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nutrire le menti
giornalino scolastico
dell’Istituto d’Istruzione Superiore
“Giuseppe BONFANTINI”
Sedi di Novara, Romagnano Sesia e Solcio di Lesa
ANNO 6
n. 1
DICEMBRE 2014
EDITORIALE
NUTRIRE LE MENTI
Se c’è un compito da cui non può esimersi un insegnante è proprio
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quello di cercare di “nutrire le menti” dei propri studenti, di coloro che,
anche se non sempre volontariamente, si mettono nelle nostre mani per
crescere proprio come dei semi che vengono piantati, attentamente curati,
ripetutamente annaffiati fin nei loro più reconditi emisferi cerebrali. Pare
quindi importante “riempire”, “coltivare” quindi “nutrire” entrambi gli emisferi:
quello sinistro logico-verbale e quello destro della creatività. L’importanza
della cultura è innegabile. Sul web spopola il filmato che racconta la
singolare iniziativa del prof. Farrer, un anziano insegnante canadese in
pensione, appassionato della sua professione, speranzoso nel futuro ed
estremamente fiducioso dei suoi studenti. La passione, la fiducia e la cultura
sono gli ingredienti semplici ma fondamentali della storia di Bruce Farrer. Il
prof., insegnante di Lingua e Letteratura, ha assegnato, ai tempi del liceo, ai
suoi studenti, un tema molto particolare: scrivere una lettera a loro stessi da
adulti. I suoi alunni si sono dunque tutti cimentati nello sforzo d’immaginarsi
più grandi di 20 anni, rivolgendosi, in forma epistolare, riflessioni,
confessioni e speranze. Queste giovani vite sono quindi cresciute,
maturate… hanno magari costruito una famiglia dimenticando, forse, quel
singolare compito ricevuto e svolto per il prof. Farrer. Altri ne hanno
conservato il ricordo dei pensieri suscitati sui banchi di scuola, grazie a quel
compito. Tutti però, trascorsi esattamente vent’anni dallo svolgimento del
componimento, sono stati raggiunti da quella stessa lettera che si erano
scritti tanto tempo prima. Ad inviare ciascuna missiva è stato proprio il
tenace insegnante, convinto del valore profondo che quegli scritti
adolescenziali potessero avere per gli adulti di oggi. Così, l’ormai ex
professor Farrer ogni anno rintraccia puntualmente i suoi studenti e le sue
studentesse per consegnare loro quelle lettere da lui gelosamente
conservate. I destinatari ricevono quegli scritti come veri e propri doni,
memoria di quel che un tempo erano e si auguravano di diventare. Forse
l’obiettivo del prof. Farrer era quello di offrire un’opportunità ai futuri adulti di
aprire le loro menti, forse confermando ciò che Albert Einstein diceva: “La
mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre” ma facendo anche
pensare che se non si nutre la mente non si arriva in alto e il paracadute
non serve!
prof. G.
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LA NOSTRA STORIA
a cura della prof.ssa Giuseppina Calloni (Sede di Romagnano Sesia)
Giuseppe Bonfantini nasce a Novara il 17 agosto 1877, frequenta il Liceo Classico a Novara e poi a Torino, quindi
si iscrive alla facoltà di Matematica e Fisica al Politecnico di Torino dove si laurea nel 1899; diventa assistente
universitario del prof. Giuseppe Peano.
Si iscrive nel 1895 al Partito Socialista, collabora con la rivista “Lavoratore”.
Nel 1901 ottiene la cattedra di Matematica presso l’Istituto Tecnico “Mossotti” di Novara.
Si sposa nel 1902 con Maria Ferrari dalla quale ha cinque figli, Vera, Mario il letterato, Sergio il pittore, Corrado
l’antifascista capo partigiano, e Cino medico pediatra.
Il 26 giugno 1910 viene eletto Consigliere Comunale, diventa amministratore dell’Istituto Brera e membro della
Commissione per la revisione dei conti dell’Ospedale Maggiore della Carità. Viene rieletto nel 1913 diventando prima
assessore, poi vicesindaco. Nel 1915 è eletto Sindaco di Novara: la sua amministrazione risulta onesta e operosa,
infatti la città subisce interventi nel campo dell’igiene, dell’istruzione, dei servizi pubblici resi municipalizzati.
Viene quindi rieletto nel 1920, ricopre la carica fino al giugno del 1922 quando, essendo lui socialista, gli squadristi di
De Vecchi occupano il municipio; il giorno seguente il Prefetto lo fa deporre e sostituire da un commissario.
Negli anni successivi vi sono i tentativi del regime di togliergli la cattedra al “Mossotti”, nel 1929 viene trasferito a
Cagliari, nell’agosto 1930 a Pistoia e subito dopo a Pavia. Negli anni della Repubblica di Salò si ritira
dall’insegnamento, viene continuamente minacciato, ma lui partecipa comunque alla lotta antifascista. Uno dei suoi
figli, Cino, finisce nel ‘44 nel lager nazista di Dortmund.
Dopo la Liberazione diventa Provveditore agli Studi per la provincia di Novara. Candidato nelle liste del PSI viene
eletto Presidente della Provincia di Novara; è candidato nel 1953 al senato nel Movimento di Unità Popolare che ha
collaborato a fondare con Ferruccio Parri e Piero Calamandrei.
Il suo impegno per il mondo della scuola è tenace: alla sua opera si devono la creazione dei servizi mensa, l’impulso
alle scuole serali, la distribuzione gratuita di refezione calda, libri e quaderni gratis per molti bambini, borse di studio,
l’ampliamento di edifici scolastici, la promozione di scuole di musica e canto. Per la popolazione più povera di Novara
fa costruire case popolari con cento alloggi, allestisce spacci municipali di latte, verdura, frutta e carne.
Nel 1952 nasce con sette iscritti l’Istituto Tecnico Agrario Provinciale nella cascina “Berta” di via Crimea a Novara,
voluto da Giuseppe Bonfantini convinto che un’agricoltura senza istruzione sia destinata a morire, ma
soprattutto certo che “chi non ha studiato non può difendersi, non ha parole da opporre a chi lo
sfrutta”. Molti anni prima di don Milani, Giuseppe
Bonfantini crede fermamente nella necessità di educare
ed istruire i poveri, i deboli della società, consapevole
che l’unico modo per avvicinare la povera gente alla
cultura sia offrire l’opportunità di frequentare una scuola
tecnica seria senza gravi costi.
Nel 1955 Giuseppe Bonfantini muore a Novara. Nel
1959 l’Istituto diventa statale e nel 1960, il Collegio dei
professori, con il Preside Prof. Mora, lo intitola al prof.
Giuseppe Bonfantini.
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PER RIFLETTERE
di Giulia Miglio (3^D – Sede di Novara)
Noi giovani siamo complicati, tutto ciò che ci riguarda è complicato, per noi tutto è difficile (o almeno così ci
appare), a partire dalle cose che sarebbero più semplici fino a quelle molto più complesse… dentro di noi c’è un
cosmo, a tratti tumultuoso, a tratti calmo, a tratti vuoto; siamo allo stesso tempo pieni e vuoti, soli e invasi, felici e
spaventati. La mia generazione, nuova, così diversa da quella che ci ha preceduto ma allo stesso tempo così uguale a
tutte quelle nei secoli, deve trovare un posto nel mondo, un posto che dobbiamo crearci, tra la baraccopoli che è la
nostra società, che si regge su strutture cadenti, comandata da individui vuoti e poco credibili, sostenuta da due tipi di
persone: una parte che si sfibra i muscoli per tenerla in piedi, l’altra parte che cerca di abbattere la prima in
tutti i modi.
Osservando come uno spettatore esterno si riescono a delimitare in modo preciso tutti i piccoli mondi che ci
attraversano, tanti quanti siamo noi (o forse più) e tutti strettamente collegati, basta però turbare l’equilibrio di uno dei
piccoli mondi, che formano il cosmo di uno qualsiasi di noi, per innescare una reazione a catena che non si può
sapere come finirà con precisione.
Ripartiamo dal passato, quanto sono diversi i giovani di oggi da quelli che lo sono stati 20 o 30 anni fa?
Beh siamo uguali e opposti allo stesso tempo. Negli anni Ottanta (ma anche prima) i giovani sono sempre stati come
noi, entusiasti della nuova vita che li aspettava, non erano più bambini, erano cresciuti ed erano pronti a cercare il loro
posto nel mondo, che agli occhi di chi sta per entrarci davvero
sembra sempre un disastro e si spera di poterlo cambiare e
ricostruire, si vedono tutte le ingiustizie e le cose sbagliate e
non le si accetta in modo passivo, si vuole davvero fare
qualcosa. L’entusiasmo e la paura si alternano, si
mescolano, lottano feroci per potersi liberare l’uno
dell’altra. Qui nasce un conflitto tra chi è giovane e chi lo è
stato, i primi lottano perché sono pieni di entusiasmo ma
poveri di esperienza, credono di poter fare qualcosa e lo
vogliono dimostrare proponendosi alla società come adulti
(che ormai sentono più simili a loro rispetto ai bambini); gli altri
invece pieni di esperienze, perlopiù deludenti, e senza più
entusiasmo, probabilmente smorzato dalle numerose
sconfitte, o abbattuto dalla rassegnazione di non aver visto i
cambiamenti sperati nonostante gli sforzi resi, cercano di trattenere l’esagerata smania dei ragazzi anche solo per
evitare che si facciano del male, essendo loro come puledri galoppanti su un terreno scosceso, cercando di
salvaguardarli delle inevitabili ferite, che molto probabilmente si sono provocati anche loro nel passato.
Questo vale per TUTTE le generazioni che si sono susseguite e credo anche per quelle future.
Le famiglie che stanno crescendo noi giovani sono varie, nessuna famiglia è uguale all’altra. Ce ne sono alcune in
cui si parla, di tutto e per qualunque cosa, ci si racconta e ci si può aprire, altre in cui ancora non si parla davvero ma
nelle quali ci si deve nascondere dietro una maschera per essere accettati come nel passato (nelle famiglie dei nostri
nonni era così). Le famiglie oggi lasciano molta più libertà per certi versi a noi giovani (a vote persino troppa) ma
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hanno anche molta più paura per la sicurezza e per la strada sbagliata che potremmo percorrere, e di strade sbagliate
ce n’è ad ogni incrocio: la droga viene venduta davanti alla scuola, giochi che insegnano ai bambini la violenza come
dire che nel mondo non ce ne sia già a sufficienza, comunicazioni che avvengono via internet con chiunque si voglia
nel mondo… il vero problema però non è tanto quello dell’esistenza di queste tentazioni, sbagli e occasioni mal
sfruttate, ma il fatto che come ci sono genitori che si preoccupano davvero che i figli non facciano cose di cui si
potrebbero pentire, altri non fanno nulla e rimangono impassibili o si fanno prevaricare da figli cresciuti in modo
sbagliato.
Drogarsi ad esempio è un segno di evidente fragilità. Chiunque decida di aver bisogno di un aiuto di questo tipo, per
divertirsi, per andare avanti, per provare nuove sensazioni o qualunque altra scusa possa usare, è una persona
debole, con qualche mancanza e qualche problema. Ma perché i giovani oggi sono così fragili? Non tutti per
fortuna, se no a quest’ora il mondo potrebbe dichiararsi finito, ma una grande parte dei giovani d’oggi decide di bere
fino a stare male, drogarsi, eclissare i sentimenti… forse perché si ha paura del futuro e di ciò che ci aspetta: tutti i
giorni davanti agli occhi vediamo, anche solo indirettamente, tragedie di ogni tipo: guerre, povertà, omicidi efferati e
insensati, ladri al posto dei governanti… questo spaventa ma se si guarda al passato la situazione in questo senso
non è mai cambiata. Oggi però noi abbiamo opportunità in più che però non sappiamo sfruttare: avremmo la
possibilità di comunicare con persone dall’altro lato del mondo in meno di un secondo, potremmo imparare
cose nuove e interessanti, digitando due parole su una tastiera e dando l’Invio, o più semplicemente
potremmo anche parlare con i nostri genitori di tutto imparando e crescendo… forse sono occasioni troppo
grandi che non riusciamo a capire a fondo pertanto perdiamo tempo a guardare banalità e a scrivere idiozie sui social
incorrendo a volte in rischi enormi, ci nascondiamo dietro a uno schermo e annulliamo completamente le vere
relazioni.
