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Tipico italiano

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Tipico italiano
a cura di Stefano Bonilli
Una collana pensata per tutti coloro che amano
la cucina ma non ne sono esperti.
In ogni volume la cucina contemporanea viene
proposta con 35 ricette e 140 foto.
Tutte le ricette sono descritte dettagliatamente,
con la foto di ogni piatto, la storia, gli ingredienti,
gli strumenti di cucina, i consigli e i trucchi.
Autori
Annalisa Barbagli e Stefania Barzini
Acquista i volumi della collana su www.giuntistore.it utilizzando i codici promozionali:
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Promozione valida fino al 31/7/2013
a cura di Stefano Bonilli
Le ricette del DVD sono state girate
presso Tricolore - Via Urbana 126, Roma
Tipico
italiano
Annalisa Barbagli e Stefania Barzini
CUCINARE INSIEME
Collana a cura di Stefano Bonilli
Tipico italiano
Progetto editoriale e contenuti di FADO S.r.l.
testi e ricette: Annalisa Barbagli e Stefania Barzini
in cucina: Annalisa Barbagli e Gaia Giordano
food stylist: Federica Mensurati
foto: Paolo della Corte - Foodrepublic
progetto grafico e impaginazione: Fabio Cremonesi
dvd: Daniele Martelli
www.giunti.it
© 2010 Giunti Editore S.p.A.
Via Bolognese 165 - 50139 Firenze - Italia
Via Dante 4 - 20121 Milano - Italia
ISBN 9788809765436
Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl
Prima edizione digitale 2010
sommario
introduzione 6
il nord-ovest 8
il nord-est 38
il centro 76
il sud 106
le isole 140
indice 158
*
nel testo delle ricette l’asterisco
indica un approfondimento nelle due pagine seguenti
introduzione
Solo gli stranieri possono parlare genericamente di cucina italiana,
identificando noi italiani con una pizza o un piatto di spaghetti.
Noi, che in Italia siamo nati e ci viviamo, sappiamo bene che le
cucine italiane sono tante e molto diverse una dall’altra, perché
l’Italia non è molto vasta ma è molto lunga, dal Friuli alla Sicilia
circa 1.500 chilometri, e questa lunghezza fa sì che ci siano una
grande varietà di climi e quindi di colture e prodotti, con la
conseguenza di cucine molto diverse fra loro. Il libro vuole
puntare proprio su questa ricchezza valorizzando quei piatti forse
meno conosciuti, ma legati al territorio e alla tradizione.
Qualcuno si è preso la briga di fare un po’ di conti e pare
che le ricette della cucina tradizionale italiana siano più
di settantamila, senza tener conto delle tante varianti familiari
di ogni pietanza e le ricette del libro, considerando il numero
di pagine, sono soltanto degli esempi, quasi dei simboli.
Vorremmo aggiungere una notazione. Nel libro si parla di ricette
tradizionali e familiari, ognuna delle quali è suscettibile
di una miriade di varianti e, anche se raccontate in maniera
semplice e discorsiva, è purtroppo vero che il fatto di codificarle
dando tempi, pesi e misure faccia perdere in parte il senso
dei piatti del territorio, nati quasi sempre dalla necessità
di utilizzare al meglio quello che cresce vicino a casa.
7
il nord-ovest
fonduta - VALLE D’AOSTA
risotto al barbera - PIEMONTE
tonno di coniglio - PIEMONTE
lattughe in brodo - LIGURIA
sciumette - LIGURIA
messicani - LOMBARDIA
riso alla pilota - LOMBARDIA
il nord-ovest - VALLE D’AOSTA
(1) fonduta
Dopo avere eliminato la crosta, taglio la Fontina a fettine sottilissime, la raccolgo in una terrina e unisco il latte necessario per coprirla a filo. Copro la terrina e lascio riposare per 4 o 5 ore o per
tutta la notte.
Prima di tutto preparo i tuorli tenendoli pronti dentro il mezzo guscio. Faccio fondere il burro in una casseruola a fondo pesante
e arrotondato, e aggiungo la Fontina sgocciolata e 3 o 4 cucchiai
del latte (l’aggiunta di mezzo cucchiaio di farina è poco ortodossa ma faciliterà il lavoro a chi è meno esperto). Sistemo la casseruola in un bagnomaria caldo e comincio a mescolare con una frustina, mantenendo l’acqua del bagnomaria a un’ebollizione appena accennata.
Mescolo continuamente e, quando la Fontina è completamente fusa
e diventata una massa filante, unisco il primo tuorlo mescolando
energicamente fino a quando è completamente incorporato, poi
unisco nello stesso modo, uno alla volta, gli altri tuorli. A questo
punto la fonduta è pronta: non è più una massa filante ma una
crema liscia e omogenea.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
350 g di Fontina valdostana
un bicchiere circa di latte
4 tuorli d’uovo freschissimi
(a temperatura ambiente)
30 g di burro
pepe bianco
Per accompagnare
dadi di pane casereccio tostato
10
La ritiro dal fuoco e la insaporisco con una macinata di pepe bianco. La servo subito caldissima, in tegamini individuali o in unico
tegame posto al centro della tavola, accompagnandola con il pane tostato. È ottima anche per condire gli gnocchi o la polenta, e
per arricchire uno sformato di spinaci o di cardi.
il nord-ovest - VALLE D’AOSTA
la valdostana
Chiariamoci subito: di fondute ce ne sono tante, ma la valdostana è una sola.
Anche se questa preparazione a base di formaggio è comune anche al Piemonte,
alla Savoia, alla Svizzera. Ma quando si dice fonduta valdostana, a differenza
delle altre, si dice Fontina. L’origine di questo piatto è però abbastanza oscura,
Anthelme Brillat-Savarin sostiene che sia stato inventato a Ginevra e comunque
in Svizzera e c’è chi azzarda una nascita piemontese con lo zampino della famiglia
Cavour. Quello che è certo è che si tratta di un piatto piuttosto sostanzioso
da consumare nelle fredde giornate invernali. E, come ogni piatto che si rispetti,
anche la fonduta ha i suoi segreti: perché sia buona non deve aggrumarsi,
deve restare morbida e liscia, non bisogna perciò mai superare i 60 gradi di calore
e mai smettere di mescolare.
dicono di lei
Coprire di latte
le fettine di Fontina
e far riposare
per almeno 4-5 ore.
il caquelon
Tutti noi conosciamo il tipico tegame da fonduta, ma pochi
ne sanno il nome. Si tratta del caquelon, un padellino in terra cotta,
porcellana o ghisa con un fondo di un certo spessore, di modo
che, quando fonde, il formaggio non bruci. Il caquelon lo mettiamo
su una sorta di fornelletto, il rechaud, alla base del quale c’è una
fonte di calore, che di volta in volta può essere una candela
o un fornelletto ad alcol. Grazie a questo calore basso, la fonduta,
che si serve direttamente a tavola nel caquelon, mantiene la giusta
temperatura durante tutto il pasto. Una tecnica molto diffusa
è quella di “ungere” il caquelon con dell’aglio prima di metterci
gli ingredienti, per esaltarne il gusto. A volte si preferisce ricoprire
il fondo di pezzetti di aglio tagliato.
12
“...Gli organi della lingua, per cui
gustiamo i sapori, non sono
d’una maniera in tutti gli uomini
e in tutti i climi, e s’alternano
sovente o per mutazione d’età
o per infermità o per altra
più possente cagione... Io,
per esempio non sono
del parere di Brillat-Savarin
che nella sua Physiologie
du goût fa gran caso della
fondue (cacimperio) e ne dà
la seguente ricetta: ‘Pesate,
egli dice, le uova e prendete
un terzo del loro peso
di burro, sale ben poco
e pepe a buona misura’.
Io, in opposizione a Savarin,
di questo piatto fo poco conto,
sembrandomi non possa
servire che come principio
in una colazione o per ripiego
quando manca di meglio.”
Da La scienza in cucina
e l’arte di mangiar bene
di Pellegrino Artusi
(1)
fonduta
la fontina
I pascoli alpini, valore paesaggistico a parte, sono una vera ricchezza per la Val d’Aosta: in
estate sono infatti sfruttati per l’alpeggio delle vacche di varie razze locali, specialmente la
valdostana pezzata rossa e la pezzata nera, che producono il latte necessario
alla fabbricazione dei celebri formaggi locali. Gli alpeggi si svolgono tradizionalmente
fra la festa di San Bernardo (15 giugno) e quella di San Michele (29 settembre),
quando le vacche riscendono a valle e si celebra la Dèsarpa, festa dedicata a questi animali.
Il formaggio più celebre è di certo la Fontina DOP, prodotto in queste valli da secoli:
infatti viene già descritto in documenti del XV secolo, anche se il nome appare solo
nel XVIII. Il latte, che proviene da un’unica mungitura, dà origine a un formaggio grasso,
a pasta semicotta tendente al giallo, in forme tonde di circa 9 kg, salate a secco
e stagionate per almeno tre mesi.
Fontina DOP della Valle d’Aosta
torcetti valdostani
Sbriciolo 6-7 g di lievito di birra fresco in una ciotolina e lo diluisco con 80 g di acqua appena
tiepida. Setaccio 250 g di farina 00 nella ciotola dell’impastatrice, la allargo un po’ al centro
e ci verso il lievito diluito e un cucchiaino di zucchero. Monto il gancio, avvio l’impastatrice
e la faccio andare per 5 minuti, fino a quando la pasta si stacca dalle pareti raccogliendosi attorno
al gancio. Formo una palla e rimetto la pasta nella stessa ciotola. Copro con un panno umido
piegato in quattro e la faccio lievitare in luogo tiepido fino al raddoppio (un’ora e mezzo circa).
A questo punto avvio di nuovo l’impastatrice, aggiungo una presa di sale e, un po’ alla volta,
100 g di burro morbido a pezzetti. Quando la pasta è bella omogenea, la raccolgo a palla
e la faccio lievitare di nuovo per un’ora. Quando è pronta, la rovescio sul tavolo infarinato e verso
100 g di zucchero in un piatto. Rotolando un pezzo di pasta alla volta sul tavolo, formo dei rotolini
sottili come una matita. Li taglio a pezzi di 15 cm e li passo nello zucchero rivestendoli
completamente, poi sovrappongo le estremità e premo leggermente ottenendo degli anelli
a goccia.Via via che sono pronti, li sistemo su una placca rivestita di cartaforno e alla fine li passo
nel forno a 200° per poco più di 15 minuti, fino a doratura. Raffreddo i torcetti su una griglia
e li conservo in una scatola di latta.
13
il nord-ovest - PIEMONTE
(2) risotto
al barbera
Spello la cipolla, la taglio prima in quattro spicchi e poi a fettine sottilissime. Preparo un trito finissimo con 2 foglie di salvia e un pizzico di aghi di rosmarino. Scaldo l’olio con la metà del burro in
una casseruola larga e a fondo pesante, e faccio appassire molto
dolcemente la cipolla con il trito di salvia e rosmarino e la foglia
di alloro. Scaldo il vino senza farlo bollire.
Quando il soffritto è pronto, bagno con la metà del vino, rialzo la
fiamma e appena il vino è completamente sfumato e asciugato, unisco il riso e lo faccio tostare, mescolando di continuo. Quando il
riso comincia a sfrigolare, unisco il resto del vino, la passata di
pomodoro e un mestolo di brodo bollente.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
400 g di riso S. Andrea
o Carnaroli
2 bicchieri di vino Barbera
un litro abbondante
di brodo di carne (manzo)
60 g circa di burro
un cucchiaio d’olio extravergine
d’oliva
2-3 cucchiai di passata
di pomodoro casalinga
una grossa cipolla chiara
una foglia di alloro
salvia
rosmarino
noce moscata
Parmigiano grattugiato
pepe di mulinello
14
Faccio cuocere il risotto a fuoco vivace unendo via via altro brodo e
facendo in modo che, a fine cottura e con il riso ben al dente, rimanga molto morbido. Lo manteco con il resto del burro e due
manciate di Parmigiano e unisco anche una grattatina leggera di
noce moscata, un soupçon come dicono i francesi (se voglio caratterizzarne maggiormente il sapore, durante la mantecatura aggiungo anche 2 o 3 cucchiai di vino caldo). Lo servo caldissimo passando a parte il macinino del pepe.
È un risotto dal gusto e dal profumo intensi, al quale mal si adatta
il diminutivo (risottino) spesso usato per questa preparazione.
il nord-ovest - PIEMONTE
la barbera
Macinapepe
la canzone
Chi non ricorda Giorgio Gaber
che affoga pene e dolori di un cuore
infranto in più bicchieri di Barbera?
“Triste col suo bicchiere di barbera
senza l’amore a un tavolo di un bar,
il suo vicino è in abito da sera
triste col suo bicchiere di champagne.
Son passate già quasi tre ore
venga! Che uniamo i tavoli signor,
voglio cantare e dimenticare
coi nostri vini il nostro triste amor.
Barbera e champagne, stasera beviam
per colpa del mio amor, pa ra pa pa
per colpa del tuo amor, pa ra pa pa.
Ai nostri dolor insieme brindiam
col tuo bicchiere di barbera
col mio bicchiere di champagne”.
Da Barbera e Champagne
di Giorgio Gaber
16
La Barbera, e non il Barbera, perché non dimenticatelo, questo
vino è femmina. Se ascoltiamo chi di Barbera ne parla
e ne beve, quello che ci racconta è che in lei si sente il fruttino,
la ciliegia, il lampone, la viola, il pepe. Quali che siano
le sue note, di certo è un vino aspro e brusco che ben racconta
la sua terra, il Piemonte. Il suo nome verrebbe dal vocabolo
medievale bàrberus, cioè irruente, aggressivo, indomito.
È vino poi di sorti alterne, amato e bistrattato e poi tornato
nuovamente in auge. La fortuna di questo vino ha un nome,
quello del marchese Filippo Asinari di San Marzano, un nobile
astigiano del Settecento, appassionato produttore di vini nei
suoi feudi di Costigliole e San Marzano. A quei tempi i vini
astigiani erano assai criticati perché creduti difficili
da conservare e perciò da invecchiare e da trasportare.
Il nostro eroe ebbe allora un’intuizione geniale e organizzò
una spedizione dei suoi vini a Rio de Janeiro, due botti
di Nebbiolo e due di Barbera di Costigliole e San Marzano.
Il vino giunse a Rio in ottimo stato, soprattutto la Barbera.
E questo grazie alla grande qualità e alle tecniche moderne
importate dalla Francia. Finalmente i piemontesi si resero
conto delle qualità dei loro vini e nel corso dell’Ottocento
la fama della Barbera crebbe fino a raggiungere quella
degli altri vini nobili del Piemonte.
Riso Carnaroli
(2)
risotto al barbera
barbera doc
Noce moscata
dicono di lei
“È uno dei pochi vini di sesso
femminile..., ma se è femmina
è una virago da mettere fuori
combattimento la gioventù tenerella
e delicatina che usa oggi. L’ho già
definito il fante dei vini piemontesi,
pistapauta e scaccianebbie, burbero
tutto vino, nel colore scuro,
nelle macchie che fa sulla tovaglia,
nell’afrore che dà al fiato,
nel profumo forte.”
Da un articolo di Paolo Monelli giornalista e scrittore italiano
Perché si tratti di vera Barbera, deve avere una zona
d’origine ben precisa:
la Barbera d’Alba è prodotta nelle colline di Alba,
la sua resa massima di uva è di 100 quintali per ettaro;
la Barbera d’Asti si coltiva in 118 comuni della provincia
di Asti e in 50 di quella di Alessandria, dove
la produzione di uva non deve superare i 90 quintali
per ettaro;
la Barbera del Monferrato arriva dall’Alto e Basso
Monferrato; anche qui siamo in collina, con una
produzione di uva di 100 quintali per ettaro;
i Colli tortonesi Barbera è prodotto con uva che viene
dalle colline di Tortona, con una produzione che non
supera i 100 quintali per ettaro.
“Generosa Barbera
bevendola ci pare
d’essere soli in mare
sfidanti una bufera”
Giosuè Carducci
“La Barbera è un tipo di vino
maschio, benché il suo nome sia
di genere femminile e nessuna
barba di grammatico abbia il diritto
di farlo maschile dicendo il Barbera,
come dicono parecchi a torto.”
Da un discorso di Umberto
Colosso - uomo politico
e parlamentare monferrino
17
il nord-ovest - PIEMONTE
(3) tonno
di coniglio
Raccolgo 2 litri d’acqua in una casseruola con il vino, un cucchiaino di grani di pepe, i chiodi di garofano, le foglie di alloro, un
rametto di rosmarino e uno di timo. Mondo sedano, carota e cipolla, li affetto grossolanamente e li metto nella casseruola insieme a qualche gambo di prezzemolo, un ciuffo di basilico e 2 spicchi d’aglio. Aggiungo una manciatina di sale, metto il coperchio
e faccio alzare l’ebollizione, poi abbasso la fiamma e faccio bollire dolcemente per una mezz’ora ottenendo un brodo vegetale
molto profumato.
INGREDIENTI PER
6-8
PERSONE
un giovane coniglio pronto
per la cottura di circa 1,2 kg
un bicchiere di vino bianco
2 coste di sedano
una cipolla
una carota
2 foglie di alloro
2 teste d’aglio
prezzemolo
basilico
timo
rosmarino
salvia (abbondante)
2 chiodi di garofano
pepe in grani
olio extravergine d’oliva
sale e pepe
18
Lavo il coniglio, lo tuffo nel brodo in ebollizione e lo faccio cuocere a fuoco dolce per circa un’ora e mezzo, fino a che la carne comincia e staccarsi dalle ossa. Lo scolo e, quando è quasi freddo,
lo disosso con le mani per ottenere dei pezzi di carne più o meno regolari. Li spolvero di sale e pepe e li lascio raffreddare completamente.
Lavo e asciugo una manciata di foglie di salvia e spello gli spicchi
d’aglio rimasti. Accomodo la carne di coniglio a strati in un contenitore di vetro munito di coperchio, disponendo su ogni strato 3 o 4 spicchi d’aglio e altrettanta salvia . Nel comporre gli
strati, cerco di non lasciare spazi vuoti e, una volta esauriti gli ingredienti, verso su tutto l’olio che sopravanzi di un cm. Metto il
coperchio e, prima di consumarla, tengo la preparazione in frigo
per un paio di giorni in modo che la carne assorba parte dell’olio
profumato di aglio e salvia.
*
Servo il tonno di coniglio come antipasto o come secondo piatto estivo, accompagnandolo con un’insalata di patate condita con un poco dell’olio del coniglio.
il nord-ovest - PIEMONTE
la storia
Ma perché tonno se di coniglio invece
si parla? Perché questa ricetta, tipica
piemontese, le cui origini vanno cercate
nel Monferrato e nell’Alta Val Tanaro,
ha una preparazione che somiglia molto
a quella del tonno sott’olio, infatti,
dopo aver fatto bollire il coniglio,
lo si conserva in vetro con olio e aromi.
È un piatto povero, di origine contadina,
e a volte al coniglio si sostituiva
la gallina. A dir la verità si narra anche
di origini più prosaiche, si racconta cioè
che nell’Ottocento, quando la regola
del digiuno quaresimale era molto rigida,
i frati di un convento di Avigliana
preparassero così i conigli, nel tentativo
di nasconderne la vera natura di carne
e aggirare il divieto. I tonni, si sa, vanno
bene anche in Quaresima!
Quando è freddo, disossare il coniglio con le mani
20
Coniglio lavato, pronto per la cottura
il coniglio
Il coniglio è un animale che curiosamente
suscita spesso sentimenti contrastanti.
La Bibbia considerava la sua carne
impura, e ancora oggi ebrei e musulmani
la pensano così. Diversa la sorte di questa
bestiolina ai tempi dei Romani, che ne
andavano ghiotti, soprattutto
di quelli appena nati con cui preparavano
un piatto dei giorni di festa, il Laurices.
Apicio ci ha lasciato più di dieci ricette
per il consumo di conigli e lepri.
I conigli degli Antichi erano però
di razza selvatica, cacciati e poi allevati
in fosse e recinti.
Il coniglio domestico infatti ha storia
recente, basti pensare che il primo
mattatoio italiano per conigli fu aperto
solo nel 1874, non a caso a Torino.
Da sfatare poi la credenza che lepri e
conigli siano razze amiche, addirittura
fraterne: tra queste due famiglie infatti
esiste una vera incompatibilità, tanto che
se i conigli selvatici sconfinano in zona di
lepri, le cacciano tutte.
(3)
tonno di coniglio
il grigio di carmagnola
Se vogliamo fare un vero, tradizionale tonno
di coniglio, allora facciamo uno sforzo
e procuriamoci quello grigio di Carmagnola.
È questo un coniglio dal pelo grigio,
che ha ossa molto fini e carne soda, saporita
e non stoppacciosa come spesso accade
ai conigli d’allevamento. Si tratta di razza
piemontese assai comune e diffusa fino
a metà del secolo scorso e poi completamente
scomparsa. Dal 1982 si è iniziato a parlare
di recupero, tanto che a Carmagnola
la Facoltà di Agraria dell’Università di Torino
ha messo in piedi un allevamento per ricreare
la razza. E speriamo che ci riesca, perché
un piatto antico, e un tempo immancabile in
ogni trattoria del Piemonte, come il coniglio
con i peperoni fatto con le carni del Grigio
di Carmagnola, era di quelli che una volta
assaggiati non si dimenticavano più!
*
Il coniglio condito con aglio, salvia e olio deve
attendere 2 giorni in frigorifero prima di essere consumato
l’uomo che sussurrava ai conigli
C’è forse chi si ricorda del film L’uomo che sussurrava
ai cavalli, tratto da un fortunato romanzo di Nicholas
Evans, ma saremmo pronte a giurare che nessuno
sappia che c’è anche chi sussurra ai conigli. Parliamo
di Mr. Cliff Penrose, un distinto signore inglese che,
nella natia Cornovaglia, ipnotizza questi piccoli
roditori. Cliff di conigli se ne intende, ne ha infatti
una cinquantina, compreso Sonny, un gigante
di circa 10 chili. Si è scoperto ipnotista in tarda età,
dopo una malattia che lo ha costretto a ritirarsi
dal lavoro e da allora ha imparato a addormentare
queste morbide bestiole. Ma come?
È lo stesso Cliff a raccontarlo: “La prima cosa
da fare è cominciare ad accarezzarlo, per mantenere
un contatto costante con l’animale. Io riesco a capire
quando il coniglio è completamente rilassato
dalla presenza o meno di vibrazioni nel suo corpo.
A quel punto, bisogna mettere la mano destra sotto
al corpo e la sinistra sulla schiena e portarlo fino
al petto, facendogli un piccolo massaggio: così
il coniglio è totalmente rilassato e chiude
le palpebre”. Naturalmente Mr. Penrose si è messo
a disposizione dei veterinari della zona.
Che sembrano apprezzare.
21
il nord-ovest - LIGURIA
(4) lattughe
in brodo
Metto ad ammollare i funghi in acqua tiepida. Preparo cervello e animelle e li taglio a pezzi. Trito finissima la cipolla e la faccio appassire a fuoco dolcissimo in una piccola padella con olio e burro. Quando la cipolla è trasparente, unisco la polpa di vitello, tagliata a bocconcini piccoli, e le foglie di alloro. Rialzo un po’ la
fiamma e, dopo 10 minuti, quando la carne è pressoché cotta, unisco anche il cervello e le animelle, insaporisco con sale e pepe e
proseguo la cottura per 2 minuti.
*
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
un litro e mezzo circa di ottimo
brodo di carne
2 cespi grandi
di lattuga cappuccina
200 g di polpa di vitello
100 g di animelle di vitello (noce)
la metà di un cervello di vitello
(150 g circa)
oppure un cervello di agnello
15 g di funghi porcini secchi
100 g di Parmigiano grattugiato
un uovo e un tuorlo
20 g di burro
un cucchiaio d’olio extravergine
d’oliva
1/2 cipolla piccola
uno spicchio d’aglio piccolo
2 foglie di alloro
maggiorana (fresca o secca)
prezzemolo
noce moscata
sale e pepe
22
Passo le carni al mixer e le raccolgo in una terrina con i funghi, ben
strizzati e tritati a coltello, lo spicchio d’aglio grattugiato, il Parmigiano, l’uovo e il tuorlo, poco prezzemolo tritato, una presa di
maggiorana e una grattata di noce moscata. Amalgamo bene e assaggio per regolare il sale.
Sfoglio le lattughe eliminando le foglie più esterne e le lavo più volte, poi scelgo una ventina fra le foglie più grandi e le scotto, per
un minuto appena e in acqua in leggera ebollizione (si dovranno
solo ammorbidire), le tiro su con la schiumarola e le allargo delicatamente su un panno, facendo attenzione a non romperle.
Metto al centro di ogni foglia una piccola porzione di ripieno, calcolando di servire 4 foglie a persona, e le chiudo attorno all’impasto in modo che non rimangano aperture (se sono in vena di
perfezione, pennello le chiusure con un albume poco battuto), poi
chiudo i fagottini con del filo bianco, con una legatura a croce .
*
Scaldo il brodo in un tegame basso e, quando inizia l’ebollizione, ci
adagio i fagottini e li faccio cuocere a fuoco dolce per circa un
quarto d’ora. Al momento di servire le lattughe, elimino il filo e
le distribuisco nei piatti, coprendole di brodo bollente. Tanto lavoro, ma anche un piatto davvero buono e bello.
il nord-ovest - LIGURIA
* cervello e animelle di vitello
la lattuga
Così comune sulle nostre tavole che quasi
non ci facciamo più caso. E invece la lattuga
ha segreti e tesori nascosti. Il suo nome viene
dal latino lactuca – da lac lactis, latte –, perché
dalle sue foglie proviene un succo un po’
lattiginoso. È una pianta già apprezzata
e conosciuta dagli Antichi, che consideravano
le sue foglie calmanti, rinfrescanti e stimolanti
l’appetito. Questa pianta ha diverse varietà.
La lattuga gentile o foglia di quercia, è a forma tonda
con grandi foglie arricciate, che rimangono
sempre aperte.
La lattuga cappuccio, anch’essa tondeggiante,
con le foglie sovrapposte a formare il tipico
cappuccio, è quella che troviamo in grandi
quantità nei mercati del Nord Italia.
La lattuga brasiliana o Iceberg sembra una grossa
palla e ha foglie particolarmente croccanti.
La lattuga romana, di un bel colore verde intenso,
è quella più consumata nel Sud Italia.
La lattuga batavia, dalle foglie verdi o rosse,
a forma d’uovo, ha il primato di lattuga
più consumata al mondo.
La lattuga lollo è una lattuga ricciarella apprezzata
soprattutto in Germania e nei Paesi nordici.
24
1 Prima di essere cucinato in qualunque modo,
il cervello ha bisogno di un trattamento particolare.
Occorre quindi tenerlo per un’oretta a bagno sotto
un filo di acqua corrente e a questo punto sarà facile
rimuovere le venuzze e la pellicina che lo riveste:
per toglierla perfettamente basterà afferrarla con le dita
e tirare delicatamente. Infine lo si immerge in acqua
in ebollizione, salata e acidulata con un cucchiaio
di aceto. Dovrà cuocere in leggerissima ebollizione per
7-8 minuti (se di agnello soltanto 2-3 minuti).
Una volta scolato è pronto per successive preparazioni,
anche per la classica frittura.
