produce una
riflessione ma due, come si vede in Figura 5: essendo la lamina a facce
parallele, ci sarà una riflessione per ogni sua faccia. L'operatore che
misura lo spostamento del fascio
deve scegliere quale delle due usare
come riferimento.
Due considerazioni anche sul motore
dello specchio rotante: soprattutto a
basse frequenze, il motore non è
stabile e pertanto è necessario Figura 5: Le due riflessioni sul
misurare ripetutamente la frequenza vetro.
sull'oscilloscopio effettuando una
media; durante l'operazione il motore vibra e se non è ben fissato al
tavolo si sposta con il tempo, richiedendo di ripetere l'allineamento
16
Misura della velocità della luce
più volte.
Un suggerimento: ripetete la misura della velocità della luce per
diverse frequenze del motore per poter fare una “statistica” dei
risultati, calcolando un valore medio ed un errore.
Misura del rapporto carica /
massa per l'elettrone.
Nel 1860 William Crookes, lavorando con un tubo di Geissler e
inserendovi due lamine metalliche collegate ad un generatore di
corrente continua ad elevato potenziale (circa 30000 V), scoprì che, in
funzione del gas che usava, otteneva luce di diversi colori. Questa luce
“partiva” dal catodo (elettrodo negativo) e fluiva verso l'anodo
(elettrodo positivo). Questi raggi vennero chiamati raggi catodici e si
scoprì che avevano carica elettrica negativa.
J. J. Thomson nel 1895 lavorò sui raggi catodici applicando campi
magnetici ed elettrici, con i quali fu capace di calcolare il rapporto tra
la carica elettrica e la massa. Si rese conto che il valore era
indipendente delle condizioni sperimentali, chiara indicazione che i
raggi catodici erano particelle identiche tra loro. Successivamente tali
particelle vennero chiamate elettroni.
Esperimenti precedenti avevano fallito nel tentativo di deviare i raggi
catodici; Thomson scoprì che questo era dovuto alla densità non
sufficientemente bassa del gas nel tubo e ne sviluppò uno a vuoto
spinto. All'estremo del tubo mise uno strato di materiale fosforescente
che brillava quando il fascio lo colpiva: questo gli permise di vedere di
quanto i raggi erano stati deviati e di calcolare il rapporto tra la carica
e la massa della particella. Il valore ottenuto suggeriva che le
particelle fossero leggere oppure che la carica fosse alta.
17
18
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
Se i raggi catodici vengono accelerati tra un catodo ed un
anodo, come fanno ad arrivare su uno schermo posto oltre
l'anodo?
Potremmo definirlo il trucco dell'esperimento: generalmente
la differenza di potenziale tra anodo e catodo si applica in
modo tale da avere l'anodo a massa (in questo modo il
campo dopo l'anodo è nullo). Se nell'anodo viene fatto un
foro o si realizza un'anodo con una griglia metallica,
alcuni degli elettroni che arrivano riescono a passarlo,
procedendo a velocità costante. È su questi elettroni
“eccedenti” che Thomson (e noi tra poco) applicò i suoi
campi elettrici e magnetici per studiare le loro proprietà.
In altre parole abbiamo una sorta di “cannone di elettroni”
che spara gli elettroni in traiettorie controllate che
finiscono contro uno schermo fluorescente, dando un
segnale luminoso... Notate qualcosa di familiare in questo
disegno? È proprio come un monitor CRT o una TV
tradizionale! Thomson non lo sapeva, però oltre a misurare
il rapporto carica massa dell'elettrone ed inventare lo
spettrometro di massa, in un certo senso sviluppò le basi di
una delle invenzioni più influenti del ventesimo secolo!
Thomson trasse le seguenti conclusioni: i raggi catodici sono fatti da
particelle (lui le chiamò “corpuscoli”) generate dagli atomi degli
elettrodi (il che significa che questi atomi sono in realtà divisibili, cosa
che all'epoca non era ancora stabilito). Thomson immaginò gli atomi
come un brulichio di elettroni in un mare di carica positiva: il
“modello a panettone” (plum pudding model, dove le uvette sono
proprio gli elettroni). Sebbene questo modello si sia dimostrato
sbagliato (grazie al lavoro di Rutherford, uno dei suoi studenti), in
qualche modo questa scoperta può essere considerata l'iniziò della
fisica subatomica.
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
19
Nel 1909, Robert Millikan calcolò la carica elettrica dell'elettrone con
il famoso esperimento della goccia d'olio (valore che, unito a quello di
Thomson, permise di calcolare anche la massa), completando la
caratterizzazione della particella.
L'esperimento
Si usa un sistema della TELTRON, consistente in un'ampolla a bassa
pressione (nel nostro caso, contenente He a 0.01 Torr) a forma di
“lampadina gigante” il cui schema semplificato si vede in Figura 6.
Nell'estremo più stretto si trova un “cannone di elettroni”4 che emette
un fascio. Il tubo viene messo tra due bobine che generano un campo
Vista dall'alto
Bobine per
generare il
campo
magnetico
“Cannone”
di elettroni
Ampolla
Anelli di
riferimento
Vista dal laterale
Figura 6: Schema del sistema per la misura del rapporto carica /
massa dell'elettrone.
4 Una coppia catodo-anodo con l'anodo forato per far passare gli elettroni.
20
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
magnetico che può essere calcolato considerando il valore della
corrente immessa (per i dettagli si veda più avanti).
La sfera dell'ampolla ha due anelli di riferimento fusi nel vetro: come
vedremo dopo, questi riferimenti servono per calcolare il rapporto tra
la carica dell'elettrone (qe) e la sua massa (me).
L'apparecchiatura
Il sistema si può vedere in Figura 7.
Figura 7: L'apparecchiatura.
Per costruirlo sono necessari quattro generatori:
1. Un generatore di tensione continua variabile che generi 30 V e
fino a 2A.
2. Un generatore di tensione continua variabile che generi da
0 V a 200 V.
3. Un generatore di tensione alternata.
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
21
4. Un generatore di tensione continua variabile che generi da
0 V a 7V.
Con questi generatori (e molti cavi) dobbiamo montare due circuiti:
uno per le bobine e l'altro per l'ampolla.
Per quest'ultimo circuito, dovete riferirvi ai
nomi dei connettori sulla base nella quale si
monta l'ampolla. Questi nomi si possono
vedere in Figura 8.
Osservazione importante: l'ampolla ha una
serie di contatti (in gergo pin) che devono
essere connessi nel modo giusto. Siccome c'è
un unico modo di connetterli, non sbagliate!
Figura 8: I connettori.
I circuiti da montare sono schematizzati in
Figura 9. I generatori VA e VP danno una
tensione continua, mentre VF quella alternata. Le tensioni vanno
monitorate tramite un voltmetro (indipendentemente da cosa c'è
scritto sul potenziometro).
ATENZIONE!!! Durante il montaggio, fare attenzione al
senso di circolazione della corrente nelle bobine: se le
correnti risultano opposte il campo magnetico risultante
sarà zero e non si vedrà l'effetto!
La distanza tra le bobine non è casuale (torneremo su
questo dopo): sulla base dove vanno montate, due “H”
indicano la loro posizione.5
5 H sta per “Helmholtz”.
22
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
A1
G7
C5
F4
F3
Bobine
V
+
VA
0 – 200 V
c.c.
–
VF
6,3 V
c.a.
+
VP
0–6V
c.c.
–
+
30 V
0–2A
c.c.
–
Figura 9: Schema dei circuiti da montare.
Di tutti i generatori in gioco in questi due circuiti, gli unici importanti
per il nostro lavoro sono VA, che serve ad accelerare gli elettroni (è la
differenza di potenziale tra catodo e anodo), e l'alimentatore delle
bobine, il quale da una corrente indicata con IH. Degli altri due, VF
serve a riscaldare il catodo per provocare l'emissione di elettroni,
mentre VP permette di migliorare la qualità del fascio.
Procedura sperimentale
Per un processo descritto nel capitolo dedicato a Franck-Hertz, alcuni
elettroni cedono la loro energia cinetica agli atomi del gas, i quali
immediatamente la rilasciano emettendo luce di un colore azzurro,
rendendo quindi visibile il percorso degli elettroni.
Un esempio di quello che si vede durante l'esperienza è mostrato in
Figura 10.
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
23
Figura 10: Il fascio di elettroni curvato dal campo magnetico.
La procedura sperimentale è la seguente:
1. Per vedere meglio il fascio,
l'illuminazione dell'ambiente.
conviene
abbassare
2. Iniziando con un valore di VP = 0, si fa salire in modo adagio
il valore di VA fino a quando il fascio riesce ad attraversare la
sfera.
Attenzione!!! Non far salire troppo il potenziale VA. Se siete
a valori di VA maggiori di 100 V e ancora non c'è traccia del
fascio, sicuramente qualche collegamento nel circuito sarà
sbagliato!
24
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
3. Variando il valore di IH la traiettoria degli elettroni inizierà a
curvare. Proseguire fino a quando il fascio passa per uno degli
anelli di riferimento e prendere nota di IH.
4. Continuare a variare il valore di IH fino a che il fascio passa
per il secondo degli anelli di riferimento e prendere nota di IH.
5. Dati questi valori,
carica/massa.
provare
a
calcolare
il
rapporto
Se il fascio non è nitido si può provare a cambiare VP, però
si deve tener presente che il suo valore può modificare
leggermente la traiettoria degli elettroni, e pertanto è
meglio non esagerare: mai andare con VP oltre ai 6 V.
Nel limite del possibile, si dovrebbe anche monitorare la
corrente data per VF, la quale non dovrebbe mai essere
maggiore di 30 mA.
Il calcolo del rapporto carica/massa
I calcoli che seguono si basano sulla possibilità di considerare il
campo magnetico generato dalle bobine come uniforme. Questa
approssimazione è abbastanza buona intorno all'asse delle bobine in
quella che è chiamata la “configurazione di Helmholtz”: due bobine
identiche, separate da una distanza uguale al loro raggio. Non
entreremo nel merito del calcolo del campo magnetico in una tale
configurazione. Il risultato per le bobine utilizzate è, indicando con B
il valore assoluto del campo magnetico e misurandolo in tesla (T), con
la corrente IH in ampere (A):
B = 4,17 ·10−3
T
·I
A H
(4)
Siccome il campo magnetico generato dalla coppia di bobine è diretto
lungo il loro asse comune e la velocità degli elettroni è perpendicolare
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
25
a questa direzione, sugli elettroni agisce una forza perpendicolare alla
direzione della loro velocità, il cui valore assoluto è
∣F ∣
= qe v B
(5)
dove v è il valore assoluto della velocità degli elettroni. Siccome la
forza è perpendicolare alla velocità, il moto degli elettroni sarà
circolare, con un'accelerazione centripeta che in valore assoluto sarà
v2/R, con R raggio del cerchio descritto dagli elettroni. Combinando
questo con la seconda legge di Newton, si ottiene
qe
v
=
me
B·R
(6)
Per conoscere v, basta ricordare che la velocità degli elettroni si può
ricavare dalla loro energia potenziale (grazie a VA) data da qe·VA.
Pertanto avremo qe·VA = ½ me v2, da cui:
qe
2V
= 2 A2
me
B ·R
(7)
Per calcolare il valore di R si usano gli anelli di riferimento: le
definizioni sono indicate in Figura 11 (utilizzate un calibro per
verificarle).
Lascio a voi il compito di applicare il teorema di Pitagora ai triangoli
per trovare i raggi delle due traiettorie e dimostrare la seguente
espressione:
R =
x 2y 2
2y
(8)
26
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
dove x è la distanza tra l'uscita del cannone di elettroni e l'anello
preso in considerazione, e y è il raggio di tale anello. In altre parole y
= 51 mm per entrambi gli anelli di riferimento, x = 2 mm per l'anello
di riferimento di sinistra (riferitevi ancora una volta alla Figura 11)
mentre x = 82 mm per quello di destra.
2 mm
102 mm
80 mm
Figura 11: Definizioni delle distanze
per il calcolo di R.
Il valore tabulato di qe/me è 1.7588·1011 Coulomb/kg.
Misura del rapporto carica / massa per l'elettrone.
27
Biografia
Premio Nobel per la fisica nel 1906, Sir Joseph
John Thomson (1856-1940) fu uno scienziato
inglese che tra gli altri lavorò con il premio
Nobel John William Strutt (meglio conosciuto
come Rayleigh) e che tra i suoi studenti
annovera Ernest Rutherford, William Henry
Bragg e William Lawrence Bragg, tutti e tre
premi Nobel per la fisica.
Oltre ai lavori con i quali dimostrò che
l'elettrone era una particella, Thomson fu l'inventore dello
spettrometro di massa, con il quale fu capace di scoprire l'esistenza
degli isotopi, cioè di atomi con le stesse caratteristiche chimiche che
però hanno una massa diversa.
Suo figlio, George Paget Thomson, fu anche lui premio Nobel per la
fisica: di lui parleremo nel capitolo sulla diffrazione degli elettroni.
Corpo nero
Lo studio di Plank sulla radiazione del corpo nero segna l'inizio della
meccanica quantistica, gettando le basi non solo della fisica moderna
ma anche della tecnologia attuale.
Tutti i corpi scambiano energia col mezzo circostante per raggiungere
l'equilibrio. È proprio la temperatura di un corpo ad indicare se questo
è, o meno, all'equilibrio con l'ambiente circostante: se il corpo si trova
a una temperatura maggiore (minore) di ciò che lo circonda, emetterà
(assorbirà) più velocemente di quanto assorbe (emette), finché le
temperature siano le stesse e si arrivi all'equilibrio.
I modi in cui l'energia può essere scambiata tra i corpi e il mezzo
circostante sono diversi: per contatto diretto o per “contatto indiretto”
attraverso le correnti d'aria (pensate ai ventilatori) o la radiazione
elettromagnetica.
Nell'analisi che segue, noi ci “dimenticheremo” dell'energia scambiata
“per contatto”, sia diretto o indiretto, con altri corpi: infatti ci interessa
soltanto l'energia scambiata (il “calore”) sotto forma di radiazione
elettromagnetica.
In questa prospettiva (che non è altro che quella della termodinamica)
l'energia scambiata sotto forma di radiazione elettromagnetica viene
indicata con il termine “radiazione termica”.
Il modo in cui la radiazione interagisce con la materia è molto
complesso. Della radiazione che arriva su di un corpo, una parte viene
29
30
Corpo nero
assorbita, una parte viene riflessa e un'altra viene trasmessa. Inoltre, i
corpi emettono energia per il semplice fatto di essere ad una certa
temperatura: è sufficiente avvicinare le mani ad una pentola
contenente acqua bollente per sapere che sta emettendo radiazione (in
questo caso, nell'infrarosso), o vedere un ferro di colore rosso intenso
per rendersi conto che la sua temperatura è molto elevata. La
radiazione emessa dai corpi è in genere una funzione molto complessa
della temperatura, della loro forma e dei materiali di cui sono
costituiti.
Per semplificare lo studio teorico della radiazione termica era stato
introdotto il concetto di “corpo nero”: un corpo nero è un corpo che
assorbe tutta la radiazione che gli arriva senza riflettere o trasmettere
nulla, indipendentemente dalla sua frequenza o intensità, e che poi
emette per raggiungere l'equilibrio indipendentemente dal materiale
di cui è costituito.
Studiando sperimentalmente i sistemi che più assomigliano a questo
ideale, era stato scoperto che l'emissione termica di un corpo nero ha
delle caratteristiche molto precise, che dipendono solo dalla sua
temperatura.
Disegnando un grafico della densità di energia emessa (energia per
unità di tempo, di lunghezza d'onda e di area) in funzione della
lunghezza d'onda, si ottiene una curva come quella in Figura 12.
La posizione del massimo della curva dipende soltanto dalla
temperatura del corpo: tanto maggiore è la temperatura tanto minore
è la lunghezza d'onda a cui si trova il picco e tanto maggiore è l'area
sottesa dalla curva. Indicando con I(T) l'energia totale emessa dal
corpo nero per unità di tempo e di area, e con λmax(T) il massimo della
curva per una temperatura T, si ottengono due leggi.
Corpo nero
31
Figura 12: Emissione del corpo nero per diverse
temperature.
Legge di Stefan-Boltzman
I T  =  T 4
dove σ = 5,6697 · 10–8
W
m2 K4
(9)
è la costante di Stefan-Boltzmann.6
Legge dello spostamento di Wien
max T T = 0.002898 m⋅K
(10)
Queste due leggi furono ottenute mescolando considerazioni di tipo
classico e risultati sperimentali.
6 Questa legge vale per corpi neri ideali. In genere, i corpi emettono
radiazione con minore efficienza di un corpo nero ideale. Questo può
esprimersi modificando la legge di Stefan-Boltzman nel seguente modo:
I(T) = ε σ T4, dove ε è l'emittanza del materiale, che può dipendere anche
dalla temperatura, e 0 < ε < 1.
32
Corpo nero
Planck e i “quanti”
Nel 1894 Planck iniziò a lavorare sul problema della radiazione di
corpo nero. La legge di Rayleigh-Jeans, derivata dalla meccanica
classica, non riusciva a spiegare l'andamento a piccole lunghezze
d'onda, dove predice un risultato non fisico per cui la densità di
energia diventa infinita: la cosiddetta “catastrofe dell'ultravioletto”.
Wilhelm Wien propose la cosiddetta “approssimazione di Wien” (da
non confondere con la “legge dello spostamento di Wien” vista sopra),
che spiega nel modo giusto l'andamento a piccole lunghezze d'onda
ma che non funziona a lunghezze alte. In altre parole le uniche leggi
sul corpo nero che “funzionavano” erano la legge di Stefan-Boltzmann
e la legge dello spostamento di Wien (espressioni 9 e 10).
Alla fine del 1900, Planck elaborò un modello teorico per spiegare
quanto osservato sperimentalmente e unificare le leggi di StefanBoltzmann e Wien. Egli suppose che l'energia elettromagnetica può
soltanto essere emessa dai corpi in “pacchetti” o “quanti” di valore
definito, cioè, l'energia emessa da un corpo può soltanto essere un
multiplo intero del valore fondamentale E = hν, dove h è la cosiddetta
costante di Planck e ν è la frequenza della luce (la frequenza ν della
luce è legata alla lunghezza d'onda λ attraverso la relazione c = ν · λ,
dove c è la velocità della luce). Lavorando su questo concetto, Planck
ottenne la seguente espressione per la densità di energia (u):
2 c 2 h
u  =
5
 [
 exp
] 
ch
−1
kBT
(11)
dove kB = 1.381·10-23 J/K è la costante di Boltzman. Con questa
espressione Planck riuscì a spiegare le leggi di Stefan-Boltzman e dello
spostamento di Wien, e considerando i dati sperimentali, ad ottenere
per h il valore di7 6.626·10–34 J·s.
7 Il valore ottenuto da Planck fittando i dati sperimentali con la sua curva
teorica non fu tanto preciso. La prima misura accurata del valore di h fu
Corpo nero
33
L'esperimento
L'esperienza presentata in questo capitolo consiste nella verifica della
caratteristiche di un corpo nero.
Il corpo nero ideale può essere approssimato in due modi diversi:
●
con un corpo cavo, con una
piccola apertura che mette in
comunicazione l'esterno con la
cavità, con l'interno oscurato
per assorbire al meglio possibile
la luce e con una superficie
rugosa in modo tale da evitare
qualsiasi possibile riflessione.
Figura 13: Modello di corpo
nero.
In effetti, l'apertura avrà la
proprietà di assorbire tutta la radiazione che arriva, senza
riflettere nulla. La radiazione che eventualmente esce sarà
quella emessa dalle pareti interne del corpo.
●
un corpo non in equilibrio con il mezzo circostante che
emetta molto di più rispetto a quanto assorbe o
(principalmente) di quanto riflette, in modo tale che tutte le
altre componenti siano trascurabili rispetto alla radiazione
emessa. Un tale corpo potrebbe essere semplicemente una
lampadina incandescente o una stella. Basti ricordare che uno
dei modi per calcolare la temperatura della superficie del Sole
è proprio quello di considerarlo come un corpo nero.
Nell'esperienza presentata in questo capitolo, si userà questa seconda
approssimazione.
L'idea è quella di misurare l'intensità (che è proporzionale all'energia
dell'onda elettromagnetica) per ogni lunghezza d'onda emessa per una
lampada incandescente utilizzando un prisma, un sensore di luce e un
sensore di rotazione.
realizzata da Millikan molti anni dopo.
34
Corpo nero
Come si può vedere in Figura 14, la luce passa attraverso un prisma il
quale separa le componenti di colore (cioè le diverse lunghezze
d'onda) mentre un fotodiodo misura l'intensità di ognuna. Il prisma è
montato in modo tale che rimanga fermo, mentre il fotodiodo è
montato su una piattaforma che si può far ruotare in modo da
intercettare i diversi colori sempre alla stessa distanza. Il sensore di
rotazione permette di misurare la rotazione della piattaforma per
ricavare l'angolo di osservazione e calcolare la lunghezza d'onda in
funzione delle caratteristiche del prisma utilizzato.
Prisma
Lampada
Piattaforma
Lente
Fenditura
Lente
Fenditura
Fotodiodo
Sensore di rotazione
Figura 14: Schema dell'esperimento.
Le fenditure e le lenti servono a “collimare” il fascio, per far sì che la
luce arrivi al prisma senza divergenza e con una larghezza ridotta,
altrimenti non sarebbe possibile calcolare la lunghezza d'onda
misurando l'angolo di deviazione.
Corpo nero
35
La lunghezza d'onda
Come si vede in Figura 14, il prisma utilizzato è equilatero ed è messo
in modo tale che la parte posteriore sia perpendicolare alla direzione
del fascio di luce incidente. In questo modo il fascio arriva alla
superficie del prisma con un angolo (misurato dalla perpendicolare ad
essa) di 60º.
Se indichiamo con (Figura 15) θ2 l'angolo di trasmissione del fascio
nella prima superficie (anche questo misurato dalla perpendicolare
alla superficie), θ3 l'angolo con il quale il fascio arriva alla seconda
superficie e θ l'angolo con il quale il fascio esce del prisma, si può
dimostrare la seguente relazione:
23 = 60º
(12)
Usando la legge di Snell si ottiene che:
sin 60º =
 3 = n sin 
2
(13)
2
n sin 3 = sin 
(14)
60°
θ
θ2
θ3
Figura 15: Trasmissione del prisma.
36
Corpo nero
dove n è l'indice di rifrazione del vetro del prisma, il cui valore, come
in tutti i mezzi trasparenti, dipende dalla lunghezza d'onda. Mettendo
tutto insieme (usando relazioni trigonometriche e il fatto che cos 60º =
½ ), si arriva a:

