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La legge dell`obbedienza dovuta

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La legge dell`obbedienza dovuta
ANDREA GILARDONI
LA STORIA ATTRAVERSO I DOCUMENTI
ARGENTINA – L’OBBEDIENZA DOVUTA?
La Legge 23.521, detta de la obediencia debida (obbedienza dovuta) – venne approvata il 4/6/87, promulgata
l’8/6/87, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale il 9/6/87. Erano passati ormai quasi trent’anni da quando nel 1976 i militari
argentini assunsero formalmente il potere. La mattina del 24 marzo nessuno se ne sorprese. Per le strade non c’erano
carri armati, non ci furono scontri o morti (a differenza di quanto era avvenuto pochi anni prima in Cile), le armi non
vennero sfoderate né la forza ostentata. Ma cosa avvenne? I militari, prima di occupare il palazzo, avevano acquisito un
monolitico «potere di persuasione» (C. Tognonato, in Verbitsky 20012: 11): «Un potere in cui non occorreva alzare la
voce per essere assecondati, anzi, non era necessario nemmeno parlare perché si sarebbe stati obbediti prima ancora di
comandare, una costrizione nata nel terrore».
Se in Argentina non ci sono mai stati gli stadi pieni di prigionieri politici come nel vicino Cile è perché la lezione di
Pinochet era servita. Occorreva evitare la condanna internazionale, dare un’immagine di moderazione e legalità, ma il
fine era lo stesso, come del resto affermava il generale Iberico Saint-Jean, governatore della provincia di Buenos Aires:
«Prima uccideremo tutti i sovversivi; poi uccideremo i loro collaboratori; poi i loro simpatizzanti; poi chi rimarrà
indifferente, e infine uccideremo gli indecisi» (ibid.).
Dopo l’attentato che aveva ucciso il capo della polizia, il 6 novembre 1974 il governo fu costretto a decretare lo
stato di assedio, e la conseguente sospensione di tutte le garanzie costituzionali. Il 6 febbraio 1975 i militari
intervennero nella regione settentrionale di Tucumán, a fine luglio tolsero di mezzo il ministro López Rega, del governo
di Isabel Perón. A metà agosto venne mandato in pensione il comandante dell’esercito, troppo moderato, sostituito con
il generale Videla. Il 6 settembre venne formato il Consiglio interno di sicurezza per tutto ciò che concerneva la lotta
antisovversiva, il cui comando venne assegnato all’esercito il 18 novembre.
Si finse l’esistenza di due strategie concernenti il golpe (considerato inevitabile e mai messo in discussione): una
estrema e una moderata (che avrebbe ristabilito l’ordine repubblicano). Esisteva già un gruppo paramilitare, la triplice A
(Alleanza Anticomunista Argentina), creata sul modello degli squadroni della morte (che usavano spesso auto senza
targa, e condividevano metodi e personale con l’esercito), con il compito dell’eliminazione degli oppositori (deputati,
preti, sindacalisti, giornalisti, operai, studenti).
Il 24 marzo il potere passò ai militari senza alcun incidente, le attività dei partiti politici e dei sindacati
«temporaneamente» sospese, ma lentamente gli oppositori vennero fatti scomparire, sequestrati da gruppi non
identificati e caricati su vetture prive di targa. I sequestri divennero sempre più frequenti, coordinati da una struttura
centrale, le operazioni venivano compiute sul luogo di lavoro, per strada, in pieno giorno, mentre la polizia garantiva
una «zona franca» nei dintorni (le volanti, sempre presenti, dopo il colpo di stato, non videro mai niente). Il commando
occupava la zona, entrava nelle case, terrorizzava e imbavagliava i bambini costringendoli a essere presenti: la vittima
veniva catturata, imbavagliata, colpita, incappucciata e trascinata fino alle macchine.
In alcuni casi erano presenti dei camion, per rubare tutto il rubabile. Ciò che non si poteva portare via era distrutto, la
famiglia minacciata e picchiata. Anche se veniva dato l’allarme, la polizia non interveniva mai. La popolazione
comprese ben presto l’inutilità della denuncia, e si abituò a vivere nel terrore. Nessuno aveva visto nulla, come di
consueto.
