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diario alpino
Notiziario CAI n. 2 Estate 2008. Semestrale. Poste Italiane Spa. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv.in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD
del C.A.I. Padova
2 • 2008
100 anni del CAI Padova
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IL NOTIZIARIO
n
Ce
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19 t ’anni
C AI
PAD
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A
OV
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sommario
sommario
CLUBALPINOITALIANO
SEZIONE DI PADOVA
2 • 2008
4• Cronache
Il Cai Padova compie 100 anni
Il nuovo Consiglio Direttivo
Le Chimere
5° Concorso fotografico “Festa della Montagna”
18• Diario Alpino
Viaggio in Islanda, Gruppo Terranova di Elena Turchetti
Canada Ice&Snow Tour 2008 di Barry Bona
Il giro dei Tre Castelli di Rosanna Rosin
34• Itinerari Alpini
Col de l’Agnello di Marco di Tommaso
Moiazza Sud - Via Annamaria di Leri Zilio
42• Dialoghi
Free Tibet
Tutto già visto di Manuel Lugli
Il Tibet e le cronache dall’Everest incatenato di Manuel Lugli
Ghiaccio e fuoco di Marco De Zuani
53• La nostra storia
Gastone Scalco di Leri Zilio
Antonio Berti di Leri Zilio
58• Canti di guerra
di Pier Giuseppe Trentin
65• Alpinismo Giovanile
Ma chi ce lo fa fare di Silvia Giordano
68• Scuola di Alpinismo
Campo Base
70• Ricordiamo
A Bruno Detassis... re del Brenta di Lucio De Franceschi
Andrea Minca Burlin
Iolanda Mazzonetto
SEMESTRALE
SEGRETERIA REDAZIONALE c/o Sezione CAI
35121 Padova - Gall. S. Bernardino, 5/10
Tel. 049 8750842 - www.caipadova.it - [email protected]
Poste Italiane Spa - Spedizione in A.P. - D.L. 353/2003
(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DR PD
Autorizzazione del Tribunale di Padova n. 401 del 5.5.06
DIRETTORE RESPONSABILE: Giovanni Piva
VICE-DIRETTORE: Lucio De Franceschi
COMITATO DI REDAZIONE: Francesco Cappellari, Leri Zilio
IMPAGINAZIONE GRAFICA e STAMPA: Officina Creativa
IN COPERTINA
Foto in alto: Gita sociale a Torreglia (27 aprile 1913)
Foto a sinistra: Gita sociale in Adamello (2 agosto 1909)
Foto a destra: Prima pagina del primo Registro Gite Sociali del Cai Padova
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cronache
cronache
cronache
Il Cai Padova
compie 100 anni
Era il 1908 quando un gruppo di nobili e uomini di cultura
padovani fondarono, sulla scia di altre città, la sezione di
Padova del Club Alpino Italiano.
I soci fondatori si posero subito come obiettivo la
diffusione della pratica della montagna mettendo a
disposizione anche delle classi meno abbienti la possibilità
di frequentare e conoscere l’ambiente alpino.
Dopo le prime “spedizioni”, dapprima sulle Prealpi e poi in
Dolomiti, notevoli sono stati i progressi compiuti nel corso
degli anni. Dalla costituzione della Scuola di Alpinismo
alla capillare organizzazione che consente ai giorni nostri
di effettuare innumerevoli attività: dall’escursionismo
all’alpinismo giovanile, dalla speleologia al soccorso
alpino, dal coro all’attività del gruppo veterani.
Nell’ambito della ricorrenza il Cai Padova, in collaborazione
con il Comune di Padova ed altri enti, organizza nel 2008
una serie di eventi ed iniziative atta a far conoscere la
propria realtà a tutti i cittadini padovani e non solo.
La Redazione del Notiziario ha così pensato di fare
cosa utile e gradita per i Soci nel pubblicare all’interno
del presente numero un inserto contenente tutti gli
appuntamenti che si succederanno nel corso dell’anno,
nonché tutte le iniziative di cui i Soci e non Soci potranno
usufruire.
Il nuovo
Consiglio Direttivo
Nel corso dell’ultima Assemblea Sezionale tenutasi il 29
marzo scorso si è svolta la consueta elezione dei nuovi
Consiglieri in sostituzione di quelli scaduti.
Da allora il Consiglio della Sezione è così composto:
PRESIDENTE: Ragana Armando
VICEPRESIDENTE: Ferro Oddo
SEGRETARIO: Sartorati Luigina
TESORIERE: Soravia Angelo
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CONSIGLIERI:
Baliello Giampaolo
Beriotto Renato
Carpesio Sergio
De Franceschi Lucio
Edifizi Stefano
Feltrin Antonio
Guglielmi Maurizio
Magro Paolo
Montecchio Gianni
Stefani Mario
Tognon Tonino
Tosato Antonio
Venturato Raffaello
Zecchini Giorgio
REVISORI DEI CONTI:
Carretta Lucio
Luzzato Valeria
Munari Gianfranco
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19 t ’anni
n
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DELEGATI:
Ragana Armando
Carrari Luciano
Fantin Stefano
Mastellaro Antonio
Sartorati Luigina
Tosato Antonio
Zecchini Giorgio
5
cronache
cronache
LE
CHI
ME
RE
A Padova
un nuovo
gruppo
alpinistico.
Un gruppo di
giovani
con le migliori
intenzioni.
Un movimento
in seno
al Cai Padova.
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“Le Chimere” sono una nuova realtà all’interno della sezione del C.A.I. di Padova. Già, perché era da un po’ che
in testa ci frullava l’idea di creare un gruppo di alpinisti
per rimettere in discussione il nostro alpinismo; avevamo
iniziato a pensarci ancora 2 anni fa ma si sa che queste
cose richiedono tempo e convinzione. Una sera d’agosto
dell’anno scorso ci siamo trovati davanti ad una birra in
sette ragazzi (tutti tra i 22 e i 28 anni) e abbiamo buttato
le basi per questa nuova iniziativa. Ma cerchiamo di spiegare di cosa si tratta.
La volontà di fondare “Le Chimere” è nata dal desiderio di
non accontentarsi delle nostre conoscenze e del proprio
modo di vedere le cose, ma di scommettere sulla forza del
gruppo, per raggiungere in compagnia quegli obiettivi preclusi ai singoli. Un altro aspetto importante è la volontà di
ritornare a parlare di montagna con la sua storia e l’etica,
cose che purtroppo negli ultimi anni vengono spesso posti
in secondo piano rispetto al gesto atletico. Siamo partiti
da queste idee per fondare un gruppo autonomo all’interno della Sezione del C.A.I. di Padova, per fare un’attività
diversa da quella degli altri gruppi. Ad esempio la scuola
di alpinismo F.Piovan ha come obiettivo l’insegnamento,
gli istruttori investono il loro entusiasmo per avvicinare
in sicurezza degli appassionati alla montagna mentre le
Chimere concentrano tutti gli sforzi sul gruppo stesso.
Altro aspetto, il nome: la Chimera è questo mostro mitologico
“Lion la testa, il petto capra, e drago la coda;
e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco ...
(Iliade, VI, 223-225 trad. V. Monti)
Il leone simboleggia la forza, il calore e quindi l’estate; il
serpente e’ la terra, l’oscurita’ e quindi l’inverno; la capra
e’ il passaggio, la transizione e quindi autunno e primavera. Ci trasmetteva forza e al tempo stesso versatilità e capacità di adattarsi alle diverse situazioni. Inoltre inseguire
una Chimera è un sogno, giustamente direte irrealizzabile; ma è proprio quello che ci attira, accettiamo la sfida,
perché sognare e fantasticare non costa nulla e il futuro
è subordinato alla nostra forza ed al nostro entusiasmo.
L’obiettivo è proprio quello dell’approfondimento, per passare da una condizione di inadeguatezza, alla capacità di
affrontare ogni situazione.
Sembra scontato ma il primo sentimento che unisce noi,
come tante altre persone, è l’amore incondizionato per
la montagna…le parole del Tod (Andrea Todesco ndr) lo
descrivono così bene:
“È da quando sono piccolo che guardo le montagne, che
mi faccio trasportare da questo ambiente selvaggio e ma-
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cronache
estoso. Mia madre e mio padre mi portavano a camminare su e giù per i sentieri e io lasciavo che la montagna
mi travolgesse, la sua immagine occupava interamente lo
spazio visivo e non solo. Sulla sua massa hanno cominciato a riflettersi aspetti ed emozioni, fin che, un giorno,
la sua presenza è diventata irrinunciabile, destinataria di
ogni mio sguardo; è entrata a far parte della mia vita, la
montagna ha cominciato a vivere con me!”
È un amore istintivo che porta a curiosare tra le valli,
attraverso i boschi e le rocce fino alla base delle pareti,
iniziando a sognarne le vette; è una voglia di andare a
vedere cosa c’è dietro, cosa c’è oltre, cosa c’è un po’ più
su… Siamo a caccia di incertezza, attirati dalle pareti nascoste, dove i fattori di controllo sono ridotti al minimo e
chi si vuole spingere al limite può farlo contando solo sulle
proprie capacità. Non importa che si tratti di arrampicata
libera o artificiale, su roccia o ghiaccio, che si stia salendo
o scendendo, ciò che conta è il fattore della scoperta,
dell’andare “a-vista” se vogliamo, di affrontare la montagna con genuino senso dell’avventura. Questo è lo spirito
delle Chimere.
Matte (Luca Matteraglia ndr): “Proviamo grande rispetto
per la montagna e ci muoviamo sempre con umiltà e prudenza, ma non senza coraggio. Il nostro scopo è crescere ed imparar condividendo grandi e piccole avventure,
parlando con un vecchio o con un bambino, guardando
una foto o leggendo un libro e, come piace molto a noi,
lasciandosi dietro ancora una volta l’ultimo chiodo.”
Checco (Francesco Marra ndr): “Ci piace quando il nostro
stare in montagna ci fa tornare senza forze, sfiniti, ma
carichi di esperienze nuove. L’avventura è quando non si
possono fare programmi precisi, quando bisogna trovare
la propria soluzione, quando a guidarci è ancora l’istinto,
e l’esperienza. Forse non potremo mai vivere completamente l’avventura, ma di sicuro la vogliamo inseguire.”
Il gruppo prossimamente si amplierà: cercheremo di mettere a confronto le vecchie e nuove generazioni dell’alpinismo Patavino perché, per evolvere, è importante sentire
voci ed esperienze diverse e come dice Alessio (Roverato
ndr):
“Cerco di condividere il più possibile queste esperienze
con persone che hanno gli stessi miei obbiettivi e modi
diversi di interpretare l’alpinismo”.
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L’idea è di sviluppare un discorso storico:
Alessandro Baù: “Una volta andavo in montagna scegliendo l’intinerario di salita solo in base alla lunghezza, difficoltà e esposizione della via. Con il libro (Via e vicende in
cronache
Dolomiti) di Orietta e Ivo, ho scoperto l’aspetto storico di
una parete e ora, quando scalo, penso a cosa debba aver
provato Cassin mentre apriva sulla Torre Trieste, Comici
quando volava con la corda di canapa, Miotto mentre si
alzava tra le tegolette del Col Nudo, il “Feo” in uno dei
suoi innumerevoli bivacchi allietati dall’armonica, Mittersteiner a spingersi in apertura con quelle difficoltà solo a
chiodi. Insomma, cerco di contestualizzare una salita e vi
garantisco che vivo la scalata con un sapore più intenso.”
Per questo, le Chimere organizzeranno degli incontri per
parlare e discutere di alpinismo, approfondire aspetti tecnici e storici; inoltre abbiamo pensato di portare avanti
delle ricerche personali su un alpinista o su un lugo che
ci attrae particolarmente, su cui poi verranno organizzati
degli incontri per condividere le conoscenze. Importante
sarebbe riuscire a trasmettere alle nuove generazioni non
solo l’aspetto atletico/sportivo dell’arrampicata, ma anche
quello romantico legato all’etica, all’avventura e all’ormai
superata “lotta con l’alpe”.
Ma ora, bando alle ciance, è ora di chiudere il portatile e
andare a scalare, perché star troppo seduti alla scrivania
fa male. Vi terremo aggiornati sulle future evoluzioni del
gruppo, intanto buone avventure verticali. Ciao
Ale Baù
Le Chimere: Alessandro Baù, Alessio Roverato, Andrea
Todesco, Daniele Geremia, Francesco Marra, Luca Matteraglia, Marco Spazzini
Invito al rinnovo
Si invitano i soci che non hanno ancora rinnovato la quota
2008 di provvedere entro e non oltre il 31 luglio 2008.
Importante
La scadenza per la presentazione degli articoli da inserire
nel prossimo Notiziario è il 20 settembre 2008.
Onde evitare spiacevoli equivoci il materiale deve essere
depositato presso la sezione nell’apposita cartellina preferibilmente su CD accompagnato da una stampa.
Si prega di fornire testi in “word” e foto a parte.
Si può anche spedire via mail all’indirizzo: [email protected]
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cronache
cronache
Statuto delle Chimere
Il seguente statuto si basa sul regolamento della sezione
di Padova del Club Alpino Italiano approvato dall’assemblea straordinaria dei soci del 14-1-1980 e ratificato dal
consiglio centrale nella seduta del 29-11-1980. Lo statuto in oggetto ha lo scopo di ampliare e precisare alcuni
aspetti riguardanti lo spirito, l’attività e l’organizzazione del gruppo, ispirandosi in particolare ai punti c) e i)
dell’articolo 2. 10
1
1.1
1.2
1.3
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1.4
•
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Nome e scopi
Con il nome “Le Chimere” il 27/08/2007 si è co-
stituito un gruppo, con sede a Padova, di alpini-
sti e rocciatori iscritti al C.A.I., professionisti e non.
I fondatori del gruppo sono:
Alessandro Baù (Istruttore I.A.L)
Alessio Roverato
Andrea Todesco (Istruttore Sezionale)
Daniele Geremia
Luca Matteraglia (Istruttore Sezionale)
Francesco Marra
Marco Spazzini (Aspirante Guida Alpina)
Gli scopi del gruppo sono:
riunire persone, di ambo i sessi, che condivida-
no passioni e progetti alpinistici per conseguire in gruppo quei traguardi preclusi ai singoli;
promuovere l’alpinismo esplorativo consideran-
do l’approfondimento storico come punto di partenza;
promuovere lo sviluppo tecnico e storico/cultu-
rale dei componenti mediante l’organizzazione di aggiornamenti con alpinisti esperti all’avan-
guardia nelle singole attività che possano esse-
re fonte di ispirazione;
organizzare progetti alpinistici e spedizioni;
migliorare ed aumentare la conoscenza e il ri-
spetto verso l’ambiente
instaurare un legame tra le vecchie e nuove ge-
nerazioni dell’alpinismo patavino;
fare dell’attività che porti prestigio alla Scuola “F. Piovan”, finalizzata alla continua crescita del corpo istruttori e al richiamo di potenziali allievi, in particolare dei giovani.