n =
2

2
1
3
sin  
2
4
3
(15)
La relazione tra n e la lunghezza d'onda (λ) è data dalla legge di
Cauchy:
n  =
A
B
2
(16)
dove A e B sono due costanti che caratterizzano il vetro di cui è fatto
il prisma, e che nel nostro caso valgono A = 13900 nm2 e B = 1.689
(dati forniti dal fabbricante). Mettendo insieme le espressioni 15 e 16 e
usando i valori di A e B, si ottiene:
 =
 
13900 nm 2

2
2
1
3
sin   −1,698
2
4
3
(17)
Calcolo della temperatura della lampada
La temperatura di una lampadina incandescente si può calcolare se si
conosce la sua resistenza elettrica R0 ad una temperatura di
riferimento T0, che può essere per esempio la temperatura ambiente
(circa 300 K).
Senza dimostrarlo, l'espressione che da la temperatura è la seguente:
T = T 0

1 R T 
−1
0 R 0

(18)
Corpo nero
37
dove R(T) è la resistenza elettrica alla temperatura T e α0 è una
costante caratteristica del materiale, che nel nostro caso (tungsteno)
ha un valore di α0 = 4.5 · 10-3 /K.
R(T) può essere determinata semplicemente misurando la caduta di
tensione nella lampada (V) e la corrente (I) e usando la nota relazione
V = I · R. Dato che il valore a temperatura ambiente è R0 = 0.84 Ω
(dato dal fabbricante), si ottiene:
T = 300 K

