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7 L`atto di appello - Dike Giuridica Editrice

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7 L`atto di appello - Dike Giuridica Editrice
7
L’atto di appello
7.1. In generale (notazioni processuali)
L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario, generalmente sostitutivo, proposto
dinanzi a un giudice diverso rispetto a quello che ha emesso la sentenza oggetto di
gravame.
L’appello è il mezzo di impugnazione ordinaria con cui si sottopone al giudice di
secondo grado l’intera controversia decisa dal primo giudice, e non solo la sentenza da
questi pronunciata. Esso consta, pertanto, sia di una componente rescindente che di
una componente rescissoria.
Con l’appello si invoca la correzione degli errores in procedendo e degli errores in
iudicando che si ritiene essere stati commessi dal primo giudice.
I termini per la proposizione dell’appello sono:
– termine lungo, di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza da impugnare;
– termine breve, di trenta giorni dalla notifica della sentenza.
Sono appellabili le sentenze pronunciate in primo grado.
Esistono alcuni tipi di sentenze non appellabili: quelle dichiarate tali per legge (es.
art. 618 c.p.c.), quelle avverso cui le parti propongono d’intesa ricorso per cassazione
omisso medio e quelle pronunciate secondo equità.
Per l’appello delle sentenze pronunciate secondo equità dal giudice di pace si veda
il disposto dell’art. 339, commi 2 e 3 c.p.c.
Recentemente, il Legislatore ha novellato la disciplina dell’atto di appello e soprattutto del relativo giudizio mediante l’art. 54 del decreto legge 22.06.2012 n. 83, convertito con legge 07.08.2012 n.134. La riforma, che ha avuto tiepida accoglienza da
parte di diversi esponenti della dottrina, è applicabile ai giudizi di appello introdotti con
citazione di cui sia chiesta la notifica -ovvero con ricorso depositato- a partire dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge n. 134.
Le modifiche generate dall’intervento riformatore verranno indicate man mano che
verranno affrontati i singoli aspetti specificamente interessati.
7.1.1. I nova in appello (art. 345 c.p.c.)
In secondo grado esiste un divieto (quasi assoluto) di proporre domande nuove e limiti
rigorosi all’introduzione di nuove eccezioni e di nuovi mezzi di prova. Esso è stato in
7. L’atto di appello
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parte accentuato dalla riforma del 2012, che è intervenuta modificando l’ultimo comma
dell’art. 345 c.p.c.
La domanda nuova è, invero, inammissibile. Per verificare se una domanda sia
nuova bisogna guardare se vi sia o non vi sia identità tra i suoi elementi costitutivi (parti,
causa petendi e petitum) e quelli delle domande proposte nel primo grado di giudizio.
Non è possibile allegare fatti diversi da quelli addotti in primo grado. Tuttavia, non incorre nel divieto in questione il mutamento della causa petendi se rimane immutato il
fatto su cui essa si fonda e varia solo il punto di vista giuridico (la prospettazione) di
quel fatto o la sua qualificazione giuridica; è necessario, però, che non siano aggiunte
nuove argomentazioni giuridiche e che non si alleghino nuovi fatti secondari che possono avvalorare la fondatezza della domanda. In particolare, non è considerata nuova
la causa petendi se, con riguardo ad un diritto reale, si fa riferimento a un titolo di acquisto diverso da quello allegato in primo grado, trattandosi di diritti autodeterminati.
Ancora, non è nuova la domanda se in appello si riduce il petitum o se si chiede una
somma di danaro a titolo di risarcimento in sostituzione della domanda di adempimento
proposta in primo grado. Per specifica precisazione dell’art. 345, primo comma, c.p.c.,
non è nuova la domanda se in appello si chiedono interessi, frutti e accessori -ovvero
il risarcimento del danno maturato o sofferto- dopo la sentenza.
In appello non possono proporsi nuove eccezioni, tranne quelle rilevabili d’ufficio
(es. difetto di giurisdizione, difetto di legittimazione attiva e passiva ecc.): in tal caso,
infatti, più che dell’allegazione di un nuovo fatto, si tratta della mera sollecitazione dei
poteri officiosi del giudice, che non contrasta con la ratio della norma.