Il gruppo in oggetto vuole essere una realtà aperta e dinamica, che considera le varie sfac-
cettature dell’attività alpinistica. Per questo po-
trà entrare a far parte delle “Chimere” chiunque sia fortemente motivato e presenti:
conoscenze tecniche
e/o conoscenze culturali
•
e/o abbia un curriculum prestigioso tale da po-
ter essere fonte di arricchimento per il gruppo.
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2.5
2.6
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•
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2.7
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2.9
2.10
3
3.1
3.2
Organizzazione
L’organizzazione del gruppo è curata da un co-
mitato che è composto da un coordinatore, un segretario e tre membri. I membri di comitato sono confermati ogni anno durante l’Assemblea dei componenti del gruppo.
L’Assemblea ha le seguenti competenze:
l’approvazione e la modifica degli statuti e dei regolamenti
la nomina dei membri di comitato: un coordina
tore, un segretario e tre membri
le ammissioni, le espulsioni e le dimissioni dei soci
decidere lo scioglimento del gruppo. Il gruppo è convocato ogni anno nel mese di novembre o dicembre. La convocazione, con l’ordine del giorno, precede di almeno 20 giorni la data dell’Assemblea.
A seconda delle esigenze nell’arco dell’anno sono convocate altre Assemblee straordinarie, tramite l’invio di email a tutti i componenti, con l’ordine del giorno.
L’assemblea può deliberare sulle questioni all’or
dine del giorno, con un minimo del 50 percento dei componenti presenti. In caso di votazione l’accettazione è subordinata all’approvazione della maggioranza relativa dei presenti. Questo non è valido per il punto 3.2. relativo alla nomina dei membri.
Il comitato cura il rispetto dello Statuto.
Il gruppo è validamente obbligato nei confronti di terzi con la firma collettiva del coordinatore e di un membro del comitato.
I componenti
La proposta per l’inserimento di un nuovo ele-
mento all’interno del gruppo parte dal gruppo stesso.
Due membri del gruppo possono proporre la candidatura di un nuovo componente delle “Chimere” dopo aver accertato la volontà del candidato di farne parte.
Le candidature devono pervenire per iscritto al presidente 15 giorni prima dell’assemblea. Ogni candidatura deve essere firmata dai proponen-
ti e dal candidato, inoltre deve contenere le motivazioni per la richiesta di appartenenza al gruppo, il curriculum delle attività svolte in am-
bito alpinistico e il bagaglio tecnico/culturale.
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cronache
3.3
3.4
3.5
3.6
•
•
•
Il candidato sarà ammesso al gruppo se l’As-
semblea ritiene che egli dimostra uno spirito adeguato, consono agli scopi prefissi dal gruppo e intende portare il suo contributo personale alle attività delle Chimere.
La sua nomina deve essere accettata da alme-
no 70 percento dei presenti nel corso dell’As-
semblea ordinaria.
I componenti sono tenuti a partecipare attiva
mente alle attivita e\o riunioni mensili delle Chi-
mere.
Possono far parte del gruppo anche i non resi-
denti nella provincia di Padova purché possano garantire la partecipazione all’attività prevista.
La qualifica di membro si perde per:
dimissioni volontarie, inoltrate per iscritto, al co
ordinatore
espulsione per decisione dell’Assemblea
se non si è più iscritti al C.A.I.
4
Mezzi finanziari
4.7
Il gruppo si finanzia attraverso donazioni e/o sponsor. 5
Scioglimento del gruppo
5.1
Il gruppo sarà sciolto per votazione dei 2/3 dei componenti dell’assemblea. In caso di sciogli-
mento del gruppo, l’attivo netto sarà messo a disposizione di un’ente di beneficenza.
Il presente Statuto approvato dal Consiglio Direttivo in
data 15/04/08
Il coordinatore: Alessandro Baù
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cronache
5° Concorso fotografico
“Festa della Montagna”
Verbale della Giuria composta da: Paolo Bettella e
Giovanni Segato (componenti del Fotoclub “L’Immagine” di Cadoneghe).
28 ottobre 2007
cronache
2° premio: Nebbie
Autore: Elena Crivellaro
Indovinata situazione atmosferica su un paesaggio classico di montagna invernale, esaltata dalla magica cornice
naturale creata dalla nebbia.
Nella valutazione delle opere partecipanti al concorso,
considerato che come da regolamento il soggetto è la
Montagna in tutti i suoi aspetti, la giuria ha cercato di evitare le riprese fotografiche che richiamassero l’idea di cartolina per concentrarsi su situazioni che rappresentassero
una ricerca fotografica con l’inserimento di caratterizzanti
elementi o soggetti umani, animali, atmosferici.
Sezione colore
1° premio: Sulla neve insieme
Autore: Fernarndo Menorello
Equilibrata composizione fotografica con interessante figura in “silhouette”, dal netto controluce e dal marcato
contorno luminoso.
3° premio: Magia di un incontro
Autore: Gabriella Rossignoli
Solo un contesto lontano dalla città permette di creare
un armonico incontro tra l’essere umano, l’animale e la
natura.
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cronache
1° premio Giuria popolare
Autore: Rosanna Rosin
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diariodiario
alpino
alpino
Viaggio in Islanda
di Elena Turchetti
Gruppo Terranova
Notturno sul fiordo delle balene ad
Husavik
Finalmente dall’aereo si scorge il profilo dell’isola. Sembra
di atterrare su suolo alieno: il mare lambisce coste formate da millenarie colate laviche, non un albero, un arbusto,
un corso d’acqua. La lava ha formato disegni che ricordano fiumi prosciugati da secoli, ci sono piccoli e grandi
crateri, un deserto dove sembra che la vita non possa
trovare ospitalità. Il colore rossiccio della sera ci fa sentire
come astronauti in arrivo su Marte.
Poi in lontananza si vedono le case, Reykjavik.
Il nostro viaggio comincia sbarcando dall’aereo in una
sera che non conosce il tramonto, arrivando in un piccolo
ed accogliente ostello, lambendo per poche ore le strade
della capitale per poi tuffarci nella sconfinata naturale bellezza dell’Islanda. Ore ed ore in auto vedendo scorrere dai
finestrini paesaggi di incredibile bellezza, dalle colline di
diario alpino
un verde intensissimo che si perde nel blu scuro del mare,
fino alle zone del deserto lavico. Il cielo terso é sempre
luminoso e riflette i colori di una terra ora verde smeraldo,
ora nera, o rossa o gialla come zolfo. Ci affascina la potenza dei geyser, l’immensità delle cascate, la maestosità
dei grandi ghiacciai.
L’Islanda ha 280.000 abitanti (circa
quanto la popolazione di Padova)
con una densità di 2,7 abitanti per
kmq, ma con più della metà della
popolazione che risiede nella zona
della capitale. Per gran parte del
suo territorio quindi non si incontrano segni del passaggio umano,
ma si seguono le piste non asfaltate che conducono a sperduti villaggi o piccoli rifugi. La nostra guida ha scelto un’itinerario circolare
in senso orario che ci ha portato
a conoscere i vasti spazi desertici
e le formazioni laviche dell’interno, per poi arrivare alle coste, ai fiordi ed all’immenso
ghiacciaio Vatnajokul, il più grande d’Europa, dove abbiamo affrontato una breve escursione. Per molti di noi
questa è stata la prima esperienza sul ghiaccio, abbiamo
indossato i ramponi e ci siamo goffamente incamminati sulle orme
della nostra guida locale. Pochi
minuti e l’entusiasmo ci ha portato
a superare i primi disagi, in breve
tempo ci siamo ritrovati a risalire
la lingua del ghiacciaio, ad ammirare increduli i crepacci, le cavità,
i mulinelli, i fantastici disegni che
l’acqua intarsiava scorrendo lungo
le gelide pareti di ghiaccio. Ancora mi stupisce l’emozione provata
nel trattenere tra le mani un gelido
blocco di ghiaccio millenario, limpido e trasparente, ma così denso da
sembrare roccia.
Subito la memoria corre, per contrasto, ai luoghi dove
invece il calore emanato dal sottosuolo ancora attivo, risaliva attraverso la suola dei nostri scarponi da trekking per
arrivare forte e minaccioso alla pianta del piede.
Tra le molte escursioni effettuate durante il nostro percorso ricordo con particolare emozione la salita al cratere del
Hverfjall, un ampio cono fatto di roccia eruttiva color cenere. La salita sul lato nord ci impegna per circa mezz’ora,
Sopra: Passeggiata nell’enorme
cratere dell’Askia
Sotto: Escursione sul ghiacciaio
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diario alpino
diario alpino
Dimmuborgir, passeggiamo tra formazioni rocciose nere
e contorte, in un silenzio spettrale, con il freddo vento
che risuona tra le rocce e le foglie degli alberi. Giunti sul
versante opposto si può salire su
di uno sperone roccioso, da cui si
ammira il labirinto millenario creato dalla forza della natura. La fine
pioggerellina ed il freddo vento
della sera, accompagnati dal silenzio della natura, contrastano fortemente con l’inferno di fuoco e lava
che ha dato origine a tutto questo.
Ed è proprio questo contrasto tra
fuoco e ghiaccio che ci accompagna per tutto il viaggio. Eruzioni
vulcaniche devastanti e ghiacciai
immensi che rendono questo luogo
per gran parte inospitale e desertico, ma di una rara e preziosa bellezza incontaminata.
Cascate Godafoss
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ci muoviamo in fila lungo un sentiero dritto che affronta il
cratere con tenacia costante e forte pendenza. Arrivati in
cima, riprendiamo fiato ed energie ammirando l’enorme
caldera. Lo sguardo spazia dalle fumanti zone giallo zolfo
verso l’altopiano del vulcano Krafla, fino al lago Myvatn.
Pochi minuti per ammirare la zona: il vento freddo ed il
cielo grigio ci spingono a dirigerci verso la discesa sul lato
ovest del cratere. Da qui si apre la vista aerea sul Dimmuborgir, un’area circolare, ai piedi del Hverfjall formata da
strane torri di lava, erose e contorte, circondate da betulle
e coperte da vegetazione. Un tempo era un lago di lava,
la cui crosta si è poi solidificata. Quando però il muro
lavico che lo conteneva è crollato, consentendo alla lava
ancora liquida di fuoriuscire, è rimasta una distesa irregolare di rocce con formazioni simili a pilastri costituiti da
rocce eruttive più antiche. Da qui il nome “castelli oscuri”.
Scendiamo correndo lungo il fianco del cratere, ripido e
formato da fine ghiaia lavica, sollevando una sottile polvere che ci copre i vestiti. Ed eccoci all’interno del circolo del
Giunti sulla costa sud dell’isola non
possiamo non avventurarci lungo
uno dei percorsi di trekking più
conosciuti al mondo: la zona del
Landmannalaugar. Si tratta di una
zona interamente lavica, con scarsissima vegetazione, costituita per
lo più da rioliti. Ed è proprio la roccia che rende questo luogo incantevole, i colori variano dal giallo,
al porpora, al rosso, al verde, fino
al nero. Il sole illumina paesaggi
lunari, montagne sulfuree incorniciate dai vapori delle fumarole e
lambite da ripidi torrenti di acqua
cristallina. Enormi spazi coperti da
antiche colate laviche, dove si distinguono maestose le cime dei crateri. Il percorso classico si effettua in quattro giorni partendo dal rifugio di
Landmannalaugar per raggiungere Thorsmork (il bosco
di Thor), a questi spesso si aggiungono altri due giorni
di marcia per raggiungere la costa. Giunti a Landmannalaugar, ci siamo subito ambientati e siamo partiti per
raggiungere i 900 mt del Blahnukur, una delle maggiori
vette della zona. La salita è stata veloce e faticosa a causa
della forte pendenza del cono vulcanico. Giunti in cima,
una densa nebbia ci ha privato di ogni panorama, ma
non della soddisfazione incredibile di avercela fatta! Poi,
come per una strana magia, in pochi minuti il cielo si è
schiarito, ci sono apparsi monti, valli, colate laviche, coni
vulcanici, fumarole...a perdita d’occhio. Ripidi pendii color
Sopra: Landmannalaugar dalla cima
del Blahnukur
Sotto: Il sentiero del Landmannalaugar
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diario alpino
cronache
giallo, fini sabbie nere, rocce taglienti come il vetro e sfumature rosse che bordavano ghiaie verdi come smeraldi.
La discesa è stata una lunga corsa a perdifiato lungo le
pareti del vulcano per arrivare al fiume e poi al rifugio
dove una cioccolata calda servita nei furgoncini anni ‘60,
che ora fungono da ristoro, è stata l’occasione per riunire
il gruppo e festeggiare. Purtroppo il nostro itinerario non
ci ha consentito di proseguire lungo il sentiero, ma ci ha
condotto verso le scogliere ed infine verso la capitale.
Dai finestrini dell’aereo, durante il volo che ci riporta a
casa, il profilo dell’Islanda non ci è più alieno. I suoi colori, i profumi, la vastità dei paesaggi, la forza dirompente
della natura, risvegliano in noi la sensazione di profonda
compartecipazione allo scorrere del tempo e della vita su
questo pianeta.
Elena Turchetti
Sopra: Foto di Gruppo (foto di Bruno Mazzoni)
In mezzo: Panorama di Landmannalaugar
Sotto: La spiaggia nera di Dyrholaey
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diario alpino
CANADA
TOUR
2008
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27 febbraio, Aeroporto di Calgary, ore 10.
Ci eravamo immaginati un Canada dalle distese e dalle distanze immense, dai silenzi sospesi nella natura selvaggia.
