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panoramiques n° 55

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panoramiques n° 55
PANO
RAMI
QUES
Periodico semestrale – Sped. in a.p. – art. comma 20/c legge 662/96 – Filiale di Aosta – Tassa riscossa / Taxe perçue
VALLE d’AOSTA – VALLée d’AOSTE
Leonardo Brzezicki • Jeremy Saulnier
Basil da Cunha • Matthew Porterfield
Hany Abu-Assad • Andrea Pallaoro
Alessandro Rossetto • Wa n g B i n g
55
II semestre 2013
E éDITORIAL
Un cambiamento nella continuità
Come fondere cultura e mercato: da
qualche anno la rivista Panoramiques,
espressione della «cinephilie» valdostana e al contempo importante
strumento di riflessione per tutti gli
spettatori della Saison Culturelle, ha
saputo unire a tali obiettivi quello di
far conoscere il territorio regionale,
mettendo in evidenza l’attività della
Film Commission Valle d’Aosta.
Le potenzialità della Valle d’Aosta
come sfondo di vicende di portata internazionale, ma anche la sua storia
e la sua cultura tradizionale, ricevono
oggi un nuovo impulso, nel momento
in cui Panoramiques diventa, insieme
al suo sito internet, il principale strumento di comunicazione della Film
Commission, la pubblicazione che si
potrà leggere in formato cartaceo o in
pdf sul nostro sito.
La missione che ci siamo dati – promuovere la nostra regione in ambito
nazionale e internazionale, inducendo società di produzione, televisioni
o singoli cineasti a sceglierla per girarvi i loro film – passa attraverso una
precisa strategia, che comprende sia
la nostra presenza nei principali festival/mercati di cinema, quali quelli
di Venezia, Berlino, Cannes, Locarno,
Roma, Toronto, Amsterdam e Nyon,
sia una comunicazione puntuale delle attività cinematografiche che hanno luogo in Valle d’Aosta.
Ogni lettore potrà dunque vedere
come questo numero includa, oltre
alle schede critiche concernenti i film
della Saison Culturelle e alle conversazioni con i più interessanti cineasti
dell’anno, un dettagliato panorama
delle produzioni, regionali, nazionali
o internazionali, che hanno scelto la
Valle d’Aosta come teatro delle loro
storie.
In tale ambito ci preme segnalare la
sempre più vivace presenza delle
produzioni documentarie locali, che,
siano esse il frutto di un laboratorio
come Figure con paesaggi (curato da
Bruno Oliviero e Luca Mosso), oppure singole iniziative, s’impongono
sempre più spesso all’attenzione nazionale e internazionale. In tal senso ci
sembra che il ruolo di una rivista come
Panoramiques – trasmettere delle
esperienze attraverso la scrittura, fra
diverse culture e generazioni - sia ormai innegabile e irrinunciabile.
Mentre il botteghino italiano sta vivendo una delle stagioni più fiacche
e le sale cinematografiche ancora
debbono registrare il passaggio al digitale, magari sfruttandolo per quello che può offrire, il presente numero
di «Panoramiques» cerca di cogliere
nel presente quei segnali di rinnovamento che il cinema comunque offre.
Il numero è diviso in due sezioni pensate come il fronte e il retro di uno
stesso universo.
“Film” raggruppa il meglio della distribuzione italiana, dove tra nomi riconosciuti e graditi ritorni, si delinea
un quadro a forti tinte – con il vituperato cinema italiano a ritagliarsi uno
spazio di primo piano. Ali ha gli occhi
azzurri, L’intervallo, Padroni di casa,
Su Re, Gli equilibristi, Bellas Mariposas – fatte salve le debite differenze
– rappresentano esiti interessanti,
capaci di varcare i confini nazionali.
Ugualmente significativi sono i ritorni di Amelio e Bertolucci, con due film
che al contempo segnano una cesura
e li riallacciano allo spirito dei loro
esordi. Il resto della sezione cerca di
portare avanti il racconto ininterrotto di autori cari alla rivista (Tarantino,
Cronenberg, Bigelow, Assayas, Nuri
Bilge Ceylan), ma anche di cogliere
quelle pellicole che appaiono come
fortunate eccezioni culturali nell’ancora troppo omologato panorama
italiano (E qui tra tutte citiamo due
titoli provenienti da cinematografie
poco note, La bicicletta verde, primo
film di una regista donna dell’Arabia
Saudita e Come pietra paziente, toccante
ritratto al femminile diretto da un regista afgano).
“Festival” compone invece il consueto ritratto delle proposte che le maggiori manifestazioni hanno avuto il
merito di promuovere. Questo numero è segnato dalla volontà di dare
voce a registi esordienti o comunque
poco noti anche al pubblico dei cinefili. Una particolare attenzione è
riservata alla scena indie americana.
Al duo Porterfeld – Saulnier (i due
registi sono legati da un rapporto di
collaborazione, oltre che di fiducia)
abbiamo accostato l’incontro con un
regista italiano “emigrato” negli US.
Andrea Pallaoro - dopo Minervini (incontrato nel numero precedente), è
un altro caso di un filmmaker italiano
che ha trovato negli spazi americani
una terra d’elezione.
Completa il numero una conversazione con Wang Bing, cineasta tra i
più originali e coerenti. Con Ai Feng,
il filmmaker cinese torna a confrontarsi con un luogo che è al contempo
un preciso spazio fisico e simbolo
di uno stato d’animo. Il suo è un ritratto corale che supera i confini del
genere documentario, li scardina e
li mette in crisi. Questa volontà di
scavalcare le barriere per un’urgenza
di racconto o di rappresentazione è
probabilmente il filo che collega anche il lavoro dello svizzero Basil da
Cunha e del regista palestinese Hany
Abu-Assad; già notati dagli addetti ai
lavori, entrambi sono ritornati al festival di Cannes (alla “quinzaine” il
primo al “certain regard”
il secondo) con proposte
coraggiose e originali.
Luciano Barisone
Presidente Film Commission
Vallée d'Aoste
Carlo Chatrian
Editoriali 2
Film Commission Vallée d’Aoste
Progetti sostenuti 4
FILM
50 e 50, di Leonardo Gandini 7
Alì ha gli occhi azzurri, di Daniela Persico 8
Amanti passeggeri, di Lorenzo Rossi 9
Amour, par Thierry Méranger 10
Argo, di Mauro Gervasini 11
Bella addormentata, di Simone Emiliani 12
Bellas Mariposas, di Alessandro Stellino 13
Bicicletta verde, di Cristina Piccino 14
Buon anno Sarajevo, di Roberto Manassero 15
C'era una volta in Anatolia, di Giona A. Nazzaro 16
Ciliegine, di Alexine Dayné 17
Come pietra paziente, di Silvia Colombo 18
Cosmopolis, di Giona A. Nazzaro 19
Dark shadows, di Mauro Gervasini 20
De rouille et d'os, par Charlotte Garson 21
Detachment, di Leonardo Gandini 22
Django unchained, di Marco Gianni 23
È stato il figlio, di Giuseppe Gariazzo 24
Elles, par Charlotte Garson 25
Gli equilibristi, di Roberto Manassero 26
Et si on vivait tous ensemble? par Charlotte Garson 27
La Faida, di Nora Demarchi 28
Un giorno devi andare, di Umberto Mosca 29
La guerre est déclarée, par Alexine Dayné 30
Hunger, di Simone Emiliani 31
L'Intervallo, di Alessandro Stellino 32
Io e te, di Daniele Dottorini 33
Il lato positivo, di Alexine Dayné 34
The Master, di Leonardo Gandini 35
La mia vita è uno zoo, di Silvia Colombo 36
Monsieur Lazhar, di Roberto Manassero 37
Moonrise Kingdom, di Silvia Colombo 38
Noi siamo infinito, di Federico Pedroni 39
On the road, di Alessandro Stellino 40
Padroni di casa, di Umberto Mosca 41
Paris-Manhattan, par Alexine Dayné 42
La Parte degli angeli, di Grazia Paganelli 43
Les Petits mouchoirs, par Charlotte Garson 44
Pietà, di Massimo Causo 45
Le Prénom, par Thierry Méranger 46
panoramiques
Année XXIV, n°55
Revue de cinéma
Fondateur
Luciano Barisone
Directeur
Carlo Chatrian
Rédacteur en Chef
Roberto Manassero
Rédaction
Andrea Carcavallo, Elisa Collé, Isabelle
Godecharles, Alessandra Miletto
Il Primo uomo, di Giuseppe Gariazzo 47
Promised Land, di Giuseppe Gariazzo 48
Qualcosa nell’aria, di Alessandro Stellino 49
Quartet, di Giuseppe Gariazzo 50
Re della terra selvaggia, di Leonardo Gandini 51
Il Rosso e il blu, di Umberto Mosca 52
Ruby Sparks, di Massimo Causo 53
Silent souls, di Grazia Paganelli 54
Sister, di Giuseppe Gariazzo 55
Il Sospetto, di Leonardo Gandini 56
La Sposa promessa, di Simone Emiliani 57
Su Re, di Federico Pedroni 58
To Rome with love, di Marco Gianni 59
Tutti i nostri desideri, di Marco Gianni 60
Tutto parla di te, di Andrea Bergese 61
Venuto al mondo, di Alexine Dayné 62
Vita di Pi, di Daniele Dottorini 63
Zero Dark Thirty, di Federico Gironi 64
FESTIVAL
International Film Festival Rotterdam, 2013
Tra la vita e la morte, conversazione con Leonardo Brzezicki,
a cura di Roberto Manassero 65
Berlinale 2013
Il silenzio attraverso la musica, conversazione
con Matthew Porterfield, a cura di Roberto Manassero 69
Festival international du film, Cannes 2013
La distruzione della classe media, conversazione
con Jeremy Saulnier, a cura di Roberto Manassero 74
Les fous, les outsiders, les héros maudits,
entretien avec Basil da Cunha, par Carlo Chatrian 78
La città divisa, conversazione con Hany Abu-Assad,
a cura di Giuseppe Gariazzo e Grazia Paganelli 81
Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Venezia 2013
Terra d'origine, conversazione con Alessandro Rossetto,
a cura di Nora Demarchi 84
Wasted land, conversazione con Andrea Pallaoro,
a cura di Roberto Manassero 88
Errante, ossessivo, impudico. Ritratto di Wang Bing,
di Carlo Chatrian 91
Follia e amore, Conversazione con Wang Bing,
a cura di Daniela Persico 92
Collaborateurs
Propriété
Andrea Bergese
Massimo Causo
Silvia Colombo
Alexine Dayné
Nora Demarchi
Daniele Dottorini
Simone Emiliani
Leonardo Gandini
Giuseppe Gariazzo
Charlotte Garson
Mauro Gervasini
Marco Gianni
Federico Gironi
Roberto Manassero
Thierry Méranger
Umberto Mosca
Giona A. Nazzaro
Grazia Paganelli
Federico Pedroni
Daniela Persico
Cristina Piccino
Lorenzo Rossi
Alessandro Stellino
Film Commission Vallée d'Aoste
Direction et rédaction
33, rue de Paris – 11100 Aoste – Italie
Tél. : +39 0165 26 17 90
[email protected]
Graphisme et mise en page
Pier Francesco Grizi
Charvensod (AO) – Italie
Enregistrement au tribunal d’Aoste
n°8/90
Expédition par
abonnement postal
Art. 2, alinéa 20/c de la loi n°662/96
Aoste
La version PDF de la revue est disponible
en ligne sur le site
www.filmcommission.vda.it
Impression
ITLA - Aoste
En couverture :
Medeas
Progetti
Sostenuti
A WAY WE GO (2013)
MARE E CARBONE (2013)
TROFEO MEZZALAMA (2013)
Genere: SportDoc
Regia: Alex Schiller.
Produzione: IsenSeven.
Periodo di riprese: Aprile 2013.
Location in VdA: Courmayeur.
Genere: Documentario
Regia: Gianluca Rossi.
Produzione: Korova.
Periodo di riprese: Ottobre/Dicembre 2013.
Location: Melito Porto Salvo (RC).
Genere: Documentario
Regia: Angelo Poli.
Produzione: GiUMa Produzioni S.r.l.
Periodo di riprese: Maggio 2013.
Location in VdA: Alpi Graie e Pennine.
La produzione tedesca IsenSeven, una fra
le più importanti nel panorama europeo ed
internazionale per la realizzazione di snowboard film, ha realizzato a Courmayeur buona parte delle immagini del nuovo skimovie
A Way We Go. Come abitudine della casa di
produzione bavarese, la regia è stata curata
da Alex Schiller e Vincent Urban, due professionisti di comprovata esperienza che hanno
alle spalle diverse produzioni di questo genere negli ultimi dieci anni.
Grazie ad una diffusione a livello internazionale, che prevede un tour di 20 date
nelle più importanti città europee (Monaco,
Mosca, Berlino e Praga per citarne solo
alcune), la diffusione massiccia sul web
(RedBull TV, iTunes, YouTube, Vimeo) e una
distribuzione in DVD a livello mondiale
(USA/CAN, Europa, Giappone, Australia e
Nuova Zelanda) questa nuova produzione
rappresenta una vetrina d’eccezione per
la Valle d’Aosta. Film Commission Valle
d’Aoste, in collaborazione con Chambre
valdôtaine, ha appoggiato l’iniziativa coprendo parte delle spese sostenute dalla
produzione sul territorio valdostano e
fornendo vari servizi di consulenza legati
all’organizzazione generale e alla logistica.
Margherita, 30 anni, è nata e cresciuta ad
Aosta, ma la sua famiglia paterna è meridionale, originaria di Melito di Porto Salvo
in provincia di Reggio Calabria. Margherita
si sente profondamente legata a quei luoghi, per lei carichi di ricordi, dove affondano le sue radici e dove torna ogni anno
per le vacanze estive. Ogni angolo, ogni
dettaglio le è caro: le strade sono sentieri
conosciuti, le piazze sono finestre sul passato, i volti delle persone raccontano storie
conosciute. Accanto ad immagini piacevoli
e ricorrenti ve ne sono però alcune scomode ed impegnative, per certi versi più
interessanti da mettere a fuoco attraverso
la speciale lente della macchina da presa.
Lo spettrale stabilimento e la storia surreale della Liquichimica, l’ecomostro costato
negli anni ‘70 ben 1300 miliardi delle vecchie lire e chiuso dopo appena due giorni
perché “altamente inquinante”, ha sempre
affascinato Margherita.
“Il trofeo Mezzalama è sempre stata una
gara-evento essendo la prova di scialpinismo più alta delle Alpi poiché supera la
vetta del Castore (m 4226) e il Passo del
Naso dei Lyskamm (m 4150). È anche la
gara più classica perché è nata nel 1933,
nell’epoca in cui sorgevano le prime stazioni sciistiche e i primi impianti di risalita,
ma il Trofeo Mezzalama è rimasto fedele
all’autentico sci-avventura dei pionieri che
allora come oggi affronta l’alta montagna
senza alcun aiuto meccanico, il vero fuoripista sia in salita, sia in discesa. ”
La casa di produzione trentina “GiuMa”,
specializzata nella creazione di film, video e spot legati principalmente al mondo della montagna, ha realizzato un documentario sulla più famosa classica delle
Alpi. Il progetto ha impegnato in Valle
il regista Angelo Poli ed il suo staff fra il
mese di marzo e quello di aprile. Il film
racconta l’edizione 2013 della “Maratona
delle Alpi”, seguendo i protagonisti della
gara durante gli allenamenti, la competizione e le fasi successive al termine della
manifestazione. Un avvincente spaccato
agonistico-sportivo che si arricchisce lungo la salita di elementi umani e paesaggistici unici.
Alex Schiller – Artista e regista di origine olandese (Leiden) ed appassionato di
musica e sport estremi, si trasferisce molto presto a Monaco di Baviera dove stabilisce la sua base operativa. Insieme ad
alcuni amici fonda la casa di produzione
IsenSeven, specializzata nella concezione
e nella realizzazione di Skimovie di alta
qualità. Curatore della serie Madventures,
esordisce dietro la macchina da presa nel
2009 con Let’s Go Get Lost. Impegnato a
tutti i livelli nell’attività di IsenSeven, Alex
non rinuncia al suo appuntamento annuale con la regia: nel 2010 esce Don’t Panic
seguito l’anno successivo dal bellissimo
Kaleidoscope. Negli ultimi due anni vedono
infine la luce Fool’s Gold e A Way We Go.
Gianluca Rossi – Diplomato in regia cinematografica all’ESEC di Parigi ed in regia
teatrale al CIC di Roma, ha studiato regia
e recitazione con Nikolaj Karpov, Alan
Woodhouse, Irina Promptova, Giovanni
Lombardo Radice, Michel Chion, Luc Pagès
e Ugo Chiti. Ha diretto spettacoli teatrali
(Perversioni sessuali a Chicago di Mamet,
Le serve di Genet, Il sogno di una notte d’estate di Shakespeare, Camere da Letto di
Ayckburn), cortometraggi, documentari e
trasmissioni televisive. Nel 2008 ha esordito nelle sale cinematografiche italiane con il lungometraggio Ho ammazzato
Berlusconi. Da oltre dieci anni è titolare
della casa di produzione Korova, attraverso la quale ha prodotto, ideato e realizzato
numerose opere audiovisive a carattere sia
autoriale che promozionale, pubblicitario
ed istituzionale. Parallelamente svolge attività didattiche, insegnando recitazione,
movimento scenico e tecniche del cinema
e dell’audiovisivo.
GiUMa Produzioni S.r.l. – É una costituenda Srl pluripersonale che intende operare
sui mercati televisivi e multimediali nazionali e internazionali per la produzione
di contenuti (Media Content Production)
e per la produzione esecutiva di audiovisivi, film e programmi televisivi. Tutti
i membri sono residenti in provincia di
Trento e vantano un'esperienza ventennale. Obiettivo principale è raccogliere
intorno al progetto GiUMa giovani filmmaker, videomaker e produttori innovativi di contenuti, attrarre capitali in
Trentino per la produzione di contenuti
e proporre nuovi format a broadcaster e
grandi distributori.
5
NINÍ (2013)
Genere: Documentario
Regia: Gian Luigi Giustiniani.
Soggetto: Gian Luigi Giustiniani
Produzione: La Fournaise.
Periodo di riprese: autunno/inverno 2013.
Location in VdA: Massiccio del Monte Bianco.
Lorenzo Boccalatte riscopre, tramite i filmati, le fotografie e i diari lasciatigli dalla
madre, Ninì Pietrasanta, una delle poche
donne scalatrici che negli anni trenta ha
documentato per anni le sue imprese con
una cinepresa 16mm. Il centro della sua
attività alpinistica era la Valle d’Aosta e il
gruppo del Monte Bianco in particolare. Le
immagini della montagna negli anni ‘30, le
vette imbiancate, Ninì che scia con i compagni, Ninì che scala su una parete di roccia. Fra quei fotogrammi in bianco e nero
appare anche Gabriele, padre di Lorenzo,
morto poi a causa di una frana quando il
figlio aveva solo un anno.
Lorenzo, che
conosceva il padre solo come un bravo
pianista, ora ha finalmente la possibilità di
vedere lui e la madre mentre arrampicano
insieme, uniti in cordata. Poi ancora scalate, Gabriele filmato da Ninì, sino a che su
una morena un gruppo di persone intorno
ad una croce ne piange la morte. Lorenzo,
oggi settantenne, guarda nei filmati della
madre, suo padre, poco più che trentenne,
che lo tiene in braccio, lo osserva mentre
piange nella culla, gli insegna a muovere i
primi passi.
Gian Luigi Giustiniani – Studia a Milano
Scienze dei Beni Culturali all’Università
Statale e successivamente segue il corso
di documentario presso le Scuole Civiche
di Cinema, Televisione e Nuovi Media.
A
fine corso realizza il suo primo documentario La casa del Drago.
Dal 2005 inizia a
lavorare come videomaker, direttore della
fotografia, operatore e montatore per altri
registi o in video commerciali, molto spesso in ambito musicale. Nel 2013 termina
il documentario Montagna Dei Vivi, realizzato all’interno del workshop di formazione al documentario organizzato da Film
Commission denominato “Figure con paesaggi”. Il film è stato selezionato al festival
Visons du reel di Nyon.
PERICOLO VERTICALE (2013)
Genere: Action Reality
Regia: Simone Gandolfo.
Interpreti: Luca Argentero.
Produzione: Inside Productions di Luca
Argentero e Myriam Catania.
Periodo di riprese: Febbraio/Giugno 2013.
Location in VdA: Aosta, Cervinia,
Courmayeur e in generale tutto il territorio
valdostano.
POLAROID (2013)
Genere: Fiction
Regia: Roberto Cuzzillo.
Interpreti: Salvatore Li Cusi, Peter Connelly,
Pierre Lucat.
Produzione: SAP11.
Periodo di riprese: Maggio 2013.
Location in VdA: Aosta.
Serie televisiva che racconta in modo
spettacolare e coinvolgente l’attività
quotidiana e straordinaria al tempo stesso del Soccorso Alpino Valdostano, impegnato con il suo staff (guide alpine, medici, verricellisti e piloti di elicotteri) ad
intervenire prontamente sui terreni più
insidiosi del territorio regionale.
Immagini girate nella zona di Cervinia,
che hanno visto protagonista anche Luca
Argentero nella duplice veste di produttore e narratore, hanno completato il
lavoro di una troupe che da febbraio ad
aprile 2013 ha vissuto a stretto contatto
con l’équipe del SAV per seguire giorno
dopo giorno gli interventi ed i soccorsi
effettuati in tutte le loro fasi.
La messa in onda della serie è prevista
per gennaio 2014; le 8 puntate (di circa
30 minuti) saranno trasmesse in prima
serata sul canale più importante della
piattaforma satellitare Sky.
La pellicola, prodotta dalla casa di produzione torinese SAP11, è inserita all’interno di un progetto più ampio, il lungometraggio intitolato Remember me Berlin
composto da altri sette video di registi
internazionali selezionati al “Berlinale
Talent Campus 2012” e che hanno come
tema guida generale “l’identità nel mondo
di oggi”.
Polaroid racconta il percorso emotivo di
un ragazzo omosessuale che, attraverso
un incontro casuale e rivelatore, giungerà
a comprendere la vera natura dell’amore,
forza motrice rivoluzionaria per decodificare ed affermare la propria identità.
In questo contesto vengono sviluppati i
temi paralleli della provincia, dei rapporti
giovanili, della crisi economica, della difficoltà generale di relazione con se stessi e
con gli altri.
La sensibilità di Cuzzillo, già dimostrata
nei precedenti lavori, mette in luce, attraverso una recitazione asciutta ma efficace,
le contraddizioni dei nostri tempi.
Simone Gandolfo - Partecipa in qualità
di attore a numerose fiction televisive
(Ferrari, Gino Bartali – L’intramontabile,
Distretto di Polizia, La leggenda del bandito e del campione e R.I.S. Roma). Firma la
regia del film horror Evil Things.
Luca Argentero - Debutta come attore nel 2005 nella serie televisiva Carabinieri. Esordisce nel 2007
sul grande schermo nella pellicola
Saturno contro di Ferzan Ozpetek. A
partire da quell’anno è protagonista
di molti lungometraggi fra cui Lezioni
di cioccolato, Solo un padre, Diverso
da chi?, Il grande sogno, Oggi Sposi, La
donna della mia vita, C’è chi dice no,
Mangia prega ama. Fra i suoi ultimi lavori si segnalano Bianca come il latte,
rossa come il sangue e Cha Cha Cha.
Roberto Cuzzillo - Nasce a Torino nel
1983. Il suo percorso di studi lo avvicina a
piccoli passi al mondo del cinema e della
fiction nel quale entra senza più esitazione
nell’ultimo decennio. Nel 2005 è fondatore della casa di produzione Enzimistudio
con cui produce alcuni lavori tra cui il cortometraggio Lygofobia presentato alla 64°
Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Nel 2008 produce e dirige il suo primo
lungometraggio Senza Fine presentato
in numerosi festival internazionali e distribuito in vari paesi europei fra i quali
Germania, Francia, Olanda e Spagna.
Camminando Verso è il suo secondo
lungometraggio prodotto dalla stessa
Enzimistudio e dalla Sap11 di Fabrizio
Sapino.
6 ProgettiSostenuti
RICHARD THE LIONHEART:
REBELLION (2013)
Genere: Fiction
Regia: Stefano Milla.
Interpreti: Malcolm McDowell, Gregory
Chandler, Debbie Rochon.
Produzione: Claang Entertainment
(Italia), Wonderphil Productions (Usa) e
Doma Entertainment (Russia).
Periodo di riprese: Agosto '13/Febbraio '14.
Location in VdA: Castello d’Introd e
Castello di Fénis.
Dopo essere miracolosamente scampato
alla prigionia in una nascosta fortezza e
dopo aver dimostrato il suo valore conquistandosi l’appellativo di “Cuor di Leone”,
Richard si unisce ai fratelli Henry the
Young e Geoffrey nella ribellione in atto
contro loro padre il re Henry II.
Siamo alla fine del XII secolo e l’epoca medievale è continuamente scossa
dai turbolenti rapporti tra Inghilterra e
Francia in un incessabile gioco di alleanze, tradimenti e complotti. Per quanto
“contro natura”, la ribellione dei tre fratelli reali contro il padre è appoggiata da
re Louis di Francia che accoglie i ribelli a
Parigi per siglare gli accordi.
Stefano Milla – Collabora a diverse produzioni indipendenti in qualità di attore
e aiuto regista. Negli anni successivi concorre presso numerosi Festival cinematografici europei con lavori autoprodotti.
Nel 1992 il suo lungometraggio video
Armaghedon ottiene la distribuzione in
Home Video. Nel 1993 realizza il suo primo cortometraggio in pellicola vincendo
il Primo Premio Spazio Italia presso il
Festival Internazionale Cinema Giovani
di Torino. Nel 1997 e 1998 realizza due
cortometraggi di ambientazione medievale che gli consentono, nel 1999,
di ottenere finanziamenti pubblici per
la produzione del suo primo lungometraggio in pellicola: La via della gloria. Il
film esce nelle sale nel luglio del 2002
e partecipa ai premi David di Donatello
e Ciak d’Oro. Nel 2005 conclude il cortometraggio Claang: l’origine preludio di
un nuovo lungometraggio di genere fantasy. Il cortometraggio viene accettato
dal Dragoncon Film Festival di Atlanta,
presso il quale riscuote ampio successo
e consente a Stefano Milla di iniziare collaborazioni con produzioni americane.
Melhores resorts
de inverno (2013)
Genere: TV Show
Interpreti: Raquel Iendrick.
Produzione: KN Video (Tele Globo).
Periodo di riprese: Febbraio 2013.
Location in VdA: La Thuile.
Importante produzione televisiva brasiliana presente sul territorio valdostano
nel mese di febbraio in quel di La Thuile
per girare alcune significative immagini
della stazione sciistica e del suo comprensorio. Si tratta della troupe itinerante del
TV Show denominato Melhores Resorts de
Inverno, prodotto da KN Video e trasmesso in Sudamerica da uno dei canali satellitari di maggior successo di Tele Globo.
È in sintesi una trasmissione dedicata agli
amanti degli sport invernali che ha come
scopo quello di presentare agli spettatori i comprensori sciistici più esclusivi ed
attrezzati del pianeta, illustrandone nel
dettaglio piste, impianti, servizi, personaggi e tradizioni in maniera simpatica e
competente.
Star indiscussa della trasmissione è la
giovane e bella snowbordista brasiliana
Raquel Iendrick a cui sono affidati i commenti e parte delle riprese in soggettiva
sulle piste. Dopo le tappe americane (fra
cui Aspen, Lake Louise, Copper Mountain
e Ushuaia) ed i principali comprensori sciistici francesi e tedeschi, La Thuile è stata
la sola tappa italiana della “colorata” produzione brasiliana.
KN Video - A partire dal 1990 KN Video
ha creato una vera e propria industria
del divertimento con produzioni per la
televisione e per la rete. La società sudamericana ha accompagnato la crescita di
internet in Brasile e ha investito molto
in produzioni esclusive per la web-TV.
La possibilità di accedere a contenuti
on-demand si è sviluppata con la crescita della banda larga in quel paese. Uno
dei più grandi successi del network è
stato il lancio della TV on-line, riservata ai giovani, Jam nel 2007. Il canale ha
raggiunto un traguardo di 44.000 accessi
simultanei. Oggi il network vanta un’altra
partnership di successo con l’importante Globo-Sat. Oltre alla produzione con
contenuti on-line, KN è entrato anche nel
mercato delle trasmissioni dal vivo via
internet, con vari prodotti.