Quanto ai nuovi mezzi di prova ed ai documenti, antecedentemente alla riforma del
2012 essi erano ammessi solo se: a) il collegio li ritenesse indispensabili ai fini della
decisione della causa; b) la parte dimostrasse di non averli potuti proporre nel giudizio
di primo grado per causa ad essa non imputabile (cfr. sentenza delle S.U. 20/4/2005 n.
8203). La novella della legge 134/2012, sostanzialmente, è intervenuta abrogando la
possibilità di ammissione di nuovi mezzi di prova (o di produzione di nuovi documenti)
sub lettera a) (e cioè la possibilità che il giudice d’appello li ritenga indispensabili ai fini
decisori). Residua così esclusivamente l’ipotesi in cui la parte non abbia potuto proporre tale istanza precedentemente, senza propria colpa, e di tanto deve essere fornita la
relativa dimostrazione.
Anche dopo la riforma del 2012 continua a fare eccezione il giuramento decisorio,
sempre deferibile ai sensi dell’ultimo comma della norma de qua.
Si possono, però, sollevare eccezioni relative alla sentenza impugnata, alle domande nuove ammissibili in appello, ai fatti sopravvenuti e allo ius superveniens.
7.1.2. Il filtro di inammissibilità introdotto dalla novella del 2012
Appare opportuno, a questo punto, dare conto della maggiore novità introdotta dalla
riforma della legge n. 134/2012, e cioè il c.d. filtro di inammissibilità di cui ai nuovi artt.
348 bis e 348 ter c.p.c.
A mente della prima disposizione, laddove l’improcedibilità o l’inammissibilità
dell’appello non debbano essere dichiarate (scilicet, per motivi di ordine processuale),
l’inammissibilità dell’impugnazione può comunque essere pronunciata quando questa
non abbia una ragionevole probabilità di essere accolta, a meno che non si tratti di uno
dei casi in cui è richiesto a pena di nullità l’intervento del pubblico ministero ovvero sia
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parte seconda. pareri e atti di diritto civile
stata impugnata l’ordinanza di definizione di un procedimento sommario di cognizione
(in queste due ipotesi, infatti, la disciplina del filtro non trova applicazione).
L’art. 348 ter c.p.c. precisa che il provvedimento di inammissibilità può essere
emesso all’udienza di cui all’art. 350 c.p.c. (anteriormente alla trattazione e dopo
che le parti siano state sentite) sotto forma di ordinanza succintamente motivata,
contenente, se del caso, il rinvio agli elementi di fatto riportati in uno o più atti di
causa e/o a precedenti giurisprudenziali conformi. Nel provvedimento sono regolate
le spese di lite.
In tal caso, contro la decisione di primo grado sarà esperibile ricorso per Cassazione, anche se, va precisato, l’ordinanza di inammissibilità ex art. 348 c.p.c. deve ritenersi comunque di per sé impugnabile con ricorso straordinario per Cassazione ai sensi
dell’art. 111, comma settimo, della Costituzione e dell’art. 360, comma quarto, c.p.c.,
trattandosi di provvedimento decisorio.
Tuttavia, laddove l’inammissibilità pronunciata in secondo grado sia fondata sulle
stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, adottate dalla decisione di primo grado,
il ricorso per Cassazione avverso tale utimo provvedimento non può essere proposto
per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e
decisivo per il giudizio.
L’ordinanza di inammissibilità non può essere emessa, oltre che nei già citati casi
di cui all’art. 70 ed all’art. 702 quater c.p.c., laddove, pur non avendo l’impugnazione
principale ragionevoli probabilità di essere accolta, quella incidentale appaia fondata.
In tal caso l’appello andrà defintito nelle modalità ordinarie.