2 Anche le animelle hanno bisogno di un trattamento
preliminare.Tenerle dunque a bagno per un po’ sotto
un filo d’acqua, meglio se per qualche ora, per poi
scottarle per 5 minuti in acqua inizialmente fredda.
Scolate e intiepidite, si eliminano le parti grasse
cartilaginose.
3 Questa sarebbe la regola ma, specialmente se cervello
e animelle sono veramente freschissimi, si può anche
semplificare l’operazione eliminando il bagno in acqua
e scottandoli direttamente per qualche minuto.
(4)
lattughe in brodo
fai così
Cervello e animelle rendono il ripieno
particolarmente fine e morbido, ma si può fare
un ripieno meno raffinato e ugualmente
gustoso usando solo carne (circa 400 g).
In questo caso, per ammorbidirlo, si userà poca
mollica di pane bianco, inzuppata nel sugo
di cottura della carne allungato con un goccio
di brodo.
*
Mettere al centro di ogni foglia una porzione di
ripieno, chiudere le foglie attorno all’impasto in modo
che non rimangano aperture, quindi legare i fagottini.
lattughe allucinogene
Chi l’avrebbe mai detto che la più comune
delle verdure, quella che compare
quotidianamente sulle nostre tavole, abbia
effetti psichedelici? E invece fin
dall’antichità la lattuga virosa e la lattuga
scariola, due tipi di lattughe selvatiche,
erano considerate un’alternativa
agli analgesici, con un effetto assai simile
a quello dell’oppio. Un tempo infatti
i medici, a chi soffriva di tosse
o di insonnia, ordinavano il lactucario,
il lattice biancastro che usciva dalle foglie
di queste piante, anche chiamato oppio
di lattuga. Negli anni Settanta dello scorso
secolo poi, negli Stati Uniti fumare foglie
seccate di lattuga era quasi all’ordine
del giorno. Si chiamava lettuce opium
o lettucene questa sorta di droga pesante
che però non dava assuefazione
e non provocava overdose. Naturalmente
oggi questo uso delle lattughe selvatiche
è vietato. La lattuga, quella coltivata,
possiamo, se proprio abbiamo voglia,
bercela in infuso o in tisana prima
di andare a dormire!
25
il nord-ovest - LIGURIA
(5) sciumette
Rompo le uova versando in due ciotole diverse i tuorli e gli albumi.
Con la frusta elettrica monto gli albumi a neve e, quando hanno
preso volume, unisco 2 cucchiai colmi di zucchero e continuo a
montare fino a quando la meringa diventa lucida e consistente.
Verso il latte in un tegame largo a bordi bassi e lo metto sul fuoco.
Quando inizia a fremere, un attimo prima che si alzi l’ebollizione, abbasso la fiamma al minimo e ci depongo 5 o 6 cucchiaiate
di meringa modellate a quenelle. Dopo un minuto le giro e le lascio cuocere altrettanto prima di tirarle su con la schiumarola
e deporle su un panno ad asciugare . Cuocio nello stesso modo
il resto della meringa, quindi ritiro il latte dal fuoco e lo lascio
intiepidire.
*
Pesto i pistacchi nel mortaio fino a ridurli quasi in pasta, poi li diluisco con qualche cucchiaio di latte. Unisco il resto dello zucchero ai tuorli insieme a un cucchiaio raso di farina setacciata e
mescolo un attimo con il cucchiaio di legno prima di unire il tutto al latte ormai quasi freddo, amalgamando con una frusta. Aggiungo anche il latte al pistacchio e metto il composto sul fuoco
con la fiamma al minimo.
Mescolando di continuo con il cucchiaio di legno, faccio cuocere la
crema fino a quando si sarà ispessita e vela il cucchiaio, facendo
attenzione che non raggiunga l’ebollizione.
INGREDIENTI PER
6-8
PERSONE
5 tuorli
3 albumi
1,2 litri di latte
6 cucchiai colmi di zucchero
un cucchiaio raso di farina
un cucchiaio di pistacchi pelati
cannella in polvere
26
Al momento di servirle, accomodo le sciumette in un piatto da portata profondo, le copro con la crema fredda e spolvero ognuna
con un pizzichino di cannella.
il nord-ovest - LIGURIA
*
Scolare le quenelles
di meringa e farle
asciugare su un panno.
liguria dolce
Diciamolo, quando pensiamo alla Liguria i dolci non sono
la prima cosa che ci viene alla mente. E sbagliamo. Perché invece
questa regione ha una sua tradizione dolciaria ben precisa
e assai particolare. La Liguria è infatti patria dell’arte
del candire la frutta, non a caso la leggenda vuole che le tre
sorelle Hesperetusa, Aretusa e Aegle, madrine degli agrumi,
quando fuggirono dal giardino delle Esperidi portarono
con loro proprio questa frutta e scelsero la Liguria per piantarla
e farla fruttare. La storia ci dice che quest’arte nacque intorno
al 1200 quando i liguri pensarono che, se gli arabi conservavano
la frutta nella melassa, forse si potevano trovare strade alternative
a questo procedimento. Di certo sappiamo che nel 1500
Caterina de’ Medici, andata sposa solo quattordicenne al futuro
re di Francia, arrivò a Parigi con un seguito di sarti e cuochi
raffinatissimi, tra cui colui che diventò il suo capo pasticciere,
tal Pietro da Recco, che esigeva che ogni mese gli fossero inviate
le arance dalla Liguria, in modo da poterle candire “alla moda
dei genovesi”. E non finisce qui, perché nel 1800 la Liguria faceva
un gran commercio di chinotti canditi, le piccole e profumate
mignonettes, tanto che nacquero centinaia di stabilimenti
di canditura nella regione. Ci pensò poi la Grande guerra
e le pesanti tasse su alcool e zucchero a mettere in ginocchio
la fiorente produzione. Oggi i canditi liguri sono una Delikatesse
che troviamo solo nelle pasticcerie francesi e viennesi.
28
la storia
Le sciumette sono dolci liguri,
soffici meringhette cotte
nel latte a cui viene aggiunta
una morbida crema. Sono
di origine provenzale e facevano
parte della tavola pasquale
di ogni ligure di rispetto,
insieme alla cima, alle lattughe
in brodo, alla mitica torta
Pasqualina, all’agnello al forno
e ai cavagnetti, dolcetti
di pasta frolla a forma
di canestro con al centro
un uovo sodo colorato.
Oggi i tempi sono cambiati
e le sciumette le ricordano solo
i più anziani, eppure è un dolce
che nella sua eterea leggerezza
sarebbe indicatissimo anche
per gli stomaci più esigenti.
(5)
sciumette
l’isola galleggiante
Cannella
la flottante di escoffier
“Prendere un biscotto di Savoia
e spezzettarlo in piccoli pezzi. Bagnarli
con kirsch e maraschino, ricoprirli
con confettura di albicocche. Spargerci
sopra uvetta di Corinto e mandorle
tritate. Riaggiustate i pezzetti in modo
da riformare il biscotto. Ricoprire
il tutto con crema Chantilly zuccherata
e vanigliata. Cospargere con pistacchi
tritati e altra uvetta.
Mettere in una compostiera
e circondare di crema inglese vanigliata
o di sciroppo di lamponi”.
Georges Auguste Escoffier cuoco francese, autore di importanti
libri di cucina
È dolce francese per eccellenza l’ile flottante,
e sembra che a inventarla o quanto meno
a codificarne per primo la ricetta sia stato
proprio il grande Escoffier. Di certo
è la parente più vicina alle sciumette in terra
d’Oltralpe, anche se i liguri inorridiscono
alla sola idea che le loro sciumette possano
essere paragonate alla cugina francese.
Comunque sia, anche l’isola galleggiante è fatta
con meringhe, spesso però cotte in forno,
e crema inglese, ma ne esiste una versione
che vuole anche biscotti savoiardi intrisi
nell’alcol e marmellata. L’isola dalla Francia
è poi emigrata nel resto del mondo
dove sono tanti i nomi con cui la chiamano:
Schnee-Eier, al secolo uova di neve,
in Germania, zupa nic in Polonia, Kanarimilch
in Austria, madártej, latte d’uccello,
in Ungheria, ?nenokle in Croazia e lapte
de pasare in Romania.
Pestare bene i pistacchi nel mortaio
29
il nord-ovest - LOMBARDIA
(6) messicani
Ripulisco le fettine di carne da nervetti e parti grasse e le rifilo con
il coltello per averle tutte più o meno delle stesse dimensioni (circa 12 x 6-7 cm). Passo per due volte al tritacarne la polpa di maiale, il prosciutto e i ritagli delle fettine, lasciandoli cadere in una
terrina. Unisco la mollica, bagnata nel latte e strizzata, lo spicchio d’aglio grattugiato, il Parmigiano, l’uovo e la scorza di limone grattugiata, una grattatina di noce moscata, sale e pepe. Impasto molto bene il tutto con le mani.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
12 fettine di noce di vitello
(circa 600 g)
40 g di burro
un cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
12 bicchiere di vino bianco
2 mestoli di brodo
poca farina
Per il ripieno
100 g di polpa di maiale
50 g di prosciutto crudo
con la sua parte di grasso
50 g circa di mollica di pane
2 cucchiai di Parmigiano
grattugiato
latte
un uovo
uno spicchio d’aglio piccolo
la scorza di 1/2 limone
non trattato
noce moscata
sale e pepe
30
Allargo le fettine di carne sul tagliere e le batto leggermente con il
batticarne, poi metto in ognuna una piccola “salsiccia” di composto, dosandolo bene in modo che i messicani risultino tutti
uguali. Arrotolo la carne attorno al ripieno e infilzo gli involtini,
a coppia, in due stuzzicadenti .
*
Faccio spumeggiare olio e burro in un tegame, infarino pochissimo
le coppie di messicani e li faccio rosolare, con la fiamma a metà,
qualche minuto per parte. Quando hanno preso colore, verso il
vino nel fondo del tegame e, appena è sfumato, copro e proseguo
la cottura per una mezz’ora, girandoli un paio di volte e unendo
ogni tanto mezzo mestolo di brodo.
Da ultimo alzo la fiamma e verso nel tegame poco brodo per staccare bene il fondo, poi faccio restringere un po’ e servo i messicani
caldissimi. Sono perfetti, adagiati con tutto il sugo, su un letto di
risotto giallo o bianco alla parmigiana, oppure su una coltre di
purè di patate o, ancora, con degli spinaci al burro.
il nord-ovest - LOMBARDIA
involtini
I messicani altro non sono che involtini
e malgrado il nome esotico si tratta
di invenzione milanese. È pur vero però
che involtini compaiono sulle tavole
di tutto il mondo. Una delle regioni
che di questa preparazione va ghiotta
è la Sicilia, qui si chiamano bracioline, spitini
o sasizzeddi nel Catanese; i siciliani
preferiscono la carne bovina per questo
piatto, perché, vuole la leggenda, Dio
benedì il bue che aveva scaldato Gesù
nella mangiatoia. Il ripieno di questo piatto
è fatto di pangrattato abbrustolito
in padella, pecorino, una cipolla tritata, uva
passa, pinoli, sale e pepe. Lo spalmiamo
sulla carne battuta e chiudiamo bene
gli involtini che poi infilziamo su spiedini
mettendo tra uno e l’altro una foglia
di alloro e una di cipolla. Ora li oliamo
e li passiamo nel pangrattato
non abbrustolito. Dovremmo cuocerli
alla brace ma non sempre è possibile,
e allora vanno bene anche forno o piastra.
Squisiti.
dicono di loro
“...E chi porta legato al collo
lo stuzzicadenti erra
senza fallo... oltra che quello
è uno strano arnese a veder
trar di seno... e non so ben dire
perché questi cotali non portino
altresì il cucchiaio legato
al collo”.
Da Il Galateo di Monsignor
Giovanni Della Casa
32
* Mettere in ogni fettina una piccola “salsiccia” di composto e arrotolare
involtini al cinema
Giovanna, Clara Calamai, è dietro ai fornelli, nel ristorante
di suo marito. Sta preparando un semplice pranzetto
per i suoi avventori, e si tratta di involtini che servirà anche
al vagabondo che si è appena seduto al tavolo, Massimo
Girotti, che diventerà poi il suo amante. Il film è Ossessione,
la regia è di Luchino Visconti.
Ci sono poi gli involtini che Capannelle, interpretato
da Carlo Pisacane, scova nel frigorifero dopo essersi
allegramente sbafato anche una pasta e ceci. È il famosissimo
I soliti ignoti per la regia di Mario Monicelli.
(6)
messicani
gli stuzzicadenti
* Infilzare una coppia di involtini con due stuzzicadenti
lo stuzzicadenti della val clavicola
Per ogni involtino ci vuole, si sa,
il suo stuzzicadenti che lo chiuda
ben bene. Ma da dove vengono
gli amati-vituperati stuzzicadenti?
Vengono da lontano, se si pensa
che gli antenati in bronzo di questi
stecchini sono stati ritrovati
addirittura in tombe preistoriche
in Italia e in Mesopotamia.
I Romani li chiamavano dentiscolpia e
li usavano per pulirsi i denti e anche
per mangiare carne servita in pezzi.
Col tempo diventarono addirittura
oggetti ricercati, confezionati in oro
e in altri metalli nobili, e ci fu
un momento che improvvisamente
furoreggiò la moda di portarli
appesi al collo, come gemme
preziose. Oggi questo oggetto
è un po’ in disuso, per pulirsi
i denti infatti si preferisce il filo
interdentale, ma in cucina,
soprattutto se si preparano
involtini, davvero non si può
rinunciare agli stecchini di legno.
Lo stuzzicadenti più esilarante della storia televisiva. Chi l’ha visto non può aver
dimenticato Raimondo Vianello che fa il verso al Mario Soldati di Alla ricerca dei cibi genuini.
A lui tocca intervistare Borbottin Luison, al secolo Ugo Tognazzi, artigiano
del legno in Val Clavicola, che da un enorme tronco produce un solo stuzzicadenti,
e ci mette anche sei mesi. “I miei stuzzicadenti – dice il Borbottin – sono identici a
quelli fatti a macchina, ma uno può essere usato anche dodici volte, dalla stessa famiglia
che se lo passa. Certo non li vendo qui in Italia perché da noi non si mangia, ma all’estero
non vanno male!”. Vianello ricordava che quella scenetta non l’avevano neanche provata,
così misero il copione in terra, ma Tognazzi piallava, piallava, e i trucioli coprivano i fogli
nascondendoli. Come sia sia, lo sketch è irresistibile ancora oggi.
33
il nord-ovest - LOMBARDIA
(7) riso
alla pilota
Metto sul fuoco una casseruola a fondo pesante con un volume d’acqua un po’ meno del doppio di quello del riso (misuro riso e acqua con una tazza). Unisco una presa di sale e, quando inizia
l’ebollizione, verso il riso facendolo scendere tutto al centro della casseruola, in modo che il riso stesso formi un cono la cui punta dovrà emergere per un cm scarso dall’acqua . Se non emerge,
tolgo un po’ di acqua altrimenti, se emerge troppo, aggiungo poca acqua bollente. Scuoto la casseruola per far scendere il riso e
lo faccio cuocere per 10 minuti esatti a fuoco vivace, senza mescolare.
6
DVD
*
A questo punto copro la casseruola con un panno piegato in quattro, metto il coperchio con un peso sopra e spengo il fuoco. Lascio il riso così, per un quarto d’ora, in modo che assorba tutta
l’acqua completando la cottura.
Mentre il riso riposa, scaldo il burro in una padella e unisco le salamelle ben sbriciolate e le faccio rosolare dolcemente, mescolando
spesso, fino a quando il grasso sarà ben sciolto, poi verso tutto il
contenuto della padella nella casseruola con il riso ormai pronto,
aggiungo il Parmigiano e mescolo bene. Servo il riso caldissimo.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
400 g di riso Vialone nano
150 g di salamella mantovana
(o salsicce a grana grossa
e 2 spicchi d’aglio)
50 g di burro
2 manciate di Parmigiano
grattugiato
sale
34
il nord-ovest - LOMBARDIA
riso alla pilota
Malgrado il nome questo riso non ha nulla
a che vedere con automobili o piloti.
Anzi ha poco a che vedere anche
con il risotto. Si tratta di un piatto molto
particolare, uno dei capisaldi della cucina
mantovana, famoso già ai tempi
dei Gonzaga. Il nome, così curioso,
proviene dagli operai addetti alla pulitura
del riso, i piloti o pilotini per l’appunto,
che a loro volta prendono il nome
dalla pila, una sorta di grande mortaio dove
il riso veniva separato dal glume
con un pestello meccanico. Gli operai
non avevano molto tempo a disposizione
per cucinare, e perciò meglio il riso
alla pilota, che non richiede di essere
seguito passo passo, del risotto classico,
come lo conosciamo noi, che a Mantova
si chiama menà; cucinare il riso alla pilota
invece è solo apparentemente più facile,
in realtà richiede regole ben precise.
la canzone
“Saluteremo il signor padrone
per il male che ci ha fatto
che ci ha sempre maltrattato
fino all’ultimo momen’
Saluteremo il signor padrone
con la so’ risera neta
pochi soldi in la cassetta
e i debit da pagar...”
Da Saluteremo il Signor
padrone - canto popolare
delle Mondine
36
Riso Vialone nano
le mondine
Sono in pochi a ricordare che una volta parlare
di riso voleva dire parlare di mondine, le signore
che mondavano, pulivano, il riso. Un lavoro durissimo
che spezzava le reni costringendo a stare chine,
a piedi nudi e per giornate intere, in mezzo
all’acqua delle risaie, a strappare le erbacce infestanti
che impedivano la crescita del riso. In dotazione
le ragazze avevano un paio di calzoncini corti,
le calze di filanca, un fazzoletto da mettere sul viso
per proteggersi dagli insetti e un cappello a tese
larghe per proteggersi dal sole. La paga era infima,
naturalmente inferiore a quella degli uomini
e le giornate lavorative duravano anche 10 o 12 ore,
tanto che ai primi del Novecento ci furono
agitazioni e scioperi che fecero sì che la paga
migliorasse e che le giornate lavorative
non durassero più di otto ore. Oggi di tutto ciò
resta solo il ricordo: a fare il lavoro
delle mondine ci pensano infatti le macchine.
(7)
riso alla pilota
fai così
Le salamelle mantovane sono grosse salsicce
caratterizzate dalla presenza di aglio nell’impasto.
Non avendole a disposizione, si possono utilizzare delle
salsicce fresche a grana grossa e, prima di metterle
in padella, si fanno rosolare nel burro 2 grossi spicchi
di aglio schiacciati.
Salsiccia a grana grossa
*
Versare il riso facendolo scendere tutto al centro della casseruola
in modo che formi un cono, la cui punta dovrà emergere per un cm scarso
come mangiarlo
È un riso che ama il maiale e perciò
di solito viene condito con il pisto,
che nel mantovano è anche chiamato
tastasal. Si tratta dello stesso impasto
delle salamelle mantovane, ovvero
un mix di carni – spalla, grasso
di pancetta e di prosciutto – tritate
e poi insaporite con aglio, pepe
e sale. Esiste però anche la versione
col puntel, cioè con la braciola
di maiale, che puntella, cioè sostiene
il piatto. Un boccone di riso
e un morso alla braciola. C’è poi
chi questo riso lo preferisce invece
con il pessin, piccoli pesci fritti.
37
il nord-est
torta di fregolotti - TRENTINO
zuppa di gulasch - gulaschsuppe - ALTO ADIGE
tortelli di spinaci - spinat-tirtlen - ALTO ADIGE
kugelhupf - FRIULI
cevapcici - FRIULI
pasta e fagioli - VENETO
zuppa di trippa - VENETO
cotolette alla bolognese - EMILIA ROMAGNA
pisarei e fagioli - EMILIA ROMAGNA
il nord-est - TRENTINO
(8) torta
6
DVD
di fregolotti
Scotto le mandorle per un paio di minuti in acqua in ebollizione, poi
le spello e le allargo su una placca. Le passo per una decina di minuti nel forno caldo ma spento per farle asciugare. Quando sono
ben fredde, le verso nel mixer con la metà dello zucchero e frullo brevemente per tritarle in maniera grossolana.
Setaccio la farina sulla spianatoia e unisco il resto dello zucchero, le
mandorle, la scorza di limone grattugiata e una presa di sale. Miscelo il tutto, faccio la fontana e ci metto il tuorlo, la grappa e il
burro, molto morbido e a pezzetti. Mescolo gli ingredienti con la
punta delle dita e aiutandomi con la forchetta, senza impastare: il
composto non deve infatti riuscire compatto e uniforme, ma formato da grosse briciole (fregolotti).
Fodero con la cartaforno una tortiera da crostate di 28 cm e ci faccio cadere questi grumi di impasto senza premerli in modo che si
dispongano in uno strato irregolare ma senza spazi vuoti (nel caso scuoto un po’ la tortiera). Passo la torta nel forno a 180° per
circa 45 minuti fino a doratura.
INGREDIENTI
250 g di farina 00
200 g di ottimo burro morbido
180 g di mandorle
150 g di zucchero
un tuorlo
la scorza di un limone
non trattato
2 cucchiai di grappa
sale
40
La torta è migliore se preparata con un giorno di anticipo e si conserva perfettamente per molti giorni se chiusa in una scatola di
latta, dopo averla rotta in pezzi. Infatti la torta di fregolotti, dura e croccante, non si taglia a fette ma si spezza con le mani.
il nord-est - TRENTINO
il menu del boscaiolo
Gente davvero povera i boscaioli
della trentina Val di Fiemme, e povero
era anche il loro desinare, almeno
a giudicare da questo racconto:
“Al mattino polenta senza sale e un po’
di formaggio vecchio, piccante, magro
e a volte... abitato da strani inquilini,
il tutto accompagnato da un po’ di caffè
d’orzo. Polenta senza sale e un po’
di formaggio anche a mezzogiorno
e come dissetante l’acqua pura.
La polenta veniva cotta nel paiolo
di ferro posto sopra due o tre sassi
e all’impasto usavano tracciare una croce
sopra di essa con il grosso e lungo
mestolo di legno. Quando la polenta
era pronta il “cogo” gridava
“Zioi ’n rama” oppure “duraa” e tutti
si facevano attorno affamati. Alla sera
una “supa rostida” o “fregolotti”
e minestre fatte con farina abbrustolita
e condite a volte con lardo. Se c’era
polenta fredda avanzata, si aggiungeva
anche quella e solo dopo molti anni
si potè mangiare minestra fatta
con pasta formato “rugoni”. Dopo cena
uno dei boscaioli attorno alla “fogara”
con tutti i compagni di lavoro iniziava
una recita del rosario al quale tutti
rispondevano in coro. Un’ultima tazza
d’acqua, mai vino, poi a dormire”.
Da Il lavoro del bosco nella Valle
di Fiemme di Agostino Bortolotti
La torta di fregolotti pronta per il forno
42
tanti nomi, ma una sola torta
È una torta trentina, quella di fregolotti, o meglio
fregoloti, vale a dire un dolce molto friabile fatto
di grossi bricioloni, i fregoloti per l’appunto.
Una torta povera confezionata con ingredienti
che era facile reperire: zucchero, farina,
mandorle o nocciole tritate. Un dolce che
ritroviamo identico, seppure con nomi diversi,
in molti altri centri italiani. A Mantova
è la sbrisolona, dolce ubiquo che oramai compare
anche negli Autogrill, sfragulà nel Destra Secchia,
sbrizulùuza a Cremona e tortionata nel Lodigiano.
Il concetto è lo stesso, un impasto che deve
essere molto friabile, tanto che vi consigliamo
di non provare nemmeno a tagliarla quando si è
raffreddata, ma di farlo invece quando è ancora
calda; in compenso se la mettete in una scatola
d’alluminio per biscotti si conserverà a lungo.
(8)
torta di fregolotti
Mandorle
la grappa
La ricetta originale della torta di fregolotti prevedeva
l’aggiunta di un bicchierino di grappa. Di quella buona,
e in Trentino di grappe buone ne sanno qualcosa. Perché
in questa regione amano lambicar, che poi in dialetto vuol
dire distillare, ma anche fare fatica. Non è tanta la grappa
in Trentino ma di certo è di altissima qualità perché
le vinacce sono distillate ancor freschissime. È nel paese
di Santa Massenza, nella Valle dei Laghi, che la grappa
diventa oggetto di culto, un paese di pochi abitanti ma
di molti alambicchi se si pensa che su duecento residenti ci
sono ben cinque distillerie. Qui la grappa la amano di Vin
Santo e la distillano tra metà settembre e metà ottobre.
La fanno riposare nelle bottiglie per molti mesi e la qualità
migliore la affinano in barrique di rovere. Poi è pronta
per accompagnare la torta di fregolotti!
come classificarle
Le grappe si classificano a seconda dell’età e delle lavorazioni a cui vengono sottoposte.
Grappa giovane o bianca è quella grappa che viene imbottigliata in vetro appena distillata
o dopo un breve periodo di riposo. Non è lavorata ed è trasparente, dal profumo sottile.
Grappa Riserva o Stravecchia è una grappa che è invecchiata per almeno 24 mesi dentro
barrique di rovere. Ha il colore giallo dell’ambra e un gusto morbido e carezzevole.
Grappe aromatiche sono grappe fatte con vinacce di uve aromatiche: Traminer, Muller
Thurgau o Moscato per citarne alcune.
Grappe aromatizzate sono quelle a cui vengono aggiunte radici, frutta, erbe che regalano loro
sapori e profumi particolari: i mirtilli, la genziana, l’asperula.
43
il nord-est - ALTO ADIGE
(9) zuppa
di gulasch - gulaschsuppe
Taglio la carne prima a fette e poi a pezzettini. Divido la cipolla in
quattro e la affetto sottilmente, poi trito lo spicchio d’aglio. Scaldo l’olio in una casseruola e faccio appassire dolcemente cipolla
e aglio e, quando la cipolla diventa trasparente, unisco la carne e
un cucchiaino da caffè di semi di cumino.
6
DVD
Rialzo un po’ la fiamma, spolvero la carne con un cucchiaio raso di
paprica e faccio ben rosolare mescolando quasi di continuo. Quando carne e cipolla hanno preso colore, salo e unisco la foglia di
alloro, un pizzico di maggiorana, poca scorza di limone grattugiata, un litro scarso di acqua bollente e il concentrato di pomodoro. Metto il coperchio e quando inizia il bollore abbasso la fiamma al minimo e proseguo la cottura per un’ora e mezzo.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
400 g di muscolo di manzo
2 patate medie a polpa gialla
3 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
una grossa cipolla
uno spicchio d’aglio
un cucchiaio
di concentrato di pomodoro
scorza di limone non trattato
paprica forte
una foglia di alloro
semi di cumino
maggiorana
sale
44
Trascorso questo tempo, sbuccio le patate, le taglio a dadini e le unisco alla carne. Assaggio per regolare il sale e proseguo la cottura
per circa tre quarti d’ora, fino a cottura delle patate. A questo punto la zuppa è pronta: la servo ben calda accompagnandola con pane di segale.
Attenzione alla quantità di paprica: quella forte è decisamente piccante e si può sostituire con quella dolce, con la quale si può anche abbondare. Oppure si possono
usare tutte e due: dolce per dare colore e profumo, forte per aggiungere la piccantezza desiderata.
il nord-est - ALTO ADIGE
Muscolo di manzo
zuppe nordiche
L’Alto Adige è patria di numerose zuppe, tutte
buonissime, tutte con nomi impronunciabili.