Forse è proprio nella parola relazioni la chiave di tutto, relazioni che non
esistono più davvero, i valori che ormai sono consunti, sbiaditi, ignorati,
considerati come superati, scomodi. Chi ormai è più legato all’amicizia,
quella vera, all’onestà, all’amore? Che valore si dà a un bacio, a un
sorriso, alle parole? I giovani di oggi si dicono “Ti amo” con la stessa
facilità con cui si stringono le mani agli sconosciuti, si baciano e
nemmeno si conoscono (se si limitano a quello). Non c’è rispetto, né
per se stessi né per gli altri. È vero che con il cambiamento che è
avvenuto negli anni passati il sesso non è più un vero tabù, però ha
perso tutto il suo valore e la sua importanza, è diventata una sorta di
azione meccanica, priva di vero sentimento. Come possono pretendere
le ragazze di oggi di trovare il principe azzurro se non si comportano da
principesse? E i ragazzi come possono aspettarsi che le ragazze siano
serie se loro sono i primi a non esserlo? Anche l’amicizia è un valore
corroso, si definisce amico chiunque e si volta la faccia alle stesse
persone con la stesa semplicità e la stessa disattenzione e lo stesso
disinteresse. La religione e il legame con essa è un altro valore che si sta perdendo, i giovani non ritengono più
importante credere in qualcosa, sarà per sfiducia, per l’abitudine di ritenere la scienza la spiegazione di tutto o per
semplice mancanza di voglia di cambiare. Diverso ancora è il comportamento rispetto alla politica, quello rispetto al
passato non è cambiato molto in realtà, come del resto i politici. C’è chi la segue in modo esasperato, chi si
disinteressa in modo completo, chi è interessato ma non ne fa una ragione di vita e chi invece è completamente
anarchico. Tutto questo però è sempre accompagnato da quel moto di entusiasmo e inesperienza dei giovani che
caratterizzano tutto ciò che fanno e che li riguarda.
Come tutti gli altri individui nel mondo i giovani sono diversi, esistono tanti aspetti della gioventù quanti giovani
esistono, tutto ciò che viene detto su di noi è vero e falso contemporaneamente, proprio per questo.
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PER RIFLETTERE
dall’Africa sin dietro ad una cattedra del Bonfa
Premessa - C’è chi sceglie di imparare a vivere seguendo un esempio vicino e chi lo fa spostandosi per il mondo,
vicino alla miseria e alla povertà materiale, per “leggere la vita” da un’angolazione diversa. Un prof. racconta la sua
esperienza nelle baraccopoli africane, al lavoro con bambini, giovani, adulti e anziani, al ritorno a casa nel nord Italia.
Un muzungu (uomo bianco, ndr) inesperto per le strade del mondo che torna a imparare ogni giorno dal suo mestiere
nella terra d’origine.
La notte del nord è fredda, la nebbia avvolge un giovane
neofita di ritorno dall’Africa che, tra decine di volti bianchi,
riesce quasi a sentirsi a disagio. È così che ricomincia la vita
di sempre, quella che un “grassottellone” come il sottoscritto,
avverte come una delle tante magliette di taglia sbagliata
acquistate troppo di fretta e che, indossate, ti fanno proprio
sembrare un insaccato di tutto rispetto… mi sento già stretto
qui!
Qualche ora e ci si trova dietro a una cattedra, in una scuola
ai piedi del Monte Rosa, a riprendere le lezioni quotidiane, in
preda alla furia di fine quadrimestre, tra verifiche, registri e
scrutini. Ma chissà perché, porto con me un sorriso
incredibile e speciale donato da gente che non avrebbe
all’apparenza neppure una briciola di motivazione per
sentirsi felice.
Chissà perché la mia valigia è così piena della loro
speranza, dei loro insegnamenti meravigliosi, o
semplicemente: piena di loro!
Un giorno per volta, un passo dopo l’altro, mi sembra di aver
fatto tanta strada e nello stesso tempo di essere
nuovamente fermo qui, a casa mia. Eppure questa è stata
l’Africa, questa è la vita che scorre tra i rivoli maleodoranti
dello slum, questo è un grande insegnamento, alla faccia di
chi ancora crede nel triste e lugubre “continente nero”.
La povertà, la miseria, l’umanità ridotta nel lezzo della
spazzatura e delle fogne a cielo aperto, è innegabile. La
sofferenza si avverte come brividi sulla pelle pelosa, color
maiale, del muzungu. Le decine di disagi e le grandi tragedie di ciascuno degli abitanti della baraccopoli, stringono il
cuore e inumidiscono copiosamente gli occhi increduli. Ma questa parte nell’ombelico del mondo è tutta un tripudio di
colori: la terra è di un rosso vivo, il cielo ha una profondità azzurra intensa che si confonde con le acque del lago
popolato da temibili ippopotami, sembra quasi voglia piombarti sulla testa, quasi piegato a volerti abbracciare.
5
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I tramonti si dipingono di amaranto mentre la grande palla rossa, cala dietro i bananeti in fiore. E la notte è di un nero
pesto mentre le stelle si contano una ad una e sono di un giallo luminoso che irradia il cielo.
Forse piace pensare che sia Dio che, come lo splendido cielo
d’Africa, stringe a sé teneramente questa sofferenza, questi malati,
questo disagio e questa miseria senza ritegno. Ed io alzo gli occhi
al cielo, ai piedi delle Alpi, e mi sento di ricominciare a correre
(goffo come sono ma va bene lo stesso!) perché come disse
Madre Teresa “fate che chiunque venga a voi se ne vada
sentendosi meglio e più felice”. Anche qui, nella mia terra natìa,
ringrazio Dio come facevano le Sisters (le religiose che operano
nello slum di Nairobi, ndr) nei loro splendidi e ritmati canti. Lo
ringrazio per ogni alba, per i coloratissimi fiori di Ibiscus davanti
alla scuola nel compound delle suore, per il riposo all’ombra del
sicomoro, per il fruscio degli alberi di banano, per i frutti offerti, per
il mais raccolto tra i sassi, per Fides, Labam e David (gli operatori
sociali dello slum, ndr), per il sorriso strabico del piccolo Tony, per
le puzzette a tradimento del birbante Obama, per l’abbraccio di
Mitchel, per gli intrecci di vite come fili di un tessuto pregiato, per
gli occhi e gli sguardi indelebili degli angeli ospiti delle Sorelle della
Carità, perché semplicemente respiro, perché ancora mi arrabbio
con i miei studenti pelandroni e mi scontro nella mia realtà
lavorativa e famigliare quotidiana. Mi convinco che Dio non è David
Copperfield e non fa magie straordinarie per dimostrare che “lui
può!”. È un Dio che ho conosciuto meglio saltando tra una pozza e
l’altra nello slum, fermando il sangue infetto di un bimbo feritosi giocando, è il Dio degli ultimi, quello che sta accanto
all’ultimo della fila, che lo coccola o lo tiene in braccio quando è stanco e sfiduciato, nel silenzio struggente
apparentemente di assenza.
Sembrerò ebete ma oltre al viso abbronzato, porto un sorriso stampato nel cuore nonostante la rabbia per ciò che ho
visto, vissuto e curato come ho potuto. Poi magari prenderò in mano forchetta e coltello e stasera mi abbufferò a cena,
laverò il bucato che proprio sporco non è, non raccoglierò i semi di mais tra la ghiaia in cascina come facevo tra i sassi
della baraccopoli per garantire un piatto di
cibo in più… anzi togliamo il magari…
Ma non mi rassegno, non voglio abituarmi,
voglio cambiare e prendere parte di
questo cambiamento passo dopo passo…
in fondo, Qualcuno, mi avrà voluto in
Africa per qualche motivo no!?!? Mi piace
concludere con una citazione di Coelho:
“avremmo davvero bisogno di essere
stranieri a noi stessi cosicché la luce
nascosta nella nostra anima illumini ciò
che esiste intorno a noi”.
E allora al lavoro, passo dopo passo.
prof. G.
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CANTIERE FORESTALE
PRÀ CATINAT 2013
a cura degli ex studenti della 5^A Francesca, Enrico, Stefano, Nicolò, Roberto
(Sede di Novara)
È passato più di un anno e i partecipanti di uno speciale “Cantiere Forestale” sono oramai matricole
universitarie, neo immessi nel mondo del lavoro o in cerca di un’occupazione. Tra ottobre e novembre 2013, in
Val Chisone, in provincia di Torino, presso il Centro di Educazione Ambientale di Prà Catinat, nel Comune di
Fenestrelle, è stato realizzato un cantiere forestale dimostrativo con l’obiettivo di divulgare al grande pubblico e
agli operatori del settore, il ruolo dell'operatore professionale forestale nella gestione del patrimonio boschivo.
Il cantiere è stato realizzato
dall'Istituto per le Piante da Legno e
l'Ambiente
(I.P.L.A. S.p.A.),
su
incarico del Settore Foreste,
nell’ambito del progetto europeo
denominato InFORMA che vedeva
capofila la Regione Piemonte e aveva
l’obiettivo di attivare iniziative di
cooperazione per la formazione
forestale professionale nello spazio
alpino
transfrontaliero
francoitaliano. Il cantiere dimostrativo ha
previsto un percorso guidato fra le
principali
operazioni
forestali,
realizzate con il contributo degli
Istruttori forestali del Piemonte. Gli studenti delle classi 5^A e 5^D della Sede di Novara erano presenti e al Bonfa
resta questo breve e simpatico scritto, a memoria di quelle giornate. In verità appunti presi alla veloce, per
ricordare successivamente in un possibile articolo (questo!) quanto vissuto… ma il tempo è stato tiranno e i nostri
neo periti sono straimpegnati ora anche se, con piacere, ricordano questa esperienza targata “Piemonte”!
Pronti, attenti e sveglia! Visita al bosco adiacente l’albergo dove soggiorniamo. È un’area SIC (sito di interesse
comunale) per assistere a differenti operazioni forestali. Ci accompagna Aldo: l’istruttore!
Nel bosco sono state create per noi sette zone dimostrative:
1)
stazione teleferica // cosa succede qui? Impariamo ad utilizzare una teleferica con
stazione motrice mobile, dotata di verricello motorizzato per la rimozione di tronchi. La linea
impiegata è una linea indipendente con stazione di partenza rappresentata da un autotreno
con gru ed un verricello dotato di motore diesel per spostamenti su terreni anche orizzontali.
Scopriamo che esistono vari tipi di linee impiegabili con i verricelli non motorizzati fino a 2000
metri di distanza, dotate di una, due, tre funi con funzione portante, traente e per spostamento
gravitazionale.
7
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2)
sicurezza nei cantieri forestali // anche qui matematica?! Qualcuno ci parla del
teorema del parallelogramma delle forze per deviare o spostare tronchi impiegando il meno
sforzo possibile e senza l’utilizzo di macchinari
a motore, maggiore è l’angolo di rinvio e
minore sarà la forza applicata sul verricello
(con angoli superiori a 120° non si parlerà più
di rinvio ma di deviazione!), minore è l’angolo
maggiore sarà la forza applicata sul verricello.