IL TRAFORO
DEL MONTE BIANCO (2013)
Genere: Documentario
Regia: Riccardo Piaggio, Marco Serrechia,
Luca Bich, Daniele Di Gennaro.
Produzione: Associazione Pourparler.
Periodo di riprese: Luglio 2013/Luglio
2014.
Location in VdA: Monte Bianco.
Il film racconta, ispirandosi al volume Un
varco a Nord-Ovest, le visioni, i protagonisti, la storia e le cronache del Traforo del
Monte Bianco, dalla nascita fino ai giorni
nostri. Le vicende vengono narrate con
un’attenzione particolare ai temi attuali dei rapporti socio-economici tra Italia
e Francia e a quelli culturali delle idee di
frontiera e di sviluppo sostenibile. É la
storia di un viaggio ideale, dalle intuizioni
dei primi pionieri a fine ‘800, alla caduta
dell’ultimo diaframma di roccia il 14 agosto 1962 (ricordato lo stesso giorno del
2012 con un convegno a Courmayeur, le
cui immagini entreranno nel film), al periodo 1962-1965, fino agli anni del boom
della mobilità e al tragico incidente del 24
marzo 1999. Fanno parte di questo viaggio
nella storia, nella cronaca e nell’attualità, i
protagonisti di ieri e di oggi, oltre a testimoni dei rapporti italo-francesi e a intellettuali
autori di riflessioni sui temi della frontiera e
dello sviluppo sostenibile. Hanno infine uno
spazio fondamentale le immagini d’archivio
che costituiscono la mappa visiva e concettuale del documentario.
Riccardo Piaggio – Giornalista culturale,
ricercatore e curatore di eventi. Ha collaborato con «La Stampa» ed è curatore
e coeditore della guida My Local Guide Valle d’Aosta (Lightbox 2011). Ha ideato e
diretto Festival ed eventi (Babel, Festival
della parola), curato produzioni musicali e culturali. Ricercatore presso il centro
CSS-Ebla (Torino), ha insegnato all’Università (Torino e Aosta) Giornale in Ateneo
e Progettazione culturale. È consulente
Autogrill SpA per i progetti innovativi e
consulente per la progettazione e ricerca
delle nuove Officine Grandi Riparazioni di
Torino (Fondazione CRT-OGR). Ha ideato,
scritto e prodotto il cortometraggio “Viva
la Musica popolare” (2006) con il regista Joseph Péaquin, Sta realizzando per
Minimum Fax Media e France3, il film per i
50 anni del Traforo del Monte Bianco.
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
50 e 50
50/50
Regia: Jonathan Levine. Sceneggiatura:
Will Reiser. Fotografia: Terry Stacey.
Montaggio: Zene
Baker.
Musiche:
Michael Giacchino Scenografia: Annie
Spitz. Costumi: Carla Hetland. Interpreti:
Joseph Gordon-Levitt, Seth Rogen, Anna
Kendrick, Bryce Dallas Howard, Anjelica
Huston, Serge Houde, Andrew Airlie, Matt
Frewer, Philip Baker Hall. Produzione:
Mandate Pictures, Relativity Media.
Distribuzione: Eagle Pictures. Paese: Usa.
Anno: 2011. Durata: 99 minuti.
Secondo un vecchio adagio, un attimo prima di morire ti passa tutta
la vita davanti. Ma cosa succede se
la morte, anziché essere imminente e sicura, è «solo» incombente
e probabile? Il film di Jonathan
Levine parte da qui: a un ragazzo
nel fiore degli anni viene diagnosticato un tumore che ha discrete possibilità (da qui il titolo) di
rivelarsi incurabile. In casi come
questi, a sfilarti davanti non è il
passato, ma il presente. Che per il
protagonista si rivela pieno di buchi e di zone d’ombra: una madre
ansiogena, un padre incapace di
intendere, una fidanzata non irreprensibile, un amico che tende a
strafare.
Da quando negli Stati Uniti sono
esplosi i corsi universitari di
scrittura creativa, il cinema indipendente americano abbonda di
sceneggiatori di talento, con quel
che ne consegue in termini di copioni originali, dialoghi brillanti e
personaggi estrosi. Cui si aggiunge un certo gusto nel piazzare in
alto l’asticella della sfida narrativa: come appunto in questo caso,
dove viene costruita una commedia a partire da una premessa – un
cancro in giovane età – che proprio ilare non è. Difficile trovare
in film del genere punti d’attrito;
difficile, però, non rimpiangerli. Il
film si gioca nella prima parte tutte le carte sgradevoli, poi imbocca
la strada dell’ottimismo e non la
abbandona più. Famiglia, amicizia,
amore: i sacri valori della cultura
americana ne escono rinvigoriti,
rinsaldati dalla comparsa di una
disgrazia che, per come andranno
le cose, finisce per somigliare più
a un colpo di fortuna, un’occasione d’oro per setacciare nella propria vita ciò (e chi) vale veramente
la pena di trattenere.
Connessa all’alta qualità della
scrittura è la questione della messa in scena, particolarmente significativa se considera il cinema
indipendente americano di questi
ultimi anni. In film come 50 e 50 lo
stile visivo è infatti funzionale al
processo, in questo caso ben più
importante, di ottimizzazione dei
dialoghi e delle interpretazioni. In
sintesi, la tradizione cormaniana
di un cinema povero di mezzi ma
ricco di invenzioni, implausibile
nelle trame ma pirotecnico sul
piano formale, nel giro di qualche
decennio si è rovesciata nel suo
contrario: un cinema stilisticamente normalizzato, spesso verboso e retorico, per quanto non
sempre nell’accezione negativa di
questi due termini. Con le invenzioni visive ormai appannaggio
esclusivo dei film a grande budget
prodotti dalle Major, opere indipendenti come 50 e 50 pongono
l’asticella della sfida visiva a un
livello medio: le immagini corredano i dialoghi, con l’eccezione di
qualche sequenza dove la musica
prende il comando delle operazioni, allo scopo di enfatizzare gli
attimi di scoramento del protagonista e segnalare l’imminenza del
momento fatidico.
Insomma, 50 e 50 appartiene alla
categoria dei film che non si prendono rischi, anche se in principio
sembrerebbe voler fare il contrario. In realtà, l’improvvisa e inattesa prossimità al decesso del
protagonista non ne scatena pulsioni negative, rabbie irrefrenabili, atteggiamenti corrosivi verso
il mondo. La sua reazione non ne
fa un personaggio oscuro, in rotta
con l’universo. Più che un malato,
un martire, che porta su di sé, con
stoica sopportazione, sventure
che farebbero perdere la bussola
a molti. La conclusione finisce così
per apparire come una sorta di remunerazione etica per il comportamento adottato in precedenza.
E anche quando prova a essere
scorretto, il film sceglie di assecondare un destino non cieco ma
in grado di scorgere e percorrere
i sentieri della morale. Se Gus Van
Sant nello splendido L’amore che
resta, prodotto da Bryce Dallas
Howard (qui fra gli interpreti principali), raccontava la morte come
punto d’innesco di una filosofia
dell’esistenza improntata alla
quotidianità, 50 e 50, in modo brillante e a tratti anche divertente, si
accontenta di vedere nella malattia un’occasione per diventare, se
non più belli, almeno più buoni.
Leonardo Gandini
7
8
il giro del mondo
in 60 film
ALÌ HA GLI OCCHI AZZURRI
saison culturelle
Regia: Claudio Giovannesi. Soggetto:
Claudio Giovannesi, Filippo Gravino,
Francesco Apice. Sceneggiatura: Claudio
Giovannesi, Filippo Gravino. Fotografia:
Daniele Ciprì. Musica: Claudio Giovannesi, Andrea Moscianese. Montaggio: Giuseppe Trepiccione. Scenografia: Daniele
Frabetti. Costumi: Medile Siaulytyte. Interpreti: Nader Sarhan, Stefano Rabatti,
Brigitte Apruzzesi, Marian Valenti Adrian,
Cesare Hosny Sarhan, Fatima Mouhaseb,
Yamina Racemi, Salah Ramadan, Marco
Conidi. Produzione: Acaba Produzioni,
Rai Cinema. Distribuzione: BIM Distribuzione. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata:
94 minuti.
Non è solo un titolo preso in prestito, il filo che collega l’opera seconda
del giovane regista romano Claudio
Giovannesi allo scandaglio poetico
di Pier Paolo Pasolini: in entrambi vi
è la stessa tensione etica, capace di
trasfigurare la quotidianità lasciando spazio a una narrazione mitica. Al
contrario del cinema «sporco» del
poeta friulano, unico cineasta a saper utilizzare il filtro della composizione pittorica senza sottrarre nulla
alla materia dell’immagine cinematografica impastata di polvere e dinamismo, Alì ha gli occhi azzurri si
colloca sulla scia del cinema realista
contemporaneo, in cui la fotografia
conserva una certa plasticità: come
se l’occhio della macchina da presa
sapesse quando seguire da vicino i
corpi dei protagonisti e quando fermarli in totali mai scontati, suggeriti
sicuramente dalla direzione magistrale di Daniele Ciprì.
Proprio questo doppio binario tra
un realismo «educato» e un lirismo «trattenuto» diventa la chiave
espressiva dell’urgenza di un progetto che più di altri sa raccontare
l’oggi, la contingenza storica di un’Italia nuova, che non ha ancora trovato un’espressione al cinema se non
in maniera bozzettistica. L’incontro
tra il giovane regista e i ragazzi della cosiddetta seconda generazione,
adolescenti nati cioè in Italia ma cresciuti in famiglie radicate in altre culture, è alla base della sceneggiatura,
che proprio grazie all’immersione
nell’orizzonte dei giovanissimi riesce ad andare oltre al mimetismo per
accostarsi a un esperimento di auto-
racconto (certo, molto coordinato)
in grado di costruire la trama epica
di una nuova società. E non stupisce
che solo grazie a questi interventi di
cineasti nelle aule scolastiche italiane (lo stesso Giovannesi, nel precedente documentario Fratelli d’Italia,
2011, grazie al quale ha preso vita
l’odissea di Nader, oppure Salvatore
Mereu, nella finzione improvvisata
di Tajabone, 2010, interpretato dai
ragazzi delle scuole medie della Cagliari multietnica) si stiano ricominciando a mettere in crisi le formule
tradizionali e stereotipate della narrazione per trovare nuove forme di
racconto, più sfumate e sfuggenti.
Nader e Stefano sono veri adolescenti di Ostia, amici che si sono trovati a dover superare grandi conflitti
tra loro, in una comunità disgregata
che sembra sempre più divisa in aree
di appartenenza capaci di creare barriere o scontati sodalizi. E Giovannesi, dopo un lungo lavoro sul territorio (in parte, come si diceva, confluito nel documentario Fratelli d’Italia),
accompagna questi due adolescenti
in una messa in scena, pedinatrice e
discreta, che assume l’andamento
mitico di una genesi: una settimana
per andare al fondo della propria coscienza, per passare dall’atto al pensiero, da un istinto alla meditazione,
per accorgersi che dietro una scelta
c’è una cultura. Nader ha entrambi i
genitori egiziani ma vive con fierezza il suo stato di italiano di seconda
generazione, pronto a rinnegare tutto – compresa la sua religione – per
seguire il compagno fidato, Stefano,
e la fidanzatina, Brigitte. Seguendo
la Profezia di Pasolini: "… deponendo
l’onestà / delle religioni contadine,
dimenticando l’onore della malavita, / tradendo il candore / dei popoli
barbari, / dietro ai loro Alì / dagli
Occhi Azzurri – usciranno da sotto
la terra per uccidere – / usciranno
dal fondo del mare per aggredire
– scenderanno / dall’alto del cielo
per derubare…".
Evitando molti luoghi comuni dei
film sul multiculturalismo, Giovannesi si àncora ai giovani corpi
dei ragazzi e allo sguardo magnetico di Nader per andare al cuore
di un conflitto di cui è incapace di
immaginare soluzioni rassicuranti
e neppure semplici vie d’uscita.
Perché nella mutevolezza del fisico e nella precarietà (ma anche
nell’assolutezza) delle idee, gli
adolescenti si offrono come rappresentazione emblematica della
possibilità che è offerta alla società, ormai ridotta a una terra deserta battuta soltanto dall’omologazione delle merci.
A questa riflessione, così pasoliniana, sembrano essere tornati
tanti giovani registi italiani negli
ultimi anni: da Francesco Munzi
ad Alice Rohrwacher, per arrivare
a Matteo Garrone che con Reality
(2012) tratteggia una nuova classe
proletaria già preconizzata nelle
lettere corsare. Quasi che le parole
dell’intellettuale friulano restino
le uniche chiavi interpretative di
un presente sempre più complesso
da rappresentare.
Daniela Persico
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
GLI AMANTI PASSEGGERI
Los amantes pasajeros
Regia, sceneggiatura: Pedro Almodóvar.
Fotografia: José Luis Alcaine. Montaggio:
José Salcedo. Musica: Alberto Iglesias.
Scenografia: María Clara Notari. Costumi:
Tatiana Hernández. Interpreti: Javier
Cámara, Raúl Arévalo, Carlos Areces, Lola
Dueñas, Cecilia Roth, Hugo Silva, Antonio de la Torre, José Luis Torrijo, José
María Yazpik, Guillermo Toledo, Penélope Cruz, Antonio Banderas. Produzione:
Agustín Almodóvar, Esther García per El
Deseo. Distribuzione: Warner Bros. Italia.
Paese: Spagna. Anno: 2013. Durata: 90
minuti.
Che Gli amanti passeggeri sia un film
girato con la mano sinistra, che sia un
divertissement del tutto personale –
perfino autoreferenziale – del suo
autore e un momento di divagazione
è fuori dubbio. Che sia, per questi
motivi, un’opera trascurabile, anodina e superficiale come è stato scritto,
è tutt’altra questione. Con quest’opera Almodóvar realizza un lavoro
che pur mettendo a nudo alcune pecche del suo cinema, e pur lasciandosi
andare a indugi narcisistici, coglie il
momento storico attuale con incredibile lucidità e pertinenza.
Il film racconta di un Airbus-340 della compagnia Península in viaggio fra
Madrid e Città del Messico che, a causa di un’avaria al carrello, è costretto
a restare in volo attendendo di ricevere l’autorizzazione a compiere un
atterraggio di emergenza. Sull’aereo,
mentre tutti i passeggeri di seconda
classe sono narcotizzati per evitare
scene di panico, il personale di volo,
insieme ai due piloti, si prende cura
del ristretto gruppo di viaggiatori della prima classe. All’interno di
questa trama insolitamente snella
ed essenziale, il regista iberico dà
vita in maniera molto libera a un universo mistificante nel quale la rappresentazione, che procede per episodi, interludi e ripetizioni, rischia di
far sì che la trivialità del linguaggio
e i tratti grotteschi assegnati ai personaggi possano essere scambiati
per sfacciate provocazioni o divertiti indugi in salsa queer. Mentre non
fanno altro che incarnare i caratteri
parossistici, eccentrici e archetipici
del genere comico.
Già, la commedia. Forse s’è dimenticato che la rappresentazione della
società tramite bozzetti, maschere
e mondi o microcosmi dal carattere
universale raffigura spesso l’agire
più tipico della commedia al cinema.
Perché il genere non ha nulla a che
vedere con i pastiche piccolo-borghesi fatti di tradimenti coniugali,
manuali d’amore, ex e natali al mare
in montagna o in crociera ai quali la
farsa nostrana si affida con grande
fedeltà da più di un ventennio. A proposito di crociere, pare davvero lampante la similitudine, e l’altrettanto
evidente contiguità con il presente,
fra il volo della Península, azzoppato e costretto a girare in tondo sperando di toccare terra al più presto,
e una certa nave da crociera abbandonata ai flutti del mar Tirreno e alle
cure di un capitano sciagurato. Al di
là della tragedia della Concordia, ci
pare che (as)trarre le peculiarità comiche della «maschera» Schettino
per applicarla ai personaggi e alle
situazioni di un film non sia un’intuizione così geniale da non venire in
mente a qualche sceneggiatore di
casa nostra… Eppure la rappresentazione tutt’altro che edificante che Almodóvar propone di una nazione (la
«península» cui si riferisce potrebbe
non essere solo quella iberica) e,
forse, di un continente sempre più
instradato verso la catastrofe, pare
di enorme pertinenza e di assoluta
sagacia.
Il sospetto che quindi viene è che il
regista stia dipingendo un quadro
sconsolante sull’involuzione, ormai
del tutto compiuta, della «classe pa-
drona». Ritratto cui la Spagna si presta perfettamente del resto, essendo
la nazione che più di ogni altra in
Europa ha visto la propria ascesa e
il proprio declino consumarsi tanto
in fretta da confondersi quasi l’una
nell’altro. E andrebbe letto in questo
senso l’accentuato côté anni ’80 di
cui la pellicola è rivestita: gli arredi
dell’aereo, gli abiti degli steward e,
ovviamente, l’intermezzo danzato
sulle note di I’m So Excited delle
Pointer Sisters.
Non si tratta soltanto, per Almodóvar, di tornare, anche visivamente, a fare il cinema che faceva
quasi trent’anni fa, quanto di voler mostrare, attraverso modalità
enunciative consone, un ribaltamento di prospettiva enorme. Gli
amanti passeggeri mostra infatti
come del vitalismo di quegli anni,
dell’edonismo camp postfranchista (allora agli antipodi di quello
reaganiano e thatcheriano), della
rivoluzione sessuale e dei costumi
e dell’esplosione della queer culture, sia rimasto ben poco, nonostante l’Europa, nonostante il miracolo
economico e nonostante Zapatero. No, oggi il popolino in seconda
classe dorme, mentre una casta
senza qualità si stordisce di droga,
alcol e sesso interpretando in maniera reazionaria l’eredità anni ’80
dell’emancipazione e della speranza. Una situazione, sembra dire Almodóvar, in cui non solo la Spagna,
ma l’Europa tutta, rischia di vedersi
riflessa.
Lorenzo Rossi
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10
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
AMOUR
Réalisation, scénario : Michael Haneke.
Photographie : Darius Khondji. Montage :
Monika Willi, Nadine Muse. Musique:
Ludwig Van Beethoven, Johann Sebastian
Bach. Décors : Jean-Vincent Puzos. Costumes : Catherine Laterrier. Interprètes :
Jean-Louis Trintignant, Emmanuelle Riva,
Isabelle Huppert. Production : Alfama
Films, Prospero Pictures. Distribution :
Teodora Film. Pays : France/Allemagne/
Autriche. Année : 2012. Durée : 127 minutes.
Récompensé par la Palme d’or au
festival de Cannes 2012 et applaudi
à deux mains par la quasi totalité de
la presse, le dernier opus de Michael
Haneke est un objet beaucoup plus
complexe que son succès public et
critique le laisse entendre. Amour fait
sans conteste partie des films dont
la première vision terrasse le spectateur. C’est d’abord le sujet traité qui
témoigne résolument d’une audace
scénaristique peu coutumière. Aborder par sa fin l’histoire d’un couple,
amoureux de longue date, en insistant sur ce qui fait habituellement
partie du non-dit et de l’impensé
cinématographiques, témoigne d’une
volonté de pousser le 7e Art dans ses
retranchements les plus intimes. De
fait, le film, qui fait litière de toutes
les représentations romantiques,
est d’abord un tableau inédit et sans
fard, car ancré dans le réel le plus
prosaïque, du quotidien d’un vieux
couple mis à l’épreuve de la maladie,
de la souffrance et de la dégénérescence physique.
Affranchi de la plupart des tabous liés
à nos conceptions occidentales, Haneke filme avec brio et sans concessions la dépendance, la déchéance
des corps et le repli sur soi. Mais
aussi, logiquement, le délitement des
relations sociales et familiales, mises
à mal par l’écoulement du temps et
les progrès de la maladie. Ce cinéma
du dévoilement, qui n’hésite pas à dénuder les corps et les âmes sans pour
autant verser dans le voyeurisme, fait
choc. Et sa saisissante réussite formelle repose, au delà de la précision
du scénario, de la science des cadres
du chef opérateur Darius Khondji et
de l’acuité des dialogues, sur deux
performances exceptionnelles.
C’est à juste titre qu’ont été saluées
les interprétations d’Emmanuelle
Riva et de Jean-Louis Trintignant, parfaits dans les rôles d’Anne et Georges,
les bourgeois mélomanes dont l’existence s’achève dans le huis-clos de
leur appartement parisien. Le retour
à l’écran de ces monstres sacrés du
cinéma d’auteur – comment ne pas
se souvenir de Hiroshima mon amour
ou de Ma nuit chez Maud ? – échappe
d’emblée à l’habituel « syndrome de
La Maison du lac » et au cabotinage
attendu d’un couple de stars vieillissantes. Il convient également de ne
pas oublier Isabelle Huppert, dans le
rôle ingrat mais essentiel de la fille du
vieux couple, dont les interventions
témoignent du fossé qui se creuse
progressivement entre la maison et
le monde.
Pourtant, si le talent de cinéaste de
Michael Haneke y éclate une nouvelle
fois, il nous faut constater que son
film repose sur une ambiguïté fondamentale, qui tient de toute évidence
à son titre. Faut-il forcément déduire
de l’affichage tapageur d’un mot qui
flotte en étendard que le film doit
être analysé comme la profession de
foi d’un humanisme ultime et absolu?
Ou, pour être plus précis, que les réactions de Georges, le vieil époux en
plein désarroi, constituent dans leur
radicalité et leur violence les plus extrêmes, l’expression quintessencielle
du sentiment amoureux ? Ne serait-il
pas légitime, au contraire, de s’interroger sur la nature et la sanctification
d’un tel « amour » ? Ne serait-il pas
loisible, à l’opposé, de lire le film
comme un film sur l’amour (et non
un film d’amour), une tragédie sentimentale qui ne dirait rien d’autre
que la précarité et la désespérante
mortalité d’un sentiment que des
siècles de littérature n’ont cessé de
valoriser ? Difficile, d’ailleurs, de ne
pas penser que le titre initialement
envisagé, quand la musique s’arrête,
aurait constitué un choix moins
équivoque.
Il aurait en tout cas permis de souligner ce qui crève les yeux de tous
ceux qui suivent attentivement la carrière du cinéaste autrichien : Amour,
au titre probablement plus antiphrastique qu’on le croit, est bel et bien le
digne successeur de ce Ruban blanc
de 2009 qui ne révélait rien d’autre
que la présence d’un ver en tout fruit.
Le film forme par ailleurs, jusque dans
l’obsession de la claustration, de l’immobilisation et de la suffocation, un
saisissant diptyque avec Le Septième
Continent, ce premier long métrage
de cinéma du réalisateur qui, en
1989, racontait le lent suicide d’une
famille recluse dans son pavillon. Il
n’est, somme toute, guère surprenant
de retrouver aujourd’hui ce pessimisme foncier chez Haneke. L’injustice serait, après la dénonciation du
trompe-l’œil initial, de reprocher au
cinéaste une forme de misanthropie
ou, plus exactement, de réflexion sur
les fondements de la morale qui a
toujours sous-tendu une œuvre plus
passionnante que jamais.
Thierry Méranger
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
ARGO
Regia: Ben Affleck. Soggetto: basato sul
libro The Master of Disguise: My Secret
Life in the CIA di Antonio J. Mendez e
sull’articolo The Great Escape di Joshuah
Bearman, «Wired», 2007. Sceneggiatura:
Chris Terrio. Fotografia: Rodrigo Prieto.
Musica: Alexandre Desplat. Montaggio:
William Goldenberg. Scenografia: Sharon Seymour. Costumi: Jacqueline West.
Interpreti: Ben Affleck, Bryan Cranston,
Alan Arkin, John Goodman, Victor Garber,
Tate Donovan, Clea DuVall, Scoot McNairy, Rory Cochrane, Christopher Denham,
Rafi Pitts. Produzione: Gk Films, Smoke
House, Warner Bros. Distribuzione: Warner Bros. Italia. Paese: Usa. Anno: 2012.
Durata: 120 minuti.
Il 4 novembre 1979, mentre la rivoluzione islamica dell’ayatollah
Khomeini stravolge i connotati dell’Iran, l’ambasciata degli Stati Uniti di
Teheran viene assediata da una folla
inferocita e invasa da studenti armati. Cinquantadue addetti americani
restano prigionieri, ma sei di loro riescono a scappare e a trovare rifugio
nella residenza privata dell’ambasciatore canadese. Braccati dai pasdaran guardiani della rivoluzione,
i fuggiaschi vengono salvati da un
agente della Cia, Tony Mendez, che
con l’aiuto di due cineasti di Hollywood li spaccia per tecnici cinematografici volati in Iran per cercare
location di un film di fantascienza.
Storia vera, con nomi, situazioni e somiglianze (non Mendez, interpretato
da Ben Affleck) rispettate e con una
testimonianza vocale inedita sui titoli di coda di Jimmy Carter, che visse
proprio allora il momento più drammatico della sua presidenza. Gli storici sono concordi nel sostenere che,
a causa del disastro dell’ambasciata
iraniana, Carter si giocò il secondo
mandato e il film, per l’area liberal
cui Ben Affleck e i produttori George
Clooney e Grant Heslov appartengono, serve anche a risarcire la figura di
uno statista maltrattato dalla Storia.
Fino alla presidenza Clinton tutta la
vicenda restò infatti coperta dal più
rigoroso segreto, tanto che i meriti
della strabiliante operazione di intelligence furono presi dal Canada.
Fin qui i fatti. Argo, terza prova da regista di Affleck dopo i rocciosi Gone
Baby Gone (2007) e The Town (2010),
tracima nella fiction raccontando
l’impresa dal punto di vista di Mendez, ma privilegiando soprattutto il
dispositivo della simulazione, quindi
la macchina del cinema, per costruire la suspense, vero motore del coinvolgimento nel racconto. L’illusione
di realtà della messa in scena è doppia: da una parte quella del racconto,
con la sua retorica «di genere» (gli
agenti Cia rallentati dalla burocrazia,
i tempi da thriller delle coincidenze
mancate o dei rischi di svelamento,
come nell’ottima sequenza nel bazar…); dall’altra, il finto film di fantascienza presentato come progetto
più vero del vero, con tanto di perfetto storyboard, sorta di cavallo di
Troia attraverso il quale distrarre il
rigido controllo della milizia iraniana
all’aeroporto e permettere agli americani di fuggire con falsi documenti
canadesi. Tutto sommato stereotipati gli agenti segreti, in particolare
Mendez/Affleck con la sua storia familiare banale, mentre è eccellente
la performance del suo superiore e
complice Jack O’Donnel, interpretato da Bryan Cranston. Strepitosi Alan
Arkin e John Goodman, i produttori
che mettono in piedi l’inganno, con il
secondo che rimanda in modo piuttosto esplicito al suo personaggio di
Matinée di Joe Dante (1993), ispirato
al regista e maestro dei trucchi William Castle. Cinefilia a parte, è però
di Arkin la battuta del film. Di fronte
al fallimento delle forze di sicurezza
americane all’ambasciata, esclama
guardando la tv: "John Wayne è morto da soli sei mesi e questo paese
non sa già più che cazzo fare", sottolineando quanto non solo a livello di
immaginario gli Stati Uniti abbiano
bisogno di eroi.
Anche per l’attenzione agli aspetti storici e ai riflessi sulla mitologia
nazionale, Argo viene definito un
«film politico», con riferimenti alla
stagione principale del cinema americano militante degli anni ’70 e a
maestri come Pollack o Pakula. In
realtà, il successo di pubblico e critica e l’interminabile raccolta di premi si devono soprattutto a un altro
aspetto, non secondario e merito
in particolare del Ben Affleck regista. Argo recupera infatti il cinema
hollywoodiano classico dallo spessore narrativo solido, dove le motivazioni storiche o politiche, se ci
sono, risultano secondarie rispetto
all’affabulazione e allo spettacolo,
alla capacità di sentire a pelle l’emozione del pubblico.