Abbiamo per mesi sognato tutti la stessa cosa, bramata
al punto da poterla quasi sentire addosso. E invece, tutto
ciò che fino ad ora ci è rimasto veramente impresso, sono
questi caotici corridoi dell’aeroporto, che di gelo e “wilderness” hanno ben poco. Da due giorni, ormai, osserviamo
gente sempre nuova transitare a destra e a manca, tutti
con destinazioni e provenienze diverse, tutti con un vago
atteggiamento di indifferenza e menefreghismo verso il
prossimo, tutti con il loro bagaglio. Viene da ridere, infatti, pensare di avere le Canadian Rockies, con tutto il loro
ben di Dio di ghiaccio e powder raffinata, là fuori a poche
centinaia di chilometri e non possedere i mezzi per poter
esercitare la nostra passione. Come aver un regalo sotto
l’albero da scartare e dover per forza aspettare il giorno
di natale. Le nostre amate sacche, ben 45 kg ciascuno di
materiale da alpinismo, sono disperse chissà dove, i funzionari dell’aeroporto smanettano con i computer davanti
a visi tipicamente italiani che chiedono giustizia. C’è chi si
agita e chi sa destreggiarsi con la lingua, a far fronte al
problema, chi invece crolla nel torpore dovuto al jet leg.
Ma tra tutti, quello che sembra più pressato dallo stress
è Francesco. Mani appiccicate alla faccia, come a voler
trattenere i neuroni all’interno, schiena piegata in modo
grottesco. La sua rispettabile figura di accademico del CAI
e di organizzatore del Canada Ice&snowtour 2008 è abbattuta dal carico di responsabilità. Da tempo non ha più
la volontà ironizzare ed il suo umorismo ha ora lasciato
posto alla sofferenza.
Ma ecco che improvvisamente la situazione sembra prendere un tono più allegro! I bagagli iniziano a spuntare
alla spicciolata da ogni angolo del terminal, come fossero
funghi. Poco importa dove sono stati fino ad ora, non c’è
proprio spazio per pensare al tempo perso, le auto vengono caricate fino all’ultimo angolo vuoto e dirette verso i
ghiacci, imitando i vecchi carri che un tempo viaggiavano
nel West in cerca d’oro. Il nostro “oro bianco” inizia a
far capolino appena si increspano le Rockies: Il Trophy
Wall, con la spettrale Terminator, accende il fuoco dell’entusiasmo che ribolle dentro di noi e l’auto sussulta, ma il
nastro d’asfalto è largo e sempre dritto, come una pista
di rullaggio.
Il primo assaggio del “ghiaccio canadese” lo cogliamo a
Lake Louise, crocevia tra la civiltà industrializzata verso
sud; la naturale prosecuzione della linea “Trans-Canada”
Highway, che si insinua in una valle sconfinata verso
ovest, e la “Strada dei Ghiacci”, ovvero la celebre Icefields
Parkway, che conduce, attraverso paesaggi mozzafiato e
tanta, tanta natura rigogliosa, a Jasper. Ed è proprio lungo quella strada che si possono ammirare le cascate più
di Barry Bona
ICE&SNOW
diario alpino
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diario alpino
diario alpino
grandi e famose, Polar Circus, Weeping Wall, Ice Nine
e Slipstream, nomi che ci fanno sognare da anni, ma
che dovremo coltivare ancora per qualche giorno. Prima ci
aspetta qualche giorno di ambientamento. Nel frattempo,
ci scrolliamo lo stress di dosso salendo la Louise Falls,
sulle rive del lago omonimo. Decisamente divertente, sicuramente poco intimidatoria e molto simile alle nostre
strutture gelate “di casa”, tuttavia la cascata ci fa conoscere meglio tra di noi e cominciamo ad assaporare il sapore della vacanza.
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TOKIO HOTEL E LA POWDER CANADESE
Il viaggio lungo le grandi arterie di comunicazione, che
percorrono il fondo di ampie vallate, ci presenta la condizione demografica di questa terra, che sembra esser
appena stata scoperta di recente. Solitamente, tra un insediamento e l’altro, c’è un’assoluta assenza di civiltà e
presenza umana e ciò può andar bene in quanto siamo
abituati alle nostre vallate invase da edifici e paesi. Tuttavia, l’occhio è sempre alla ricerca di un lumicino nella selva oscura che emani un aiuto morale e sconfigga il senso
di isolamento… se il serbatoio si esaurisce e non troviamo
una pompa della benzina, con che cosa lo riempiamo?
Ormai a notte fatta, ecco balenare le luci di Rogers Pass
e l’albergo dove alloggeremo fare capolino dietro un cumulo di neve alto come una casa. Parte del nostro gruppo
ha già trascorso una notte ed una giornata qui e ci dà il
benvenuto. Finalmente ci ritroviamo tutti quanti riuniti a
cena, dopo le disavventure aeroportuali che ci avevano
diviso. Ora a portare allegria sono anche i simpatici gestori dell’hotel, tutti cinesi o giapponesi che si aggirano lesti
come topi per le stanze. La dieta orientale però non fa al
caso nostro, che l’indomani ci aspetta una sci-alpinistica
in mezzo alla bufera. La “powder” non è tutta rosa e fiori,
quando non si dispone di un Ecureil bi-turbina per la risalita. Stefano Ferro e la compagna Roberta, entrambi istruttori di sci-alpinismo e telemark, ieri si sono fatti un’idea di
cosa si può fare da queste parti, di certo non è il caso di
osare, il Ranger è perentorio sulle condizioni: il pericolo
di valanghe, in questi giorni di burrasca, è piuttosto alto.
Ci riesce un’uscita tuttavia divertente che soddisfa anche
per un breve tratto gli amanti della discesa. Gli sci non li
vedi mai, scorrono sotto ad un metro di neve farinosa che
ti entra fino alle narici. Peccato che raggiunto il Balu Pass
la vista sia ostacolata da dense nubi. Il territorio della Columbia Britannica, per tutti e due i giorni di permanenza
a Rogers Pass non si svelerà in tutto il suo splendore, per
quanto comunque il nostro spirito non si è mai abbattuto
ma bensì ha sempre trovato sfogo nell’ironia. In partico-
La powder canadese è come farina
che entra nel naso e non ti fa respirare e ti entra negli occhi e non ti fa
vedere.
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diario alpino
diario alpino
lare, trovare riparo al bivacco Asulkan, dopo una risalita
con le pelli di foca tramutate in trampoli per lo zoccolo di
neve e mentre infuriava inesorabile la bufera, è stato il
momento più intenso. Del resto è questo che conta, riunire l’esuberanza dei giovani che vogliono “tirare” fino alla
perseveranza dei nostri settantenni inossidabili Alfredo,
Vittoria e Giancarlo e ritrovarsi a condividere la gioia della
festa in un rifugio fuori dal mondo. Una navicella sospesa
sui vapori di una terra lontana da casa.
Il programma battuto dal Coach Cappellari per i prossimi
giorni, consiste nel trasferimento a Field, quindi si ritorna
indietro verso la civiltà. In generale, siamo tutti felici di
lasciare le minestrine dei “Tokio Hotel”, come abbiamo
soprannominato i “musi gialli” di Rogers Pass, e ritornare
alle nostre amate pastasciutte.
FIELD E LE BIRRE GHIACCIATE
Renato Casarotto, nel suo libro Venti del Nord, descrisse il
paese di Field come un luogo di frontiera, “…sembra che
tutti debbano partire da un momento all’altro”. Un fatto
che abbiamo constatato anche noi è che la gente che ci
abita è molto cordiale con gli stranieri. “C’è sempre qualcuno che ti saluta”. Non lontano dalle abitazioni sorgono
le cascate di ghiaccio, come unica attrazione degna di far
apparire il luogo più interessante di quello che in realtà
è. Riportano tutte i nomi delle birre, da Pilsner Pillar a
Carlsberg Column a Guinnes Gully. In due giorni tutto il
gruppo di ice-climber riesce a salire le strutture più meritevoli, mentre gli sci-alpinisti godono la powder con il
bel tempo, presso Lake Louise. Una sera, a Field, c’è la
festa dello sci club locale e tra noi c’è qualcuno con buone
intenzioni di partecipare. Non si sa precisamente per quali
motivi validi, ma ad un certo punto la banda degli “Italiani
svitati” sale sul palco mentre si disputa una lotteria ed
intona il canto popolare “Uva Fogarina”. Sicuramente il
motto è stato: “Non importa per quale motivo ci troviamo
qui, ma l’importante è lasciare il segno”.
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LA LINGUA
Dobbiamo tutti essere grati ai “Quattro Moschettieri”, ovvero a Fabrizio, Bruno, Ivo e Francesco Rubbiani, se la
storia dei bagagli perduti fu risolta di pugno, alla seconda
notte di permanenza a Calgary. E’ molto importante, in
certi casi, non solo essere scaltri e cocciuti nell’imporsi,
ma anche di padroneggiare l’inglese, in quanto qui in nord
America la pronuncia è molto stretta.
Capita, ad esempio, che al primo rifornimento di carburante sorga qualche dubbio sul da farsi ed il trio di bellunesi è il primo a cadere nel tranello. Si va per logica,
non avendo esperienza, e se la pompa è gialla come il
tappo dell’auto è logico che funziona così. Il tubo risulta
più grosso del buco del serbatoio, ma 15 dollari vengo-
no incamerati ugualmente. Quindi, ecco i primi sintomi:
si odono degli insoliti gorgoglii provenienti dall’iniettore,
il cambio automatico sembra avere dei sussulti. Poi un
segnale eloquente che la frittata è stata fatta: fumata
bianca del tubo di scappamento! I bellunesi se la ridono
di gusto, perché in fondo nulla è andato perduto e l’auto,
dopo aver provveduto a caricarla di gazoline - che sta a
significare benzina e non “gazolio”, come invece avevamo
pensato che volesse dire – riparte pure meglio di prima.
Del resto i problemi si sono verificati anche all’aeroporto.
Confondendo “Food” con “Foot”, ho dato il mio numero
di scarpe all’agente del check-in. Mi sono rifatto immediatamente sfoderando un “I want to climb Polar Circus”,
preparato per l’appunto con il dizionario a casa.
Ma mai avremo immaginato che proprio i “moschettieri”
sarebbero caduti in trappola pure loro. La sera all’ostello
di Field, tutti aspettiamo Bruno, Ivo e Francesco Rubbiani
che sono scesi a Banff per scalare Professor Falls. Alle
20 l’attesa si trasforma in apprensione. Ma ecco Fabrizio
scoprire un SMS inviato da Banff: “Siamo a piedi… con
l’auto colma di gasolio!” Dura, scaricare quaranta litri di
carburante in un pozzetto servendosi della cannuccia del
Camel-bag! Meglio non commettere atti impuri e così i
nostri impavidi salgono al volo su un bus diretto a Field.
L’auto verrà sostituita il giorno seguente.
Valli ampie, laghi ghiacciati ed una
strada che ti immerge nell’atmosfera
del Grande Nord
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diario alpino
LE PERLE GHIACCIATE
DELL’ICEFIELDS PARKWAY
Dopo queste simpatiche sventure, è ora di cambiare aria e
di volgere l’attenzione verso la valle dei sogni. Mentre l’arzilla compagnia dei settantenni ripone gli sci nelle sacche
e riparte verso l’Italia, noi ice-climbers voltiamo a nord,
bramosi di constatare di persona i luoghi del mito. Eccoli
infatti scorrere di seguito: l’evanescente Reality Bath di
Mark Twight, Ice Nine e Happy Days e poi sua maestà
Polar Circus e Weeping Wall. Quindi per il giorno seguente
tutti hanno fatto il loro programmino, i quattro moschettieri andranno sul Weeping Pillar, i bellunesi inseguiranno
il nastro di Polar Circus ed il Coach con la Daniela deve ancora decidere. C’è ancora una cosa da fare, infatti, e cioè
sistemarsi a Rampart Creek con tutta la roba. Ma scopriamo il piccolo villaggio tutto chiuso, il custode non c’è e
mentre giunge il crepuscolo, sorge angoscioso il dubbio
di dove dormiremo questa notte. Per farla breve, il primo problema viene risolto dormendo in un ostello a Lake
Louise, con il custode di Rampart c’è stato un problema
nella prenotazione via e-mail. Il piccolo contrattempo non
crea gravi problemi, se non un po’ di ritardo per chi salirà
il Weeping Pillar e Polar Circus rimandata di un giorno per
noi bellunesi. La sera comunque ci ritroviamo con le gam-
Nei tiri finali
nel fiume di
ghiaccio
di Polar Circus
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diario alpino
be sotto il tavolo imbandito per la cena a Rampart Creek e
i discorsi girano sulle impressioni avute vivendo a contatto
con la vera identità del ghiaccio canadese. L’esposizione
e la qualità del ghiaccio cotto dal sole sul Weeping Pillar,
l’instabilità e i rumori sinistri sul “candelone” di Ice Nine e
il gioco di luci sul ghiaccio di Murchison Falls. I due giorni seguenti saranno all’insegna
del grande viaggio sul Polar Circus. Dapprima a noi bellunesi con Daniele Pigato di Val
d’Astico, toccherà il privilegio di calcare al
primo turno quell’angolo ghiacciato pieno di
storia, che ci farà ubriacare di soddisfazione
e appagamento, non appena usciamo al sole
dalla profonda gola di questa montagna che
un po’ ci ricorda il Piz Ciavazes. L’indomani
la cascata vedrà la presenza di ben tre cordate italiane, cioè il resto del gruppo, incluso
il Coach, Francesco, al quale l’anno scorso
era sfuggita l’occasione di includere Polar
nel suo prestigioso curriculum di salite, per
il pericolo di valanghe che allora lo respinse
dalla valle intera.
Ora che tutti siamo entrati nel vivo delle Canadian Rockies, vantando le salite più rilevanti, chissà perché sembra che questo luogo ci appartenga un po’, le casette del
villaggio di Rampart Creek, dopo quattro giorni di soggiorno, hanno perso quel loro iniziale aspetto trasandato
e poco conveniente. La toilette esterna, con la sua botola
angusta è diventata un ideale luogo appartato per la riflessione e la cucina con il salotto accanto, preferibile di
gran lunga ai lussuosi alberghi di Calgary. Ne deriva un
amaro senso di malinconia, al momento della partenza
verso casa, durante la penosa fase del caricare la roba in
macchina. Riporre le nostre armi nel fodero, dopo averle
consacrate nel tempio del “cascatismo” mette un certo
orgoglio, la certezza che il biglietto per il Grande Nord si è
ripagato con due settimane da leoni ci ha rinvigoriti come
pannelli foto-voltaici.