La Weinsuppe, a base di vino bianco di Terlano,
tuorlo d’uovo, brodo di carne, panna, cannella
e dadini di pane; la Frittatensuppe, una minestra
di frittatine; la Gerstensuppe, con lo speck
e l’orzo; la Ochsenschwanzsuppe, zuppa di coda
di bue; la Leberknodeldelsuppe, un brodo
con gnocchetti di pane e fegato,
e la Schildkrotensuppe, una raffinata minestra
di brodo di tartaruga.
Paprica forte e paprica dolce
46
la storia
Chi è nato prima, il gulasch oppure
la Gulaschsuppe, la zuppa di gulasch?
Sembrerebbe che la primogenitura spetti
alla zuppa, perché era questa che i mandriani
ungheresi preparavano in grandi pentoloni
messi sul fuoco, all’aria aperta, nella pustza,
la steppa ungherese, durante la transumanza
dei loro famosi bovini grigi, che erano
trasportati a Norimberga, Vienna e Venezia
dove poi venivano venduti nei mercati locali.
In effetti il termine stesso gulasch verrebbe
dalla parola ungherese goulyà e goulyàs, vale
a dire mandriano e bovini, e quindi il piatto
più ungherese che esista altro non sarebbe
che la carne del mandriano. All’inizio si trattava
di una zuppa povera, con poca carne
e molta paprica, fu poi nel XVIII secolo
che si arricchì entrando così anche nelle case
della borghesia e viaggiando poi in tutto
il mondo fino a diventare il simbolo stesso
della cucina magiara. E di paese in paese,
attraversando Germania, Austria, Croazia
e Slovenia, è giunta anche da noi,
in Trentino, in Alto Adige e nel Veneto.
(9)
zuppa di gulasch - gulaschsuppe
un gulash ebraico
La cucina ebraica ortodossa può vantare un suo
particolarissimo gulasch, si tratta del cholent, un piatto
dalle origini incerte, si dice che provenga da cucine
sefardite, sia poi passato in Alsazia dove probabilmente
ha acquistato il suo nome che altro non sarebbe
che una evoluzione di chaud, caldo, e sia poi arrivato
in Ungheria e nei Paesi dell’Est Europa. Si tratta
di uno stufato di carne e patate, a cui si aggiunge orzo
o riso. È uno dei piatti cardine dello Shabbat,
del sabato ebraico, perché riesce abilmente ad aggirare
il divieto religioso che proibisce di cucinare nel giorno
di questa festività. E allora ecco trovato il trucco:
il gustoso spezzatino viene messo a cuocere il venerdì
sera, prima dell’inizio dello Shabbat e continua
a cuocere in forno, sulle stufe, o sulle piastre elettriche
fino al giorno dopo, a fuoco lentissimo.
Pane di segale
rabbi e cholent
Una volta un imperatore
romano chiese al famoso
rabbino Joshua Ben Chanaya,
si era nell’Anno Domini 110,
quale fosse la spezia
particolarmente saporita
che gli ebrei usavano nel loro
cholent. Il rabbino rispose
che si trattava di una spezia
particolare chiamata shabbat,
e quando l’imperatore chiese
di quale spezia si trattasse,
l’altro aggiunse che quella
spezia aggiungeva sapori
solo a chi celebrava lo Shabbat.
Insomma solo chi è ebreo può
apprezzare la spezia misteriosa!
i nomi del cholent
Se gli ebrei Ashkenazi
chiamano questa zuppa cholent,
o chulent, o shalet, gli ebrei
Sefarditi la chiamano invece
hamin, o haminado; ha poi nomi
diversi a seconda del paese
di provenienza: matphonia
in Kurdistan, shahina o deffina
in Nord Africa, haris in Yemen
e tabit in Iraq.
47
il nord-est - ALTO ADIGE
(10) tortelli
6
DVD
di spinaci - spinat-tirtlen
Setaccio le due farine sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto
l’uovo, il burro, un cucchiaino da caffè raso di sale, altrettanto zucchero e la miscela di acqua e latte. Amalgamo un po’ gli ingredienti con la forchetta portando poca farina verso il centro e poi impasto energicamente per una decina di minuti fino a quando la
pasta sarà liscia ed elastica. Formo una palla, la avvolgo nella pellicola e la faccio riposare per una mezz’ora.
Intanto preparo il ripieno. Dopo averli strizzati forte fra le mani, trito gli spinaci a coltello e li raccolgo in una terrina con la ricotta,
la patata schiacciata grossolanamente, un cucchiaio di erba cipollina tagliuzzata, sale e pepe. Amalgamo bene.
INGREDIENTI
Per la pasta
150 g di farina di segale
150 g di farina 00
un uovo
1/2 bicchiere di latte e acqua
(metà e metà)
un cucchiaio di burro fuso
zucchero
sale
Per il ripieno
300 g di spinaci lessati
150 g di ricotta
una piccola patata lessa fredda
erba cipollina
sale e pepe
Per friggere
olio di arachide
48
Divido la pasta in tre pezzi e, dopo averli un po’ spianati con il mattarello, ne passo uno alla volta alla macchinetta, cominciando dal
primo spessore e poi attraverso tutti gli altri fino all’ultimo. Dalle strisce di pasta ritaglio dei dischi di 8 cm di diametro e distribuisco il ripieno al centro della metà di essi. Pennello il perimetro di un disco con l’acqua e copro con un disco vuoto premendo tutto intorno al ripieno per far uscire l’aria, poi ritaglio con la
rotella .
*
Dopo averli preparati tutti, friggo i tortelli in abbondante olio ben
caldo (180°), pochi minuti per parte. Appena dorati, li scolo e li
passo su un doppio foglio di carta da cucina. Li servo tiepidi.
il nord-est - ALTO ADIGE
alto adige in tavola
Ad essere famoso è soprattutto
lo speck, di solito servito insieme
al pane o agli gnocchi. Ma prodotti
altrettanto golosi sono le Kaminwurzen,
salsicce di maiale o di bue affumicate
e speziate, che gli altoatesini mangiano
con il pane o usano nell’impasto
degli gnocchi. Deliziosi sono anche
i formaggi, tanti, noi ne citiamo
solo due: il Graukäse, una specie
di ricotta stagionata per non più
di 15 giorni, perché se invecchiata
a lungo acquista un sapore amarognolo;
e poi l’Almkäse, formaggio di pascoli
alpini, che non ha additivi né aromi
aggiunti. Da mangiare rigorosamente
con il Vinschgauer Schüttelbrot, un pane
piatto fatto con farina di segale
mescolata a farina di grano. E per finire
in bellezza lo Zelten, un dolce davvero
particolare: noci, nocciole, frutta secca
ma pochissima farina.
la trinità del tirtlen
I tirtlen sono un piatto povero, molto in voga nelle valli
ladine dell’Alto Adige, onnipresenti in tutte le sagre locali.
La loro preparazione è una e trina, nel senso che la sfoglia
esterna resta la stessa ma a cambiare è il ripieno.
Oltre a quelli con gli spinaci, ci sono quelli farciti di crauti
e quelli alle patate. Per quelli alle patate ci vogliono patate
lessate e schiacciate e poi ricotta, molta erba cipollina
e paprica. Ne esiste anche una versione dolce, farciti
di marmellata e spolverizzati con lo zucchero dopo
la frittura.
Spinaci
tortelli di crauti - turtres de crauti
Miscelo 200 g di farina di segale e 100 g di farina 00 setacciata. Faccio la fontana e ci metto
un uovo, una bella noce di burro fuso, una presa di sale e poca acqua tiepida, quella necessaria
per ottenere un impasto morbido. Impasto per una decina di minuti, poi formo una palla e lascio
riposare la pasta per un’oretta, avvolta nella pellicola. Per il ripieno, scaldo 40 g di burro
in un tegame e faccio appassire dolcemente una piccola cipolla tritata. Quando la cipolla comincia
a prendere colore, spolvero il soffritto con un cucchiaio raso di farina, mescolo e dopo un minuto
bagno con un bicchiere di vino bianco e 1/2 bicchiere d’acqua calda. Rialzo la fiamma e faccio
bollire per 4-5 minuti prima di aggiungere 300 g di crauti ben strizzati, un cucchiaino di semi
di cumino, 4 bacche di ginepro schiacciate, sale e pepe. Faccio cuocere a fuoco dolce
per una mezz’ora fino a quando i crauti saranno quasi asciutti, poi lascio raffreddare. Passo la pasta
alla macchinetta fino all’ultimo spessore e ritaglio dei dischi di 8-10 cm. Distribuisco il ripieno
sulla metà dei dischi e copro con l’altra metà premendo bene tutto intorno. Ritaglio il perimetro
con la rotella e friggo i tortelli, pochi minuti per parte, in abbondante olio di arachide ben caldo
(180°). Li scolo appena dorati e li passo di un doppio foglio di carta da cucina.
50
(10)
tortelli di spinaci - spinat-tirtlen
frittata dell’imperatore
kaiserschmarrn
Deve il suo nome proprio all’imperatore
Francesco Giuseppe. Pare infatti che il Kaiser,
affamato al ritorno da una battuta di caccia,
avesse chiesto qualcosa da mangiare. La cucina
era già chiusa e il cuoco preparò, forse
di malavoglia, un’omelette dolce con uova, latte
e farina. Un po’ la fretta e un po’ lo scarso
impegno, la frittata venne fuori maluccio.
Per renderla presentabile, il cuoco la tagliò
a pezzetti, la spolverò di zucchero e la cosparse
di confettura di mirtilli rossi. Il piatto fu così
apprezzato dal Kaiser che, dal quel giorno,
lo richiese più volte tanto che il cuoco chiamò
questa preparazione “La frittata dell’imperatore”
(Kaiserschmarrn). Malgrado il suo nome
altisonante, è molto facile da preparare
ed è davvero buona. Faccio ammollare in acqua
tiepida una cucchiaiata di uvetta e intanto
rompo 2 uova separando gli albumi dai tuorli.
Raccolgo questi ultimi in una terrina
e li lavoro con un cucchiaio colmo di zucchero.
Continuando a montare con una frusta, unisco
70 g di farina 00 setacciata e di seguito 150 ml
di latte ottenendo una pastella liscia e densa.
Monto a neve gli albumi e li amalgamo
delicatamente alla pastella. Scaldo una grossa
noce di burro in una padella antiaderente
(24 cm), ci verso il composto e lo cospargo
con l’uvetta (ben asciugata). Regolo la fiamma
a metà e faccio cuocere per 3-4 minuti
muovendo la padella poi, con l’aiuto
di due spatole, strappo la “frittata” a pezzetti
e contemporaneamente li rigiro lasciandoli
dorare per bene. A fine cottura, faccio scivolare
lo Schmarren in un piatto e lo spolvero
di zucchero a velo. Lo servo tiepido
accompagnando con confettura di mirtilli rossi.
il perimetro di ciascun disco con l’acqua,
* Pennellare
distribuire il ripieno e coprire con un disco vuoto
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il nord-est - FRIULI
(11) kugelhupf
Metto ad ammollare l’uvetta in acqua tiepida. Setaccio le due farine dentro la ciotola dell’impastatrice. Verso il lievito in una piccola ciotola e lo miscelo con 50 g di farina (presa dalla dose)
poi aggiungo 4 o 5 cucchiai di latte appena tiepido e mescolo
ottenendo una pastella densa. Copro la ciotola con la pellicola
e faccio lievitare la pastella, in luogo tiepido, fino al raddoppio
(circa mezz’ora).
Allargo un po’ la farina dentro la ciotola e unisco le uova, il resto
del latte, la pastella lievitata e lo zucchero. Impasto con il gancio per circa 5 minuti poi, quando la pasta ha preso corpo e senza fermare l’impastatrice, aggiungo un cucchiaino da caffè di sale e, poco alla volta, il burro molto morbido e a pezzetti. Continuo a impastare per altri 5 minuti, quindi raccolgo la pasta a
palla e la sistemo in una ciotola infarinata. Copro con un panno umido piegato in quattro e faccio lievitare, in luogo tiepido,
fino al raddoppio.
INGREDIENTI
Sgocciolo l’uvetta e la asciugo bene. Rovescio la pasta ben lievitata
sulla spianatoia infarinata, la rompo con il pugno per sgonfiarla, poi la allargo un po’, la cospargo con l’uvetta e impasto brevemente per distribuirla uniformemente.
250 g di farina 00
250 g di farina Manitoba
una bustina
di lievito di birra liofilizzato
150 g di burro morbido
2 uova a temperatura ambiente
80 g di zucchero
200 ml di latte
80 g di uvetta sultanina
50 g di mandorle pelate
sale
A questo punto lo metto nel forno a 170° e lo faccio cuocere per
un’ora.
Per completare
zucchero a velo
A cottura ultimata, rovescio il Kugelhupf su una griglia e lo lascio raffreddare prima di spolverarlo leggermente di zucchero a velo.
52
Imburro generosamente uno stampo da Kugelhupf e attacco le mandorle nelle scanalature sul fondo, quindi ci sistemo l’impasto facendo in modo che la superficie sia regolare. Copro con il panno umido e lascio lievitare il dolce fino a quando arriva al bordo dello stampo.
il nord-est - FRIULI
la storia
Dolce davvero antico il nostro
Kugelhupf, un impasto a forma
di ciambella, morbido, ripieno
di mandorle e uvette. Così antico
che gli archeologi scavando
a Budapest e a Carnutum, un’antica
città romana vicina a Vienna, hanno
trovato un gran numero di stampi
di bronzo, proprio quelli
che ancora oggi si usano per fare
questo dolce. Insomma sembra
proprio che anche i Romani
mangiassero Kugelhupf e
che lo stampo con le sue tipiche
scanalature fosse in realtà
un omaggio al sole. Come al solito
poi, accanto alla storia nasce
sempre la leggenda e quella
del Kugelhupf vuole che siano stati
addirittura i Re Magi a inventare
questo dolce, che offrirono come
ringraziamento a un pasticciere che
li aveva ospitati, e dunque
la forma del dolce ricorderebbe
proprio i curiosi copricapi
degli stessi Magi. È invece storia
recente che proprio questo dolce
sia stato scelto per rappresentare
l’Austria al Café Europe
per il giorno europeo del 2006.
Oggi chi va in Austria lo sa,
il Kugelhupf è dolce ubiquo, non c’è
austriaco infatti che non lo apprezzi
a colazione o a merenda insieme
a un buon caffè.
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L’impasto lievitato raggiunge il bordo dello stampo
nome e nomi
Molto simile al nostro panettone, il Kugelhupf è
anch’esso consumato durante le feste natalizie
insieme alla Sachertorte, il dolce viennese per eccellenza.
Sul nome i pareri sono diversi, c’è chi sostiene
che sia chiamato così per via della sua forma a cono,
che ricorderebbe i cappucci di certi frati
che si chiamavano per l’appunto Gugel, o che il termine
derivi da certi turbanti che i contadini tedeschi
si avvolgevano sulla testa a mo’ di cappello, o piuttosto
dalla parola Kugel, che significa palla o globo.
E infine c’è chi lo collega alla parola Kogel, che starebbe
a indicare la forma rotondeggiante delle montagne.
Un dolce che assume comunque nomi diversi
a seconda dei Paesi in cui viene mangiato, così i Cechi
lo chiamano bàbovka e lo riempiono con il cocco,
per i Polacchi è babka, mentre in Croazia, in Slovenia,
in Bosnia-Erzegovina e in Serbia diventa kuglof.
(11)
kugelhupf
kugelhupf o babà
Incredibile a dirsi, ma è proprio il babà il parente
più prossimo del dolce austriaco e la storia vuole
che il merito vada addirittura a un re, Stanislao
Leszczyński, re di Polonia dal 1704 al 1735,
poi detronizzato dai Prussiani.
Essendo però suocero di Luigi XV di Francia,
che aveva sposato sua figlia Maria, gli fu ceduto, come
risarcimento, il Ducato di Lorena.
Il re, per combattere la malinconia che lo assaliva,
mangiava, tanti dolci, e beveva, molto rhum.
I pasticcieri di corte avevano però scarsa fantasia
e cucinavano solo Kugelhupf, che lui invece
non amava affatto, finché un giorno, di fronte
all’ennesima ciambella, ebbe un moto di rabbia
e la scaraventò sul tavolo, colpendo la bottiglia
di rhum, che finì tutto a innaffiare il dolce.
Era nato così il babà, che da allora diventò la passione
di Leszczyński, e a lui spetta anche l’invenzione del
nome babà, come Alì Babà, uno dei protagonisti delle
Mille e una notte, il suo libro preferito. Il babà arrivò
poi a Parigi, alla pasticceria Stohrer e da lì a Napoli,
a seguito dei monsù, i famosi chef francesi delle
famiglie nobili napoletane. Qui assunse infine
la sua caratteristica forma di fungo. Il resto è storia.
palacinche
Anche se ha sempre mantenuto legami
culturali e linguistici con l’Italia: fino a un secolo
fa il Friuli faceva parte dell’Impero austroungarico, e i piatti tipici risentono non solo
dell’influenza austriaca ma anche di quella
ungherese, slovena e balcanica in generale.
Anche le palacinche, come il Kugelhupf
appartengono alla tradizione mitteleuropea
(Palatschinken in Austria, palacsinta
in Ungheria). Si tratta di una sorta di spesse
crêpes farcite con un ripieno, generalmente
dolce, che può essere confettura (prugne
o albicocche), panna, crema di cioccolato,
ricotta zuccherata ecc.
Per 8 palacinche, setaccio 170 g di farina 00
in una ciotola, unisco una presa di sale e,
mescolando con una frustina, diluisco con
300 ml di latte. Continuando a mescolare
aggiungo 2 uova intere più un tuorlo e,
di seguito, 50 g di burro fuso freddo. Mescolo
con cura sciogliendo bene i grumi, poi copro
la ciotola e faccio riposare la pastella
per almeno un’ora. Ungo leggermente di burro
una padella antiaderente (22 cm), la metto
sul fuoco e quando il burro sfrigola ci verso
un mestolo scarso di pastella e la ruoto
per rivestire bene il fondo. Appena la pastella
si è rappresa e i bordi hanno preso colore, giro
la palacinca e termino la cottura. Una volta che
sono tutte pronte, le farcisco con abbondante
confettura di albicocche e le chiudo a rotolo.
Accomodo i rotoli uno vicino all’altro
in una pirofila, li spolvero con 3 cucchiai
di zucchero a velo e li passo per qualche
minuto sotto il grill, fino a quando lo zucchero
è leggermente caramellato. Le servo tiepide.
Lievito di birra liofilizzato
55
il nord-est - FRIULI
(12) cevapcici
Trito finissima la cipolla e la raccolgo in una terrina con le due carni, un cucchiaio colmo di paprica, lo spicchio d’aglio grattugiato,
mezzo cucchiaino di cumino, sale e pepe. Impasto molto bene con
le mani per una decina di minuti per avere un composto omogeneo e ben lavorato.
6
DVD
Prendo un pezzo di impasto e, rotolandolo fra le mani leggermente
unte d’olio, formo prima una palletta e poi una polpettina cilindrica lunga 7-8 cm e spessa circa un cm. Via via che i cevapcici
sono pronti, li allineo in un vassoio e alla fine li copro con la pellicola e li faccio riposare per un’oretta in frigorifero.
La cottura ideale dei cevapcici è quella alla brace, ma vengono bene
anche sulla griglia di ghisa. La faccio scaldare molto bene sul fornello prima di adagiare i cevapcici e non li tocco più fino a quando si forma una crosticina scura, e allora sarà facile girarli senza
che rimangano attaccati alla griglia. A questo punto, li giro delicatamente e li servo subito caldissimi accompagnandoli con anelli di cipolla rossa.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
200 g di polpa di manzo macinata
200 g di polpa di maiale
con una buona parte di grasso,
macinata
una cipolla media
uno spicchio d’aglio
paprica dolce
cumino in polvere
sale e pepe
56
il nord-est - FRIULI
fai così
la storia
Chi è stato in quella che allora
era chiamata Jugoslavia,
non può certo averli
dimenticati, erano quelle
polpettine che venivano
proposte e riproposte pasto
dopo pasto. Eppure questa
ricetta, così comune in tutti
i Paesi balcanici, non arriva
da lì. Si tratta infatti
di un piatto di origine turca,
e i turchi amavano molto
cucinare alla brace, poi portato
nei Balcani ai tempi
dell’occupazione ottomana
della Serbia. Ci ha pensato
quindi l’Impero austroungarico a diffonderlo più
a Nord. Ancora oggi è un
piatto molto in voga a Trieste
dove queste polpettine
le chiamano familiarmente civa
o ciba. Paese che vai usanza
che trovi, soprattutto carne
che trovi e così i cevapcici
nei Paesi musulmani li fanno
con montone o agnello,
nei Balcani con manzo o vitello
e in Austria con un misto
di carni di maiale. Sono
di solito cotti sulla griglia
o meglio ancora sulla brace,
e serviti con cipolla cruda
tritata, pane tostato
e l’immancabile ajvar, una salsa
a base di peperoni,
o con rafano e senape.
58
1 Le varianti di questa ricetta sono davvero tante e, se volete provarle,
tenete presente che i cevapcici devono sempre avere una crosticina spessa,
è quella che li fa buoni. C’è infatti chi li infarina prima di cuocerli
e chi addirittura li passa nel bicarbonato per ottenere maggiore croccantezza.
2 Chi non ama il gusto di cipolla cruda nell’impasto può provare la versione
in cui la cipolla viene prima fatta stufare in padella con olio e uno spicchio
d’aglio.
3 Se non avete sotto mano la paprica, sostituitela con un’abbondante
macinata di pepe. E infine, se li preparate solo con carne di manzo, date
morbidezza all’impasto con un po’ di pancetta tritata.
Polpa di maiale
frico con le patate
Sbuccio 4 patate di media grandezza, le taglio a tocchetti, le lavo e le asciugo.
Divido a metà una bella cipolla chiara, la affetto sottilmente e la faccio
appassire, a fuoco dolce, in una padella con una grossa noce di burro
e 100 g di pancetta affumicata tagliata a dadini molto piccoli.
Quando la cipolla comincia prendere colore, unisco le patate, mescolo
per farle ben insaporire nel soffritto, poi unisco sale e pepe e bagno
con un mezzo bicchiere di acqua calda. Metto il coperchio e faccio cuocere
dolcemente per una mezz’ora, fino a quando le patate sono tenere
e asciutte. A questo punto ritiro la padella dal fuoco e unisco alla e patate
300 g di formaggio Montasio tagliato a fettine sottili, mescolo bene e passo
il tutto in una padella antiaderente (24 cm) scartando contemporaneamente
il grasso in eccesso. Metto la padella sul fuoco con la fiamma alta e mescolo
delicatamente con una spatola, poi dopo qualche minuto abbasso la fiamma
e lascio che sotto si formi una crosticina dorata e croccante. Aiutandomi
con un coperchio, giro il frico e lo faccio rosolare fino a che si forma
la crosticina anche dall’altra parte.
(12)
cevapcici
salsa ajvar
È la salsa d’ordinanza
per accompagnare i cevapcici,
fatta con peperoni, melanzane,
peperoncini piccanti e tanto
aglio. La parola sembra
che provenga dal turco havyar,
che poi significa uova di pesce
salate, benché a noi non sia
chiara la parentela di questa
salsa con il caviale. In Serbia,
che dell’ajvar è la patria, la salsa
viene ancora fatta quasi
esclusivamente in maniera
artigianale e fa parte di quelli
che i serbi chiamano zimnica,
cibi invernali, insieme
ai pomodori e ai peperoni
sott’aceto. Tradizionalmente
viene preparata in grandi
quantità all’inizio dell’autunno,
quando i peperoni sono più
abbondanti e spesso la famiglia
e i vicini si riuniscono per
la preparazione, che dura anche
per giorni.
Cumino in polvere
Cevapcici pronti per la cottura
salsa ajvar fatta in casa
In Friuli questa salsa si trova già pronta in qualunque supermercato
ma se volete provare a farla in casa ecco una ricetta.
Dopo averli lavati e asciugati, pennello d’olio 4 grossi peperoni
rossi e li passo nel forno a 200° per una mezz’ora fino a quando
la pelle si stacca. Insieme ai peperoni, metto in forno anche
2 grossi pomodori molto maturi. Quando i peperoni sono pronti,
li chiudo in sacchetto di carta e li lascio raffreddare insieme
ai pomodori. Sbuccio 2 melanzane scure, le taglio a grossi dadi
e le faccio lessare in un miscuglio di acqua e aceto (2 bicchieri
di acqua e uno di aceto) fino a quando sono tenere. Le scolo
e le lascio raffreddare. Quando i peperoni sono freddi, li spello,
li taglio a falde e li ripulisco perfettamente dai semi
e dalle nervature chiare, poi allargo le falde su un bello strato
di carta da cucina che assorbirà un po’ dell’acqua di vegetazione.
Tolgo la pelle dei pomodori, li apro ed elimino i semi. Strizzo
fra le mani i dadi di melanzana e li frullo insieme ai peperoni
e ai pomodori. A questo punto scaldo 4 cucchiai d’olio
extravergine d’oliva in una padella e unisco il passato, il sale,
un peperoncino fresco tritato e uno spicchio d’aglio grattugiato.
Faccio cuocere molto dolcemente e mescolando spesso per circa
40 minuti, fino a quando la salsa si addensa. Se non la uso subito,
la chiudo in un barattolo e la conservo in frigorifero anche
per qualche giorno. Può essere conservata più a lungo solo
se si sterilizza il barattolo con la bollitura.
59
il nord-est - VENETO
(13) pasta
e fagioli
La sera precedente metto a bagno i fagioli in abbondante acqua appena tiepida e li lascio in ammollo per tutta la notte. Al momento di cuocerli li scolo, li verso in una casseruola e li copro di acqua fredda, che sopravanzi di due dita. Li faccio cuocere a fuoco
dolce per un paio d’ore, salandoli nell’ultima mezz’ora.
Preparo un trito finissimo con lo spicchio d’aglio e una manciatina
di prezzemolo. Scaldo l’olio in una casseruola, unisco il trito e un
rametto di rosmarino e faccio rosolare a fuoco dolcissimo per un
minuto, poi spolvero il soffritto con un cucchiaio non troppo colmo di farina e, mantenendo la fiamma al minimo, mescolo continuamente con il cucchiaio di legno per un paio di minuti, fino
a quando la farina comincia a imbiondire.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
250 g di fagioli borlotti secchi
180 g di tagliatelle all’uovo secche
(o maltagliati, maccheroncini,
ditali rigati)
3 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
4 cucchiai di passata di pomodoro
un cucchiaio di farina
un grosso spicchio d’aglio
prezzemolo
rosmarino
sale e pepe
60
A questo punto unisco la passata di pomodoro allungata con mezzo
bicchiere d’acqua calda e faccio cuocere il sughetto per qualche minuto prima di versare nella casseruola i fagioli ormai cotti con tutta l’acqua di cottura (se voglio rendere la minestra più densa, passo una parte dei fagioli). Assaggio per regolare sale e pepe e dopo qualche minuto unisco le tagliatelle spezzettate e termino la
cottura.
Lascio un po’ intiepidire la minestra prima di servirla accompagnandola con l’ampolla dell’olio e il macinino del pepe.
Questa è una delle mille versioni di pasta e fagioli – che in Veneto è
una vera e propria istituzione che accomuna tutte le province della regione dove, da una zona all’altra, assume profumi e sapori diversi – tutte però con lo stesso ingrediente base: i celebri fagioli
di Lamon .