Migliaia di persone appartenevano a una nuova categoria di esseri umani: i desaparecidos. La polizia non li aveva
visti, il governo non capiva, la chiesa non si pronunciava, le carceri non registravano la loro detenzione, i magistrati non
intervenivano (ivi, p. 14). I desaparecidoso erano diventati non-persone: senza diritti, senza esistenza, senza prigionia,
anche se rinchiusa in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi di tortura. Anche le famiglie tacevano,
terrorizzate dalle minacce, ricattate, o nella speranza che il silenzio avrebbe contribuito al rilascio dei loro cari.
Come di consueto, ancora una volta, la tortura serviva a estorcere confessioni e denuncie illusorie, e allargava a
macchia d’olio la rete delle persone coinvolte (cioè sospette e per ciò stesso colpevoli).
Dove finivano i prigionieri? Morti sotto tortura, fucilati, venivano gettati in mezzo all’oceano, o sepolti in fosse
comuni, cremati (nel principale cimitero di Buenos Aires si passa dai 13.120 del 1974 ai 20.500 del 1976 e ai 32.683
del 1977 per ridiscendere a 21.381 nel 1980), o buttati in fondo al mare con un blocco di cemento ai piedi.
Non ci fu alcuna condanna a morte, benché nel Paese esistesse la pena di morte. Dove erano i desaparecidos? Il
governo di Raúl Alfonsín tentò di indagare sulla sorte degli scomparsi, ma non trovò nulla. Tutto era svanito:
prigionieri, cadaveri, stanze di tortura, documentazione, materiale sequestrato.
I membri delle tre giunte militari coinvolte vennero comunque indagati e si procedette al rinvio a giudizio presso il
consiglio superiore delle forze armate per omicidio, privazione illegittima della libertà, tortura. Dopo la sentenza
militare ci si sarebbe potuti appellare ai tribunali civili (il progetto originario era di limitarsi al tribunale militare). Dopo
mesi di attesa i tribunali militari non si pronunciarono (era chiaro che non avrebbero pronunciato alcuna condanna).
Si passò ai tribunali civili. La condanna del 1985 fu piuttosto mite (ergastolo per il generale Videla e l’ammiraglio
Massera; 17 anni per il generale Viola, 8 anni per l’ammiraglio lambruschini; 4 anni e 6 mesi per il brigadiere agosti; gli
altri membri prosciolti), ma essa apriva nuove indagini e consigliava il rinvio a giudizio dei militari intermedi. Si
aprivano più di 1500 processi per violazione dei diritti umani.
Alfonsín fermò il processo d’incriminazione e sancì nel 1986 la «Legge del punto finale» (ivi, p. 16) per «pacificare»
il paese, fissando un termine di 60 giorni oltre il quale non sarebbero state più ammesse denunce per violazione dei
diritti umani. Tre mesi dopo la scadenza dei sessanta giorni venne emanata la «Legge sulla obbedienza dovuta», che
assolse tutti per i crimini già documentati e giudicati, lasciando i colpevoli in libertà, e sostenendo che, al di fuori dei
mandanti, i quadri intermedi (non avendo potere decisionale) avevano agito in stato di costrizione. Carlos Menem,
infine, nell’ottobre del 1989, dopo tre mesi di governo, sancì l’indulto per 216 militari e civili coinvolti negli omicidi e
64 persone legate alla sovversione. Videla e Massera godranno di un nuovo indulto il 28 dicembre 1990, dopo soli
cinque anni di prigionia.
Solo in anni recenti il nuovo presidente argentino, Kirchner, il Parlamento e la Corte costituzionale argentina
riusciranno a cancellare la legge, e faranno ripartire i processi (e le condanne) per un crimine contro l’umanità,
attualmente ritenuto, secondo il diritto internazionale, imprescrittibile.