I partecipanti:
Fabrizio Anselmi (Schio)
Vittoria Bianchi (Padova)
Barry Bona (Tambre d’Alpago)
Ettore Bona (Tambre d’Alpago)
Alfredo Bonaiti (Padova)
Oreste Bortoluzzi (Tambre d’Alpago)
Francesco Cappellari (Padova)
Bruno Castegnaro (Lonigo)
Roberta De Lorenzo (Venezia)
Stefano Ferro (Venezia)
Daniela Grigoletto (Padova)
Ivo Maistrello (Schio)
Giancarlo Mason (Dolo)
Daniele Pigato (Arsiero)
Francesco Rubbiani (Modena)
La schiera di vette imbiancate come denti di squalo si
profila nell’orizzonte verso nord, mentre l’aereo dà il gas
per il decollo ed il boato delle turbine contribuisce a molestare ancor più la mente, rimasta incollata ai ricordi più
entusiasmanti che questo angolo di mondo ci ha regalato.
Si osservano, con sguardo ipnotizzato, le lande del continente americano che scorrono migliaia di metri sotto di
noi e ognuno pensa per conto suo. Forse anche a: “…ma
nella fotocamera ci sarà stata o no la pellicola…..?
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diario alpino
il giro dei Tre Castelli
di Rosanna Rosin
Ricordo di una gita di
“Pasquetta” di un anno fa
a Borgovalsugana
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Per motivi tecnici ci è dispiaciuto non aver potuto raccontare una bellissima escursione fatta a Pasquetta dell’anno
scorso. Pensiamo che questo nostro desiderio di salutare
e ringraziare dopo un anno di distanza i Carissimi Amici
dell’Amministrazione del Comune di Telve di Sopra Sara
e Gianluca che hanno accolto il nostro gruppo con grandissima simpatia e affetto (e che ricordiamo durante le
nostre escursioni quando pensiamo alle cose belle!) riesca
a rendere palese i sentimenti che abbiamo unito a quella
giornata immagazzinata ormai tra i ricordi più belli.
Grazie Sara e Giancarlo
un carissimo saluto da Alberto, Antonio e dai tantissimi
componenti del gruppo del CAI Padova. L’escursione di
quel giorno dell’anno scorso la rivivremo spesso quando
penseremo ai nostri incontri più belli.
“Quale emozione mi prese al sapere
che l’escursione si faceva: “il Giro dei
Castelli”. Già cominciavo a sognare. Io
ero la castellana del castello. Partiamo: una comitiva del CAI di Padova,
le guide Alberto Veronese e Antonio
Di Chiara, esemplari e sempre attente
che tutto funzioni. Salutiamo l’autista
Valerio e buona giornata. Ci avviamo
e saliamo una scalinata storica chiamata “Scala Telvana”. Piano piano ci
incamminiamo su di un sentiero un po’
sterrato. Dopo un po’ ci soffermiamo a
guardare il panorama e tutta la vallata.
A fianco una chiesa del seicento con vicino il Convento delle Clarisse, suore di
clausura. Riprendiamo il cammino. Una
ripida salita ci aspetta, con varie trincee, segni lasciati dalla guerra. Finalmente troviamo uno spiazzo per ristorarci
e raggrupparci. Di fronte a noi con sorpresa una grande
torre. Lungo il cammino troviamo diversi terrazzamenti
dove una volta coltivavano “a ortaggi”. Piu’ avanti troviamo i resti di un altro castello, Castel San Pietro, ma non
possiamo con tristezza che alzare gli occhi e vedere non
cime ma antenne!
Mi sorprende la Via Crucis, molto curata, e sosto un
momento. Quel momento ricordato, pochi giorni prima.
diario alpino
Scendo lentamente, mi soffermo, guardo con ammirazione la fioritura: primule,
erba Trinità, narcisi, la polmonaria e vari
frutteti in fiore, questa è la primavera.
Nei vari sprazzi si possono notare varie
cime: Cima Dodici, l’Ortigara, il Monte
Lefre. Ci incamminiamo in un sentiero
che porta in salita, e lì troviamo i castagni secolari e le conifere. Ci incontriamo
con due amici, Sara assessore di Telve
di Sopra e la guida Giancarlo che ci illustra la storia del castello Castellalto.
Scorre l’anno 1500. Si può notare sulla
facciata un Crocifisso. Mi sorprendono le
bellissime arcate. È molto distrutto ma i
resti ti emozionano e ti incanti a guardare, sembra che aprino le bracce al cielo
e dicano “siamo ancora qui”. Ogni pietra
è una storia.
Non potrei fare la castellana nel vuoto, scendiamo lentamente giù fin sulla
strada che conduce a Passo Manghen.
Lì troviamo la leggenda dei “due secchi
di vino”, restano ancora i segni.
Ci incamminiamo in paese, Telve di Sopra, da lì un belvedere: sotto la Valsugana e sopra tutte le cime innevate.
A sorpresa veniamo ospitati con un
grande buffet dagli stessi amici che
prima avevamo incontrato. Non manca
nulla anche i “marroni” e gli scambi di
doni ! Un Gran Saluto. Ci avviamo al
ritorno piu’ “carichi” che mai. Passiamo
il paese Masi Fratte e arriviamo a Borgovalsugana dove ci aspetta l’autista
valerio. Ma non finisce. All’arrivo un ultimo banchetto. Ringraziando le nostre
guide Alberto e Antonio un’arrivederci
alla prossima.”
Rosanna Rosin
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itinerari
alpini
itinerari alpini
COL DE L’AGNELLO
di Marco Di Tommaso
I ROMANTICI PRATI
PENSILI DI AURONZO
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Tra le crode e le cime che da Auronzo di Cadore sembrano
quasi toccare il cielo, si possono scorgere dei prati inclinati che, con le prime luci del giorno, sembrano brillare di un
verde intensissimo: sono i prati del Col de l’Agnello. Anche
se sembrano essere vicini, essi non sono di facile accesso
e i pochi escursionisti che affrontano la Val Gravasecca,
per il passaggio dal Biv. De Toni al Rif. Carducci, hanno
ben altri pensieri che voltarsi ad ammirarli.
L’itinerario proposto (segnato in rosso sulla cartina) consente di visitare i suddetti prati e di concludere eventualmente l’escursione con una selvaggia traversata a Forc.
del Col de Giralba.
DIFFICOLTA’
Il precorso non supera mai come difficoltà passaggi di
I°; occorre tuttavia prestare attenzione ai tratti friabili.
Richiesto passo sicuro e l’uso del caschetto.
ACCESSO
Poco dopo essere usciti da centro abitato di Auronzo, in
direzione di Misurina, sulla destra si incontra il bivio per
la Val Marzon. Lasciare la SS48 e salire per questra valle
per un paio di chilometri, fino ad arrivare ad un tornante
1127m dal quale sulla destra parte il sentiero 106 per il
Biv. De Toni.
SALITA AL COL DE L’AGNELLO (ore 4,30)
Lasciata l’auto, ci si incammina per il sentiero 106 che sale
su a zig-zag lungo una vecchia mulattiera. Nella parte alta
in cui si esce dalla vegetazione, il sentiero prosegue su
diritto per le ghiaie della Val del Marden fino ad arrivare a
raggiungere il sentiero 107 (ore 3,00).
Dal bivio appena raggiunto, alzare lo sguardo verso la
Punta de l’Agnello 2736m. Alla sua sinistra si possono vedere le ghiaie che salgono al Biv. De Toni 2578m; mentre
alla sua destra vi sono delle ghiaie che salgono alla spalla
nord-ovest e, ancora più a ridosso delle pareti, si intuisce
una rampa rocciosa. Puntare a questa e raggiungere così
una traccia di sentiero segnato con ometti e vecchissimi
bolli rossi. Il sentiero sale ora su terreno friabile passando
vicino anche ad una piccola cascatella (rara tra questi posti). Sul culmine della salita, il sentierino esce sulla spalla
ovest e l’ambiente ora qui si fa completamente aperto
itinerari alpini
(ore 0,40 - ore 3,40 terreno friabile). Da qui si comincia a
scendere obliquando verso sinistra fino a raggiungere al
cresta che divide la Punta dal Colle de l’Agnello. Stando
un po’ nel versante ovest, si scende alla sella (ore 0,25 ore 0,45). Se a ovest le pareti corrono giù velocemente, a
est verdi prati scendono giù dolcemente. La cima del Col
de l’Agnello 2415m è una costola rocciosa con qualche
passaggio di I°. Per salirvi in cima, dalla sella costeggiare
il versante est fino ad intravedere dei prati che salgono su
ripidi ad una forcelletta. Per questi prati e per le facili e
brevi roccette sommitali di I° si arriva in cima (ore 0,10 ore 4,15, vedi foto).
Per accedere alla sommità meridionale di poco più bassa,
occorre tornare alla forcelletta poco sotto la cima e seguire la cengia erbosa a ovest. Questa porta alla forcelletta
tra le due sommità e, per facili rocce (I°), in breve in cima
(ore 4,30).
I prati del Col de l’Agnello
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itinerari alpini
TRAVERSATA A FORC. DEL COL DE GIRALBA (ore
4,30)
Se si è soddisfatti dell’itinerario fino qui giunti, il percorso
più semplice per tornare giù è quello di fare a ritroso il
percorso di salita. Se invece si ha ancora tempo, le condizioni metereologiche sono favorevoli e soprattutto si ha
la possibilità di avere a disposizione una seconda auto, è
possibile scendere a Giralba passando per la Forc. del Col
de Giralba 2093m.
Molti anni fa, era stato tracciato un sentiero che collegava
il Col de l’Agnello al sentiero 107 che attraversa la Val Gravasecca. Smottamenti, frane e altro provenienti da Forc.
de l’Agnello devono aver spazzato via questo sentiero.
Occorre allora risalire e attraversare le ghiaie puntando
al sentiero 107.
Dalla sella a cui si era pervenuti con il sentierino dalla
itinerari alpini
Val del Marden, cominciare a scendere obliquamente i
pendii erbosi mirando al bordo meridionale Questo itinerario permete così anche di visitare gran parte dei prati
e di aggirare i salti rocciosi sottostanti la sella. Raggiunti
i prati inferiori si devia completamente a sinistra verso le
ghiaie che scendono da Punta de l’Agnello. Le si attraversano cercando di non perdere quota, fino a raggiungere
quelle che scendono da Forc. de l’Agnello. Per prendere il
sentiero 107, che è completamente a ridosso delle pareti
della Croda dei Toni, occorre risalire un po’ il canale per le
facili ghiaie di sinistra e poi attraversare in modo deciso il
vasto canale. Fare attenzione che qui il fondo del canale
è duro e a ghiaie sottili. Preso il sentiero 107, lo si segue
in direzione Rif. Carducci fino al culmine inferiore prima
di cominciare a salire a Forc. Maria (ore 1,20). Da qui si
scende mirando ad una larga sella erbosa sulla quale vi
è un ometto. Da questa parte un sentierino con qualche
vecchio bollo rosso, che attraversa i pendii tenendosi nei
pressi delle pareti soprastanti. Si viaggia in quota in un
ambiente con rarissimi segni di passaggio, ma con panorami molto selvaggi. Giunti alla Forc. del Col de Giralba
(ore 0,45 - ore 2,25, vedi foto), si addandona la Val Gravasecca e ci si inoltra nel bacino della Val Giralba. Sotto
a noi vi è il lungo canale che scende a Pian de le Salere
1365m e nel quale vi è la continuazione del sentierino. Lo
si comincia a discendere facendo attenzione a non perderlo. Purtoppo in alcuni tratti il sentiero scompare per poi
ritrovarlo più in basso. Nel momento in cui la valle si apre
per congiungersi alla Val Giralba, il sentiero si tiene sulla
sinistra e, uscendo dal canale, prosegue nel bosco. I segni
rossi ormai quasi insesistenti, sono sostituiti dai segni dei
tagli di arbusti e mughi. Il sentiero raggiunge quello 103
della Val Giralba all’altezza di un capanno a Pian de le
Salere (ore 1,30 - ore 3,35). Da qui le difficoltà sono finite
e sarà sufficiente schendere lungo il comodo sentiero 103
per raggiungere la località Giralba 905m (ore 4,30).
Tempo di percorrenza: ore 9,00
Dislivello: 1500m c.
Difficoltà: tratti friabili, senso dell’orientamento; (I°- solo
per giungere in cima al colle).
La forcella del Col de Giralba
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itinerari alpini
itinerari alpini
Moiazza Sud
Parete sud - Via Annamaria
Stefano Santomaso, Leri Zilio
21.09.2007
Metri 1100 - ore 9
Accesso: da Malga Framont o dal rifugio Carestiato si
raggiunge, seguendo il sentiero dell’Alta Via n. 1, il Van
dei Cantoi. Si raggiunge quindi l’attacco della salita attraverso il sentiero di ritorno della ferrata Costantini che
scende dal Van delle Nevere.
Attacco: nei pressi delle rocce basali della Maioazza sud
si abbandona il sentiero e piegando verso destra (faccia
rivolta alla parete) si salgono dei prati andando a costeggiare le rocce ai piedi del II Torrione dei Cantoi. In fondo
a destra, dove l’accenno di cengia tende a morire, si trova
la rampa di attacco verso sinistra (ometto).
Discesa: per un veloce rientro si consiglia: dalla cima ci si
dirige verso ovest e si raggiunge il bivacco Ghedini situato
in prossimità della forcella che separa il Van delle Nevere
a nord dal Val dei Cantoi. Da qui si scende lungo la ferrata
Costantini verso sud ed in circa un’ora e mezza si è alla
base della parete.
Seconda parte
Prima parte
41
dialoghi
dialoghi
dialoghi
FREE TIBET
Nell’anno delle grandiose Olimpiadi cinesi si è riproposto
all’attenzione della Comunità Internazionale l’annoso e
mai risolto problema del Tibet.
Questa regione, abitata da un popolo tra i più pacifici al
mondo, ha conosciuto circa 60 anni fa l’occupazione da
parte di uno delle attuali potenze economiche più forti,
la Cina.
Nel marzo scorso violente proteste da parte di tibetani
contro il governo cinese hanno messo in luce ancora una
volta le violente intenzioni del dominatore.
Il Club Alpino Italiano, contrariamente per esempio a
quello francese, non ha praticamente assunto nessuna
presa di posizione e anche gli alpinisti presenti nelle zone
himalayane, troppo concentrati nel voler salire le cime di
Everest e altri colossi, non hanno instaurato nessuna azione di protesta.
La Redazione del Notiziario, con l’intenzione nel suo piccolo di non far sopire il problema propone ai propri lettori
due articoli comparsi sul sito Planetmountain, scritti da
Manuel Lugli, titolare dell’agenzia “Il Nodo Infinito” e profondo conoscitore e amante del Tibet e della sua gente.