Questo sistema trova un’utilità per spostamenti
in aree dove i mezzi non arrivano.
3)
stazione abbattimento // qui si fa sul
serio!!! In questo settore possiamo vedere le varie attrezzature e i metodi per l’abbattimento di
un albero. Non è roba per tutti questo mestiere, cominciamo a capire che qui c’è passione,
impegno e competenza! La tecnica di abbattimento impiegata è la tecnica a ventaglio
contrapposto (con l’effettuazione del taglio di contrafforte, taglio di direzione e taglio di
abbattimento), per effettuare questa pratica bisogna avere delle specifiche abilitazioni
rilasciate dopo la partecipazioni a specifici corsi didattici (da F1 a F4 per le diverse situazioni
di complessità del taglio). Noi tutti ancora a quota F ZERO!
4)
stazione salita sugli alberi // ci proviamo?! Durante il percorso ci fermiamo ad
osservare la tecnica di tree climbing per posizionare dispositivi di
ritenuta delle funi per l’esbosco. Che roba spettacolare!!! Per questa
tecnica vengono impiegati particolari ramponi con punte laterali per
massimizzare la stabilità e imbragature e funi di sicurezza.
5) stazione sicurezza personale // torniamo
vicino all’albergo e osserviamo i DPI (dispositivi per la protezione
individuale) quali caschi, giubbotti, pantaloni, guanti e scarponi
antinfortunistici. Ma oltre ai DPI parliamo di benzine alchilate,
particolari carburanti meno tossici e poco deperibili che inquinano
meno rispetto agli altri. Wow qui si impara!!!
6) stazione Progetto InFORMA // ed ecco un
progetto per l’unificazione delle pratiche boschive nell’arco europeo
che ha la finalità di abbattere le frontiere tra gli Stati europei per
effettuare l’unificazione e la standardizzazione dei diversi corsi di formazione e delle pratiche
boschive. Bella cosa! Prospettive nella Comunità Europea decisamente interessanti!
7) stazione verricello // ed ecco il nostro “amico” trattore munito di verricello per lo
spostamento di tronchi, impiegato per radunare i tronchi in un solo punto e prepararli al
trasporto, può essere impiegato anche in presenza di forti pendenze e con un minimo di due
operatori (uno per attivare il mezzo e l’altro per agganciare i tronchi).
E anche se oggi abbiamo imparato ad “abbattere” noi continuiamo, come diceva il vecchio Einstein, a piantare
semi perché non sapremo mai quali cresceranno… forse lo faranno tutti!!!
8
–
L’OPINANGOLO
GIOVANI E ITALIANI...
a cura degli ex studenti della 5^C di “Penna Capitale” (Sede di Novara)
L’ITALIA NON È UNA SCELTA
“Dove fuggi? Anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia degli uomini e i dolori e la morte: qui
cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere
compianto”, scriveva Ugo Foscolo ne “La lettera da Ventimiglia”.
Così Jacopo Ortis raggiunta Ventimiglia volge lo sguardo ad oriente e comprende che il suo destino è
indissolubilmente legato all’Italia e da essa non può scappare. Alla domanda “Siamo italiani?” non si può
rispondere di no. Nasciamo, cresciamo e di solito passiamo l’interezza della nostra vita in questo Paese,
semplicemente l’Italia rappresenta le nostre radici. La famiglia, la nostra nazione natale, non sono cose che
scegliamo, fanno parte del nostro essere fin dall’infanzia, potremmo amarla per il resto della nostra vita
combattere fino a immolarci per essa o odiarla a tal punto da decidere di abbandonarla, ma in qualsiasi caso
rimarrà per sempre nel nostro cuore nel bene o nel male, segnandoci per tutta la vita. È un concetto importante
da ricordare, da ciò verranno influenzate tutte le nostre scelte future per quanto potremmo illuderci che ciò non
sia vero. Un italiano può fuggire dal suo Paese, trovare un lavoro e la felicità all’estero, ma non potrà mai
dimenticare i meravigliosi squarci sui paesaggi e le città che costellano la penisola, i cenoni natalizi con tutti i
parenti e il calore e l’accoglienza dei suoi concittadini. D’altronde un albero non può vivere senza radici,
perciò prima di considerarci europei al 100% dobbiamo guardare alle nostre origini e cercare di preservarle e
magari, invece di scappare, cercare per una volta di lottare e scendere in piazza per il Paese che ci ha visto
nascere e maturare perché l’Italia per crescere ha bisogno del nostro aiuto e non della nostra fuga.
di Matteo Tosin
TUTTI A CASA!!!
La fiducia nelle istituzioni? Oggi è come avventurarsi in una trappola per topi con la convinzione e la
pretesa di non rimanerne prigionieri. D’altra parte è impensabile riporre speranza in chi non l’ha mai avuta e in
una classe politica che recita quotidianamente una farsa. Ma questa diffidenza ha basi ben fondate derivanti
da quello che è stato e dalla paura che possa protendersi nel futuro, arrivando a prosciugare qualsiasi
rimasuglio di sentimento benevolo, oltre che i portafogli della gente. Non esiste giustizia e onestà e ciò che
vale per qualcuno, da altri viene disprezzato; le istituzioni dovrebbero garantire il diritto di avere dei diritti,
ma sono latitanti. Il politico non rappresenta gli ideali del popolo, ma esalta le caratteristiche peggiori della
razza umana, l’avidità, la crudeltà e la perfidia. Ai giovani non resta che gridare: TUTTI A CASA!!!
di Valentina Bongiorno
9
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L’OPINANGOLO
SENTIMENTI E PENSIERI
a cura degli ex studenti della 5^C di “Penna Capitale” (Sede di Novara)
Rabbia insaziabile verso il
prossimo; ecco il problema
principale della società
contemporanea. Causata da
sistemi incapaci di soddisfare le
nostre aspettative per il futuro e
per il presente. Sistemi quali il
governo a capo di un paese troppo
sottomesso per ribellarsi. La
pressione quotidiana che ci
costringe a vivere mese per
mese oltre cui non c’è un domani
e ci priva di sogni di un futuro a
lungo termine. È un sentimento
che si insidia dentro di noi e ci fa
vedere nel prossimo il colpevole di
tutto ciò inconsciamente. “È facile
arrabbiarsi” diceva Aristotele, “ma
arrabbiarsi con la persona giusta e
al momento giusto non è nelle
possibilità di tutti”. Ed è questa
inettitudine che ci offusca la
mente. Ma siamo davvero cambiati
dalle società passate?
O semplicemente sono cambiati gli
ostacoli? Si sono fatti molti
progressi dai sistemi schiavisti, ma
tracce del passato sono rimaste
senza che ce ne rendessimo conto
e vivono in ciò che ostacola
l’amore.
“Il perdono libera l’anima e cancella la paura.”
Questa è una delle frasi più celebri dell’uomo definito da tutti il padre
della lotta all’apartheid, Nelson Mandela, il quale, dopo anni di
sofferenza e di battaglie, ha ridato i diritti agli afro-americani e del
quale ci è stata riportata la notizia della sua morte il 5 dicembre 2013
all’età di 95 anni. Tra le tante battaglie condotte da questo eroe,
emerge la più ardua: la scelta del perdono che a noi, ancora oggi,
risulta incomprensibile. Sorge dunque spontaneo chiedersi: siamo
ancora disposti a perdonare? Vivendo in un secolo controverso come
il nostro, in cui i vizi sono paragonati alle virtù, tutto ciò che si fa o si
dice viene reputato scontato e dovuto e si preferisce basarsi su come
una persona si presenta esteriormente piuttosto che concentrarsi su
quali sono i suoi interessi e gli obiettivi che si è prefissato nella vita.
Ora, con l’istinto di sopravvivenza che si è sviluppato nell’uomo e che
non gli permette quindi di mostrarsi debole davanti al prossimo,
l’unica arma tagliente a sua disposizione rimane la vendetta, ma cosa
c’è di più potente del perdono? Basti pensare che Gandhi, con la
stessa tenacia di Mandela, ha portato all’indipendenza un’intera
nazione usando il perdono e la non violenza e tanti altri come loro
hanno vinto, con questo ferreo ideale, grandi battaglie. Centinaia di
guerre potevano essere evitate nella storia se, al posto di coltelli e di
fucili veniva introdotta come arma di difesa quella del perdono; senza
contare che la mancanza di questo valore, per tanti indispensabile,
innesca una sorta di circolo vizioso bastato sull’odio e il rancore.
Risulta sempre e comunque doveroso ricordare che non tutto può
essere perdonato poiché certe cose a cui assistiamo o che subiamo
durante la nostra vita non hanno neanche una spiegazione logica e ci
segnano talmente tanto che, di conseguenza, non meritano di cadere
nell’oblio e di essere in seguito condonate.
di Elena Sigalone
di Sara Barbaglia
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LETTI E ASCOLTATI DA NOI, RECENSITI PER VOI
TRA GEISHE E INCENDI
un romanzo dalla terra del Sol Levante e una curiosità musicale
MEMORIE DI UNA GEISHA
la rievocazione di un mondo che sta scomparendo
Non amo molto questo genere di romanzi, ma devo ammettere che questo libro è davvero coinvolgente ed
appassionante, lo consiglio a chi ha fame di nuove storie da conoscere. Scritto da Arthur Golden nel 1997,
dopo una decina di anni di ricerche e documentazioni, ed ambientato nel Giappone del '900, parla del
significato che si cela dietro la parola "geisha", ovvero un'artista ed intrattenitrice giapponese, le cui abilità
sono la danza, la musica e il canto.
Gli occidentali sono sempre stati attratti da queste misteriose figure e con questo romanzo Golden ha dato
risposta a tante domande. A raccontarci di come è divenuta geisha è la voce di Sayuri, una donna condotta
fin da piccola ad apprendere questa arte e portata a diventare la geisha più famosa e ricercata. Bellissimo
libro, lungo ma appagante! Non resta che consigliarlo a tutti e se qualcuno di voi l'avesse letto non esiti a
dire la sua!
di Linda Schianta (Sede di Romagnano Sesia)
SMOKE ON THE WATER
la storia curiosa di una canzone famosa
Tutti noi conosciamo la famosissima canzone “Smoke on the water “dei Deep Purple, ma forse non tutti
conoscono la storia che c'è dietro questa canzone. Il titolo, “Smoke on the water” ovvero fumo sull'acqua,
deriva da un fatto realmente accaduto a Montreux sul lago di Ginevra nel 1971, quando il gruppo era
impegnato a registrare un album utilizzando uno studio mobile prestatogli dai Rolling Stones. Una sera, nel
casinò dall'altra parte del lago vi era un concerto di Frank Zappa e, durante un assolo, un tizio del pubblico
lanciò un petardo sulle tende e queste presero subito fuoco. Le fiamme si levarono così alte in cielo che
era possibile vederle proiettate sulla superficie del lago dall'albergo dove alloggiavano i Deep Purple.
Guardando quello spettacolo il bassista Roger Glover ebbe l'idea di scriverci una canzone chiamandola
appunto “Smoke on the water” che, nonostante un testo piuttosto banale, musicalmente divenne la
canzone simbolo del rock duro, con un giro di chitarra unico.