Il testo (tratto da Giglioli 2001): 37della «Legge sulla obbedienza dovuta» (abrogata solo nel 2004) è particolarmente
interessante: è un sintomo psicologico, oltre che una vergogna giuridica – è, dal punto di vista classico della divisione
dei poteri, un’intrusione del legislativo (che nel caso della dittatura coincide con l’esecutivo) nell’ambito del
giudiziario) – perché trasforma in legge quella che abbiamo visto essere una delle giustificazioni classiche dei carnefici
(e qui ce n’erano tanti, appartenenti a diverse categorie, elencate nell’art. 1, primo comma). Le altre norme (e gli altri
articoli) servono a rendere inutili altre leggi e a rendere praticamente impossibile la conclusione di un processo contro
un carnefice.
Art. 1 – Si presume senza ammettere prove in contrario, che coloro che alla data della commissione del fatto rivestivano la
carica di ufficiali capo, ufficiali subalterni, sotto ufficiali e personale di truppa delle forze armate, di sicurezza, di polizia e
penitenziari, non sono punibili per i delitti di cui all’art. 10, punto 1 della legge 23.049, per aver operato in virtù di «obbedienza
dovuta».
La stessa presunzione sarà applicata agli ufficiali superiori che al momento non rivestivano la carica di comandante in capo,
capo di zona, capo di sub zona o capo delle forze di sicurezza, di polizia o penitenziaria, se non viene giudizialmente risolto entro
i 30 giorni di promulgazione di questa legge, che hanno avuto poteri decisionali o hanno partecipato all’elaborazione degli ordini.
In questi casi si considererà di diritto che le persone prima menzionate hanno agito in stato di coercizione in subordinazione
all’autorità superiore ed eseguendo ordini, senza facoltà o possibilità di ispezione, opposizione o resistenza ad essi circa la loro
opportunità e legittimità.
Art. 2 – La presunzione stabilita nell’articolo precedente non sarà applicabile nei casi di delitti di violazione, sottrazione ed
occultamento di minori o nel caso di sostituzione dello stato civile e del sequestro di beni immobili.
Art. 3 – La presente legge verrà applicata d’ufficio. Entro i cinque (5) giorni dalla sua entrata in vigore, in tutte le cause
pendenti, qualunque sia il suo stato processuale, il tribunale dinanzi al quale saranno esaminate senza ulteriori procedure
emetterà, rispetto al personale compreso nell’art. 1, paragrafo 1, il provvedimento al quale fa riferimento l’art. 252 bis del Codice
di Giustizia Militare, o decadrà la citazione a prestare dichiarazione, secondo il caso.
Il silenzio del tribunale durante il tempo indicato, o durante quello previsto nel secondo paragrafo dell’art. 1 produrrà gli
effetti contemplati nel paragrafo precedente con il grado di cosa giudicata.
Se nella causa non fosse stato accreditato il grado o la funzione che possedeva alla data dei fatti la persona chiamata a rendere
dichiarazioni, il termine di tempo trascorrerà dalla presentazione del certificato o rapporto trasmesso dall’autorità competente che
lo accrediti.
Art. 4 – Senza pregiudizio da quanto disposto dalla legge 23.492, nelle cause rispetto alle quali non fosse trascorso il termine
di tempo previsto dall’art. 1 della stessa, non potrò essere disposta la citazione a prestare dichiarazioni indagatrici delle persone
menzionate nell’art. 1, paragrafo 1 della presente legge.
Art. 5 – Contro le decisioni riguardanti l’applicazione di questa legge, si procederà con un ricorso straordinario dinanzi alla
Corte Suprema di Giustizia della Nazione, detto ricorso potrà essere inoltrato entro i cinque (5) giorni dalla sua notificazione. Se
la decisione fosse tacita, il termine di tempo trascorrerà dal momento in cui si ritenesse pronunciata ai sensi di quanto disposto in
questa legge.
Art. 6 – Non sarà applicabile l’art. 11 della legge 23.049 al personale compreso nell’art. 1 della presente legge
TESTI CITATI
MIGLIOLI G., c/di, Desaparecidos. La sentenza italiana contro i militari argentini, Roma 2001.
VERBITSKY H, Il volo. Le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Milano20012.
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