K
V
−1
−3
I⋅0,84
4,5⋅10

(19)
L'apparecchiatura
L'esperienza sarà realizzata con materiale della Pasco, controllato con
un software appositamente sviluppato (DataStudio). La Figura 16
presenta il dispositivo sperimentale.
Prisma
Generatore di tensione
Fotodiodo
Interfaccia con il pc
Lenti
Lampada
Piattaforma ruotante
Fenditure
Sensore di rotazione
Figura 16: Dispositivo sperimentale.
Binario ottico
38
Corpo nero
Si deve fare attenzione a dove si collocano le lenti, per far sì che la
luce sia ben collimata. La lente prima del prisma deve essere messa ad
una distanza dalla prima fenditura esattamente uguale alla sua
distanza focale, che nel nostro caso è di 10 cm. Sul braccio della
piattaforma rotante è segnata la posizione della seconda lente.
Il sistema è interfacciato al PC tramite la porta seriale; l'interfaccia va
collegata e accesa prima di avviare il computer.
Come si vede nella Figura 17 l'interfaccia ha cinque porte d'ingresso
che si usano per collegare i
dispositivi di misura. Da sinistra a
destra, le prime due porte
vengono etichettate “digitali” e
riceveranno i due cavi del sensore
di rotazione, mentre le altre tre
porte sono le “analogiche” A, B e
C, e riceveranno, rispettivamente,
il sensore di corrente, il fotodiodo
e i due cavi che misurano la
Figura
17:
L'interfaccia
al
caduta di potenziale nella
computer.
lampada.
Il circuito da montare è schematizzato in Figura 18.
Al cavo rosso
dell'analogico C
Al cavo nero
dell'analogico C
Lampada
+
–
Sensore di
corrente
Figura 18: Schema di montaggio.
All'analogico A
Corpo nero
39
Una volta preparato il setup, bisogna aprire il file “CorpoNero.ds” con
il programma DataStudio. Il file è già completamente configurato.
L'interfaccia grafica offerta per il programma “DataStudio” si può
vedere in Figura 19.
Figura 19: Interfaccia del programma DataStudio.
Il tasto “Riassunto” fa comparire la barra di sinistra, dove sotto la voce
“Dati” vengono elencate tutte le raccolte dati effettuate fino a quel
momento mentre sotto “Visualizzazioni” si trovano tutte le possibilità
offerte dal programma, che sono anche accessibili dai menù. Il tasto
“Imposta” presenta un'immagine dell'interfaccia di acquisizione dati,
indicando dove collegare i diversi sensori. Il tasto “Avvia” fa partire
una misura, mentre del tasto “Calcola” ne parleremo in seguito.
Calibrazione
L'espressione 17 lega l'angolo di deviazione della luce da parte del
40
Corpo nero
prisma con la lunghezza d'onda. La prima operazione da fare è
definire qual'è “l'angolo zero”. Senza montare il prisma, il sistema
deve essere allineato in modo che la luce della lampada arrivi
direttamente sul sensore. Iniziando una misura in DataStudio, si deve
prendere nota del valore angolare rilevato dal sistema: questo dato
deve essere inserito al posto della variabile “Init” nella seguente
espressione che si trova nella casella di definizioni del calcolatore di
DataStudio, il quale si apre col tasto “Calcola” (è possibile che ci sia
già un valore scritto: dovete cambiarlo):
Wavelength = filter (0,8000, (13900/(((1.1547*sin
Angle)/Ratio))^2 + 0.75)^0.5 – 1.689))^0.5)
((Init
–
Figura 20: Il "calcolatore" di DataStudio.
“Angle” è l'angolo misurato direttamente dal sistema, mentre “Ratio” è
il numero di giri del sensore di rotazione per un giro della
piattaforma. Molto probabilmente quest'ultimo dato sarà già
configurato nel file che userete, però se si volesse misurarlo basta
usare DataStudio per misurare la variazione dell'angolo dopo un giro
completo della piattaforma, e dividere per 360 (o 2π se si usano
radianti): quel numero sarà esattamente “Ratio”. In questo modo si
Init− Angle
avrà = Ratio .
Corpo nero
41
Il fotodiodo ha nella sua parte superiore un tasto chiamato “tare”, la
cui funzione è quella di stabilire il valore zero della misura. Per
utilizzarlo si deve spegnere la lampada usata nell'esperienza, lasciando
tutte le altre sorgenti luminose nelle stesse condizioni: in questo modo
viene valutato il contributo della luce ambiente che costituisce il
“fondo” della nostra misura.
Il tasto “gain” invece fornisce il guadagno del dispositivo e serve per
amplificare il segnale ricevuto. Per questo esperimento è meglio
lasciarlo a 100.
Misura
Sia tramite Esperimento → Aggiungi visualizzazione → Grafico, o
attraverso un doppio click sopra l'icona corrispondente nella barra di
sinistra, si aprirà un grafico. Gli assi possono essere cambiati
semplicemente cliccando sui nomi degli assi stessi e scegliendo tra le
opzioni. Il grafico più utile per noi sarà quello dell'intensità in
funzione della lunghezza d'onda.
Per fare una misura, si preme il tasto “Avvia” e si fa girare lentamente
il fotodiodo intorno al prisma per acquisire la luce dispersa. Premendo
ancora lo stesso tasto, si ferma la misura. Un esempio di misura si
trova in Figura 21.
Bisogna fare attenzione al modo in cui si muove il sistema. Se il
sensore di rotazione non è perfettamente in contatto con la
piattaforma o se il fotodiodo non è perfettamente allineato le misure
potrebbero non essere attendibili.
42
Corpo nero
Figura 21: Un esempio di misura.
Ad esempio, guardate il grafico in Figura 22, dove dopo una scansione
angolare si è ritornati all'inizio facendo il percorso al contrario.
Figura 22: Alcuni esempi di misure problematiche.
Corpo nero
43
Le curve più in alto e più in basso mostrano chiaramente un
andamento non atteso: a meno che non ci sia stata una variazione
nella lampada (cosa poco probabile), indicano che c'è stato un
problema con il sensore di rotazione per cui l'allineamento era stato
perso (grafico più in basso) e la luce non entrava più nel fotodiodo
(grafico più in alto). Solo la curva in mezzo è accettabile, con i dati
che coincidono nelle due prese dati (andata e ritorno).
44
Corpo nero
Biografia
Max Planck (1858-1947). Fisico tedesco, è uno dei
padri della meccanica quantistica. Premio Nobel
per la fisica nel 1918, fu allievo di Gustav Ludwig
Hertz (anche lui premio Nobel), e tra i suoi
studenti vanno annoverati Max von Laue e
Walther Bothe, entrambi premi Nobel.
Un suo professore gli aveva detto di non studiare
fisica perché “in questo campo, quasi tutto è già
stato scoperto”. Fortunatamente, lui non prese
questo consiglio sul serio e nel 1874 iniziò i suoi studi di fisica presso
l'università di Monaco con professori come Hermann von Helmholtz
e Gustav Kirchhoff e il matematico Karl Weierstrass.
In principio, Planck considerò che la quantizzazione era soltanto
“un'assunzione puramente formale” e per molto tempo cercò una
spiegazione alternativa, finché si rese conto che in realtà quella era
l'unica spiegazione possibile.
Max Born scrisse di lui:
“Lui era per natura e per tradizione familiare
conservatore, avverso alle novità rivoluzionarie e scettico
a riguardo delle speculazioni. Però la sua fede nel potere
del pensiero logico basato sui fatti era così forte che non
dubitò nell'esprimere concetti in contraddizione con la
tradizione, perché lui era convinto che non c'era un'altra
possibilità”.
Effetto fotoelettrico
L'effetto fotoelettrico consiste nell'emissione di elettroni da una
superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita dalla
radiazione elettromagnetica, come ad esempio la luce visibile o la
radiazione ultravioletta.
Tale effetto, oggetto di studi da parte di molti fisici, è stato
fondamentale per comprendere la natura quantistica della luce.
Il problema non era che l'effetto ci fosse o meno (un campo
elettromagnetico certamente può muovere cariche elettriche), ma il
fatto che le sue caratteristiche non corrispondevano a quelle previste
dall'elettromagnetismo classico.
L'elettromagnetismo classico prevede che, all'aumentare dell'intensità
della luce aumenti il campo elettromagnetico e la forza sulle cariche, e
di conseguenza l'energia cinetica degli elettroni emessi. Invece,
sperimentalmente si osservava che aumentava solamente il numero
degli elettroni, i quali avevano un'energia cinetica massima
indipendente dall'intensità della luce e dipendente soltanto dalla sua
frequenza.
Un altro problema era il tempo di emissione degli elettroni: facendo i
calcoli con l'elettromagnetismo classico, i tempi di cui si avrebbe
bisogno per l'estrazione dell'ordine dei minuti, mentre gli esperimenti
dimostrarono che l'effetto fotoelettrico è quasi istantaneo.
Inoltre, esiste una frequenza della luce minima, che dipende del
45
46
Effetto fotoelettrico
materiale utilizzato, al di sotto della quale non c'è estrazione di
elettroni.
L'elettromagnetismo classico non era in grado di fornire una
spiegazione.
Einstein e i “quanti”
Generalizzando le idee di Planck sulla radiazione di corpo nero,
Einstein propose che non solo l'emissione di radiazione da parte dei
corpi è quantizzata, ma anche il campo elettromagnetico è composto
da “quanti di luce”.
L'ipotesi di Einstein è che il campo elettromagnetico è formato da
particelle di energia E = hν, chiamate fotoni.
Vediamo adesso come questo spiega gli esperimenti.
In generale, per estrarre un elettrone da un materiale è necessario
realizzare un certo lavoro, solitamente indicato con il termine
“funzione lavoro” e con il simbolo ϕ. Questa funzione lavoro
dipenderà (oltre che dal materiale utilizzato) da dove si trova
l'elettrone all'interno del materiale, con un valore minimo (ϕmin) per
gli elettroni sulla superficie. Questo spiega l'esistenza di un'energia
cinetica massima E mass
come funzione della frequenza: l'energia
c
massima con la quale può uscire un elettrone sarà l'energia del fotone
meno la funzione lavoro minima:
E mass
= h −min
c
(20)
Chiaramente questa espressione dipende soltanto della frequenza
della luce. Una maggiore intensità produrrà un numero maggiore di
fotoni, e perciò un numero maggiore di elettroni emessi, però non
potrà cambiare l'energia massima che ogni singolo elettrone può
raggiungere.
Notate che questa espressione spiega anche l'esistenza di una
Effetto fotoelettrico
47
frequenza minima per l'effetto fotoelettrico: dato che l'energia cinetica
deve per forza essere positiva, si ha che:
 