A Zaghmo
Tutto già visto
Tutto già visto, purtroppo, fin dall’invasione del
1949, la dura repressione del 1959 e le proteste del 1988 e 1989. Le
devastazioni, il genocidio culturale e “fisico”,
gli arresti, le torture, le
violenze; la disinformazione pilotata, l’isolamento e la repressione,
l’infiltrazione di agenti
provocatori, le delazioni,
il silenzio e l’indifferenza
dell’occidente impegnato a far sempre più affari con la Cina; la non
violenza del Dalai Lama
e la sua pluridecennale
ricerca di un dialogo con
Pechino.
Ma ci sono due elementi
nuovi in quest’ondata di ribellione dei tibetani così intensa
e repentina – e forse persino inaspettata dai cinesi stessi,
a giudicare dal ritardo con cui è partita la reazione ai primi
disordini.
Lhasa: sul Barkhor
Uno eclatante, noto a tutti ed irripetibile: le Olimpiadi ormai
prossime, occasione importante per i tibetani per riportare in
evidenza, in tutta la sua complessità e tragicità, la questione
tibetana. Soprattutto dopo la decisione lucidamente folle del
governo cinese di blindare l’Everest prima, e poi il Tibet tutto,
per consentire alla propria spedizione “alpinolimpica” di compiere la Grande Impresa della Fiaccola Ardente senza troppi
occhi tra i piedi.
Purtroppo però, che ai cinesi piaccia o meno, il mondo conosce da anni la politica repressiva che Pechino ha sempre
usato nei confronti del Tibet e non saranno certo le Olimpiadi,
per quanto sfarzose e blindate, a cambiare la percezione dei
fatti e a far identificare la Cina come un grande, luminoso faro
di civiltà. Così come non lo possono i soliti, lugubri comunicati
sulle responsabilità della “cricca del Dalai Lama”, motore, secondo Pechino, di ogni azione anti-cinese.
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Sono parole che sanno di decrepito, di ammuffito, parole che
rivelano tutto il vecchiume e l’arroganza di un partito-governo
che continua ad usare il linguaggio marcito della propaganda
43
dialoghi
maoista da una parte, per perseguire il più bieco e spietato capitalismo dall’altra. E proprio su quest’ultimo terreno
è piantata e si nutre la prudenza mirata della quasi totalità dei paesi occidentali, Italia inclusa.
I quali paesi, negli ultimi dieci anni, hanno contribuito in
maniera decisiva a portare la Cina ad essere la seconda
potenza economica del mondo dopo (per ora) gli Stati
Uniti.
Personalmente, non molto tempo fa, sono stato a Pechino
per due volte a distanza di un anno. Mentre mi avvicinavo
alla città dall’aeroporto la seconda volta, stentavo a riconoscere quella selva di grattacieli che solo un anno prima
era campagna.
dialoghi
dialogo ad oltranza, di attesa di un segnale distensivo, di
una buona volontà che da Pechino, purtroppo, non è mai
arrivata. Non è una novità assoluta; una certa quota di
dissidenti tibetani ha sempre considerato la lotta, lo scontro diretto con i cinesi – l’insurrezione – l’unica possibilità
di liberazione dall’oppressione cinese, in deciso contrasto
con il leader spirituale.
Ma in questi giorni, a guardare la violenza e l’estensione
della protesta, che ha coinvolto non solo Lhasa, ma anche
provincie vicine, come il Sichuan o il Gansu (con morti e
feriti), provincie che hanno una forte presenza di tibetani,
è sembrato di cogliere un segnale più forte, di totale esasperazione. Certo sua Santità mantiene la sua posizione
storica: “la gazzella non batte il leone”, dice, occorre dialogo e pazienza, la violenza genera solo altra violenza.
E non è certo un caso che il Dalai Lama stesso abbia minacciato le sue “dimissioni”, se la situazione dovesse degenerare, per la violenza dei cinesi, ma anche dei suoi
stessi tibetani. Cosa voglia dire per questi ultimi “perdere”
ufficialmente il loro leader spirituale non si sa bene, ma
potrebbe essere la scintilla che accende qualcosa di molto
più serio di quanto finora accaduto.
I tibetani non hanno avuto finora un leader, un uomo carismatico interno al Tibet che potesse catalizzare la protesta verso forme più organizzate ed è stata da una parte
una debolezza, ma dall’altra – come faceva notare la rivista Limes – una piccola forza, dovendo in questo modo
le forze militari e di polizia cercare di reprimere focolai di
protesta più spontanei e diffusi e quindi meno controllabili
di un vero e proprio “esercito di liberazione”.
L’Everest dal Tibet
Allo stesso modo ho faticato a riconoscere la periferia di
Lhasa lo scorso anno, dopo essere stato un paio di stagioni senza andarci. Il modello di sviluppo è lo stesso: una
crescita metastatica di edifici-strade-piazze applicata ad
un territorio, il Tibet, che è l’esatto opposto, perché fatto
di grandi spazi, per popolazioni nomadi. Ed è la velocità di
questa crescita a stupire di più, a Pechino come a Lhasa.
44
L’altro elemento che, mi pare, sia emerso, è un certo grado – crescente - di insofferenza nei confronti della politica
del Dalai Lama sulla questione tibetana: una ricerca di
Certo è difficile pensare che gruppi spontanei di resistenti
tibetani possano tenere testa a migliaia di militari cinesi
armati – che pare stiano convergendo sulla capitale del
Tibet. Anzi, i rastrellamenti casa per casa delle ultime ore
e gli arresti di massa, hanno già dimostrato quale piega
stia prendendo la protesta dei tibetani. Ma in questi giorni
sono per lo meno riusciti nell’intento di suscitare proteste
e solidarietà in tutto il mondo, sono riusciti in qualche
modo a graffiare quella patina di “civiltà” che con le Olimpiadi la Cina cercava di stendere sulla propria immagine.
Chiunque di noi guarderà i Giochi Olimpici il prossimo agosto, non potrà fare a meno di pensare a ciò che è successo
in questi giorni.
Boicottare o non boicottare? È questo il dilemma. A parte
che non è certo un dilemma perché nessun paese lo farà,
non credo sia tanto una questione di boicottaggio, per
quanto personalmente lo riterrei un atto coraggioso ed
45
dialoghi
dialoghi
auspicabile. Le Olimpiadi 2008 semplicemente non andavano affidate alla Cina, in quanto paese che sistematicamente vìola i diritti civili. E non solo per quel che riguarda
il Tibet.
Il fatto è doppiamente vergognoso se si pensa che la
scelta è palesemente legata alla volontà delle nazionai
occidentali di assecondare i desideri di legittimazione di
un partner economico tra i più potenti.
Ho pensato seriamente in questi giorni difficili e convulsi, come professionista che lavora in Tibet con gruppi di
alpinisti e viaggiatori, se non fosse il caso di smettere di
andare in Tibet; smettere di sostenere in qualche modo,
con il nostro lavoro ed i nostri soldi, un sistema che reprime un popolo. Boicottare l’alpinismo in Tibet come le
Olimpiadi? Sarò sincero, non ho una risposta certa. L’istinto mi farebbe scegliere di chiudere. Ma siamo davvero sicuri che non sarebbe una fuga? L’abbandono di un popolo
che, ora più che mai ha bisogno di non essere dimenticato, che ha necessità che la gente veda come vive e come
viene trattato?
Ho cominciato ad andare in Tibet nei primi anni novanta, pochi anni dopo l’apertura della regione al turismo,
avvenuta nel 1987. Ho continuato ad andarci, prima da
viaggiatore e poi da organizzatore e non ho mai smesso di
amarlo. Né i suoi spazi, nè la sua gente. Forse rinunciare
al Tibet potrebbe essere una temporanea scelta di protesta, non credo possa essere una scelta definitiva.
Per ora i cinesi hanno scelto per me, per tutti. Il Tibet è
chiuso, sia da terra che dal cielo. Niente Everest, niente Cho Oyu e, dopo gli scontri di Lhasa, niente Shisha
Pangma. Hanno persino ottenuto una temporanea chiusura dell’Everest sul versante nepalese: la globalizzazione
dell’imbecillità. Più realisticamente centinaia di migliaia di
dollari nelle casse del governo di Kathmandu, giusto per
il disturbo.
Dal 1° al 10 maggio, dunque, giù dalla montagna tutti
gli alpinisti: a bere birra a Lobuche o Pheriche, in attesa che un qualche Piccolo Timoniere ramponato guidi la
fiaccola sulla vetta del Qomolongma, la Dea Madre della
Terra. Povera Madre, forse rimpiangerrà il giorno in cui
ha partorito.
Manuel Lugli
46
Il Tibet e le cronache
dall’Everest
incatenato
Salgo, arranco, bestemmio, sbuffo. Passo ancora un crepaccio nero su una traballante scaletta di alluminio fissata
(?) da un paio di precarie viti da ghiaccio agli estremi. Mi
fermo, respiro, sospiro, guardo in alto. Sono quasi fuori dall’immenso labirinto del ghiacciaio. Mordo il ghiaccio
con le punte dei ramponi ed infine mi siedo sul labbro
superiore dell’Icefall. Prendo fiato, mi rialzo, vedo le tende
del campo 1 e riparto.
Quando alzo gli occhi vicino alle tende, non
mi aspetta un compagno, non uno sherpa,
ma un soldato. Armato. Che mi dice che non
posso salire oltre. Almeno fino al 10 maggio. Bestemmio, sputo, sbuffo. Lo mando a
cagare – anche se non c’entra niente il povero ragazzetto nepalese - e stramaledico i
cinesi – che invece c’entrano moltissimo.
Brandelli di cronaca possibile, anzi quasi
certa, che arriva dall’Everest. La situazione
sarebbe quasi comica se non ci fosse un
filo rosso tragico che lega il tutto: i morti,
gli arresti e gli oppressi del Tibet. Al campo
1 dell’Everest pare davvero che gli alpinisti
trovino militari armati a fermarli, per evitare ogni possibile “dissidenza” anti-cinese sulla montagna.
Quel che è certo è che il governo nepalese ha dispiegato
forze in abbondanza in tutta la valle del Khumbu per controllare la situazione dell’Everest.
Verso l’Island Peak
I controlli iniziano già a Lukla sui materiali delle spedizioni
e continuano alla porta del Parco del Sagarmatha a Monjo, dove militari e polizia perquisiscono tutti gli zaini di
trekkers ed alpinisti alla ricerca di telefoni satellitari, sistemi di trasmissione dati e soprattutto bandiere del Tibet,
striscioni di protesta ed ogni altro supporto anti-cinese.
Questo non impedisce a noi, in trek verso il Renjo La,
lungo la valle di Thame e del Cho Oyu che porta verso il
Tibet, di regalare ad alcuni commercianti di Namche Bazaar – quasi tutti di origine tibetana - tre-quattro bandiere
del Tibet appositamente portate allo scopo. Ma noi siamo
entrati abbastanza presto e per di più lungo la valle del
Cho Oyu, poco frequentata. Più la stagione entra nel vivo
e più i militari, ed i controlli, aumentano in tutti i principali
centri della valle dell’Everest.
47
dialoghi
Quando poi gli alpinisti arrivano al campo base, i militari
perquisiscono ancora e chiedono la consegna di ogni sistema di comunicazione satellitare (telefoni ed antenne
satellitari per connesioni con la rete) e delle videocamere
digitali. I telefoni vengono messi a disposizione dei legittimi proprietari per le loro comunicazioni dalle 13 alle 15.
Fine. Ogni altra soluzione è fuorilegge. Qualcuno tenta
di sfuggire e non dichiara il telefono; altri nascondono
qualche striscione pro-Tibet. La pena per tutti è la stessa:
sequestro di ogni cosa e cancellazione del permesso di
salita. Come dire 15.000 € buttati nel cesso. Che vuoi
farci, è la guerra, baby.
48
Al campo base ci sono anche alcuni cinesi. Un giorno, verso la fine del nostro trek, li vediamo sbarcare da un elicottero militare a Lukla, in compagnia di alti ufficiali nepalesi
che li hanno scortati al campo base per controllare che
tutto fosse tranquillo. Veniamo anche a sapere che i cinesi
avevano fatto richiesta di un permesso di salita ufficiale
per il versante nepalese, così da controllare direttamente
sulla montagna che nessuno li contestasse. Poi la cosa è
rientrata; evidentemente anche il governo nepalese ha
un minimo di senso del pudore. Certo l’indignazione per
una resa così incondizionata dei governanti nepalesi alle
richieste cinesi rimane, ma d’altronde chissà quali poderose leve economiche avrà mosso il governo di Pechino nei
confronti del povero, traballante Nepal…
dialoghi
Noi continuiamo il nostro trek verso l’Island Peak, 6.189
metri, ciliegina sulla torta del nostro viaggio. Nessuno
controlla la valle che va verso Chukung e quindi ci permettiamo di continuare la nostra minuscola, personale
campagna pro-Tibet esponendo una bandiera tibetana al
campo base dell’Island Peak e poi di nuovo a 6.000 metri,
poco sotto la cima dell’Island Peak. In cima no, perché
questa primavera la cima dell’Island Peak non c’è, o meglio, c’è ma è larga non più di due metri quadri ed in piedi
non ci si sta (anche per il vento).
Siamo di fronte all’immensa parete sud del Lhotse, con
una giornata che più bella e tersa non si può. Se qualcuno
fosse già in cima al Lhotse vedrebbe la nostra minuscola
macchietta colorata quaggiù. Ad un certo punto sentiamo
rombare in distanza un elicottero: azz! ci hanno beccati,
ora ci intimeranno di arrenderci e consegnarci senza fare
resistenza. Ci vediamo già in ceppi, in un campo di rieducazione del Guandong a studiare il pensiero del Grande
Timoniere. Ma l’elicottero prosegue con decisione verso il
Makalu. Sapremo poi che si dirigeva a soccorrere un altro
elicottero che schiantatosi al campo base del Makalu – per
fortuna senza vittime.