Il brano apparve nel 1972 con l’album “Machine Head” ma solo nell’estate del ‘73 fu pubblicato come
singolo in tutto il mondo. E fu un successo straordinario. In realtà nessuno lo avrebbe immaginato, perché
la canzone era legata a un ricordo e forse era fin troppo semplice. Sono stati gli ascoltatori a decidere che
diventasse così importante. E ancora oggi quando sul palco si sentono quegli accordi, il pubblico esplode.
di Giovanni Ivo Lazzari (Sede di Romagnano Sesia)
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LETTI E ASCOLTATI DA NOI, RECENSITI PER VOI
TRAPPOLE E PREDE…
l’avvincente romanzo di Nesbø
IL CACCIATORE DI TESTE
ø
In quello che è uno dei suoi ultimi libri editi in Italia, lo scrittore Norvegese Jo Nesbø
presenta un thriller ricco di azione e colpi di scena, con ritmi concitati e un tipo di scrittura
che dà al lettore l’impressione di guardare un film e di essere coinvolto in prima persona all’
interno della storia. Questo romanzo si differenzia dagli altri scritti dell’autore sia per il fatto
di essere una storia a sé stante, slegata dalla famosa serie, che ha per protagonista il
detective Harry Hole, sia per essere una storia focalizzata più sull’ azione e sugli aspetti
psicologici dei personaggi che sull’ indagine criminale vera e propria.
Il romanzo vede come protagonista principale Roger Brown, un uomo molto sicuro di sé e
delle sue capacità, che conduce una doppia vita; di giorno infatti egli è un “cacciatore di
teste” ovvero una persona che si occupa di scoprire dei talenti che dovranno occupare
posizioni di prestigio in grandi aziende, mentre di notte è un ladro di opere d’ arte; la lucrosa
attività gli permette di mantenere il suo dispendioso stile di vita e la costosa galleria d’ arte
della moglie, che il protagonista sostiene economicamente per cercare di ripulire la sua
coscienza da un torto fattole. La vita di Roger sembra procedere con tranquillità tra alti e
bassi fino a quando un giorno incontra per un colloquio di lavoro colui che si può definire la
sua nemesi, il giovane Klaus Grieve. Egli infatti, descritto dall’autore inizialmente come una
sorta di “superuomo”, si rivelerà ancora più bravo di Roger nel capire le persone e nel
nascondere i suoi veri scopi, facendo cadere il protagonista in una trappola abilmente
costruita e arrivando a farlo dubitare persino di sé stesso. Così il cacciatore si trasforma in
preda, viene catapultato attraverso situazioni difficili e rocambolesche, fino a sembrare
spacciato, senza alcuna via di fuga. Inaspettatamente l’autore, con un finale magistralmente
costruito, ricco di colpi di scena, fa comprendere al lettore quanto Roger sia stato abile a
ribaltare la situazione a suo favore, sconfiggendo il suo nemico.
In conclusione questo romanzo merita davvero una lettura approfondita, è molto
coinvolgente sin dalle prime pagine, mai pesante e prolisso con uno stile di scrittura adatto
anche ai lettori non accaniti. Nesbø si consacra definitivamente come uno dei migliori
scrittori gialli contemporanei.
di Ivan Bernardi
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LETTI E ASCOLTATI DA NOI, RECENSITI PER VOI
LETTURA MOZZAFIATO
un romanzo grezzo, sporco e cattivo
COLLA
In Corea, uno dei sobborghi più squallidi e degradati di Edimburgo (Scozia), quattro ragazzi
Andrew, Terry, Billy e Carl crescono, condividendo le prime esperienze sessuali, le prime sbronze,
le prime risse allo stadio e la sperimentazione di droghe di ogni tipo.
Superata la fase più turbolenta dell'adolescenza, i quattro iniziano a perdersi di vista e ognuno
seguirà un suo percorso. Carl diventerà un dj famoso e vivrà le sue esperienze di notte. Terry
continuerà ad essere un adolescente, che cerca di compiacersi attraverso i frequenti rapporti
sessuali, mentre le insicurezze e il vuoto quotidiano sono annegate dall'alcool. Andrew sarà la
vittima di tutto il disagio delle strade. Billy diventerà un pugile famoso e rispettato, nonostante tutto
continuerà a sentirsi etichettato come uno del sobborgo Corea. Arrivati al capodanno del nuovo
secolo e in occasione di una ricorrenza, si ritrovano ormai quarantenni e consumati dalla vita a
celebrare ancora una volta la loro amicizia. Un amicizia, che li lega con la colla.
Se state cercando un romanzo, che ha come trama la classiche storia di amicizia tra adolescenti
dominata da una patina di romanticismo e buoni sentimenti, questo non è il libro che fa per voi.
L'amicizia o la colla è il tema fondamentale del romanzo: lega i quattro protagonisti e non è per
nulla perfetta: in questa storia le cose non vanno sempre per il verso giusto, anzi è proprio
l'opposto. Qui si parla di un tipo di amicizia che lascia segni permanenti sulla pelle e nell'anima,
quell'amicizia che, anche se non è curata come dovrebbe essere, continua a durare nel tempo,
nonostante tutto il resto sembri destinato a finire.
Essa è come una tettoia delle fermate degli autobus, dove solo poche persone possono stare sotto
per proteggersi dalla pioggia, dalla pioggia della vita. Ma per i ragazzi del Corea riuscire a non
bagnarsi è quasi impossibile. Il putrido sobborgo di Edimburgo non può far altro che assalirli e farli
cedere sotto il suo enorme peso di palazzoni grigi, pub fetidi e strade invase dalla droga e da ogni
sorta di tentazione. È difficile per i ragazzi dei quartieri come quello di Corea realizzare dei sogni.
Il linguaggio di Welsh è crudo e privo di censure, scelta azzeccatissima in quanto, in caso contrario,
tutto il romanzo avrebbe perso il suo coinvolgimento e avrebbe creato una dissonanza con i
protagonisti. Perciò la lettura è scorrevole e alla portata di tutti; ma è consigliato soprattutto a coloro
che abbiano visto o intendano vedere il film del 1996 Trainspotting diretto da Denny Boyle, in
quanto indurrebbe al confronto tra il romanzo e il film.
Un romanzo grezzo, sporco e cattivo in grado, però, allo stesso tempo di trasmettere una
limpidezza d'animo sorprendente.
di Francesco Fabrini
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RACCONTI | PUBBLICAZIONI | CONCORSI
MANI
di Francesco Fabrini (ex 5^B – Sede di Novara)
Michele Mirra continuava a sbuffare durante quel caldo pomeriggio di Luglio.
L'estate aveva avvolto nel torpore il piccolo paese rurale di Val Notturna, dove una manciata di povere anime era solita
andare a funghi nel periodo autunnale, curare il proprio orto e organizzare tombolate nei periodi festivi per smuovere la
monotonia della vita. Ora le zanzare e l'afa erano impietose aggredivano i poveri abitanti, che, per sopportare tali
sofferenze, si recavano presso il fiume Iaio, mettendo a bagno i piedi o pescando seduti all'ombra degli alti alberi della
valle. Michele Mirra, pur essendo nato e cresciuto a Val Notturna, non si era mai voluto inserire nella piccola comunità,
amava e godeva della sua indipendenza, anche i legami più semplici lo spaventavano. Da qualche anno era
finalmente entrato nell'età della pensione, dopo una lunga e dura vita da contadino fra i frutteti e i campi di cereali, gli
unici posti in cui il vecchio si trovava a suo agio. Talvolta ritorna per riflettere, per ricordare...
La vita di Michele era stata dura fin dall'infanzia.
La madre, Claudia Guerra, morì durante le complicazioni dovute al parto, mentre il padre, Giuseppe Mirra,ammalato
da tempo, morì quando il piccolo Michele aveva compiuto da poco tempo undici anni. Dopo la morte prematura dei
genitori, venne dato in affidamento ad Eraldo, lo zio paterno, che, al contrario del realismo e del forte legame con la
terra del padre, era un sognatore e viveva di scrittura, prediligendo i romanzi romantici. Questa era la ragione di
frequenti litigi fra i due uomini, che, se non fosse stato per la consanguineità, non avevano nulla in comune. Eraldo
solo dopo la tragica morte del fratello si responsabilizzò, cercò di far sì che il piccolo Mirra non vivesse una giovinezza
triste; per distrarlo, lo zio raccontava storie fantastiche, in cui il protagonista era sempre Michele in veste di eroe in
continuo viaggio per il mondo con lo scopo di aiutare le persone bisognose. Nonostante i tentativi di Eraldo, la voce del
padre gli giungeva dai campi dove egli si spaccava la schiena ogni giorno. Giuseppe Mirra, quando tornava a casa
dopo una dura giornata di lavoro trascorsa tra i campi, prendeva il piccolo Michele tra le braccia abbronzate dal lavoro
e se lo metteva sulle ginocchia scompigliandogli bruscamente i capelli con quelle sgraziate mani, rovinate dalla
campagna. Mentre lo accarezzava con un impensabile affettuosità iniziava a parlargli con un tono calmo e roco.
«Michè, le vedi queste mani? Ti sembrano quelle di un uomo che si è dato da fare o ti sembrano vuote e senza segni
di fatica come quelle di un minchione? - disse quelle parole, alludendo al fratello Eraldo - Le cicatrici e i calli che vedi
rappresentano il prezzo da pagare per poter dare da mangiare a te e tua madre, giorno dopo giorno. Queste sono le
mani di uomo Michè, non te lo dimenticare mai». Michele non lo dimenticò.
Aveva capito che nulla era più importante del lavoro per un uomo e lui avrebbe dovuto seguire fedelmente il percorso
del padre; lavorò per tutta la vita, cercando di far diventare le sue mani come quelle di Giuseppe Mirra. Quando
tornava a casa stremato, dopo le 10 ore di lavoro, Michele si sedeva sulla tazza del gabinetto e si osservava le mani e
un profondo ghigno appariva tra le sottili e screpolate labbra corrose dal vento e dal sole. «Se mio padre fosse ancora
vivo ora sarebbe orgoglioso di me, per lui sarebbe un onore stringere delle mani simili alle sue, colme di fatica e
valore! Fiere di appartenere a un uomo vero!» . Solo dopo averle osannate, come fosse una sorta di rito, le passava
sotto il getto freddo dell'acqua e le lavava accuratamente con il sapone.
Michele non smetteva mai di lavorare; né le feste né i malanni erano motivi validi per starsene seduti in panciolle a far
nulla, bisognava solo a stringere i denti e chiedere aiuto allo spirito lavoratore del padre che sicuramente lo
proteggeva dall'alto. Queste doti facevano di lui un uomo rispettabile e rispettato, ma a nessun abitante del paese
importava realmente di conoscere la sua vita o di bere con lui un bicchiere di vino dopo la messa della domenica.
Sembrava essere coperto da una sorta di mantello carico di negatività, capace di far allontanare qualsiasi persona; le
poche che riuscivano a condividere con lui dei momenti, dopo un po' si allontanavano. Durante la sua lunga vita,
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Michele ebbe solamente tre storie d'amore che, però, si conclusero nel giro di pochi mesi. Tutte e tre le donne, pur
avendo un differente temperamento, in seguito alla relazione con l'uomo rude, avevano sviluppato un aspetto comune
che le univa. La prima, Maria Ferrai, ragazza dal vigore e allegria, sembrava spenta; tutti i sogni erano scomparsi,
spenti come un fuoco lasciato in balia del vento che preannuncia la tempesta. Da quando le mani di quell'uomo
avevano toccato la sua pelle candida, tutte le attività che la donna compieva quotidianamente con grande gioia, le
sembravano ora inutili; nulla sembrava più veramente importante. Lo stesso accadde anche per le altre due donne.
Sembrava che ogni loro sogno, ogni loro passione,ogni loro attitudine alla vita venisse prosciugata dalla loro anima.
Ma, come si dice il tempo rimargina anche le ferite più gravi, infatti le sue amanti riacquistarono la loro serenità quanto
e più di prima, mentre lui appariva indifferente ad ogni occasione di gioia.