min
h
(21)
Inoltre, dato che l'energia della luce è divisa in pacchetti, l'interazione
tra l'elettrone e il fotone deve essere veloce: o quest'ultimo ha
l'energia per estrarre l'elettrone oppure no, e se ha l'energia giusta la
rilascia “in un colpo unico”.
Rimane un'ultima verifica sperimentale. L'espressione 20 indica che
l'energia cinetica massima degli elettroni è una funzione lineare della
frequenza della luce incidente. Nel 1916 Millikan (lo stesso Millikan
dell'esperimento della goccia d'olio con il quale per la prima volta si
ottenne il valore della carica dell'elettrone) esegue la verifica
sperimentale, ottenendo anche il primo valore accurato per la costante
h.
I suoi lavori sull'effetto fotoelettrico valsero ad Einstein il premio
Nobel per la fisica nel 1921.
L'esperimento
L'esperienza viene schematizzata in Figura 23. Una lampada di
mercurio viene “filtrata” con l'utilizzo di filtri spettrali che lasciano
passare soltanto una ben precisa lunghezza d'onda. La luce arriva ad
un fotocatodo il quale emette elettroni per effetto fotoelettrico. Questi
elettroni avranno una certa distribuzione di energia cinetica che, come
abbiamo visto prima, ha un valore massimo ben definito in funzione
della frequenza della luce incidente. Se applichiamo tra fotocatodo ed
anodo un potenziale Vf (detto potenziale ritardante) per fermare gli
elettroni, soltanto quelli che hanno un'energia cinetica superiore a
qeVf riusciranno ad arrivare all'anodo: misurando la corrente tra
fotocatodo ed anodo in funzione del potenziale ritardante, è possibile
conoscere l'energia cinetica massima degli elettroni.
48
Effetto fotoelettrico
Anodo
Fotocatodo
Lampada di
mercurio
A
Filtro
spettrale
Amperometro
Sorgente di
tensione variabile
Figura 23: Dispositivo sperimentale.
In effetti, aumentando il potenziale diminuisce la corrente fino ad
arrivare al valore zero, il quale indica che nessun elettrone è in grado
di raggiungere l'anodo: il valore minimo del potenziale per il quale la
corrente è zero, V min
f , fornisce l'energia cinetica massima degli
elettroni per la lunghezza d'onda data dal filtro spettrale utilizzato.
Quest'energia massima risulta
E mass
= q e V min
c
f
(22)
Dalle espressioni 20 e 22 si arriva a
V min
f  =
h
min
−
qe
qe
(23)
dove è stata esplicitata la dipendenza del potenziale minimo dalla
frequenza.
Ripetendo la misura di V min
per i diversi filtri in dotazione
f
all'esperimento, è possibile costruire la retta (V min
in funzione di ν)
f
dall'espressione 23, notando inoltre che per alcuni filtri (quelli che
permettono di far passare una frequenza il cui valore è sotto il valore
Effetto fotoelettrico
49
minimo per l'effetto fotoelettrico) la corrente è sempre nulla.
Notate che dalla pendenza dell'espressione 23 si può ricavare il valore
h/qe, mentre dall'intercetta con l'asse verticale si ottiene ϕmin/qe.
Quando Millikan riuscì a fare gli esperimenti che dimostrarono che
Einstein aveva ragione, egli aveva già realizzato il suo lavoro per
misurare qe, e pertanto fu capace di ottenere il valore di h.
La Figura 24 presenta il dispositivo sperimentale e un particolare della
coppia fotocatodo-anodo (l'anodo è il filamento).
Figura 24: Dispositivo sperimentale (sinistra) e fotocellula (destra) che si
trova all'interno del tubo come indicato dalla freccia.
50
Effetto fotoelettrico
Biografia
Albert Einstein (1879 – 1955) è un fisico,
matematico e filosofo tedesco naturalizzato
svizzero, e in seguito statunitense.
Oltre ad essere uno dei più celebri fisici e
matematici della storia della scienza, fu un
grande pensatore e attivista in molti altri
ambiti (dalla filosofia alla politica). Per il suo
complesso apporto alle scienze e alla fisica in
particolare è indicato come uno dei più importanti studiosi del XX
secolo.
Conosciuto soprattutto per le sue teorie sulla relatività ristretta e sulla
relatività generale, diede anche importanti contributi alla nascita della
meccanica quantistica e alla critica dei suoi fondamenti, alla
meccanica statistica e alla cosmologia.
Ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1921 grazie alla sua
spiegazione dell'effetto fotoelettrico e “per i suoi contributi alla fisica
teorica”.
Diffrazione di elettroni
Dopo il lavoro di Planck ed Einstein che dimostrava che la luce, che
era ovviamente un'onda elettromagnetica, doveva anche essere
considerata come particella per poter spiegare certi fenomeni (la
radiazione di corpo nero e l'effetto fotoelettrico), Louis-Victor-PierreRaymond de Broglie, presentò nella sua tesi di dottorato in fisica
l'idea opposta: che le particelle dovevano comportarsi come onde sotto
certe condizioni.
Come nel caso della luce il cui aspetto corpuscolare necessita di
esperimenti dedicati per essere apprezzato, anche nel caso delle
particelle la loro caratteristica ondulatoria può essere messa in luce
solo con setup dedicati.
L'ipotesi di de Broglie è anche nota come “dualità onda-particella”, e
fu confermata per gli elettroni con l'osservazione della diffrazione in
due esperimenti indipendenti. Nell'università di Aberdeen
(Inghilterra), George Paget Thomson fece passare un fascio di
elettroni attraverso una lamina sottile di metallo, osservando la figura
di diffrazione. Nei Bell Labs, Clinton Joseph Davisson e Lester Halbert
Germer puntarono un fascio di elettroni lenti contro un cristallo di
nichel, ottenendo lo stesso risultato.
Introduzione
De Broglie studiò dal punto di vista della teoria della relatività
51
52
Diffrazione di elettroni
ristretta di Einstein quali dovrebbero essere le caratteristiche di
un'onda per poter rappresentare una particella. Iniziò con l'ipotesi che
anche per le particelle doveva essere valida l'espressione E = h·ν,8
dove E era l'energia relativistica della particella, ν la frequenza
dell'onda che lui cercava, la cui lunghezza d'onda è λ, e h la costante
di Planck. Con queste considerazioni ottenne:
 =
h
p
(24)
Quando gli elettroni sono accelerati a potenziali elevati (per
esempio, nei microscopi elettronici) la differenza tra la
quantità di moto definita nella meccanica classica e quella
della relatività speciale diventa importante, ed è proprio
quest'ultima che deve essere utilizzata. Non è così nella
“vita quotidiana”, ma a volte neanche nella fisica
subatomica: la maggior parte degli esperimenti di
diffrazione di particelle si fanno a bassa energia, proprio
per avere un valore piccolo di p che permetta di ottenere un
valore per λ “ragionevole”. In questi casi, la quantità di
moto nell'espressione 24 può essere considerata
classicamente.
Dato il piccolo valore della costante h, si ottiene che la lunghezza
d'onda per oggetti “quotidiani” è piccolissima: infatti, spingendo una
palla da 1 kg ad una velocità di 5 metri al secondo risulta una
lunghezza d'onda λ ≈ 1.3·10–34 m! Questo valore è di molti ordini di
grandezza inferiore al raggio del nucleo atomico, e perciò non è
possibile vedere un effetto associato. Però, nel mondo subatomico è
8 Il ragionamento di de Broglie parte con il considerare la validità di questa
relazione in un sistema di riferimento fisso rispetto alla particella, per poi
estendere il risultato (usando le trasformazioni relativistiche del sistema
di coordinate) a tutti i sistemi di riferimento. In questo processo,
l'espressione 24 ne consegue naturalmente.
Diffrazione di elettroni
53
possibile avere valori di p piccoli in modo da ottenere valori di λ
maggiori e misurabili sperimentalmente. Ad esempio, se consideriamo
un elettrone che viene accelerato in un potenziale ΔV = 4000 V,
avremo che la sua energia cinetica finale è Ec = qe· ΔV = ½ me v 2, (qe e
me sono la carica e la massa dell'elettrone, rispettivamente, e v la sua
velocità finale) e pertanto la sua quantità di moto finale sarà
p =  2m e · q e · ΔV ; combinando queste espressioni, si ottiene una λ
≈ 0.02 nm, paragonabile alla lunghezza d'onda dei raggi X. Dato che la
distanza caratteristica tra gli atomi in un cristallo è intorno a qualche
decimo di nanometro, ci si dovrebbe aspettare di osservare la
diffrazione per elettroni di quest'energia che passano attraverso un
materiale cristallino.
La diffrazione di raggi X in cristalli era già stata studiata dai Bragg
(padre e figlio) e von Laue molti anni prima, pertanto il formalismo
matematico era già pronto per interpretare i dati sperimentali di
Davisson-Gelmer e di Thomson.
L'esperimento
Come si vede in Figura 25, l'apparecchiatura per questo esperimento è
molto simile a quella utilizzata per l'esperienza della misura del
rapporto carica massa dell'elettrone.
“Cannone”
di elettroni
Ampolla
Campione di carbonio
grafitizzato
Schermo fosforescente
Figura 25: Schema del dispositivo sperimentale.
54
Diffrazione di elettroni
Il tubo utilizzato è diverso nel senso che il vuoto praticato nel suo
interno è molto più spinto in modo tale da non perturbare la
traiettoria degli elettroni. Metà della sfera alla fine del tubo è anche
coperta di materiale fosforescente e davanti al cannone di elettroni si
trova un campione cristallino di grafite che serve a far diffrangere gli
elettroni stessi.
Importante!!! Il campione di grafite è molto fragile, e può
danneggiarsi se il bombardamento degli elettroni è
eccessivo. Si deve pertanto controllare che non inizi a
brillare: questo significherebbe che si sta riscaldando
troppo e che bisogna fermare l'esperimento per lasciarlo
raffreddare.
Il circuito elettrico è molto più semplice di quello montato per il
calcolo di qe/me, e si può vedere in Figura 26 (per la nomenclatura dei
connettori, riferitevi alla Figura 8 a pagina 21).
A1
G7
C5
F4
F3
V
VA
0–4500 V
+ c.c.
VF
6,3 V
c.a.
–
Figura 26: Schema del circuito elettrico.
VF riscalda il catodo per emettere elettroni, mentre VA serve ad
accelerare questi ultimi contro il campione di grafite.
Diffrazione di elettroni
55
Importante!!! Non far salire il valore di VA oltre il valore
indicato di 4500 V! Altrimenti il campione verrebbe
danneggiato.
Il risultato dell'esperienza si
vede come una serie di cerchi
concentrici sullo schermo
fosforescente, assieme al
punto brillante in centro che
indica il cosiddetto “ordine
zero”, cioè, gli elettroni che
non vengono deviati. La
Figura 27 presenta una
fotografia
di
questo
fenomeno.
Figura 27: La figura di diffrazione.
Attenzione! Non prolungare per troppo tempo
l'esperienza, altrimenti il punto intenso in centro lascerà
un segno nel materiale fluorescente, danneggiando
permanentemente il sistema. Qualche secondo è più che
sufficiente per vedere l'effetto.
Questa distribuzione può soltanto essere spiegata considerando la
diffrazione degli elettroni attraverso il cristallo di grafite, e dimostra
la natura ondulatoria della materia.
Inoltre, modificando il potenziale VA cambia l'energia cinetica degli
elettroni e pertanto la loro quantità di moto, il che si traduce in un
cambiamento della lunghezza d'onda: siccome il “reticolo di
diffrazione” formato dagli atomi è sempre lo stesso, al cambiare della
lunghezza d'onda cambiano gli ordini di diffrazione, e pertanto
56
Diffrazione di elettroni
cambieranno i diametri degli anelli. Questo effetto è chiaramente
visibile variando anche di poco il potenziale VA.
Misura della distanza tra gli atomi
Studiando la diffrazione di raggi X in cristalli, i Bragg si resero conto
che per trovare gli ordini di diffrazione si poteva considerare il
cristallo come un insieme di piani paralleli contenenti gli atomi.
Siccome esistono diversi modi di tracciare questi piani, si ottiene che
la figura di diffrazione finale è la sovrapposizione delle figure di
diffrazione di ogni gruppo di “piani di Bragg”.
d10
d11
Figura 28: Due gruppi di "piani di Bragg"
per la graffite.
La grafite forma un reticolo esagonale, come rappresentato in Figura
28, assieme a due gruppi di “piani di Bragg”.
Seguendo lo schema dei Bragg, per trovare un massimo di diffrazione
si deve avere la condizione (per angoli piccoli)
Diffrazione di elettroni
 ≈
57

d
(25)
con d distanza tra i piani e θ definito in Figura 29.
Ampolla
D
2
θ
Campione di carbonio
grafitizzato
Raggio “corretto”
dell'anello
L
Figura 29: Distanze caratteristiche del sistema. θ è l'angolo di deviazione
degli elettroni dopo la diffrazione, L è la distanza tra il campione di
carbonio e lo schermo e D il diametro degli anelli di diffrazione. Per
l'indicazione sul raggio “corretto”, vedere la nota 9.
Quindi, i due gruppi di piani d10 e d11 indicati in Figura 28 daranno
massimi ad angoli diversi. Per ogni anello di diametro D, l'angolo θ
sarà
 ≈
D
2L
(26)
con L distanza tra il cristallo e lo schermo, che nel nostro caso è di
130 mm.9
Ancora una volta possiamo calcolare la lunghezza d'onda λ, sapendo
che
9 Come si può vedere in Figura 29, questo sarebbe vero soltanto per uno
schermo piatto, mentre noi abbiamo uno schermo curvo. Considerando
che la sfera ha un raggio di 66 mm, si dovrebbe fare una piccola
correzione proiettando gli anelli su un piano posto a contatto con la sfera.
58
Diffrazione di elettroni
 =
h
h
1
=
; q e V A = me v 2
p
mv
2
(27)
h
2
q
 e me V A
(28)
2L h
D  2 q e me V A
(29)
Risulta
 =
da cui
d ≈
Misurando pertanto il diametro di un anello in funzione del potenziale
d'accelerazione, si può ottenere la distanza d tra i piani del cristallo!10
Per la grafite si sa che d11 = 0.123 nm e che d10 = 0.213 nm.
10 Usando i valori delle costanti fondamentali, e misurando D in millimetri,
1/ 2
1/ 2
318.87 V · mm · nm
1.226 V · nm
si può scrivere ≈
e d≈
.
D V A
V A
Diffrazione di elettroni
59
Biografie
Louis-Victor-Pierre-Raymond, settimo duca de
Broglie, generalmente noto come Louis de Broglie
(1892-1987), fu un fisico francese noto come uno
dei precursori della meccanica quantistica.
Iniziò la sua carriera come umanista, con una
laurea in storia. Successivamente, probabilmente
grazie al fratello che era un fisico sperimentale, si
interessò alla fisica e alla matematica. Durante la
prima guerra, servì nell'esercito aiutando lo sviluppo delle
comunicazioni via radio.
La sua tesi di dottorato nel 1922 “Recherches sur la théorie des
quanta” (ricerche sulla teoria dei quanti) è l'introduzione della sua
teoria sulle caratteristiche ondulatorie degli elettroni. Tale tesi include
la teoria della dualità onda-particella della materia basata sulle teorie
di Einstein e Planck e si conclude con l'ipotesi che ad ogni particella
che si muove si può associare un'onda. Questo fu l'inizio della
cosiddetta “meccanica ondulatoria” che gli valse il premio Nobel per
la fisica nel 1929, prima persona nella storia a ricevere il premio Nobel
per una tesi di dottorato.
Clinton
Joseph
Davisson
(sinistra,
1881-1958) e Lester Halbert Germer (destra,
1896-1971) furono due scienziati americani
che alla fine degli anni '20 lavoravano ai
Bell Labs e che fecero l'esperimento che
oggi porta il loro nome, e che dimostrò
l'ipotesi di De Broglie sulla natura
ondulatoria della materia.
60
Diffrazione di elettroni
Il loro premio Nobel, nel 1937, fu condiviso con
George Paget Thomson (1892-1975), fisico inglese,
figlio di J. J. Thomson, che portò avanti un
esperimento simile in modo indipendente da loro.
Va notato che J. J. Thomson (il padre) vinse il
premio Nobel dimostrando che gli elettroni erano
particelle, mentre G. P. Thomson (il figlio) lo vinse
dimostrando il loro comportamento ondulatorio!
Spettri atomici
Già da tempo si sapeva che riscaldando un elemento chimico puro
molto “diluito” (per esempio, un gas a bassissima pressione) questo
emette luce a certe lunghezze d'onda, solitamente molto precise e ben
definite, caratteristico di ogni elemento della tabella periodica. Questo
gruppo di “righe spettrali” (che possono essere misurate con l'utilizzo
di prismi o reticoli di diffrazione, e il cui spettro può estendersi sia
nell'infrarosso che nell'ultravioletto) può essere utilizzato per sapere
se un certo composto contiene un certo elemento chimico o meno; gli
astrofisici in particolare lo usano per sapere di cosa sono composte le
stelle e le nebulose.
Ad esempio, in Figura 30 sono presentati gli spettri di emissione
dell'idrogeno e del ferro.
(a)
(b)
Figura 30: (a) Spettro dell'idrogeno. (b) Spettro del ferro.
Va notato che avere un elemento chimico “diluito” (o meglio,
rarefatto) implica che i singoli componenti che lo formano non
61
62
Spettri atomici
interagiscono tra loro, e pertanto questo spettro a righe risulta
caratteristico dell'emissione degli atomi. Infatti, quando si ha un
solido o un liquido gli elementi “strutturali” (le interazioni tra gli
atomi o le molecole, le vibrazioni, ecc.) fanno sì che lo spettro di
emissione sia continuo, come nel caso del corpo nero studiato prima.
Per molto tempo è stato un mistero il perché gli atomi emettessero
soltanto con determinate righe spettrali e non in tutto lo spettro
elettromagnetico. Si è dovuto aspettare l'arrivo della meccanica
quantistica per trovare una spiegazione.
Introduzione
Nel 1885, Balmer, studiando lo spettro di emissione dell'idrogeno,
trovò una relazione sperimentale per la lunghezza d'onda di un
gruppo di righe (espressa in nanometri, nm):
m = 364.6
m2
[nm ]
m 2 −4 
(30)
con m = 3, 4, 5, 6, ... Questo gruppo di righe venne indicato con il
termine “serie di Balmer”.
Questa “legge” era completamente empirica, però dimostrava
l'esistenza di “ricorrenze”, per le quali bisognava trovare una
spiegazione.
Poco dopo, Rydberg e Ritz trovarono una formula più generale che
riproduceva le lunghezze d'onda di più righe dell'idrogeno, e che, con
minore accuratezza, funzionava anche per altri elementi:

1
1
1
= R 2− 2
n
m n

(31)
con m numero naturale fisso, n > m anch'esso numero naturale e R
una costante che dipendeva del materiale studiato, chiamata costante
Spettri atomici
63
di Rydberg.
Un passo importante per la comprensione di questo fenomeno
avvenne nel 1910: studiando la radiazione dell'uranio e come questa
interagisce con la materia, Rutherford riuscì a capire per la prima
volta che gli atomi sono formati da un nucleo molto piccolo e massivo
di carica positiva circondato da elettroni.
Anche in questo caso la fisica classica non aiutava l'interpretazione:
l'unico modo in cui una configurazione del genere poteva esistere era
che gli elettroni (di carica negativa) “orbitassero” intorno al nucleo,
attratti dalla forza di Coulomb, ma questo implicava una serie di
conseguenze:
1. Gli elettroni sono accelerati nelle loro orbite, e perciò avendo
una carica devono emettere radiazione elettromagnetica in
modo continuo, aspetto che non era mai stato osservato
(altrimenti gli elettroni alla fine collasserebbero contro il
nucleo e la materia non sarebbe stabile!)
2. Gli elettroni orbitando intorno al nucleo possono assorbire o
emettere
energia
cambiando
orbita;
secondo
l'elettromagnetismo classico le orbite potevano essere
qualsiasi, il che significava generare uno spettro di emissione
e assorbimento continuo, non composto da righe!
Il primo a presentare un modello (abbastanza ad hoc) che spiegasse le
osservazioni sperimentali fu Neils Bohr nel 1913. Bohr propose che gli
elettroni non emettono radiazione quando si trovano in orbite il cui
valore assoluto del momento angolare L (classicamente, il momento
angolare è il prodotto ―vettoriale― tra il momento lineare e il raggio
dell'orbita) è un multiplo intero n della costante di Planck divisa due
volte pi greco, cioè:
L = n
h
≡ nℏ
2
(32)
64
Spettri atomici
Secondo Bohr, queste orbite risultavano stabili ed erano le uniche
possibili.
Questa “quantizzazione” del momento angolare implicava una
quantizzazione tanto dei raggi delle orbite quanto delle energie
associate. Siccome, per emettere (o assorbire), gli elettroni dovevano
cambiare orbita, questo significava che l'energia emessa sotto forma
di luce (secondo la relazione di Einstein, E = hν) poteva soltanto
essere uguale ai salti di energia tra un'orbita e l'altra... ed ecco le
righe!
Lavorando su questi concetti, Bohr riuscì a fornire un'espressione
analitica non solo per le righe spettrali che si conoscevano (quelle di
Balmer, per esempio) ma anche a prevedere accuratamente le righe
che non erano ancora state misurate.
L'ipotesi di de Broglie, della quale abbiamo parlato nel capitolo sulla
diffrazione degli elettroni, supportò in seguito il modello di Bohr:
infatti, le orbite di Bohr erano tali che il loro perimetro era un
multiplo intero della lunghezza d'onda di de Broglie per gli elettroni, il
che voleva dire che le onde in quelle orbite erano “stazionarie”. Avere
onde stazionarie giustificava il fatto che gli elettroni non emettono
radiazione finché sono confinati sull'orbita.
Il modello di Bohr non era esente da problemi: non riusciva a dare
un'espressione per l'intensità relativa delle righe e, a dire il vero,
funzionava bene solo per l'idrogeno. Si è dovuto aspettare il lavoro di
Heisenberg e Schrödinger per completare la struttura teorica della
meccanica quantistica, ed ottenere le soluzioni analitiche per gli
elettroni nell'atomo d'idrogeno (e soluzioni approssimate per gli altri
atomi) che spiegano al dettaglio l'andamento delle righe spettrali.
L'esperimento
L'esperienza in questione sarà più “qualitativa” che quantitativa: non
verranno ricercati valori sperimentali caratteristici ma ci si limiterà a
riprodurre il fenomeno descritto.
Spettri atomici
65
Si userà uno spettrometro a prisma simile in concetto (ma non in
forma) a quello utilizzato nell'esperimento del corpo nero. Lo schema
è presentato in Figura 31 e in foto in Figura 32.
Variabile
Prisma
Lampada
Va
r
Fenditura
Lente
ia
bi
le
Telescopio
Figura 31: Schema dello spettrometro.
Per “mettere a punto” il sistema prima dell'esperienza, si deve
guardare attraverso il telescopio un oggetto molto lontano
(“all'infinito”), e regolare
la distanza tra le sue lenti
in modo tale da ottenere
un'immagine chiara. Fatto
questo, si allinea il
telescopio con l'altro
braccio dello spettrometro
e si regola la distanza tra
lente e fenditura in modo
tale da avere un'immagine
chiara della fenditura
attraverso il telescopio.
Figura 32: Dispositivo sperimentale.
Anche la larghezza della
fenditura
può
essere
regolata: più è larga e più luminose risulteranno le “righe”, però
66
Spettri atomici
saranno anche meno definite e righe molto vicine potrebbero
confondersi.
Si hanno a disposizione diverse lampade per diversi elementi, il che
permette di paragonare qualitativamente i diversi spettri caratteristici.
Attenzione!!! Le lampade si riscaldano molto durante
l'uso, non toccarle ed aspettare che si raffreddino prima di
cambiarle!
Inoltre la tensione tra gli estremi della lampada è molto
elevata; non si devono assolutamente toccare i terminali
quando il sistema è alimentato!
Figura 33: Al centro dell'immagine, due righe del mercurio
viste attraverso l'oculare dello spettrometro, e sulla sinistra
la lampada utilizzata.
Spettri atomici
67
Biografie
Johann Jakob Balmer (1825-1898) fu un
matematico svizzero che visse a Basilea. In
realtà non è ricordato per nessun lavoro in
questo campo, ma per la sua legge empirica,
formulata all'età di sessant'anni, che descrive le
righe spettrali nel visibile dell'atomo d'idrogeno.
Inghilterra.
Niels Bohr (1885-1962), fisico danese vincitore
del premio Nobel per la fisica nel 1922 “per i
suoi servizi nell'indagine sulla struttura degli
atomi e della radiazione che emana da loro”.
Laureato al Trinity College di Cambridge, fece il
dottorato all'università di Copenhagen. Studiò
anche con Ernest Rutherford (lo stesso
Rutherford che aveva scoperto che gli atomi
erano formati da un nucleo piccolo circondato
da elettroni) all'Università di Manchester,
Sebbene fosse consulente del progetto Manhattan nel quale venne
sviluppata la bomba atomica, era cosciente del pericolo legato agli
ordigni nucleari e per questo credeva che i segreti della fisica atomica
dovessero essere condivisi fra tutta la comunità scientifica, e tentò
invano di convincere Roosevelt e Churchill a condividere le ricerche
con i Russi.
Dopo la guerra lottò per l'uso pacifico dell'energia nucleare.
Uno dei suoi studenti più famosi fu Werner Heisenberg, che ebbe un
ruolo fondamentale nello sviluppo della meccanica quantistica.
Esperienza di Franck-Hertz
L'esperimento di Franck-Hertz fu il più importante lavoro a conferma
del modello atomico di Bohr (di cui abbiamo già parlato nel capitolo
precedente sugli spettri atomici).
Nel 1914, i fisici tedeschi James Franck e Gustav Ludwig Hertz
dimostrarono che l'energia degli elettroni all'interno degli atomi
poteva infatti avere soltanto certi valori discreti.
Introduzione
L'esperimento consisteva in un tubo contenente vapori di mercurio a
bassa pressione, limitato agli estremi da due elettrodi e contenente,
vicino all'elettrodo a massa, una griglia metallica per accelerare gli
elettroni. La procedura consisteva nel misurare la corrente tra gli
elettrodi variando il potenziale tra loro (in realtà, tra il primo elettrodo
e la griglia metallica, più avanti daremo una descrizione più accurata).
Franck e Hertz ottennero i seguenti risultati:
●
A potenziali fino a 7 V, la corrente attraverso il tubo cresce
continuamente con la differenza di potenziale: all'aumentare
del voltaggio, aumenta anche il campo elettrico nel tubo e
pertanto gli elettroni sono accelerati.
●
Quando si arriva a 7 V, la corrente diminuisce bruscamente,
quasi arrivando a valore zero.
69
70
Esperienza di Franck-Hertz
●
Aumentando ancora il voltaggio, la corrente inizia a salire
ancora, fino ad arrivare a 11.9 V (7 V + 4.9 V).
●
A 11.9 V ancora una volta la corrente diminuisce quasi a zero.
●
La serie di crescite e diminuzioni della corrente ogni 4.9 V
continua fino a potenziali di ∼100 V.
L'andamento in altri gas è simile: cambia solamente il valore dei salti
di potenziale (nel neon è di circa 19 V).
Franck e Hertz riuscirono a spiegare questo fenomeno in termini di
collisioni elastiche ed anelastiche ed utilizzando i concetti di Bohr
secondo i quali gli elettroni all'interno degli atomi possono avere
soltanto certi valori di energia ben definiti. Prima di entrare nel
merito di questa spiegazione, però, dobbiamo differenziare gli
elettroni che escono del catodo, che chiameremo elettroni “liberi”, da
quelli all'interno degli atomi, che chiameremo elettroni “legati”. A
bassi potenziali, gli elettroni liberi acquistano soltanto una piccola
quantità di energia cinetica la quale non è sufficiente a cambiare lo
stato degli atomi con cui urtano, e pertanto fanno soltanto urti elastici
che gli permettono di arrivare all'altro elettrodo senza perdita di
energia. Inoltre, più alto è il potenziale maggiore è l'energia degli
elettroni liberi che escono dal catodo e pertanto più alta è la corrente.
Aumentando ancora il potenziale, si arriva al punto in cui gli elettroni
liberi che sono quasi arrivati al secondo elettrodo hanno un'energia
sufficiente per una collisione non elastica con gli elettroni legati, a cui
cedono la loro energia cinetica. Non avendo più energia sufficiente,
non possono arrivare al secondo elettrodo e si registra un netto calo
nella corrente misurata.
Se il potenziale viene aumentato ancora, gli elettroni liberi acquistano
prima l'energia necessaria per eccitare gli elettroni legati, e dopo aver
perso tutta la loro energia cinetica nella collisione saranno accelerati
ancora una volta verso il secondo elettrodo dando nuovamente un
segnale di corrente che sarà più alto man mano che aumenta il
potenziale. L'aumento nella corrente si registra finché gli elettroni
Esperienza di Franck-Hertz
71
liberi hanno ancora una volta energia sufficiente per eccitare gli
elettroni legati, facendo un secondo urto anelastico e perdendo per
una seconda volta tutta la loro energia.
Se indichiamo con Eecc l'energia necessaria per eccitare gli elettroni
legati, ogni volta che il potenziale viene aumentato di Eecc/qe (qe è la
carica dell'elettrone) gli elettroni liberi acquistano l'energia necessaria
per eccitare gli elettroni legati, la perdono negli urti anelastici, non
passano la seconda griglia, quindi non arrivano al secondo elettrodo
e la corrente misurata diminuisce fortemente.
È importante rimarcare che questo funziona soltanto perché le energie
per eccitare gli elettroni legati è quantizzata, altrimenti l'andamento
della corrente sarebbe monotono.
L'esperimento
Il sistema è schematizzato in Figura 34, e rappresentato in Figura 35. Il
generatore di tensione UH serve a far emettere elettroni al filamento K.
Gli elettroni sono poi accelerati verso la griglia G 1 dal potenziale del
generatore U1, il quale è a tensione continua con un valore fisso tra
0 V e 5 V. Il generatore U2, di tensione continua variabile tra 0 V e 80 V,
accelera gli elettroni verso la griglia G2, mentre un potenziale U3, non
maggiore di 10 V, porta gli elettroni che sono arrivati a G2 verso
l'anodo A, chiudendo il circuito la cui corrente è misurata con
l'amperometro I.
Il circuito è chiaramente disegnato sul coperchio del dispositivo
(Figura 35) e pertanto non ci sono problemi col suo montaggio.
72
Esperienza di Franck-Hertz
G1
G2
K
A
I
+ –
UH
– +
– +
+ –
U1
U2
U3
Figura 34: Schema del dispositivo sperimentale.
Nell'introduzione abbiamo parlato degli elettroni che perdono energia
e degli atomi del gas che la guadagnano, però una volta eccitati gli
atomi non possono restare così per sempre e finiranno per emettere
quanto guadagnato nell'urto anelastico: questo “rilassamento” si
produce di solito con
l'emissione di fotoni, la
cui
frequenza
sarà
correlata con l'energia
scambiata
nell'urto
attraverso l'espressione E
= h·ν. Nel caso del neon,
che è il gas contenuto nel
dispositivo sperimentale a
disposizione,
questo
rilassamento si produce
Figura 35: Il dispositivo sperimentale.
con l'emissione di due
fotoni (vedere la nota nel
riquadro a continuazione), uno dei quali ha una lunghezza d'onda
intorno ai 620 nm, cioè nello spettro del visibile: la zona dove gli urti
anelastici si producono sarà perciò resa visibile con l'apparizione di un
colore rosso-arancione, e all'aumentare del potenziale vedremo
proprio come questa zona si sposti verso il catodo e come compaiano
Esperienza di Franck-Hertz
73
più righe quando il potenziale è sufficientemente elevato da produrre
più urti per ogni elettrone.
Le due prime energie di eccitazione del neon sono 16.7 eV e
18.7 eV (1 eV = 1.6022·10–19 J, che è l'energia guadagnata da
un elettrone in una differenza di potenziale di un volt).
Si può dimostrare che per urti anelastici è più probabile
eccitare il secondo livello che il primo. Un elettrone eccitato
in questo secondo livello si “rilassa” in due fasi: prima
decade al primo livello emettendo un fotone di 2 eV, e solo
dopo decade al livello fondamentale “emettendo” gli altri
16.7 eV.
La lunghezza d'onda è λ = c/ν = c·h/E. Per un'energia di E
= 2 eV si ottiene λ = 619.92 nm (lo spettro visibile è tra 400
nm ―violetto― e 700 nm ―rosso―) mentre per E = 16.7 eV
risulta λ = 74.24 nm. Quest'ultima lunghezza d'onda si
trova nell'ultravioletto e pertanto non risulta visibile ad
occhio nudo.
Due delle zone luminose descritte, prodotte da due urti anelastici
consecutivi, si possono vedere in Figura 36.
Figura 36: Zone luminose prodotte da due urti anelastici
consecutivi nel neon.
74
Esperienza di Franck-Hertz
Siccome la distanza tra le griglie G1 e G2 è piccola, bisogna fare
attenzione ad abbassare l'illuminazione della stanza per vedere
l'effetto.
La procedura sperimentale è semplice: bisogna prendere nota del
valore della corrente per ogni
ΔU
valore del potenziale U2, e
I
realizzare con questi dati un
grafico di corrente in funzione
del
potenziale
come
schematizzato in Figura 37. Si
ottiene un grafico a forma di
dente di sega; dalla distanza
tra i picchi si può ottenere
l'energia di eccitazione del Ne,
U2
ricordando che quell'energia è
Figura 37: Il grafico dei dati
l'energia
cinetica
degli
sperimentali.
elettroni. Considerando tutto
questo, se indichiamo con ΔU la distanza in potenziale tra i picchi,
l'energia di eccitazione sarà qeΔU.
Bisogna fare un po' di prove per trovare i valori “ottimali” di U1 e U2
che permettano di avere un grafico ben definito.
Esperienza di Franck-Hertz
75
Biografie
James Franck (1882-1964), fisico tedesco,
ottenne il dottorato all'Università di
Berlino nel 1906. Nel 1920 divenne
professore
di
fisica
sperimentale
nell'Università di Göttingen, dove lavorò
in fisica quantistica con Max Born.
Nel 1925 condivise
il premio Nobel per la fisica con Gustav Ludwig
Hertz per il loro lavoro del 1914 sulle
caratteristiche degli urti tra elettroni e atomi.
Gustav Ludwig Hertz (1887 – 1975), nipote di
Heinrich Rudolf Hertz, nacque ad Amburgo. Fu
allievo di Max Planck e pubblicò numerosi
lavori sullo scambio di energia tra elettroni e
atomi, e sulla separazione degli isotopi.
Effetto Zeeman
Nel 1896, tre anni dopo la sua tesi di dottorato sull'effetto Kerr,
Zeeman scoprì quello che poi divenne noto come effetto Zeeman.
Come approfondimento della sua tesi di ricerca, iniziò a studiare
l'effetto di un campo magnetico su di una sorgente di luce e scoprì che
una linea spettrale viene separata in più componenti sotto l'effetto del
campo magnetico stesso. Lorentz sentì parlare per la prima volta delle
osservazioni di Zeeman sabato 31 ottobre 1896, all'Accademia Reale
delle Arti e delle Scienze di Amsterdam, dove questi risultati vennero
annunciati da Kamerlingh Onnes. Il lunedì seguente, Lorentz chiamò