Sostenere che Affleck sia più bravo come regista che come attore
è forse un’ovvietà, ma segnala la
percezione di una messa in scena
personale estremamente efficace,
capace di valorizzare al massimo
l’apporto di tecnici e maestranze
d’eccezione, dal montatore William Goldenberg al direttore della
fotografia Rodrigo Prieto al compositore Alexandre Desplat, secondo un’ottica corale e un metodo
di lavoro propri della Hollywood
classica. È la forza del racconto
cinematografico, insomma, con i
suoi caratteristi azzeccati, i dialoghi brillanti, la narrazione fluida, il
coinvolgimento assicurato.
Mauro Gervasini
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il giro del mondo
in 60 film
Bella Addormentata
saison culturelle
Regia: Marco Bellocchio. Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Veronica Raimo,
Stefano Rulli. Fotografia: Daniele Ciprì.
Montaggio: Francesca Calvelli. Musica:
Carlo Crivelli. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Sergio Ballo. Interpreti: Toni
Servillo, Maya Sansa, Isabelle Huppert,
Alba Rohrwacher, Michele Riondino,
Pier Giorgio Bellocchio, Brenno Placido,
Gian Marco Tognazzi, Roberto Herlitzka.
Produzione: Cattleya, Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Italia/
Francia. Anno: 2012. Durata: 110 minuti.
Il lungo sonno. Come se non ci fosse
interruzione al grigio e al buio con i
quali la fotografia di Daniele Ciprì riprende i fasci cromatici del cinema di
Bellocchio da Il principe di Homburg
(1997) in poi. Bella addormentata
oltrepassa le polemiche che hanno
accompagnato soprattutto la fase
progettuale e trascina lo spettatore
in una condizione sospesa tra la vita
e la morte. I suoi numerosi personaggi appaiono come le figure di un teatro che quasi duplica la realtà e al
tempo stesso come sagome danzanti, ripossedute da una voce che si fa
motore del corpo. "Aiutami", chiede
il senatore alla moglie in coma; "Più
forte", grida l’attrice interpretata da
Isabelle Huppert in una preghiera
che ripete all’infinito la sua ritualità.
Ed "Eluana svegliati" è quasi il ritornello della colonna sonora.
Il titolo del film, che riprende quello della «favola» togliendole però
l’articolo, è in realtà un’altra imponente discesa nelle zone d’ombra
dell’essere umano, dove l’impulso
prevale sulla ragione e il gesto diventano fortemente cinematografici, movimenti in cui è racchiusa
un’energia che da sola potrebbe
sfondare lo schermo e trasformarsi
nella rabbia imprevedibile del Sergio Castellitto di L’ora di religione
o nella straordinaria leggerezza
del finale di Buongiorno, notte, con
Aldo Moro riemerso dalla prigione
e libero e sorridente per le strade
di Roma.
Eluana Englaro, però, a differenza
di Moro, non c’è. Lì sullo schermo
si dissolve, o forse si duplica nei
corpi in coma vegetativo, nella figlia dell’attrice, nella moglie del
senatore, nella tossicodipendente
che vuole morire e viene salvata
da un medico. Quest’ultima storia
è mantenuta da Bellocchio su una
tensione nascosta, che a un certo
punto però diventa luce abbagliante, rivelazione improvvisa capace,
come tutto il recente cinema del regista emiliano, di esaltare la «bellezza della notte», di frantumare le
barriere di uno sguardo che cambia
continuamente prospettiva nel rapporto tra personaggio e spazio. E le
stesse figure, come per ipnosi, diventano giganti oppure si dissolvono, come succedeva a Mussolini e
Ida Dalser in Vivere, facendo di quel
lavoro un’altra, decisiva tappa nel
percorso verso Bella addormentata.
Eluana Englaro non c’è, si diceva.
Ma è sempre presente. Nei telegiornali, sui quotidiani, negli incroci sentimentali tra la figlia del
senatore, attivista per il movimento della vita, e Roberto, che invece rappresenta la posizione laica.
Eluana è uno spettro che non si
vede ma potrebbe diventare proiezione, un’immagine da mostrare
sulle pareti di una stanza chiusa,
un’immagine forse intravista in una
condizione di sonno persistente.
In Bella addormentata c’è ancora
una Storia «trasfigurata», ma siamo fortunatamente lontani dalla
ricostruzione cronachistica del
caso politico. Tutt’altro: Bellocchio
lascia ancora una volta sospese le
domande senza risposte del suo cinema, trovando un respiro interna-
zionale che pochissimi altri autori
hanno nel nostro Paese. Al di là di
quello che viene mostrato, il suo
sguardo ha un potere «ricreativo»
assoluto, non deforma i personaggi
ma gli spazi, i quali appaiono claustrofobici e soffocanti anche negli
esterni. Ed è proprio in questo universo che attori come la Huppert
o Servillo si trasformano con sorprendente efficacia, mentre Maya
Sansa appare una figura plasmata
e poi rianimata da un furore incontrollato, proseguendo un percorso
iniziato con La balia e proseguita con
Buongiorno, notte.
Bellocchio lavora in modo sublime
il tempo, rallentato e materializzato come percezione soggettiva. E la
celebre scena della sauna o le prove del discorso del senatore sono in
questo senso casi esemplari, perché
in entrambi i momenti la velocità individuale scorre parallela a quella della
realtà circostante: Bella addormentata
inghiotte la prima e affida la seconda
al divampare della musica o della letteratura, a cominciare dal Pianto della
Madonna di Jacopone da Todi.
In definitiva, l’ultimo film di Bellocchio è una storia vera che diventa
melodramma e al tempo stesso film
d’opera. Il tutto concepito con un rigore assoluto che non coincide mai
con la freddezza compositiva, ma
trova una fisicità che permette ai
personaggi di uscire da se stessi e
duplicarsi, in un’illusione puramente
cinematografica.
Simone Emiliani
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
BELLAS MARIPOSAS
Regia, sceneggiatura: Salvatore Mereu.
Soggetto: dall’omonimo romanzo breve
di Sergio Atzeni. Fotografia: Massimo Foletti. Montaggio: Paola Freddi. Musiche:
Balentes, Cesare Cremonini, NoemiScenografia: Pietro Rais, Marianna Sciveres.
Interpreti: Sara Podda, Maya Mulas, Micaela Ramazzotti, Luciano Curreli, Maria
Loi, Rosalba Piras, Lulli Lostia, Davis Tagliaferro, Mirko Ariu, Susanna Mantega,
Carlo Molinari, Noemi Medas, Anna Karina Dyatlyk. Produzione: Viacolvento srl.
Distribuzione: Salvatore Mereu. Paese:
Italia. Anno: 2012. Durata: 100 minuti.
Con il suo romanzo Sergio Atzeni ha
attirato l’attenzione di pubblico e
critica, ma anche quella dei registi
isolani. Tutti gli riconoscevano un’originalità assoluta nell’uso della lingua, una forte qualità narrativa nel
racchiudere l’intreccio di tanti destini nell’arco di una sola giornata, e
un carattere visionario che sembrava
fatto apposta per il cinema. Potenzialmente, in quelle poche decine di
pagine, giacevano i semi di una sceneggiatura già scritta, di una storia
che, nonostante l’uso di un italiano
spurio e frammisto al dialetto, parlava a tutti. Ma c’era un problema, a
lungo dimostratosi insormontabile:
a raccontare una giornata come tante in un quartiere popolare cagliaritano, era la voce di una bambina in
grado di restituire uno sguardo nel
quale microeventi e piccole tragedie
(e piccole commedie) della quotidianità venivano frullati nel flusso di
parole e frasi spesso prive di punteggiatura, fatto di smaliziata ironia e
irrefrenabile vitalità. Qualcosa da cui
un eventuale adattamento non poteva in alcun modo prescindere, ma
che non si capiva come rendere dal
punto di vista visivo. Superato l’entusiasmo iniziale, Bellas mariposas
era diventato il romanzo impossibile
da portare al cinema.
Salvatore Mereu ha lavorato a lungo
sul testo di partenza, scomponendolo e ricomponendolo più volte, portando allo scoperto tracce sommerse
ed elaborando percorsi narrativi, in
cerca di una chiave che potesse spalancare le porte di un’adeguata resa
filmica. E quella chiave era davanti
agli occhi di tutti: la più evidente ma
anche quella da scartare per prima,
perché decisa a mettere in discussione il dispositivo «classico» della
messa in scena, così come la scrittura
di Atzeni stravolgeva il dispositivo
della narrazione. Bisognava osare,
insomma, così come l’autore del libro aveva osato; e Mereu ha capito
che l’unico modo per riproporre sullo schermo l’intensità dell’originale
era servirsi dello stesso grimaldello,
ovvero lasciare che a guidare l’interlocutore all’interno del variegato universo raccontato fosse quella
stessa bambina: come nel libro si
rivolgeva direttamente al lettore, nel
film avrebbe chiamato in causa lo
spettatore, parlandogli e soprattutto
guardandolo in faccia.
I pericoli dello sguardo in macchina, spesso banalizzato da un abuso incondizionato sono noti, e il
regista di Ballo a tre passi (2003)
e Sonetaula (2008) li aveva certamente ben presenti. L’unico modo
per «farla franca», dunque, era
trasformare l’elemento di rottura
in elemento costitutivo, fondante
l’identità stessa del film: instaurare
un dialogo tra la piccola protagonista e lo spettatore, in grado di dare
vita a un’intimità insolita (e potenzialmente a rischio di disagio) in
cui la bambina ricevesse la fiducia
dell’interlocutore, condotto all’interno di ambienti e famiglie malamente disfunzionali.
E qui sta la seconda mossa vincente
del film: il miracolo compiuto da Atzeni, e bissato da Mereu, è infatti riuscire a raccontare una realtà di pro-
fondo degrado, tra adolescenti allo
sbando e padri assenti, con il sorriso
sulle labbra. Raramente come in Bellas mariposas lo sguardo di un autore si è posato con tanta delicatezza e
compassione sulle sorti di personaggi che condividono lo stesso destino
e, oltre una certa soglia anagrafica,
partecipano di una medesima perdita di purezza. Come nei migliori
esempi della commedia all’italiana,
lo sguardo non è cinico, né tantomeno volgare, ma in grado di abbracciare debolezze e fragilità umane, di
ironizzare su piccole e grandi malefatte senza per questo nasconderle
sotto il tappeto, e talvolta di segnalare una via di fuga dall’abbruttimento
circostante.
Partita vinta, dunque, e se in Bellas mariposas un piccolo difetto
va riscontrato, riguarda piuttosto
un calo di intensità nel finale, in
quell’irrompere del surreale che
nelle pagine di Atzeni costituiva
l’apice fulgente di una scrittura vivida e inventiva (l’indimenticabile
arrivo della zingara con gatti danzanti al seguito) e che qui viene
riproposto sottotono. Il momento
in cui tutti i nodi vengono al pettine e il destino di ogni personaggio finalmente sciolto meritava un
trattamento più audace, in grado
di risuonare negli occhi dello spettatore allo stesso modo del bacio
subacqueo che si scambiano le due
piccole protagoniste a metà film.
Uno squarcio inatteso di lirismo
che avrebbe giovato anche in coda.
Alessandro Stellino
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il giro del mondo
in 60 film
LA BICICLETTA VERDE
saison culturelle
Wadjda
Regia: Haifaa Al-Mansour. Sceneggiatura:
Haifaa Al-Mansour. Fotografia: Lutz Reitemeier. Montaggio: Andreas Wodraschke.
Musica: Max Richter. Scenografia: Thomas
Molt. Costumi: Peter Pohl. Intepreti: Waad
Mohammed, Reem Abdullah, Abdullrahman Al Gohani, Ahd Kamel, Sultan Al Assaf. Produzione: Razor Film. Distribuzione:
Academy 2. Paese: Arabia Saudita/Germania. Anno: 2012. Durata: 97 minuti.
Wadjda è una ragazzina di dieci anni,
vive con la mamma bella e triste in un
sobborgo di Riyad, in Arabia Saudita. Il
suo sogno è comprarsi una bella bicicletta per gareggiare col ragazzino figlio dei vicini che già ne possiede una
e la prende in giro per questo (con la
goffaggine tipica di un corteggiamento a quell’età). Lei la «cura», la bici dei
suoi desideri, e passa a salutarla nel
negozio ogni giorno all’uscita di scuola: solo che tra le tante cose proibite
alle donne nel suo paese c’è anche
la bicicletta, considerata un attentato alla virtù. Ma la bimba è ostinata,
tenace, ha una sua strategia, e pur di
avere la «sua» bicicletta è disposta a
piegarsi alle regole che mal sopporta.
Wadjda, in Italia uscito come La bicicletta verde, era arrivato alla scorsa
Mostra del cinema con un’eco già
enorme per essere non solo il primo
film girato in Arabia Saudita, un paese
in cui le sale cinematografiche sono
vietate, ma addirittura diretto da una
regista donna, laddove le donne non
hanno il diritto di uscire da sole per
strada, di mescolarsi agli uomini nei
luoghi pubblici, dove non possono
votare (forse avverrà nel 2015) e devono lottare per riuscire a ottenere
il permesso di guidare l’automobile.
Che cosa aspettarsi dunque da questo esordio? Una visione a distanza?
Un’opera di propaganda governativa?
Un film di denuncia della condizione
femminile nel paese? La bicicletta
verde non è nulla di tutto questo. "Ci
sono migliaia di piccole Wadjda in
Arabia Saudita pronte a battersi per
i loro sogni" dice Haifaa Al-Mansour,
la regista che rifiuta anche solo l’idea
di presentarsi come una ribelle. Cresciuta a visioni «clandestine» e casalinghe (l’unica forma possibile di consumo cinematografico) in vhs e in dvd
di Bruce Lee, delle produzioni di Bollywood e dei blockbuster americani,
respinge con fermezza anche l’atteggiamento vittimista. Nessuno credeva
possibile la realizzazione del suo film,
eppure ce l’ha fatta, grazie anche al
sostegno da parte saudita del principe Ali Walid bin Talal, membro
progressista della famiglia reale che
possiede gli studios Rotana. È solo
una delle molte sfaccettature di una
realtà assai più complessa di come
le semplificazioni dell’immaginario a uso occidentale ci mostrano.
La scommessa di La bicicletta verde
va all’opposto. La figura della protagonista, la piccola Wadjda, grazie
anche all’intrepretazione dell’esordiente Waad Mohammed, rivela
il segreto di un’opera lontana dalla
pesantezza del film a tesi e capace
invece di sorprendere per spigliatezza e disincanto. L’universo femminile che affiora è anche la lente
attraverso la quale la regista racconta la società saudita, rovesciando
una icnonografia ufficiale che mette
gli uomini al centro. Qui gli uomini
sono pallide ombre, figure remote,
rinchiuse senza dubbi (a parte il piccolo amico di Wadjda, speranza di
un futuro diverso), nei loro ruoli, a
cominciare dal padre della ragazzina, che appare e scompare nella casa
ripudiando la mamma (la star televisiva saudita Reem Abdullah) perché
incapace di dargli il figlio maschio.
Ed è invece commovente e vitale lo
scambio tra mamma e figlia, una relazione complice, a volte litigiosa,
piena di amore e reciproco sostegno.
Questo mondo di donne è un universo segreto di chiacchiere, confidenze,
pettegolezzi, ma anche cattiverie e
inganni. La preside feroce, che ostenta la perfezione e punisce l’allieva
«maschiaccio», con le Converse verdi
e il suo parlare diretto, di notte lascia entrare l’amante di nascosto; la
studentessa più grande è costretta a
mentire per vedere il suo ragazzo (le
donne non possono uscire se non accompagnate dal padre, da un fratello
o dal marito) e per questo sarà duramente punita. La mamma di Wadjda
si dispera mentre il marito la umilia,
cosa che alla ragazzina risulta incomprensibile perché è meravigliosamente sensuale e piena di dolcezza.
L’intera vita delle donne è dunque
un continuo esercizio di equilibrismo sul filo di pubblico e privato,
tra ciò che si deve fare e le invenzioni di una vita meno soffocante
che la regista mette a fuoco con uno
sguardo rispettoso ma capace di far
emergere le contraddizioni. L’umorismo delicato e sbarazzino con cui
Wadjda affronta le difficoltà lascia
intravedere l’ironia più aguzza verso questo sistema, resa ancora più
forte dall’amore verso i personaggi
femminili, mai giudicati (compresa l’inflessibile preside) e narrati
invece in un modo così semplice e
diretto da renderli ancora più veri.
Cristina Piccino
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
BUON ANNO SARAJEVO
Djeca
Regia, sceneggiatura: Aida Begic. Fotografia: Erol Zubcevic. Montaggio: Miralem Zubcevic. Scenografia: Sanda Popovac. Costumi: Sanja Dzeba. Suono: Igor
Camo. Interpreti: Marija Pikic, Ismir Gagula, Nikola Đuricko, Staša Dukic, Velibor
Topic. Produzione: Film House Sarajevo,
Rohfilm, Les Films de l'Après-Midi. Distribuzione: Kitchen Film. Paese: BosniaErzegovina, Germania, Francia, Turchia.
Anno: 2012. Durata: 90 minuti.
La Bosnia-Herzegovina porta ancora
oggi le ferite di una guerra finita da
quasi vent’anni. Come un male che si
propaga con il tempo. Come un’erba
gramigna che cresce su qualsiasi terreno, l’onda malevola della guerra,
dopo aver investito gli uomini e le
donne che l’hanno combattuta, ha
colpito anche i loro figli, la generazione nata tra la metà degli anni ’80
e il 1995, anno della fine del conflitto. Le bombe e l’assedio, i cecchini
e i razionamenti, essi li videro e li
sentirono con l’incoscienza dell’adolescenza o addirittura con l’inconsapevolezza dell’infanzia.
Rahima e Nedim, la sorella e il fratello protagonisti di Buon anno Sarajevo, sono due di quei figli senza
padri e senza madri, orfani reali e
simbolici della guerra; sono due anime perdute eppure vive in un Paese
che nel frattempo si è ripreso ed è
andato avanti. La loro parabola esistenziale, comune a quella di molti
giovani di oggi, suona quasi (e fin
troppo) esemplare: lei, più grande e
più seria, costretta a diventare adulta senza essere mai stata giovane,
ha trovato stabilità emotiva nella
religione islamica e sopravvivenza
economica nel lavoro in un ristorante; lui, invece, appena adolescente
e pericolosamente tentato dalla criminalità, è una mina vagante: non ha
nemmeno l’appiglio della memoria
e dell’appartenenza a un mondo che
non può ricordare. Rahima mantiene
il fratello grazie a un accordo con i
servizi sociali, ma il pericolo di vederselo portare via è sempre dietro
l’angolo. Entrambi rappresentano
le debolezze di milioni di giovani di
oggi, tanto in Bosnia quanto nell’Europa occidentale, lasciati soli dalla
Storia e costretti a trovare da sé una
strada nella vita.
Buon anno Sarajevo, che ha nell’austera Rahima, poco più giovane della
regista Aida Begic, classe 1976, anche lei figlia della guerra e musulmana osservante, il suo punto di vista
dominante, è interamente fondato
sull’idea di ricerca e spostamento.
Rahima cammina per le strade di
Sarajevo, insegue, indaga, prova a
capire, cerca il lato umano della sua
città sperando in una giustizia che
non le impedisca di scivolare verso
la rabbia e l’autodistruzione. Rahima
vigila su Nedim tenendolo fuori dal
pericolo e costruisce per lui un rifugio sicuro, un luogo dove tornare e
sentirsi protetto: la casa che manda
avanti e dove il ragazzo mostra la fragilità della sua età, rivelando un lato
dolce e indifeso, è infatti rappresentata con toni ammantati di calore e
conforto. L’invasione degli operatori
sociali segna l’incursione del mondo
esterno, di quella realtà che non lascia speranza e che la stessa Rahima
vive come una nuova forma di violenza: se un tempo c’erano il rumore
e la distruzione, ora ci sono il silenzio e l’indifferenza.
Ma Rahima, ed è questa la sua forza,
prova a lasciarsi il passato alle spalle
e a vivere nel presente, accettandolo e magari cambiandolo: da qui la
reazione orgogliosa e fiera all’ingiustizia verso il fratello; da qui la camminata nella notte di capodanno che
chiude il film, un momento facilmen-
te metaforico, ma capace di aprire a
un giorno nuovo: un giorno in cui le
pistole non sparino e in cui non rischiare di impattare nella pallottola
di un cecchino.
La bravura di Aida Begic, una delle
giovani registi da tenere d’occhio (è
al suo secondo film e nel precedente
Snow aveva già raccontato gli strascichi della guerra su una giovane
vedova), sta in uno sguardo distante
per volontà di osservazione, ma vicino per empatia verso i personaggi.
Il suo tentativo è quello di scovare
grazie ai due fratelli protagonisti un
sentimento autentico, un legame che
vada oltre il sangue e sfoci nell’amore, e così facendo mutare l’immagine di Sarajevo stessa, città che sta
là fuori, fredda e desolata, e che rischia di diventare una nuova Russia,
oligarca, violenta e selvaggiamente
capitalista.
Se, come dice la stessa Begic, tutto nasce dalla paradossale, e forse
fasulla, nostalgia per i tempi della
guerra, quando ogni cosa sembrava bella e umana perché tutti erano
uguali, perché sotto le bombe ciascuno era una vittima innocente, la
scommessa di Buon anno Sarajevo
è proprio quella di raccontare un
mondo nuovo e vero, senza legami
ingombranti col passato. Un mondo
forse solitario e spietato come quello vecchio, ma straordinariamente
libero: si tratta solamente di scegliere tra l’ingiustizia del potere e la
speranza racchiusa da giovani come
Rahima e Nedim.
Roberto Manassero
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il giro del mondo
in 60 film
C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA
saison culturelle
Bir zamanlar Anadolu’da
Regia: Nuri Bilge Ceylan. Sceneggiatura:
Ercan Kesal, Ebru Ceylan, Nuri Bilge Ceylan. Fotografia: Gökhan Tiryaki. Montaggio: Bora Göksingöl, Nuri Bilge Ceylan.
Scenografia: Dilek Yapkuöz Ayaztuna,
Çadri Erdogan. Interpreti: Muhammet
Uzuner, Yilmaz Erdogan, Taner Birsel,
Ahmet Mümtaz Taylan, Firat Tanis, Ercan
Kesal, Cansu Demirci. Produzione: Zeyno
Film, Prod2006, 1000 Volt, Turkish Radio
Tv Corporation (Trt), Imaj, Fida Film, NBC
Film. Distribuzione: Parthénos. Paese:
Turchia/Bosnia-Erezegovina Anno: 2011.
Durata: 157 minuti.
Da enfant prodige dei festival
(Cannes, in questo caso) a involontario portabandiera della presunta
involuzione del cosiddetto cinema
d’autore, il passo è brevissimo. A
suonare la carica in questo attacco frontale ai neo-vezzi autoriali
sono i rinati Cahiers du cinèma,
in una sorta di agile e utile vademecum nel quale individuano una
serie di cineasti e pratiche registiche e/o produttive da evitare con
la massima cura. E se su Reygadas
e Von Trier non si può essere che
d’accordo, e se ci si rallegra che il
bluff Haneke sia finalmente considerato per quel che vale, infastidisce, o meglio dispiace, che nell’ansia di un repulisti comunque ormai
improcrastinabile siano passati
per le armi (figurativamente) anche Bela Tarr e il suo splendido The
Turin Horse e Nuri Bilge Ceylan e il
suo notevolissimo C’era una volta
in Anatolia.
E con questo si torna all’inizio:
da autore corteggiato a totem del
neo-accademismo, il passo è brevissimo. Cosa che dovrebbe spingere a porsi qualche interrogativo
– non è mai troppo tardi – sui meccanismi del consenso sui quali si
reggono le macchine festivaliere.
E il ruolo della critica, ovviamente.
Bilge Ceylan, nonostante la cura
formale dei suoi lavori, non è mai
stato, a nostro opinabilissimo giudizio, autore convincente sino in
fondo. I suoi film, per quanto ricercati e a tratti affascinanti, sembravano ricadere sempre nella
categoria dell’esotismo festivaliero, quello che a Youssef Chahine
permetteva di dire, con ferocia
ironia, che c’è sempre bisogno di
una nuova scimmia (riferito in una
conversazione privata in occasione della presentazione capitolina
di Il destino). Insomma Bilge Ceylan è stato sempre un buon regista
costantemente in odore di fare
sempre e solo ciò che si aspetta da
un… regista turco.
Paradossalmente, ora che lo stesso
Bilge Ceylan rompe gli argini della sua comfort zone e forza i limiti
del suo stile e della sua poetica,
ossia quando finalmente il suo
cinema diventa compiutamente
interessante, ecco che scatta l’interdizione critica.
La severità con la quale la censura
colpisce è pari solo all’entusiasmo
che accoglie le prime discutibili
prove dell’autore esotico di turno (e questo la dice lunghissima
su un certo eurocentrismo critico
che invece si vorrebbe illuminato
e «glocal»). Si pensi per esempio
all’inesistente «Iñarritu»: dove
sono finiti gli apologeti dell’altro
ieri? Però guai a dissentire… ieri!
Tornando invece a C’era una volta
in Anatolia, c’è da segnalare che
Bilge Ceylan compie in realtà un’operazione fortemente coraggiosa:
si riallaccia alla lezione del primo
cinema di Theo Anghelopoulos, riprendendo l’anti-epica brechtiana
del regista greco per mettere in
piedi un poliziesco da incubo totalitario che si potrebbe collocare
agevolmente tra Costa-Gavras, Elio
Petri, Alexander Kluge e qualcun
altro. E prima che si levino i soloni
armati di bilancino delle citazioni,
s’intende con questi riferimenti segnalare una certa attitudine
alla verifica politica piuttosto che
un’adesione puntuale a modelli
formali preesistenti.
In questo senso C’era una volta in
Anatolia rappresenta sì una scelta di campo molto ambiziosa, ma
di certo non un giocare al sicuro
del proprio credito autoriale e festivaliero. Nel film, infatti, c’è una
messa a rischio del proprio cinema
che francamente è superficiale ridurre a una sorta di esaltazione di
mere coordinate autoriali. Il film
è una vera e propria autopsia del
corpo di una nazione, che brancola
al buio, senza che l’alba accenni a
giungere, è il segno di un cinema
che decide di interrogare in prima persona, attraverso la forma,
la politica di un paese. Da noi a
lavorare lungo queste coordinate,
senza volere insinuare alcuna similitudine, tanto vale specificarlo,
sono rimasti solamente Bellocchio
e Martone.
Curioso che un coraggioso abbandonare le proprie posizioni di comodo come questo C’era una volta
in Anatolia sia stato frainteso per
un’involuzione. Ci si augura che
Nuri Bilge Ceylan continui a rischiare.
Giona A. Nazzaro
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
CILIEGINE
La cerise sur le gâteau
Regia: Laura Morante. Sceneggiatura:
Laura Morante, Daniele Costantini. Fotografia: Maurizio Calvesi. Montaggio:
Esmeralda Calabria. Musiche: Nicola Piovani. Interpreti: Laura Morante, Pascal
Elbé, Isabelle Carré, Frédéric Pierrot, Patrice Thibaud, Samir Guesmi, Ennio Fantastichini, Georges Claisse. Produzione:
Nuts and Bolts, Maison de Cinema, Soudaine Compagnie. Distribuzione: Bolero
Film. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata:
100 minuti.
Ciliegine segna l’esordio alla regia
di Laura Morante: un progetto lungamente voluto e desiderato, di
cui l’attrice italiana è anche coproduttrice e sceneggiatrice. Un lavoro
interamente concepito e realizzato
a Parigi, insieme con una troupe italiana, un cast d’attori francesi e i tre
uomini più importanti della sua vita.
Morante interpreta Amanda, una
donna bella e intelligente ma così
piena di frustrazioni e paure rispetto
agli uomini da essere convinta che
siano tutti inaffidabili e bugiardi: un
ruolo che senza dubbio le si addice
e che ripete di volta in volta, tra la
nevrosi e l’autodistruzione tipiche
di un’isteria un po’ comica e i vezzi
di una personalità modellata sull’amabile e terribile Lucy dei Peanuts,
la ragazzina che ribalta i maschi con
le sue urla. Tutto è chiaro fin dalla
prima scena: vigilia di Natale, Amanda e il compagno Bertrand sono al
ristorante, festeggiano il loro anniversario ma rovinano tutto con un
litigio sconsolato: colpa di una ciliegina rossa su una torta, che innesca
una discussione senza via d’uscita,
un segno di egoismo inaccettabile a
racchiudere tutte le insoddisfazioni
del loro rapporto. Da questa scena
prende avvio il film, e dunque anche
il titolo al plurale Ciliegine, in cui
gli errori degli uomini che Amanda
elencherà sono molti...