La novella non ha fornito elementi certi per chiarire in quali termini in giudice d’appello debba effettuare la prognosi di assenza di ragionevole probabilità di accoglimento
dell’impugnazione. Il riferimento a precedenti pronunce conformi ed alle circostanze
di fatto accertate nel giudizio ha fatto pensare che l’ordinanza in questione dovrebbe
essere emessa o laddove l’appello sia fondato su motivazioni giuridiche contrarie a
consolidati orientamenti pretori o su interpretazioni fattuali artificiose e chiaramente
smentite da quanto accertato nel corso del primo grado di giudizio.
Si tratta, tuttavia, di opinioni che non possono ancora ritenersi del tutto consolidate, giacché ad esse è stato obiettato che, sotto il primo profilo, sembrano attribuire ai
precedenti giurisprudenziali un valore formale simile a quello esistente nei sistemi di
common law, che, invece, l’ordinamento non attribuisce loro. Ed anche considerando
che, in caso di pronuncia d’inammissibilità, rimarrebbe salva la possibilità di impugnare
il provvedimento di primo grado in Cassazione per violazione di legge (riproponendo
eventualmente le stesse censure giudicate inammissibili dal giudice dell’appello), apparirebbe quanto meno singolare escludere il giudice di secondo grado dalla pronuncia
sull’interpretazione delle norme, che sarebbe affidata al solo giudice di primo grado ed
a quello di legittimità.
Quanto all’artificiosa interpretazione dei fatti accertati, è stato osservato, in senso
critico rispetto alla riforma, che laddove il giudice sia in grado di statuirla con la certezza
dovuta per definire l’appello con pronuncia d’inammissibilità, ben potrebbe esprimersi
direttamente sotto forma di sentenza definitiva, così manifestandosi la poca utilità, sotto tale profilo, della norma recentemente introdotta.
Tale ultima consideration, in particolar modo, ha reso lampante che il filtro de quo
costituisce, a ben vedere, una pronuncia di manifesta infondatezza dell’impugnazione.
7. L’atto di appello
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In virtù del novellato art. 436 bis c.p.c., infine, il filtro si applica anche all’appello nel
processo del lavoro.
7.1.3. L’atto di citazione in appello (struttura)
La struttura dell’atto di citazione in appello è la seguente:
A) Autorità Giudiziaria e intestazione.
B) Parti e procuratore.
C)Indicazione delle parti del provvedimento che si intende appellare e delle modifiche
vengono richieste alla ricostruzione del fatto compiuta dal giudice di primo grado ed indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza
ai fini della decisione impugnata.
D)Esposizione sommaria dei fatti.
E) Motivi specifici dell’impugnazione.
F) Vocatio in ius.
G)Conclusioni (Petitum).
H)Indicazione delle prove.
I) Firma, procura e relazione di notifica.
A) Autorità giudiziaria e intestazione.
L’atto di citazione in appello va sempre “intestato” indicando l’autorità giudiziaria
dinanzi alla quale è proposta l’impugnazione: detta indicazione si ricava dalla lettura
ed applicazione dell’art. 341 c.p.c..
Si tratta di un rimedio tipico che può essere proposto con citazione o con ricorso a
seconda del rito da seguire.
L’appello si propone dinanzi al giudice immediatamente superiore a quello che ha
pronunciato la sentenza da impugnare. Di conseguenza:
1) l’appello contro le sentenze emesse dal giudice di pace si propone dinanzi al tribunale;
2) l’appello contro le sentenze tribunale si propone dinanzi alla corte di appello.
Il tribunale o alla corte di appello investiti dell’appello sono quelli nella cui circoscrizione si trova il giudice che ha pronunciato la sentenza da gravare.
È sufficiente indicare l’ufficio giudiziario e il luogo in tal modo: CORTE DI APPELLO
DI … o TRIBUNALE DI ….
Se si seguono le norme del processo ordinario, dopo l’A.G., si può indicare il tipo
di atto, ovvero:
ATTO DI CITAZIONE IN APPELLO
Prima di proporre l’appello occorre porsi due domande, finalizzate a verificare la
sussistenza delle “condizioni di ammissibilità dell’impugnazione”:
Sono legittimato a impugnare?
Sussiste l’interesse a impugnare?