Zeeman nel suo ufficio e gli propose una spiegazione delle sue
osservazioni, basata sulla sua teoria della radiazione elettromagnetica,
e gli disse che le linee spettrali dovevano separarsi in componenti con
polarizzazione diversa, predizione che fu successivamente dimostrata.
Lorentz fu tra i primi a parlare di materia formata da elementi con
carica elettrica, e a sostenere che nelle oscillazioni di queste cariche si
trovava l'origine della radiazione elettromagnetica emessa dai corpi;
dalla sua teoria abbinata alle misure di Zeeman usciva un valore del
rapporto tra carica e massa di questi “elementi” molto simile a quello
che ottene Thomson per l'elettrone.
L'importanza della scoperta di Zeeman divenne presto evidente: si
trattava della prima conferma delle predizioni di Lorentz sulla
polarizzazione della luce emessa in presenza di un campo magnetico.
La teoria di Lorentz però si dimostrò sbagliata: mancavano alcuni
77
78
Effetto Zeeman
anni ancora per la nascita della meccanica quantistica e non si
disponevano di tutti gli elementi per una spiegazione accurata;
nonostante questo mostrava un buon accordo numerico con gli
esperimenti e significò un passo importante nello sviluppo della teoria
atomica.
I livelli atomici
Le teorie di de Broglie e Bohr sulla struttura atomica continuarono ad
evolvere fino al lavoro di Erwin Schrödinger, che nel 1926 presentò
quella che è nota come l'equazione di Schrödinger. Quest'equazione
descrive l'andamento della cosiddetta “funzione d'onda” che
rappresenta gli oggetti fisici, come ad esempio gli elettroni all'interno
dell'atomo.
Ora non si può più parlare di “traiettorie” nel senso classico: le
particelle non hanno più una posizione o una quantità di moto
definita ma una probabilità di trovarsi in certa zona e avere una certa
quantità di moto. Questa probabilità, che è matematicamente
determinata dalla funzione d'onda (in realtà, dalla sua ampiezza, ma
noi non entreremo in questi dettagli), dipende da molti parametri, ad
esempio l'esistenza di campi esterni e il tipo di particella: gli elettroni
non hanno le stesse caratteristiche dei fotoni, e pertanto si
comportano in modo diverso.
Il punto più importante è che questa funzione d'onda (e da lì il suo
nome) evolve proprio in forma ondulatoria: la probabilità di trovare
un elettrone che passa attraverso un cristallo ha la forma di una figura
di diffrazione, ed è per quello che facendo passare un gran numero di
elettroni si trova che la loro distribuzione su uno schermo ha dei
massimi e dei minimi.
Effetto Zeeman
Determinista o casuale?
Nella meccanica classica, conoscendo i parametri iniziali
di un sistema fisico si può calcolare accuratamente la sua
evoluzione. Ad esempio, se si vuole studiare il moto di una
particella in un campo gravitazionale si può ottenere
un'espressione per la sua posizione in funzione del tempo
che dipende solo dalla posizione e velocità iniziali.
Nella meccanica quantistica questo non è più possibile: si
può ottenere soltanto la probabilità di trovare la particella
in una certa posizione ad un certo tempo. Vuol dire che
abbiamo perso la causalità nella fisica?
A rischio di entrare nel campo filosofico, dobbiamo dire
proprio di no: l'equazione di Schrödinger è
un'equazione determinista per la funzione d'onda.
L'evoluzione della funzione d'onda è perfettamente
determinata conoscendo tutti i parametri iniziali del
problema (cosa che di solito non è possibile, ricordatevi che
siamo sul confine della filosofia). L'indeterminazione che
caratterizza i fenomeni quantistici è legata al fatto che la
funzione d'onda non fornisce la posizione della particella,
ma permette di ottenere la probabilità di trovare quella
particella nell'intorno di una certa posizione al momento di
misurare dov'è.
In questo senso, l'equazione di Schrödinger è tanto
determinista quanto l'equazione di Newton, la differenza
sta negli oggetti a cui queste equazioni vengono applicate:
una quantità direttamente misurabile nel caso di Newton,
la probabilità di trovare un certo risultato in una certa
misura nel caso di Schrödinger.
79
80
Effetto Zeeman
La soluzione dell'equazione di Schrödinger per un elettrone nell'atomo
descrive il suo stato in funzione di certi “numeri quantici”: ogni
gruppo di numeri quantici definisce un valore di energia disponibile
per l'elettrone.
Noi definiremo i livelli dell'elettrone nell'atomo dicendo che ogni
valore di energia possibile corrisponde ad un livello.
I numeri quantici per un elettrone in un atomo sono i seguenti:
1. Il “numero quantico principale”, che può essere associato ai
livelli energetici della teoria di Bohr.
2. Il momento angolare “orbitale” degli elettroni. Questo numero
è associato al valore del momento angolare orbitale che nel
modello di Bohr gli elettroni avevano orbitando intorno al
nucleo.
3. Il numero quantico associato alla proiezione del momento
angolare su di un asse.
A questi tre si deve aggiungere il momento angolare intrinseco
dell'elettrone, noto come spin, e le sue proiezioni.
Si può dimostrare che ci sono “momenti magnetici” nell'atomo
proporzionali ai momenti angolari descritti sopra (classicamente, il
momento magnetico si ottiene considerando le orbite degli elettroni
come piccole spire nelle quali circola corrente).
È importante notare che sebbene il momento angolare
orbitale abbia un corrispettivo classico (che si ottiene
considerando una particella che gira intorno al nucleo), il
momento
angolare
intrinseco
dell'elettrone
è
completamente diverso e non può essere associato a nessun
tipo di rotazione: l'idea classica di una particella che gira
su se stessa non è appropriata, e pertanto lo spin è una
quantità puramente quantistica.
Effetto Zeeman
81
Però, anche se non si può parlare di una rotazione, al
momento angolare dello spin si associa anche un momento
magnetico, il quale può interagire non solo coi campi
esterni, ma anche con gli altri momenti magnetici
dell'atomo. Queste interazioni danno un'enorme
complessità all'atomo. Torneremo (molto brevemente) su
questo.
Tutti i numeri quantici sono “quantizzati”, e pertanto possono avere
soltanto certi valori definiti.
Inoltre, gli elettroni hanno una proprietà chiamata “principio di
esclusione di Pauli”, che nega la possibilità che due elettroni in un
atomo abbiano gli stessi numeri quantici.
Nell'atomo di idrogeno “non perturbato” si ha, in prima
approssimazione, che l'energia dell'elettrone dipende soltanto dal
numero quantico principale. Dato che l'energia dipende solo da un
numero quantico, si ottiene che esiste più di uno stato consentito con
la stessa energia, cioè, più di uno stato consentito nello stesso livello.
Questa “degenerazione” del livello, come viene di solito chiamata, è
all'origine dell'effetto Zeeman.
Se abbiamo due livelli degeneri con due energie diverse, ognuno con il
suo gruppo di stati consentiti, le transizioni degli elettroni tra
qualsiasi stato del primo livello e qualsiasi altro stato del secondo
livello daranno sempre la stessa differenza di energia, che vuol dire
che in uno spettro di emissione tutte le transizioni possibili tra questi
due livelli daranno un'unica riga.
Abbiamo prima detto che alcuni dei numeri quantici che
rappresentano lo stato dell'elettrone sono legati al momento
magnetico e alle sue proiezioni; perciò, cosa succede se accendo un
campo magnetico intorno all'atomo? Gli elettroni che si trovano in
stati con diversi valori del momento angolare subiranno
82
Effetto Zeeman
un'interazione diversa col campo, che si traduce in variazioni
nell'energia di ogni stato: gli stati che si trovavano insieme in un
livello degenerato si separeranno, dando livelli con energie
leggermente diverse a quelle originarie. Adesso, le transizioni tra i
diversi stati del primo e del secondo livello daranno luogo ad energie
leggermente diverse, che a loro volta genereranno righe spettrali
differenziate: proprio come aveva visto Zeeman, certe righe spettrali
in presenza di un campo magnetico si suddividono in più righe.11
Storicamente, l'effetto Zeeman viene diviso in due parti: la prima,
chiamata semplicemente effetto Zeeman, o effetto Zeeman normale
legata al terzo numero quantico (la proiezione del momento angolare
su di un asse che sarà quello dato dalla direzione del campo
magnetico esterno), mentre la seconda parte ha la sua origine nello
spin degli elettroni. Questo secondo effetto, chiamato effetto Zeeman
anomalo è più difficile da misurare (da lì il nome di anomalo: è stato
scoperto molto dopo l'altro), però non è più “strano” del primo:
entrambi sono originati dall'interazione del momento magnetico
dell'atomo con un campo magnetico esterno.
Dobbiamo introdurre adesso un po di “nomenclatura”.
Il numero quantico principale si identifica generalmente con n.
Il momento angolare degli elettroni nelle loro orbite, chiamato anche
primo numero quantico orbitale, viene identificato con l e i suoi
valori possibili sono l = 0, 1, ..., n – 1.
Per motivi storici, i valori di l sono indicati con lettere alfabetiche,
secondo la seguente tabella
11 Come accennato nel riquadro sopra, a volte non c'è bisogno di campi
esterni per rompere la degenerazione di certi livelli: anche negli atomi
isolati l'interazione interna tra il momento magnetico intrinseco
dell'elettrone (proporzionale allo spin) e quello “orbitale” (proporzionale
al numero quantico del momento angolare) da luogo ad un sdoppiamento
di alcune righe spettrali. Questo fenomeno viene chiamato “struttura
fine”.
Effetto Zeeman
83
l=0
s
l=1
p
l=2
d
l=3
f
...
...
e via di seguito in ordine alfabetico.12
Il terzo numero quantico, chiamato anche secondo numero quantico
orbitale o numero quantico magnetico viene identificato con ml, e i
suoi valori possibili sono ml = – l, – l + 1, ..., 0, ..., l – 1, l.
Il momento angolare intrinseco degli elettroni, o spin, ha valore s = ½,
e le sue proiezioni ms possono soltanto avere i valori –½ e ½.
Per fare un'analisi completa dell'effetto Zeeman, però, si deve
considerare il momento angolare totale dell'atomo, chiamato J, e non
solo le singole componenti: si deve pertanto “sommare” il momento
orbitale totale (L) con quello di spin totale (S). Questo, però, è una
procedura abbastanza complessa, dato che in meccanica quantistica la
somma di due momenti angolari non è la semplice somma algebrica di
due numeri. Aldilà di queste complicazioni (nelle quali non
entreremo), si può dimostrare che le proiezioni di J, che chiameremo
MJ, assumono come prima i valori –J , ..., J – 1, J.
Nell'effetto Zeeman normale, che è quello del quale si occupa questo
esperimento, il valore dello spin non cambia durante la transizione.
Le regole di selezione
Un punto importante è che non tutte le transizioni tra i livelli sono
possibili: esistono delle “regole di selezione” che “vietano” alcune
12 “s” sta per “sharp”, “p” per “principal” e “d” per “diffuse”, nomi con cui in
spettroscopia si descrivevano alcuni gruppi di righe spettrali prima che si
conoscesse la loro origine.
84
Effetto Zeeman
transizioni. Queste regole di selezione si ottengono dalle proprietà
della funzione d'onda dell'elettrone nell'atomo, e dalla sua interazione
con un campo elettromagnetico in quello che viene chiamato
“transizione dipolare elettrica”.
La regola di selezione che serve nel nostro caso è la seguente:
 M J = 0, ±1
(33)
Non approfondiremo di più questo argomento.
L'esperimento
Come si vede in Figura 38, una
lampada di cadmio è posizionata tra
i poli di un elettromagnete
costituito da due bobine ed un
nucleo di metallo. Il campo
magnetico è “guidato” verso la
lampada da due blocchi di metallo
che finiscono in forma conica e che
sono bucati lungo il loro asse in
modo da permettere alla luce di
uscire non solo perpendicolarmente
alla direzione del campo (la quale è
data dall'asse comune dei due
blocchi), ma anche parallelamente
Figura 38: Configurazione della
lampada.
ad essa: questo permette di vedere
tanto l'effetto Zeeman perpendicolare al campo magnetico come
quello parallelo (vedremo subito che sono diversi), semplicemente
girando di 90º le bobine.
Per distinguere la separazione delle righe, si userà un interferometro
Frabry-Perot, il quale è schematizzato in Figura 39. Si tratta di una
lamina con due facce parallele, ed entrambi i lati coperti da uno strato
sottile di alluminio che permette di far passare solo una piccola
Effetto Zeeman
85
percentuale della luce incidente, riflettendo il
resto. Se la luce arriva sul Frabry-Perot con un
certo angolo, genererà multiple riflessioni
interne leggermente spostate l'una rispetto
all'altra, e di ognuna ne uscirà solo un po'. Tutti
i fasci che escono interferiscono tra di loro
dando un massimo in una ben precisa direzione
che dipenderà dalla lunghezza d'onda. Siccome Figura 39: Il Frabryil sistema è simmetrico intorno all'asse ottico, Perot.
questo darà luogo ad uno schema di anelli
concentrici, ognuno dei quali rappresenterà una lunghezza d'onda ben
definita. Ed è proprio per questo che si ottengono non righe spettrali,
ma anelli spettrali!
Le bobine vengono alimentate con un generatore di corrente che non
deve mai superare i 10 A: con 3 A l'effetto è già perfettamente visibile.
Si studierà una riga particolare del Cadmio, quella con lunghezza
d'onda λ = 643.8 nm. La transizione è nel livello con numero quantico
principale n = 5, ed è tra gli stati con J = 2 e J = 1.
Nel campo magnetico gli stati con J = 2 si separano in 5 livelli
equidistanti, mentre quelli con J = 1 si separano in tre. Come detto
prima, non tutte le transizioni però sono possibili. Disegnando uno
schema di livelli in funzione dell'energia, si ottiene un diagramma
delle transizioni consentite come quello che si vede in Figura 40, dove
le transizioni sono raggruppate secondo il loro valore di energia. Le
tre transizioni del gruppo chiamato π hanno la stessa energia della
transizione senza campo magnetico, mentre quelle del gruppo σ–
hanno un'energia minore e quelle del gruppo σ+ un'energia maggiore:
questo significa che la riga singola che si ha senza campo in principio
si dividerà in tre quando il campo magnetico viene applicato.
86
Effetto Zeeman
MJ = 2
MJ = 1
MJ = 0
MJ = -1
MJ = -2
Energia
J=2
λ = 643,8 nm
MJ = 1
MJ = 0
MJ = -1
J=1
ΔMJ = -1 ΔMJ = 0
σ–
π
ΔMJ = 1
σ+
Figura 40: Transizioni consentite.
Perché in principio? Non entreremo nel merito dei calcoli quantistici,
però questi tre gruppi di transizioni, σ– , π e σ+, hanno polarizzazione
diversa tra loro ed anche una diversa distribuzione angolare della
radiazione emessa. Questo fa sì che le tre transizioni, tutte con
polarizzazione lineare, si vedano contemporaneamente soltanto
quando il campo magnetico è perpendicolare alla direzione della luce
emessa, mentre se il campo magnetico è parallelo se ne vedranno
soltanto due, e con polarizzazioni circolari opposte.
La luce con polarizzazione lineare si può rivelare utilizzando soltanto
un filtro polarizzatore, mentre per distinguere le polarizzazioni
circolari occorre prima utilizzare una lamina di quarto d'onda per
cambiare la polarizzazione circolare in lineare e in seguito usare il
polarizzatore.
Il dispositivo sperimentale per misurare queste caratteristiche è
descritto in Figura 41.
Effetto Zeeman
87
(a)
①
②
③
④ ⑤ ⑥
72
83
(b)
⑦
0
26
90 95
Figura 41: Disposizione degli elementi nelle due configurazioni: (a) con
campo magnetico perpendicolare alla luce emessa; (b) con campo magnetico
parallelo alla luce emessa. ①: lente di 150 mm di focale; ②: filtro
polarizzatore; ③: Fabry-Perot; ④: lente di 150 mm di focale; ⑤: filtro spettrale
per 643.8 nm; ⑥: oculare graduato; ⑦: lamina di quarto d'onda. La scala
sotto (in centimetri) è solo indicativa delle posizioni degli oggetti sul binario
ottico per un corretto montaggio, ma devono essere aggiustate in ogni caso
particolare.