La neo-regista penetra nell’universo
e nelle emozioni femminili dimostrando un’ottima sensibilità nel
descrivere le piccole e grandi incomprensioni quotidiane tra i sessi,
ostacoli spesso insormontabili che
solo le parole riescono a valicare. Il
titolo del film, però, conferma che il
tono generale è leggero, semplice,
delizioso: e in effetti Morante realizza una commedia sobria, senza
grandi pretese ma ben scritta, scandita dalle musiche di Nicola Piovani
che immergono in un clima tipicamente parigino, e colorata dalle tonalità calde e contrastate dell’operatore Maurizio Calvesi.
Al tempo stesso, Ciliegine non è una
classica commedia sofisticata, ma
la possibile parodia di un genere,
un film chiacchierone che non ha
l’obiettivo di essere ironico, cinico
e distante, ma vuole partecipare in
maniera affettuosa ai drammi parossistici e ridicoli dei suoi personaggi. In qualche modo si rifà alla
screwball comedy degli anni ’30 e
ammicca al Woody Allen più sentimentale e pessimista sui rapporti
umani. Morante è brava a rendere la
nostalgia dell’illusione romantica, il
cambiamento delle stagioni, le passeggiate nei parchi, le cene romantiche, e al tempo stesso a contrapporre a questo versante malinconico un
umorismo giocoso, infantile, quasi
buffonesco.
La prima parte di Ciliegine è attraversata in maniera armoniosa da
un ritmo serrato e brioso, grazie soprattutto al confronto-scontro tra le
due amiche protagoniste: Amanda,
ovviamente, e Florence, la spalla
frizzante e irrefrenabile dove Isabelle Carré riprende diversi tratti
del personaggio già proposto in
un altro «gâteau» francese come
(Emotivi anonimi) la seconda parte,
invece, con l’ingresso in scena dei
personaggi secondari, che formano
un vero e proprio coro greco rispetto alla tragedia della protagonista, il
tono abbandona l’iniziale umorismo
e abbraccia la farsa, con il marito di
Isabelle che ordisce il complotto dal
proprio letto matrimoniale dispensando teorie psicanalitiche in campo amoroso.
Richiamando esplicitamente il saggio di Freud sull’interpretazione del
romanzo Gradiva di Wilhelm Jensen,
Morante utilizza così il tema dell’autoinganno per consentire alla sua
Amanda di superare la fobia degli
uomini: la scelta fa perdere al film la
spensieratezza iniziale e costringe
i personaggi alla rivelazione dei
sentimenti tramite una menzogna.
Per una serie di equivoci, infatti,
Amanda crede che l’uomo perfetto
incontrato a capodanno sia estraneo alla sua guerra contro il genere perché omosessuale, e proprio
per questo riesce a instaurare con
lui un rapporto franco e onesto.
Al di là di ogni incomprensione o
esigenza narrativa da teatro degli
equivoci, sarà l’incontro giusto:
l’incontro che porterà Amanda a
non rinchiudersi in se stessa come
la Nicole di Cuori di Resnais (interpretata, guarda caso, proprio dalla
stessa Morante) e la spingerà ad
aprirsi all’altro sesso per cercare la
felicità nell’equilibrio tra bisogni e
desideri.
Alexine Dayné
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il giro del mondo
in 60 film
COME PIETRA PAZIENTE
saison culturelle
Syngué Sabour
Regia: Atiq Rahimi. Sceneggiatura: Atiq
Rahimi, Jean-Claude Carrière. Fotografia:
Thierry Abrogast. Scenografia: Erwin Prib.
Musica: Max Richter. Interpreti: Golshifteh
Farahani, Hamid Djavadan, Massi Mrowat,
Hassina Burgan. Produzione: Arte France
Cinéma, Razor Film Produktion, Studio
37, The Film, Agora Films, Corniche Pictures. Distribuzione: Parthenos. Paese:
Francia, Germania, Afghanistan. Anno:
2012. Durata: 103 minuti.
Due corpi. Uno morto e uno vivo.
Un corpo muto e immobile, un altro
che si muove e parla. Un uomo e una
donna.
Il secondo lungometraggio del regista afghano Atiq Rahimi si impone
di ridiscutere i rapporti di potere
che sussistono tra uomo e donna
nell’Afghanistan della guerra, e per
farlo decide di mettere in scena il
paradosso della comunicazione.
Una comunicazione a senso unico,
con un solo emittente che rovescia
nel corpo dell’altro informazioni a
cui non c’è possibilità di risposta;
informazioni che probabilmente non sono nemmeno recepite.
Come pietra paziente racconta infatti di una donna che si prende
cura del marito ridotto in stato di
completa incoscienza. L’uomo, un
combattente mujaheddin ferito
al collo da una pallottola durante una rissa, riesce solo a respirare e il suo respiro è l’unico indizio del fatto che sia ancora vivo.
Al centro della narrazione c’è dunque il corpo di un uomo in totale balia di una donna, situazione che rovescia i rapporti di forza tra i sessi in
un paese dove sono le donne a essere corpi a disposizione di un sistema
di potere basato sul dominio (vendute, sposate, ripudiate, usate, violentate, scambiate). La protagonista
(l’attrice iraniana Golshifteh Farahani, bravissima nel recitare un monologo che la vuole quasi sempre da
sola davanti alla macchina da presa)
dà avvio a un flusso di parole liberato e incontrollato; un fiume che
cerca di riempire lo spazio lasciato
dall’abbandono, dalla solitudine,
dall’incomprensione, dalla rabbia e
dal desiderio frustrato. La parola diventa il luogo di una terapia che crea
il proprio spazio e il proprio tempo,
che si sceglie il proprio oggetto
e il proprio percorso. Nessuno ad
ascoltarla, accoglierla, rispondere.
Di fronte alla donna c’è il corpo di
un uomo che è "come pietra paziente", espressione che richiama
la tradizione orientale per cui bisogna appoggiare una pietra davanti
ai piedi e raccontarle ogni nostro
segreto: quando la pietra, piena del
nostro dolore, si spezzerà, si sarà
finalmente liberi dalla sofferenza.
E nel film la parola pazienza si
riempie dei significati che la lingua le assegna: nella realtà del set,
nella recitazione della Farahani,
nella gestione degli spazi, nei pochi oggetti che arredano lo spazio
scenico, nei colori stinti dei muri
e in quelli accesi degli abiti, prende corpo una «pazienza» che è
prima di tutto sentimento, dolore,
sopportare e tollerare ciò che ci
offende, ma anche, o soprattutto,
un semplice sentire. Sentire con le
orecchie, cioè ascoltare, e poi con
tutti i sensi e gli organi del corpo,
primo fra tutti il cuore. La sequenza iniziale – un lento movimento di
macchina sulle tende, la luce che
arriva dalla finestra, una tazza piena
d’acqua – viene improvvisamente
scossa da un’esplosione che fa tremare i vetri delle finestre e vibrare
il riflesso nell’acqua. Una vibrazione
che si allargherà al film intero, coinvolgendo lo spettatore nella pre-
sa di coscienza della protagonista.
Nato a Kabul, Atiq Rahimi è fuggito
dall’Afghanistan dopo l’occupazione sovietica e ha trovato asilo politico in Francia. Divisosi nel frattempo
tra Parigi e la terra d’origine, è diventato regista e scrittore e con Pietra di pazienza, romanzo vincitore
del Goncourt (e in origine anch’esso
dedicato al Nadia Anjuman, poetessa afghana assassinata dal marito),
ha per la prima volta usato la lingua
francese e deciso poi di trasportare
in immagini le proprie parole. Forse
proprio per questo, per aver abbandonato cioè la lingua madre, con il
Rahimi ha trovato la giusta distanza
cinematografica con cui servirsi in
modo libero e spregiudicato della
cultura d’origine.
La parte finale del film, infatti, mette
in scena con violenta determinazione un paradigma blasfemo: solo per
il fatto di aver parlato, una donna è
diventata Profeta; non solo ha proferito la sua verità, ma nel momento
in cui l’ha pronunciata è diventata
scrigno di una verità futura e di una
rivelazione nascosta al resto degli
uomini. In una stanza dove ci sono
pochissimi oggetti (qualche materasso, una flebo, delle macerie) spicca la presenza del Corano, appoggiato su una mensola e avvolto in
un panno. E ciò che il film racconta
è la storia di un’incarnazione: la parola del profeta custodita in un libro
che a un certo punto discende sulla
Terra per incarnarsi nel corpo vivo di
una donna.
Silvia Colombo
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
COSMOPOLIS
Regia, sceneggiatura: David Cronenberg.
Soggetto: dall’omonimo romanzo di
Don DeLillo. Fotografia: Peter Suschitzky. Montaggio: Ronald Sanders. Musica:
Howard Shore. Scenografia: Arvinder
Grewal. Costumi: Denise Cronenberg.
Interpreti: Robert Pattinson, Sarah Gadon, Paul Giamatti, Kevin Durand, Abdul
Ayoola, Juliette Binoche, Mathieu Amalric. Produzione: Alfama Films, Prospero
Pictures. Distribuzione: 01 Distribution.
Paese: Francia/Canada/Portogallo/Italia.
Anno: 2012. Durata: 109 minuti.
L’incontro fra Paulo Branco, produttore, e David Cronenberg, regista, provoca delle curiose associazioni di idee. Al di là dell’evidente
riuscita della trasposizione del romanzo di Don DeLillo, fa un certo
effetto leggere Paulo Branco paragonare il modo di lavorare sul set
del canadese a quello del venerando Manoel de Oliveira o sapere
che la visionarietà cronenberghiana evoca nel navigato produttore
portoghese similitudini con l’approccio di Raúl Ruiz.
Questo per dire che tutte le riserve espresse nei confronti di Cosmopolis, che secondo la fazione
avversa sarebbe un film statico,
immobile, parlato, teatrale e così
via, a uno sguardo più aperto in
realtà si rivelano in realtà punti di
contatto fecondi con la tradizione
della modernità più avventurosa.
Non c’è bisogno di scomodare André Bazin per comprendere che l’adattamento di un testo al cinema
si attua per differenze progressive,
manifestando l’alterità sia della
pagina scritta sia dell’immagine.
Cronenberg, genialmente, mette in scena in Cosmopolis proprio
questa irriducibile differenza. Pur
restando fedelissimo alle sue ossessioni, come tutti i cineasti che
orbitano il loro gesto filmico intorno a un nucleo fondante, Cosmopolis estremizza la poetica del
contagio virale del regista.
La crisi finanziaria, o meglio il mito
massmediale della crisi, è messo in
scena come una pandemia che ag-
gredisce la percezione della realtà e il principio di individuazione.
Cosa che di conseguenza si estende alle strutture del linguaggio e
agli strumenti attraverso i quali
rappresentiamo la nostra posizione e il nostro agire nel mondo.
Cosmopolis secondo Cronenberg
«racconta», dopo l’11 settembre,
l’unico attentato ancora possibile: lo spegnimento del mondo attraverso la fantasmizzazione del
denaro, che altro non sarebbe,
secondo William S. Burroughs, che
un’accettazione d’identità. Quindi
se «qualcuno» cessa di accettare
l’identità del denaro ne consegue
che il mondo, che si autorappresenta attraverso le possibilità offerte dal denaro, cessa di esistere.
La paura di questo spegnimento
in Cronenberg è un virus che altera la realtà. E la realtà stessa è
un costrutto da rielaborare e decostruire attraverso le strutture del
linguaggio, le quali a loro volta,
come insegna ancora Burroughs,
possono agire come un virus. In
questo senso è interessante osservare il lavoro di messinscena
di Cronenberg: l’interno della
stretch-limo funziona come una
camera isolazionista (la memoria
corre alle capsule di La mosca) che
progressivamente si apre al contagio dell’esterno, anche se in apparenza non vi è comunicazione fra
i due ambienti. Cronenberg, come
suo solito, offre attraverso gli ambienti una rappresentazione fisica
dei processi di adattamento cere-
brale dei corpi: ed è dalla frizione
di questi due campi che scaturisce
la tensione drammatica di Cosmopolis.
Il testo di De Lillo, a sua volta,
enunciato con glaciale partecipazione dal sorprendente Pattinson,
si presenta come luogo di verifica del film. Nucleo dove il film di
Cronenberg inizia a esistere come
progetto filmico. Il che significa
che il testo è la verifica negativa
del film: il film non è il libro.
In questo senso Cronenberg costruisce un ambiente filmico nel
quale mettere in scena il libro
come corpo altro. Il processo del
farsi del film è esattamente il luogo in cui il libro cessa di esistere
per diventare altro. Come dire che
Cronenberg applica la sua strategia virale anche all’annosa questione della fedeltà nei confronti
della pagina scritta. Il «virus cinema» rende altro la pagina scritta,
fa suo l’«origine libro».
Ciò che affascina di questo processo è la trasparenza del lavoro. Con
una chiarezza documentaria che a
Branco evidentemente ha ricordato de Oliveira e Ruiz, Cronenberg
rivela la sua irriducibile matrice
modernista. Ed è probabilmente
questa sua radicalità ad avere creato sconforto nei cuori di coloro
che ancora ritengono Cronenberg
solo una specie di «regista horror».
Giona A. Nazzaro
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20
il giro del mondo
in 60 film
DARK SHADOWS
saison culturelle
Regia: Tim Burton. Soggetto: John August,
Seth Grahame-Smith, dall’omonima serie
tv americana di Dan Curtis (1966-1971).
Fotografia: Bruno Delbonnel. Sceneggiatura: Seth Grahame-Smith. Montaggio:
Chris Lebenzon. Musica: Danny Elfman.
Scenografia: Rick Heinrichs. Costumi:
Colleen Atwood. Interpreti: Johnny Depp,
Michelle Pfeiffer, Bella Heathcote, Helena Bonham Carter, Eva Green, Jackie
Earle, Jonny Lee Miller, Christopher Lee,
Alice Cooper. Produzione: Infinitum Nihil,
Gk Films, Zanuck Company. Distribuzione: Warner Bros. Pictures italia. Paese:
Usa. Anno: 2012. Durata: 113 minuti.
Dark Shadows prende ispirazione da
una serie televisiva omonima poco
conosciuta in Italia, ma assai popolare nel mondo anglosassone. L’autore
è Dan Curtis, nome noto agli appassionati di horror, regista originario
del New England e sceneggiatore di
un classico del genere, Ballata macabra con Karen Black e Oliver Reed
(1976), che è uno dei migliori film
dedicati al tema delle case infestate. Filtrando le suggestioni gotiche
di quella zona degli Stati Uniti dove
nacquero tra ’600 e ’700 le leggende
delle streghe di Salem, suggestioni
poi rese in forma di prosa delirante
dal conterraneo H.P. Lovecraft, Curtis
rese omaggio a un immaginario horror piuttosto estremo rendendolo
per la prima volta seriale. L’ispirazione gli venne dal sogno ricorrente di
una donna in treno.
Proprio quella giovane donna diventa nella finzione Victoria, una ragazza orfana che raggiunge la cittadina
di Collinsport per lavorare al servizio
di Elizabeth Collins, ereditiera che
da diciotto anni non lascia la sua magione, condivisa insieme a mostri e
fantasmi, alcuni fantastici, altri decisamente più reali. La prima stagione
del telefilm si concentra soprattutto
sulle due donne, tanto che il personaggio poi considerato centrale, il
vampiro Barnabas Collins, subentra
solo dal secondo anno.
La versione cinematografica del
2012, diretta da Tim Burton e scritta da Seth Grahame-Smith, autore
del controverso romanzo Orgoglio e
pregiudizio e zombie, libera interpretazione «romeriana» di Jane Austen,
spariglia in parte la premessa. Nel
senso che sceglie di concentrarsi subito su Barnabas (Johnny Depp), trasformato in vampiro dall’amante Angelique Bouchard (Eva Green) perché
tradita per l’eterea bellezza di Josette (Bella Heathcote), di cui Victoria
(sempre la Heathcote) si rivelerà in
seguito una sorta di incarnazione.
Burton ambienta il film all’inizio degli anni ’70, la contemporaneità della
serie, mantenendo però i rimandi al
«trapassato», il XVIII secolo, quando
la famiglia di Barnabas partì dall’Inghilterra verso il Nuovo Mondo.
Dark Shadows gioca quindi su un
doppio piano vintage attingendo
all’iconografia di entrambi, quella gotica del New England ai tempi
delle streghe di Salem e quella più
«contestataria» di inizio anni ’70,
con tanto di figli dei fiori strafatti e
musiche dell’epoca. Basta un istante perché la materia dell’articolato
racconto televisivo di Dan Curtis
diventi totalmente burtoniana. L’amore per la diversità simboleggiata
dal «mostro» qui si ribalta significativamente. La famiglia Collins, la cui
matriarca è interpretata dall’ottima
Michelle Pfeiffer (che occhieggia alla
sua licantropesca partecipazione a
Wolf di Nichols, ma è lecito pensare
anche a Morticia Addams), ha con la
mostruosità una frequentazione diffusa. Un bambino che parla con la
madre morta, fenomenologie lupesche disseminate tra i geni di qualche giovane parente, un vampiro,
una governante testimone impassibile di eventi sovrannaturali e la
strega Eva Green che condivide con
Barnabas l’immortalità. Il vero mostro risulta essere l’unico «normale»,
vale a dire Roger Collins (Jonny Lee
Miller), padre assente del bambino,
essere viscido che pensa solo al proprio tornaconto monetario e cerca di
depredare i beni di famiglia nascosti
da Barnabas.
Dopo lo sfarzo senz’anima di Alice in
Wonderland che nonostante l’enorme
successo commerciale (anche in Italia,
dove è stato premiato al box office in
modo spropositato), risultava soffocato da effetti speciali digitali restando
molto in superficie rispetto ai caratteri
poetici di Lewis Carroll, Dark Shadows
recupera la squisita poesia del macabro di Burton, lo sguardo fiabesco
sulle differenze capaci di sprigionare
vitalità e sensibilità umana. Il tutto in
una dimensione quanto mai ludica,
dove il gioco, organizzato con ironia e
intelligenza, è quello del cinema.
Il regista di Edward mani di forbice
premia prima di tutto il suo immaginario favorito, quello dell’horror classico rappresentato, qui come in altri
suoi titoli recenti, da Christopher Lee
(il comandante dei pescherecci), indimenticabile Dracula della Hammer.
Le stesse posture di Johnny Depp, con
relative angolazioni della macchina
da presa, sono un chiaro omaggio a
un’arte, la settima, nata forse non casualmente lo stesso anno in cui venne
pubblicato il capolavoro di Bram Stoker (1895). Dal Nosferatu di Murnau a
Bela Lugosi, icona già narrata dal regista in Ed Wood, è tutto un susseguirsi
di sollecitazioni cinefile.
Mauro Gervasini
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
DE ROUILLE ET D’OS
Réalisation : Jacques Audiard. Scénario : Thomas Bidegain, Jacques Audiard,
d’après les nouvelles Rust and Bone de
Craig Davidson. Photographie : Stéphane
Fontaine. Montage : Juliette Welfling. Musique : Alexandre Desplat. Décors : Michel
Barthélémy. Costumes : Virginie Montel.
Interprètes : Matthias Schoenaerts, Marion
Cotillard, Bouli Lanners, Corinne Masiero,
Céline Sallette. Production: Why Not Productions. Distribution : BIM. Pays : France/
Belgique. Année : 2012. Durée : 115 minutes.
Faire tenir debout une femme privée
de jambes, recoller les morceaux de
la vie d’un homme brisé : ce sont plusieurs handicaps, pas seulement le
handicap physique, qui sont au cœur
– dans la chair – du film de Jacques Audiard. Ali, géant du Nord de la France à
la carrure et au parcours professionnel
qui ne lui réservent que des emplois
de videur de boîte de nuit ou de vigile,
atterrit sur la Côte d’Azur avec son
petit garçon de cinq ans. Son histoire
personnelle semble compliquée, mais
jamais le film ne livrera le passé de
cet homme à la force opaque, entêtée,
presque bornée. Stéphanie ne vient
pas du même monde, elle mène une
vie de couple rangée ; seule sa profession – dresseuse d’orques au Marineland d’Antibes – sort de l’ordinaire.
La rencontre improbable de la carpe
et du lapin, de la rouille et de l’os, a
lieu un peu par hasard, mais Jacques
Audiard la filme comme si elle avait
été programmée par le destin : les
belles jambes de Stéphanie en minijupe qui, attirant l’œil d’Ali lorsqu’il
la raccompagne en voiture, seront les
premières livres de chair sacrifiées sur
l’autel d’un scénario qui oppose, non
sans fougue, l’épaisseur terrienne des
corps à l’imperceptible finesse d’un
amour naissant. Aussitôt les jambes
de la belle montrée, aussitôt elle va
les perdre tragiquement dans un accident qui interrompt sa carrière et bouleverse sa vie, menaçant son intégrité
sociale et psychique.
Le corps, Ali connaît car il est son fonds
de commerce : non seulement ses
muscles lui servent professionnellement, mais il participe à des combats
de boxe clandestins, sanglants et lucra-
tifs. Le choix de Matthias Schoenaerts
pour interpréter Ali renforce cette univocité : ce rôle-ci prolonge son personnage d’éleveur de bétail dépendant
des stéroïdes dans Bullhead de Mikael
Roskam. Rien d’étonnant, dès lors,
que l’amitié qu’Ali noue avec la jeune
femme passe par une offre décomplexée de ses services sexuels. « J’suis
opé ! », son expression pour dire à Stéphanie qu’il est « opérationnel », donc
prêt à coucher avec elle si elle le désire
à un moment donné, situe son rapport
au corps à l’opposé de celui de la jeune
femme : rompue de par son métier aux
chorégraphies aquatiques et aux mouvements de bras qui lui permettaient
de communiquer avec les orques, Stéphanie, avant son accident, habitait
un corps abstrait, presque un pur système de signes. Elle se trouve soudain
confrontée à l’expérience charnelle
de ce corps au moment où il devient
un poids mort, ou du moins, où il se
modifie au point d’entraver ses déplacements. En utilisant des trucages
numériques pour gommer la partie
des membres disparus du corps réel de
l’actrice, Jacques Audiard enfreint un
tabou implicite du cinéma, qui a souvent recours à des trucages délibérément évidents (le trou dans un lit où se
glisse le mollet de l’acteur valide) ou à
des acteurs handicapés (l’inoubliable
casting de Freaks de Tod Browning).
Priver de ses jambes Marion Cotillard,
star internationale, c’est en effet faire
incarner puissamment la modification
du schéma corporel de tout spectateur.
Porté par une grande virtuosité visuelle, De rouille et d’os évite ainsi,
par son obsession même du corporel,
l’écueil de la psychologie ou du "mes-
sage" sur la nécessité de surmonter
le handicap. Audiard sait bien que
seule la mise en scène peut souder
de manière crédible et émouvante les
deux blessés de la vie. En ce sens, son
film Sur mes lèvres (2001) constituait
l’esquisse de De rouille et d’os. Ce n’est
pas un hasard si les deux séquences les
plus chargées du point de vue dramaturgique, dans ce film-ci entrent en
écho avec la profession aquatique de
Stéphanie : l’élément aqueux se fait
ici épreuve régénératrice, de même
que dans Un prophète, le précédent
film d’Audiard, l’univers carcéral se
révélait fabrique de l’héroïsme pour
un sombre petit trafiquant qui en ressortait « prophète ».
La possibilité d’un amour passe par un
troc mystérieux entre capacités physiques et capacités émotionnelles :
la « délicatesse » – un mot que Stéphanie finit par prononcer mais qu’à
l’évidence, Ali n’a pas dû beaucoup entendre dans sa vie – s’échange contre
une surpuissance corporelle presque
monstrueuse. Les combats clandestins, dans l’excès du risque physique
qu’ils impliquent, fonctionnent ici non
comme une marque d’amoralisme d’Ali
mais comme une démonstration d’une
force dont il ne sait que faire. Une
force qui ne demande qu’à se donner.
Ce débordement, Audiard le prend en
charge avec panache : sa réalisation,
qui ne craint ni les effets voyants ni les
dialogues coup de poing, est perpétuellement « opé », déminant par des
tours de force successifs le mélodrame
dont elle emprunte les ingrédients de
départ.
Charlotte Garson
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il giro del mondo
in 60 film
DETACHMENT - IL DISTACCO
saison culturelle
Detachment
Regia: Tony Kaye. Sceneggiatura: Carl
Lund. Fotografia: Tony Caye. Montaggio: Barry Alexander Brown, Geoffrey
Richman, Michelle Botticelli. Scenografia: Jade Healy. Costumi: Wendy Schecter.
Interpreti: Adrien Brody, Marcia Gay Harden, James Caan, Christina Hendricks,
Lucy Liu, Blythe Danner, Tim Blake Nelson, William Petersen, Bryan Cranston,
Sami Gayle. Produzione: Paper Street
Films, Kingsgate Films. Distribuzione: Officine Ubu. Paese: Usa. Anno: 2011. Durata: 100 minuti.
Difficile trovare un film più distante
dal suo titolo, a meno che non si voglia considerare il «distacco» come
un punto d’arrivo al quale il narratore non riesce ad approdare, impegnato com’è nel compito di prendersi sulle spalle il dolore del mondo e
raccontarlo con toni accorati. Infatti,
quella che Detachment traccia è né
più né meno una mappa della sofferenza umana. Questa però, a differenza di ciò che avviene in altri film
improntati a una visione pessimista
del mondo, non viene ricondotta a
motivi di ordine sociale o politico.
L’umanità non sta andando alla deriva perché non ricicla a sufficienza
i rifiuti, inquina troppo o costruisce
armi devastanti, ma perché, più semplicemente e tragicamente, gli individui hanno smesso di ascoltarsi e di
capirsi.
Sul piano della simbologia spaziale,
il luogo dove si annuncia la catastrofe è la scuola, ovvero l’istituzione
preposta alla trasmissione di quei
valori di base che dovrebbero garantire il futuro dell’umanità. Ma questa
trasmissione è frustrata in partenza
dalla mancanza di un terreno comune fra docenti e allievi, che fra loro
si parlano da distanze siderali, colmate di tanto in tanto da improvvise
esplosioni di collera. La scuola diventa così un campo di battaglia dove si
misurano e si scontrano le frustrazioni di almeno tre generazioni, distrutte, a seconda dell’età, dal fatto di non
avere un futuro, o di esserselo giocato nel modo peggiore. Se la scuola,
come voleva la pedagogia ottimista
di qualche tempo fa, è la palestra del
futuro, il film profetizza che l’avvenire sarà un girone infernale fatto di
incomunicabilità, rabbia, riluttanza
ad ascoltare il prossimo.
In questa terra devastata si aggira il
protagonista, insegnante precario
che ha i tratti gentili e vagamente
martirizzati di Adrien Brody. Un po’
per necessità (un nonno che sta morendo in ospedale) e un po’ per scelta, egli si sforza di aprire canali di
comunicazione verso chi lo circonda;
ma i suoi tentativi sono votati al fallimento, ora per eccesso ora per difetto, quasi che il problema non stia
tanto nella mancanza di attenzione
verso il prossimo, quanto nello squilibrio generato in persone abituate al
respiro della solitudine. I suoi sentimenti, come peraltro quelli degli altri
personaggi, corrono lungo direttrici
impazzite, simili a schegge di solidarietà improvvisa momentaneamente
affiorata alla superficie di un mondo
dominato dall’indifferenza (quando
non dalla diffidenza) reciproca. La
stessa professione del protagonista
– un insegnante supplente destinato a svolgere mansioni didattiche
sempre e solo provvisorie, prima di
essere trasferito a un altro incarico,
precario quanto il precedente – è la
metafora di una condizione esistenziale nella quale la comprensione
degli altri è intermittente, di breve
durata, comunque destinata a venire
sommersa dal mare di incomunicabilità che la circonda.
Detachment è tutt’altro che un film
perfetto. Ma per qualche strano motivo, sui suoi difetti si è disposti a
sorvolare. Forse perché sono figli
di un’incoscienza narrativa che in
un’epoca di cinema misurato al millimetro (effetti speciali compresi)
spiazza e sorprende. Dal principio
alla fine, Kaye suona una nota sola,
un canto dolente e malinconico
sulla decadenza del mondo: difficile pensare, nel cinema contemporaneo, a un compito più impervio.