*
il nord-est - VENETO
fagioli artistici
Il grande Eduardo nella commedia
Natale in casa Cupiello sosteneva
che pasta e fagioli è medicina ottima
per cacciare una non meglio identificata
“febbre viscerale”. Di fatto molto amati
sono e sono stati i fagioli, da cuochi,
artisti e scrittori. La prima ricetta
è merito di Apicio, che li cucina
fritti e poi conditi con il pepe
o, meglio ancora, cotti in tegame
con finocchietto verde e sapa, la mamma
dell’aceto balsamico.
Nel Medioevo Castore Durante
ce ne raccontava i poteri afrodisiaci:
“I fagioli generano il seme virile
e solleticano al coito specialmente
se mangiati con pepe lungo, zuccaro
e latte vaccino”. Così popolare diventò
questo legume che Annibale Carracci
ne fece il tema di un suo famoso
dipinto, Il Mangiatore di fagioli (15831585), oggi conservato nella galleria
Colonna di Roma. È un uomo, forse
un artigiano o un contadino, seduto
a un’osteria che mangia per placare
una fame di antica data, nel tragitto
tra la mano e la bocca infatti
per la voracità un po’ di zuppa
finisce sul tavolo e in una mano l’uomo
afferra del pane sbocconcellato. Si tratta
di cibi semplici, certo, ma non poveri:
il pane per esempio non è quello nero
delle campagne, ma bianco e raffinato,
c’è una grande brocca con il vino
e nel piatto una frittata. È il viso
del mangiatore, lo sguardo impaziente,
a tradire le sue origini. Fame, molta
fame, e i fagioli possono placarla.
62
Passata di pomodoro
la metamorfosi del fagiolo
Anche da un’umile pasta e fagioli possono nascere
sublimi ispirazioni. È il caso della Compressione di pasta
e fagioli di uno dei nostri chef più creativi. Parliamo
di Massimo Bottura, che ha “rivisitato” il grande
classico tirandone fuori un piatto davvero
stupefacente, per aromi e per sapori. La Compressione
è un piccolo bicchiere di vetro nel quale a strati
sono adagiati profumi e ingredienti.
Il primo livello, quello inferiore, è una crème royale
di cotiche e fagioli con un tocco di foie gras, a ispirarla è stato
lo chef francese Robuchon.
Il secondo livello è uno strato di radicchio sminuzzato.
Il terzo livello è, ed è Bottura stesso a dirlo,
il momento dell’emozione, della tradizione, i maltagliati
di croste di Parmigiano, vale a dire croste di Parmigiano
cotte insieme ai fagioli e grattugiate a scaglie.
Il quarto livello è la crema di fagioli frullata
e poi passata. E infine il tocco di grazia: acqua di
rosmarino montata a spuma. Et voilà il gioco è fatto!
(13)
pasta e fagioli
pasta e fagioli vicentina
Prezzemolo
La sera precedente metto ad ammollare 250 g di fagioli borlotti. Il giorno seguente
li scolo e li raccolgo in una casseruola con 2 belle patate, sbucciate e intere,
100 g di passata di pomodoro e circa 2 litri abbondanti di acqua fredda.Trito
a coltello una grossa cipolla con 2 coste di sedano, 2 spicchi d’aglio, 5 o 6 foglie
di salvia e una manciatina di prezzemolo. Frullo 100 g di pancetta tesa
e la metto nella casseruola dove metto anche il trito di aromi. Metto la casseruola,
con il coperchio, sul fuoco, e appena inizia l’ebollizione abbasso la fiamma
al minimo e proseguo la cottura per circa 2 ore, fino a quando i fagioli diventano
teneri. A questo punto tiro su le patate e le passo allo schiacciapatate lasciandole
cadere direttamente nella casseruola. Mescolo, assaggio per regolare il sale e,
quando riprende l’ebollizione, unisco 250 g di maltagliati all’uovo freschi e li porto
a cottura mescolando spesso. Servo la minestra tiepida portando in tavola
il Parmigiano grattugiato, l’ampolla dell’olio e il macinino del pepe.
Fagioli di Lamon
* i fagioli di lamon
Sono molto conosciuti anche fuori dai confini regionali non solo perché molto buoni,
ma anche perché sono stati fra i primi ad essere coltivati in Italia. I fagioli arrivarono
in Europa dall’America Centrale nel XVI secolo e in Italia grazie a Clemente VII
(al secolo Giulio de’ Medici, nipote di Lorenzo il Magnifico, divenuto Papa nel 1523),
il quale li aveva ricevuti in dono dagli spagnoli come souvenir del nuovo mondo. Il Papa
li passò ai suoi concittadini fiorentini e al canonico bellunese Pietro Valeriano, che ne iniziò
la coltivazione nell’altipiano di Lamon, dove questi fagioli hanno trovato le condizioni
ideali per la crescita e dove nel corso dei secoli ne sono state selezionate diverse varietà.
63
il nord-est - VENETO
(14) zuppa
di trippa
Pulisco la costa di sedano, la carota, una cipolla e qualche gambo di
prezzemolo, li taglio a pezzi e li raccolgo in una casseruola con un
paio di litri d’acqua. Aggiungo una manciatina di sale, una foglia
di alloro e una decina di grani di pepe. Quando si alza l’ebollizione unisco la trippa, metto il coperchio e lascio bollire dolcemente
per un’ora. La scolo e, una volta tiepida, la taglio a listarelle.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
600 g circa di trippa precotta
di vitellone in un unico pezzo
(reticolo)
2 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
30 g circa di pancetta tesa
3 cipolle di media grandezza
una carota
una costa di sedano
prezzemolo
2 foglie di alloro
rosmarino
pepe in grani
un litro scarso di ottimo
brodo di carne
sale e pepe di mulinello
Parmigiano grattugiato
Pane casereccio abbrustolito
64
Trito 2 cipolle e frullo la pancetta con le foglioline di un rametto di
rosmarino. Raccolgo tutto in una casseruola con l’olio e faccio rosolare molto dolcemente. Quando la cipolla comincia a prendere
colore, unisco la trippa e la faccio insaporire per una decina di minuti mescolando quasi di continuo. Non appena comincia ad attaccare, unisco sale e pepe e una foglia di alloro e la copro a filo
di acqua calda.
Copro e faccio cuocere per circa un’ora, fino a quando la trippa sarà
molto tenera e quasi asciutta. Solo ora aggiungo il brodo bollente e, dopo qualche minuto la zuppa è pronta. La porto in tavola
caldissima accompagnandola con il Parmigiano grattugiato, il macinino del pepe e il pane abbrustolito.
il nord-est - VENETO
la trippa
È ora di sfatare l’aurea negativa che circonda la trippa: è buonissima, e chi non la mangia
non sa cosa si perde. E se la mangiavano Dickens, Pepe Carvalho, Caterina di Russia,
Riccardo II e il Gatto di Pinocchio, possiamo ben mangiarla anche noi. Si tratta di alimento
antico tanto che già i Greci la mangiavano cotta alla brace e i Romani ne facevano salsicce.
Oggi non c’è più neanche la scusa della difficoltà di pulirla, come accadeva quando
ci dovevano pensare il macellaio o il trippaio a sgrassarla e lavarla. Adesso ci pensano
le macchine e la trippa arriva già pulita e incellofanata sugli scaffali dei nostri supermercati.
Certo, si tratta dello stomaco del vitello, e non degli intestini come erroneamente si crede,
per l’esattezza del rumine, un grande sacco detto anche trippa, croce, pancia o trippa liscia,
del reticolo, un piccolo sacco dall’aspetto spugnoso, chiamato anche cuffia, bonetto o nido
d’ape, dell’omaso, un sacco a lamelle conosciuto anche come foiolo, centopelli o libro, e
dell’abomaso, lo stomaco vero e proprio, al secolo riccioletta, spannocchia o lampredotto. Ma
chi ha mai detto che lo stomaco del vitello non sia una golosità da leccarsi i baffi?
trippa e lotto
L’Antica Smorfia Napoletana giustamente ha inserito nei sogni da giocare al lotto anche
quelli a base di trippa. E allora, dovesse capitarvi di sognare questo gustoso alimento,
giocatevi i seguenti numeri: 52 se la trippa è cotta, 54 se invece è cruda, il trippaiolo
o la trippaiola valgono 29, il brodo di trippa è 53, la trippa da gatti 3. C’è poi
chi sostiene che sognare trippa sia foriero di pericoli o di brutte malattie e chi sogna
di vederla ma non di mangiarla avrà sicuramente qualche brutta sorpresa. Ma noi
crediamo di più agli antichi popoli della Mesopotamia, che affermavano invece che
sognare trippa portasse tranquillità.
66
(14)
dicono di lei
zuppa di trippa
Pancetta tesa
“Il povero Gatto, sentendosi gravemente
indisposto di stomaco, non poté
mangiare altro che trentacinque triglie
con salsa di pomodoro e quattro porzioni
di trippa alla parmigiana; e perché
la trippa non gli pareva condita
abbastanza, si rifece tre volte a chiedere
il burro e il formaggio grattato”.
Da Pinocchio di Carlo Collodi
“Il trippaio è davanti al suo carretto:
fuma nella vaschetta il lampredotto
appena bollito; gli si affollano attorno
i garzoni del quartiere col pane croccante
fra le mani, per la prima colazione:
si puliscono le dita sul fondo dei calzoni
per servirsi un pizzico di sale...”
Da Il Quartiere di Vasco Pratolini
trippa e politica
Sedano
Anche i politici mangiano trippa, o meglio
la mangiavano. Nel 1883 infatti Orazio Arzilli, oste
di chiara fama, si presentò alle elezioni e fece
della trippa il suo cavallo di battaglia. Così infatti
recitava il suo programma: “Se veramente volete
il vostro benessere, eleggete Orazio Arzilli.
Le sue opinioni politiche sono: martedì fagioli
con le cotiche, giovedì gnocchi e sabato trippa!
Questi saldi convincimenti del nostro candidato sono
sempre innaffiati da un prelibato vino di Frascati.
Elettori! Orazio Arzilli possiede un ampio
e magnifico giardino dove ogni giorno vi attende
per esporvi il suo programma politico”.
Lo votarono soltanto in settantotto elettori,
ma il programma non era male davvero.
67
il nord-est - EMILIA ROMAGNA
(15) cotolette
alla bolognese
Per prima cosa, e con qualche ora di anticipo, preparo la mollica grattugiata. Elimino dunque la crosticina delle fette di pancarré, le
spezzetto e le frullo nel mixer per un minuto alla massima velocità, poi passo la mollica da un colino a maglie larghe per eliminare i pezzetti più grossi. La allargo poi su un foglio di carta e la
lascio asciugare.
Per questa preparazione mi faccio tagliare la carne a fette più o meno regolari e spesse circa 1/2 cm. Le ripulisco perfettamente da
nervetti a parti grasse e le batto leggermente con il batticarne per
uniformare lo spessore. Le passo nell’uovo battuto e poi nella mollica, premendo bene con la mano aperta.
Scaldo il burro in una padella ampia e faccio rosolare le cotolette, a
fuoco medio, 4 minuti per parte fino a color oro. A cottura ultimata, le sgocciolo e le accomodo in un piatto che possa andare in
forno. Copro ogni cotoletta prima con una fetta di prosciutto e
poi con abbondanti fettine sottilissime di Parmigiano ottenute con
il pelapatate. Non salo la carne perché prosciutto e Parmigiano
sono sufficienti per insaporirla giustamente.
INGREDIENTI PER
4
PERSONE
4 fette di fesa di vitello
di circa 120 g ognuna
80 g circa di Parmigiano
non troppo stagionato
4 fette di ottimo
prosciutto di Parma
150 g di burro chiarificato
12 fette di pancarré
un uovo
68
Passo il piatto nel forno a 200° per 5 minuti, fino a quando il formaggio sarà perfettamente fuso e avrà formato una coltre bianca
e profumata sulla cotoletta.
il nord-est - EMILIA ROMAGNA
Battere leggermente le fette
di carne con il batticarne
la petroniana
Tutti conoscono la cotoletta milanese, quella che ancora oggi si discute se siano stati
i milanesi o i viennesi ad inventarla. Meno conosciuta invece è la petroniana, così
chiamata in onore del patrono di Bologna, eppure si tratta di un piatto di grande
golosità, a patto che sia ben fatta, cosa non semplice. Inoltre si tratta davvero
di cotoletta impegnativa, vuoi per la sua grandezza, non a caso è anche chiamata
orecchio d’elefante perché è grande quasi quanto le orecchie del suddetto animale, e anche
per la sua “ricchezza”: vitello, burro, brodo, prosciutto, Parmigiano e non di rado
anche tartufo. Insomma un piatto per stomaci coraggiosi. I bolognesi ne vanno
giustamente fieri, al punto che il 14 ottobre 2004 l’Accademia Italiana della Cucina
ha depositato la ricetta presso la Camera di Commercio di Bologna.
la cotoletta dell’artusi
L’Artusi di cotolette se ne intendeva, né poteva essere diversamente per un cittadino
dell’Emilia-Romagna. E allora vi regaliamo la sua cotoletta con tartufi.
“Il posto migliore per questo piatto è il sotto-noce, ma può servire anche il magro del resto
della coscia o del culaccio.Tagliatele sottili e della dimensione della palma di una mano; battetele
e date loro una forma smussata ed elegante come, ad esempio, la figura del cuore, cioè larga
da capo e restringendosi in fondo, il che si ottiene più facilmente tritando prima la carne
con la lunetta. Poi preparatele in un piatto con agro di limone, pepe, sale e pochissimo parmigiano
grattato. Dopo essere state un’ora o due in questa infusione, passatele nell’uovo sbattuto
e tenetecele altrettanto. Poi panatele con pangrattato fine, mettetele a soffriggere col burro
in una teglia di rame, e quando saranno appena rosolate da una parte, voltatele e sopra la parte
cotta distendete prima delle fette di tartufi e sopra queste delle fette di parmigiano o di gruiera;
ma sì le une che le altre tagliatele sottili il più che potete. Fatto questo terminate di cuocerle
con fuoco sotto e sopra aggiungendo brodo o sugo di carne; poi levatele pari pari e disponetele
in un vassoio col loro sugo all’intorno strizzandoci l’agro di un limone, o mezzo solo se sono poche.”
Da La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi
70
(15)
cotolette alla bolognese
fai così
La versione più ortodossa della cotoletta bolognese
è un po’ diversa. Dopo la frittura, le cotolette
si lasciano in padella e, dopo averle coperte
con prosciutto e formaggio, si versa qualche cucchiaio
di brodo di carne sul fondo della padella stessa,
poi si abbassa la fiamma e si mette il coperchio
lasciando la padella sul fuoco per qualche minuto,
fino a quando il formaggio è fuso. È ottima
anche in questa versione, ma ovviamente molto
meno digeribile, ed essendo una preparazione
già bella calorica è inutile appesantirla con il burro
di cottura. Nella versione con il brodo è preferibile
allora sgocciolare bene le cotolette e passarle
in un’altra padella vuota quindi, una volta guarnite
con prosciutto e formaggio, versare sul fondo un paio
di mestoli di brodo (di carne!) e coprire. Pochi minuti
sul fuoco ed è pronto.
cotolette per ricchi
Crisi o non crisi, c’è chi la cotoletta la vuole
lussuosa, e molto cara. Ad accontentare questi
goduriosi ci ha pensato Thomas Huber,
direttore del ristorante Berger Strasse
a Düsseldorf. Per la sua cotoletta non bada
a spese: foglioline d’oro e crema di tartufo
bianco, oro per gli occhi e tartufo bianco
per il palato. Gli ingredienti costano 5.000 euro
al chilo e la cotoletta “solo” 150 euro!
Eppure ne ha già vendute più di duecento.
Mollica grattugiata
cotoletta da record
Non poteva essere che Milano ad avere
il record della cotoletta più grande
del mondo. Si tratta, è bene saperlo,
di un vero mostro. Tanto per darvi
un’idea la “bestia” misura ben 8 metri
quadrati e pesa 190 chili!
Per farla ci sono volute 200 uova
e 30 chili di pangrattato. Milano
ne è giustamente orgogliosa, il record
mondiale si va ad aggiungere a quello
dell’arrosto più lungo del mondo.
Sempre grazie ai milanesi.
Prosciutto di Parma
71
il nord-est - EMILIA ROMAGNA
(16) pisarei
e fagioli
La sera precedente metto a bagno i fagioli in abbondante acqua appena tiepida e li lascio in ammollo per tutta la notte. Al mattino
seguente li scolo e li metto a cuocere in acqua inizialmente fredda, aromatizzata con una cipolla. Quando si alza il bollore, abbasso la fiamma al minimo e li faccio cuocere per circa un’ora, portandoli cioè solo a mezza cottura.
6
DVD
Nel frattempo trito la cipolla e frullo la pancetta con lo spicchio
d’aglio e una manciata di prezzemolo. Scaldo olio e burro in una
casseruola, unisco la cipolla e il trito di pancetta e faccio soffriggere dolcemente il tutto e, quando la cipolla comincia a prendere colore e la pancetta è completamente fusa, unisco la passata di
pomodoro, sale e pepe. Faccio cuocere per qualche minuto, poi
unisco i fagioli, in cottura e appena scolati, che termineranno di
cuocere nel sugo.
INGREDIENTI PER
6
PERSONE
Per i pisarei
400 g di farina
200 g di pangrattato
Per il sugo
300 g di fagioli borlotti secchi
300 g di passata di pomodoro
50 g di pancetta tesa
30 g di burro
un cucchiaio d’olio extravergine
d’oliva
2 cipolle piccole
uno spicchio d’aglio
prezzemolo
sale e pepe
Parmigiano grattugiato
72
Lascio cuocere dolcemente l’intingolo per circa un’ora e mezzo, aggiungendo ogni tanto un mestolo dell’acqua dei fagioli, in modo
che a fine cottura il sugo non risulti troppo asciutto.
Verso il pangrattato in una ciotola e lo bagno con 1/2 bicchiere di
acqua bollente.
Setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto il pane bagnato. Impasto per 5-6 minuti aggiungendo altra acqua calda, quella necessaria per ottenere un impasto morbido ed elastico. Stacco un pezzo di impasto e lo rotolo sulla spianatoia, ottenendo un lungo cilindretto delle dimensioni di un dito mignolo.
Ritaglio dei pezzetti di circa un cm e con il pollice premo ogni gnocchetto facendolo girare su se stesso, in modo che alla fine avrò tante piccole conchiglie (pisarei) delle dimensioni di un fagiolo .
*
Cuocio i pisarei per poco più di 10 minuti in acqua salata in ebollizione, poi li tiro su con la schiumarola e li condisco con il sugo
di fagioli e abbondante Parmigiano grattugiato.
il nord-est - EMILIA ROMAGNA
la storia
Un piatto davvero povero
della tradizione piacentina, nato
in tempo di guerra e perciò in tempi
di fame, in pratica gnocchetti
di pangrattato e farina, e poi un po’
di lardo, fagioli borlotti, cipolla
e un’idea di pomodoro. Insomma ciò
che i contadini della Bassa trovavano
facilmente nelle dispense e nell’orto.
Le donne li preparavano con il pistà
’d grass, vale a dire un trito di aglio,
prezzemolo e lardo che serviva
ad insaporire un piatto altrimenti
semplice. Così importante era saper
fare i pisarei che un tempo quando
i ragazzi presentavano a casa le future
spose, le suocere per prima cosa
controllavano il pollice destro, se era
calloso allora la fanciulla, che
evidentemente doveva avere una lunga
esperienza di pisarei, sarebbe certamente
stata una buona moglie. Ancora oggi
poi, è un vero piacentino solo
chi sa pronunciare correttamente
la frase “pisarei e fasò”. E credete, non
è affatto semplice.
Cipolle bianche
74
Farina
i fagioli
Pianta antica quella del fagiolo, conosciuta già
da Greci e Romani, anche se le specie
che si consumavano allora non erano le stesse
dell’oggi: si trattava infatti di quelli piccoli e chiari,
i cosiddetti “fagioli dall’occhio”. Il fagiolo moderno
è originario dell’America Centro-meridionale
ed è stato scoperto e portato in Europa da Cristoforo
Colombo; siamo stati poi noi europei a farli
conoscere agli americani del Nord. Oggi consideriamo
i fagioli cibo povero, ma c’è invece stato un tempo,
nel Medioevo, in cui questi legumi apparivano solo
sulle tavole della nobiltà e delle famiglie abbienti.
Eppure, in seguito, sono stati proprio questi umili
baccelli a sfamare intere famiglie durante le guerre,
quando da mangiare c’erano solo pane secco e fagioli,
che aiutarono a salvare la gente provata dalle carestie
e soprattutto, grazie all’elevato apporto proteico,
a renderla più resistente alle malattie.
(16)
pisarei e fagioli
fagioli di celluloide
Ecco un cibo che è l’emblema stesso
del cinema western. Sotto il sole o sotto
la luna, il cowboy mangia esclusivamente
fagioli. E fagioli li hanno mangiati tutti,
da John Wayne a Gary Cooper, da James
Coburn a Rod Steiger, che in Giù la testa
del nostro Sergio Leone ne consuma
grandi quantità, da James Stewart a Clint
Eastwood, per arrivare ai nostri Carlo
Pedersoli, al secolo Bud Spencer, e Mario
Girotti, alias Terence Hill, che nei loro
film ne fanno vere scorpacciate.
Ma chi proprio non si dimentica è Jerry
Lewis che ha nel piatto un solo fagiolo
ma lo mangia con tale intensità da farlo
sembrare un prelibato manicaretto.
Il film è Artisti e modelle, per la regia di
Frank Tashlin.
con il pollice gli gnocchetti
* Premere
in modo da farli girare su se stessi
i nomi del fagiolo
Chi non mangia fagioli in Italia?
Praticamente nessuno e ogni regione
dà loro nomi particolari: fasòi in Trentino
Alto Adige, fasöö in Lombardia, fasioi
in Veneto, in Piemonte fasêu, in Liguria
faxêu, in Emilia-Romagna fasòl, fasulén,
o fasò, in Toscana fagiuolo, nelle Marche
fasciólu, fagiòlu, fagiolettu o faciuole, in Abruzzo
faciuol, façiòl, i Laziali li chiamano facioli,
nel Molise sono fasul, in Campania
li chiamano i fasule o i fasuli, in Puglia
vanno pazzi per i fasùle, i pasulu o i pasuli,
mentre in Basilicata mangiano fasùl e fasil,
in Calabria suriàca, pòsa, faggiòla, fasòla, fasùali
o fasòlu, in Sicilia i faciola e in Sardegna
i pisu, i fasolu, i fasou o i basolu.
75
il centro
fegatelli di maiale all’aretina - TOSCANA
sformato di spinaci con il cibreo - TOSCANA
piccioni ripieni - UMBRIA
coniglio in porchetta - MARCHE
calcioni - MARCHE
fagioli con le cotiche - LAZIO
pollo con i peperoni - LAZIO
il centro - TOSCANA
(17) fegatelli
di maiale all’aretina
Metto la “rete” a bagno in una bacinella con acqua appena tiepida per ammorbidirla. Taglio poi il fegato a fettine piccole, spesse poco meno di un cm, e il lardo a mattoncini, uno per ogni
fegatello.
Raccolgo il pangrattato in una terrina con una bella presa di sale,
pepe e abbondanti semi di finocchio, poi miscelo bene il tutto
e metto nella terrina anche le fettine di fegato e i mattoncini di
lardo. Mescolo bene con le mani in modo da rivestirli completamente con il pane aromatizzato.
Preparo degli spiedini di misura tale che possano appoggiare sulle
pareti di una teglia (perfetti quelli a forma di U che tengono
ben fermo quanto viene infilzato) e preparo anche dei crostini
di pane casereccio. Allargo bene la rete sul tavolo e ne ritaglio
dei larghi quadrati più o meno regolari. Infilzo un crostino in
uno spiedino, poi avvolgo strettamente una fettina di fegato attorno a un mattoncino di lardo e involto ogni fagottino in un
pezzo di rete chiudendo bene.
INGREDIENTI PER
(12
5-6
PERSONE
FEGATELLI)
600 g circa di fegato di maiale
in un unico pezzo
un pezzo di “rete” di maiale
50 g di lardo fresco
una manciata di pangrattato
semi di finocchio
foglie di alloro
sale e pepe
78
Infilzo il fegatello nello spiedino e preparo nello stesso modo tutti gli altri intervallandoli con una foglia di alloro. Una volta sistemati nella teglia, passo i fegatelli nel forno a 190° e proseguo la cottura per poco meno di un’ora. Durante questo tempo li giro un paio di volte e negli ultimi minuti li spolvero di
sale e pepe. Li servo caldissimi.
il centro - TOSCANA
i fegatelli
Quando si accoppa il maiale, del quale,
come tutti sanno, non si butta via
niente, arriva anche il momento
dei fegatelli. Ognuno ha la sua ricetta,
c’è chi li fa nel tegame di coccio,
con vino e poca acqua, cotti molto
lentamente, anche per un’ora.
Chi invece li preferisce alla brace,
chi li fa addirittura fritti come nel Sud
Italia e chi preferisce quelli tradizionali,
vale a dire avvolti nella loro rete
e infilati sugli spiedini. Una volta,
per poterli adoperare tutto l’anno,
quando ancora non esistevano freezer
e frigoriferi, si mettevano in barattolo
con lo strutto, ed erano sempre
a disposizione. Quello che è certo
è che i fegatelli non possono fare
a meno delle foglie d’alloro.
Foglie di alloro
80
Immergere la rete di maiale in una bacinella con acqua tiepida
l’alloro e la pizia
A Delfi solo la Pizia poteva masticare le foglie
di questa pianta, che era considerata profetica
perché era l’attributo di Apollo, dio che “sa
quel che sarà e fu ed è”, perciò si bruciavano
rami di alloro per ipnotizzarsi e intravedere
il futuro nel suo fumo: più questo era denso
e più gli auspici erano favorevoli. E sempre
a Delfi, ogni quattro anni, si celebravano
i Giochi Pitici, così chiamati dal sacro serpente
Pitone, che poi era il custode dell’Oracolo,
e ai vincitori delle gare si offriva proprio
una corona di alloro. L’usanza di ardere l’alloro
è arrivata fino ai giorni nostri. Nelle campagne
emiliane infatti, fino al secolo scorso ancora
si leggevano gli auspici sul raccolto futuro
bruciando le foglie di questo cespuglio,
e se il crepitìo era vivace allora il raccolto
sarebbe stato abbondante.
(17)
fegatelli di maiale all’aretina
dicono di lui
“E gli allori accesi sulle fiamme rituali
mandino un crepitìo di buon augurio,
e con questo fausto presagio vi sarà
un sacro anno ricco e felice.
Quando il lauro offre buoni auspici, gioite,
o coloni: Cerere coprirà di spighe il colmo
granaio.”
Da Elegie di Tibullo - poeta romano
del I secolo a.C.
la poesia
“L’aura che ’l verde lauro e l’aureo crine
soavemente sospirando move,
fa con sue viste leggiadrette et nove
l’anime da’ lor corpi pellegrine.”
Da Canzoniere di Francesco Petrarca
Spiedini di fegatelli
pronti per la cottura
livia drusilla e l’alloro
È Plinio a narrare di un prodigio avvenuto ai tempi dell’Impero romano. Un giorno
Livia Drusilla, diventata Augusta dopo le nozze con l’imperatore Augusto, mentre
era seduta su una sedia, si vide cadere in grembo una gallina bianchissima, lanciata
da un’aquila. La gallina non solo non aveva subito danni, ma nel becco aveva
un ramo di alloro carico di bacche. Gli indovini di corte raccomandarono di tenere
da conto la gallina e la sua prole e di piantare il ramo e custodirlo con amore.