La posizione degli elementi ottici dev'essere aggiustata in modo tale
da avere gli anelli chiaramente definiti e centrati nella scala graduata
dell'oculare.
Attenzione! Le bobine sono abbastanza pesanti, e perciò si
deve fare attenzione a maneggiarle.
La Figura 42 presenta tre fotografie che mostrano gli anelli senza
campo magnetico, con campo magnetico parallelo alla direzione di
emissione (due anelli) e con campo magnetico perpendicolare alla
direzione di emissione (tre anelli).
88
Effetto Zeeman
Figura 42: Da sinistra a destra: senza campo magnetico, con campo
magnetico parallelo alla direzione di emissione (due anelli), con campo
magnetico perpendicolare alla direzione di emissione (tre anelli).
La “procedura sperimentale” è abbastanza libera: quando tutto è
finalmente allineato, si “gioca” con il polarizzatore e la lamina di
quarto d'onda per misurare le caratteristiche qualitative indicate
sopra, con entrambe le orientazioni del campo magnetico.
Lo scopo di quest'esperienza è principalmente dimostrativo, però è
importante sottolineare come con una calibrazione accurata della
scala graduata dell'oculare si potrebbe misurare la differenza in
energia tra le diverse transizioni, e da lì ottenere una quantità nota
come “magnetone di Bohr” che è proporzionale al prodotto tra la
costante h di Planck e il rapporto carica-massa dell'elettrone. Tutto è
correlato con tutto!
Il dispositivo sperimentale si può vedere in Figura 43.
Effetto Zeeman
89
Figura 43: Dispositivo sperimentale.
90
Effetto Zeeman
Biografia
Pieter Zeeman (1865-1943), fisico originario dei
Paesi Bassi, nel 1902 divise il Premio Nobel per la
Fisica con Hendrik Lorentz per la sua scoperta
dell'effetto Zeeman.
Zeeman studiò fisica all' Università di Leiden,
dove ebbe come professori Heike Kamerlingh
Onnes e Hendrik Lorentz.
Grazie alla sua scoperta, a Zeeman venne offerta
la carica di lettore ad Amsterdam nel 1897, e nel 1900 venne promosso
professore di fisica all'Università di Amsterdam. Alcuni anni dopo il
premio Nobel, nel 1908 succedette a Van der Waals come professore
ordinario e Direttore del Physics Institute di Amsterdam. Per il resto
della sua carriera continuò ad interessarsi ai fenomeni magneto-ottici,
ma studiò anche la propagazione della luce nei mezzi in movimento,
argomento diventato di interesse centrale nella fisica dopo la
formulazione della relatività ristretta di Albert Einstein. Più tardi
nella sua carriera s'interessò anche di spettrometria di massa.
Misura della costante di
Planck
In questo capitolo si presenterà una misura “non tradizionale” della
costante di Planck h. Solitamente, per misurare h si utilizza l'effetto
fotoelettrico o altri fenomeni che richiedono apparecchiature
specifiche e procedure sperimentali complesse, ma qui useremo dei
dispositivi molto economici che si trovano in commercio, i LED.
Introduzione
I LED (Light Emitting Diode) sono dispositivi semiconduttori che
emettono luce di una lunghezza d'onda ben definita, caratteristica del
materiale del quale sono costruiti.13 Conoscendo la lunghezza d'onda λ
alla quale questi LED emettono (che si può misurare con uno
spettrometro o leggere nelle specifiche di produzione), e sapendo che i
fotoni che formano la radiazione elettromagnetica possono soltanto
avere un'energia E = h·ν (ν = c/λ, c la velocità della luce), se
riuscissimo a misurare in qualche modo l'energia emessa per il LED
avremo in automatico il valore h.
13 Sebbene la lunghezza d'onda sia ben definita, non è infinitamente ben
definita: i LED emettono in un “range” di lunghezze d'onda che
generalmente è molto stretto, non più di qualche decina di nanometri
intorno al valore centrale. Per lo scopo dell'esperimento che vedremo in
questo capitolo, un range del genere è sufficientemente stretto.
91
92
Misura della costante di Planck
Arrivare però a questa espressione per E non è tanto semplice.
Vediamo prima, molto brevemente, alcuni concetti sui semiconduttori
e sui diodi.
Semiconduttori
Nei capitoli sugli spettri atomici e sull'effetto Zeeman è stato
introdotto il fatto che gli elettroni negli atomi possono avere soltanto
valori discreti d'energia; cioè, che nessun elettrone può avere
un'energia diversa dai così detti “livelli”. Qualora gli atomi
interagiscano tra di loro per formare un materiale solido, questi livelli
vengono “disturbati” dagli altri atomi e nuove strutture di livelli si
formano. Per non entrare in dettagli che andrebbero oltre lo scopo di
questo libro, diremo che i livelli più “vicini” al nucleo del atomo
rimangono quasi invariati (in inglese si chiamano livelli di “core” o
nucleo), mentre i livelli più esterni si aggruppano in una “giungla”
che, in maggiore o minore misura a seconda del materiale, coinvolge
tutto il solido. Questi livelli “esterni” possono raggrupparsi,
confondendosi tra di loro in una struttura a tratti continua (o quasi...)
che si definisce come “struttura a bande” perché al fare un grafico dei
loro valori d'energia ci troviamo con una struttura proprio a bande,
più o meno larghe.
Come già detto nel capitolo sull'effetto Zeeman, gli elettroni hanno
delle proprietà quantistiche particolari che vietano d'avere un numero
arbitrario di elettroni in un certo livello, per tanto ognuna di queste
bande avrà un numero massimo di elettroni consentito.
Quando una banda è parzialmente piena gli elettroni in essa “possono
muoversi” (si, proprio tra virgolette... vedere più avanti), il che vuol
dire che questi elettroni producono una corrente elettrica quando una
differenza di potenziale viene applicata.
Al contrario, quando la banda è piena gli elettroni “non si muovono”
(non prendere troppo sul serio questa frase... vedere il riquadro
seguente) e non producono corrente quando una differenza di
Misura della costante di Planck
93
potenziale viene applicata.
Dato che gli elettroni tenderanno ad occupare i livelli più “bassi”
(riguardo al valore d'energia), si crea una gerarchia nella quale le
bande più basse sono piene mentre che quelle più alte sono vuote.
Quelle in mezzo sono le “più interessanti”...
Banda di
conduzione
Energia
La più alta banda completamente piena si
chiama “banda di valenza”, mentre la
banda seguente, che può essere
parzialmente piena o vuota a seconda del
materiale,
si
chiama “banda
di
conduzione”. Si definisce Eg il salto in
energia tra il valore più alto della banda di
valenza e quello più basso della banda di
conduzione, e si suol chiamare questo
salto “banda proibita”: nessun elettrone
può avere un'energia al interno di questa
banda proibita.
Eg
Banda di
valenza
Figura
44:
Schema
semplificato delle bande
in un semiconduttore.
Nei solidi, quando la banda contenente elettroni più alta (in energia) è
solo parzialmente piena si ha un conduttore: un materiale che di
fronte ai campi elettromagnetici risponde dando una corrente
elettrica. Se la banda è completamente piena e c'è un gran salto in
energia prima di arrivare alla banda seguente (vuota), si dice che si ha
un materiale isolante. Per ultimo, se questa “distanza” in energia tra la
banda piena e quella vuota è relativamente piccola si ha un
“semiconduttore”.
Ma, come si fa a dire che il salto è grande o piccolo? In tutti questi
ragionamenti si deve sempre considerare l'energia “termica”, legata
alla temperatura del corpo (T ). Dalla termodinamica, sapiamo che
questa energia è del ordine del valore kBT, dove kB è la costante di
Boltzmann (kB = 1,38065·10–23 J/K). Se il salto in energia Eg tra le bande
di valenza e di conduzione è dell'ordine di qualche volte kBT, ci sarà
una probabilità non trascurabile di avere un elettrone che passa alla
banda di conduzione spontaneamente, è pertanto non potremmo
94
Misura della costante di Planck
considerare un tale materiale come un buon isolante. Pertanto, quanto
“grande” o “piccolo” sia il salto Eg lo si deve misurare in funzione del
valore kBT.
Sulla mobilità degli elettroni
Avere una corrente elettrica significa che gli elettroni si
muovono di preferenza in una direzione, che non è altra
che quella definita per il campo elettrico. Questo
movimento, però, implica una energia cinetica in più
rispetto dello stato degli elettroni senza il campo, e pertanto
implica che gli elettroni per dare una corrente dovranno
avere un'energia più alta. Ma l'elettrone può cambiare
d'energia soltanto se c'è un livello libero più alto nel quale
andare: evidentemente, se l'elettrone si trova nella banda di
valenza dove tutti i livelli sono occupati, per egli non sarà
possibile cambiare la sua energia e pertanto non darà una
corrente. Questo non vuol dire che gli elettroni siano
“fermi” ma che non possono “cambiare stato”:
continueranno a muoversi come prima che ci fosse il
campo.
Soltanto gli elettroni nella banda di conduzione, che per
essere “semi piena” da la libertà di cambiare il valore
dell'energia, daranno una corrente.
Un concetto importante quando si parla di semiconduttori è quello di
“buco” o “lacuna”. Le bande possono contenere un gran numero di
elettroni, e studiare le loro proprietà può diventare un problema molto
complesso. Però, si può dimostrare che quando mancano pochi
elettroni per completare la banda, questo complicatissimo problema è
equivalente ad un problema di un piccolo numero di “buchi” di carica
positiva muovendosi nella banda, uno per ogni elettrone che manca
Misura della costante di Planck
95
per completarla.14
Se un elettrone in un semiconduttore viene “promosso” dalla banda di
valenza a quella di conduzione (ad esempio, per energia termica o per
un voltaggio applicato sul materiale) lascia dietro di se un “buco”, e
può tornare al suo stato di energia più bassa in diversi modi, uno dei
quali è la emissione di un fotone di energia (più o meno) uguale al
salto Eg tra le bande. Questo processo di “rilassamento” è alla base del
funzionamento dei LED, però mancano ancora alcuni concetti per
spiegare il loro funzionamento.
Semiconduttori “drogati”, giunzioni e diodi
Le proprietà delle bande di conduzione e di valenza possono essere
alterate “in laboratorio” aggiungendo delle impurezze (atomi
convenientemente scelti tra gli altri elementi della tabella periodica) al
materiale in un processo chiamato “doping”.
Se l'impurezza aggiunta ha più elettroni di valenza di quanti ne ha un
atomo del materiale puro, questi elettroni “in più” saranno più vicini
in energia alla banda di conduzione, e si dirà che l'impurezza funziona
come “donatore” di elettroni, perché aiuterà il materiale ad avere
elettroni nella banda di conduzione. Un semiconduttore dopato in
questo modo sarà chiamato “di tipo n”.15
Se l'impurezza aggiunta ha invece meno elettroni di valenza
dell'atomo del materiale puro, tenderà a “prenderli”, estraendoli dalla
14 Avete mai giocato con quei panelli quadrati suddivisi in tasselli mobili ai
quali manca un tassello? Cancellate le immagini sui tasselli, in modo tale
che non sia possibile distinguere l'uno dall'altro, ed avrete un'idea su
come funziona questo: quando un tassello si muove a destra il buco “si
muove” a sinistra.
15 n sta per “negativo”. In un semiconduttore puro, il numero di lacune è
sempre uguale al numero di elettroni, perciò il motivo di questo nome è
che in un semiconduttore dopato con donatori di carica il numero di
elettroni è maggiore del numero di lacune.
96
Misura della costante di Planck
Libelli donatori
Banda di
valenza
Banda di
conduzione
Energia
Energia
Banda di
conduzione
Libelli accettori
Banda di
valenza
(a)
(b)
Figura 45: rappresentazione schematica dei livelli aggiunti dalle
impurezze per (a) un semiconduttore tipo n, (b) un
semiconduttore tipo p.
banda di valenza e generando dei “buchi”. In questo caso si dirà che
l'impurezza è “accettora” e il semiconduttore dopato sarà di tipo p. In
quest'ultimo caso quando un campo viene applicato al materiale gli
elettroni della banda di valenza potranno “muoversi” perché la banda
non è più piena. Usando il concetto di “buchi”, si dirà che i “portatori
di carica”, cioè, quelli che definiscono la corrente elettrica, saranno
proprio le lacune che hanno carica positiva e non gli elettroni.16
Quando si mettono a contatto due semiconduttori drogati, uno di tipo
n e l'altro di tipo p, si ottiene quella che è chiamata giunzione p-n.
Gli elettroni di conduzione della parte tipo n tenderanno a muoversi
verso la parte p, mentre i buchi della parte p tenderanno ad andare nel
senso opposto. Questi movimenti generano una “corrente di
diffusione” idiff che va dalla parte n alla p. In questa situazione, gli
elettroni di conduzione nel lato n potranno perdere energia per andare
in banda di valenza grazie ai buchi provenienti dall'altra parte, mentre
gli elettroni che sono passati potranno “combinarsi” con i buchi già
esistenti nel lato p.
16 Da qui la p : sta per “positivo”.
Misura della costante di Planck
97
A causa di questi movimenti i due semiconduttori rimarranno carichi
e si genererà un campo elettrico E0 attraverso la giunzione opposto al
movimento delle cariche, perciò i portatori di carica che si
“diffondono” devono avere l'energia sufficiente per poter passare.
Inoltre, il processo di ricombinazione degli elettroni con le lacune fa si
che la regione intorno alla giunzione venga “svuotata” di portatori di
carica.
Questa situazione evidentemente non può durare, qualcosa deve
accadere per equilibrare la corrente di diffusione.
Abbiamo detto che i portatori di carica maggioritari nei
semiconduttori tipo n sono gli elettroni, però questo non vuol dire che
non ci siano “portatori minoritari” in forma di lacune “naturali”, che
saranno favorite dal campo E0 e si muoveranno dando una corrente
“di campo” o “di migrazione” icam opposta a idiff. Lo stesso (scambiando
lacune ed elettroni) accade per la parte p dando correnti dello stesso
segno.
Così, a regime stazionario, una giunzione p-n completamente isolata
sviluppa una differenza di potenziale tra le sue estremità V0 = E0 /qe,
con qe la carica dell'elettrone. Inoltre, una regione (quasi) priva di
portatori di carica intorno alla giunzione è generata, insieme a due
correnti, quella di diffusione e quell'altra di migrazione, che si
bilanciano tra di loro.
Questa regione senza portatori di carica funziona in certo modo come
un “isolante” tra i due semiconduttori, nel senso che fa più difficile il
transito di una corrente. Se noi adesso applichiamo un potenziale con
la stessa polarità (lo stesso segno) del potenziale interno generato
nella giunzione, sarà ancora più difficile che un portatore di carica
attraversi la giunzione, mentre se il potenziale esterno si oppone a
quello interno le cariche potranno passare più semplicemente: in
sintesi, se si applica un potenziale esterno con lo stesso segno di
quello interno (situazione nota come “polarizzazione inversa”) non c'è
corrente, mentre che se il potenziale esterno è opposto all'interno si
98
Misura della costante di Planck
(“polarizzazione diretta”).
Un dispositivo del genere è chiamato diodo raddrizzatore.
LED
Applicando agli stremi di una giunzione p-n un potenziale esterno
polarizzato “diretto”, ci sarà una corrente attraverso di essa e ad
entrambi lati ci saranno elettroni che si “ricombinano” con buchi,
perdendo energia. Quando il meccanismo principale di perdita
d'energia degli elettroni è l'emissione di fotoni, ci troviamo di fronte
ad un LED.
Trovare teoricamente un'espressione per l'energia dei fotoni, e
relazionare questa energia con le altri variabili del sistema (la corrente
attraverso la giunzione ed il potenziale esterno) è abbastanza
complesso e richiede nozioni di fisica dello stato solido. I concetti
fondamentali però non sono altro che quelli enunciati finora, e
pertanto possiamo passare direttamente ai risultati:
1. L'energia dei fotoni è E ≈ Eg.17
2. Se I è la corrente attraverso la giunzione e V il potenziale
esterno applicato, si ha che:
−
I V  = A e
E
 kB T
e
qeV
 kB T
−1