Eppure, nonostante le ridondanze
e l’uso poco accorto della colonna
sonora, dal film emerge la volontà
di costruire qualcosa di follemente ambizioso, una specie di melodramma dove a mancarsi, perdersi
e tradirsi non sono due amanti, ma
l’umanità intera. Una sorta di elegia
funebre sulla perdita di comunicazione fra gli esseri umani, dove la
scuola e l’ospedale – quali spazi
nati per celebrare, in modo materiale e simbolico, il mutuo soccorso e la comunione fra gli individui
– fungono da sismografi della catastrofe.
Quando l’aggressività soppianta la
solidarietà anche in luoghi simili,
questa la tesi di fondo del film, allora siamo davvero a un passo dal
baratro. Come epitaffio conclusivo,
il regista sceglie un classico gotico
e decadente come La caduta della
casa degli Usher di Edgar Allan Poe,
a ribadire che il film non vuole essere un atto di denuncia, semmai
il ritratto rassegnato e doloroso di
una condizione, quella umana, ineluttabilmente votata a una fine ingloriosa e tragica.
Leonardo Gandini
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
DJANGO UNCHAINED
Regia, soggetto, sceneggiatura: Quentin
Tarantino. Fotografia: Robert Richardson.
Musica: Mary Ramos, Ennio Morricone.
Montaggio: Fred Raskin. Scenografia:
J. Michael Riva. Costumi: Sharen Davis.
Interpreti: Jamie Foxx, Christoph Waltz,
Leonardo DiCaprio, Samuel L. Jackson,
Kerry Washington, Laura Cayouette, James Remar, Don Johnson. Produzione:
Columbia Pictures, The Weinstein Company, Super Cool Man Shoe Too, Double
Feature Films. Distribuzione: Warner Bros
Italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata:
165 minuti.
Chi è Django? Un eroe, un mito, una
leggenda? Oppure un nome curioso,
passato attraverso il tempo e lo spazio dal volto di Franco Nero a quello
di Jamie Foxx per effetto dell’ipervitaminica capacità associativa della
mente di Quentin Tarantino?
Dopo due decenni di consuetudine
con lo stile del regista di Pulp Fiction
(1994) e Bastardi senza gloria (2009),
si può dire che – più che un personaggio o un tema – Django sia una
storia, un racconto che si rinnova nel
suo svolgersi, nel suo non voler finire, nel suo iniziare sempre da capo.
In origine infatti c’è Franco Nero, interprete nel 1966 per Sergio Corbucci di un misterioso pistolero bianco
che si presenta trascinando una bara.
Dopo ce ne furono altri: altri volti che
rispondevano allo stesso nome senza condividerne le caratteristiche e
le qualità, da Django spara per primo
(1967) a Preparati la bara! (1968).
Nel 1987, poi, Franco Nero si riappropria del suo ruolo in un Django 2
che però si colloca, stilisticamente e
cronologicamente, tra il secondo e il
terzo episodio della serie Rambo.
E alla fine arriva Tarantino, che approfitta di un archetipo cinematografico
per regalarci uno dei suoi intrecci più
piani e lineari. Il suo Django è una
storia di vendetta desiderata, pianificata e consumata, la storia di un
viaggio verso una destinazione che
da lontana si fa, scena dopo scena e
quasi senza salti temporali, sempre
più vicina. Al contrario di tante altre
vicende di vendetta immaginate da
Tarantino, qui non ci sono segreti da
scoprire. Fin dall’inizio, sappiamo da
dove viene e dove vuole arrivare lo
schiavo liberato, Django Freeman.
E il suo viaggio si compirà – quasi –
senza incidenti.
La sorpresa però svanisce se ci si rende conto che il protagonista del film
non è tanto l’uomo che ne porta il
nome, ma il suo compagno di strada,
quel dottor King Schultz che affabula personaggi e spettatori in un crescendo di reversal narratives – storie
che si ribaltano rivelando un senso
inizialmente conosciuto solo a chi le
racconta – nel succedersi delle quali
inventa e perfeziona il personaggio
di Django.
Di Django, il dottor Schultz è creatore e guida. Liberandolo dalle catene,
ne fa un uomo libero. Lasciandogli la
facoltà di sperimentare il gusto della
vendetta come cacciatore di taglie,
ne fa un freddo pistolero. Accettando di accompagnarlo nella tana del
lupo, a Candyland, la tenuta dove è
schiava sua moglie Broomhilda, lo
sospinge sul davanti della scena. E
infine, cedendogliela del tutto, lo
rende forza attiva del racconto, a sua
volta narratore dell’ultima parte del
film, non a caso la più pulp, quella
più in armonia con il mondo degli
spaghetti western.
Quello di Schultz è uno dei personaggi migliori di Tarantino, da sempre capace di nutrirsi dell’esperienza
di spettatore per creare figure mitologiche: con questa figura di dentista/cacciatore di taglie/affabulatore
sembra per la prima volta voler portare sullo schermo un’istanza di se
stesso, un doppio che – come Schultz
nella scena iniziale – si muove nel
buio alla ricerca di nuovi personaggi.
C’è un punto, nella carriera di molti
autori, in cui la loro voce, la loro maniera e il loro stile vengono incorporati nel repertorio delle opere citate. È sempre un momento cruciale,
rischioso. Ci sono voci che si spengono, perché perdono di necessità.
Oppure prendono la misura di una
nuova profondità. Ed è quello che
succede a Tarantino: per uno Schultz
che si fa sempre più piccolo fino a
scomparire, c’è un Django che da
corpo senza nome diventa parola
magica che plasma la realtà a proprio piacimento. Ma è solo un gioco nel quale il grande e il piccolo
non si misurano in proporzione tra
loro, bensì rispetto alle dimensioni
dello schermo sul quale lo vediamo. Si può dire che nei film di Tarantino ci sono sempre stati, fianco
a fianco, personaggi-narratori e
personaggi acceleratori dell’azione. Django Unchained spicca però
per la chiarezza di tale approccio e
per la nettezza della separazione:
da un lato il narratore e dall’altro
il personaggio, senza possibilità di
convivenza. Il valore del film sta
così nella purezza e nella radicalità
di questa conclusione. Non a caso,
quando Django ritorna a Candyland
prima del massacro finale e ritrova
il corpo del suo liberatore riverso di
spalle, non può fare altro che salutarlo con un bacio: il suo destino è correre alla fine della storia che qualcun
altro ha iniziato a raccontare.
Marco Gianni
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il giro del mondo
in 60 film
È STATO IL FIGLIO
saison culturelle
Regia, fotografia: Daniele Ciprì. Sceneggiatura: Daniele Ciprì, Massimo Gaudioso, Miriam Rizzo. Montaggio: Francesca
Calvelli. Musica: Carlo Crivelli. Scenografia: Marco Dentici. Costumi: Grazia
Colombini. Interpreti: Toni Servillo, Giselda Volodi, Giuseppe Vitale, Alfredo
Castro, Aurora Quattrocchi, Mauro Spitaleri, Alessia Zammitti, Fabrizio Falco,
Benedetto Raneli, Pier Giorgio Bellocchio. Produzione: Passione, Babe Film, in
collaborazione con Palomar, Rai Cinema,
FaroFilm, Aleteia Communication. Distribuzione: Fandango. Paese: Francia, Canada, Portogallo, Italia. Anno: 2012. Durata:
90 minuti.
Lo sguardo visionario di Daniele
Ciprì non avrebbe potuto aderire
all’ambientazione realistica descritta da Roberto Alajmo nel suo
romanzo È stato il figlio. Il realismo
non appartiene alla poetica del regista e direttore della fotografia
siciliano. Per anni Ciprì ha inventato con Franco Maresco il mondo
grottesco e periferico abitato dai
personaggi di Cinico tv, mentre in
tempi più recenti ha dato luce a
film lontani da toni realistici come
Vincere e Bella addormentata di
Marco Bellocchio e La pecora nera
di Ascanio Celestini. Così, di fronte
al romanzo dello scrittore palermitano ambientato nel quartiere della
Kalsa di Palermo, Ciprì, inizialmente riluttante a tradurlo in immagini,
ha cercato e magnificamente trovato soluzioni alternative per portare
al cinema il disfacimento di una
famiglia sottoproletaria colpita da
un lutto e accecata dal miraggio di
un’improvvisa ricchezza.
Per realizzare È stato il figlio Ciprì si
è dunque avventurato nelle atmosfere visive e narrative che da sempre contraddistinguono e rendono
ben riconoscibile la sua opera: un
tempo sospeso, uno spazio astratto, personaggi e luoghi filmati
come simbolo di un espanso degrado sociale. E ha attinto, facendola
coesistere con i segni caratteristici
del suo cinema, a una fondamentale tradizione culturale siciliana,
quella dei cantastorie e delle loro
affabulazioni, vale a dire un modo
fiabesco, e altrettanto non realistico, di raccontare episodi con toni
epici e leggendari.
La famiglia Ciraulo di È stato il figlio
è allo stesso modo composta da
personaggi trasformati nelle figure
tragiche e ironiche di un «cuntu»
popolare e l’intero film è gestito
da un narratore che racconta volti e
gesta di un gruppo di persone molto simili ai caratteri «brutti sporchi
e cattivi» della commedia italiana.
Il narratore è un personaggio – si
scoprirà poi – solo apparentemente
estraneo ai fatti, un uomo trasandato di nome Busu (l’attore cileno
Alfredo Castro, protagonista della
trilogia di Pablo Larraín composta
da Tony Manero, Post Mortem e No).
In attesa in un ufficio postale, attorniato da persone che aspettano il
loro turno e che diventano involontariamente spettatori e ascoltatori,
il narratore/cantastorie Busu introduce alcune micro-storie, ma si sofferma soprattutto su ciò che accadde alla famiglia Ciraulo, scendendo
nei dettagli come se il racconto gli
appartenesse. Le sue parole aprono
finestre, si trasformano in immagini.
La Palermo di Alajmo assume i tratti
di una città senza nome, di un Sud
non meglio definito (il film è girato
a Brindisi e Taranto e in colonna sonora ci sono anche canzoni di Nino
D’Angelo).
È stato il figlio diventa così una favola dark, un musical (si pensi alla
scena in cui il capofamiglia Nicola
Ciraulo, interpretato da Servillo,
canta con gli operai della barca abbandonata sulla riva), il ritratto di
una periferia immobile con edifici
popolari e cortili dove i giochi dei
bambini si disintegrano di fronte
alla morte (così assurda a essere
espressa senza sonoro); con spiagge
erbose segnate da costruzioni industriali dove si fanno surreali gite al
mare; con vecchi cinema porno dove
vivere un furtivo incontro sessuale
(e dove Ciprì sembra omaggiare un
periodo ormai lontano di «vivere»
la sala cinematografica); con treni
che passano e con il loro rumore occultano i dialoghi fra Nicola e l’usuraio al quale ha chiesto aiuto; con un
cavalcavia ciclicamente inquadrato
e attraversato che unisce il quartiere a un altrove, da raggiungere nel
vano tentativo di lasciarsi alle spalle una quotidianità di miseria e sogni infranti.
Con la sua costruzione a incastri quasi perfetta, È stato il figlio
emerge soprattutto per la funzione
drammatica che affida agli spazi. In
tal senso è notevole la scena del ritorno a casa di Busu, dopo la visita
all’ufficio postale: l’uomo percorre
ambienti che sembrano venire da
Cinico tv, entra nel palazzo abitato
dai Ciraulo, sale le scale e raggiunge
un appartamento vuoto che sembra
il set abbandonato di un film finito.
Un set che però si rianima e torna
a popolarsi, perché Busu ha ancora
fatti ed eventi da raccontare, ancora
uomini e donne da riportare in vita
e incidere negli occhi dello spettatore, grazie anche a grandi interpreti che offrono prove superbe
sia nei ruoli principali sia in quelli
secondari.
Giuseppe Gariazzo
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
ELLES
Réalisation : Malgorzata Szumowska.
Scénario : Małgorzata Szumowska, Tine
Byrckel. Photographie : Michal Englert.
Montage : Françoise Tourmen, Jacek Drosio. Musique : Pawel Mykietyn. Décors :
Pauline Bourdon. Costumes : Katarzyna
Lewinska. Interprètes : Juliette Binoche
, Anaïs Demoustier, Joanna Kulig, LouisDo de Lencquesaing, Krystyna Janda,
Andrzej Chyra, Ali Marhyar, Jean-Marie
Binoche. Production : Slot Machine. Distribution : Officine Ubu. Pays : AllemagneFrance-Pologne. Année : 2011. Durée : 96
minutes.
Le titre pluriel du deuxième longmétrage de Malgorzata Szumowska
contient à lui seul un principe d’écriture : non pas le catalogue romancé
des diverses formes de prostitution
étudiante, mais les vies tantôt croisées, tantôt parallèles, de la journaliste
(du magazine Elle, bien sûr ! ) qui écrit
un reportage sur ce sujet en se fondant sur des rencontres. Est-ce parce
que, avant de se documenter, la scénariste danoise Tyne Byrckel a mené des
entretiens en Pologne avec la réalisatrice en s’interdisant les lectures, pour
se projeter elle-même dans des vies
qui n’étaient pas la sienne ? En tout
cas le film s’éloigne d’emblée, dans
son écriture, du « dossier », pourtant
de plus en plus épais en Europe, de
la prostitution des étudiante(e)s pour
confronter sans fard deux générations,
deux modes de vie dont l’un ne vaut
peut-être pas mieux que l’autre.
Un peu à la manière de la photographe
en reportage dans Polisse, la journaliste qu’interprète Juliette Binoche
offre au film une morale formelle :
pas question que la caméra épouse
l’œil du voyeur, il lui faut cet écran, ce
visage réfléchi, songeur, rieur parfois,
troublé souvent, que Juliette Binoche
est l’une des rares à pouvoir lui donner. Les paroles et les récits mis en
images des jeunes filles sont non
seulement retranscrits par Anne mais
véritablement entendus.
Mais la protagoniste, Anne, fonctionne
aussi comme un relais du spectateur
au sein même de l’histoire : là encore,
la finesse de jeu de Binoche la rend
absolument crédible en mère active
au bord de l’épuisement, au teint parfois blafard. Anne fait l’expérience au
quotidien du parallélisme entre les
vies des étudiantes et la trivialité de
ses propres tâches domestiques : réfrigérateur qui refuse obstinément de
rester fermé, fils lycéen absentéiste,
petit dernier collé devant sa console
de jeux vidéo... Elles relate l’histoire
de son étonnement : Lola et Alicja, les
étudiantes, n’ont pas un profil de victimes mais de travailleuses que seule
l’obligation de mentir à leur entourage
semble gêner. Le scénario esquive
les explications économico-sociologiques, réduites à quelques indices :
valise volée d’Alicja qui se voit refuser
une place au foyer étudiant, intérieur
modeste des parents de Charlotte alias
Lola, air bonhomme du propriétaire
lubrique qui, pour une chambre parisienne à prix d’ami, demande à Alicja
de lui montrer sa poitrine. Plus le film
avance, plus son découpage en séquences parallèles entre la vie de la Parisienne qui mange bio et celle de ces
prostituées les fait communiquer; des
brèches s’ouvrent, au risque du gouffre
existentiel pour Anne. " De toute façon
on est toujours seul ", lâchait en entretien Lola ; et les journées de la journaliste-housewife viennent le constater
à bas bruit, entre découverte des sites
pornos fréquentés par son mari et
lourd chariot de courses qui perd sa
roue. Sa vie contre la leur? L’écueil scénaristique sera sans cesse évité, qui initierait complaisamment la bourgeoise
au plus vieux métier du monde.
Anne aurait pourtant bien des raisons
de faire payer les hommes – écrit, produit et tourné par des femmes, Elles ne
leur fait guère la part belle : si les clients
des étudiantes, précise Lola, ne sont pas
de « pauvres types », on finit par sou-
haiter qu’ils le fussent. Vieux bellâtres
qui à l’occasion poussent la chansonnette (« Les feuilles mortes » semble
commenter leur jeunesse perdue, qu’ils
rachètent à l’heure auprès de Lola), ces
hommes mariés sont « normaux », précise encore Lola. Aussi normaux que le
mari d’Anne. Tellement normaux que
parmi les invités, on reconnaît le propriétaire lubrique d’Alicja. Seule incursion dans une subjectivité à la lisière du
fantastique, la séquence du dîner chez
Anne et son mari érige un mur de verre
entre les sexes : tous clients potentiels,
les hommes sont aussi tous des maris
affables. Pessimiste sur un statu quo
social hypocrite qui feint de séparer les
pratiques sexuelles, Elles montre combien les études doivent parfois coexister avec la sexualité tarifée, et combien
le mariage, même heureux, repose
parfois sur une fausse monogamie. Le
scénario n’offre pas même l’échappatoire d’une protagoniste édifiée par ce
qu’elle découvre au point de changer
de vie, de quitter ses trois hommes” insensibles. « De toute façon, on est toujours seul »... : d’une scène de masturbation sur le sol de sa salle de bains au
refus de rapport sexuel de son mari, le
pluriel du titre achève de se dissoudre
pour laisser Anne entièrement seule.
Le plan final de petit-déjeuner familial
est aussi anodin (le pot de confiture
difficile à ouvrir) que glaçant (l’horizontalité de la grande table design). A
bas bruit, et via le corps conducteur de
l’actrice Binoche, la froideur dévastatrice de Michael Haneke semble l’avoir
contaminé.
Charlotte Garson
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il giro del mondo
in 60 film
GLI EQUILIBRISTI
saison culturelle
Regia: Ivano De Matteo. Soggetto: Valentina Ferlan. Sceneggiatura: Valentina Ferlan, Ivano De Matteo. Fotografia: Vittorio
Omodei Zorini. Musica: Francesco Cerasi.
Montaggio: Marco Spoletini. Scenografia:
Massimiliano Sturiale. Costumi: Valentina Taviani. Interpreti: Valerio Mastandrea,
Barbora Bobulova, Rosabell Laurenti Sellers, Grazia Schiavo, Antonio Gerardi, Antonella Attili, Stefano Masciolini. Produzione: Rodeo Drive, Babe Films, Rai Cinema. Distribuzione: Medusa. Paese: Italia,
Francia. Anno: 2012. Durata: 100 minuti.
Come mostrare e raccontare il famigerato Paese reale, l’Italia che
ogni cittadino incontra ogni giorno
per la strada e nessun immaginario
contemporaneo, sia esso televisivo,
cinematografico o social, è ancora
riuscito a rendere nella sua complessità? Come andare oltre la superficialità di uno sguardo che è sì
partecipe, sì commosso, ma inevitabilmente carico di buone intenzioni
tradotte in soluzioni narrative inefficaci?
A questa domanda, fondamentale
per un cinema medio e d’autore in
perenne crisi espressiva e produttiva, Gli equilibristi trova una risposta
elementare ed efficace, individuando nel corpo di Valerio Mastandrea
l’elemento narrativo e simbolico
su cui convogliare la riflessione sui
«nuovi poveri», la classe media passata in poco tempo dall’agiatezza
alla minaccia della perdita del lavoro, del denaro e della dignità.
Se nel Comandante e la cicogna,
uscito un mese dopo Gli equilibristi,
lo stesso Mastandrea volge in farsa
la figura del padre in difficoltà che
cerca di mantenere i figli adolescenti nella metropoli italiana, in questo
caso, partendo da coordinate simili (non più un vedovo ma un padre
separato, una grande città, Roma,
dove ogni azione comporta soldi e
fatica), la figura del maschio contemporaneo, afflitto da responsabilità che non sa sostenere, si tinge di
toni drammatici, trovando nel corpo
dell’attore romano un efficace elemento cinematografico.
Mastandrea è l’equilibrista del tito-
lo, ma attraverso la vicenda del suo
personaggio, che nel momento della
separazione, nonostante il posto fisso, dovendo mantenere se stesso, la
casa, la moglie e i figli, scivola in una
disperata povertà, trasforma la parola da singolare a plurale: e diventa
egli stesso, unico nella sua bravura
ma comune nel suo aspetto, il paradigma del padre separato e rifiutato
dalla società. Mastandrea è solo, ma
è anche tutti. E da solo tiene pure il
film sulle spalle, aiutandolo con la
sua presenza a superare la secche di
una narrazione prevedibile e di uno
stile indeciso tra l’impassibilità oggettiva e l’eccesso.
Di Matteo non fa sconti al personaggio, lo condanna fin dalla prima
scena a una responsabilità coniugale disattesa, dalla quale discenderanno la deriva economica e sociale. Se il meccanismo può sembrare
determinista, o peggio ancora moralista, è innegabilmente un procedimento cinematografico efficace:
il film sarà una discesa nella colpa
di un uomo. Il segno dei tempi, e
della natura del cinema medio italiano, sta nella declinazione di tale
discesa; non cioè in una parabola
esistenziale e sociale, ma viceversa, con il protagonista che di fronte
all’erosione dello stipendio perde
anche la consapevolezza della propria dignità, arrivando a urtare la
sensibilità dei figli pur di nascondere la vergogna della sua condizione.
Di fronte alla sconfitta progressiva
del personaggio, emblematica ed
esplicita ma resa umana dal suo interprete, Di Matteo resta a guardare:
si affida alle movenze di Mastandrea, lo filma mentre cammina per
le strade grigie e invernali di Roma,
lo lascia solo sulla scena con il suo
carico di non detti, ne mette a nudo
il rimorso nei tentativi di riconciliarsi con la moglie, ne coglie il volto
impaurito e smarrito di fronte a un
mondo fino a quel momento sconosciuto (quello violento e disperato
dei senzatetto, degli ubriaconi, dei
lavoratori notturni per quattro soldi e nessuna garanzia), e infine lo
immerge, di spalle, nella folla indistinta di una mensa per poveri,
come uno dei tanti, un reietto che la
società non protegge, non accoglie,
non perdona.
Il paese reale è quello lì, quello che
la stessa moglie del protagonista
scopre quando viene finalmente a
conoscenza di tutto: la realtà concreta, ma purtroppo invisibile, di
un’Italia che abita in ogni città e che
ciascuno di noi può scegliere se vedere o meno. Il padre separato degli
Equilibristi non sceglie di viverla,
ma ci si ritrova in mezzo, quasi senza accorgersene, non potendo nulla
contro la forza imperscrutabile del
destino sociale. La sua solitudine
e la sua triste parabola risuonano
così come un monito: la povertà è là
fuori, l’equilibrio è instabile e il Paese, quello reale, non aspetta altro
di essere raccontato e accolto. Non
è difficile, dal momento che di corpi
sconfitti come quelli del protagonista, sono piene le pensioni, i dormitori, le mense della Caritas…
Roberto Manassero
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
Et si on vivait tous ensemble?
27
Réalisation, scénario : Stéphane Robelin.
Photographie : Dominique Colin. Montage : Patrick Wilfert, Florent Blanchard.
Musique : Florent Blanchard. Décors :
David Bersanetti. Costumes : Jurgen
Doering. Interprètes : Guy Bedos, Daniel
Brühl, Geraldine Chaplin, Jane Fonda,
Claude Rich, Pierre Richard. Production :
Les Films de la Butte, Manny Films, Rommel Film. Distribution : Parthenos. Pays :
France. Année : 2012. Durée : 96 minutes.
Après le triomphe international d’Amour
de Michael Haneke, Et si on vivait tous
ensemble prend presque des allures
d’antidote, ou du moins, d’alternative
légère : avec la modestie formelle qui
caractérisait déjà son premier film (Real
Movie, 2004, tourné en DV avec très
peu de moyens), l’auteur-réalisateur
Stéphane Robelin aborde la vieillesse
et la dépendance qu’elle entraîne avec
un enthousiasme, un sens du collectif et
une détermination comique qui rendent
cette œuvre mineure tout à fait réjouissante.
Le titre résume le point de départ du
scénario : devant la mort qui vient et les
handicaps physiques qui s’accumulent,
cinq amis septuagénaires – deux
couples et un veuf – décident de vivre
en communauté. Autant pour Jean, militant de gauche de la première heure,
cette perspective rejoint des idéaux
soixante-huitards, autant pour Albert,
introverti qui utilise son journal intime
pour combattre ses trous de mémoire,
partager l’intimité de sa femme malade
Jeanne avec ses amis coule moins de
source. Quant aux deux femmes, une
ancienne liaison au plus chaud lapin
de la bande, Claude, pimente la cohabitation d’une nostalgie amoureuse et
sensuelle.
En termes de mise en scène, ce scénario
classique de la vie en commun permet
à merveille d’éviter l’écueil d’un paresseux « film choral » qui émietterait des
vies pour mieux les faire se croiser : le
sujet du film est bien ce qui (se) passe
entre ces cinq-là, bientôt mieux liés
encore par la présence d’un thésard en
ethnologie allemand venu habiter avec
eux pour les étudier en échange de
menus services domestiques. Ce per-
sonnage-liant, brillamment interprété
par Daniel Brühl, introduit une dimension générationnelle bienvenue dans
un film axé sur une « tribu » par ailleurs plutôt fâchée contre ses enfants :
Annie et Jean se trouvent par exemple
obligés de construire une piscine dans
leur jardin pour s’attirer la présence de
leurs enfants et petits-enfants ; quant à
Claude, son entêtement à conserver une
sexualité le brouille régulièrement avec
un fils plein de sollicitude bêtifiante ;
enfin, ayant chuté dans la rue à cause
de son chien, Albert résume : " ma fille
veut buter mon chien et l’en acheter
un petit sur internet " … Humoristiques
ou hargneux, les dialogues ne versent
jamais dans l’antijeunisme mais posent
le rapport à la descendance comme un
point contentieux, complexe. Les protagonistes ont non seulement conscience
des difficultés physiques de la dernière
étape de leur vie et de la menace qui
plane sur leur conjoint, mais c’est un
groupe assiégé, socialement parlant.
Seule arme dans ce Rio Bravo générationnel : l’aisance financière, qui, si elle
n’est pas l’un des sujets du film, permet
cependant à ses cinq baby boomers de
se faire aider à la maison, d’envisager
une sépulture originale ou encore une
piscine familiale, bref, de vivre plutôt
que de survivre.
Cristallisée autour d’une liaison qu’Annie et Jeanne ont toutes deux eue avec
Claude à l’insu de leur mari et aussi
l’une de l’autre, la ligne narrative intime
du film met aussi en lumière un tabou
que certains films, ailleurs (du documentaire coréen Too Young to Die ou
la fiction allemande Cloud 9 en passant
par certaines séquences chez Woody
Allen) ont déjà abordé : la sexualité des
seniors. La singularité piquante d’Et si
on vivait tous ensemble? est de le traiter avant même l’étape du tournage, via
son casting : quand Jeanne déclare au
jeune thésard : " Il faut arrêter de penser que les vieux sont asexués : on n’est
pas des Anges, merde! ", la réplique
prend d’autant plus de poids que c’est
Jane Fonda qui la prononce – l’actrice
de Tout va bien comme de Barbarella,
la reine du fitness et l’auteure du tout
récent Prime Time, mémoires empreints
d’une réflexion frontale sur la vieillesse
et la nécessité d’en faire une période
vitale et pas seulement ante mortem.
Ainsi, en réunissant, en plus de la star
américaine, un ovni du cinéma comique
français (le fantasque Pierre Richard),
un poids lourd du stand-up (Guy Bedos),
un acteur de théâtre également associé à Resnais (Claude Rich) et la fille de
Chaplin la plus vue à l’écran (Geraldine),
la comédie de mœurs à la française dépasse-t-elle d’emblée ses limites génériques et nationales. Pour les « vieux »
acteurs et actrices, une tension féconde
s’établit entre l’interprétation précise et
juste de leur personnage et une légère
distanciation qui permet de suggérer
qu’ils composent, restant en cela moins
proche de la mort ou de l’impotence que
ceux qu’ils incarnent. Entre maigreur de
vedette de cinéma et maigreur de malade,
il y a très peu de différence visible, par
exemple. C’est par ce « jeu » doublement
laissé à ses interprètes que cette comédie
grave mais jamais mélancolique adresse
un pied de nez lointain, du fond d’une piscine vide où la table est dressée, au très
tendu Amour, à sa vision de la fin de la vie,
du couple et du cinéma.