Nulla riusciva a legarlo, ad interessarlo; era cresciuto solo e si sentiva tale anche in compagnia di altre persone. Era
consapevole che la morte se lo sarebbe portato via in un giorno di sole, proprio quando nessuno se ne sarebbe
accorto, mentre tutti lavoravano ai loro piccoli terreni o pranzavano spensierati con le famiglie. Ora più che mai
sperava che la sua fine fosse vicina, dato che la pensione gli aveva tolto l'unica ragione di vita. Sperimentò vari
passatempi, ma nulla aveva realmente smosso il suo interesse; la sua vita era stata creata in funzione della fatica nei
campi e ora non aveva più motivi per andare avanti. L'accecante sole di Luglio era perfettamente incorniciato da un
bel cielo terso e l'aria torrida creava dei piccoli turbini di sabbia che andavano a morire ai lati delle strade. Michele era
seduto su un ceppo di pioppo e continuava a sbuffare; davanti a lui, nel piccolo parchetto del paese, un gruppo di
bambini giocava col pallone e si divertiva come non mai. Il vecchio uomo provava invidia guardando quella giovinezza
che lui non aveva mai avuto e che ora sembrava mancargli più di qualsiasi altra cosa, persino più del padre e più del
suo lavoro. Improvvisamente il vento si alzò talmente forte che il pallone in tela volava senza seguire le direzioni di
quei calci, dati dai piccoli con prodigioso impeto; dopo qualche minuto le madri si avvicinarono e li portarono via.
Solamente un bimbo rimase al centro del campo: era il più piccolo del gruppo, così minuto che Michele non si era
accorto di lui durante la partita. Il giovane aveva una folta chioma nera scompigliata dal vento, le braccia esili e
abbronzate e un viso triste e malinconico; a Michele sembrò di ricordare qualcuno.
Il vecchio si alzò cautamente dal ceppo e si incamminò verso la piccola figura che continuava a rimanere al centro del
campo, ormai abbandonato da tutti i suoi coetanei. Non sapeva nemmeno lui perché avesse deciso di andargli
incontro, non era nella sua indole cercare un dialogo e i bambini non gli erano mai stati particolarmente simpatici. Le
nuove generazione sembravano troppo diverse, per loro l'unica cosa importante era giocare e fare i capricci,
comportamenti assolutamente inaccettabili per la sua mentalità.
Cercando di non spaventarlo, Mirra poggiò delicatamente le dita sulle esili spalle del bimbo; il corpo sembrava non
avere consistenza sotto le dure dita del vecchio. «Ciao ragazzino, dì un po', perché sei rimasto qui da solo? Tutti i tuoi
compagni sono tornati nelle loro case per la merenda e ci sarà sicuramente anche nella tua, non startene qui in balia
del vento come le foglie! Quello posso farlo io, ché ormai sono vecchio e ho vissuto la mia vita. Forza, corri a casa o ti
ammalerai!».
Il ragazzino guardò negli occhi il vecchio e, con una voce che sembrava non avere età, iniziò a parlare in un linguaggio
che Mirra non si aspettava assolutamente di sentire da un bambino di circa dieci anni.
«Io non ho più una madre, se n'è andata via insieme al mio povero papà. Nessuno mi viene a prendere quando arriva
forte il vento e a casa non v'è alcuna merenda ad aspettarmi. Sono solo». Mirra rimase turbato dalle parole che
uscivano da quelle piccole labbra e indietreggiò, cercando di trovare le parole giuste, era la prima volta che cercava di
consolare una persona, questa volta si trattava addirittura di un bimbo!
«Non dire così, giovanotto! Sono sicuro che hai molti amici con cui condividere le giornate, d'altronde erano qui fino a
un momento fa! Torna da loro, vedrai che verrà servita anche a te un pezzo di torta per merenda».
«Io vorrei tanto andare a casa loro, giocare, far merenda, sognare e far progetti per il nostro futuro. Molti hanno già
delle idee fantastiche; c'è chi dice che farà il medico e scoprirà i rimedi per malattie incurabili, chi è sicuro che poserà i
piedi sul suolo lunare e chi farà in modo che tutti gli abitanti di questo pianeta non soffriranno più la fame e la miseria.
Capisci? Loro hanno tutto questo, io non ho nulla, ho solo questo desiderio: poter condividere con loro i miei sogni».
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Il vento aveva smesso di fischiare tra gli alti alberi del piccolo parco e il sole continuava a splendere alto nel cielo dove
stormi di passeri volavano pigramente.
«Non dire questo giovanotto! Sei ancora piccolo, vedrai che troverai anche tu una strada da percorrere, ne sono
sicuro!». Il viso del ragazzino si fece cupo, la tristezza lasciò spazio alla rabbia, le mani si strinsero in dei pugni e le
esili e piccole gambe iniziarono a tremare senza controllo. Mirra si pentì di essersi avvicinato a lui, avrebbe dovuto
starsene a casa come sempre, lontano da tutto e tutti. «La mia strada da percorrere è già stata scritta, nulla può
essere cambiato ormai. È troppo tardi e tu lo sai». L'uomo iniziò a sentirsi male. Tutti i suoni della natura, che fino a
qualche istante prima erano nitidi e gioviali, ora sembravano provenire da chilometri di distanza e annunciare qualcosa
di infausto. La luce sembrava accecarlo; voleva scappare via da quel posto, da quel bimbo, ma le gambe sembravano
essere di calcestruzzo e non riusciva a sollevarle da terra.
«Quanto pagheresti per ritornare alla mia età? Quanto daresti per ricominciare la tua vita e viverla a pieno, coltivando i
tuoi sogni, le tue passioni? Daresti tutto per aver al tuo fianco una persona che ti ami alla follia, ora lo so. Perché non
sei stato capace di farlo? Perché non hai avuto il coraggio di vivere?».
Mirra faceva fatica a respirare, ma trovò la forza per rispondere un'ultima volta: «Mi pento di tutto, ma so che questa
non è altro che un'allucinazione che preannuncia la mia fine. È troppo tardi ora, hai ragione tu. Le mani di cui andavo
tanto fiero non hanno alcun valore, sono state solo l'emblema della mia sofferenza. Solo sacrifici. Padre perdonami
per quello che sto dicendo, ma le tue parole mi hanno condizionato fin troppo, impedendomi così di dedicarmi a ciò
che volevo veramente essere. Ho vissuto, sperando di non deluderti, ho coltivato ciò che tu hai sempre fatto con
amore ma in fondo non erano le mie aspirazioni, non appartenevano alla mia indole. Ora finalmente vorrei viaggiare e
compiere le avventure che zio Eraldo mi raccontava prima di andare a dormire; vorrei esser su una mongolfiera in
compagnia della mia amata per vedere tutto il mondo dall'alto, e allontanarmi sempre di più dalla terra. Come ho
potuto cancellare i miei sogni?». Michele Mirra si accasciò ai piedi del ragazzino.
I grilli e le cicale continuarono il loro concerto pomeridiano, come per celebrare la caduta di quel pover'uomo.
Michele aprì gli occhi lentamente, facendo filtrare con cautela i raggi solari che sembravano scaldargli anche l'anima.
Accanto al letto si erano riuniti quasi tutti gli abitanti del paese che non facevano altro che parlargli, sperando che il
povero vecchio si riprendesse. Persino i ragazzini erano stretti alle loro madri in attesa di un risveglio.
L'uomo non aveva la forza per parlare, ma pianse di gioia nel vedere accanto a sé tutte quelle persone, pianse per la
gioia e il battito del cuore sembrava accelerato e rinvigorito…
Riaprì gli occhi, sorrise e tutti gli risposero con tanti sorrisi e si abbracciarono con grande sentimento.
Dopo qualche minuto entrò nella stanza un medico alto, dal volto giovanile, che invitò tutti ad uscire per far riposare il
signor Mirra. L'infarto, che lo aveva colpito durante quella torrida giornata d'estate, non aveva spento la fiamma vitale.
Al suo risveglio Mirra vide accanto al letto il giovane che lo aveva fatto morire e rinascere nello stesso giorno; il
ragazzino guardava dolcemente l'uomo e sorrise con la grazia di un piccolo angelo. Si avvicinò e toccò delicatamente
le vecchie mani dell'uomo: «Queste mani sono quelle di un uomo pronto a sognare, pronto a sperare di nuovo nel
futuro. Sono le mani di un uomo che ha faticato tanto, troppo, ed ora è giusto che trovino riposo. Fammi rinascere
dentro di te un'altra volta, fammi rivivere quello che non ho potuto vivere. Non far morire il giovane che è rinato dentro
te». Il ragazzino strinse di nuovo le mani al vecchio e svanì improvvisamente dalla camera, nonostante l'uomo
continuasse a sentirlo. Dopo un paio di mesi dall'incidente, Michele Mirra era alla fiera del paese circondato da tutti gli
abitanti di Val Notturna. Accanto a lui vi era di nuovo Maria Ferrai. Le sue mani erano intrecciate a quelle dell'uomo
che tempo fa le aveva spento ogni entusiasmo, mentre ora non riusciva più a staccarsi da lui. Ora il futuro non
sembrava inutile e privo di senso, non era più solo. Tutto appariva nuovo e ricco di significati inimmaginabili.
Guardandosi le mani Mirra non trovava più segni di fatica, la pelle sembra esser stata levigata lentamente con delle
pietre magiche e nulla nel suo animo desiderava far sì che quelle mani tornassero a somigliare a quelle del padre.
«Ricordo ancora con piacere immenso le tue parole, babbo caro, ma ora che il futuro e i sogni sono rientrati nella mia
vita voglio aspettare ancora molti anni prima di abbracciare di nuovo te e la mamma. Siate felici della mia rinascita, i
miei sogni sarebbero stati apprezzati anche da voi, ne sono certo».
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IL BONFA NEL MONDO /1
di Leonardo Lepenne (ex studente corso C)
Premessa - Capelli ricci, lunghi fino alle spalle. Volto sbarbato, sorriso
sornione, modalità furbizia sempre attiva. Era questo il Leo di qualche
anno fa tra i banchi di scuola, “disperato e disgraziato”, di quegli alunni
“intelligenti ma che non si applicano!”. Quante volte si è sentito
rimproverare la sua “non voglia” di studiare, quante volte ha incassato il
colpo reagendo solo in un secondo tempo, magari con una sua
marachella sbeffeggiante! Eppure, scrivendo queste poche righe, ricordo
di lui il rispetto con cui si è sempre rivolto nei confronti di un giovane
prof., mai maleducato anche se qualche volta nervosamente assente
anche al rimprovero, indifferente agli stimoli dei colleghi…
E un giorno, dopo diversi insuccessi scolastici e un abbandono
prematuro della scuola, trovo una mail. Apro e con sorpresa ritrovo le sue
parole ma soprattutto leggo la provenienza di quel messaggio: Sidney!
Mi piace leggere la vita “dopo il Bonfa” di chi ho avuto il piacere di incontrare lungo il mio sentiero professionale ma
soprattutto umano. E allora domando, mi informo, stimo chi fin dall’emisfero australe a migliaia di chilometri dalla terra
degli aironi mi scrive e, semplicemente, leggo e, ancora una volta, imparo!
CURIOSITÀ AUSTRALIANE
L’Australia ha una specifica festività riconosciuta per una corsa di cavalli: la Melbourne Cup.
Nel 1838, in Australia è stato dichiarato illegale fare il bagno in spiagge pubbliche durante il giorno. La legge è stata applicata
fino al 1902.
L’Australia è la madre della Grande barriera corallina, la barriera corallina più lunga del mondo, che si estende per
oltre 2.012,5 km.