(34)
dove kB è la costante di Boltzmann, T è la temperatura espressa in
Kelvin, qe è la carica dell'elettrone e η è un “fattore d'idealità”, il cui
valore varia tra 1 e 2 ed è una caratteristica dei materiali utilizzati,
mentre che A è una costante di proporzionalità che può dipendere
della temperatura. Considerando T come la temperatura ambiente, si
17 Il fatto che sia “approssimativamente uguale” è il responsabile che la
lunghezza d'onda della luce emessa abbia un'indeterminazione, ma come
si ha già detto, questa indeterminazione è molto piccola.
Misura della costante di Planck
99
kBT
tiene che q ≡ V T ≈ 25,7 mV: questo valore viene di solito
chiamato “potenziale termico della giunzione”.
e
Per valori tipici delle variabili (stiamo considerando valori di V
q V
positivi e vicini al 1 V), exp  k T ≈ 1015 , e perciò si può trascurare
l'unità nell'espressione 34:
[
I V  = A e
e
B
q e V −E
 kB T
]
= Ae
V −E / q e
V T
(35)
Però, noi sappiamo che
E = h =
hc

(36)
Importante!!! I ragionamenti che seguono sono validi
soltanto se i valori di A e η sono uguali per tutti i LED
considerati.
Questo
può
essere
soltanto
un'approssimazione, non semplice da giustificare senza
uno studio approfondito di tutti i LED,18 però in vista dei
risultati che si ottengono si può dire che è
un'approssimazione abbastanza buona!
Se diversi diodi, ognuno con la sua lunghezza d'onda, sono
attraversati dalla stessa corrente I0 (ad esempio, se sono messi in serie
in uno stesso circuito) possiamo dire che:
18 Questo studio implica mettere alla prova l'espressione 34 (non la 35),
misurando per ogni singolo LED tensione V e corrente I in un ampio
“range” di valori. Approssimando i dati sperimentali con una funzione
esponenziale, si può ottenere il valore reale di η mentre A è il valore
(molto piccolo) al quale si stabilizza la corrente per potenziali V negativi.
Notare che una volta ottenuto A ed η si può anche calcolare di questa
espressione il valore di E per ogni LED! Questo sarebbe un metodo più
accurato (ma più laborioso) di misurare h.
100
Misura della costante di Planck
I
B ≡ 0 = e
A
V −hc /q e  
V T
(37)
dove B è una costante. Prendendo il logaritmo di quest'ultima
espressione si arriva a:
V =
hc 1
D
qe 
(38)
con D costante. Facendo perciò un grafico della caduta di potenziale
in ogni LED in funzione di 1/λ otterremo una retta la cui pendenza è
proporzionale a h!
L'esperimento
La Figura 46 mostra una successione di LED montati su di una basetta
per circuiti, assieme ad una resistenza elettrica che serve per regolare
la corrente del circuito. Tutti i LED e la resistenza sono messi in serie
ed alimentati con un
generatore
esterno
di
corrente continua.
Nel caso mostrato, si usano
LED che emettono a 400 nm,
488 nm, 565 nm, 586 nm,
610 nm, 660 nm, 880 nm e
950 nm (questi ultimi due
emettono nell'infrarosso).
Figura 46: Il circuito per misurare la
costante di Planck.
La Figura 47 presenta una
sintesi dell'esperienza: sulla
sinistra
si
vede
un
diagramma semplificato del
circuito19 (non è necessario
19 Il triangolo con la barretta è il simbolo tradizionale per i diodi, e serve ad
Misura della costante di Planck
V1
V2
V3
101
Vn
Vn
λ1
λ2
λ3
λn
V3
V2
V
R
V1
1
1
1
2
1
3
1
n
Figura 47: Schema dell'esperimento.
misurare la caduta di potenziale simultaneamente in tutti i LED, è più
semplice prenderne una alla volta) per “n” LED che emettono nelle
lunghezze d'onda λ1, λ2, λ3, ... λn, e nei quali si produce una caduta di
potenziale V1, V2, V3, ..., Vn, rispettivamente, mentre a destra si vede il
grafico ottenibile con i dati sperimentali. La resistenza serve a
controllare la corrente, altrimenti i LED risulterebbero danneggiati.
La funzione che meglio approssima i dati sperimentali è una retta
della forma
1
(39)
V = P · D

I valori di P e D possono essere ottenuti con una regressione lineare
dei dati sperimentali, anche se, come già detto, soltanto il primo è di
interesse.20
Confrontando questa espressione con l'espressione 38, si ottiene:
indicare il senso in cui la corrente può transitare.
20 Tutti i fogli di calcolo moderni includono una funzione per calcolare la
regressione lineare di una serie di dati, e pertanto potete utilizzare i
programmi che sicuramente avrete nel vostro computer. Troverete tutto
nella documentazione del vostro foglio di calcolo.
102
Misura della costante di Planck
P ·q e
(40)
c
L'esperienza può ripetersi per diversi valori di corrente, in modo da
poter stimare l'errore sperimentale di h dai diversi valori ottenuti.
h =
Bibliografia
Anche se può sembrare contraddittorio, per un testo di carattere
generale come questo è difficile trovare una letteratura specifica: ai
libri sotto elencati si dovrebbero aggiungere gli appunti presi durante
i miei corsi di laurea, la mia esperienza come insegnante,
conversazioni con altri docenti...
Il primo testo elencato è stato utilizzato per l'esperienza della misura
della velocità della luce. Il secondo testo è un “classico”
dell'insegnamento di fisica nei primi anni dell'università, mentre il
terzo (sfortunatamente, il meno conosciuto) è nella mia opinione uno
dei migliori testi di fisica mai scritti.21
Emilio Acerbi: Sperimentazioni di fisica, terza edizione, 1997. Città
Studi Edizioni.
Resnick, Halliday, Krane: Fisica, quarta edizione, 1992. Casa editrice
Ambrosiana.
Robert B. Leighton: Principles of modern physics, international
student edition, 1959. McGraw-Hill Book Company.
Per le biografie: http://en.wikipedia.org/
21 Insieme al “Feyman's lectures on physics” e alla “Mecánica elemental” di
Juan Roederer, libri che però non ho utilizzato qui.
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