Detto fatto. Il ramoscello fu piantato nella villa di campagna dei Cesari, sulle rive
del Tevere, a nove miglia da Roma sulla via Flaminia e lì nacque un miracoloso
boschetto. Neanche a dirlo il nome dato al luogo fu Ad gallinas. Da quel momento
in poi Augusto volle sempre tenere in mano un rametto di alloro e ne fece una
corona da indossare nei suoi trionfi. E così fecero dopo di lui tutti gli imperatori.
81
il centro - TOSCANA
(18) sformato
di spinaci
con il cibreo
*
INGREDIENTI PER
6
PERSONE
Per lo sformato
1,2 kg di spinaci
50 g di Parmigiano grattugiato
2 uova grandi (o 3 se piccole)
50 g di burro
50 g di farina 00
1/2 litro di latte
noce moscata
sale e pepe bianco
Per lo stampo
burro e pangrattato
Per il cibreo
200 g di creste di pollo
100 g di “fagioli” di pollo (testicoli)
4 fegatini di pollo freschissimi
una piccola cipolla chiara
30 g di burro
un cucchiaio d’olio extravergine
d’oliva
un mestolo di brodo di pollo
1/2 cucchiaino di farina
2 tuorli
il succo di un limone
sale e pepe
82
Per prima cosa preparo lo sformato e, mentre è in cottura, anche
il cibreo. Scotto le creste in acqua salata in ebollizione per una decina di minuti, poi le passo nell’acqua fredda, le spello e le divido a pezzi. Sciacquo i fegatini e li ripulisco da nervetti e particelle di grasso (se presenti, elimino le parti macchiate di fiele), poi
li divido in quattro. Sciacquo e asciugo anche i “fagioli”.
Trito finissima la cipolla e la faccio appassire dolcemente in un tegame a fondo pesante, senza farle prendere colore, nel caso aggiungo un goccio di brodo. Quando la cipolla è ben cotta e quasi sfatta, unisco le creste, rialzo un po’ la fiamma e le faccio insaporire
per qualche minuto nel soffritto, poi bagno con un mestolo di brodo. Metto il coperchio e le faccio cuocere per circa un quarto d’ora
prima di unire anche i fegatini e i “fagioli”.
Insaporisco con sale e pepe e proseguo la cottura a fuoco dolce per
5 minuti. A questo punto il fondo dovrebbe essere un po’ ristretto ma ancora abbastanza fluido. Solo al momento di servire il cibreo frullo i tuorli con il succo di limone e mezzo cucchiaino di
farina, poi verso il miscuglio nel tegame, mescolando continuamente e velocemente e tenendo la fiamma bassissima in modo che
la salsa si addensi senza stracciare (l’aspetto deve essere quello di
una crema liscia e fluida, non di uova strapazzate!).
È sufficiente un minuto e il cibreo è pronto. Lo servo immediatamente (non si può ovviamente riscaldare) come antipasto o, come in questo caso, per completare uno sformato di spinaci (o di carciofi).
il centro - TOSCANA
sformato e cibreo
Cresta di gallo
dicono di lui
“La volpe avrebbe spelluzzicato
volentieri qualche cosa anche lei,
ma siccome il medico le aveva
ordinato una grandissima dieta, così
dovè contentarsi di una semplice
lepre dolce e forte con un
leggerissimo contorno di pollastre
ingrassate e di galletti di primo
canto. Dopo la lepre si fece portare
per tornagusto un cibreino di pernici,
di starne, di conigli, di ranocchi,
di lucertole e d’uva paradisa; e poi
non volle altro. Aveva tanta nausea
per il cibo, diceva lei, che non poteva
accostarsi nulla alla bocca”.
Da Pinocchio di Carlo Collodi
Un piatto questo che inizia il suo viaggio
sulle tavole di ricchi e altolocati. Gli sformati infatti,
e con loro i flan, hanno un’origine ben precisa, sono
stati i cuochi franco-viennesi alla corte di Maria
Luigia di Parma a inventare questo tipo
di cotture. A coniugarli poi con il cibreo, sembra
siano stati gli aretini che, come tutti i toscani, molto
amano questo piatto gustoso. Piatto assai saporito
che una volta era consigliato addirittura ai malati
perché ricco di ferro e vitamine. Oggi ahimè
il cibreo è praticamente sparito non solo dalle tavole
dei ristoranti ma anche da quelle delle case. Il suo
nome sembra arrivare dal latino gigèria che indica
l’intestino del pollo ma i francesi sostengono invece
che si tratti di civet, intingolo che a sua volta sarebbe
derivato cive, ovverosia caepa, la cipolla in latino.
È stato il cibo preferito di Caterina de’ Medici
che ne andava pazza al punto da farne una sonora
indigestione. La regina tentò in ogni modo
di esportarlo in Francia dove però non fu apprezzato,
al contrario della forchetta, fino ad allora sconosciuta
Oltralpe, della zuppa di cipolle, poi divenuta soupe à
l’oignon, e del papero al melarancio, ribattezzato
dai francesi canard à l’orange.
cibreo d’autore
Chi davvero adorava il cibreo era l’Artusi che di lui diceva: “Il cibreo è un intingolo
semplice, ma delicato e gentile, opportuno alle signore di stomaco svogliato
e ai convalescenti”. Ed ecco la sua ricetta: “Prendete i fegatini (levando la vescichetta
del fiele, creste e fagioli di pollo; le creste spellatele con acqua bollente, tagliatele
in due o tre pezzi e i fegatini in due. Mettete al fuoco, con burro in proporzione,
prima le creste, poi i fegatini e per ultimo i fagioli e condite con sale e pepe, poi brodo
se occorre per tirare queste cose a cottura. A tenore della quantità, ponete
in un pentolino un rosso o due d’uova con un cucchiaio, o mezzo soltanto, di farina,
agro di limone e brodo bollente frullando onde l’uovo non impazzisca. Versate questa
salsa sulle rigaglie quando saranno cotte, fate bollire alquanto ed aggiungete altro
brodo, se fa d’uopo, per renderla più sciolta, e servitelo.”
84
(18)
sformato di spinaci con il cibreo
* sformato di spinaci
fagioli fiorentini
“Fiorentin mangia fagioli, lecca piatti
e ramaioli (o tovaglioli)”. È una frase che,
un tempo, chi andava a Firenze sentiva
ripetere spesso. I toscani si sa amano i fagioli,
però ci tengono a distinguere. In questo caso
sembra infatti che non di fagioli si trattasse
ma di fagioli di pollo, vale a dire i testicoli
del galletto, dall’aspetto assai simile ai fagioli.
Fagioli che sembra abbiano addirittura
causato liti tra nobili famiglie. Gli Strozzi
offrirono una grande cena, durante la quale fu
servita una pietanza a base di fagioli di pollo,
allora molto ricercati. Luca Pitti, per non
essere da meno, decise quindi di far costruire
il cortile di palazzo Pitti così grande
da contenere tutto Palazzo Strozzi! Tutto per
dei “fagioli”!
Pulisco gli spinaci e li lavo più volte in abbondante
acqua corrente, poi li metto in una pentola
con la sola acqua rimasta aderente dopo il lavaggio.
Metto il coperchio e li faccio cuocere per 7-8
minuti. Li tiro su con la schiumarola e li lascio
intiepidire. Preparo una besciamella densa
con burro, farina e latte. Strizzo fortemente
gli spinaci fra le mani e li trito con il coltello (senza
frullarli), poi li unisco alla besciamella con una bella
presa di sale, il pepe e una bella grattata di noce
moscata. Aggiungo anche le uova intere
e il Parmigiano, mescolo bene e assaggio
per regolare il sale. Imburro generosamente uno
stampo con foro centrale, della capacità di 2 litri,
e lo rivesto di pangrattato.Verso il composto
di spinaci, livello la superficie e la copro con un velo
di pangrattato. Cuocio lo sformato, a bagnomaria,
nel forno a 180° per un’ora scarsa e lo lascio
intiepidire per almeno 10 minuti prima di sformarlo.
“Fagioli” di pollo (testicoli)
85
il centro - UMBRIA
(19) piccioni
ripieni
Fiammeggio i piccioni e li svuoto conservando ventrigli e fegatini, poi
ripulisco bene la pelle dalle pennette, spunto le ali e le zampe e
taglio il collo alla base. Dall’apertura superiore estraggo il gozzo
e infine lavo bene i piccioni sotto l’acqua corrente e li asciugo anche internamente. Svuoto i due piccoli ventrigli, li lavo e li trito
grossolanamente insieme ai fegatini, anch’essi lavati e asciugati.
Spello le salsicce e le raccolgo in una terrina con la mollica, bagnata
nel latte e ben strizzata, il formaggio grattugiato e l’uovo intero.
Aggiungo anche un cucchiaio di prezzemolo tritato, lo spicchio
d’aglio grattugiato, il trito di interiora, pepe e poco sale e impasto il tutto con le mani. Insaporisco l’interno dei piccioni con sale e pepe e qualche bacca di ginepro pestata e li imbottisco con il
ripieno, lasciando un po’ di spazio vuoto perché il composto si
gonfia in cottura.
INGREDIENTI PER
4-6
PERSONE
Infine chiudo l’apertura con ago e filo.
2 piccioncini novelli
di 3-400 g ognuno
2 salsicce fresche
2 cucchiai di pecorino dolce
grattugiato (o Parmigiano)
40 g circa di mollica di pane
raffermo
un uovo
poco latte
3 spicchi d’aglio
1/2 bicchiere di vino bianco secco
olio extravergine d’oliva
prezzemolo
salvia
rosmarino
bacche di ginepro
sale e pepe
86
Trito finemente qualche foglia di salvia e le foglioline di un rametto
di rosmarino e miscelo il trito con sale e pepe. Pennello i piccioni con un filo d’olio e ci faccio aderire il trito aromatico, poi li
sistemo in una piccola teglia unta d’olio con accanto gli spicchi
d’aglio in camicia.
Li passo nel forno a 180° per un’ora abbondante e, dopo la prima
mezz’ora, li spruzzo un paio di volte con poco vino bianco e li
pennello con il fondo di cottura. A cottura ultimata, copro la teglia con un foglio di alluminio e faccio riposare i piccioni per una
ventina di minuti nel forno caldo ma spento. Li servo caldi, divisi a metà o in quarti.
il centro - UMBRIA
il piccione
Il piccione altro non è che un colombo
addomesticato, un uccello già molto apprezzato
nel Medioevo quando i castelli avevano le loro
colombaie che donavano quotidianamente carne
fresca. Allora la carne di questo uccello, povera
di grassi e ricca di proteine, era considerata
una vera Delikatesse al punto da diventare merce
di scambio nelle compravendite. I migliori sono
quelli giovani, che hanno carne tenera e bianca
e pesano intorno ai tre etti, mentre quelli adulti
già ad un mese di età possono raggiungere
il mezzo chilo. Oggi l’allevamento di questi
uccelli è diventato difficile ed è questo il motivo
per cui in Italia di piccioni non se ne mangiano
quasi più.
dicono di loro
“...E piccioni arrostiti in casseruola con
i rosmarini e le patatine novelle... farciti
a lor volta, secondo una ricetta andalusa,
con l’origano, la salvia, il basilico, il timo,
il rosmarino, il mentastro, e pimento,
zibibbo, lardo di scrofa, cervelli di pollo,
zenzero, pepe rosso, chiodi di garofano,
ed altre patate ancora, di dentro, quasi
che non bastassero quelle altre messe
a contorno, cioè di fuori del deretano
del piccione; che erano quasi divenute
una seconda polpa anche loro, tanto
vi si erano incorporate, nel deretano:
come se l’uccello, una volta arrostito,
avesse acquistato dei viscere più confacenti
alla sua nuova situazione di pollo arrosto,
ma più piccolo e grasso, del pollo, perché
era invero un piccione.”
Da La cognizione del dolore di Carlo
Emilio Gadda
88
Piccioncino novello
come sceglierlo
Per prima cosa cerchiamo
di acquistare quelli più
giovani e per capirlo
osserviamo attentamente
il becco che deve essere
molto flessibile.
Poi evitiamo di portarci
a casa quelli con occhi
poco lucidi, infossati
e con le ali vizze
e stanche perché vuol
dire che il nostro
piccione ha passato molti
giorni in frigorifero.
(19)
piccioni ripieni
amori piccioneschi
Diciamolo, non è poi così facile distinguere un piccione maschio
da quello femmina. Per capire di che sesso si tratta occorre osservare
questi uccelli nel momento dell’amore; allora vedrete che il maschio
comincia a contorcersi in una bizzarra danza, si gonfia tutto
e soprattutto tuba, e la femmina è pronta a farsi rincorrere. Quindi
i due uccelli si acchiappano per il becco e piegano il collo molte volte,
in un ballo sinuoso, poi la femmina cede, si accovaccia e il maschio
la feconda. Ed ecco che arrivano le uova: due, bianche come il latte,
sono covate per 21 giorni e, pensate che civiltà, i piccioni si alternano
in questo compito, di giorno la mamma e di notte il papà.
E non finisce qui: quando i piccoli nascono sono tutti e due i genitori
a nutrirli, per i primi cinque giorni con una sorta di latticello
che hanno nel gozzo e poi anche con un misto di semi di granturco e
di grano. In un mese le creature sono pronte a volare.
Consigliamo ai nostri papà di osservare attentamente i piccioni, e
magari, perché no, provare a imitarli!
il proverbio
“Quando Sol est in leone,
Bonum vinum cum popone,
Et agrestum cum pipione”.
“Quando il sole è nel Leone,
Buono è il vino col melone,
E l’agresto col piccione”.
Piccioni farciti e conditi pronti per la cottura
chi mangia i piccioni?
Soprattutto umbri e toscani, ma anche veneti
e marchigiani. In tutte le altre regioni
il piccione è poco consumato, o addirittura
sconosciuto come ingrediente di cucina,
e si trova soprattutto nell’alta ristorazione,
dove è la base di preparazioni molto
ricercate. Nelle grandi città, per esempio
a Roma, dove quelli selvatici sono spesso
un flagello, i piccioni vengono a volte
guardati con disprezzo, nella convinzione che
quelli che finiscono in pentola siano gli stessi
che imbrattano i cornicioni e i monumenti
cittadini. Rassicuriamo i diffidenti: i piccioni
sul banco del macellaio non hanno niente
a che vedere con quelli che svolazzano,
e fanno di peggio, nelle nostre città.
89
il centro - MARCHE
(20) coniglio
in porchetta
Lavo il coniglio sotto l’acqua corrente e lo asciugo bene anche all’interno. Pulisco il finocchietto eliminando i gambi più duri e lo lavo, poi lo scotto per 4-5 minuti in poca acqua salata ben aromatizzata con gli spicchi d’aglio schiacciati. Lo scolo conservando
l’acqua di cottura, poi lo strizzo fra le mani e lo tagliuzzo grossolanamente insieme agli spicchi d’aglio.
Trito la pancetta e la faccio soffriggere dolcemente in una padella con
un cucchiaio d’olio. Quando è ben rosolata, unisco il fegato del
coniglio, tagliato a dadini, che faccio rosolare per pochi minuti prima di unire anche il finocchietto. Insaporisco con una macinata
generosa di pepe e abbondanti foglioline di maggiorana e faccio
soffriggere ancora per qualche minuto.
Spolvero l’interno del coniglio con sale e pepe e lo riempio con il
composto di verdure, distribuendolo bene in tutta la lunghezza,
poi cucio l’apertura con ago e filo. Lo sistemo in una teglia con
accanto due bei rametti di rosmarino, bagno con l’olio e lo spolvero di sale e pepe. Verso il vino sul fondo della teglia e passo il
coniglio nel forno a 180° per circa un’ora e mezzo.
INGREDIENTI PER
6-8
PERSONE
un coniglio completo di fegato
di circa 1,2 kg
250 g di finocchietto selvatico
150 g di pancetta tesa
3 spicchi d’aglio
3 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
1/2 bicchiere di vino bianco
maggiorana
rosmarino
sale e pepe
90
Durante questo tempo, giro il coniglio un paio di volte, lo bagno ogni
tanto con il fondo di cottura e, quando necessario, con qualche
cucchiaio dell’acqua di cottura del finocchietto.
Quando è pronto, lo lascio riposare per una ventina di minuti nel forno caldo ma spento, e al momento di servirlo stacco cosce e spalle e taglio a fette spesse la parte centrale. Cospargo il tutto con il
fondo di cottura.
il centro - MARCHE
coniglio marchigiano
I marchigiani amano i loro conigli e li preparano in modo davvero speciale:
seguendo la loro tradizione contadina, lo disossano a mano e poi
lo farciscono e lo condiscono con erbette profumate tra cui forte spicca
l’aroma inconfondibile del finocchietto selvatico. Deve poi essere cotto
in forno a temperatura piuttosto bassa. I marchigiani lo amano sia caldo
che freddo; freddo viene tagliato in piccoli medaglioni e servito con riso
selvatico o con piccole quenelles di ricotta ed erbette di campo, caldo è invece
accompagnato con patate arrosto, con erbette amare, con le cipolline
in agrodolce o con una fresca insalatina.
Chiudere il coniglio
con un grosso ago
e filo da cucina.
porchettare
Chi non conosce la porchetta, una delle specialità dell’Italia centrale, quel maiale
intero, disossato, farcito e condito? Quella che Carlo Emilio Gadda cita anche nel suo
Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana, chiamandola: “La porca co un bosco de rosmarino
in de la panza”? È proprio dalla porchetta che arriva il verbo “porchettare” che sta
a indicare il procedimento con cui la bestia viene lavorata, procedimento con cui poi
è possibile preparare anche conigli, agnello e certi pesci come la carpa. Per porchettare
si deve prima dissanguare l’animale e immergerlo in acqua bollente, lo si lava bene
poi lo si apre, si tolgono le viscere, si disossa e si procede a farcirlo; di solito lo si fa
con sale, aglio “con la camicia” – vale a dire non sbucciato –, milza e fegato a
tocchetti e poi erbe aromatiche, molto rosmarino, finocchio selvatico e c’è chi aggiunge
anche mandorle e amarene. Tradizione vorrebbe poi che l’animale fosse cotto in forno
a legna, a temperatura piuttosto bassa.
92
(20)
conigli di celluloide
Noi italiani, si sa, i conigli li mangiamo con gusto, così
come Roberto Benigni in Daunbailò di Jim Jarmush
che racconta: “Me l’ha insegnato a cucinare mia
mamma Isolina: rosmarino, olio, aglio e... i segreti
di Isolina!”. Mentre Renato Pozzetto ne Il ragazzo
di campagna, di Castellano e Pipolo, strilla alla madre:
“Ma è possibile che ogni volta che muore un gatto,
tu mi cucini sempre il coniglio?”. Gli americani invece
conigli non ne mangiano, piuttosto li trasformano
in star del cinema. E allora ecco Roger Rabbit, il più
simpatico dei conigli cinematografici. Frank, il coniglio
gigante che salva la vita a Donnie in Donnie Darko,
ma ci sono anche i coniglietti famelici
che si nascondono nel frigorifero di Wallace in Wallace
e Gromit: La Maledizione del Coniglio Mannaro, per non
parlare del coniglio assassino di Monty Python e il Sacro
Graal, e soprattutto di Harvey, il gigantesco coniglio
bianco, amico immaginario e molto amato
dall’indimenticabile James Stewart nel film omonimo.
Sono però i conigli “animati” quelli preferiti
dagli americani, dal Bianconiglio di Alice nel Paese
delle Meraviglie, a Tippete, quel bianco batuffolino amico
del cuore di Bambi, fino ad arrivare al coniglio più
famoso e più vecchio del mondo: nato nel 1938,
è l’inconfondibile Bugs Bunny, l’eterno mangiacarote.
Come meravigliarsi poi se gli americani preferiscono
non mangiare conigli?
Maggiorana
coniglio in porchetta
Finocchietto selvatico
dicono del coniglio
“La domenica, verso
mezzogiorno, dalle finestre
della via Cavour esce
un profumo squisito di coniglio
in umido, col vino. Il sugo
di coniglio è l’ideale
per la polenta, va giù come
una lettera nella buca postale.”
Da L’Uovo alla kok di Aldo
Buzzi, scrittore e architetto
italiano
“Spella un coniglio morto
e puliscilo degli intestini,
poi mettilo su uno spiedo
a cuocerlo lentamente
e quando pensi che sia
davvero morto, devi salarlo,
peparlo e servirlo
con della polenta un po’ dura.
Nota: tutte le parti del coniglio
morto possono essere
mangiate.”
Da Il Codice Romanoff
di Leonardo Da Vinci
93
il centro - MARCHE
(21) calcioni
Il giorno precedente grattugio il pecorino stagionato e passo alla grattugia a fori larghi quello fresco. Raccolgo ambedue in una terrina, unisco lo zucchero, le uova, il succo e la scorza grattugiata di
limone e amalgamo molto bene. Sigillo la terrina con la pellicola
e faccio riposare il composto in frigorifero per un giorno intero.
Per la pasta, setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci
metto le uova, lo strutto a fiocchetti, lo zucchero e il succo di limone. Amalgamo un po’ gli ingredienti con la forchetta portando poca farina verso il centro e poi impasto per qualche minuto.
Formo una palla e faccio riposare la pasta per una mezz’ora, avvolta nella pellicola.
INGREDIENTI
Per la pasta
400 g circa di farina 00
3 uova piccole (o 2 grandi)
30 g di strutto
un cucchiaio colmo di zucchero
il succo di 1/2 limone
Per il ripieno
300 g di pecorino fresco
(tipo caciotta)
200 g di pecorino dolce stagionato
150 g di zucchero
3 uova
un grosso limone
con la scorza non trattata
un tuorlo per dorare
94
Divido la pasta in tre pezzi e li passo alla macchinetta partendo dal
primo spessore e via via attraverso tutti gli altri fino al penultimo.
Dalle strisce di pasta ritaglio dei dischi di 12 cm (rimpasto i ritagli) e metto su ognuno una bella noce di ripieno. Pennello il perimetro con poca acqua e chiudo a mezzaluna, premendo bene per
saldare la pasta .
*
Dispongo queste mezzelune su una placca foderata di cartaforno e
le pennello con il tuorlo diluito con un cucchiaio di acqua, poi
con le forbici faccio due taglietti incrociati sulla sommità di ognuno (durante la cottura uscirà una parte di formaggio). Metto la
placca nel forno a 180° e faccio cuocere per circa 20 minuti. Sono buoni tiepidi o freddi.
*
il centro - MARCHE
le marche dolci
I dolci marchigiani sono dolci
di tradizione antica, dolci curiosi dai nomi
spesso bizzarri. Oltre ai calcioni infatti c’è
il salame di fico, assai apprezzato
da Giacomo Leopardi, a base di fichi
secchi a cui si aggiunge rum e mistrà,
mandorle e noci trite, per finire avvolto
proprio come un salame nelle foglie
di fico. Altro dolce di tradizione è la serpe,
pasta di mandorle a forma di serpente,
glassata con albumi a neve e zucchero.
Erano le monache Clarisse a produrle
e venivano regalate ai cresimandi: è infatti
un dolce dalla forte simbologia religiosa,
laddove la forma evoca il peccato originale
e quindi mangiarlo per la cresima voleva
dire cacciare dalla propria anima il peccato.
Ci sono quindi i cavallucci, a forma
di cavalluccio marino, che si mangiano
nel periodo invernale, gli ungaracci,
bastoncini di 20-30 centimetri
confezionati con semi d’anice, uvetta,
farina di mais e zucchero, e alla fine
una spruzzatina di Alchermes, e i sughetti,
ottenuti dal mosto bollito a cui vengono
aggiunti mandorle, pinoli, semi di zucca
e noci.
la poesia
“Li fa de cecio co’ na dose justa,
de cascio, de ricotta, quilli gusta!
Sulo a pensacce pare de magnali
E te fa satollà sinza proalli.”
Dalla poesia Montejorgio
Cacionà di Giorgio Capecci
Chiudere i dischi a mezzaluna,
*premendo
bene intorno al ripieno
96
(21)
calcioni
il pecorino
* Con le forbici, incidere la sommità dei calcioni con due tagli incrociati
Uno dei formaggi più amati dagli italiani,
tanto che uno dei suoi estimatori
era il papa Pio II, al secolo Enea Silvio
Piccolomini, che amava mangiarlo
con le pere, con il miele, con le fave
e con le noci. Una volta si chiamava
semplicemente “cacio” e ogni produttore
aveva le sue ricette segrete, tramandate
da padre in figlio quasi fossero preziosi
tesori di famiglia. Ancora oggi c’è
chi adopera cagli vegetali, come il cuore
del carciofo, per la coagulazione del latte,
che deve essere rigorosamente di pecora.
Nel pecorino morbido la cagliata è rotta
in chicchi grandi quanto una nocciola,
mentre in quello a pasta dura i chicchi
hanno la misura di quelli di granturco.
La stagionatura si fa in stanze fresche
e umide: quattro mesi per il pecorino
a pasta dura, almeno tre settimane
per quello morbido. Un formaggio
comune a tutta l’Italia centrale, e che nelle
osterie toscane veniva chiamato “cacio
da vino”, mentre le massaie chiedevano
anche quello “da grattugiare”, che serviva
a condire la pastasciutta.
formaggi marchigiani
Storia antica quella dei formaggi delle Marche, almeno quanto la pastorizia stessa.
Si sa per certo per esempio che questi caci erano già apprezzati nella Roma di Augusto
e che nel XVI secolo Michelangelo era un grande estimatore della casciotta di Urbino
che amava mangiare a primavera, quando era più fresca e saporita. Ancora oggi, nel nord
di questa regione è possibile gustare i pecorini fatti stagionare per tre mesi nelle botti
di rovere, avvolti in foglie di noce o messi a strati con erbe aromatiche e vinacce. Ma non
di soli pecorini vivono i marchigiani: ci sono anche formaggi più di nicchia come il casecc,
lo slattato, il raveggiolo e soprattutto il cacio in forma di limone, che risale addirittura al Medioevo,
e viene citato anche da Bartolomeo Scappi, cuoco alla corte papale nel XVI secolo.
97
il centro - LAZIO
(22) fagioli
con le cotiche
Metto i fagioli a bagno in abbondante acqua tiepida e li lascio ammollare per almeno 8 ore, poi li sciacquo, li verso in una casseruola e li copro di acqua fredda che sopravanzi di due dita. Unisco uno spicchio d’aglio in camicia, faccio alzare il bollore poi
abbasso la fiamma al minimo e li faccio cuocere, a fuoco dolcissimo, per circa 2 ore o finché sono teneri, unendo il sale nell’ultima mezz’ora.
*
Prima di cuocere le cotenne , è necessario sgrassarle bene. Tenendo quindi di piatto un coltello ben affilato, elimino completamente la parte grassa loro aderente (diventeranno sottilissime e
quasi trasparenti), poi le scotto per 5-6 minuti in acqua non salata. Le scolo, le taglio a strisce e le faccio lessare in abbondante
acqua, non salata, inizialmente fredda, per un’ora circa fino a
quando sono tenere, setose e ben idratate.