Scendiamo al campo base soddisfatti per la salita e le
foto. E, sempre ammirando la parete sud del Lhotse, che
dal basso è ancora più impressionante, pensiamo con un
brivido a quel che accadrà il 10 maggio, quando finalmente scadrà la “moratoria” dell’Everest. Quando quattro-cinquecento alpinisti e sherpa (ci sono 47 spedizioni al
campo base) incazzati, stanchi di scendere a Gorak Shep
e Tengboche per far passare il tempo, col sacro fuoco
della salita al culo più ardente che mai, si fionderanno
tutti insieme – o quasi – verso l’alto, ad occupare campi,
corde, pendii e creste. Nelle risicate “finestre” climatiche
che classicamente contraddistinguono le salite all’Everest
e che raramente sono più di due. Pieni di cose da fare:
salire, montare i campi sopra il 2, finire l’acclimatamento
alto, filmare, fotografare, comunicare, aggiornare siti, telefonare. Tutto in tre settimane circa.
Solo gli spiriti dell’aria e dell’altitudine possono sapere.
Tutti gli altri possono solo incrociare le dita e sperare che il
tempo sia clemente e non s’inventi una di quelle tempeste
perfette che ogni tanto rasano i pendii del Sagarmatha.
Ed innalzare un pensiero triste alla sola cosa che ancora
una volta sia riuscita ad innalzarsi vertiginosamente sopra
la magnificenza delle alture himalayane: la stupefacente
stupidità dell’uomo.
Manuel Lugli
43
dialoghi
di Marco De Zuani
Ghiaccio e Fuoco
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L’Italia brucia e non solo…intere nazioni interessate da
vasti incendi, vittime del fuoco, siccità…notizie entrate
spesso nelle nostre case durante l’estate appena trascorsa. E l’inverno?...minimi storici di precipitazioni, record di
temperature nel nord d’Europa.
C’è un evoluzione in corso o va veramente di moda, nel
mondo giornalistico, parlare di clima?
Probabilmente entrambe le ipotesi sono veritiere, non è
una novità infatti che questi argomenti facciano ormai
presa sul grande pubblico, tanto più se le notizie sono
catastrofiche. Qualcosa però sta realmente succedendo,
ma ne stiamo davvero comprendendo cause ed effetti?
Capire le dinamiche meteo-climatiche è un impresa molto
difficile e se, alle già molte variabili presenti, aggiungiamo
anche quella del famigerato effetto antropico, districarsi
diventa quantomeno complesso.
Delle tante dette, una cosa sembra mettere d’accordo i
maggiori esperti in fatto di clima: il nostro pianeta sta
diventando più caldo, lo sta facendo più velocemente rispetto al passato e a quello che molti si aspettavano.
In tutto questo ingarbugliarsi di notizie, allarmismi, errate
certezze e dati di fatto, seduti a tavolino a pianificare una
salita, nell’indecisione di preferire un itinerario o l’altro per
ragioni di sicurezza, a ben pochi alpinisti sarà venuto in
mente il particolare e curioso nesso esistente tra ghiaccio
e fuoco.
Un legame tra freddo e caldo? Ma ghiaccio e fuoco non
sono agli antipodi?
Ma se al posto delle fiamme pensiamo al grande calore
naturale presente all’interno del nostro pianeta e se immaginiamo le due realtà come conseguenza l’una dell’altra, il vincolo non apparirà più così azzardato.
Ebbene si! Il connubio pare proprio esistere e arriva addirittura dalle viscere della Terra!
Ma per comprendere meglio come possa esistere questo
legame dobbiamo fare un po’ di chiarezza. Dagli strati
interni della Terra (Mantello e Nucleo) arrivano in superficie ondate di materiale parzialmente fuso che si raccoglie
in particolari serbatoi, le camere magmatiche. Periodicamente queste tasche di roccia fusa diventano instabili,
si fratturano ed il materiale trova una via d’uscita verso
l’alto… nascono così vigorose eruzioni vulcaniche.
Alcune di queste, quelle con i magmi più ricchi in silice e
gas, danno origine a violente esplosioni che proiettano
nell’atmosfera migliaia di tonnellate di ceneri e polveri.
Spinte a svariati chilometri di altezza, queste particelle rimangono in sospensione a lungo e, trasportate dai venti,
possono viaggiare da un luogo all’altro del nostro pianeta. Se emessi in grandi quantità, i materiali qui descritti
dialoghi
possono costituire una sorta di schermo riflettente, che
respinge nello spazio parte dei raggi solari. Conseguenza?
Meno energia riesce a raggiungere le parti basse dell’atmosfera, il che significa temperature medie più basse.
Per cercare conferma a quanto affermato possiamo pensare ai ghiacciai delle nostre Alpi e allo loro ultima fase
di ragguardevole espansione. Dati scientifici, dipinti e
documenti storici ci riportano subito a quella che viene
comunemente chiamata la “Piccola Età Glaciale” (14001850). Pensiamo ora alle maggiori eruzioni vulcaniche
storicamente documentate: krakatoa, Pelèe, Tambora,
Laki, Askia, Katmai, Hekla….tutte tra il 1400 e l’inizio del
1900.
Una certa correlazione sembra proprio esserci, nonostante l’idea si presenti quanto meno bizzarra.
Ovviamente i grandi cambiamenti climatici non dipendono solo dai vulcani, per una vera glaciazione occorrono
mutamenti a più vasta scala, spesso collegabili alle dinamiche astrali e alla deriva dei continenti, eventi difficilmente apprezzabili in tempi umani. Per molti alpinisti ed
appassionati di montagna però sarebbe già entusiasmante ritornate ai lunghi inverni nevosi e alle pareti incrostate
di ghiaccio di pochi secoli fa, quando fantasia ed audacia
potevano trovare infinite vie verso il cielo.
Etna, crateri sommitali in un periodo di
relativa quiescenza
51
dialoghi
la nostra storia
Gastone Scalco
(05/09/1920 – 26/01/1998)
52
Detto ciò, dovremmo forse aspettare per nuove grandi
eruzioni? Forse, ma ci sono altre molteplici variabili e
possibili combinazioni, in un pianeta incredibilmente dinamico e in continua evoluzione. Ciò che lo studioso, il
geologo, l’alpinista e il viaggiatore possono oggi affermare con sicurezza è che la Terra è caratterizzata da sistemi
ambientali di difficile lettura, fondati su delicati equilibri. I
mutamenti possono essere drastici, duraturi ed, in alcuni
casi, addirittura permanenti.
La certezza che in questi ultimi decenni sembra emergere
è la sempre più studiata interazione tra le attività umane
e i processi ambientali.
Ma non conoscendo in modo completo né effetti né meccanismi di tali fenomeni, cosa può fare ognuno di noi?
La risposta a questo complesso quesito, paradossalmente, appare oggi abbastanza intuitiva: diminuire il nostro
impatto, utilizzare meno energia di origine fossile (petrolio e derivati), svilupparsi in modo eco-sostenibile. Tutto
questo, nel 3° millennio, è possibile sulla carta, ma ancora di non facile realizzazione, richiedendo notevoli sforzi
educativi e tecnologici.
Le innovazioni socio-culturali necessarie a queste profonde svolte politico-economiche sono oggi, più che mai,
necessarie per prospettare alle nuove generazioni il privilegio di poter godere a lungo delle incredibili risorse del
pianeta che ci ospita. E chissà…un nostro futuro nipote si
troverà a rivivere la prossima “piccola età glaciale”, quando l’alpinismo sarà forse superato e si leggerà sui libri di
storia di un passato recente, dove l’inverno sembrava perduto e gli uomini del tempo cercavano una connessione
tra “ghiaccio e fuoco”.
Marco De Zuani
Geologo - Guida Naturalistico-Ambientale
Aveva solo vent’anni, Gastone, quando il 3 agosto 1941 si
legò in cordata con Toni Bettella ed attaccò la spaventosa muraglia sud ovest dell’Antelao. Cinque terribili giorni
sferzati dal maltempo, cinque freddissimi bivacchi, ed una
determinazione quasi inumana. Una caparbietà stoica e
feroce, ed un unico obiettivo, la cima, e ancora e solo la
cima per una via totalmente nuova. Mille metri di quinto
e sesto grado, una montagna mitica, ed un’impresa che
farà scalpore suscitando stupore ed ammirazione.
Le foto ci mostrano un ragazzo quasi imberbe accanto al
mastodontico e più maturo compagno. Ma Gastone ha
spalle larghe e stoffa da vendere e non gli difettano né il
carattere, né la forza.
Per questa impresa “il Duce, su proposta del Presidente
del Coni” conferisce la medaglia d’oro al valore atletico ad
Antonio Bettella in qualità di capocordata e la medaglia
di Leri Zilio
Ghiacciaio del Mandrone (Adamello)
il più vasto apparato del versante italiano delle Alpi. Le frecce indicano le
morene laterali della colata durante la
Piccola Età Glaciale, quando la lingua
scendeva copiosa in Val Genova, per
arrestarsi poco a monte del rifugio Bedole (1600m)
Bettella e Scalco all’attacco della via
sulla parete sud ovest dell’Antelao il 3
agosto 1941
53
la nostra storia
Gastone Scalco con Guerrino Barbiero.
Quest’ultimo sarà protagonista, ancora a ssieme a Toni Bettella, di un’altra
importante impresa sulla sud ovest
dell’Antelao
Gastone, assieme ad alcuni amici,
con l’inconfondibile cappello degli alpini all’inaugurazione del bivacco Cosi
all’Antelao
54
d’argento a Gastone Scalco come valido secondo. Un’onorificenza che non verrà loro mai consegnata. Un’ingiustizia bella e buona a cui il Coni non volle porre rimedio
neanche quarant’anni dopo nonostante le sollecitazioni di
Armando Ragana.
Il nostro presidente allora, stanco di aspettare e perorare inutilmente e d’accordo con il consiglio direttivo della
sezione, farà coniare le medaglie sulla stessa falsariga di
quelle originali d’epoca. Il 9 maggio 1999, con una breve
e toccante cerimonia, le consegnerà alla vedova di Scalco
ed al figlio di Bettella.
Purtroppo entrambi se ne erano già andati, Bettella per
un tragico incidente in parete nel lontano 1944, e Gastone
nel gennaio del 1998, dopo una breve malattia.
La signora Wally sorride con tristezza raccontandomi
queste cose e mi dice di come il suo Gastone si sarebbe
schermito ad una cerimonia di tal fatta.
Modesto e ruvido com’era evitava le onorificenze, anche
se poi la sua professionalità e la sua rettitudine morale
facevano sì che le meritasse e gliele conferissero.
Ecco allora il Cavalierato per particolari benemerenze nel
1992 e l’onorificenza argentina, il Condor, dopo l’impresa
del Tupungato (1980).
E la vittoriosa impresa in Sudamerica, con Scalco capo
spedizione, ci riporta all’alpinismo ed al Cai, ma soprattutto alla Scuola di Alpinismo. Scuola con l’iniziale maiuscola,
Scuola che aveva fondato con Bianchini, Bettella, Sandi
ed altri nel 1937 e che nacque ufficialmente con il 1° Corso di Roccia nel 1938.
Si sviluppava in maniera organica ed ufficiale l’embrione
dei “mati delle corde”, quei simpatici scavezzacollo che
imperversavano dalla parti di Rocca Pendice, tracciando
sempre nuovi e più arditi itinerari.
Partivano da Padova in bicicletta alle prime luci dell’alba
e poi, mai domi, mai stanchi, eccoli tracciare la “Direttissima” della parete est (6 ottobre 1940) e ancora vie sulla
parete ovest (1942), sul Monte Pirio (1939).
La Scuola occuperà un posto fondamentale nella vita di
Scalco, egli ne farà sempre parte in maniera attiva ed
energica e la dirigerà per ben quattordici anni dal 1967
al 1980. Armando Ragana lo ricorda come un uomo di
rettitudine ed onestà eccezionali, schietto e sanguigno,
focoso ed appassionato nel sostenere le proprie idee. Una
persona animata sempre e comunque da una passione
smisurata per la Scuola, con gli ideali ed i compiti che
essa si proponeva di perseguire.
È vivo in Armando il ricordo di quel 29 agosto 1973
all’inaugurazione del bivacco Brunetta, ai piedi dell’Antelao. Mentre alla base della parete si svolgeva la cerimonia,
Armando con Nino Portolan saliva la Phillimore, e l’amico
Scalco, il “vecio” Scalco, lo seguiva trepidante con il binocolo. Gli sembra di udire ancora la sua voce che durante i
la nostra storia
contatti radio lo ammoniva ad essere sì veloce per uscire
in giornata, perché bivaccare sull’Antelao non è mai piacevole, ma comunque prudente, di tenere gli occhi bene
aperti, perché il “Colosso” poteva sempre combinare qualche brutto scherzo. Come a lui in quel lontano 1941.
Anno fatidico perché in ottobre, solo pochi mesi dopo la
grande impresa, egli parte per la Scuola Militare Alpina di
Aosta. Inizia per lui l’avventura della guerra che lo vedrà
prestare servizio su vari fronti e che per un puro caso
non lo vedrà coinvolto nella tragica spedizione in terra di
Russia.
Si congederà sergente e per tutta la vita sarà legato agli
alpini e ai valori che essi rappresentano.
Sarà per molti anni vicepresidente della Sezione Ana di
Padova e trasmetterà ai due figli e ai nipoti, tutti alpini, la
stessa passione per il sodalizio.
Anche noi alpinisti amiamo ricordarlo col classico cappello
piumato, figura romantica di un tempo che fu, il tempo
dei nostri padri, dei nostri nonni, cartoline color seppia
che profumano di cose buone e semplici, ormai irrimediabilmente lontane.
Leri Zilio
Sopra: Gastone Scalco con Toni Gianese
Sotto: Gastone in età avanzata con la
moglie Wally
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la nostra storia
Antonio Berti
Co-fondatore del Cai Padova
Antonio Berti a
diciassette anni
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Quest’anno ricorre il centenario della nascita della nostra
sezione del CAI. Il 4 febbraio del lontano 1908 un gruppo
di intellettuali, con a capo il Conte Avvocato Antonio Cattaneo, si riunì “all’ombra del Bò” e diede vita a quello che
sarà uno dei sodalizi più importanti d’Italia.
Fra gli “illuminati” c’era l’allora studente di medicina Antonio Berti, che proprio tentando la scalata alla Est di Rocca
Pendice con altri amici, pensò alla costituzione della sezione patavina.
Tutti conosciamo l’epia scalata svoltasi nel marzo del 1909
con la coppia dei Carugati, Rossi ed appunto il nostro Berti, che anche in quel caso riuscì a lasciare la sua firma
partecipando all’apertura di un itinerario che dovrà iniziare all’epoca alpinistica a Rocca Pendice.