Si dice che un tipico australiano, nell’arco della sua vita, può prevedere di consumare 10 tonnellate di verdura, 8 tonnellate di
frutta, mezza tonnellata di formaggio, 165.000 uova, 92 pecore, 17 bovini da carne e 406 pagnotte di pane.
Nel 1954, un uomo di nome Bob Hawke è entrato nel Guinness dei primati per aver ingurgitato quasi un litro e mezzo
di birra (2,5 pinte inglesi) in soli 11 secondi. Nel 1983, lo stesso Bob Hawke è diventato primo ministro d’Australia.
Nel 1967, il primo ministro Harold Holt andò a nuotare a Cheviot Beach e nessuno lo rivide più. L’evento è ricordato come “il
bagno che non ebbe bisogno di asciugamano” (e potrebbe aver fatto prendere in considerazione ai legislatori – anche solo per
un secondo – la possibilità di ripristinare la vecchia legge contro il nuoto nelle spiagge).
Nonostante le miniere australiane producano circa il 15% del PIL del Paese, solo lo 0,02% del territorio australiano è
occupata dalle miniere (in realtà, è maggiore il territorio australiano occupato dai pub).
L’Australia ha più di 150 milioni di pecore – un numero circa 7,5 volte superiore alla sua popolazione umana.
La popolazione dell’Australia è così poco densa che mentre in altri Paesi di solito si calcola quante persone vivono in
un chilometro quadrato, in Australia si calcola di quanti chilometri quadrati dispone una persona.
In Australia non importa dove ci si trovi: non si è mai a più di 1.000 km di distanza da una spiaggia.
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“Prof. G., se mi dice che mi “pubblica” sul giornalino scolastico del Bonfa mi
fa sentire importante, dai!!!
Mi prometta solo che poi mette giù bene quanto leggerà, io ora “apro la mente” e semplicemente… scrivo!
La mia storia bonfantiniana è iniziata quando all’orientamento alle scuole medie ho scelto di fare l’Istituto
Agrario: il mitico Bonfa. Una scelta ponderata dal mio amore per gli animali e la natura. Ho sempre
pensato fosse pensavo fosse la scelta giusta per me, ed era cosi! Dagli Open Day e da altre occasioni
simili, ho subito pensato fosse una scuola mitica e sopratutto bellissima, addirittura gigantesca! Con il
senno di poi penso che in quella scuola ho passato gli anni più belli della mia vita, sarà scontato ma è
così! Sono felice anche perché durante gli anni sono sempre stato etichettato come “mela marcia” o
“pecora nera” di turno insieme ai miei compagni di sventura Diego e Fioru! Le si ricorderà bene!!! E poi le
gite pazzesche, fighissime trascorse insieme, organizzata da proff. che non dimentico che mi hanno
insegnato tanto (anche se non sempre ho dimostrato riconoscenza nei loro confronti) ma qualcuno (tra cui
lei!) mi ha anche tirato le orecchie molte volte e, ricordo bene, anche una calcolatrice addosso!!! Sa, ora
che sono un po’ maturato e cresciuto, posso dire di avere avuto degli insegnanti speciali, dal primo
all’ultimo, dalla “regina della luce” prof.ssa Fierro che mi metteva un 2 al giorno, alla speciale prof.ssa
Barsuglia!
Prof., io mi sono sentito a casa per 4 anni e, anche se alla fine non è andata benissimo, sono felicissimo
di aver fatto questa scelta. Visto il mio passato da “studente brigante” non ho mai ottenuto un diploma (ma
ora lo rimpiango molto!).
Dopo essere “cresciuto un po’ di testa” ho deciso di cambiare. Cambiare radicalmente. Ho scelto
l'Australia come meta per “risorgere”. La terra delle opportunità! Non la posso mettere a confronto con
l’Italia perché la cosa sarebbe del tutto banale: gente diversa, culture diverse ma sopratutto vita,
quotidianità diversa. Ora faccio il
cameriere, prendo quasi 1000 $ a
settimana (e sono un bel po’ di
soldi!). La natura qua è
spettacolare,
incontaminata,
paesaggi immensi, meravigliosi e
straordinari! Attualmente non posso
far
altro
che
consigliare
un’esperienza di questo genere
anche se comporta un netto
distacco dai propri affetti, dalla
propria terra e dalla routine che a
volte va proprio stretta. In Australia
sto bene, anche economicamente
non posso nascondere di star bene.
Qui, le immense fattorie del Paese
(le farm) offrono opportunità
straordinarie e se avessi completato gli studi avrei avuto un’occasione speciale in più, una paga ancora
più alta tra gli 800 $ e i 1500 $ a settimana. È un’occasione rara, un modo per imparare a “farsi le ossa”
da soli lontano da tutto, a contatto con una natura sconosciuta ma insieme ad altre migliaia di giovani di
diverse nazionalità che come me sono “in fase di ricerca”! Quindi, scritto questo, caro prof. sono
felicissimo di essere qui e di quello che sono diventato… ho ancora tanta strada davanti ma sono sereno!
Un grazie va anche al “mio” Bonfa perché è stato parte integrante della mia vita. Non potevo chiedere di
meglio!”
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IL RISCHIO DI NON CONOSCERE L’INGLESE secondo il Web
Il visto vacanza-lavoro permette di rimanere in Australia per 12 mesi, e può essere rinnovato per altri 12
se il titolare accetta di trascorrerne almeno 3 nel cosiddetto “outback”, lavorando nelle aziende agricole,
nelle miniere e nel settore delle costruzioni. Costa circa 300 euro ed ha una serie di vincoli che, di fatto,
gli impediscono di essere il trampolino di lancio per una carriera a tempo indeterminato down under. Tra
questi, l’impossibilità di essere (legalmente) impiegati per più di 6 mesi dallo stesso datore di lavoro e la
flessibilità sulla conoscenza dell’inglese, che per altri tipi di visto è necessaria: entrare in Australia
senza conoscere l’inglese non è un vantaggio ma, al contrario, rischia di amplificare la delusione,
perché una lingua si perfeziona, non si impara lavorando. È anche per questo che molti giovani
finiscono col ritrovare all’altro capo del mondo alcune delle situazioni che li avevano spinti a lasciare il
Bel Paese: periodi di prova non pagati (che tuttavia capitano sempre più di rado), precariato, lavoro in
nero, compensi anche significativamente inferiori al salario minimo nazionale, che è di 16,37 dollari l’ora
(con bar e ristoranti che arrivano a pagare anche appena 120 dollari al giorno a chi vi entra la mattina
per uscirne a mezzanotte) e via dicendo. Tante volte è la vaga promessa di un’assunzione a dare a
questi ragazzi la forza di continuare. In altri casi è la paura di confessare la delusione di un sogno
infranto, ma per qualcuno resta forte la speranza che, prima o poi, l’occasione giusta arriverà. Qualche
volta la tanto agognata occasione arriva davvero, ma più per coincidenze che per altri motivi.
i problemi visti dal punto di vista
di Leonardo che in Australia ora ci vive
i problemi che si potrebbero incontrare in
Australia secondo un qualunque sito Web
UNA SOLUZIONE SERIA ED ONESTA SI TROVA secondo Leo
Dal punto di vista di uno che ci vive da qualche mese. La parte dei visti è tutta vera! Quello che c'è
scritto dopo assolutamente no, per lo meno per me! La gente del posto è molto amichevole anche se
non sai la lingua ti ripete le cose venti volte, ma ci sono comunque scuole di inglese per perfezionarlo
anche a basso costo. Io ho fatto così, l’inglese l’ho studiato al Bonfa e approfondito e
perfezionato qui! Ho cambiato 6 posti di lavoro e di soldi in nero neanche una traccia!!! La paga è
sempre stata all’altezza del costo della vita qui e poi… ho visto giovani andare a casa dopo tre
settimane, vero! Ma sono tornati in Italia non perché il “sogno australiano” si è spezzato ma perche la
nostalgia di casa e della mamma è stata più forte di ogni cosa!
Ovviamente il visto non ti permette di stare qui a vita, ma se sei fortunato e ti dai da fare con
costanza e serietà, puoi trovare datori di lavoro che si “affidano” in qualche modo alla tua esperienza
e ti applicano uno “sponsor” cioè ti legano a quel lavoro per due anni facendoti così concedere un
visto permanente per rimanere in Australia. La metà della popolazione Australiana è composta da
backpackers ovvero gente che arriva, come me, da altri Paesi ed è difficile che qualcuno tra loro ti dica
che il viaggio in Australia è stato uno sbaglio! Certo che non puoi venire qui e stare a casa ad
aspettare che qualcosa arrivi, devi girare posti, mettere in campo le tue risorse insomma metterti in
gioco e conoscere più gente possibile. Se ce l'ho fatta io, ce la possono fare tutti!
19
–
IL BONFA NEL MONDO /2
la storia di Alessandro, Simone e Andrea (ex bonfantiniani)
Scrivere di loro non è così semplice, non per
qualche ignoto problema ma perché non è volontà di tutti
raccontarsi e raccontare le proprie scelte e le proprie
esperienze di vita... ma quando un ex insegnante insiste
all’esasperazione, li intercetta per i corridoi della scuola
quando, provvisti di regolare pass, salutano tutti i colleghi
di ritorno dal loro viaggio, e poi non contento apre una chat
su facebook proseguendo l’intervista coatta, sbagliando
anche uno dei componenti inseriti! Ebbene, con le buone
tutto si ottiene e uno dei “tre dell’Est” risponde! Lo fa nel
suo stile apparentemente improvvisato e svogliato ma in
verità lo fa perché in fondo alla sua scuola qualcosina vuol
lasciare. Alessandro risponde, Andrea non obietta e si
defila, Simone deve ancora essere inserito nella chat dallo
sbadato prof. che ancora deve scusarsi con un omonimo preso a
caso dalla rete e interpellato a forza (!).
Ma chi sono questi tre ragazzi?! Sono tre coraggiosi giovani che
dopo qualche anno al Bonfa scelgono un Paese non troppo lontano
ma in una zona d’Europa non propriamente riconosciuta come “sede
di lavoro all’estero”: la Romania. Alessandro e Simone concludono il
loro percorso di studi regolarmente, Andrea sceglie/subisce “uno e
più approfondimenti” ma sogna il lavoro, il banco della scuola gli sta
stretto, ama, come i compagni d’avventura, la campagna, il lavoro
nel verde e il silenzio della terra.
Sono tre ragazzi a cui non fa paura aver le mani sporche di terra.
Ragazzi che già da tempo sanno cosa significa “donare sudore alla
terra”. Ragazzi che del lavoro non hanno paura, ma forse ne hanno
di non riuscire a trovare un impiego!
E così i tre giovani ormai ex bonfantiniani decidono di partire, per
diversi motivi a loro dire. In primo luogo la ricerca di un lavoro: l’Italia
purtroppo “sta stretta” a tutti e tre. L’opportunità di poter lavorare
all’estero pare affascinare tutti e tre. La possibilità di poter imparare
una lingua, conoscere persone in una realtà sociale diversissima da
quella italiana. L’occasione di poter lavorare attivamente in una delle
aziende risicole più grandi d’Europa, con circa 5.000 ettari di terreni
immersi nella sterminata campagna dell’Est.
20
–
Destinazione Romania!
Alessandro ammette quanto l’esperienza di lavoro all’estero sia stata per tutti
e tre un’ottima opportunità che “ti cambia, ti rimane dentro, ti regala una
nuova immagine di vita”. Non è facile, e forse non c’è neppure desiderio di
raccontare quanto vissuto, piuttosto, nelle poche parole che scrive
Alessandro emerge davvero qualcosa di nuovo rispetto alla “vita da
studente”. Andrea ha un volto più sorridente nonostante sia segnato dalla
fatica e dalle difficoltà di ragazzi appena ventenni (o quasi!) che hanno
affrontato i problemi con la lingua locale, con gli usi e i costumi del posto… “provate voi a partire senza sapere
neppure una parola di romeno e trovarvi a lavorare con solo tre colleghi che vi capiscono!”.