INGREDIENTI PER
6
PERSONE
300 g di fagioli bianchi secchi
qualche cotenna di prosciutto
un cucchiaio d’olio extravergine
d’oliva
30 g di grasso di prosciutto
(o pancetta)
200 g di passata di pomodoro
una piccola cipolla
2 spicchi d’aglio
prezzemolo
sale e pepe
98
Trito la cipolla, frullo il grasso di prosciutto con uno spicchio d’aglio
e una manciatina di prezzemolo e verso il tutto in un tegame con
l’olio. Faccio rosolare dolcemente e, quando la cipolla comincia
a prendere colore, unisco la passata di pomodoro, insaporisco con
sale e pepe e faccio cuocere il sughetto per un quarto d’ora prima di unirvi i fagioli sgocciolati e le cotenne.
Mescolo, metto il coperchio e faccio cuocere, a fuoco dolce, per
una ventina di minuti unendo, se necessario, qualche cucchiaio
dell’acqua di cottura dei fagioli. Porto in tavola i fagioli caldissimi, nello stesso recipiente di cottura. Sono squisiti, una vera
ghiottoneria!
il centro - LAZIO
Fagioli bianchi cotti
la poesia
“In questa tomba tenebrosa e scura
Giace un villano di sì difforme aspetto,
Che più d’orso che d’uom avea figura;
Ma di tant’alto e nobile intelletto
Che stupir fece il mondo e la natura.
Mentr’egli visse e fu Bertoldo detto,
Fu grato al re; morì con aspri duoli
Per non poter mangiar rape e fagioli.”
Da Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno
di Giulio Cesare Croce
Eliminare completamente
il grasso aderente alle cotiche
100
lazio, fagioli e cotiche
Già gli Etruschi tenevano in gran considerazione
i fagioli che tritavano e usavano come condimento
da gustare insieme alla carne di maiale
e, presumibilmente, alle cotiche. Non parliamo poi
dei gladiatori che, secondo recentissime scoperte,
sembra mangiassero pochissima carne e moltissimo
orzo e fagioli. Insomma la storia vuole che il gladiatore
fosse grasso, e non tonico e muscoloso come vorrebbe
farci credere Russel Crowe. La ciccia serviva loro come
seconda corazza quindi via libera a tutto ciò
che li avrebbe fatti ingrassare: polente, cereali
e soprattutto fagioli, con le cotiche naturalmente!
Ancora oggi questa accoppiata vincente non manca
mai nelle tante sagre che si svolgono nelle varie
cittadine laziali, come quella di Sutri, patria del fagiolo
della Regina, un saporito borlotto considerato in passato
come portafortuna dai poteri miracolosi, un fagiolo
apprezzato addirittura da Carlo Magno
che, di passaggio a Sutri, fu colpito da un terribile
attacco di gotta, che tentò di guarire con qualsiasi
mezzo senza riuscirci, finché non assaggiò il magico
fagiolo della Regina. Non è dato sapere se con o senza
cotiche, ma oggi a Sutri il piatto più famoso
della sagra sono i fagioli alla poverina: olio, sale, pepe,
cipolle e tante cotiche.
(22)
fagioli con le cotiche
* fai così
Cotiche lessate
1 Questo piatto viene preparato più
frequentemente con le cotenne di maiale
fresche, che hanno bisogno soltanto
di una breve lessatura prima di essere unite
ai fagioli ma, vi assicuriamo – ed è facilmente
intuibile – che, con quelle di prosciutto, i fagioli
sono tutta un’altra cosa.
2 Le cotenne di prosciutto non si comprano
ma si chiedono al salumiere che le regala ben
volentieri e, tanto più il prosciutto è buono
e di qualità, tanto più le cotenne sono buone
e profumate.
3 La loro preparazione è più facile da fare
che da spiegare e anche chi teme i grassi, vero
spauracchio della nostra epoca, può stare
tranquillo perché, se ben ripulite come
spiegato nella ricetta, sono composte
essenzialmente da collagene, una proteina
molto complessa componente essenziale
degli strati dell’epidermide e del derma.
cotiche chic
È stata Caterina de’ Medici a portare in Francia, tra le altre
cose, i fagioli, che furono subito molto apprezzati, al punto
che in Linguadoca ne hanno fatto un piatto simbolo,
la cassoulet di Castelnaudary, una versione più chic e raffinata
dei nostrani fagioli con le cotiche. Eccovi la ricetta.
Ricopriamo i fagioli, che devono essere rigorosamente lingot,
una specie francese, con l’acqua fredda e facciamoli bollire
per 5 minuti. Buttiamo l’acqua e copriamo di nuovo
con acqua tiepida a cui aggiungiamo le cotiche, la salsiccia
di cotica, il garretto di porco, una testa d’aglio e un po’
di lardo tritati insieme. Saliamo e facciamo cuocere per circa
due ore. Intanto sgrassiamo il confit d’oca, riempiamo a strati
la cassole – la tipica pentola di terracotta senza la quale
la cassoulet non esiste –, di fagioli, brodo, carni, confit
eccetera. Bagniamo con il liquido di sgrassatura ancora caldo
e finiamo con uno strato di pangrattato. Mettiamo in forno
e lasciamo cuocere finché non si forma la crosta. Un riuscito
incrocio tra la cassoeula, un classico della cucina lombarda,
e i ruspanti fagioli con le cotiche laziali.
dicono
dei fagioli
“Tutti i legumi
abbassino la testa
dando al fagiolo
il posto più eminente,
che sublime fra loro
alza la cresta”.
Da La Fagiuolaja
di Giovanni Battista
Fagiuoli
101
il centro - LAZIO
(23) pollo
con i peperoni
Fiammeggio il pollo, ripulisco la pelle dalle pennette, spunto le ali e
lo divido in ottavi incidendolo ove è possibile nelle articolazioni,
poi lo lavo e lo asciugo per bene. Dopo averli incisi alla base, tuffo i pomodori per pochi secondi in acqua in ebollizione, poi li
passo nell’acqua fredda, li spello e li spezzetto eliminando i semi.
Lavo i peperoni, li apro ed elimino i semi e le nervature chiare,
poi li taglio a strisce.
6
DVD
Scaldo l’olio in un tegame largo a fondo pesante e faccio imbiondire dolcemente gli spicchi d’aglio schiacciati. Quando hanno preso colore, li elimino, rialzo la fiamma e metto nel tegame i pezzi
di pollo. Li faccio rosolare bene da tutte le parti girandoli quasi
di continuo e, quando il pollo ha preso un bel colore uniforme,
verso il vino e lo faccio sfumare. Insaporisco la carne con sale e
pepe e unisco i pomodori mettendoli nel fondo del tegame.
INGREDIENTI PER
6
PERSONE
un pollo pronto per la cottura
di circa 1,5 kg
400 g di pomodori estivi
ben maturi
3 peperoni estivi di colori assortiti
4 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
2 spicchi d’aglio
1/2 bicchiere di vino bianco
prezzemolo
basilico
sale e pepe
102
Faccio andare per qualche minuto e infine aggiungo i peperoni e due
ciuffi di basilico. Salo le verdure, poi abbasso un po’ la fiamma
(ma non al minimo), metto il coperchio e faccio cuocere per circa tre quarti d’ora, fino a quando il pollo sarà tenero e la preparazione giustamente asciugata.
Se necessario tolgo il coperchio e faccio ritirare un po’ il sugo a fuoco vivo. Al momento di portare il pollo in tavola, elimino il basilico e spolvero con il prezzemolo tritato.
il centro - LAZIO
Peperone rosso, verde e giallo
pollo e peperoni
Un piatto ruspante, verace, anche un po’ rozzo, certamente pesante, che ai romani
intenerisce il cuore. E qualsiasi vero romano lo sa: il pollo coi peperoni è buono
soprattutto a Ferragosto, a pranzo, quando fuori il sole picchia e il termometro segna
non meno di 35 gradi. Anzi, per i romani di tradizione, è proprio il giorno di ferragosto
che questo piatto è di rigore. Il menu classico di questa festa, oltre al pollo coi peperoni,
comprende di solito i pomodori con il riso, cotti al forno su un letto di patate, poi
la parmigiana di melanzane e alla fine, per pulire la bocca, una bella fetta di cocomero.
Perché il romano, che gastronomicamente parlando è un masochista neanche tanto
represso, a tavola vuole soffrire godendo, o godere soffrendo. E allora un buon pollo coi
peperoni deve fare sudare, per lui insomma si deve quasi rischiare il colpo apoplettico,
e dopo averlo mangiato, buttarsi immediatamente sul letto prima dell’inizio
della digestione, sonno da cui ci si sveglierà con un cerchio alla testa, un senso
di pesantezza, il desiderio, regolarmente esaudito, di non fare nulla, ma proprio nulla
per il resto della giornata. Ma il romano lo sa, sono anche queste le gioie del palato.
Il pollo tagliato in otto parti
la poesia
“Preparate li piatti, er pane, er vino,
e co’ li piedi sotto ar tavolino
nun ve sturbi l’odore: su, magnate!
Ve sembrerà più buono di sapore
Se lo magnate in due: core a core
Attaccate sto’ pollo: core a core...
Ve tornerà er sorriso
e er buonumore!”
Da Pollo alla romana
di Alfredo Bargagli
104
(23)
pollo con i peperoni
il pollo
Povero pollo, di lui si dice tutto il male possibile: “far ridere i polli”, “conosco i miei
polli”, “essere un pollo”, “andare a dormire coi polli”, poi ci si sono messi di mezzo
anche gli allevamenti intensivi e l’aviaria a dare una brutta reputazione a un animale così
versatile e generoso. E la vita ce l’ha avuta difficile fin dall’inizio. Ha iniziato ad essere
addomesticato più di 6.000 anni fa, nella valle del fiume Indo, ma nessuno lo mangiava,
lo si faceva combattere e si gustavano le sue uova, così come in Persia, in Grecia
e nell’antica Roma. Qualche ricetta a base di pollo la troviamo documentata da Apicio,
ma poca roba, perché i Romani gli preferivano i fagiani, le pernici, i pavoni e le faraone.
E al povero pollo non restava che essere sacrificato agli dei. Fu solo nel XVII secolo
che cominciò ad apparire sulle tavole dei ricchi, come simbolo di agiatezza. Ma la sua
fortuna durò pochi secoli, fino alla fine degli anni Sessanta dello scorso secolo, poi
l’hanno rinchiuso in gabbie, alimentato a forza e tenuto fermo, su lui si sono fatti
esperimenti per svilupparne i petti col risultato che i polli odierni sono mostri con seni
ipertrofici e zampe striminzite. Ma chi ancora ricorda i polli ruspanti, sa che si tratta
di una vera leccornia!
Pollo ruspante
come sceglierlo
Vista acuta e un buon tatto, ecco cosa ci vuole oggi per scegliere un buon
pollo. Per prima cosa infatti le sue carni devono essere sode ed elastiche,
mai mosce. La pelle poi secca e non appiccicosa, e le giunture chiare
e non rossastre, come spesso accade nei polli da supermercato.
Molto importante è che le ossa del petto siano flessibili solo nella parte
inferiore e ben rigide in quella superiore, e che le unghie siano un po’
consumate, segno che il pennuto ha potuto zampettare liberamente a terra.
105
il sud
agnello cacio e uova - ABRUZZO
pepatelli - MOLISE
ciambotta - BASILICATA
polpetielli affogati - CAMPANIA
zeppole di san giuseppe - CAMPANIA
fave e cicoria - PUGLIA
pitta ripiena - CALABRIA
polpette di melanzane - CALABRIA
il sud - ABRUZZO
(24) agnello
cacio e uova
*
Disosso il cosciotto e la spalla e taglio la carne a pezzi regolari delle dimensioni di un piccolo uovo. Infarino molto leggermente i
pezzi di carne e contemporaneamente metto sul fuoco un tegame
a fondo pesante con l’olio. Quando l’olio è caldo, unisco la carne, gli spicchi d’aglio schiacciati e un rametto di rosmarino.
6
DVD
Tengo la fiamma moderata e giro spesso i pezzi di carne in modo che
si colorino in maniera uniforme e, quando sono ben dorati, insaporisco con sale e pepe e verso il vino sul fondo del tegame. Quando è sfumato, metto il coperchio, abbasso la fiamma a proseguo
la cottura fino a quando la carne è tenera (circa 30 minuti). Controllo spesso e unisco un paio di cucchiai di acqua calda quando
necessario, tenendo conto che il fondo deve rimanere fluido.
Rompo le uova in una scodella e le batto con il pecorino. Quando la
carne è pronta, ritiro il tegame dal fuoco, elimino l’aglio e, mescolando con una spatola, unisco le uova continuando a mescolare fino a quando si sono rapprese diventando cremose.
INGREDIENTI PER
4 PERSONE
un cosciotto e una spalla di agnello
da latte (complessivamente
circa 1,2 kg)
4 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
1/2 bicchiere di vino bianco
un cucchiaio di farina
2 spicchi d’aglio
rosmarino
sale e pepe
Per la salsa
2 uova freschissime
50 g di pecorino grattugiato
108
il sud - ABRUZZO
passioni abruzzesi
la poesia
La più celebre, la più studiata,
la più recitata poesia su pastori
e transumanza.
Scritta da un abruzzese doc.
“Settembre, andiamo. È tempo
di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
[...]
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
la greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori.
Ah perché non son io cò miei pastori?”
Da I Pastori di Gabriele D’Annunzio
110
Quella degli abruzzesi per la pecora,
l’animale maggiormente allevato di questa
regione, è più di una passione, è amore,
che si manifesta nei tantissimi piatti
a base di agnello di questa regione.
E la pecora abruzzese vuole cotture lente,
preferibilmente alla brace. Ci sono
gli arrosticini – piccoli spiedini –,
lo strepitoso agnello cace e ove, quello
incaporchiato, le turcenelle – interiora di agnello
fatte in umido –, le paliate, budelline di
agnello da latte. L’agnello può essere
“porchettato”, “alla neretese” – con un
intingolo alla diavola –, “alla callara”
– cotto in tegame con molti odori –;
ma si cucinano anche le cuccette, un piatto
a base di testine d’agnello, la pecora agliu
cotturu, con peperoncino, salvia, ginepro,
rosmarino, timo e alloro e la mistica,
un carpaccio di pecora messo sotto sale
ed essiccato.
Rosmarino
(24)
agnello cacio e uova
fai così
L’agnello cacio e uova è un piatto semplice
e rustico ma che richiede comunque qualche
attenzione.
1 La cosa più importante è la scelta della
carne, che dovrebbe essere agnello da latte
che non abbia quindi mai mangiato erba.
2 Prestare attenzione alla cottura della salsa
d’uovo e formaggio, che non deve diventare
come uova strapazzate, ma rapprendersi
rimanendo cremosa. Se il calore non è
sufficiente, rimettere il tegame sul fuoco
al minimo, mescolando continuamente
con la spatola.
3 È un piatto che non può ovviamente essere
riscaldato ma si può comunque preparare
in anticipo, aggiungendo il miscuglio di uova
e formaggio all’ultimo momento, dopo aver
scaldato la carne.
4 La carne di agnello è buona se ben calda,
è perciò consigliabile portare in tavola
la preparazione nello stesso recipiente
di cottura.
la transumanza
Una volta il fenomeno
della transumanza ce lo spiegavano
a scuola, nell’ora di geografia quando
si studiava l’Abruzzo; oggi
la transumanza non esiste più,
e neanche la geografia. Ogni anno
le greggi migravano dalle montagne
dell’Abruzzo verso le pianure
del Tavoliere delle Puglie, e viceversa,
estate e inverno. Quando iniziava
a far caldo i pastori portavano
le loro pecore a brucare verso pascoli
più verdi, e all’inizio della stagione
fredda le riportavano verso climi più
miti. Il viaggio, che avveniva sui
tratturi, ampi sentieri d’erba o in terra
battuta, scavati dal passaggio
degli animali, durava molti giorni
e le greggi si fermavano a riposare,
insieme ai loro custodi, in luoghi
prestabiliti, chiamati stazioni di posta.
Oggi questa usanza sopravvive solo
in aree molto ristrette del Piemonte,
della Valle d’Aosta, della Svizzera
italiana, del Lazio e della Sardegna.
* Disossare il coscio di agnello
111
il sud - MOLISE
(25) pepatelli
Scaldo un po’ il miele per renderlo fluido. Setaccio la farina bianca
sulla spianatoia e la miscelo con quella integrale e con le mandorle, poi faccio la fontana, ci verso il miele e di seguito ci metto un pizzico di sale, la scorza di arancia grattugiata e un’abbondante macinata di pepe.
Impasto a lungo fino a che gli ingredienti sono ben distribuiti, poi
divido il composto in tre pezzi e modello altrettanti filoncini piatti larghi 5 cm e alti 2. Li trasferisco sulla placca rivestita di cartaforno e li passo nel forno a 180° per 30 minuti.
A cottura ultimata, sforno i filoncini e, ancora caldi, li taglio a fette oblique di circa un cm. Allineo i pepatelli sulla placca e li passo per 5 minuti nel forno caldo ma spento. Li faccio ben raffreddare su una griglia prima di chiuderli in una scatola di latta dove si conservano a lungo.
Come dice il nome di questi biscottini, il pepe si deve abbastanza
sentire ed è gradevole l’abbinamento di questa spezia con la scorza di arancia ma, per chi non lo gradisce, i pepatelli sono altrettanto buoni anche nella versione con la cannella (un cucchiaino
da tè).
INGREDIENTI
150 g di farina 00
150 g di farina integrale
300 g di miele
300 g di mandorle non pelate
la scorza di un’arancia non trattata
sale e pepe
112
il sud - MOLISE
Impasto dei pepatelli
la mostarda d’uva
i dolci molisani
Una regione spesso dimenticata il Molise, la più
piccola d’Italia dopo la Valle d’Aosta, spesso
aggruppata all’Abruzzo e considerata poco più
di un’appendice di quest’ultimo. Ed è un peccato
perché è invece una regione che ha molto da offrire,
anche gastronomicamente. E i dolci sono forse
il suo patrimonio più ricco in cucina. Assai famosi
sono i cauciuni, piccoli tortelli ripieni di pasta
di ceci, i picellati, farciti di miele, noci e mandorle
e poi profumati con la scorza di arancia
e la cannella. Sono tanti e tutti buonissimi anche
i dolci che accompagnano le festività: la pigna
e i casciatelli pasquali, la cicerchiata e le caragnole, fatte
con sottili fettucce di pasta, a Natale, e soprattutto
le ostie farcite, le più natalizie di tutti, cialde farcite
di mandorle e noci da mangiare accompagnate
da vini locali. La regione poi ama il miele e tanti
sono gli apicoltori che lo lavorano. Da non
dimenticare i confetti di Agnone, fatti
con la mandorla riccia, forse non così noti come
quelli di Sulmona ma altrettanto buoni,
e la ciambella, nel cui impasto non manca mai
il vino rosso. Un dolce da prima colazione.
114
È una marmellata molto aromatica
che nasce proprio dalle fertili terre
e dai vigneti di questa regione.
La tradizione vuole che sia fatta
con le uve di Montepulciano, quelle
che non diventano vino. Gli acini
di quest’uva vengono cotti a lungo
con poco zucchero, finché le bucce
si fanno morbide e gli acini
si sfaldano. I molisani amano
mangiarla pura, a cucchiaiate, oppure
come dessert insieme ai loro dolci
più famosi.
Scorza d’arancia
(25)
pepatelli
far pepino
Molti sono i detti legati
al pepe, uno dei più curiosi
è senza dubbio la frase
“far pepino”: oggi caduta
in disuso, indicava il gesto
di chiudere le punte
delle dita, come a voler
prendere un grano di pepe:
“fai pepino, se ti riesce”
si diceva a chi era
intirizzito dal freddo,
mentre “non farebbe
pepino a luglio” indicava
una persona buona a nulla.
Filoncini appena sfornati
pronti per essere tagliati
il pepe
Una delle spezie più antiche, e anche una delle più care,
tanto che nel Medioevo si usava dire “caro come
il pepe”. Lo si vendeva, il pepe, a peso d’oro e costituiva
moneta di scambio, perché arrivava da terre lontane,
le coste del Malabar, nel sud dell’India, e il suo
trasporto era lungo e difficoltoso. Il suo commercio
fu per secoli prerogativa esclusiva degli Arabi, che mai
rivelarono il segreto della sua provenienza e che,
con i guadagni ottenuti da questa spezia, costruirono
le loro meravigliose città. Fu poi Vasco da Gama
a centrare il bersaglio; arrivato nel Malabar, quando
gli fu chiesto che cosa fosse venuto a cercare, rispose
lapidario: “Dei cristiani e del pepe”. La sua coltivazione
iniziò tardi, nel 1750, grazie a un botanico francese,
che, pensate che coincidenza, di nome faceva Pierre
Poivre, al secolo Piero Pepe!
la poesia
“...pe la strade, la ggende
va cundende:
- Ahùrie mastr’Ando’...
mannagge che nenguende!
faciàmece nu litre nghe ddotre papatìlle
... quist’anne fa nu fradde
che fa ‘rbevi’ li ‘nguille.”
“...per la strada,
la gente va contenta:
- Auguri mastro Antonio...
mannaggia che nevicata!
facciamoci un litro con due
o tre pepatelli
... quest’anno fa un freddo che
fa tornare in vita le anguille.”
Da Il Natale di Alfonso
Sardella
115
il sud - BASILICATA
(26) ciambotta
Lavo le melanzane e le taglio in orizzontale a fette di un cm, poi le
spolvero di sale e le lascio spurgare per un’oretta dentro il colapasta (perderanno un po’ di acqua di vegetazione e assorbiranno meno olio in frittura). Lavo i peperoni e li taglio a strisce eliminando i semi e le nervature chiare. Sbuccio le patate, le taglio a tocchetti e le tengo in attesa immerse nell’acqua.
Incido i pomodori alla base con un taglio a croce, li tuffo per pochi
secondi in acqua in ebollizione e poi li passo nell’acqua fredda, li
spello e li tagliuzzo eliminando i semi.
Metto sul fuoco la padella con abbondante olio. Sciacquo le melanzane e le strizzo dentro un panno e, quando l’olio è ben caldo, le
friggo fino a leggera doratura, poi le scolo e nello stesso olio friggo prima le patate, ben asciugate, e poi i peperoni. Via via che le
scolo, passo le verdure su un doppio foglio di carta da cucina.
INGREDIENTI PER
4 PERSONE
2 grossi peperoni carnosi
300 g di melanzane scure
300 g di patate a polpa gialla
300 g di pomodori da salsa
ben maturi
2 spicchi d’aglio
basilico
sale
Per friggere
olio d’oliva
116
Raccolgo i pomodori in una padella con 2 ciuffi di basilico e gli spicchi d’aglio schiacciati, poi metto la padella sul fuoco e dopo qualche minuto aggiungo tutte le verdure fritte. Salo e faccio cuocere
la ciambotta, a fuoco dolcissimo, per una mezz’ora, mescolando
delicatamente ogni tanto.
Preparo la ciambotta solo in estate inoltrata quando melanzane, peperoni e pomodori maturati al sole sono in piena stagione, e li friggo con un buon olio d’oliva saporito, e allora questa semplice preparazione diventa uno straordinario piatto unico da accompagnare con fette di pane casereccio.
il sud - BASILICATA
Peperoni, melanzane
e patate fritti
la lucana
Eccolo qui il piatto simbolo
di una delle regioni più povere
del nostro Paese, la Lucania
o Basilicata. Piatto poverissimo
fatto con patate, peperoni,
pomodori, melanzane, cipolle
e zucchine, una sorta di stufato
di verdure di solito accompagnato
da pezzetti di pane, un vero
trionfo di orti mediterranei.
In Lucania ne esiste anche
una versione più antica e più hard,
eredità dei pastori di questa
regione. Peperoni, melanzane
e pomodorini venivano soffritti
insieme a cipolla, salsicce e uova,
questo corposo piatto era poi
messo dentro a un panello a cui
era stata levata la mollica,
di modo da poter essere portato
al pascolo e consumato insieme a
un buon bicchiere di vino rosso.
Ancora oggi questa ciambotta la
troviamo in alcuni paesi,
da San Costantino Albanese,
a Terranova del Pollino,
a Noepoli. Sempre lucana è poi
la ciauledda, una ciambotta a cui
vengono aggiunti fagiolini verdi.
c’è ciambotta e ciambotta
Non solo in Lucania si mangia la ciambotta, si tratta infatti
di un piatto comune a tutte le regioni dell’Italia meridionale,
con qualche differenza.
C’è la ciambotta cilentina, della zona intorno a Benevento,
fatta con le zucchine, le foglie della bietola, i fagiolini e le patate.
Quella napoletana, la cianfotta, piatto apparentato alla ratatouille
francese, di cui è probabilmente un adattamento voluto dai monsù,
i cuochi francesi delle case aristocratiche napoletane. La si mangia
di solito come accompagnamento del lesso freddo. Anch’essa
a base di pomodori, melanzane, peperoni, zucchine, patate e cipolle
fatte stufare in olio e sugna, per un’ora abbondante e a fuoco
lento. Alla fine la si cosparge con basilico, prezzemolo e origano.
Il segreto è farla intiepidire a lungo, ancora meglio
farla raffreddare completamente prima di mangiarla, in modo
che tutti i sapori e i profumi dell’orto si fondano nel piatto.
Basilico
118
(26)
ciambotta
la ciambotta pugliese
Discorso a parte merita invece la ciambotta pugliese.
In questa regione infatti la ciambotta la fanno
con il pesce. Non esiste di questo piatto una ricetta
codificata perché ogni famiglia ha la sua. È uno di quei
piatti di “recupero”, un piatto povero dei pescatori
che buttavano insieme nella pentola tanti tipi di pesce
e frutti di mare, poi ci aggiungevano un peperone verde,
pomodori e acqua di mare. Et voilà la ciambotta pugliese,
che ben racconta il felice incontro di tanti pesci poco
pregiati, quelli che i pescatori non riuscivano a vendere
al mercato. Oggi naturalmente la ciambotta pugliese
si è raffinata: non più pescetti di scarto ma triglie,
seppie, coda di rospo, scorfani, cicale, polpi,
cannolicchi, dentici, gronchi, calamaretti, vongole
e cozze. Un piatto ricco e saporitissimo.
Da accompagnare con pane fresco del Gargano
o di Altamura.
Baccalà ammollato
Uvetta
baccalà alla potentina
Metto ad ammollare una manciata
di uvetta e sciacquo bene una cucchiaiata
di capperi sotto sale. Affetto sottili
2 belle cipolle e le faccio ben appassire
in un tegame con 3 cucchiai d’olio
extravergine d’oliva. Le salo e le faccio
cuocere a fuoco dolce per almeno
20 minuti, mescolando spesso
e controllando che non prendano colore.
Intanto ripulisco dalle spine
un chilo di baccalà ammollato e lo taglio
a pezzi piccoli senza eliminare la pelle.
Quando le cipolle sono pronte, metto
nel tegame 300 g di pelati sminuzzati,
insaporisco con una macinata di pepe,
rialzo la fiamma e faccio cuocere la salsa
per qualche minuto prima di unire
il baccalà, i capperi, l’uvetta, strizzata
e asciugata, e 100 g di olive nere dolci.
Metto il coperchio e faccio cuocere
dolcemente per 10-15 minuti. Servo
la preparazione nello stesso recipiente
di cottura.
119
il sud - CAMPANIA
(27) polpetielli
affogati
Per pulire i polpi rovescio la sacca e la svuoto, poi con la punta di
un coltellino tolgo gli occhi e il becco al centro dei tentacoli. Li
lavo sotto il getto dell’acqua e li lascio ben sgocciolare.