Charlotte Garson
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il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
LA FAIDA
The Forgiveness of Blood
Regia: Joshua Marston. Sceneggiatura:
Joshua Marston, Andamion Murataj. Fotografia: Rob Hardy. Musica: Jacobo Lieberman, Leonardo Heiblum. Montaggio:
Malcolm Jamieson. Scenografia: Tommaso Ortino. Costumi: Emir Turkeshi-Gramo,
Emir Turkeshi. Intepreti: Tristan Halilaj,
Refet Abazi, Zana Hasaj, Erjon Mani, Luan
Jaha, Çun Lajçi. Produzione: Journeyman
Pictures, Lissus Media, Fandango Portobello, Artistic Public Domain. Distribuzione: Fandango. Paese: Usa, Albania, Danimarca, Italia Anno: 2011. Durata: 109
minuti.
Girare un film su una realtà lontana
dalla propria è una sfida difficile; ma
fondarlo su uno sgradevole luogo
comune attribuito a una cultura straniera è davvero un azzardo. Questo
però è ciò che ha fatto l’americano
Joshua Marston, al suo secondo film
dopo Maria Full of Grace (2003): raccontare la logica delle vendette di
sangue nell’Albania contemporanea.
Il sangue a cui si riferisce il titolo
originale (The Forgiveness of Blood, il perdono del sangue) non è un
sangue qualsiasi: è il «gjak», termine albanese che indica la linea di
discendenza maschile che unisce il
«fis», il gruppo di fratelli e dei loro
discendenti riconducibili a un antenato comune. E ciò che bisognerebbe perdonare è il «gjakmarrje»,
cioè l’omicidio compiuto per levare
l’onta arrecata all’onore del proprio
clan: un’azione rituale eseguita da
un uomo designato dal capo famiglia
del gruppo offeso e diretta verso un
membro di quello responsabile.
Tale prassi è contenuta nel Kanun,
il codice consuetudinario albanese,
trasmesso per lo più in forma orale,
la cui forma scritta più antica risale
al XV secolo. È in questo testo che
si trova la regola secondo cui è necessario vendicare l’uccisione del
proprio famigliare, colpendo fino al
terzo grado i parenti maschi dell’assassino. Adempiere alla vendetta
è un obbligo al quale non ci si può
sottrarre.
E per quanto le faide ancora presenti
nell’Albania contemporanea possano sembrare pratiche barbare e
animali, il loro radicamento è tale da
invitare a superare il pregiudizio e lo
scandalo culturale. Come scrive l’antropologa Patrizia Resta in Pensare il
sangue, affrontando proprio la questione delle vendette trasversali in
Albania, è "pericoloso parlarne perché si corre il rischio di costruire uno
stereotipo negativo e di contribuire a
diffondere o rinsaldare il pregiudizio
che assimila gli albanesi a violenti
criminali. Incauto perché inocula il
dubbio che esista una nazione tribale, organizzata sul modello della violenza individuale. Azzardato perché
induce a far credere che la vendetta
sia oggi, in Albania, un’istituzione
funzionante".
Marston, accettando una sfida sia
intellettuale sia produttiva, visto le
traversie affrontate per realizzare
il film, si assume i rischi del caso, a
partire da una trama che sembra centrata su uno stratagemma narrativo e
invece basata su fatti di cronaca: sin
dai primi anni ’90, infatti, si ha notizia della ripresa in Albania delle vendette di sangue in seguito a faide fra
diverse famiglie. L’adesione al Kanun
viene spiegata mediante la categoria
del rispetto: la vendetta non è considerata un’azione violenta, ma un
obbligo morale. Questo non toglie la
componente tragica che la vendetta
ha per le famiglie coinvolte, obbligate a un’alternativa impossibile tra
la minaccia dello sterminio e l’onta
del disprezzo sociale. Proprio come
in un melodramma hollywoodiano
(in un interessante incontro/scontro
fra le origini di Marston e la cultura
straniera che racconta), la dimensione collettiva appare in tutta la sua
tragicità, privando il singolo della
libertà: è in gruppo che ci si vendica,
ed è sul gruppo che ricadono le conseguenze. Ma il solco che il protagonista incide sul muro della camera in
cui si nasconde per non incombere
nella vendetta, è anche il divario che
lo divide dal suo mondo e dai suoi
metodi arcaici e inefficaci.
La distanza fra il giovane e il padre,
ad esempio, è la distanza che tutti i
suoi coetanei pongono fra la loro famiglia, insabbiata in una mentalità
passata, e un futuro di tecnologia,
comunicazione e apertura al mondo. Nessun figlio ha più intenzione
di pagare per le colpe dei padri o è
disposto ad andare fino in fondo per
raggiungere un obiettivo che non gli
appartiene. Non c’è rivendicazione
o arroganza: i giovani protagonisti
di La faida sono personaggi commoventi nell’accettare con coraggio
le conseguenze delle loro azioni e
delle persone che li circondano. Ed è
la consapevolezza del diritto di vivere la propria che li porta a tagliare i
ponti con il contesto famigliare, superando la scelta lacerante tra l’accettare il sistema o rigettarlo.
L’immagine del protagonista che si
allontana, la schiena china sotto il
peso della sacca, invita così a guardare con occhi nuovi, stranieri come
quelli del regista, un paese diverso:
un paese che oggi percorre l’Europa
con passo sicuro e prova a vivere il
proprio inconfutabile e inarrestabile
cambiamento.
Nora Demarchi
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
UN GIORNO DEVI ANDARE
29
Regia: Giorgio Diritti. Soggetto: Giorgio
Diritti, Fredo Valla. Sceneggiatura: Giorgio Diritti, Fredo Valla, Tania Pedroni.
Fotografia: Roberto Cimatti. Musica: Marco Biscarini, Daniele Furlati. Montaggio:
Esmeralda Calabria. Scenografia: JeanLouis Leblanc, Paola Comencini. Costumi: Hellen Crysthine, Bentes Gomes,
Lia Morandini. Suono: Carlo Missidenti.
Interpreti: Jasmine Trinca, Anne Alvaro,
Pia Engleberth, Sonia Gessner, Amanda
Fonseca Galvão, Paulo De Souza, Davide
Tuniz, Eder Frota Dos Santos. Produzione:
Aranciafilm, Lumière & co., Rai Cinema.
Distribuzione: BIM. Paese: Italia. Anno:
2013. Durata: 110 minuti.
È emozionante ritrovare la storia
del cinema in Un giorno devi andare.
Quello di Diritti è un piccolo grande
film che riflette diversi itinerari della produzione indipendente. Innanzitutto perché il Brasile ha sempre
rappresentato un fascino irresistibile per i concept produttivi basati
sulla sperimentazione, dal film incompiuto di Orson Welles (It’s All
True, 1942) fino a Tigrero: A Film That
Was Never Made di Mika Kaurismaki
(1994), viaggio con due mostri sacri
del cinema indipendente come Sam
Fuller e Jim Jarmusch, alla ricerca di
un’opera mai realizzata.
L’Amazzonia, poi, è terra di imprese epiche, dove l’uomo si trova da
solo al cospetto di una natura che
sgomenta e annichilisce, come nello strepitoso Fitzcarraldo di Herzog
(1982), in cui una produzione cinematografica testarda e pericolosa
diventa la metafora stessa della lotta per l’esistenza. Vedendo la parte
iniziale di Un giorno devi andare, in
cui la protagonista e l’amica suora
raggiungono il villaggio sul fiume,
non si può non pensare a Fuller che
mostra agli Indios le immagini dei
loro avi riprese dalla sua cinecamera
negli anni ’50; così come non si può
non pensare a Herzog quando le prime inquadrature aeree abbracciano
la vastità del Rio delle Amazzoni.
Diritti coglie la necessità di un confronto tra condizioni sociali e valori
spirituali diversi, nel senso di una
sceneggiatura costruita sul tema
dello «sguardo reciproco» tra gli indigeni della regione di Manaus e le
donne straniere arrivate dall’Europa.
Come nei grandi racconti di viaggio,
la scoperta dell’Altro è sempre intimamente legata alla comprensione
di sé. Così il pellegrinaggio di Augusta, che deve rielaborare dolorose
vicende personali, diventa occasione per scoprire con occhi vergini la
doppia dimensione del paesaggio
naturale e umano del Brasile. Ma
è lo spettatore stesso ad attivare
una doppia attenzione, andando oltre la descrizione delle condizioni
materiali degli Indios e arrivando a
percepire lo sguardo mistico di un
approccio al reale di ordine sacro.
E qui Diritti conferma e amplifica il
legame con il maestro Olmi, la capacità di catturare, attraverso la contemplazione dell’ambiente naturale,
quel senso del «meraviglioso» che
costituisce il principio fondativo del
recupero della sacralità religiosa.
È nello sguardo degli uomini – artisti, interpreti e spettatori – protratto
alla ricerca di un senso che si riflette
la luce divina, e la ricerca del personaggio femminile arriva a evocare
l’ascesa al vulcano di Stromboli, terra
di dio (1951), capolavoro rosselliniano in cui la Bergman affida al proprio
corpo inerme il compito di sublimare
l’inchiesta intorno a un significato
percepito soltanto nella fusione con
la Natura.
Il percorso della protagonista Augusta è proposto attraverso tappe
progressive, e il primo passaggio
è il ripiegamento nella dimensione privata: osserva il mondo chiusa
in se stessa con il distacco seguito
al lutto della perdita di un figlio. È
soltanto più tardi che la protagoni-
sta sceglie l’adesione concreta alla
vita di comunità, con la permanenza nelle favelas di Manaus, a stretto
contatto con i suoi abitanti, in un’esperienza di testimonianza sociale
e militante che supera il concetto di
missionariato. Ma è nella terza parte
del film, quella in cui Augusta si reca
da sola su un’isoletta del fiume, che
Diritti si prende i rischi più grandi,
spostando la percezione su una complessità dell’individuo per il quale
il vivere sociale, declinato secondo
principi d’impegno di matrice socialista, non rappresenta la soluzione.
Certo, alcune immagini relative
all’ambientazione urbana si impongono con straordinaria intensità,
arrivando a sfondare il confine del
visibile, primo fra tutti il dedalo di
case pericolanti invase da tonnellate di rifiuti. Così come spicca la disperata ricerca da parte degli Indios
dell’unico valore rimasto, quel senso
di appartenenza al loro territorio
che di fronte agli sgomberi delle favelas suona come l’ultimo tentativo
di conservare un’identità culturale
estinta. Sarebbe però spiacevole limitare Un giorno devi andare al suo
valore documentaristico e ai suoi
toni obbligatoriamente politici: è
giusto invece percepirne il valore
ben più alto e poetico, legato alla
lotta esistenziale di una donna segnata da una terribile perdita e alle
prese con l’epica lotta di chi cerca di
ritrovarsi alla vita.
Umberto Mosca
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il giro del mondo
in 60 film
LA GUERRE EST DÉCLARÉE
saison culturelle
Réalisation : Valérie Donzelli. Scénario :
Valérie Donzelli et Jérémie Elkaïm. Photographie : Sébastien Buchmann. Montage : Pauline Gaillard. Décors : Gaëlle
Usandivaras. Costumes : Elisabeth Méhu.
Interprètes : Valérie Donzelli, Jérémie
Elkaïm, César Desseix, Gabriel Elkaïm,
Brigitte Sy, Elina Löwensohn, Michèle
Moretti, Philippe Laudenbach, Bastien
Bouillon, Béatrice de Staël, Anna Le Ny,
Frédéric Pierrot, Elisabeth Dion. Production : Edouard Weil pour Rectangle
Productions. Distribution : Sacher Film.
Pays : France. Année : 2011. Durée : 100
minutes.
Présenté en ouverture à la Semaine
de la critique de Cannes 2011, le
second long métrage de Valérie Donzelli éblouit et bouleverse presse et
public. Dans La Reine des pommes,
la réalisatrice, scénariste et actrice
transforme le chagrin d’une fille en
une comédie musicale originale,
délicieuse et en même temps drôle.
Dans ce premier film, on ressent un
goût typiquement Nouvelle-Vague,
mais toutefois moderne. Cette foisci, par contre, la cinéaste a toute la
force pour faire un film d’action,
comme le titre nous le montre. La
guerre est déclarée - référence au
combat en Irak qui éclate en mars
2003 bien évoqué dans le film par
la radio - veut témoigner le conflit
quotidien que chacun de nous doit
affronter et les protagonistes en
donne la preuve. C’est une histoire
autobiographique, entre réalité et
fiction, incarnée par Valérie Donzelli et son co-scénariste et compagnon Jérémie Elkaïm, qui a été vécue
quand leur premier enfant Gabriel
est tombé malade à l’âge de 18 mois.
Après un contrôle pour un R.M.I. à
l’hôpital, un flash-back nous emmène au commencement de l’aventure entre Roméo et Juliette, « voués
au terrible destin ». Le coup de
foudre entre ces deux jeunes avec
« le nez droit e la bouche cerise »
se déclenche à une fête avec une
musique punk-rock et là commence
l’amour fou, filmé comme une décharge électrique entre le couple.
Le rythme serré et vif qui suit la vie
des deux amoureux nous rappelle le
prologue de Jules et Jim. La course
à toute allure, les plaisanteries avec
la barbe à papa et les pommes, les
rires, les baisers et les étreintes se
fondent dans une ambiance musicale harmonieuse de Bach et de
Georges Delerue.
Les musiques tellement différentes
et parfois éclectiques marquent les
parties du film: Break Ya de Yuksek
fait de fond sonore à une course désespérée et désarticulée de Juliette
qui a laissé son enfant aux médecins
pour son premier scanner, L’hiver de
Vivaldi annonce la rupture de la joie
et Le grain de beauté est la chanson
d’amour, interprétée par les deux
protagonistes en surimpression, au
moment où ils cherchent d’être fort
et unis et de sortir de cette situation
tragique. En effet jusqu’ici, l’histoire
a été filmée et contée de façon frénétique et jolie: l’amour libre et égalitaire du couple qui rêve d'un avenir plein d’aspiration, la naissance
d’Adam, avec les nuits blanches, les
tétées et les tensions entre père et
mère pour les pleurs de leurs fils et
à nouveau un bonheur familial, avec
les parents de Roméo et de Juliette,
qui est raconté avec fraîcheur et de
façon très littéraire par une voix-off
féminine.
Encore un grand hommage à la
Nouvelle-Vague et en particulier à
Truffaut avec les iris qui ferment et
ouvrent les chapitres du film. C’est
encore la plage du final dans Les
Quatres cents coups qui nous emmène à cet univers marin de l’espoir.
Avec une Canon 5D, un appareil-photo de la même manière qu’une caméra légère et à la main comme dans les
années soixante et une petite troupe,
la réalisatrice peut en effet entrer
dans les hôpitaux et les filmer, en
pouvant rendre encore plus réel ce
film qui laisse de la place à l’humour
et se transforme en hymne à la vie, à
l’amour, au courage. Une expérience
tragique et intime décrite sous forme
d’art poétique cinématographique
avec douceur, tendresse et enthousiasme. Le couple ne se laisse jamais
vaincre par la terrible douleur de la
maladie, mais ils réagissent toujours
pour leur fils et ils restent soudés
grâce à leur amour qu’il se nourrit
de jour en jour de dialogues entre
eux, de respect, de compréhension.
" Pourquoi c’est tombé sur nous?
parce que on est capables de surmonter ça ". Ces question et réponse expriment bien le message
de lutte de refus de résignation de
cette expérience. En surmontant le
marathon, où la course devient le
symbole du film dans toutes ses
formes et métaphore de la vie qui
s’écoule vite, le couple moderne
de Shakespeare chasse les malheurs, le pessimisme et la peur. Des
larmes tombent sur nos visages,
mais ce sont des gouttes associées
à une pulsion de vie qui se délivre
et s’exorcise. Avec un style pop et
des couleurs violentes mêlés au
naturalisme et à la sincérité d’une
Donzelli radieuse, La guerre est
déclarée a une audace qui ne faiblit
jamais pour arriver à un résultat
débordant d’énergie et de magie,
comme un conte de fées.
Alexine Dayné
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
HUNGER
Regia: Steve McQueen. Sceneggiatura:
Steve McQueen, Enda Walsh. Fotografia: Sean Bobbit. Montaggio: Joe Walker.
Musica: David Holmes, Leo Abrahams.
Scenografia: Tom McCullagh, Brendan
Rankin. Costumi: Anushia Nieradzik. Interpreti: Michael Fassbender, Liam Cunningham, Lalor Roddy, Stuart Graham,
Brian Milligan, Liam McMahon, Laine
Megaw, Helena Bereen, Helen Madden,
Des McAleer. Produzione: Blast! Films/
Channel Four Films/Film4. Distribuzione:
BIM. Paese: Gran Bretagna. Anno: 2008.
Durata: 96 minuti.
Hunger, cioè "fame", presentato al
Festival di Cannes del 2008, è arrivato in Italia solamente nel giugno
2012, sulla scia del successo di Shame, il secondo e ben più celebre film
del regista inglese Steve McQueen.
Eppure fin dalla sua prima proiezione il film aveva messo prepotentemente in luce McQueen, artista londinese, scultore e fotografo all’esordio nel cinema. Dietro questo lavoro,
in modo più convincente rispetto al
secondo, si avverte un ispirato lavoro di sperimentazione sull’inquadratura, come se l’immagine nei suoi
differenti formati fosse una materia
da plasmare, smembrare e poi ricomporre.
Per questo Hunger non è, o almeno
non soltanto, un film biografico su
Bobby Sands, l’attivista irlandese
che lottò per ottenere lo status di
prigioniero politico e morì a ventisette anni nel carcere di Maze, a Long
Kesh, il 5 maggio 1981, dopo sessantasei giorni di sciopero della fame.
Al di là di ciò che viene mostrato, nel
film c’è un preciso lavoro sul corpo,
sulla luce e sullo spazio, come se il
cinema fosse un’altra emanazione
artistica nel rapporto tra sguardo e
creazione di McQueen.
Innanzitutto il corpo, quello di Michael Fassbender: un corpo di cui si
assiste la mutazione, prima graduale,
poi sempre più consistente. I capelli
e il lavaggio fatto dai secondini, le
cicatrici sul volto e sulla schiena, il
progressivo deperimento fisico ne
fanno quasi l’emblema di un martirio
cristologico. Le immagini della figura di Sands potrebbero essere scatti
fotografici in successione, o brevi ellissi che generano un ritmo sotterraneo e silenzioso, molto più potente e
intenso di quello che viene mostrato. McQueen orchestra un’incessante
percussione, sottolineata da elementi sonori messi in risalto e spesso più
importanti dei dialoghi: il rumore
dell’acqua del lavandino, le chiavi
dei carcerieri, i rumori dei prigionieri
durante la protesta delle coperte e
dello sporco. La vera novità del passaggio di McQueen al cinema è qui:
nella ricerca dell’elemento uditivo
da sovrapporre a quello visivo, per
dar modo alle immagini di respirare quasi fisicamente. Oltre al suono
diegetico, c’è poi la voce di Margareth Thatcher, quasi un contrappunto
freddo a una violenza impassibile,
ancora più forte perché sentita fuori
campo e avvertita dietro le mura.
Hunger è un’opera densissima, studiata nei minimi dettagli, ma di una
vitalità sconvolgente; un film che lascia i segni del suo passaggio come
un dipinto o una visione del passato
che ritorna con prepotenza. Non si sa,
ad esempio, se e che tipo d’influenza
abbia avuto su McQueen Il processo
di Giovanna d’Arco di Bresson, per
quanto proprio l’estrema sintesi
della parte finale faccia intendere
come modello il cinema del grande
regista francese.
Oltre il corpo, poi, in Hunger c’è
lo spazio. Il film è chiuso, ma non
claustrofobico. Lo si può vedere
nelle aperture in esterno della scena iniziale, quando l’agente penitenziario controlla la presenza di
esplosivo sotto la sua auto. Oppure
nei colloqui dei detenuti con i parenti, nelle soggettive di Bobby sui
genitori che idealmente spezzano
l’unità del luogo e anticipano le
allucinazioni dell’ultima parte. Lo
stesso spazio della cella, poi, con
le sue pareti sporche e puzzolenti,
diventa una traccia compositiva,
quasi come l’istallazione filmata di
una mostra.
Ma la sfida più estrema di Hunger è il lungo dialogo tra Bobby e
il sacerdote, diciassette minuti di
associazione tra immagine cinematografica e fotografia che proprio per la sua durata estrema dà
l’impressione di sgretolarsi da un
momento all’altro, quasi a ricordare il celebre piano fisso di Andy
Warhol sull’Empire State Building.
In Warhol, a manipolare il rapporto tra sguardo e realtà era la fissità
della macchina da presa, mentre in
Hunger è il puro e semplice dialogo.
La parola diventa l’arma nascosta
di Bobby Sands, lo strumento che
apre il film a distanze profondissime, a interpretazioni sul rapporto
tra individuo e moralità, libertà e
religione. Quella stessa profondità
che a livello visivo si percepisce in
dettagli come un lenzuolo sporco,
in immagini come quella di Bobby
agonizzante, che confermano la
ricchezza e l’inafferrabilità di un
lavoro come Hunger, soprattutto
se messo a confronto con i risultati
compiaciuti e al limite dell’artificio
del successivo Shame.
Simone Emiliani
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il giro del mondo
in 60 film
L’intervallo
saison culturelle
Regia: Leonardo Di Costanzo. Sceneggiatura: Leonardo di Costanzo, Mariangela
Barbanente, Maurizio Braucci. Fotografia:
Luca Bigazzi. Montaggio: Carlotta Cristiani. Scenografia: Luca Servino. Costumi: Kay Devanthey. Interpreti: Francesca
Riso, Alessio Gallo, Antonio Buil Puejo,
Carmine Paternoster, Salvatore Ruocco.
Produzione: Tempesta Film. Distribuzione: Cinecittà Luce. Paese: Italia/Svizzera/
Germania. Anno: 2012. Durata: 90 minuti.
Ci sono le opinioni, i gusti e le predilezioni. E poi ci sono i fatti. È un
fatto che un film come Corpo celeste
abbia fatto il giro del mondo, lanciato dal trampolino di Cannes e dalla
definizione di "miglior esordio femminile del cinema italiano". Invitato
a decine di festival internazionali, il
primo film di Alice Rohrwacher ha
trovato distribuzione in diversi paesi europei e ottenuto visibilità al di
là dell’oceano. Poi i fatti vanno letti
e interpretati, certo. E a voler fare i
maligni si potrebbe pensare che il
film trasmette all’estero l’immagine
stereotipata di un’Italia meridionale
e arretrata, schiacciata all’ombra della croce e diroccata tanto nell’urbanistica quanto nella morale.
Ma non è così: Corpo celeste ha fatto il giro del mondo perché dice la
verità, non tanto su un’Italia che è
(anche) così, ma soprattutto su una
condizione esistenziale raccontata
con attenzione e delicatezza, e con
uno stile capace di alternare in maniera fluida osservazione a distanza a serrati pedinamenti dal sapore
«dardenniano». Una modalità che
segna in maniera profonda il cinema
degli ultimi anni e che da noi si confronta con una diffusa cecità distributiva, non solo per quanto riguarda
le opere autoctone ma anche, e soprattutto, per quanto arriva – potrebbe arrivare – dall’estero. Forse vivere
all’estero aiuta, e non è un caso che
tanto la regista quanto il produttore
di Corpo celeste non risiedano in Italia: Rohrwacher è di stanza a Berlino
e Carlo Cresto-Dina, anche se la sede
operativa di Tempesta (produttrice
del film) è a Bologna, vive da tempo
a Londra. Forse Cresto-Dina è furbo e sa che l’appeal di un film per
il mercato internazionale ha i suoi
standard, così come li hanno i film
commerciali: ma non fa forse parte
del lavoro del produttore avere una
propria idea di cinema e perseguirla,
confrontandola e misurandola con
quella dei registi con cui lavora?
Allora non sarà certo un caso se, a
due anni di distanza da Corpo celeste, il «miracolo» sembra ripetersi
con L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, visto che dietro c’è nuovamente Tempesta e ancora una volta
un film italiano arrivato in sordina in
un grande festival – questa volta la
Mostra del Cinema di Venezia – abbia
finito per essere il titolo di cui si parlava, se non di più, quantomeno meglio (con buona pace dei vari Ciprì e
Bellocchio).
È vero: la realtà illustrata è nuovamente quella di un Sud afflitto da
un degrado strutturale etico e civile, con quelle abitazioni fatiscenti,
sventrate di vita e bellezza, popolate di fantasmi e presagi di morte,
prigioni dalle quali l’adolescenza
non sa come evadere. Costretti da
regole che non sanno interpretare
né aggirare, un ragazzo e una ragazza trascorrono una lunga giornata
all’interno di un caseggiato abbandonato: superata l’iniziale diffidenza, dimenticheranno di essere uno
il carceriere e l’altra la carcerata, e
come in un’avventura di Harry Potter, ma senza incantesimi o effetti
speciali, per un istante voleranno
sospesi sulle ali di un abbandono
impossibile. Perché la loro vita è
già segnata, dalle parole che usano, dai vestiti che indossano, dagli
sguardi che si lanciano, da un’accondiscendenza all’ambiente circostante forte quanto il desiderio di
rivalsa. E la realtà irromperà nuovamente a fine giornata, nei panni di
un capo quartiere mafioso giunto a
ripristinare un ordine che non può
essere messo in discussione, nemmeno da uno sgarbo inconsapevole. Cinema provinciale, dialettale:
a quanto pare è sempre da lì che
dobbiamo ripartire, come se la lezione rosselliniana non fosse mai
stata appresa e interiorizzata o sia
l’unica ancora necessaria, da tramandare di film in film.
Leonardo Di Costanzo, apprezzato
documentarista (in Francia, soprattutto, ché in Italia il nome fino a
oggi lo conoscevano in pochi), mette il proprio sguardo al servizio di
una sceneggiatura a due voci tesa
ed essenziale, scritta insieme con
Maurizio Braucci e Mariangela Barbanente. Non un dialogo di troppo,
non un movimento di macchina
sprecato: i silenzi e i volti dicono
tanto quanto le parole, e solo nel
finale si ha la percezione di uno
scarto, l’impressione di una quinta
teatrale, o di un gesto attoriale appena più marcato del necessario. O
forse è solo il desiderio di una chiusa diversa, pur sapendo che non ci
può essere altra chiusa che questa.
E oggi, in Italia, altro cinema che
questo.
Alessandro Stellino
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
IO E TE
Regia: Bernardo Bertolucci. Soggetto: dal
romanzo omonimo di Niccolò Ammanniti. Sceneggiatura: Niccolò Ammaniti,
Umberto Contarello, Francesca Marciano, Bernardo Bertolucci. Fotografia: Fabio Cianchetti. Musica: Franco Piersanti.
Montaggio: Jacopo Quadri. Scenografia:
Jean Rabasse. Costumi: Metka Kosak. Interpreti: Jacopo Olmo Antinori, Tea Falco,
Sonia Bergamasco, Veronica Lazar, Tommaso Ragno, Pippo Delbono. Produzione:
Fiction, Wildside, Medusa Film. Distribuzione: Medusa. Paese: Italia. Anno: 2012.
Durata: 97 minuti.
Sempre di più, soprattutto nel corso
degli ultimi anni, il cinema di Bertolucci sembrava portarsi dietro l’immagine di un cinema dell’assedio,
frutto di uno sguardo che sembrava
non poter guardare il mondo se non
rinchiudendosi in spazi di sicurezza,
di salvaguardia della propria umanità e della propria vita. Un cinema
sintomatico di una realtà in costante cambiamento, di uno sguardo che
coglieva lo smarrimento e la perdita
di riferimento dei soggetti che abitano questo mondo. Smarrimento
e perdita di senso che costringeva i
personaggi a rinchiudersi, sotto assedio appunto, in un appartamento
al centro di Roma o a Parigi alla vigilia del maggio ’68, nelle colline
del Chianti o nel deserto africano
ai primi del ’900. Uomini, donne, ragazzi e ragazze. Tutti accomunati dal
destino di vivere in spazi temporanei
di (apparente) libertà, tra illusioni e
scoperta della propria impotenza.
Un cinema sottilmente disperato e al
tempo stesso lucido nel cogliere una
fase di cambiamento e trasformazione radicale, che appartiene appunto
al mondo e allo sguardo.