Il 1908 è anche l’anno in cui Antonio Berti dà alle stampe,
sotto gli auspici della sezione veneziana del CAI, il volumetto “Le Dolomiti del Cadore - guida alpinistica”. È la prima guida alpinistica organica italiana che viene pubblicata sulle Dolomiti. Prima di allora su questo tutto speciale
settore delle Alpi esistevano dei validi lavori solo in lingua
straniera. Una guida italiana era quindi molto attesa e il
volume fu accolto molto favorevolmente.
Antonio Berti nacque a Venezia i 17 gennaio 1882 e si
trasferì a Padova per frequentare l’università e conseguire la laurea in medicina e chirurgia. Visse a lungo dedicandosi all’insegnamento e alla carriera scientifica presso
l’Università conseguendo la docenza in fisiologia umana,
Patologia speciale medica e Chimica medica.
Si avvicinò all’alpinismo alla fine dell’800 e per tutta la
vita coltivò questa passione con un impegno straordinario
sia sul campo dell’attività sportiva vera e propria, sia sul
campo culturale e divulgativo.
Il “papà degli alpinisti veneti”, come fu definito dal giurista
e alpinista veneziano Alberto Musatti, fu sicuramente la
figura di maggior rilievo nell’alpinismo dolomitico dei primi
decenni del secolo scorso. Alpinista fra i primi, pioniere
nei gruppi meno conosciuti, appassionato studioso e ricercatore di ogni avvenimento riguardante le sue montagne, coordinatore e riferimento per gli alpinisti.
La sua “Dolomiti Orientali”, edita nel 1928, fu forse il primo e tipico esempio di guida completa ed esaustiva di un
comprensorio alpino. Su di essa è stata poi impostata la
prestigiosa collana “Guida Monti d’Italia”. Questo manuale non si concluse con l’edizione del ‘28 ma fu curato ed
aggiornato nei decenni successivi anche con la collaborazione del figlio Camillo.
Antonio Berti scrisse alcuni libri sulla guerra in Cadore (fu
la nostra storia
ufficiale medico degli Alpini), libri che sono riconosciuti
quali opere di grande valore storico-militare.
Alla sua morte, avvenuta a Padova l’8 dicembre 1956,
gli alpinisti triveneti e la famiglia hanno dato vita a una
“Fondazione” a lui dedicata. Questo per ricordare la sua
memoria e non disperdere il suo eccezionale archivio di
libri, foto, documenti, corrispondenza, testimonianza di
una personalità eclettica, intelligente ed appassionata.
Leri Zilio
Bibliografia: Antonio Berti, Cantore delle crode
a cura della Fondazione Antonio Berti
Nuovi Sentieri Editore - Belluno
Sopra: Antonio Berti di ritorno dalla sua prima conquista alla Croda da Lago
Sotto: il gruppo della Croda da Lago in un tipico disegno pubblicato sulla guida Dolomiti Orientali
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canti di
guerra
canti di guerra
di Pier Giuseppe Trentin
Pubblichiamo, in queste pagine, la seconda parte dell’importante ricerca storica del nostro socio e componente del Coro
Sezionale sui principali canti della Grande Guerra.
La Redazione si riserva di proporre la terza e ultima parte
dello studio nel prossimo Notiziario ed invita il socio Piero
Trentin di proseguire in questo importante lavoro.
LA TRADOTTA
Coro del CAI di Padova – armonizzazione Teo Usuelli
Siam partiti in ventinove
Solo in sette siam tornati qua
e gli altri ventidue
son sepolti tutti a San Donà.
Cara suora son ferito
a domani non ci arrivo più,
se non c’è qui la mia mamma
un bel fiore me porti tu!
A Nervesa c’è una croce
mio fratello è sepolto là:
io ci ho scritto su Ninetto
che la mamma lo ritroverà.
La tradotta che parte da Milano
A Verona non si ferma più
ma la va diretta al Piave
cimitero della gioventù.
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Canto derivato da un antico modello in uso tra i minatori
del Bresciano nel 1872-1880, quando fu scavato il traforo
ferroviario del San Gottardo che collega, con doppi binari
per circa 15 km, la stazione di Airolo con quella svizzera
di Gòschenen. Fu adattato e diffuso tra i nostri soldati
durante la guerra 1915\1918.
Il canto si ispira ai fatti connessi all’offensiva austro-tedesca sferrata su tutto il fronte dall’Astico al mare il 15
giugno 1918. I combattimenti sul Piave furono definiti
giganteschi; alle Grave di Papadopoli le truppe d’assalto
austriache fecero uso di proiettili a gas tossici e di cortine fumogene, attraversarono il Piave e si attestarono sul
Montello, tentando di puntare sulla zona Ponte di Piave –
San Donà, minacciando direttamente Treviso.
A Nervesa, ora Nervesa della Battaglia, si svolsero feroci
combattimenti fra italiani e austriaci, con altissime perdite
da entrambe le parti.
canti di guerra
Nervesa , ridotta ad un cumulo di rovine rimase in mani
austriache, fino a quando iniziò la controffensiva italiana,
poi rimase in nostre mani.
Trascriviamo la versione dei minatori del Gottardo.
ERAVAMO IN VENTINOVE
Eravamo in ventinove
solo in sete siam tornà
e li altri ventidue
soto i colpi sono restà.
Farem fare d’un cimitero
quatrocento metri quadrà
per quei poveri minatori
soto i colpi sono restà.
E le povere vedovele
le và ‘n ciesa per pregar
per la perdita del marito
la pensione le g’ha ciapà.
Maledet si-à ‘l Gotardo
gli ingegneri che l’han progetà
per quei poveri minatori
soto i colpi sono restà.
Un’altra versione della Tradotta – treni di guerra – dove
i vagoni bestiame (cavalli 8, uomini 40), si alternavano a
vetture di prima e seconda classe, treni che lentamente
attraversavano valli e monti, portando tanta bella gioventù verso il fronte.
Suona suona l’adunata suona
ch’e giunta l’ora che la tradotta parte;
deve partir l’amante mio più caro
per il fronte e mai più lo rivedrò!
È la tradotta che parte da Milano
a Bassano non si ferma più,
ma la va diretta a Valsugana
dov’è il macello della bella gioventù
Rammento sempre quelle belle sere
che passavo con il mio bell’alpino:
piangeva sempre quand’era a me vicino,
ed il motivo non lo posso mai saper!
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canti di guerra
LA TRADOTTA CHE PARTE DA NOVARA
La tradotta che parte da Novara
e va diretta al Monte Santo
e va diretta al Monte Santo
il cimitero della gioventù.
Sulle montagne fa molto freddo
ed i miei piedi si son gelati
ed i miei piedi si son gelati
e all’ospedale mi tocca andar.
Appena giunto all’ospedale
Il professore mi ha visitato
o figlio mio sei rovinato
e i tuoi piedi li dobbiam tagliar.
E i miei piedi mi hanno tagliato
due stampelle mi hanno dato
due stampelle mi hanno dato
e a casa mia lor mi han mandà.
Appena giunto a casa mia
fratelli e madre compiangenti
e tra i singhiozzi e i lamenti
o figlio caro tu sei rovinà.
Mi hanno assegnato una pensione
di una lira e cinquantotto
mi tocca fare il galeotto
per potermi ben disfamar.
E infine una versione raccolta nel Bresciano nel 1998.
ALLE CINQUE DEL MATTINO
(La tradotta)
Alle cinque del mattino
minatori che van lavorar
apena giunti in esercisio
una mina gh’è scupiat.
Eravamo in ventinove
Solo in sette ci siam salvat
e gli altri ventinove
son cascati giù nel mar.
E ‘ste povere vedovelle
sempre piangere sospirar
la passion dei suoi mariti
je cascati giù nel mar
………………………………..
……………………………….
E ‘ste povere vedovelle
l’nvà in chiesa a pregar
se ghe capita l’amante
le se turna a maridà.
Ho girato tutti i paesi
e tutti quanti ne hanno compassione
ma quei vigliacchi di quei signori
nemmeno un soldo lor mi hanno dà.
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Questa versione ispirata dal canto militare , è entrata nel
primo dopo guerra nel repertorio delle mondine. Probabilmente deriva da un cosidetto “foglio volante“, usati dai
cantastorie che giravano di paese in paese, e che davano
agli spettatori per far capire meglio il loro canto. (cfr. I
Dischi del Sole – Milano – DS 119\2).
Chiaramente le ultime strofe contengono motivi di contestazione contro la guerra e contro quei signori (ministri?)
che l’hanno voluta.
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canti di guerra
Il Coro del CAi di Padova – Disco Durium
“Canti degli Alpini“
IL TESTAMENTO DEL CAPITANO
(armonizzazione Gianni Malatesta)
El capitan de la compagnia
e l’è ferito e sta per morir,
e ‘l manda a dire ai suoi Alpini,
perché lo vengano a ritrovar.
I suoi Alpini ghe manda a dire
che non han scarpe per camminar,
o con le scarpe o senza scarpe
i miei Alpini li voglio qua.
Cosa comandalo siòr capitano,
che noi adesso semo arrivà?
E io comando che il mio corpo
In cinque pezzi sia taglià.
Il primo pezzo alla Bandiera,
secondo pezzo al battaglion,
il terzo pezzo alla mia mamma
che si ricordi del suo figlio alpin.
Il quarto pezzo alla mia bella
che si ricordi del suo primo amor,
l’ultimo pezzo alle montagne
che lo fioriscano di rose e fior.
Canti della Grande Guerra – vol. 2 – a cura di Savona e
Straniero
Una delle versioni del “Testamento del capitano“ nata
nella seconda guerra mondiale, è quella dedicata da un
gruppo di Alpini del 7° reggimento al loro comandante
colonnello Rodolfo Pesaro, caduto in Albania l’ 8 dicembre
1940. La melodia è la stessa del testamento, ma il testo
è totalmente modificato. Trascriviamo le prime tre strofe
delle undici pubblicate.
canti di guerra
IL COLONNELLO FA L’ADUNATA
Il Colonnello fa l’adunata
negli occhi tutti el ne g’ha vardà
e poi ha detto ai veci Alpini
di tener duro n’ha comandà.
I suoi Alpini ghe fa risposta
Sior colonnello se tegnarà
e scarpinando sulle montagne
in prima linea i s’ha portà.
E per do mesi i ha tegnù duro
In mezzo al freddo da far giassar
scoltando sempre le sue parole:
“Sacrificarsi ma non mollar“.
“Canti popolari Trentini“ raccolti da Silvio Pedrotti
SIOR CAPITANO DELLA SALUTE
Sior Capitano della salute
che s’è malato a far l’amor
ghe manda a dire ai suoi soldati
che i lo vegna a ritrovar.
Li suoi soldati i ghe manda a dire
che no gh’è barca da imbarcar .
Ghe sia barca, no ghe sia barca
li miei soldati li voglio qua.
Alla mattina ben a bonora
li suoi soldati i era là.
Cosa ‘l comanda , sior Capitano
che ‘l n’à mandati a richiamar?
Ve raccomando questa mia vita
che in quattro parti la sia taglià.
La prima parte al re di Francia
e la seconda al battaglion.
E po la terza a Margheritina
che la se recorda dell’amor.
E po la quarta a la mia mama
che la se recorda del so figliol.
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canti di guerra
Se mi scampassi anca cent’anni
mai più l’amore coi militar.
Pinzolo, settembre 1886. Pubblicata da N. Bolognini in
“XIII Annuario S.A.T.“ Francesco A. Ugolini in “La poesia
provenzale e l’Italia“ nel commento al compianto di morte
di ser Blacas di Bordello (XIII secolo), ricorda l’antico motivo popolaresco del “Testamento del Capitano“.
Pablo Neruda, famoso poeta cileno (1904 – 1973), nelle
sue memorie “Confesso che vissuto scrive: “C’è un vecchio tema della poesia folkloristica che si ripete in tutti i
nostri paesi. Si tratta del “cuerpo repartido“. Il cantore
popolare immagina di avere i piedi in un posto, il cuore in
un altro, e descrive tutto il suo organismo che ha lasciato
sparso per i campi e città.
Io in quei giorni mi sentivo così“.
Queste note sono riportate da Silvio Pedrotti nella sopracitata raccolta “Canti popolari Trentini“.
Ma chi ce lo fa fare
Ma chi ce lo fa fare, di alzarci presto la mattina, dopo
una stressante settimana di scuola, per poi tornare a casa
ancora più distrutti?
Il motivo è molto semplice, perché durante il giorno ci
divertiamo tantissimo!
di Silvia Giordano
Margheritina l’è sulla porta
la casca ‘n terra dal gran dolor.
Leva sù, leva su Margheritina
che l’è ‘qua ‘l tuo primo amor.
alpinismo
giovanile
alpinismo giovanile
Ciò che sto per raccontarvi, ha dei personaggi nonché
i nostri accompagnatori, che adesso elenchiamo, così
quando leggerete capirete meglio:
Nicola: re
Davide: regina
Nicolas: lady oscar
Pietro: cavallo di andrè
Sandro: cavallo di lady oscar
Elena: spada1
Valeria: spada2
Gianni: papà di lady oscar
Tutto incominciò una calda mattina d’estate. Dovevamo
trovarci al piazzale Azzurri d’Italia, alle 6.30, per partire
alla volta del lago Fedaia; in pullman, tutti sonnecchiavano almeno per la prima mezz’ora di viaggio poi… è iniziato
il caos!
Appena arrivati, abbiamo mangiato qualcosa, e subito
dopo è iniziata la salita per la via del Pan, 400m di dislivello, che fatica! Ma alla fine, ognuno con il suo passo è
arrivato fino al rifugio Fredarola. Eravamo tutti morti, bisogna dire però che il panorama era davvero incantevole;
abbiamo pranzato e fatto un po’ di pausa. Intanto il re ci
ha diviso in due gruppi per il giorno seguente: il primo
sarebbe partito alle otto di mattina e avrebbe fatto tutta la
salita del Piz Boè a piedi, mentre il secondo avrebbe preso
la funivia del passo Pordoi e dal rifugio Maria avrebbe
continuato fino alla cima.
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Successivamente abbiamo ripreso il cammino, fino ad arrivare (con nostra grande gioia) all’hotel che ci avrebbe
ospitato per la notte. Il pullman era già lì, abbiamo preso
le nostre cose, ci hanno diviso per stanze e poi finalmente
abbiamo avuto un po’ di tempo libero. La sera dopo aver
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alpinismo giovanile
mangiato ci siamo ritrovati nella hall, per passare la serata. Un po’ di ragazzi si sono messi a guardare la tv, mentre
gli altri, insieme agli istruttori, hanno fatto i nodi 8 (evitiamo di parlarne!); in seguito abbiamo giocato, con dei
giochi che c’erano nell’hotel, poi ci siamo diretti a letto.