Dopo averli incisi a croce alla base, tuffo i pomodori per pochi secondi nell’acqua in ebollizione, poi li passo nell’acqua fredda, li
pelo e li spezzetto eliminando i semi.
Sistemo i polpi in una casseruola a fondo pesante e unisco l’olio, i
pomodori, gli spicchi d’aglio spellati e schiacciati, due prese di
sale e il peperoncino sminuzzato. Tappo la casseruola prima con
un doppio foglio di carta paglia, poi con il coperchio con sopra
un peso, in modo che durante la cottura non esca nemmeno un
filo di vapore.
Metto la casseruola sul fuoco con la fiamma regolata al minimo e
lascio cuocere i polpi per un’ora scarsa, senza mai scoprire la casseruola.
A fine cottura si sarà formato molto sugo scuro e liquido, tiro su i
polpi e faccio restringere il sugo a fuoco vivace e senza coperchio,
poi rimetto i polpi nella casseruola e li servo spolverati di prezzemolo tritato.
INGREDIENTI PER
4-5 PERSONE
un kg di piccoli polpi veraci
800 g di pomodori ben maturi
3-4 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
2 spicchi d’aglio
prezzemolo
un peperoncino
sale
120
Il sugo emesso dai polpi cucinati in questo modo è molto saporito
e profumato e mi piace usarlo per bagnare delle fette di pane casereccio leggermente tostate e agliate, perfette per accompagnare
i polpi. Ottimo questo sugo, debitamente ristretto, anche per condire un piatto di spaghetti.
il sud - CAMPANIA
il polpo
Meno male che il polpo
è un mollusco curioso. Perché
altrimenti non si riuscirebbe mai
a catturarlo. Un po’ perché ama
vivere su fondi sabbiosi dove
si mimetizza alla perfezione
o rintanato in anfratti rocciosi,
un po’ perché è un animale timido
e solitario, che non ama
le compagnie, e un po’ perché
quando viene avvicinato schizza
fuori il suo inconfondibile liquido
nero che lo nasconde alla nostra
vista. Il suo nome ha origini
greche, da polys, molto e pòus,
piede, e quindi “dai molti piedi”.
Molte sono le sue stranezze, la più
eclatante è quella di avere tre
cuori. L’altra è quella di sacrificarsi
per amore, difatti i maschi
muoiono dopo l’accoppiamento
e le femmine dopo aver deposto
le uova.
i nomi del polpo
Peperoncini
122
Gli italiani di mare amano i loro polpi
e li chiamano in mille modi:
in Abruzzo sono i fulbi, in Emilia-Romagna
i fèulp, in Friuli-Venezia Giulia i folpi-tòdari,
in Liguria purpi, in Veneto forpi toti, in Toscana
porpi di scoglio, nelle Marche folpi, nel Lazio
mangiano i porpi de scojo, in Campania i purpi
veraci, in Calabria sono ghiotti di pruppi,
in Puglia di vurpe, in Sicilia di puppi,
in Sardegna di pruppuèru.
(27)
fai così
lo sapevate che?
1 A meno che non si preferisca spellare i polpi,
operazione davvero noiosa e impegnativa,
è necessario pulire molto bene la loro pelle, rivestita
da un muco vischioso veramente tenace.
Una volta svuotati, occorre quindi tenerli sotto
il getto dell’acqua passandoli contemporaneamente
con una spugnetta abrasiva (nuova!), ma facendo
attenzione a non staccare i tentacoli.
2 Si chiamano “veraci” i polpi di scoglio
che si distinguono dagli altri non solo per il sapore
e il profumo, decisamente superiori, ma anche
per l’aspetto: hanno infatti una doppia fila di ventose
sui tentacoli.
Siete pescatori? E allora
se volete pescare cernie,
murene, dentici e gronghi,
usate come esca piccoli
pezzetti di polpo.
o purp’ se coce dint’ all’acqua soja
Ovvero “il polpo si cuoce nella sua acqua”, recita un proverbio
napoletano. È vero che durante la cottura il polpo emette
la sua acqua e non ha quindi bisogno di aggiunte di liquidi
ma il proverbio, oltre al suggerimento culinario, sta a significare
che è inutile sprecare parole con chi non vuol capire. Chi ha
sbagliato, deve meditare per rendersi conto da solo del suo errore.
Pomodori ben maturi
polpetielli affogati
dicono di lui
“Vi sono molte specie di polipi.
Quelli di terra sono più grandi
di quelli di mare. Si servono
di tutti i loro tentacoli come
di piedi e di mani; della coda,
invece, che è bifida e appuntita,
si servono nel coito... Soli tra
i molluschi escono all’asciutto,
purché sia scabro; odiano le cose
levigate... E mentre negli altri
aspetti è considerato un animale
sciocco, al punto di nuotare
verso la mano dell’uomo, esso
è versato, in certo modo,
nelle faccende domestiche.
Porta tutto in casa, quindi getta
fuori i gusci dopo aver roso
la carne, e dà la caccia ai
pesciolini che nuotano verso
quei gusci... che i suoi tentacoli
gli rinascano, come la coda
al ramarro picchiettato
e alla lucertola, non è falso.”
Da Storia Naturale di Plinio
il Vecchio
“Lo sai che io mangio solo polpi
tre volte al giorno? Beh quei
polpi schifosi incominciano
a uscirmi dalle orecchie!!”
Al Pacino nel film Scarface
123
il sud - CAMPANIA
(28) zeppole
di san giuseppe
Verso l’acqua in una piccola casseruola a fondo pesante, unisco un
pizzico di sale e il burro a pezzettini e metto la casseruola sul fuoco. Intanto setaccio la farina. Quando l’acqua comincia a bollire
e il burro è completamente fuso, verso la farina tutta insieme nella casseruola e contemporaneamente mescolo con il cucchiaio di
legno.
6
DVD
Regolo la fiamma a metà e lavoro energicamente il composto, senza
interruzione, fino a quando si stacca dalle pareti della casseruola
raccogliendosi a palla e facendo un leggero rumore come se friggesse (circa 10 minuti).
INGREDIENTI PER
12 ZEPPOLE
125 ml di acqua
70 g di farina 00
2 uova
50 g di burro
1/2 cucchiaio di zucchero
sale
Per la crema pasticcera
250 ml di latte
60 g di zucchero
40 g di farina
2 tuorli
la scorza di 1/2 limone
non trattato
amarene sciroppate
Per friggere
olio di arachide
124
A questo punto ritiro la casseruola dal fuoco e aggiungo al composto lo zucchero e un uovo, sbattendo vigorosamente per 2-3 minuti prima di unire l’altro uovo (faccio questa operazione con la
frusta elettrica montata con i ganci). Continuo a sbattere fino
a quando l’impasto non è perfettamente omogeneo, liscio e leggero. Lascio raffreddare e riposare la pasta e intanto preparo la crema pasticcera .
*
Trasferisco la pasta in un sac à poche con la bocchetta spizzata da un
cm. Preparo dei quadratini di cartaforno e “disegno” su ognuno
una piccola ciambella. Metto sul fuoco una casseruola con olio
molto abbondante (almeno 3 dita) e, quando è moderatamente
caldo (160°), prendo un quadratino da un angolo e lo tuffo capovolto nell’olio: la ciambellina si stacca immediatamente e ritiro
la carta.
Metto nella casseruola con lo stesso metodo 3 zeppole e, quando sono belle gonfie, rialzo la fiamma e le faccio colorire dalle due parti. Le sgocciolo e le passo su un doppio foglio di carta da cucina.
Quando sono tutte pronte, spolvero le zeppole con lo zucchero a
velo e le guarnisco al centro con un ciuffo di crema e 2 amarene
sciroppate.
il sud - CAMPANIA
lo sapevate che?
Zi’ Paolo è il nome con cui
i partenopei chiamano il friggitore
napoletano che per primo avrebbe
inventato la zeppola.
Zeppola in dialetto napoletano sta
anche ad indicare l’ernia inguinale,
insieme a paposcia, ’ntoscia, mellunciello
e aguallera. E questo perché
la zeppola quando la butti nell’olio
bollente si gonfia, proprio come
un’ernia.
Le ciambelle di pasta prima della frittura
la storia
la lingua delle zeppole
Le zeppole sono buone, e su questo
sono d’accordo tutti. Non c’è invece
accordo sulle origini del termine
zeppola. Qualcuno dice che il nome
venga da serpula, serpe in latino,
e questo perché originariamente
la zeppola aveva la forma di un serpente
acciambellato. O ancora che si tratti
di un derivato di cippus, zeppa in latino,
insomma pezzetto di legno così come
questi dolcetti assomigliano a trucioli
gonfiati. C’è poi chi parla di saeptula,
sempre dal latino saepio, che starebbe
per cingere, che ricorderebbe la forma
circolare del dolcetto. E infine quelli
che credono si tratti invece di cymbala,
una barca da fiume, con la chiglia
piatta e la prua arrotondata,
a ciambellina. Il nome sarebbe poi
cambiato in zippula e quindi zeppola.
126
Eccoli qui i dolci fritti più amati dell’Italia
meridionale, quelli che non possono mai mancare
per la Festa del papà, il 19 marzo. L’origine
è antica, il 17 marzo infatti a Roma si celebravano
i Liberalia, feste per celebrare e onorare gli dei
del vino e del grano, quindi si beveva
e si friggevano frittelle di frumento. La leggenda
vuole invece che durante la fuga in Egitto la Sacra
Famiglia avesse fame, e così San Giuseppe,
che evidentemente in fatto di dolci se ne
intendeva, si mise a friggere piccoli bignè, e per
questo ancora oggi noi li mangiamo per la Festa
del papà. A Napoli le zeppole sono di casa, tanto
che una volta i frittellari le friggevano in strada,
davanti alle loro botteghe. Sembra che a inventarle
siano state le suore del convento di San Gregorio
Armeno, ma c’è invece chi sostiene che siano state
le monache della Croce di Lucca o quelle dello
Splendore. Per arrivare però alla prima ricetta
codificata delle zeppole bisogna aspettare il 1837,
Ippolito Cavalcanti e il suo trattato di cucina.
(28)
zeppole di san giuseppe
la poesia
“È la zeppola dolce, squisita,
da gustare in un giorno di festa,
rende un poco migliore la vita:
la magia quotidiana è anche
questa.
È un miracolo lieve, leggero;
una semplice, morbida cosa,
che anche al giorno più cupo
e più nero
dà una piccola mano di rosa”.
Filastrocca popolare
zeppole siciliane
Anche la Sicilia, come molte regioni del CentroSud, ha le sue zeppole, che sono però differenti
da quelle napoletane, sia come forma che come
sostanza. Le zeppole siciliane sono confezionate
con riso, farina, miele d’arancio e zucchero a velo.
Sono dei cilindretti di circa sei, otto centimetri
che sono fritti nell’olio bollente e poi spolverizzati
di cannella.
Casseruola con cestello per friggere
* crema pasticcera
Faccio bollire il latte con due belle
scorze di limone e lascio intiepidire.
Lavoro i tuorli con lo zucchero
e di seguito unisco la farina. Continuando
a mescolare, unisco a filo il latte tiepido
e infine faccio cuocere dolcemente
la crema per circa 5 minuti, fino a che
si addensa. La verso in una terrina
e la lascio raffreddare e, per evitare
che in superficie si formi la pellicina,
ci faccio aderire un foglio di pellicola.
Quando è fredda la trasferisco in un sac
à poche con la bocchetta spizzata.
127
il sud - PUGLIA
(29) fave
e cicoria
Sciacquo le fave e le verso in una casseruola a fondo pesante (ideale
una di terracotta). Unisco la patata, sbucciata, sciacquata e tagliata a grossi dadi, e copro di acqua fredda che sopravanzi di un dito. Metto la casseruola sul fuoco e contemporaneamente faccio
scaldare altra acqua. Quando inizia l’ebollizione nella casseruola
con le fave, abbasso la fiamma al minimo e faccio cuocere per pochi minuti senza mescolare.
A questo punto si sarà formata molta schiuma: scolo dunque l’acqua
dalla casseruola e la sostituisco con altrettanta bollente. Unisco una
bella presa di sale, metto il coperchio e la reticella rompifiamma,
e proseguo la cottura a fuoco dolce, senza mai mescolare, per circa 2 ore, fino a quando le fave saranno tenerissime e quasi sfatte.
Mentre le fave cuociono, pulisco la cicoria e la lavo più volte in acqua corrente, poi la faccio cuocere al dente in acqua salata molto
abbondante. La scolo tirandola su con la schiumarola, così che
qualche eventuale granello residuo di terra rimanga sul fondo della pentola.
Quando le fave sono pronte, aggiungo una bella macinata di pepe e
3 o 4 cucchiai d’olio e batto energicamente con il cucchiaio di legno in modo da trasformare fave e patata in una purea densa e un
po’ granulosa. La distribuisco caldissima nei piatti con al centro
la verdura condita con un filo d’olio.
INGREDIENTI PER
5 PERSONE
300 g di fave secche decorticate
una bella patata
500 g di cicoria selvatica
olio extravergine d’oliva saporito
sale
128
Per gustarla al meglio, si passa una forchettata di cicoria dentro la purea di fave e si arrotola come fossero spaghetti: il gusto amarognolo della cicoria si arricchisce così della dolce pastosità della purea di fave, con un risultato veramente ottimo.
il sud - PUGLIA
la storia
l’erba del sole
Una leggenda rumena racconta
che il Sole chiese in sposa una bella
fanciulla, tale Domna Floridor,
ovvero Donna dei Fiori.
Ma la signorina del Sole proprio non
voleva saperne. Il Sole ci rimase male
e la trasformò in un fiore di cicoria,
condannandola a fissare l’astro
dal momento in cui sorgeva
all’orizzonte, e a chiudere tristemente
i suoi petali quando il sole andava
a dormire. Ancora oggi la cicoria
si apre all’alba e si chiude
al tramonto. Non a caso il botanico
tedesco Conrad von Megenberg
la chiamò sponsa solis, sposa del sole.
A confermare il suo destino
di pianta amata dal sole è l’usanza
di coglierla con attenzioni particolari
se una fanciulla vuole legare a sé
per sempre l’uomo che ama.
Non si deve mai sradicarla con
le mani, ma usare un corno di cervo
o una moneta d’oro, che stanno
a simboleggiare i raggi e il disco
del sole, e bisogna farlo il 29 giugno,
giorno di San Pietro e Paolo.
La solare cicoria infatti fa in modo
che chi la porta faccia conoscere
per magia le sue buone qualità
all’uomo o alla donna che ama,
e la radice invece rende invisibili,
toglie le spine dalla pelle e spezza
magicamente ogni legame.
130
Fave e cicoria, o anche fave e foglie, ovvero l’incapriata.
Vale a dire uno dei piatti più celebrati della cucina
pugliese. Piatto poverissimo, legato a quanto di più
semplice e reperibile offriva la terra: la cicoria selvatica
e le umili fave. Il nome stesso incapriata racconta
le origini antiche di questo piatto, dal tardo latino
e bizantino caporidia, che a sua volta deriva dal greco
antico kapyridia, cioè polenta di farinacei. Lo stesso
Aristofane ne parla nella commedia Le Rane, narrando
che Ercole, figlio di Giove, particolarmente amante
di questo piatto, ne fece una grande scorpacciata
che gli permise poi di “accontentare” più di diecimila
giovani vergini. Da cui si deduce l’alto valore energetico
della ricetta!
Cicoria
(29)
fave e cicoria
fave tricolori
Cibo, le fave, da sempre apprezzate
su tutto il suolo italico, e ognuno
le chiama come vuole, così sono faév’
in Abruzzo, fefa in Calabria, faa
nelle Marche, fèva in Emilia e Romagna,
bazanna in Liguria, fava d’ungulu in Puglia,
diventano poi fae in Sardegna, faviani
in Sicilia, baccelli in Toscana, scafi
in Umbria e vungul in Campania.
Ma sempre di fave si tratta.
fave e...
Fave secche decorticate
Piatto povero per eccellenza, le fave
rappresentavano fino a non molti
anni fa la base dell’alimentazione
delle classi meno privilegiate, simbolo
di una condizione sociale, quella
dei contadini pugliesi, al limite
della sopravvivenza. Mentre ai nostri
giorni, con la rivalutazione della dieta
mediterranea e la riscoperta
della cucina povera, sono considerate
quasi una ricercatezza gastronomica.
Ma chi doveva mangiarne tutti
i giorni, da un anno all’altro,
a pranzo e a cena, aveva l’esigenza
di arricchire e di variare almeno
il contorno. E quindi è rimasta
l’abitudine di accompagnare il purè
di fave anche con cime di rapa
stufate, insalate di erbe campestri,
melanzane e peperoni fritti, olive,
pomodori in insalata, uva fresca,
secondo la stagione e la disponibilità.
dicono di loro
“Se nella pentola rossa
Ti spumeggiasse la fava biancastra,
sai che potresti rifiutare la cena
dei ricchi?”
Epigramma XIII di Marziale
“Era il periodo delle fave. Stavo
finendo un lungo pranzo nel quale
il piatto principale era stato questo
straordinario vegetale che tanto
somiglia ad un prepuzio. I catalani
hanno una maniera di condire
le fave che fanno di queste uno dei
miei piatti preferiti. Per ottenerlo
si devono cucinare con prosciutto
e botifarra e il segreto risiede
nell’aggiungervi alcune foglioline
di lauro e un po’ di cioccolato”.
Da La vita segreta di Salvador Dalí
Olio extravergine d’oliva
131
il sud - CALABRIA
(30) pitta
ripiena
Sbriciolo il lievito in una ciotolina e lo diluisco con 260 ml di acqua appena tiepida. Setaccio la farina sulla spianatoia, faccio la
fontana e ci verso il lievito. Impasto per qualche minuto e, quando la pasta ha preso corpo, aggiungo un cucchiaino di sale e continuo a impastare ancora un po’, poi formo una palla e la sistemo
in una ciotola infarinata. Copro con un panno umido piegato in
quattro e faccio lievitare la pasta fino al raddoppio.
INGREDIENTI PER
6 PERSONE
Per la pasta
500 g di farina 0
15 g di lievito di birra fresco
sale
Per il ripieno
2 peperoni verdi
300 g di pomodori maturi
150 g di provola appassita
6 filetti di acciuga
un cucchiaio di capperi sotto sale
una manciata di olive nere
snocciolate
una bella cipolla rossa
olio extravergine d’oliva
origano
peperoncino
sale
132
Lavo i peperoni, li divido a metà e li taglio a strisce eliminando i semi e le nervature chiare. Lavo e spezzetto anche i pomodori eliminando i semi e affetto sottilmente la cipolla. Scaldo 4 cucchiai
d’olio in una padella ampia e faccio appassire dolcemente la cipolla. Quando è trasparente unisco i pomodori e i peperoni, rialzo la fiamma, salo e faccio cuocere a fuoco vivace per circa 10 minuti (le verdure dovranno essere quasi asciutte). Verso le verdure
in una terrina e lascio raffreddare.
Sciacquo e asciugo i capperi e li unisco alle verdure. Unisco anche le
olive, il peperoncino sminuzzato e una presa di origano e mescolo bene.
Divido la pasta in due parti disuguali e, senza più lavorarla, la appiattisco con le mani per ottenere due dischi irregolari di circa 1/2
cm. Fodero con la cartaforno una teglia da 24 cm e rivesto fondo e pareti con il disco più grande. Verso le verdure e le cospargo con i dadini di formaggio e i filetti di acciuga spezzettati. Copro il ripieno con l’altro disco di pasta rivoltando l’orlo verso il
centro per formare un cordoncino.
Accendo il forno regolando il termostato a 200° e faccio lievitare la
pitta per una ventina di minuti, il tempo che il forno arrivi a temperatura. Prima di infornarla, la pennello con un’emulsione di acqua e olio (2 cucchiai di ognuno). La faccio cuocere per circa tre
quarti d’ora e la lascio riposare per qualche minuto prima di tagliarla a fette.
il sud - CALABRIA
pitta e morzello
Il modo preferito dei calabresi
di mangiare la pitta è con
il morzello o meglio u’ morzeddhu
come dicono da quelle parti.
È un piatto tipico della zona
intorno a Catanzaro, tra Tiriolo
e Taverna, anche se il suo nome
deriva dallo spagnolo almuerzo.
Si tratta di interiora di vitello
cotte nel sugo di pomodoro, a cui
si aggiungono peperoni e
peperoncini piccanti, quali sono
quelli calabresi. La leggenda vuole
che la nascita di questa ricetta
sia opera di una povera donna,
tale Chicchina, restata vedova
e senza un soldo. Chicchina aveva i
figli da mantenere e allora si prestò
a fare lavori umilissimi.
Nel periodo di Natale, mentre
stava pulendo il cortile del macello
per raccogliere le frattaglie
e portarle alla discarica
della Fiumarella, si arrovellava
disperata su cosa preparare
ai bambini per il pranzo di Natale.
Decise così di raccogliere
le interiora, lavarle e farne
una zuppa. Era nato il morzello.
E da allora i calabresi non hanno
mai smesso di mangiarlo.
Caldo, freddo, da solo o nella
pitta, perché il morzello, come
suggerisce la parola stessa,
va rigorosamente mangiato
a morsi.
134
Il ripieno della pitta
una pitta per ogni stagione
Pitta: parola che, almeno in Calabria, nasconde un universo.
Si tratta, per semplificare, di una focaccia, una pizza ripiena.
Ma la ricchezza sta tutta nei ripieni che cambiano di zona
in zona. Ricette antiche quanto la Calabria stessa e che non
mancano mai nelle tante sagre estive che si tengono in ogni
paese di questa regione. C’è per esempio la pitta chicculiata,
arricchita con peperoni piccanti, acciughe sottosale, pomodori
e olio. E poi la pitta maniata: chiusa, imbottita con parti
di maiale, salsicce, provola, uova sode e ricotta. Non a caso
si mangia l’ultimo giorno di Carnevale, quando si ammazza
il maiale.
Origano
(30)
pitta ripiena
pitta ’impigliata
Non solo salate le pitte, esistono anche quelle
dolci, come la pitta ’mpigliata, una focaccia,
tipica della zona di San Giovanni in Fiore,
che si mangia, e a testimoniarlo sono atti
notarili del 1700, soprattutto nei matrimoni
e durante le feste natalizie. È per l’appunto
una pitta ’mpigliata, vale a dire arrotolata
e rinchiusa su se stessa. Di base è un dolce
ripieno di frutta secca, ma conosce molte
variazioni, per esempio di volta in volta
cambia il tipo di miele con cui viene
dolcificata e c’è chi nell’impasto al posto
del Cognac usa il Vermouth. Importante
è che mantenga sempre la sua forma di pitta,
vale a dire piatta e rotonda. A San Giovanni
in Fiore poi, ogni anno si celebra la festa
di questo dolce silano, durante la quale
si stabilisce il record della pitta ’mpigliata
più lunga del mondo.
Capperi sotto sale
Filetti di acciuga
la ’nduja
Una delizia gastronomica a metà tra
salsiccia e salame spalmabile:
piccantissima, tipicamente calabrese,
la sua patria d’origine è Spilinga, vicino
a Vibo Valentia. Sembra che a portarcela
siano stati gli spagnoli, però il nome
ha origine francese, da andouille,
una salsiccia d’Oltralpe, il che farebbe
pensare che il merito potrebbe essere
stato invece di Gioacchino Murat, Vicerè
di Napoli nonché cognato di Napoleone.
È piatto povero, a base di scarti
di maiale, testa, muscoli, linfonodi,
faringe, milza, intestino, trachea, esofago,
polmoni, retrobocca e intestini,
lavorati con piccantissimo peperoncino
e conservati nell’orba, il budello cieco,
e poi affumicata. Ottima spalmata
sul pane, nelle frittate, sopra la pizza
e addirittura squisita nella pitta.
135
il sud - CALABRIA
(31) polpette
di melanzane
Sbuccio le melanzane e le taglio a grossi dadi, poi le scotto per 5 minuti in acqua salata in ebollizione. Le scolo e le lascio raffreddare dentro il colapasta. A questo punto le strizzo forte fra le mani per asciugarle il più possibile e le raccolgo in una terrina con
le uova intere, la mollica di pane frullata, il pecorino, un cucchiaino di prezzemolo tritato, una macinata di pepe e lo spicchio
d’aglio grattugiato.
6
DVD
Mescolo bene impastando con le mani, poi copro la terrina con la
pellicola e faccio riposare il composto per una mezz’ora. Taglio il
caciocavallo a dadini.
Trascorsa la mezz’ora, mi ungo leggermente le mani con un filo d’olio
e, prendendo un po’ di composto alla volta con un cucchiaio, modello delle polpette ovali delle dimensioni di un’albicocca e introduco all’interno un dadino di caciocavallo .
*
INGREDIENTI PER
4-6 PERSONE
6-700 g di melanzane estive scure
50 g di mollica di pane raffermo
2 uova
2 cucchiai di pecorino dolce
grattugiato
100 g di caciocavallo fresco
uno spicchio d’aglio
prezzemolo
sale e pepe
Per friggere
olio d’oliva
una manciata di pangrattato
136
Quando sono tutte pronte, rotolo le polpette nel pangrattato e le friggo, poche alla volta, in abbondante olio ben caldo (170°). Dopo
3 o 4 minuti, quando sono dorate, le scolo e le passo su un doppio foglio di carta da cucina. Le faccio leggermente intiepidire prima di servirle spolverate di sale.
il sud - CALABRIA
dell’origine delle polpette
Le polpette, si sa, possono essere
confezionate con ogni tipo di ingrediente:
carne, pesce, formaggi, verdure, il limite
è solo la fantasia della cuoca. Ma quando
sono apparse per la prima volta queste
piccole delizie culinarie che, quando sono
buone, davvero allietano i nostri deschi?
Scartabellando tra libri di cucina
scopriamo che fino al 1300 la parola
polpetta non viene mai nominata.
Eccola invece apparire, come per magia,
nel XV secolo, nel Libro de arte coquinaria,
del celebre Maestro Martino, allora cuoco
del Camerlengo Patriarca di Aquileia.
Ed ecco come il maestro le racconta:
“Per fare polpette di carne de vitello
e de altra bona carne, in prima togli
de la carne magra de la cossa et tagliala
in fette longhe et sottili et battile bene
sopra un tagliero o tavola con la costa
del coltello, et togli sale et finocchio pesto
et ponilo sopra la ditta fetta di carne.
Dapoi togli de petrosimolo, maiorana
et de bon lardo et batti queste cose
insieme con un poche de bone spetie,
et distendile bene queste cose in la dicta
fetta. Dapoi involtela et polla nel speto
accocere. Ma non la lassare troppo seccar
al focho”. A noi veramente più
che polpette sembrano involtini
allo spiedo, ma tant’è, la parola era stata
messa nero su bianco, e la polpetta
era nata.
Caciocavallo
138
modi di dire
Non solo cibo, quando si parla di polpette
si allude spesso a tanti, e in parte inquietanti,
aspetti della nostra vita. Che dire
per esempio della frase “ti faccio a polpette”
quando vogliamo minacciare qualcuno,
o quando invece, magari in una gara sportiva,
lo abbiamo stravinto, annientato? E ancora,
“gli ho dato una polpetta avvelenata” che nasconde
un tentativo di eliminare un avversario
con modi non proprio onesti, nascondendo
cioè i veri intenti cosicché il malcapitato
abbocchi credendo di trovare un tesoro,
per poi stramazzare al suolo come un uomo
finito. Per non parlare poi di polpettone,
una parola dispregiativa che vuole descrivere
un’opera (film, libro...) davvero noiosa,
pesante al punto da non essere digerita, come
certi polpettoni che non vanno né su né giù.