Io e te sembra letteralmente rovesciare dall’interno, in modo lento e
inesorabile, questo movimento di
chiusura (che non è mai stato, ripetiamolo, un movimento di limitazione dello sguardo), proprio attraversandolo, vivendolo totalmente in un
certo senso, fino alla fine. L’esperienza di visione del film è infatti qualcosa che porta lo spettatore a vivere
con i personaggi, le due solitudini
rappresentate dai fratellastri Loren-
zo e Olivia, che per una settimana
abitano per scelta o per obbligo l’interno di una cantina. La macchina da
presa è con loro, li accompagna più
che seguirli, li scopre più che confermarli – e in questo la bellezza dei
corpi filmici inediti di Jacopo Olmo
Antinori e Tea Falco non può che
essere d’aiuto – porta all’interno di
un altro microuniverso chiuso, per
scoprire però non solo e non tanto
il senso di smarrimento ed estraneità al mondo dei due ragazzi, ma
il desiderio di vita, lo slancio vitale parte integrante del loro essere.
Man mano che i giorni passano, i
due individui non confermano la
propria solitudine, non rimangono
arroccati e isolati nella loro estraneità, ma cominciano a incontrarsi,
ad accettare, reciprocamente, lo
sguardo dell’altro.
Il film è straordinario nel seguire,
attraverso piccoli eventi o gesti
inattesi, la trasformazione di due
soggettività, che letteralmente si
attraversano e si incontrano «scambiandosi» reciprocamente gli occhi. La metodicità di Lorenzo – che
programma fino all’ultimo dettaglio la permanenza nello scantinato – si scontra con una forma di vita
senza regole né metodo, alla deriva
come quella di Olivia. Ma lo scontro determina un incontro che si
costruisce sequenza dopo sequenza, gesto dopo gesto. La lucidità e
l’attenzione di Bertolucci stanno
anche in questo movimento di avvicinamento graduale, in cui ogni
dettaglio conta, ogni evento ha la
sua importanza. Non c’è nulla di
più umano e vitale che accogliere
l’altro proprio a partire dalla sua diversità e alterità. Ed è proprio così
che Io e te (titolo in cui la congiunzione separa e al tempo stesso unisce un «io» e un «tu») si configura
come un gioco complesso di sguardi, gioco tra i due protagonisti, tra
la macchina da presa e il mondo in
cui essi si ritrovano a vivere, tra noi
e le loro storie. Gioco vitale, che un
cinema attuale (cioè contemporaneo) come quello di Bertolucci riesce ad attivare. Sì, perché in questo
complesso movimento si costruisce
un cinema che ha respiro, che non
guarda dall’alto i suoi personaggi,
non li pensa (né li filma) come parti di un esperimento, di una messa
in forma teorica, di una messa alla
prova etica. Bertolucci è inattuale
in questo, e forse per fortuna.
Questa dinamica dell’incontro,
questo movimento complesso e
vitale di cui abbiamo parlato è ciò
che permette ai personaggi, finalmente, di uscire dall’assedio
e alla regia di filmare una doppia
possibilità di vita, per Olivia e per
Lorenzo. Entrambi usciranno dallo
spazio serrato dello scantinato, entrambi prenderanno altre direzioni.
Ma quel movimento di fuoriuscita è possibile solo grazie a tutto
quell’insieme di gesti e sguardi
che ha caratterizzato il loro incontro. Ancora una volta, la forza del
cinema risiede nella capacità di
cogliere ciò che altrove è solo un
dettaglio.
Daniele Dottorini
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il giro del mondo
in 60 film
IL LATO POSITIVO
saison culturelle
Silver Linings Playbook
Regia, sceneggiatura: David O. Russell.
Soggetto: dal romanzo L’orlo argenteo
delle nuvole di Matthew Quick (ristampato con il titolo Il lato positivo). Fotografia: Masanobu Takayanagi. Montaggio:
Crispin Struthers, Jay Cassidy. Musica:
Danny Elfman. Interpreti: Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert De Niro,
Julia Stiles, Jacki Weaver, Chris Tucker,
Anupam Kher, John Ortiz, Shea Whigham,
Dash Mihok. Produzione: Mirage Enterprises, The Weinstein Company. Distribuzione: Eagle Pictures. Paese: Usa. Anno:
2012. Durata: 122 minuti.
Da un’inquadratura su sfondo nero
si sentono i pensieri di un uomo
rinchiuso in una clinica psichiatrica:
raccontano i ricordi piacevoli di una
domenica in famiglia. Lentamente
la macchina da presa si muove e si
sofferma sul mezzo busto dell’uomo
ripreso di spalle, la cui voce dice di
aver rovinato tutto, ma assicura che
ogni cosa si rimetterà al meglio; subito dopo, ripreso in primo piano,
l’uomo si rivolge all’obiettivo con
uno sguardo intriso di sofferenza. Lo
sguardo in macchina di quello che
sarà il protagonista è il primo segnale dell’identificazione con i suoi
travagli: per lo spettatore sarà infatti
impossibile non soffrire per un individuo fragile, ammalato ma in fondo
comune.
Pat Solatano, affetto da disturbo bipolare, esce dall’ospedale dopo otto
mesi di ricovero e crede che la sua riabilitazione consista nel mantenersi
in forma con la corsa, nell’evitare di
assumere gli psicofarmaci prescritti e
nel leggersi i libri che la moglie Nikki,
da cui è separato e che ha intenzione
di riconquistare, consiglia ai suoi studenti. L’uomo ha perso la compagna,
la casa, il lavoro, eppure dimostra
un’insolita forza positiva. Tuttavia
deve scontrarsi con le persone che gli
stanno vicino: la madre dallo sguardo
vacuo e incapace di reagire agli strani
comportamenti del figlio (una Jackie
Weaver tanto protettiva quanto era
spietata in Animal Kingdom, 2011) e
soprattutto il padre, uno scommettitore superstizioso e compulsivo che
condiziona pesantemente l’umore
di Pat (un Robert De Niro tornato in
gran forma). Come nel precedente
The Fighter (2010), David O. Russell
ripropone l’incisività e la ferocia
dell’universo familiare, questa volta
attraverso una passione maniacale
per i Philadelphia Eagles, la squadra
di football locale. Pat si aggrapperà ai
suoi vecchi amici per recuperare il rapporto con Nikki, la donna perfetta, ma
incontrerà Tiffany, una donna misteriosa che ha subito un grave trauma e
come lui soffre di stati d’animo alterati.
Tutti i personaggi che ruotano intorno al protagonista non sono meno
«folli» di lui, ma non riconoscono
la propria patologia e, anzi, sono
convinti di poter aiutare l’uomo
diagnosticato malato. Il lato positivo induce a riflettere su ciò che universalmente viene ritenuto «normale»: una persona con problemi
mentali, etichettata come tale, che
si dimostra più pericolosa perché
non si rassegna ad aver torto, non
è troppo diversa da persone più
controllate che fanno ugualmente
emergere lati aggressivi, tic nervosi
e disagi psichici.
Il film, tratto dal romanzo L’orlo
argenteo delle nuvole di Matthew
Quick, traspone la commedia all’interno di un dramma in cui la metafora del titolo originale indica i raggi
del sole che faticano a rischiarare le
nuvole dopo una tempesta: dietro
quelle nuvole, però, il sole tornerà a
splendere e a rischiare il lato positivo
della vita. Un tema drammatico come
la malattia mentale viene smorzato
da una freschezza vitale e da dialoghi brillanti che restituiscono un’immagine di leggerezza e piacere.
I due protagonisti, Pat e Tiffany,
considerati «diversi», si conoscono per caso e dopo parecchi scontri verbali lungo la strada, luogo
di incontro dove la macchina da
presa si concentra sui loro corpi,
si aiuteranno in un percorso di
salvezza dal mal di vivere. Il binomio tragedia-commedia, come in
un film d’epoca classica, è bilanciato dallo scambio di battute dei
due attori, una serie frenetica di
colpi da boxeur. Uno stile a tratti
nevrotico, accentuato da un montaggio veloce e dal frequente uso
della shaky camera, rende infine
le immagini leggermente malferme e riproduce fisicamente i violenti sbalzi d’umore di Pat. Da un
lato emerge il lato più drammatico e infantile del personaggio, un
Bradley Cooper inedito, attore finissimo e sensibile lontano anni
luce dal bellimbusto di Una notte
da leoni; dall’altra sale in cattedra
la personalità folle e seducente
di Tiffany, una Jennifer Lawrence
premiata a sorpresa con l’Oscar
per la Miglior attrice e capace di
interpretare una donna schietta,
irresistibile e redentrice che sembra venire dritta dalla tradizione
comica del cinema hollywoodiano.
Anche e soprattutto il rapporto di
amore e scontro verbale tra i due
protagonisti rende Il lato positivo
un film commovente, a tratti molto divertente, sull’incontro tra due
anime folli, ma più reali che immaginarie.
Alexine Dayné
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
THE MASTER
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Regia, soggetto, sceneggiatura: Paul
Thomas Anderson. Fotografia: Mihai Malaimare Jr. Musica: Jonny Greenwood.
Montaggio: Leslie Jones, Peter McNulty.
Scenografia: Jack Fisk, David Crank. Costumi: Mark Bridges. Interpreti: Joaquin
Phoenix, Philip Seymour Hoffman, Amy
Adams, Laura Dern, Ambyr Childers, Rami
Malek, Jesse Plemons, Kevin J. O’Connor.
Produzione: Ghoulardi Film Company,
Annapurna Pictures. Distribuzione: Lucky
Red. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 137
minuti.
Difficile mettere a fuoco The Master,
a quanto pare persino per quelli che,
a vario titolo, hanno contribuito alla
sua realizzazione. Il distributore Harvey Weinstein ha candidamente ammesso di avere sbagliato la strategia
di lancio e promozione del film; uno
dei due attori principali, Joaquin Phoenix, ha confessato di essersi divertito, alla prima proiezione, come e più
che a un film comico. A tutto questo
vanno aggiunte le polemiche dei seguaci di Scientology, setta religiosa il
cui fondatore, Ron Hubbard, avrebbe
indirettamente ispirato la costruzione del personaggio di Philip Seymour
Hoffman. Polemiche iniziate prima
dell’uscita del film, e rivelatisi a loro
volta fuorvianti, posto che il regista
di The Master si pone – nei confronti
di Scientology come di qualsiasi altro
movimento religioso – in una posizione più descrittiva che critica, più contemplativa che polemica.
Tra le mille voci trapelate durante la
lavorazione del film, alla base dei numerosi equivoci che ne hanno accompagnato l’uscita, una pare tuttavia
rivelatrice: quella per cui il copione
consisterebbe in una rielaborazione
di una stesura preliminare della sceneggiatura del film precedente di Anderson, Il petroliere (2008). I punti in
comune fra i due film sono infatti diversi, il principale dei quali è la critica,
questa sì feroce, al mito dell’individualismo americano, che qui assume
la forma di un delirio egocentrico di
onnipotenza (per chi lo vive) e di un
culto della personalità spinto alla sottomissione (per chi lo subisce). Sin dai
tempi di Magnolia (1999), nel cinema
di Anderson i personaggi eccezionali
sono tali soprattutto nei tratti patologici. Che, nel caso di questi ultimi due
film, possono essere ricondotti all’ansia di affermazione, a un narcisismo
ossessivo, alla compiaciuta consapevolezza del proprio carisma. Sotto
questo punto di vista, il suo è un cinema wellesiano, dominato da figure
«bigger than life», magniloquenti nel
successo come nel declino.
Paradossalmente, la statura di questi
personaggi è tale che finisce per tracimare dal piano della finzione, determinando squilibri strutturali nell’impalcatura del film. Il problema, che già
affiorava alla superficie del Petroliere,
si fa qui più evidente, al punto che
in certi momenti ci si chiede quando
la storia abbia effettivamente inizio.
Perché Anderson mette in pista due
grandi personaggi, li affida a due
attori disponibili a curare in ogni
dettaglio la loro caratterizzazione,
poi però sembra dimenticarsi che
le grandi interpretazioni – Welles
docet – devono pur sempre essere
funzionali a un’orchestrazione complessiva capace in qualche modo di
trascenderle. Come già nel Petroliere però, il regista mette il film al
servizio dei suoi attori, invece di seguire – nonostante a suo tempo sia
stato capace di comporre un mosaico
complesso come quello di Magnolia –
il principio contrario.
Per leggere The Master in modo appropriato occorre dunque uscire dal
film stesso, e provare a raccordarlo a
scenari più ampi. Abbiamo già detto
della critica all’individualismo che
accomuna i due ultimi film di An-
derson; ma sarebbe forse il caso di
dare all’affermazione una risonanza
diversa, forse persino opposta. In
qualche modo, il regista cade vittima dello stesso male che si propone
di rappresentare, rimanendo schiacciato sotto il peso di quella forma
squisitamente cinematografica di
individualismo che passa sotto il
nome di autorialità. Affascinato dal
magnetismo e dal talento dei suoi
interpreti, Anderson lascia alle loro
performance uno spazio che finisce
per mangiarsi il film, fagocitando
ogni possibile sviluppo narrativo.
Sequenza dopo sequenza, il racconto viene risucchiato dentro un’orbita tracciata e scandita dalle interpretazioni altisonanti di Hoffman e
Phoenix: due eccessi – di narcisismo
in un caso, di follia nell’altro – legittimano una recitazione debordante,
espressivamente ingorda, stilisticamente prolissa, nei confronti della
quale la deferenza di Anderson è
del tutto tangibile.
È così che un film che avrebbe dovuto raccontare la storia della dipendenza di un personaggio da un altro,
risulta, alla prova dei fatti, un film
che parla di un’altra forma di dipendenza, quella di un regista dai suoi
attori, o forse piuttosto dalla sua
stessa passione a mettere in scena
personaggi così magniloquenti da
scompaginare i confini stessi del
racconto, nel quale dovrebbero
agire da protagonisti, e che invece
provvedono a schiacciare sotto il
peso della propria identità.
Leonardo Gandini
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il giro del mondo
in 60 film
LA MIA VITA È UNO ZOO
saison culturelle
We Bought a Zoo
Regia: Cameron Crowe. Sceneggiatura:
Aline Brosh McKenna, Cameron Crowe.
Fotografia: Rodrigo Prieto. Montaggio:
Mark Livolsi. Musica: Jónsi (Jon Thor
Birgisson). Scenografia: Clay Griffith. Costumi: Deborah L. Scott. Interpreti: Matt
Damon, Scarlett Johansson, Thomas Haden Church, Colin Ford, Maggie Elizabeth
Jones, Angus Macfadyen, Elle Fanning,
Patrick Fugit, John Michael Higgins. Produzione: 20th Century Fox, LBI Entertainment, Vinyl Films. Distribuzione: 20th
Century Fox Italia. Paese: Usa. Anno:
2011. Durata: 124 minuti.
Come accade spesso, l’incipit di un
film rivela molto di quello che racconterà: nella sequenza d’apertura di
La mia vita è uno zoo vediamo infatti
il protagonista vestito con una tuta
protettiva per le api, intento a raccontare l’esperienza di essere esente
dal dolore. E in effetti la prima inquadratura è una soggettiva del protagonista che vede il mondo attraverso la
rete di una gabbia.
Il film di Cameron Crowe è basato
sul romanzo autobiografico di Benjamin Mee e narra le vicende della sua
stessa famiglia, che risparmiò una
vita intera per comprare il Dartmoor
Zoological Park, uno zoo semiabbandonato della campagna inglese con
circa duecento animali delle più svariate specie. Crowe, già regista di film
commerciali ma aperti a interessanti
suggestioni da autore come Vanilla
Sky, Quasi famosi e Jerry Maguire,
torna all’opera di finzione a sei anni
da Elizabethtown, anche in quel caso
una storia di rinascita dopo l’incontro con la morte e prima ancora con
il fallimento esistenziale. Rispetto al
modello originale, sposta l’ambientazione negli stati Uniti e affida la
parte del protagonista a Matt Damon,
qui capace di dare al suo personaggio fragilità, sussulti e complessità
che vanno ben oltre le esigenze di
una commedia.
Perché in fin dei conti La mia vita è
uno zoo ha molte caratteristiche tipiche della commedia, per quanto
Crowe sappia gestire con mano sicura una sorta di doppio binario: da
una parte, il tono farsesco dato dalla
stravaganza di alcuni personaggi (in
testa il curioso team di volontari che
si incaponisce per pura passione a
curare e nutrire gli animali dello zoo),
dall’altro il dramma della famiglia di
Benjamin, che si trova a dover affrontare la vita dopo la scomparsa della
madre. Ed è il tema della perdita e
della difficoltà ad accettare la morte
dei propri cari a costituire il perno attorno al quale ruota il senso del film.
Benjamin Mee è un giornalista
abituato a raccontare esperienze
estreme. Dopo la morte della moglie si trova a dover gestire da solo
i suoi figli: Rosie, una bambina di
otto anni, e Dylan, un adolescente
arrabbiato col mondo. Deciso a dare
una svolta alla propria famiglia,
sceglie di licenziarsi dal giornale di
cui è una firma di punta, di abbandonare ciò che lo lega ai ricordi della vita precedente e di trovare una
nuova casa in campagna. Ma quando si trova ad acquistare la proprietà dei suoi sogni, scopre che nel
pacchetto è incluso uno zoo. E che
per contratto il nuovo acquirente
deve impegnarsi a gestire e a mantenere gli animali. Abituato a raccontare le storie degli altri, Benjamin si trova a vivere una straordinaria avventura in prima persona.
Anche sul piano della messa in scena, La mia vita è uno zoo si configura
come un film più complesso di quello che potrebbe sembrare a prima
vista: girato in una alternanza continua di luce e tonalità più scure – la
fotografia oppone la luminosità della campagna californiana a lunghe
sequenze di pioggia – il film è anche
ricco di metafore visive stratificate
e immerse nel discorso, fra le quali
emerge l’immagine della gabbia. Il
viaggio di Benjamin arriva infatti in
un luogo dove la wilderness americana si scontra con la cattività degli animali e dove il protagonista
rimane «ingabbiato» dai ricordi
della moglie scomparsa (non è un
caso che sia proprio la gabbia della
tigre a diventare lo specchio in cui
il protagonista si ritrova dopo ogni
scontro con il figlio). Inoltre, non è
solo il protagonista a essere prigioniero dei propri ricordi, ma sono i
ricordi stessi delle persone amate
a essere prigionieri, chiusi nel buio
del proprio passato. Sono fantasmi
che solo nel momento in cui saranno lasciati liberi potranno invadere
lo spazio del cuore e finalmente
volare via.
In questo senso, un film all’apparenza tradizionale come La mia vita
è uno zoo trova una leggerezza e
una profondità commosse. Merito
anche dell’ottimo apporto della
musica di Jónsi, il celebre cantante
degli islandesi Sigur Rós, che per
l’occasione ha composto musica
originale e ripreso alcune tracce
dagli album della band e dalla sua
carriera solista: un connubio perfetto, in equilibrio tra la fragilità
del pianto e l’eroismo della liberazione, che accompagna il sentimentalismo e l’onestà del film, confermata in fondo dalla stessa sequenza finale, in cui i morti prendono
vita davanti ai vivi e finalmente
possono salutare e andare in pace.
Silvia Colombo
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
MONSIEUR LAZHAR
Regia: Philippe Falardeau. Soggetto:
dall’omonima pièce di Evelyne De La
Chenelière. Sceneggiatura: Philippe Falardeau, Evelyne De La Chenelière. Fotografia: Ronald Plante. Musica: Martin
Léon. Montaggio: Stéphane Lafleur. Scenografia: Emmanuel Fréchette. Costumi:
Francesca Chamberland. Interpreti: Mohamed Fellag, Sophie Nélisse, Émilien
Néron, Marie-Ève Beauregard, Vincent
Millard, Seddik Benslimane, Louis-David
Leblanc. Produzione: Luc Déry, Kim McCraw per micro_scope. Distribuzione:
Officine UBU. Paese: Canada. Anno: 2011.
Durata: 94 minuti.
Ci vogliono lo sguardo sensibile e
la partecipazione discreta che dieci
anni fa usò il regista francese Nicolas
Philibert in Essere e avere, per parlare al cinema di bambini e di educazione scolastica. Lo spazio chiuso
di un’aula, idealmente inviolabile,
va filmato e prima ancora occupato,
dunque «violato», con gentilezza e
discrezione, con la consapevolezza
di osservare uno spettacolo proibito,
uno dei pochi che ancora rimangano:
lo spettacolo, cioè, della scoperta del
mondo e di se stessi da parte di un
gruppo di piccoli uomini e piccole
donne.
E se in Habemus Papam Moretti
provava a raccontare un altro luogo
chiuso e proibito (questa volta nel
vero senso della parola), il conclave
che elegge il Papa, e non sapendone
nulla lo reinventava e smontava con
l’arma della follia ludica, il canadese Philippe Falardeau, che non è né
Philibert né Moretti e per fortuna
nemmeno aspira a esserlo, abbastanza consapevole di non possedere lo
sguardo da documentarista e altrettanto onesto da capire che la scuola
e l’infanzia non sono materiale narrativo da manipolare impunemente,
sceglie con Monsieur Lazhar di raccontare il mondo segreto dell’aula
scolastica distruggendolo fin dalla
prima sequenza e passando poi il resto del film a ricostruirlo da capo.
L’evento traumatico dell’incipit è di
quelli che lasciano senza parole, che
infliggono ferite destinate a restare
aperte per tutta la vita, ancora più
profonde se impresse sui corpi di
bambini di dieci anni di età o ancor
meno. Ma se la violazione dello spazio avviene fuori dal film, prima ancora che la macchina da presa entri
nell’aula, e se la tragedia è intravista
solamente di sfuggita attraverso lo
sguardo innocente di una bambina,
e se, ancora, il luogo violato dalla
morte viene immediatamente ripulito con una mano di vernice, allora
il compito del cinema non è filmare
l’esistente, e nemmeno inventarlo
per reagire all’assenza di immagini
e di immaginario, ma è quello più
classico, e se vogliamo hollywoodiano, di rimettere ordine nel mondo, ristabilire la legge che ne regola
l’andamento e soprattutto aiutare i
suoi piccoli abitanti a riprendere il
cammino.
La figura autorevole e gentile di Bachir Lazhar è in questo senso un personaggio cinematografico perfetto,
un tramite tra lo spettatore e i bambini della classe elementare in cui si
trova a insegnare. Sono questi ultimi,
in realtà, i veri protagonisti del film,
mentre il maestro arrivato dal nulla
a deciso a dar loro un’educazione nel
momento più difficile, quello in cui
l’infanzia incontra ingiustamente il
mistero della morte, è piuttosto una
guida, forse un agnello sacrificale,
pronto a farsi da parte una volta ripreso il cammino e finito il film.
In termini narrativi, soprattutto in un
genere come il melodramma, la sua
figura viene definita «intruder redeemer», cioè lo straniero che redime
il mondo in cui si introduce, spesso
e volentieri malaccetto e non richiesto; nel caso di Monsieur Lazhar l’ottica da cui è rappresentata ha una
forte valenza religiosa, sebbene mai
eccessiva o forzata, e il personaggio
dello straniero redentore arriva per
liberare dal tabù del dolore e della
morte la realtà chiusa della scuola
e quella iperprotetta, ma in fondo
incompresa, dell’infanzia contemporanea. Nella figura di Lazhar i riferimenti cristologici ci sono tutti: al pari
dei propri allievi è stato violentato
nei suoi affetti personali e ferito per
sempre; costretto a rifugiarsi in un
paese straniero, lui algerino sposato con una giornalista dissidente, ha
dovuto ricominciare da zero e violare
uno spazio diverso, in quanto immigrato in un paese dell’Occidente.
Dunque Lazhar è figlio e al tempo
stesso padre, redento e redentore: se
comunica con i propri allievi è perché
lo fa da pari a pari, senza dimenticare la severità della figura autoritaria,
ma sovente accettando lo scambio di
ruoli con i suoi piccoli interlocutori.
In modo diverso, forse non altrettanto efficace ma in ogni caso altrettanto delicato, anche Monsieur Lazhar,
come Essere e avere, è dunque il racconto del percorso lento e necessario dell’infanzia: senza l’aderenza ai
volti e alle situazioni tipica del documentario, senza i tempi e i ritmi
delle stagioni della vita, è il racconto
di una guarigione e di un ritorno alla
vita, con il cinema che prova a mettere ordine in una realtà sconquassata
grazie alla forza commovente di un
eroe e dei suoi piccoli allievi.
Roberto Manassero
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il giro del mondo
in 60 film
MOONRISE KINGDOM
saison culturelle
UNA FUGA D’AMORE
Regia, soggetto: Wes Anderson. Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola.
Fotografia: Robert Yeoman. Montaggio:
Andrew Weisblum. Musica: Alexandre
Desplat. Scenografia: Adam Stockhausen.
Interpreti: Bruce Willis, Edward Norton,
Bill Murray, Frances McDormand, Tilda
Swinton, Jared Gilman, Kara Hayward, Jason Schwartzman, Bob Balaban. Produzione: American Empirical Pictures, Indian
Paintbrush, Scott Rudin Productions. Distribuzione: Lucky Red. Paese: USA. Anno:
2012. Durata: 94 minuti.
La prima sensazione che si prova,
davanti alla sequenza di apertura
di Moonrise Kingdom, è di trovarsi
dentro una casa di bambole, dove
tutto – dai quadri alle pareti, alla
tappezzeria stampata – è stato predisposto da uno di quei pazzi che
costruiscono interi castelli con i
fiammiferi o da un etnomologo intento a osservare con pazienza infinita un formicaio e la sua febbrile
attività. La prima impressione, davanti al cinema di Anderson, è quella di avere il sospetto che al regista
non interessi ciò che i personaggi
provano o perché fanno determinate cose, ma che il suo obbiettivo sia
predisporre un teatro in miniatura
dentro cui muovere le sue meravigliose e affascinanti siluhette bidimensionali.
Prendiamo il modo con cui descrive
lo spazio famigliare e ci fa entrare
nella casa della protagonista: la
macchina da presa traccia carrellate geometriche, dritte e scorrevoli
come righelli su un foglio, ripetute
più volte da sinistra a destra e viceversa, parallele verticali e orizzontali su cui costruire la griglia
perfetta di una visione molto simile
a quella di un insettario, la visione
orizzontale di cose che invece scavano nella profondità. Quella che si
agita nel labirinto di Moonrise Kingdom la tipica famiglia che Anderson
ha sempre messo in scena a partire
da I Tenembaum in poi: nuclei disfunzionali ed eccentrici inseriti in
un universo vintage, dove ogni oggetto, indumento o arredo diventa cimelio decorativo, evocazione
puntuale di una certa atmosfera e
di un determinato periodo storico,
punto catalizzatore di una gamma
di sentimenti ed emozioni che va
dalla nostalgia, al ricordo, all’emozione estetica di un preciso sentimento della bellezza. E da buon
esteta, innamorato di ogni particolare e sfumatura, Anderson intona i
suoi personaggi all’ambiente e agli
aggetti di cui li circonda, e non viceversa.
Il rischio di questa straordinaria
abilità, di questa sensibilità unica
per il décor anni ’70 è la tendenza a
mettere in scena non personaggi in
carne e ossa, ma figurine eleganti,
caratteri eccentrici studiati a tavolino, e filmare ogni volta il festival
della famiglia anticonvenzionale a
ogni costo. Leggendo il film sotto
questa luce, il binocolo che copre
spesso il viso di Suzy non è più il
simbolo di un voler guardare meglio, o più da vicino, le cose del
mondo, ma al contrario la metafora di un filtro, di una distanza
ulteriore che si frappone tra lo
sguardo e il suo oggetto. Ma in
Moonrise Kingdom Anderson evita
questo pericolo (come invece accadeva in Il treno per Darjeeling)
proprio nel momento in cui segue
due ragazzini che tentano una
fuga d’amore, alla ricerca di nuove
possibilità. Sam e Suzy sono due
bambini in fuga dalle rispettive
famiglie (e poco importa davvero
se la famiglia è quella «natural» o
quella adottiva) da cui non si sentono desiderati e compresi. Insieme,
decidono di percorrere in tutta la
sua lunghezza la piccola isola del
New England in cui vivono per andare a rifugiarsi in una baia appartata, chiamata per l’appunto Moonrise Kingdom: perché ogni volta
che nel loro avanzare fanno tappa
nella natura selvaggia, i due protagonisti rinominano il luogo che
li ospita. Attraverso l’arte sapiente
del campeggio, Sam e Suzy trasformano l’ambiente che li circonda: lo
disseminano di oggetti amati (il giradischi a pile, il binocolo, la tenda
gialla), lo popolano di arredi quanto meno impropri al luogo e alla
situazione (scatolette di cibo per
gatti, pile di libri), cambiano d’uso
il paesaggio che li circonda (pietre,
tronchi e corsi d’acqua trasformati
in sedie, tavoli per cenare), trovano nuovi nomi ai luoghi e alle
cose. Così a ogni loro nuovo passo
il mondo si trasforma e di conseguenza per il loro sguardo, esattamente come dovrebbe accadere – e
qui accade – In ogni storia d’amore.