Negli otto mesi trascorsi in terra
rumena, l’Italia non manca così
particolarmente. Prevale il rancore
per la mancanza di opportunità
della propria terra natia: “non mi è
mai passato per la testa di rientrare
in anticipo” dice Alessandro “forse
un pochino di nostalgia l’ho provata,
lo ammetto, ma esclusivamente
della cucina italiana!!! E poi la vita
sociale nelle campagne dell’Est non
è così ricca anzi forse non esiste
proprio. In otto mesi ho visto la città
forse tre o quattro volte!”.
Ed ora il volto non più sbarbato di
Andrea e gli occhi degli altri ragazzi
fanno trasparire il desiderio di
tornare in una terra così
sconosciuta, seppur piena di
difficoltà.
Il
periodo
che
trascorreranno in Italia sarà di
qualche mese soltanto ma manca il
lavoro che tra le risaie dell’Est non
mancava di certo, manca la grande
azienda, manca la terra, manca
anche quel riso seminato e fatto
crescere passo per passo fino al
raccolto… mancano gli incontri speciali e manca tutto ciò che si è “imparato” lavorando in questi mesi.
C’è del coraggio in queste tre vite ma ancor più c’è un esempio di tre bravi ragazzi che del lavoro,
anche quello faticoso e lontano, non hanno paura… semplicemente c’è una forza chi li muove e li
rende felici: si chiama PASSIONE!
21
–
Noi del bonfa...
Di CLAUDIA PAVAN (ex corso b)
UNA VITA OLTRE IL BONFA:
VoLEVO fare la “pastoressa”
e ora VIVO DI NATURA!
un “vecchio” articolo tratto da uno degli ultimi numeri del Bonfa (datato 2013) che offre uno
spunto di riflessione su un approccio al mondo “post diploma”; dai monti della Valle d’Aosta
Claudia Pavan, ex studentessa diplomata nell’a.s 2009/2010 nel corso B della Sede, racconta
la sua scelta di “montagnina” mantenendo le radici bonfantiniane
M
i è stato chiesto di raccontare la mia storia e
di come l’esperienza bonfantiniana possa
averla influenzata. Ed eccola.
Partiamo dagli arbori, quando ero una pischella e
all’asilo le maestre ci dicevano di disegnare cosa
volevamo fare da grandi. I miei compagni erano dei
gran sognatori. Le femminucce disegnavano sé
stesse in abiti regali, vicino a castelli e cavalli:
“Voglio fare la principessa”, squittivano sorridenti e
sognanti. I maschietti si sbizzarrivano tra
acchiappafantasmi, supereroi, militari e qualche
modesto meccanico. Io invece ero la disperazione
della maestra: dividevo sempre il foglio in due parti
con una riga perché ero sicura di non essere certa
del mio futuro; o meglio, non sapevo quale delle due
opzioni scegliere. La prima era la ruspista. Si, avete
letto bene, la ruspista! Sognavo di guidare quei
giganteschi caterpillar gialli e spostare tonnellate di
terra di qua e di là. La seconda era la pastoressa, così definivo il femminile di pastore. Mi
raffiguravo in camicia a quadri sopra al mio bel trattore con annesso rimorchio carico di balle di fieno
e, al seguito, una mandria di bestie. La maestra ogni tanto riprovava l’esperimento, sperando che un
giorno avrei disegnato anch’io una povera principessa illusa. E invece no. Niente da fare.
22
–
A quattordici anni avevo le idee ancora molto chiare, le stesse di dieci anni prima:
stavo per iniziare la mia avventura bonfantiniana. Cinque anni splendidi, dei quali conservo un ottimo
ricordo. L’ultimo giorno della quinta coincideva con il primo della mia nuova vita, quella che
premeditavo da qualche tempo. Una decisione un po’ folle, lo riconosco, ma che rifarei. Una scelta
inizialmente poco appoggiata, soprattutto dai miei genitori, che hanno però dovuto rassegnarsi ed
accettarla. Sono scappata dalla pianura lombarda e mi sono trasferita in Valle d’Aosta, nella
nostra casetta delle vacanze. La pianura sarà anche piena di virtù e comodità ma non era il mio
habitat naturale tutto quel piattume, quel caos e quella nebbia.
L’estate della maturità mi è servita da rodaggio: ho trovato un lavoretto e ho iniziato a capire cosa
significava vivere da sola. Fare da mangiare, lavare, stirare, ma soprattutto pagare le spese e le
bollette. Non è tutto rose e fiori emanciparsi dai genitori, ve lo assicuro. Per fortuna sono sempre
stata molto intraprendente e la svolta non è stata poi così drastica. L’estate stava volgendo al
termine e dovevo capire cosa fare del mio futuro; continuare gli studi o cercare lavoro nel mio
settore?
Beh, non ci crederete ma la risposta l’ho avuta dalla mia nonna: 90 anni di donna, un italiano
ostentato da un dialetto veneto marcato e curiosità da vendere. Eh già, è quello il segreto della vita:
essere curiosi. Un giorno mi chiese come fosse possibile che dai vulcani uscisse “roba liquida”, così
l’ha definì. Così ho cercato di spiegarle un po’ di geologia. Mi guardava come se parlassi un’altra
lingua. Allora ho deciso di semplificare il tutto: “Vedi nonna, la Terra è come una grande arancia: la
buccia è la crosta terrestre, mentre la polpa è il magma, quella sostanza liquida che esce dai vulcani;
se fai un buco nella buccia dell’arancia, esce il succo”. E lei: “Ma mi no faso mìa busi ne ‘e ranse; mi
le magno” (= ma io non faccio mica i buchi nelle arance; io le mangio). Dopo vari tentativi sono
riuscita a spiegarmi e lei, tutta contenta, è corsa a spiegare alle sue amiche che la Terra era
un’arancia. Potrei citare altri mille divertenti episodi ma credo di aver reso l’idea di come ciò che per
noi è scontato, per chi è nato 90 anni fa non lo è
affatto. Mia nonna ha frequentato solo la prima e
la seconda elementare; sa a malapena scrivere,
con una marea di errori ortografici, ma appena
c’è qualcosa che non capisce, chiede spiegazioni,
legge, si informa. Si incuriosisce e vuole capire a
tutti i costi. Io la invidio per questa sua innata
spinta alla conoscenza.
Un giorno mi chiese: “E dèso che te ghè finìo ‘a
scòa, cosa fài?” (= e ora che hai finito la scuola
cosa pensi di fare?). Così le ho spiegato che ero
indecisa sul da farsi: “Riconosco di avere
parecchia memoria, soprattutto per le cose che
mi interessano, e quindi di poter ottenere i
migliori risultati scolastici con il minimo dello
sforzo; d’altro canto però, sono consapevole del
fatto che studiare non fa per me, che non ne ho
voglia”. La sua risposta è stata secca e
determinante: “Io avrei voluto studiare ma non
ho potuto, a 8 anni mia mamma mi ha mandata
a lavorare in una fabbrica di sigari; tu che puoi,
non sprecare quest’occasione. Te ne pentiresti”.
23
–
Beh, in 90 anni ne metti da parte di saggezza. E cosi’ l’ho ascoltata.
La decisione di continuare gli studi era ormai presa, ora rimaneva da scegliere il “cosa” studiare. Di
mais, riso e grano non ne volevo più sapere, anche perché a 1400 metri di quota, coltivare cereali
non è l’ideale. Cosa c’è in montagna? Cosa può essere utile imparare a conoscere laddove mi sono
trasferita? Piante. Erbe, arbusti e alberi. Di ogni genere e specie. E poi, animali selvatici: caprioli,
cervi, camosci, stambecchi, cinghiali. Ebbene si. La scelta non poteva che vertere sul corso di Scienze
Forestali ed Ambientali, nella Facoltà di Agraria, a Torino.
È iniziata così anche la mia avventura universitaria. In settimana a Torino per seguire le lezioni e il
fine settimana a casa, lavorando come cameriera in un ristorante, giusto per potersi pagare le spese.
D’estate però non si può rinunciare alla tradizione di passare un mesetto in alpeggio.
È da quando ho 12 anni che, ogni estate, attendo questo momento. Quando alla commissione di
maturità ho presentato la mia tesina intitolata “L’alpeggio” ho destato un po’ di perplessità.
D’altronde l’alpeggio è uno stile di vita, una passione più che una professione. A maggio si sale a
piedi fino alle baite, a 1800 metri per poi spostarsi a 2300 metri a fine luglio, quando ormai la neve si
è sciolta è i pascoli sono verdi. Quattro mesi di duro lavoro, immersi nel silenzio delle montagne.
Sveglia alle 4:00, si accende il fuoco, ci si veste , si calzano gli stivali, secchio e sgabello e si va in
stalla. L’elettricità non arriva lassù quindi si munge a mano, al solo chiarore dell’alba o di un
frontalino quando il sole tarda a sorgere. La mungitura è un momento magico lassù, scaldato dal
calore delle bestie e scandito dal ritmo del latte che schizza nei secchi. Le stalle sono piccole, basse,
anguste e si finisce per mungere con la schiena poggiata ai fianchi della vacca accanto; si può sentire
il suo battito, il calore che emana e, se è gravida, perfino i movimenti del vitellino. Ogni qualvolta il
secchio si riempie, si corre a svuotarlo nella cantina, nel grande paiolo. Finita la mungitura si torna in
baita per una tazza di
caffè
latte
per
poi
rimettersi
subito
all’opera; la giornata è
solo all’inizio. Sono da
poco passate le 5:00 e il
sole inizia ad illuminare le
cime. È il turno delle
capre: sono un po’ più
bisbetiche e non si
lasciano mungere tanto
facilmente, ma con un po’
di pazienza si ottiene
tutto. Il latte di capra
viene poi posto in un
altro paiolo più piccolo.
Smessi
i
panni
da
mungitrice è già ora di
cambiarsi e indossare
quelli di casaro. Il fuoco arde ormai a dovere e ci si può apporre sopra il paiolo del latte. Per fare
della buona toma e della buona fontina, serve una mano esperta. Bisogna fare attenzione alla
temperatura del latte e alla quantità di caglio.
Non è stato semplice apprendere tutti i segreti per ottenere una buona forma.
24
–
Ci sono voluti mesi ed una buona dose di tentativi falliti! Dal latte di capra si ottengono invece delle
squisite formaggelle. Sono quasi le 9:00 ed è ora di portare al pascolo la mandria. Oh come sono
felici quando ti vedono entrare in stalla e sentono gridare il loro nome davanti alla porta spalancata!
Quelle bestie sono davvero intelligenti. Pochi immaginano l’obbedienza e la fedeltà di questi animali.
Ognuna ha il suo nome e ne risponde se chiamata. Quando al mattino ancora sonnecchiano e
faticano ad alzarsi per esser munte, non c’è pacca o punzecchiamento che le convinca. Basta dire a
gran voce il nome giusto e stai pur certo che solo lei si alzerà. Certo non è semplice imparare a
distinguere 50 vacche ma basta osservarle bene e si scoprirà che ognuna di loro non ha solo colori,
pezzature e corna diverse, ma anche un carattere diverso.
Così si parte al pascolo, accompagnata da Moretto, il cane pastore. Anche pascolare è un’arte;
bisogna iniziare dal basso, dove la neve è già sciolta e l’erba è già verde, per poi pian piano risalire,
durante la stagione, fino ai pascoli più alti. Da fine agosto inizia a nevicare e quindi si deve
nuovamente scendere. La mandria è ubbidiente e il cane pastore compie il suo lavoro in modo
eccellente, perciò non c’è bisogno nemmeno di fili e paletti.