(31)
polpette di melanzane
la polpetta
Da dove viene il nome di una delle più
classiche preparazioni della nostra cucina?
C’è chi sostiene che la parola venga
dal francese paupière, cioè palpebra
e la spiegazione che viene data per questo
nome è che quando si preparano le polpette
le mani fanno un movimento assai simile
a quello delle palpebre quando si aprono
e si chiudono. Francamente ci sembra
un ragionamento un tantino azzardato
e confuso. Più facile invece che il termine
derivi da polpa, quella che per l’appunto viene
usata per preparare le polpette di carne.
Di certo i calabresi con le polpette hanno
gran dimestichezza e a testimoniarlo sono
anche i modi di dire che alludono a questo
piatto. Chi fa politica in provincia
di Cosenza lo sa, la purpetta è quella che viene
promessa in periodo elettorale; una sorta
di merce di scambio. E c’è anche la purpetta
con elastico, quelle promesse che, sempre in
periodo elettorale, vengono fatte e mai
mantenute dopo le elezioni.
La polpetta con le melanzane invece, quella
vera, è tipica della zona intorno a Cetraro,
qui le chiamano pitticelli, mentre le melanzane,
nel dialetto locale sono le milingiane.
* Farcire le polpette con un dadino di caciocavallo
melanzane calabresi
Sarà il sole, che nella regione picchia forte per molti mesi, sarà il terreno, sarà
che i calabresi le sanno cucinare come si deve, certo è che le melanzane in Calabria
hanno tutto un altro sapore. E infatti sono alla base di numerose preparazioni
tipiche di grande sapore. Ma dove si scopre l’unicità di questa verdura è nell’insalata,
preparata con dadi di melanzane lessati e conditi con olio, aceto, sale, origano
e peperoncino. È impensabile allestire questa insalata con delle melanzane nordiche,
magari cresciute in serra, ma mangiarla in piena estate in Calabria è una meraviglia.
139
le isole
minestra di tenerumi - SICILIA
pasta alla norma - SICILIA
minestra di fregola con le arselle seadas - SARDEGNA
SARDEGNA
le isole - SICILIA
(32) minestra
di tenerumi
Stacco l’estremità dei tenerumi sotto le prime due foglioline e le metto da parte. Delle altre foglie, scelgo le più tenere che sfilo con
cura (butto i gambi). Lavo foglie e germogli molto bene dopo averli tenuti per un po’ a bagno, per rimuovere ogni traccia di terra.
Li sgocciolo e li taglio grossolanamente. Dopo averli incisi alla base con un taglio a croce, tuffo i pomodori in acqua in ebollizione, li passo nell’acqua fredda, poi li pelo e li spezzetto eliminando i semi.
Scaldo l’olio in una padella e faccio soffriggere dolcemente gli spicchi d’aglio a fettine. Quando hanno preso un leggero colore, unisco i pomodori e un ciuffo di basilico, insaporisco con sale e pepe, rialzo la fiamma e faccio cuocere per 5-6 minuti.
Metto sul fuoco una casseruola con un litro abbondante di acqua e,
quando inizia l’ebollizione, aggiungo una bella presa di sale e i tenerumi, che faccio cuocere per 5 minuti prima di unire gli spaghetti. Quando la pasta è cotta, elimino se necessario parte dell’acqua e verso nella casseruola il sugo di pomodoro. Mescolo, assaggio per regolare in sale e, dopo un paio di minuti, la minestra
è pronta. La servo tiepida.
INGREDIENTI PER
4 PERSONE
2 mazzi di tenerumi (500 g circa)
250 g di spaghetti spezzettati
400 g di pomodori ben maturi
2 spicchi d’aglio
basilico
3 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
sale e pepe
100 g di caciocavallo
142
È una preparazione di una semplicità francescana ma veramente molto buona e rinfrescante e che, a fine cottura, può essere arricchita con caciocavallo tagliato a dadini.
le isole - SICILIA
Tenerumi
come e dove mangiarli
Chi li conosce li ama. Ma sono
in pochi a conoscerli e quei pochi
sono soprattutto siciliani. Tenerumi
sta per tenerezze, perché teneri sono
per l’appunto questi germogli
di zucche molto particolari,
le lagenarie. In alcuni paesi
dell’entroterra siciliano li chiamano
càddi di cucùzza e nel ragusano
ne fanno una specie di passata,
mentre nel palermitano li cucinano
in tanti modi diversi, sbizzarrendo
la fantasia. Sono tutte comunque
preparazioni leggere, rinfrescanti
e facili da digerire, tanto
che nel dialetto siciliano si dice
manciàri pasta chi tinnirùma
per significare che si è mangiato
un piatto povero, fatto di niente.
In Campania invece, nel casertano,
questi germogli li chiamano talli
di zucca, e con loro si prepara un riso,
soffriggendoli con aglio, olio
e peperoncino e aggiungendo
alla fine del buon pecorino
grattugiato. Quando li cuciniamo
i tenerumi sembrano delle pezze,
perché lavandole e cuocendole tirano
fuori una specie di schiumetta.
Non spaventatevi però, perché
la minestra fatta con loro è davvero
buonissima!
144
i tenerumi
Sono i germogli più teneri di quella
che in Sicilia si chiama “zucca serpente”
(Lagenaria longissima) per via dei suoi frutti
lunghi e sottili che, in piena maturazione
possono arrivare fino a 2 metri
di lunghezza. Proprio per la caratteristica
di queste zucchine, viene spesso coltivata
facendola arrampicare su spalliere in modo
che i frutti crescano belli dritti. I tenerumi
sono buonissimi anche semplicemente
lessati e conditi con olio, sale e pepe.
(32)
minestra di tenerumi
pasta con i tenerumi
Non solo minestra: con i tenerumi si prepara anche un ottimo
condimento per la pasta.
Dopo averli puliti, li faccio bollire per 7-8 minuti in abbondante
acqua salata, poi li scolo conservando l’acqua di cottura. Affetto
sottilmente una cipolla e la faccio imbiondire dolcemente in olio
extravergine d’oliva, con un pezzetto di peperoncino e qualche
filetto di acciuga. Metto a cuocere la pasta (fusilli) nell’acqua
della verdura, la scolo molto al dente e la finisco di cuocere
nella padella con il soffritto e i tenerumi lessati unendo un paio
di mestoli dell’acqua di cottura. È squisita. È un piatto rusticissimo
per il quale non occorrono dosi, si va a occhio con i tenerumi
che si hanno a disposizione.
la zucca siciliana
Pomodori maturi
La lagenaria, detta anche zucca a pergola, oggi
è coltivata quasi solo per uso decorativo perché si tratta
di un tipo di zucca particolarmente legnosa. Eppure
sembra che sia proprio lei, questa zucca lunghissima,
la prima zucca conosciuta al mondo. Pare che fosse
originaria dell’India e furono gli Etruschi o addirittura
i Fenici i primi a coltivarla. Storici e filosofi la amavano
molto, Plinio e Discoride la chiamavano “balsamo
dei guai, refrigerio della vita umana”. Certo è che
i primi usi di questa zucca fossero poco ortodossi,
gli Indiani ne facevano sitar, il loro strumento musicale
per antonomasia e in Africa occidentale ne facevano
casse di risonanza per il balafon, una sorta di xilofono
molto in voga da quelle parti. La parola lagenaria viene
infatti dal greco lagenos che sta per fiasco. I primi
ritrovamenti di questa specie di zucca risalgono a più
di 7.000 anni avanti Cristo, nell’Africa tropicale, a sud
dell’equatore. Poi ne sono stati trovati esemplari anche
nelle tombe egizie e dall’Egitto queste zucche sono
passate in Grecia che le considerava l’emblema stesso
della resurrezione dalla morte mentre in India e in Cina
la lagenaria era l’imperatore dei vegetali, il re del cosmo.
145
le isole - SICILIA
(33) pasta
alla norma
Lavo le melanzane e, senza sbucciarle, le taglio a fette verticali di 1/2
cm. Le spolvero di sale e le faccio spurgare per un’oretta dentro il
colapasta.
Dopo averli incisi alla base con un taglio a croce, tuffo i pomodori
per pochi secondi in acqua in ebollizione, poi li passo nell’acqua
fredda, li spello, li privo dei semi e li tagliuzzo. Scaldo 3 cucchiai
d’olio in una padella ampia e faccio imbiondire gli spicchi d’aglio
schiacciati, poi aggiungo i pomodori e 2 ciuffi di basilico. Insaporisco con sale e pepe e faccio cuocere il sugo, a fuoco vivace,
per una decina di minuti.
Sciacquo rapidamente le melanzane e le asciugo premendole dentro
un panno, poi friggo tre o quattro fette alla volta, in due dita di
olio caldo, fino ad averle dorate ma ancora morbide. Le scolo e le
passo su un doppio foglio di carta da cucina.
INGREDIENTI PER
4 PERSONE
400 g di spaghetti
800 g di pomodori da salsa
ben maturi
3 melanzane estive lunghe
2 spicchi d’aglio
olio extravergine d’oliva
basilico
sale e pepe
Per completare
120 g di ricotta salata
(cacioricotta) grattugiata grossa
146
Mentre friggo le melanzane, faccio cuocere la pasta, la scolo al dente, la verso nella padella con il sugo caldo e, fuori dal fuoco, la
cospargo con la metà della ricotta e con qualche foglia di basilico spezzettata. Mescolo bene e distribuisco la pasta nei piatti completando ogni piatto con altra ricotta e con le melanzane fritte.
Per gustare in pieno questo piatto, ogni forchettata deve comprendere un po’ di pasta, ricotta, sugo di pomodoro e una striscia di melanzana fritta.
le isole - SICILIA
la norma
Non è certo un piatto complicato la pasta alla Norma: melanzane fritte, salsa
di pomodoro, ricotta salata a condire il tutto. Eppure nella sua semplicità, quando
è ben fatta si tratta di un piatto perfetto. Ma perché “alla Norma”? Perché sembra
sia stata ispirata dalla famosa opera lirica di Vincenzo Bellini. Quello che è certo
è che sia la ricetta che il Bellini hanno in comune il luogo di nascita: la città
di Catania. Il 26 dicembre 1831 l’opera “Norma” debuttava alla Scala di Milano
e neanche a farlo apposta a cantare era il soprano Giuditta Pasta, un nome
e un programma. Sulle origini di questo piatto invece c’è un po’ di confusione.
Chi sostiene che un cuoco etneo, dopo aver assistito all’opera, commosso
ed estasiato inventò questo piatto in suo onore. Chi invece afferma che si chiami
Norma solo perché il piatto è fatto per l’appunto a norma, a regola d’arte.
Ma i catanesi raccontano un’altra storia. Nei lontani anni Venti del secolo scorso,
una sera Nino Martoglio, regista e scrittore della città etnea, andò a cena dall’amico
Janu Pandolfini. Saridda D’Urso, moglie del Pandolfini, preparò una pasta
con melanzane e pomodoro, talmente squisita che Martoglio non poté fare a meno
di esclamare: “Signora Saridda chista è ‘na vera Norma”, paragonando la bontà
del piatto all’opera sublime. E oggi non c’è ristorante siciliano che non abbia
in menù questa fantastica ricetta.
dicono di lei
Melanzane lunghe
148
“Perché non resta a mangiare
con me?” Montalbano si sentì
impallidire lo stomaco. La signora
Clementina era buona e cara,
ma doveva nutrirsi a semolino
e a patate bollite. “Veramente
avrei tanto da...”. “Pina,
la cammarera, è un’ottima cuoca,
mi creda. Oggi ha preparato pasta
alla Norma, sa, quella
con le milinzane fritte e la ricotta
salata”. “Gesù!” Fece Montalbano
assettandosi. “E per secondo
uno stracotto”. “Gesù!” Ripeté
Montalbano.
Da Il ladro di merendine
di Andrea Camilleri
(33)
pasta alla norma
fai così
Ricotta salata (cacioricotta)
Per la pasta alla Norma, la tradizione
vuole che si presenti con le fette
di melanzana fritte, adagiate sugli
spaghetti. Ma, per gustarla al meglio,
invece di friggere le fette di melanzane
intere, provate a tagliarle a lunghe
strisce. Sarà molto più semplice
arrotolarle attorno alla forchetta
insieme agli spaghetti.
E poi non mortificate questo grande
piatto preparandolo in inverno
con le melanzane cresciute in serra:
melanzane e pomodori vogliono il sole
della piena estate!
sicilia a tavola
La cucina, quella siciliana, è forse la più ricca e variegata del nostro Paese.
Così variegata che è difficile raccontarne le infinite sfumature. Nell’isola infatti tutti
coloro che ci sono passati o si sono fermati per tempi più o meno lunghi hanno
lasciato il loro segno. Gli Arabi hanno portato le spezie, la cannella, l’anice, il sesamo,
lo zafferano, sapori e aromi che arricchiscono e colorano l’indimenticabile cucina
siciliana, e piatti come la cuccia, la scursunera e il cous cous del trapanese, e ancora il pane
con a meusa, con la milza, e le panelle, le frittelle di ceci. I greci hanno lasciato in eredità
ulivi e cereali, ai normanni va il merito di piatti come il pisci stoccu, lo stoccafisso,
e le aringhe affumicate. Quanto agli spagnoli, sono loro i responsabili di un dolce
famoso e goloso come la cassata, la cui base è per l’appunto un pan di spagna.
Dalle Americhe arrivano pomodori e peperoni, senza i quali non sarebbe nata
la caponata, e il cacao e il peperoncino, che accende tante delle ricette di quest’isola.
E dall’India sono giunte le melanzane, grazie alle quali oggi mangiamo parmigiane
e pasta alla Norma!
Cous cous
149
le isole - SARDEGNA
(34) minestra
di fregola
con le arselle
Lavo le arselle e le lascio a bagno per qualche ora in acqua salata per
farle spurgare. Una mezz’ora prima di preparare la minestra faccio ammollare i pomodori secchi in acqua tiepida.
Sgocciolo le arselle, le verso in una casseruola con un bicchiere d’acqua, metto il coperchio e le tengo per qualche minuto sul fuoco
vivace fino a quando saranno tutte aperte. Le tiro su con la schiumarola conservando il liquido che si è raccolto sul fondo. Appena tiepide, le sguscio conservandone circa un terzo con il guscio.
Preparo un trito sottile con gli spicchi d’aglio e una manciata di prezzemolo. Sgocciolo i pomodori, li strizzo un po’ e li taglio a listarelle. Scaldo l’olio in una casseruola e faccio appassire a fuoco dolce il trito di aglio a prezzemolo. Dopo 2 minuti, aggiungo i pomodori e li faccio insaporire brevemente prima di unire il liquido filtrato e un altro bicchiere di acqua calda.
INGREDIENTI PER
4 PERSONE
un kg di arselle (vongole comuni)
200 g di fregola sarda
a grana media
6-8 mezzi pomodori secchi
3 cucchiai d’olio extravergine
d’oliva
2 spicchi d’aglio
prezzemolo
sale e pepe
150
Ancora pochi minuti e verso la fregola nella casseruola, mescolo, aggiungo sale (poco) e pepe e faccio cuocere per poco meno di un
quarto d’ora, unendo le arselle sgusciate negli ultimi 2 minuti. Dovrò ottenere una minestra semidensa: se necessario aggiungo mezzo mestolo di acqua calda.
Al posto dei pomodori secchi si possono unire al soffritto 2 cucchiai di concentrato di
pomodoro, diluito in mezzo bicchiere d’acqua calda, o pomodori freschi (circa 300 g)
pelati, privati dei semi e sminuzzati.
le isole - SARDEGNA
la fregola e altre paste
In Sardegna si trovano paste tradizionali
davvero interessanti. Una delle più note
è di certo la fregola (sa fregula).
Si ottiene con un procedimento molto
simile a quello del cous cous, mettendo
cioè la semola di grano duro
in un apposito contenitore di terracotta,
ampio e basso, detto fregulera, e poi
spruzzandola con acqua tiepida,
compiendo al tempo stesso
un movimento circolare con la mano
aperta. Si ottengono così dei piccoli
grumi di pasta dalla forma irregolare
che vengono passati al setaccio
e poi tostati al forno, dove prendono
una bel colore ambrato. Viene utilizzata
per la preparazione di minestre,
cuocendola ad esempio nel brodo
di carne e poi sistemandola
in una casseruola di coccio alternando
strati di pasta e di pecorino grattugiato.
Spesso nella cucina sarda della costa
si trova preparata con il pesce,
come nel caso della “fregula cun cocciula”
(fregola con arselle). Molto conosciuti
anche i malloreddus (letteralmente, torelli)
del campidano: piccoli gnocchetti
di semola, a volte impastati
con lo zafferano, e i maccarrones de busa
(con il buco) una sorta di bucatini fatti
a mano. Tipico del nuorese è il filindeu:
una sorta di tessuto composto da tre
strati sovrapposti di capellini sottilissimi
tirati a mano. Con il filendeu si prepara
una zuppa con il brodo di pecora
e pecorino fresco.
152
fregola stufata
Trito una cipolla e, separatamente, frullo 60 g
di pancetta tesa con una manciatina di prezzemolo.
Scaldo un filo d’olio in una padella, unisco la cipolla
e il trito di pancetta e faccio soffriggere a fuoco
dolcissimo per una ventina di minuti. Cuocio 300 g
di fregola (grossa o media) in abbondate acqua salata
in ebollizione, poi la scolo e la dispongo a strati
in una terrina resistente al calore, insaporendo ogni
strato con un po’ di soffritto e una manciata
di pecorino sardo grattugiato, e facendo l’ultimo
strato con il formaggio. Passo la terrina nel forno
caldo fino a quando si forma una leggera crosticina
in superficie.
(34)
minestra di fregola con le arselle
cucina sarda
Il cuore profondo della cucina di questa
terra, chi lo conosce lo sa, è povero
e carnivoro. Un cibo legato
alla vocazione agricola e pastorale
di questa regione che per certi versi
e in certe zone mantiene ancora riti
e ritmi quasi ancestrali. Quindi terra
di agnelli, di maiale, anzi di maialetti,
di uova e di formaggio. Ma è soprattutto
l’agnello a far battere il cuore
degli isolani: agnello arrostito,
allo spiedo, bollito, in umido; e poi
un piatto la cui esistenza è testimoniata
anche presso i pastori dell’antica Grecia:
il sanguinaccio. Sono le interiora
dell’agnello ucciso, poi riempite di sangue
aromatizzato e cotte alla brace fino
a indurirsi. Cibo da pastori e da banditi.
Vongole comuni
Pomodori secchi
dicono dell’agnello
“Tuo padre mi ha fatto
ammazzare una pecora: dimmi
cosa devo cuocere, e se devo
preparare anche il sanguinaccio.
Ti avverto che non ho
il mentastro; ho solo due foglie
d’alloro, eccole.” Gliele fece
vedere fra le dita insanguinate,
e lei andò a prendere anche
il sale, il cacio e un poco
di pane di orzo triturato. Il tutto
fu mischiato al sangue raccolto
nel ventricolo della pecora,
pulito come una borsa
di velluto: e il ventricolo fu poi
cucito con un ago di canna
e messo a cuocere sotto
un mucchio di cenere calda.
Da Marianna Sirca di Grazia
Deledda, scrittrice sarda
Premio Nobel per la
letteratura nel 1926.
153
le isole - SARDEGNA
(35) seadas
Taglio il pecorino a pezzetti e lo raccolgo in una piccola casseruola
a fondo pesante con poca acqua (circa 1/2 bicchiere), la semola
e la scorza di limone grattugiata. Metto la casseruola sul fuoco
con la fiamma a metà altezza e, mescolando continuamente, faccio cuocere fino a quando il formaggio sarà fuso e avrà assunto
la consistenza di una crema densa.
Lascio intepidire il composto e intanto preparo la pasta. Setaccio la
farina sulla spianatoia, faccio la fontana e ci metto lo strutto a fiocchetti, una presa di sale e circa 100 ml di acqua tiepida. Impasto
energicamente per 5 minuti, poi raccolgo la pasta a palla e la lascio riposare per una mezz’ora, avvolta nella pellicola.
INGREDIENTI PER PER
(PIÙ
15 SEADAS
O MENO)
500 g di farina 00
50 g di strutto
sale
Per il ripieno
400 g di pecorino molto fresco
(di pochi giorni)
un cucchiaio di semola
(farina di grano duro)
la scorza di 1/2 limone
non trattato
Per friggere
olio di oliva o di arachide
Per accompagnare
miele
154
Con le mani bagnate prendo una piccola quantità di crema di formaggio (quanto una grossa noce) e la schiaccio fra le mani ricavando dei dischi di circa 1/2 cm di spessore, e via via che sono
pronti li sistemo su un panno.
Divido la pasta in 2 pezzi e li passo alla macchinetta cominciando
dal primo spessore per arrivare fino al penultimo. Con un tagliapasta ricavo dei dischi di 8 cm di diametro. Dispongo un disco
di formaggio su uno di pasta, pennello leggermente il perimetro
con poca acqua e copro con un disco di pasta, premendo bene tutto intorno, poi ritaglio il bordo con la rotella.
Friggo le seadas in abbondante olio ben caldo (170-180°) girandole una volta. Le scolo color oro molto chiaro e le passo su un doppio foglio di carta da cucina. Le servo calde cosparse di miele.
Per le seadas è ottimo, anche se molto raro, il miele di corbezzolo dall’accentuato gusto dolce-amaro, ma va benissimo anche qualunque altro tipo di miele.
le isole - SARDEGNA
Limoni non trattati
la storia
Sa sebada a Nuoro, sa sabada a Sarule, sa seada in campidanese e in logudorese, sempre
di seada si tratta, il dolcetto sardo il cui nome viene dal dialetto séu, dal latino sebum, sego,
perché si tratta di dolcini lucidi, grassi, un po’ untuosi. Grazia Deledda, massima poetessa
dell’isola sarda, le descriveva come “piccole schiacciate di pasta e formaggio fresco passato
al fuoco. Vengono fritte”. Gli ingredienti sono molto semplici: farina, formaggio pecorino
o pischedda – un formaggio acido della Gallura –, poi scorza di limone grattugiata,
zucchero e miele; si friggono poi nello strutto. Un’origine antica e tipicamente pastorale,
vengono da terre legate alla pastorizia come la Barbagia e il Logudoro, e una volta
costituivano una pietanza principale, tanto da poter sostituire un secondo piatto;
negli anni sono diventate invece un profumato dessert. L’arte di condirle con il miele
veniva detta ammerrare e consisteva nel riscaldare il miele con un po’ d’acqua
e poi immergercele dentro. Ancora oggi due sono le scuole di pensiero sul condimento
delle seadas, chi le vuole con il miele e chi con lo zucchero, e allora questi dolcetti
diventano baè baè, menzùs chin su tùcaru, al secolo “vai vai, meglio con lo zucchero”.
Si mangiavano soprattutto a Pasqua o a Natale, oggi non mancano mai nei menù
di qualsiasi ristorante sardo che si rispetti.
Seadas prima della frittura
vino e seadas
Cosa bere con le seadas? Se amate
i rossi allora vanno bene un Anghelu
Ruju di Alghero, forte e liquoroso,
oppure un Dorato di Sorso, dal bel
colore ambrato. Se invece siete
patiti di bianchi allora una buona
Malvasia di Cagliari da servire
a temperatura cantina, oppure
un Moscato, sempre di Cagliari
o di Sorso-Sennori, o ancora
l’intramontabile Vernaccia, da bere
a 10-12 gradi.
156
(35)
seadas
dolci e miele
Dolce miele, ingrediente che non manca mai
nelle cucine sarde, e nei dolci di questa terra.
Che si tratti di seadas, di caschettas o di pirichittus, sempre
di miele si parla. Quei mieli – di castagno, di erica,
di agrumi, di tarassaco, di lavanda – di cui la Sardegna
è ricca. Ma soprattutto quello di corbezzolo, pianta
tipica della macchia mediterranea, tanto diffuso in terra
sarda. Un albero dai fiori bianchi e dalle bacche rosse,
che dà un miele dal sapore davvero unico, dal colore
di ambra bruciata. Il suo è un profumo così particolare
che si riconosce anche ad occhi chiusi, che ricorda
i fondi del caffè e le foglie dell’edera. Quando
lo assaggiamo ci sembra morbido e dolce e dopo
qualche minuto ci accorgiamo invece che possiede
anche una componente amara che si sposa
perfettamente con la dolcezza iniziale. Mieli insomma
che danno un gusto e una consistenza così particolare
ai dolci di questa regione.
Strutto
dicono del miele
“Per liberarsi dai suoi pensieri
si alzò, sebbene sentisse molto
freddo, e disse alla madre,
che almeno, bisognava
preparare un buon pranzo
all’ospite. Impastò un po’
di farina, con uova e strutto,
e ne fece tante treccioline che,
dopo fritte, spalmò di miele:
sì, davvero, le pareva di essere
tornata bambina. Anche
la madre si dava da fare: odori
buoni si sparsero nella casetta:
odori di ospitalità, e quindi
quasi di festa.”
Da La chiesa della solitudine
di Grazia Deledda
157
indice
158
le 35 ricette
agnello cacio e uova 108
calcioni 94
cevapcici 56
ciambotta 116
coniglio in porchetta 90
cotolette alla bolognese 68
fagioli con le cotiche 98
fave e cicoria 128
fegatelli di maiale all’aretina 78
fonduta 10
kugelhupf 52
lattughe in brodo 22
messicani 30
minestra di fregola con le arselle 150
minestra di tenerumi 142
pasta alla norma 146
pasta e fagioli 60
pepatelli 112
piccioni ripieni 86
pisarei e fagioli 72
pitta ripiena 132
pollo con i peperoni 102
polpetielli affogati 120
polpette di melanzane 136
riso alla pilota 34
risotto al barbera 14
sciumette 26
seadas 154
sformato di spinaci con il cibreo 82
tonno di coniglio 18
torta di fregolotti 40
tortelli di spinaci - spinat-tirtlen 48
zeppole di san giuseppe 124
zuppa di gulasch - gulaschsuppe 44
zuppa di trippa 64
le altre ricette
baccalà alla potentina 119
cassoulet di Castelnaudary 101
cotoletta dell’artusi, la 70
crema pasticcera 127
fregola stufata 152
frico con le patate 58
frittata dell’imperatore - kaiserschmarrn 51
palacinche 55
pasta con i tenerumi 145
pasta e fagioli vicentina 63
salsa ajvar 59
sformato di spinaci 85
torcetti valdostani 13
tortelli di crauti - turtres de crauti 50
gli ingredienti
alloro, l’ 80, 81
animelle, le 24, 25
barbera, la 16, 17
cervello, il 24-25
cicoria, la 130
coniglio, il 20, 21, 92, 93
fagioli di lamon, i 63
fagioli, i 74, 75
fave, le 130, 131
fegatelli, i 80
fontina, la 13
fregola, la 152
grappa, la 43
lattuga, la 24
miele, il 157
mostarda d’uva, la 114
’nduja, la 135
pecorino, il 97
pepe, il 115
piccione, il 88
pollo, il 105
polpo, il 122
tenerumi, i 144
trippa, la 66, 67
zucca siciliana, la 145
159
Fly UP