Dopo l’intestazione occorre, infatti, indicare la parte appellante, la cui corretta individuazione, come anche l’individuazione di quella appellata, impone la preliminare
soluzione del problema della legittimazione all’impugnazione stessa.
B) “Parti e procuratore”.
Legittimati ad appellare sono le parti del giudizio in cui è stata resa la sentenza di
primo grado e, di conseguenza, sarà legittimata anche la parte rimasta contumace.
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parte seconda. pareri e atti di diritto civile
Per proporre appello, però, non è sufficiente aver rivestito la qualità di parte nel
giudizio di primo grado, in quanto occorre avere anche l’interesse ad impugnare, ed
invero, legittimata ad appellare è solo la parte soccombente, ovvero la parte che, in
sentenza, ha visto rigettare (in toto o in parte) le richieste rivolte al giudice.
La soccombenza deve essere pratica (cioè un effettivo diniego di un bene della vita)
e non teorica (la domanda viene respinta per un profilo e accolta per altro) e può essere parziale (es. Tizio convenuto da Caio vede rigettare l’eccezione di incompetenza
e accogliere l’eccezione di prescrizione), oltre che reciproca quando le parti risultano
vittoriose o soccombenti su capi diversi. In tali ipotesi ciascuna delle parti è legittimata
a proporre appello sul capo rispetto a cui è rimasta soccombente.
In conclusione: l’interesse ad impugnare sussiste ogni qualvolta dal passaggio in
giudicato della sentenza possa derivare un pregiudizio pratico per la parte (es. estinzione).
Occorre, altresì, individuare il soggetto da convenire nel giudizio di appello.
Non sorgono particolari problemi se il primo grado di giudizio verteva fra due parti;
ove, invece, siano state in numero maggiore, il gravame ha una diversa regolamentazione giuridica a seconda del nesso di collegamento fra i rapporti giuridici fra le stesse
parti (artt. 331 e 332 c.p.c.).
In tal caso, bisogna infatti distinguere se la sentenza è stata resa in cause inscindibili o in cause scindibili.
La causa inscindibile è quella che deve essere definita in appello con una sentenza
resa nei confronti di tutte le parti del giudizio di primo grado (es. liticonsorzio necessario
ex art. 102 c.p.c.); la causa scindibile è quella che può essere definita in appello con
una sentenza non necessariamente resa nei confronti di tutte le parti del giudizio di
primo grado.
Nel primo caso se l’appello non è proposto nei confronti di tutte le parti, il giudice
ordina l’integrazione del contraddittorio; se l’ordine non viene eseguito nel termine fissato, l’appello diviene inammissibile.
Nel secondo caso se l’appello non è proposto nei confronti di tutte le parti il giudice
ordina di notificare l’impugnazione anche alle parti nei cui confronti l’impugnazione non
sia preclusa. Se l’ordine non viene eseguito il processo resta sospeso fino a quando le
parti rimaste non convenute siano decadute dalla facoltà di proporre appello. La ratio
differisce rispetto al primo caso; in questa seconda ipotesi, invero, si vuole evitare la
moltiplicazione delle impugnazioni.
LEGITTIMATIO AD PROCESSUM (capacità e legittimazione processuale).
Nell’atto di appello vanno indicate: le generalità dell’appellante: per le persone fisiche occorrerà indicare nome, cognome, data di nascita, domicilio o residenza, codice fiscale, mentre per le persone giuridiche andrà indicata la denominazione, ovvero:
ragione sociale, sede legale, capitale sociale, iscrizione registro imprese, partita iva o
codice fiscale. Vanno, altresì, indicate:
1) le generalità e la qualità, della persona fisica legittimata ad processum (Es.: …, nella qualità di esercente la potestà genitoriale sul figlio minore …, ovvero …, nella qualità
di legale rappresentante…)
2) l’eventuale menzione di atti autorizzativi che incidono sulla legittimazione processuale
(Es.: …, in virtù di deliberazione della Giunta Regionale n. …, del …, ovvero …, in virtù di
procura speciale rilasciata per atto pubblico del … a rogito del notaio …, n. … di rep.).
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