Il giorno dopo, ci siamo alzati alle sette (noi non eravamo
tanto d’accordo!), abbiamo fatto colazione e in seguito il
primo gruppo con il re, il cavallo di lady oscar, la spada2
e il papà di lady oscar, si è incamminato per il ghiaione
del Piz Boè, mentre il secondo gruppo con lady oscar, la
regina la spada1, e il cavallo di andrè, ha aspettato fino
all’apertura della funivia, per poi arrivare al rifugio Maria
(2950m), dopodiché sono scesi e hanno raggiunto il rifugio forcella Pordoi (2829m). Nel frattempo il primo gruppo
li stava quasi raggiungendo. Dopo esserci riuniti, siamo
saliti insieme, fino al rifugio capanna Fassa (3152m), dove
abbiamo mangiato. Il panorama era bellissimo, meraviglioso… fatto tutte le foto possibili e dopo esserci ripresi,
abbiamo iniziato la discesa, fino ad arrivare al rifugio Boè
(2873m), dove lady oscar, si è rimpinzato; la discesa per
il ghiaione, per alcuni di noi, non è stata molto semplice,
fra scivoli, e quasi cadute, alla fine siamo arrivati a valle.
Non ne potevamo più… siamo saliti in pullman e abbiamo
dormito… non per tutto il viaggio!!!
Ora che questa avventura è finita, vogliamo ringraziare
tutti gli accompagnatori, per averci sempre aiutato quando ne avevamo bisogno, per averci sopportato anche
quando superavamo i limiti, per averci tirato su il morale
quando era a terra, per esser sempre loro stessi, per questo l’unica cosa che possiamo dire è: GRAZIE!!!!!!!!!!!!!!
SILVIA GIORDANO
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alpinismo
alpinismo
Campo Base
Inizia, con il ritrovo in via Natisone, il viaggio di 20 persone, estranee l’una all’altra, che hanno deciso di incrociare
i loro destini per iniziare un cammino. Questo li avrebbe
portati dove mai avrebbero pensato di arrivare. Quel che
segue è il diario (semiserio) di quel viaggio dal quale sarebbero tornati “migliori” di come erano partiti.
CAMPO BASE: diario di bordo
14 luglio 2007 ore 06.00 A.M. via Natisone, si punta verso
la prima cima indicata dal vice direttore: la pasticceria di
Alleghe. Dimostrando subito disciplina, senso dell’orientamento e spirito di gruppo gli allievi del 40° Corso di
alpinismo si fermano ad Agordo… Le paste, comunque,
erano buone.
Ore 10.00 A.M. si arriva al campo base (cielo terso, temperatura gradevole, bevande annacquate…). Scaricati i
100 e più kg a testa si punta arditamente verso la “città
dei sassi”; comincia così la nostra avventura alpinistica.
Entro sera si torna al nostro C.B. altresì “Centro di Formazione B. Crepaz” (il nome suscita più di una perplessità…).
Il corso è proseguito sul piano alimentare con una dieta
severa che niente aveva da invidiare a quella “eroica” servita nella Tenda Rossa di storica memoria.
15 luglio 2007 ore… tanto presto. Raggiunto campo 1 situato in un punto indefinito del ghiacciaio della Marmolada (la lezione di orientamento sarebbe sopraggiunta solo
dopo tre giorni) per assistere al balletto di Giovanni sul
passo a croce e ai tuffi di Paolo che poco prima aveva
ridotto severamente al silenzio le voci dissenzienti degli
altri Istruttori. Fine giornata: recuperato zaino ed effetti
personali di tale Sergio Carpesio…
alpinismo
19 luglio 2007, campo 4, la Marmolada: i più fortunati
raggiungono Punta Penia, quelli un pelino meno Punta
Rocca. Si vocifera di ritiri a mezza costa.
20 luglio 2007, campo 5, salita lungo la ferrata Tridentina.
Armati di tutto punto ci siamo “liquidator” la salita in tempo utile per assistere al bagnetto di Anitona Ekberg nel
fortunato laghetto Pisciadù.
21 luglio 2007, il ritorno… in città per molti, alla città dei
sassi per i più nostalgici, che nel pomeriggio hanno ritrovato il meritato riposo nella, mai dimenticata, pasticceria
di Alleghe, mentre un mesto diabolico coupè procedeva
senza aria condizionata verso il forno della pianura padana.
Epilogo:
Queste esperienze, sulle quali abbiamo scherzato, sono
state per noi occasione di crescita e soprattutto hanno
visto nascere un gruppo di amici che, è speranza di chi
scrive, faranno di questo campo base la prima tappa di
una lunga salita insieme.
Ringraziamenti: a Paolo Bassanese e Nazareno Cavinato,
direttori in pectore e vera spina dorsale di questo corso,
a papà Sergio Carpesio anima e tutore di tutti gli allievi. E
agli istruttori tutti che con perizia, pazienza e dedizione ci
hanno iniziati alla grande avventura chiamata Alpinismo.
Gli Allievi del 40° Corso
Alpinismo del CAI Padova
16 luglio 2007 poco dopo l’alba. Campo 2 Le Due Torri (del Sella). Alcuni le raggiungono altri, i gradualisti, si
fermano tre metri sotto la cima e altri ancora, leggasi un
istruttore, tornano indietro a recuperare la corda dimenticata severamente in auto.
17 luglio 2007, campo 3. Cima del sasso Piatto lungo la
via Schuster: la truppa si divide in due, i bersaglieri davanti e gli alpini dietro. I primi raggiungono la vetta con gli
scarponi che fumano, mentre i secondi arrivano fumati.
18 luglio 2007, riposo. Al centro meteo di Arabba il Vice
Direttore la lezione se l’è sognata.
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69
ricordiamo
A Bruno Detassis….
Re del Brenta
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Un’altra fetta di storia dell’alpinismo se n’è volata via…l’8
maggio, alla veneranda età di 97 anni, Bruno Detassis ci
ha lasciato; ci ha lasciato uno dei maggiori protagonisti
dell’alpinismo di inizio secolo lasciando dietro di sé delle
tracce indelebili che difficilmente qualcuno riuscirà a ripercorrere interamente.
La figura di Bruno mi è particolarmente cara perché oltre che un alpinista “d’altri tempi” era una persona con
la quale si dialogava volentieri di alpinismo e di filosofia
dell’alpinismo, di salite ma anche di errori, di montagna
e di vita in montagna. Quando all’inizio della mia attività alpinistica bazzicavo frequentemente il Rif. Brentei mi
piaceva al pomeriggio, dopo aver fatto un’ascensione, sedermi e parlare con lui che immancabilmente si trovava
seduto sulla panca appoggiata al muro, fuori dal rifugio
ad ammirare le sue montagne e così commentavamo i
vari itinerari, mi consigliava salite, mi istruiva su particolari passaggi, mi spiegava discese che a me parevano
complicate. Allora le cose erano ben diverse da adesso;
salire il Crozzon di Brenta e scendere prima del buio era
già una gran soddisfazione e ancora più soddisfatti si era
quando dal burbero Bruno, sotto la sua lunga barba si
riceveva qualche sussurrato complimento. A guardarlo in
faccia incuteva un po’ di soggezione, pensando poi a quello che aveva fatto e con chi aveva arrampicato il rispetto
cresceva in modo esponenziale, ma a conoscerlo era una
persona affabile e sempre pronto a parlare e ascoltare noi
“allora giovani”, che pensavamo di stravolgere l’alpinismo
e l’andare in montagna. Custode per moltissimi anni del
Rif. Brentei continuò a salire ogni estate anche quando
la gestione passò nelle mani del figlio ma a lui piaceva
essere là, guardare con il suo binocolo gli alpinisti impegnati nelle varie vie, commentare su quel che facevano e
ciondolare la testa se qualcosa non andava.
Verso la metà degli anni ’80 mi trovavo al rifugio con altri
amici di Padova e durante la settimana una nota marca di
scarpe aveva organizzato uno stage di arrampicata e tra
gli altri erano presenti anche Patrick Edlinger e Gaston Rebuffat. Oltre a osservare ad arrampicare quei “mostri sacri”, mi sono trovato ad assistere dopo qualche salita alle
loro discussioni; Bruno dolomitista, Gaston occidentalista
e Patrick simbolo delle nuove generazioni di arrampicatori
“free”. Fino a tarda sera, di fronte a molteplici brindisi
con del buon vino è stato interessante assistere a queste
“discussioni” che mettevano in luce la pacatezza e la capacità di mediare di Bruno il quale con poche ma misurate
parole portava la sua esperienza di alpinista di ricerca e
salitore di numerosi nuovi itinerari in tutte le Dolomiti.
ricordiamo
E Bruno Detassis l’ho ritrovato molti anni dopo, non più
seduto sulla panca del Rif. Brentei ma scartabellando riviste, guide, resoconti e scritti nel corso della stesura delle
Guide CAI TCI delle Pale di S. Martino. Mi sono così imbattuto nuovamente in questo personaggio e nella sua
formidabile attività svolta in questo gruppo assieme, nella
maggior parte dei casi, ad un’altra icona dell’alpinismo di
quei tempi: Ettore Castiglioni. Per chi conosce a fondo le
Pale è superfluo ricordare che tutte le vie tracciate dall’eccezionale coppia costituiscono ancora oggi a distanza di
70 anni delle gran classiche ripetute ogni anno da decine
di alpinisti i quali ne traggono sempre uguali soddisfazioni.
Basti pensare al Sass Maòr con il suo spigolo SE, la Pala
del Rifugio con lo spigolo NW, la parete E del Campanile
Pradidali, lo spigolo SW della Cima Wilma, la Pala Canali
con la sua difficile parete S, la Cima d’Oltro e il suo spigolo
NW e per finire lo spigolo SW del solitario, appartato e
poco visitato Campanile d’Ostio. Allora negli anni ’30 in
Val Canali si poteva parlare di alpinismo di ricerca e Bruno
di ricerca ne ha fatta molta, dappertutto anche se le sue
montagna preferite erano quelle del Gruppo del Brenta
e dovunque è passato ci ha regalato degli itinerari che
rimarranno scolpiti dentro ogni alpinista, che rappresenteranno per sempre dei paragoni con altre salite e degli
itinerari cui indirizzare l’alpinista neofita con la certezza
che riporterà le stesse soddisfazioni provate da noi sia che
si tratti di facili percorsi che di salite estreme.
Mi viene in mente di una “leggenda” che circolava al Rif.
Brentei; certe volte Bruno spariva, non lo si trovava più,
ma verso il tramonto eccolo arrivare per sedersi sulla
panca oppure finché poteva, spaccare un po’ di legna e
allora la “leggenda” vuole che quando c’era tanta o troppa gente, Bruno si dileguava e si ritirava salendo su una
cengia che solo lui conosceva per ridiscendere quando il
rifugio tornava tranquillo. Ecco Bruno, voglio immaginarti
tranquillamente seduto su quella cengia a tutti noi sconosciuta, con la tua pipa in bocca nel gustarti una serena
fumata assaporando il meritato riposo dopo aver compiuto quest’ultima salita, l’unica a non aver problemi per la
discesa.
Lucio De Franceschi
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ricordiamo
Andrea Minca Burlin
Lunedì 16 Giugno 2008 Andrea ha lasciato i suoi cari e tutti
noi per vagabondare nuovamente solitario. Solo la malattia lo
ha staccato dalla sua nuova vetta che era la famiglia.
Andrea ha iniziato come tutti noi, prima escursionista poi alpinista. Ha avuto un periodo intenso dove la montagna era in
assoluto al centro della sua vita. Il suo andare in montagna
era stato solitario in certi momenti, ma soprattutto in compagnia di tanti amici che è sempre riuscito a coinvolgere.
Ora anche se qualcuno non può più frequentare la montagna
ci si ritrova anche per suo merito.
Ad un certo punto della sua vita ha conosciuto Lorena e in
quel momento lei è diventata la sua unica e grande passione.
Non ha più abbandonato neanche per un istante la sua famiglia che aveva tanto bisogno di lui. Andrea ha sempre dato
molto a tutti noi.Ora tutti noi lo ricordiamo.
Addio Andrea, continua il tuo cammino con i tuoi amici, Luca
e Andrea, che ti hanno preceduto.
Iolanda Mazzonetto
Iolanda se n’è andata come ha sempre desiderato: alla chetichella, senza clamore, senza disturbare, in punta di piedi,
forse anche senza soffrire. Aveva sempre detto che quando
sarebbe giunta la sua ora avrebbe voluto non dar fastidio
a nessuno. Il buon Dio ha assecondato il suo desiderio, ha
accolto la sua preghiera.
A noi sembra che sia partita per uno dei soliti, mitici viaggi in
giro per il mondo. Ci avvisava che partiva quasi all’ultimo momento, quando era certa dell’evento. Quindi abituati a queste
repentine decisioni, siamo ancora increduli che non possa più
tornare. Questa volta ha intrapreso un viaggio senza ritorno,
ma siamo sicuri che sarà il più bello perché la porterà ad
incontrare tutti i suoi cari che ha amato, tutte le persone che
l’hanno preceduta, soprattutto i molti amici del Cai con i quali
ha condiviso momenti felici e gite indimenticabili. Gli amici
della montagna l’avranno senz’altro già accolta con gioia e
con loro si sarà già accordata per nuove avventure fra le celestiali vette del paradiso. Mancava solo lei per ricomporre con
Vasco, Babe, Zeffiro il fantastico “poker” del mercoledì, con
coloro che hanno iniziato la grande avventura settimanale dei
veterani del Cai fra le amate montagne.
Ora anche di lei ci rimane solo il ricordo. Ci dispiace non essere riusciti a dirle ciao un’ultima volta. L’improvvisa e rapida
malattia ci ha separato della sua persona in modo brusco e
crudele senza permetterci un ultimo abbraccio, un ringraziamento per la generosità, per la disponibilità, per l’amicizia
che ha sempre elargito a tutti in modo genuino.
Ricorderemo la cara Iolanda come l’amica con la quale ci si
poteva consigliare, si poteva ridere e scherzare soprattutto
quando indossava i suoi originali, buffi cappellini che sapeva
scegliere accuratamente per ogni occasione.
Ciao cara, vecchia, simpatica “brontolona”.
Lino Marescotti
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cronache
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