Nel frattempo si mettono fuori anche le capre. Queste non solo sono disubbidienti ma sono pure
dispettose! Appena la porta della stalla si apre schizzano fuori alla velocità della luce e dopo pochi
minuti le vedi lassù in cresta che ti sfidano ad andare a riprenderle. Maledette.
Verso le 14:00 si comincia a tornare verso le baite con la mandria; le mucche tornano in stalla,
ognuna al proprio posto. Si girano le forme di toma che stanno angora sgocciolando il siero e poi si
mettono le gambe sotto il tavolo. Polenta, formaggio, pane, salame e un buon bicchiere di vino.
Quattro chiacchiere, un caffè ed è già ora della seconda mungitura. I secchi colmi di latte e coperti di
schiuma viaggiano dalla stalla alla cantina. Intanto c’è da andare a recuperare quelle bestiacce: le
capre. Tendi l’orecchio e le senti; le senti
sempre. Ma non le vedi mai. Una bella
dose di santa pazienza, tanta voglia di
camminare e un frontalino in tasca, che
non si sa mai. Attacchi su dritto il costone
seguendo il rumore delle campane. Passi la
pietraia ed eccole lassù. Sono sempre più
in alto di te. Meno male c’è Moretto, il
cane pastore, ma se le capre lo vedono si
fiondano giù, dall’altra parte del costone.
Lui lo sa, quindi se ne sta quatto quatto al
mio passo fino all’ordine: “Moretto, feit ou
tzir!” (= Moretto, fai il giro!). Allora corre
svelto fino alla cresta, scollina sull’altro
versante e subito dopo riappare, preceduto
dal gregge che corre all’impazzata. Guardi
giù e ti rendi conto che l’alpeggio è
diventato piccolo-piccolo; hai ancora tutta
la discesa da fare, ma ora il gregge non ha
scampo e si può controllare. Prima di
scendere si approfitta sempre dell’ottima
visuale per assicurarsi che anche il gregge
di pecore non si sia allontanato troppo.
Loro se ne stanno sempre a zonzo, non
25
–
tornano mai alle baite. Ed è bello, a fine estate, ritrovarsi una ventina di agnellini nuovi.
Tornata alla base, si viene accolti dal profumo del latte: dalla seconda mungitura si otterranno
altrettante forme di buon formaggio.
Le capre filano in stalla e noi in baita per la merenda: servono forze quassù! Prima di cena si portano
ancora un momento fuori le vacche; all’imbrunire tutti dentro e finalmente è ora di cena. Una
minestra calda è quello che ci vuole. Che atmosfera la sera quassù. Una candela tremolante che
illumina i volti stanchi, il silenzio rotto da frasi in patois che echeggiano nella stanza e gli occhi di
Moretto che reclamano un pezzetto di pane. La stanchezza poi rapisce tutti velocemente e ci si
addormenta in fretta con lo scoppiettio del fuoco.
Ecco, tutto questo è l’alpeggio. Un’esperienza che consiglio a tutti, per provare cosa significa
“vivere di natura”, senza macchina, cellulari, computer, televisione, ma nemmeno elettricità. Per
mettere alla prova se stessi, non solo al lavoro fisico ma spesso ai silenzi che la montagna offre, nei
quali non si può far altro che riflettere, pensare, immaginare. Azioni che, nella frenesia del mondo
contemporaneo, pochi hanno il tempo di compiere.
E ora? – direte. Che te ne fai di una laurea in Scienze Forestali ed Ambientali? Beh me lo sono
chiesta anche io. Purtroppo al giorno d’oggi, molti giovani sono laureati, il solo diploma non conta più
molto. Quindi per essere competitivi nel mondo del lavoro è quasi indispensabile avere una laurea.
Perciò iniziamo col conquistarlo questo pezzo di carta! Tornerà sicuramente utile!
Cosa vorrò fare da grande in realtà non lo so ancora. Ho delle idee, dei sogni, delle piccole ambizioni,
ma nulla di sicuro. Abito praticamente dentro un parco regionale (il Parco Regionale del Mont Avic –
venite a visitarlo, è un piccolo paradiso!) e sarebbe l’ideale trovare un posticino come guardaparco.
Ma la selezione è tosta. Ciò non toglie il fatto che bisogna provare! A fallire si fa sempre tempo, dice
qualcuno!
Le alternative sono tante, così come le idee che mi frullano nella testa; vedere gestiti i boschi della
mia valle ad esempio, creando una piccola azienda forestale; o, perché no, avviare una piccola
attività vivaistico-forestale, raccogliendo in loco i semi dai boschi migliori, da utilizzare nei
rimboschimenti futuri; e poi un sacco di attività secondarie, poco redditizie (quanto meno all’inizio),
ma che secondo me hanno delle grandi prospettive, se ben studiate, come ad esempio rivalutare i
piccoli frutti e le varietà antiche di montagna, coltivando mirtilli, lamponi, ribes, ma anche mele, pere,
ciliegie e susine selvatiche; ricavare prodotti di nicchia ma squisiti, utilizzando ciò che offre il bosco,
cosa che ho imparato a fare ormai da qualche anno grazie ai consigli del mio vecchio e dei montanari
di quassù: dalle pigne di pino cembro si ottiene ad esempio uno sciroppo ottimo per la tosse che, con
l’aggiunta di un po’ di grappa, diventa un delizioso liquore; così come, aggiungendo del semplice
alcool, si ottengono prelibati liquori al ginepro, al mirtillo, al lampone, all’achillea, alla genziana e
soprattutto al genepì; i pascoli alpini regalano spezie (timo, cumino e ginepro), e prodotti per infusi e
tisane (genziana, malva, achillea). Si raccoglie inoltre l’arnica - un fiore giallo che guarisce le
contusioni - e l’iperico, il cui olio guarisce vesciche e scottature. Insomma, il bosco e la montagna in
generale, offrono un’enormità di risorse; bisogna solo scoprirle, conoscerle, saperle sfruttare senza
abusarne, gestirle in modo sostenibile e trarne il meglio.
Ecco questa è la mia storia, per ora; o meglio, mi auguro sia la prefazione di
un bel libro ancora tutto da scrivere e sfogliare e soprattutto a lieto fine!
Il resto delle pagine sta a noi scriverle.
Nel migliore dei modi...
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–
SVAGO BONFANTINIANO
a cura del prof. Daniele Pescio
ORIZZONTALI
1-Lo è l’equazione x  12  2  x 2  2 x  3
13-La città piemontese con l’isola di San Giulio.
14-Il primo presidente della Repubblica eletto secondo il
dettato della Costituzione.
15-C’è quello termodinamico.
16-Meridione.
17-L’inglese Vai!
18-A strisce.
21-Si occupa del passato.
24-L’habitat degli aerei
25-Gli estremi di Torino.
26-L’estensione dei siti internet dedicati all’educazione.
27-Fe per la Chimica.
28-Il cane a sei zampe.
29-Ha perso qualche elettrone.
31-Bambinaia.
33-Sigla della provincia di Milano.
34-Fastidioso.
36-Come in inglese.
37-Asso inglese.
39-Il San del Carso.
41-C’è anche quella fallimentare.
42-Il livello giapponese delle arti marziali.
43-Una è la Sportage.
VERTICALI
2-Negazione inglese.
3-Il più grande nemico dei cavalieri.
4-È stato battuto da Achille.
5-Secondo la filosofia cinese è la forza fondamentale che
scorre attraverso tutta la materia dell’Universo.
6-1 nella divisione tra 9 e 4.
7-Ministero dell’Istruzione.
8-Lo si consulta per trovare la pagina.
9-Il Sodio sulla tavola periodica degli elementi.
10-Dura, aspra.
11-Il Duncan professionista nella NBA (iniziali).
12-Area destinata al raccoglimento dei prodotti da essiccare.
15-Può essere di due equazioni in due incognite.
18-Ci si va per imparare.
19-Il Ribeiro Santos calciatore.
20-Servo della gleba dell’antica Sparta.
22-Un tipo di acqua.
23-Lingua propria e particolare di una comunità.
27-Party.
30-Termine inglese con cui viene definito chi ha una certa
predisposizione per la scienza e la tecnologia.
32-Il continente con l’India.
35-Lo stagno inglese.
38-Il famoso Ettore regista (iniziali).
40-Tutto bene.
27
–
la bacOca
una sorta di bacheca che raccoglie tutte le stranezze e le frasi da ricordare che rendono più allegre
le lezioni e le “avventure” scolastiche è possibile segnalarle a [email protected]
solo un bonfantiniano può
È
,
ma soprattutto
bestialità simili
“Un vitello ha un’età media di 3 ANNI”
“Il catasto è GIO METRICO”
“Il terreno ha speciali proprietà CONCIMATIVE”
“In sala mungitura si effettuano 3 MUNTE al giorno, no
scusi, ho sbagliato 2 MONTE… no prof. non lo so!”
“Tra le malattie del mais c’è la TEMIBILE SIFILIDE”
“In Pianura Padana piovono 30.000 mm/anno!!!”
“I vitelli scolo strati sono senza COLESTEROLO!”
“Dalle visure VISURATE E MISURATE risulta che…”
“L’imprenditore INVESTISCE…”
“La stanza di sotto è ABITATA A GARAGE!”
“Nella stalla ci sono le MADRI INCINTE”
“L’azienda è OCCORPATA”
“La stalla può essere a stabulazione fissa o a
stabulazione FLUIDA”
“La mietitrebbia viene DEPOSTA nel ricovero Macchine
e Attrezzi IN LEGNO CHIUSO SU 4 LATI”
“Prof. io vorrei seguire la mia amica in Università ed
andare a IL Bocconi”
“L’AQUA è un LICCUIDO da USIARE e… occhio
all’ETICETTA”
“Il mais lo accumulo nel SECCATOIO”
“Ci alimentiamo grazie al DEMAGNO”
“Io prof. questa materia non la capisco: mi SUICIDIO!”
“Ma prof. … OVV’IAMENTE scherzavo!”
Sai che Arleen è finita in
ospedale per
avvelenamento?
Si sarà
morsicata la
lingua!
Due angeli seduti su una nuvoletta.
CHERUBINO: “Come mai sei qui?”
SERAFINO: “Una granata durante la seconda guerra mondiale. E tu perché sei
qui?”
CHERUBINO: “Be! Stavamo andando al mare, ci siamo fermati in Autogrill per
una pausa poi mia moglie mi ha detto: se mi fai guidare sei proprio un angelo!”
redazione de “Il Bonfa” – hanno collaborato a questo numero prof.ssa Giuseppina Calloni, prof. Daniele Pescio, prof. Guido Rossi, prof.ssa
Angela Panigoni ed ex alunni/e 5^C (Sede di Novara), prof.ssa Anna Maria Papadopoli ed ex alunni 5^B (Sede di Novara), Giulia Miglio, Claudia
Pavan, Ivan Bernardi, Francesco Fabrini, Matteo Tosin, Sara Barbaglia, Valentina Bongiorno, Giovanni Ivo Lazzari, Linda Schianta, ex alunni/e 5^A
(Sede di Novara), Leonardo Lepenne, Alessandro Minio, Andrea Avvignano, Simone Pollastro, fonti bibliografiche e internet citate negli articoli di
riferimento, sorrisi, consigli e critiche pertinenti e costruttive. E speriamo di non aver dimenticato nessuno!
STAMPATO IN PROPRIO – Vignale (Novara),
28
quattrodicembreduemilaquattordici
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