E non è un caso che in questo luogo
nuovo – una baia isolata diventata
il nascondiglio perfetto dove concludere l’avventura di una fuga – la
regia filmi il primo bacio tra i due
bambini e riesca a farlo nel modo
più pudico e vero possibile. Sono
momenti in cui il binocolo non serve più, e dove la macchina da presa
si ferma, vicina e immobile, davanti
a due corpi sulla soglia dell’adolescenza per riempire il nostro sguardo e far scorrere la tenera verità di
un momento.
Silvia Colombo
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
NOI SIAMO INFINITO
The Perks of Being a Wallflower
Regia, soggetto e sceneggiatura: Stephen
Chbosky. Fotografia: Andrew Dunn.
Montaggio: Mary Jo Markey. Musica:
Michael Brook. Scenografia: Inbal
Weinberg. Costumi: David C. Robinson.
Interpreti: Logan Lerman, Emma Watson,
Ezra Miller, Mae Whitman, Kate Walsh,
Dylan McDermott, Melanie Lynskey, Paul
Rudd. Produttore: Mr. Mudd. Summit
Entertainment.
Distribuzione:
M2
Pictures. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata:
102 minuti.
Charlie sta per iniziare l’anno scolastico in un nuovo liceo, preoccupato
come solo gli adolescenti sanno essere. La scuola è una giungla in cui
vige la legge del più forte, l’unica
luce è un professore che si rivela fidato spacciatore di buone letture.
Almeno fino a quando, nel rituale
giro dei tavoli della mensa – tutti
potenzialmente respingenti, simboli
tangibili di una temuta esclusione –
Charlie conosce la seduttiva Sam e il
suo fratellastro Patrick, due carismatici studenti dell’ultimo anno pronti
ad accoglierlo tra le braccia di una
nuova amicizia, a fargli da bussola in
quel mondo che ha il terrore di conoscere.
Noi siamo infinito racconta di come i
rapporti umani siano destinati a far
crescere, di come la fragile età dell’adolescenza possa diventare una palestra per scoprirsi e rinascere, per
elaborare lutti e riconoscere il dolore che ci portiamo dentro. Stephen
Chbosky ha pubblicato il romanzo
The Perks of Being a Wallflower nel
1999 (pubblicato in italiano con il
più aderente titolo Ragazzo da parete) e ora torna sui suoi passi per
tradurlo in film, trasformando la
struttura epistolare del libro in una
confessione aperta del protagonista,
scandita dalla sua voce fuori campo
e dalla quasi totale aderenza al suo
sguardo.
La forza del film di Chbosky sta nella
riuscita caratterizzazione dei protagonisti e nell’interpretazione dei
suoi giovani attori (Logan Lerman,
Emma Watson, Ezra Miller), capaci
di suscitare un’immediata empa-
tia, figure di carne e sangue in cui
ci si identifica con languida facilità. Charlie è timido, introverso ma
curioso, occhi spalancati su un mondo da cui si sente al tempo stesso
attratto e minacciato; Sam ha successo, è spigliata e intelligente ma
cela un passato dal cuore di tenebra;
Patrick è bello e brillante, ma la sua
omosessualità lo costringe a vivere
nell’ombra, a essere desiderato solo
di nascosto, schiacciato dalle ferree regole di comportamento che la
scuola mutua dalla società adulta.
L’ambientazione – un sobborgo borghese di Pittsburgh all’inizio degli
anni ’90 – amplifica il senso nostalgico dell’operazione senza però depotenziare il valore universale della
storia, come se non potesse esistere
un contesto sociale e culturale capace di avere la meglio sullo spirito
indomito dell’adolescenza.
Chbosky insiste su gusti, mode e
momenti che identificano un preciso momento storico e sottolinea il
senso atemporale di un sentimento,
di una «Weltanschauung» generazionale capace di commuovere a
qualunque età. Puntualizza i modelli
(musicali, letterari, cinematografici)
di riferimento, storicamente riconoscibili, ma li sfila dal loro valore di
testimonianza vintage per mutarli
in strumenti di emancipazione, privi di una connotazione cronologica.
Asseconda un’anima citazionista
usandola per trascendere più che per
precisare, per dare al racconto la forma di un apologo più che quello di
una fotografia d’epoca. Coesistono
così gli Smiths (come in Bella in rosa,
1986) e il Rocky Horror Picture Show
(come in Saranno famosi, 1980),
Heroes di Bowie e il totem anticonformista del Giovane Holden, i Sonic
Youth e i New Order, a esprimere la
volontà di tracciare un fluido canale
emotivo in cui generazioni diverse
possano riconoscere umori e dolori
comuni.
Noi siamo infinito si caratterizza proprio in questo: è un film che comunica con l’idea di adolescenza che
ogni spettatore porta dentro di sé.
Questa indeterminatezza rappresenta la sua principale forza evocativa e
la definizione precisa dei suoi limiti.
Prendendo a modello (in maniera
tangente ma evidentissima) il cinema anni ’80 di John Hughes – con i
suoi genitori affettuosi e assenti, con
l’orgogliosa indipendenza dal mondo
adulto, con la prevalenza dell’emozione sulla ragione, con la pudica riflessione sui corpi e sul sesso – Noi siamo
infinito affida ai personaggi la valenza
simbolica di un’età dolente e pura, capace di metabolizzare, «by any means
necessary», il dolore in forza vitale.
Una tale affettività tetragona rischia
però di ridursi a un’anamnesi dei turbamenti che sfiora il semplicismo.
Fiero dell’emozione che suscita, complice anche una regia attenta ma vagamente didascalica, succube dell’afflato romantico che mette in scena, il film
scivola a tratti nell’enfasi retorica, alla
ricerca di una commozione empatica
che tra le lacrime rischia di sfumare i
contorni di un ritratto generazionale
altrimenti assai preciso.
Federico Pedroni
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il giro del mondo
in 60 film
ON THE ROAD
saison culturelle
Regia: Walter Salles. Soggetto: dal romanzo omonimo di Jack Kerouac. Sceneggiatura: Jose Rivera. Fotografia: Éric Gautier.
Musica: Gustavo Santaolalla. Montaggio:
François Gédigier. Scenografia: Carlos
Conti. Costumi: Danny Glicker. Interpreti: Garrett Hedlund, Sam Riley, Kristen
Stewart, Amy Adams, Tom Sturridge, Allen Ginsberg, Danny Morgan, Alice Braga, Marie-Ginette Guay, Elisabeth Moss,
Viggo Mortensen, Steve Buscemi. Produzione: Mk2, Videofilmes, Jerry Leider
Company. Distribuzione: Medusa. Paese:
USA, Francia, Regno Unito, Brasile. Anno:
2012. Durata: 137 minuti.
C’è un motivo per cui gli adattamenti
cinematografici dei grandi romanzi
americani hanno, salvo rare eccezioni, deluso. Sono deludenti le versioni
filmate della Lettera scarlatta e del
Grande Gatsby, e non è un capolavoro nemmeno il Moby Dick di Huston,
perché il romanzo di Melville non è
(solo) la storia dell’ossessione di un
uomo che dà la caccia a una balena.
Le eccezioni si contano sulle dita
di una mano e la prima che viene
in mente è Furore, notevole nelle
parole di Steinbeck e altrettanto riuscito nelle immagini di John
Ford. Sì, certo, Ford: lo stesso che
ha tratto un grande film da un altro romanzo sulla Depressione, ma
decisamente minore, La via del tabacco di Caldwell. È risaputo: meno
ambizioso è il romanzo, più un autore può servirsi della sua trama
come canovaccio per elaborare la
propria, autonoma visione.
Così, a cinquant’anni dalla pubblicazione, è arrivato il momento del
celebre romanzo beat di Jack Kerouac, per la regia di Walter Salles.
Del libro si prende la traccia narrativa, e la sceneggiatura di Jose Rivera
(già collaboratore del regista per I
diari della motocicletta) non manca di cogliere alcuni motivi chiave.
Su tutti l’amicizia tra Sal Paradise e
Dean Moriarty, centrale nell’illustrare la ricerca di un’anima gemella, e il
desiderio panico di cantare la bellezza di una terra immensa, alla maniera
di Whitman, abbracciando in un solo
sguardo pianure e grattacieli, oceani
e tramonti. La terra delle mille possibilità che in realtà non sono che una
sola, illusoria e destinata a pochi: il
Grande sogno americano, che si dissolve alla fine della strada. E il ritorno
a casa è il sofferto addio alle illusioni della gioventù, ancora valido
per coloro che covano la spinta alla
fuga e insieme la consapevolezza
che ogni viaggio è una fuga da se
stessi. Resta forte, allora, la necessità di essere curiosi, di conoscere,
vedere e sapere più che si può, perché se non c’è destinazione allora è
il movimento ciò che conta: l’essere, appunto, sulla strada.
Qualcosa di tutto questo filtra tra
le immagini, negli scorci intravisti
dal finestrino di un’auto o dalla
finestra di un appartamento: è un
vento leggero in un film che fatica
a prendere il largo, ma è anche il
segno di un legame che il brasiliano Salles, forte del suo sguardo da
straniero, trova con il paesaggio
americano. Tutto è filtrato, niente è diretto come in Kerouac: ed
è per questo che oltre alla voce
narrante, nel film c’è molta gente che legge e scrive libri, lettere, poesie. Ma se il vero senso del
cinema, di fronte a un romanzo, è
trasformare la parola in immagine,
Salles, ancora in quanto straniero,
sembra temere il confronto con la
parola e, rispettandola, la lascia
intatta. Può essere un peccato originale: seguire cioè la letteralità
delle pagine dimenticando che la
fedeltà doveva essere nei confronti
del suo spirito. Ma proprio in virtù
della letterarietà del film, emergono il vitalismo e la musicalità rubate al jazz, il piacere e la distruzione
dei figli dell’ebrezza alcolica, tra
lenzuola sfatte, posacenere colmi e
mura scrostate.
Così un’ombra lentamente si stende sul film, sulle emozioni degli
incontri e la passione degli amori perduti, e il senso di rimpianto
non appartiene solo ai protagonisti
bensì al film stesso, che forse non
riesce fino in fondo a essere quel
che vorrebbe, ma al tempo stesso
dimostra la propria onestà nei confronti del romanzo di partenza.
Per certi versi On the Road ricorda
Questa terra è la mia terra, il biopic
dedicato a Woody Guthrie diretto
da Hal Ashby nel 1976: la storia è
quella cantata da Guthrie, e probabilmente proprio così sono andate
le cose, tra le lotte operaie, gli scioperi dei braccianti e le dustbowls
della Grande Depressione. Ma da
un film non ci si aspetta che ci convinca di come stavano realmente
le cose, quanto del modo in cui le
immagina il suo autore. E in questo Salles fa come Ashby: entrambi
sono troppo attenti a rispettare una
visione altrui, ma al tempo stesso
riescono a restituirla; rinunciano
all’autorialità, forse anche al gusto
della sfida, e inseguono la pagina
scritta, la scrittura vibrante, il senso
perduto delle cose e la possibilità
di provare a riviverle ancora. Anche
solo per sapere come si vivevano
la strada e la libertà in tempi ormai
lontani e, per quanto mitici, un po’
offuscati. Sulla strada ha il merito
di averli resi ancora vivi.
Alessandro Stellino
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
PADRONI DI CASA
Regia: Edoardo Gabbriellini. Soggetto:
Edoardo Gabbriellini, Pierpaolo Piciarelli. Sceneggiatura: Edoardo Gabbriellini,
Francesco Cenni, Michele Pellegrini, Valerio Mastandrea. Fotografia: Daria D’Antonio. Montaggio: Walter Fasano. Musica:
Cesare Cremonini, Gabriele Roberto,
Stefano Pilia. Scenografia: Francesca Di
Mottola. Costumi: Antonella Cannarozzi. Interpreti: Valerio Mastandrea, Elio
Germano, Gianni Morandi, Valeria Bruni
Tedeschi, Francesca Rabbi, Mauro Marchese, Lorenzo Rivola, Alina Gulyalyeva,
Giovanni Piccinini. Produzione: First Sun,
Relief, Rai Cinema, Rodiani Productions.
Distribuzione: Good Films. Paese: Italia.
Anno: 2012. Durata: 90 minuti.
In un cinema italiano inflazionato da
esordi spesso e volentieri non seguiti da una seconda prova, occorre
guardare con attenzione a chi riesce
ad avere la pazienza e l’intelligenza
di aspettare una seconda occasione, seguendo la duplice prospettiva
dell’esigenza di autenticità e dell’attenzione nei confronti del pubblico.
È il caso recente di Edoardo Gabbriellini, che dopo l’esordio del 2003
con B. B. e il cormorano, presentato a
Cannes, torna alla regia con Padroni
di casa, in concorso al Festival di Locarno.
Gabbriellini distilla e condensa
una serie di importanti esperienze
professionali d’attore, che vanno
dall’entusiasmo narrativo di Virzì (da
Ovosodo a Baci e abbracci) ai toni più
amari delle regie di Zanasi (Non pensarci) e Guadagnino (Io sono l’amore),
fino alla leggerezza della commedia
di Lucio Pellegrini (Figli delle stelle e
la serie tv I liceali). Tali prove hanno
fornito a Gabbriellini anche l’esperienza della direzione degli interpreti, che in questo secondo film costituiscono un bouquet d’eccezione.
Sebbene il giovane regista sostenga
di non aver fatto nulla, perché gli
attori si sarebbero diretti da soli, risulta chiaro come l’eterogeneità dei
contributi necessitasse di una mano
al contempo leggera ed equilibrata.
In questo senso spicca la scelta di
due differenti registri interpretativi,
che seguono con precisione la linea
dei caratteri: da una parte il duo Germano-Mastandrea, cui viene lasciata
la libertà di esprimere tutta l’empatica selvatichezza dei loro personaggi,
dall’altra la coppia Morandi-Bruni Tedeschi, che non potrebbe essere più
eterogenea e su cui grava la responsabilità di trovare un convincente
equilibrio, vista la delicatezza di una
relazione sentimentale condizionata
dalla malattia.
Ed è proprio in queste audaci scommesse narrative, oltre ogni rigidità di
sceneggiatura, che è oggi possibile
rilevare l’estrema vitalità del giovane cinema italiano. Individuare e
formare nuovi segmenti di pubblico
significa anche andare al di là delle
ingessature del racconto, lasciarsi
sorprendere dalla libertà dei personaggi e delle storie; ma anche apprezzare lo sforzo di comunicazione
di un autore.
Nel film, infatti, affascina la rappresentazione simbolica di una contemporaneità secondo i valori opposti
del nuovo e del vecchio, del rinnovamento e della tradizione, della visibilità e dell’invisibilità. Seguendo lo
schema consolidato dell’elemento
estraneo che irrompe in un universo
immobile, Gabbriellini confeziona la
giusta miscela di veracità e dolore,
sottolineando come la frustrazione
e l’insoddisfazione finiscano spesso
per minacciare la vocazione al piacere di ogni essere umano e arrivino a
compromettere il tessuto sociale.
Se perciò un tempo si diceva che la
maggior parte dei film italiani rivela
uno sguardo ristretto o provinciale,
accontentandosi di storie piccole o
poco emblematiche, oggi è necessario riconoscere come l’ambientazione geografica e la perifericità
delle storie sappiano proporsi come
paradigma di una condizione più ampia, di una visione necessaria che ci
porta, come indicato dall’intreccio, a
vedere cose inattese.
È perciò in questo spaccato della provincia più profonda che Padroni di
casa trova la sua necessità, in un senso di squallore e mediocrità messo in
discussione dall’arrivo in un paesino
dell’Appennino tosco-emiliano di
due fratelli incaricati di lavorare nella villa di un famoso cantante dimenticato. In tal senso non esisteva icona
migliore di Morandi, con i suoi autentici vissuti di temporanei tramonti,
per semplificare la complessità di
Fausto Mieli e riuscire a tradurla agli
occhi del pubblico. Al tempo stesso
risulta strategica, ma non priva di fascino, anche la scelta di Valeria Bruni
Tedeschi per condensare il portato di
sacrificio del personaggio.
Di fronte a un film come Padroni di
casa diventa automatico ribadire
come il vero problema del cinema
italiano sia oggi quello della distribuzione, facendo però attenzione a
porre accanto alle questioni dell’industria culturale, e dunque delle
strategie di diffusione dei film, anche quello di una necessaria trasformazione del gusto della critica e del
pubblico, in cui l’intelligenza di chi
guarda diventa una condizione essenziale della fruizione. Mettere in
discussione i propri parametri critici, per non rischiare di rendere vani
gli sforzi produttivi e creativi di una
scena italiana raramente così florida.
Umberto Mosca
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il giro del mondo
in 60 film
PARIS-MANHATTAN
saison culturelle
Réalisation, scénario: Sophie Lellouche.
Photographie: Laurent Machuel. Montage: Monica Coleman. Interprètes: Alice
Taglioni, Patrick Bruel, Marine Delterme,
Louis-Do de Lencquesaing, Michel Aumont, Marie-Christine Adam, Yannick
Soulier, Margaux Châtellier, Arsène Mosca, Gladys Cohen, Julie Martel, Roman
Guisset. Production: Vendôme Production, France 2 Cinéma, SND. Distribution:
Academy 2. Pays: France. Année: 2012.
Durée: 77 minutes.
Premier long-métrage de la réalisatrice française Sophie Lellouche,
Paris-Manhattan fait un clin d'œil
à Woody Allen et reprend, une certaine cinématographie américaine
liée à la sophisticated comedy de
Lubitsch, Capra et Wilder. La ville
française assimilée à la ville de
New York n’est pas vraiment la
même car la première ressemble
ici à un petit village et l’aide des
amis et des ipersonnes connues
règle chaque obstacle. De toute
façon, Paris n’est plus évoqué
dans son architecture caractéristique mais elle représente le
symbole d’une atmosphère de
rêverie et du romantisme comme
un des derniers films de Allen le
témoigne, Midnight in Paris. Lellouche débute son premier film
comme une comédie du cinéaste
américain, avec Bewitched chantée
par Ella Fitzgerald qui accompagne
un travelling sur des livres de Shakespeare, Dostoevskij, des études
freudiennes, des cd de Cole Porter, de Bechet et le générique de
début avec des caractères blancs
sur plan noir.
Alice, jeune et belle pharmacienne
d'origine juive, mais encore single
à l’âge de 35 ans, cause comme
une adolescente avec le poster
gigantesque de son réalisateur
préféré qui devient son guide spirituel afin de pouvoir sortir de ses
crises sentimentales. Ce dialogue
entre l’héroïne et la voix de Woody
Allen nous dévoile la difficulté de
cette femme de gtandir, de sortir
d'un monde onirique et imaginaire qui provient directement de
son obsession pour les films de
l’auteur américain. L’idole de « la
verbosité humoristique et psychanalytique » incarne pour Alice
la projection de soi-même et le
rapport qui s’instaure entre thérapeute et patient comme dans
le film Tombe les filles et tais-toi,
où le protagoniste interprété par
Woody Allen cherche à avoir des
conseils de la part de Humphrey
Bogart parce qu’il n’arrive pas à
trouver la femme de sa vie.
Le personnage de la merveilleuse blonde actrice représente
une nouvelle Amélie Poulain
qui se retrouve en équilibre instable entre réalité effective et
onirique, entourée par des humains étranges et malheureux
dont elle prend soin à travers
les long-métrages de Lubitsch
et de son mythe Woody Allen.
Victor, homme « incomplet » qui
n’a jamais vu un film de Allen
est l'opposé d'Alice. Pessimiste
et réaliste, il lui fera découvrir
peu à peu que les personnes qui
vivent à côté d’elle ne sont pas si
heureuses ni si parfaites qu'elle
pensait. À la douceur et à l'esprit
pétillant d'Alice Taglioni, qui incarne deux icônes de Woody Allen, Mia Farrow et Diane Keaton,
s’ajoutent Patrick Bruel, représentant un plus jeune et sceptique
Woody Allen et d’autres couples,
bien en harmonie entre eux
comme jeux d’acteurs et qui affir-
ment que " la vie est belle " si on
sait que " personne n’est parfait ".
De plus, la protagoniste n’arrive
pas à comprendre ses propres sentiments et le bonheur qui l’attend
tout proche jusqu’au moment où
elle se souvient des phrases de
Victor – un fragment tiré de Tout
ce que vous avez toujours voulu
savoir sur le sexe dans l’épisode
de la passion entre le sexologue
et le mouton du film – et enfin, elle comprend la vérité sur
l’âme sœur.
Paris-Manhattan est un film léger et ironico-sentimental dans
sa mise en scène qui essaye
d'explorer un univers magique,
mais qui n’arrive pas à déclencher une histoire bien soutenue
et originale. Les nombreuses
allusions aux films de Woody
Allen étouffent le premier travail de Lellouche qui perd sa
personnalité. On comprend l’intention de célébration pour le
cinéaste de New York mais cet
hommage devient toujours plus
une confrontation et la réalisatrice perd de vue son objectif.
Cependant, un coup de vraie magie rend le final très surprenant
et donne au film un ambiance
agréable et une dimension encore plus féerique, démontrant
que quelquefois les rêves, avec
une pincée de chance et de courage, peuvent se réaliser.
Alexine Dayné
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
LA PARTE DEGLI ANGELI
The Angels’ Share
Regia: Ken Loach. Sceneggiatura: Paul
Laverty. Fotografia: Robbie Ryan. Montaggio: Jonathan Morris. Musica: George
Fenton. Scenografia: Fergus Clegg. Costumi: Dani Miller. Interpreti: Paul Brannigan, John Henshaw, Gary Maitland,
Jasmin Riggins,William Ruane, Roger Allam, Siobhan Reilly, Chooye Bay, Paul Birchard, James Casey. Produzione: Sixteen
Films, Why Not Productions, Wild Bunch.
Distribuzione: BIM. Paese: Regno Unito/
Francia. Anno: 2012. Durata: 106 minuti.
"Verso la fine dello scorso anno, il numero di giovani disoccupati in Gran
Bretagna ha superato per la prima
volta il milione. Volevamo raccontare una storia che riguardasse questa
generazione di giovani che spesso ha
come prospettiva un futuro vuoto.
Sono pressoché certi che non avranno un’occupazione, un impiego fisso,
un lavoro sicuro. Che effetto ha questa consapevolezza sulle persone e
come vedono se stesse?".
Questo il punto di partenza di Ken
Loach per La parte degli angeli, film
con cui, dopo il cupo L’altra verità
(2010), indagine sulla morte di una
guardia del corpo inglese in Iraq, il
regista britannico torna alla commedia riassaporando il «gusto» corrosivo e geniale di Riff Raff (1991) e
Piovono pietre (1993), ma rivisitando
il proprio cinema in chiave di favola
lieve che riflette sulla disoccupazione, la dispersione giovanile e l’uso di
stratagemmi, più o meno ortodossi,
per recuperare la speranza del futuro. Semplicità, piccole raffinatezze
nel racconto, paesaggi umani e urbani di Glasgow e della campagna
scozzese costituiscono l’ossatura
di uno script che funziona come un
meccanismo perfetto: un puzzle da
ricostruire in ordine sparso, in apparente disordine, fino a raggiungere
(come sempre in questi casi) variazioni inattese. Non tanto un gioco di
sorprese, quanto la capacità di assecondare la storia e lasciarla vivere
nelle sue piccole derive.
Il protagonista del film, Robbie, sconta una condanna a svolgere lavori
socialmente utili per la sua indole
aggressiva a la tendenza a risolvere
tutto con la violenza. Ma la sua fidanzata aspetta un figlio e lui deve
cambiare qualcosa per non rischiare
di perdersi. L’occasione arriva grazie
ad Harry, l’educatore che lo segue e
scopre il talento del giovane nell’assaggiare e «decifrare» whisky. Una
rivelazione destinata a restare senza prospettive se non fosse per la
volontà di Robbie di cambiare vita e
rivendicare le sue occasioni.
Come sempre Loach offre uno sguardo a tutto tondo delle storie e dei
suoi personaggi. La parte degli angeli ci mostra l’urgenza del discorso
sociale e lo sberleffo delle convenzioni, c’è l’immagine della periferia
cittadina, vendicativa e violenta, e ci
sono personaggi capaci di leggerezza e ironia. La scommessa è quella
di insinuare situazioni insolite in un
contesto di crisi e immobilismo e trasformare l’alcol in veicolo di emancipazione, piuttosto che simbolo del
degrado. In una bottiglia di whisky,
infatti, si nasconde il segreto del successo di Robbie e dei suoi compagni
di viaggio. Smessa la tuta da ginnastica e indossato il kilt per mascherare il loro aspetto e le loro intenzioni,
i quattro eroi del film partono verso
la brughiera delle Highlands alla
volta della distilleria più ambita del
paese per rubare tre bottiglie di un
rarissimo nettare. Un piano perfetto,
proprio perché assurdo, al punto da
sembrare impraticabile, che si sgretola e si ricompone più volte sotto i
nostri occhi, come fosse opera d’improvvisazione degli attori che Loach
lascia liberi di agire.
Perché sono i protagonisti il punto
di forza del film, l’oggetto che catalizza attenzione e apprensione di
un Loach ancora una volta puntuale
nel descrivere con tocchi di sapiente
sobrietà il vissuto di persone vere,
figure tratteggiate con passione e
irriverenza, ai quali si devono i dialoghi più belli del suo recente cinema.
E infatti tutto è costruito attorno a
loro: il ritmo, la scelta di luci e colori, l’alternanza continua tra commedia e dramma sociale. Si passa
con velocità tra periferie, aule di
tribunali e scorci della ridente campagna scozzese, con toni lividi e
colori che irrompono con sorpresa
di tutti.
Sofisticato (come la miglior commedia inglese) e realista al tempo
stesso, La parte degli angeli pur
nella coerenza assoluta della semplicità si trasforma e cambia pelle
e volto: come il 2% di whisky che
evapora ogni anno dalle botti delle
distillerie per raggiungere gli angeli. Come Robbie che, nonostante la cicatrice sulla faccia (che lo
definisce a priori come teppista),
ha il coraggio di cercare un’altra
strada. L’incipit è quasi surreale,
con l’esilarante scena sui binari
della stazione. Ne è protagonista
lo stralunato Albert, cui è affidato
il compito di scompigliare le carte
e innescare meccanismi inattesi di
comicità. Scene veloci, necessarie a
stabilire il ritmo discontinuo, fatto
di scatti e di pause che puntellano
tutto il film.
Grazia Paganelli
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il giro del mondo
in 60 film
LES PETITS MOUCHOIRS
saison culturelle
Réalisation, scénario: Guillaume Canet.
Photographie: Christophe Offenstein.
Montage: Hervé de Luze. Décoration:
Philippe Chiffre. Costumes de scène: Carine Sarfati. Interprètes: François Cluzet,
Marion Cotillard, Benoît Magimel, Gilles
Lellouche, Valérie Bonneton, Laurent
Laffite, Pascale Arbillot, Jean Dujardin.
Production: Les Productions du Trésor,
EuropaCorp. Distribution: Lucky Red.
Pays: France. Année: 2010. Durée: 154
minutes.
Véritable phénomène de box-office en
France dès sa sortie en octobre 2010,
le troisième long métrage de l’acteur
et réalisateur Guillaume Canet a depuis dépassé les cinq millions d’entrées dans le seul Hexagone. Etonnant,
a priori, pour « un film de vacances »
qui relate le séjour d’un groupe d’amis
dans la villa de l’un d’entre eux au
Cap Ferret. La splendide péninsule
gasconne aurait pu fournir un simple
décor de feel-good movie dans le sillage des Bronzés, mais Canet prend
d’emblée une tout autre option en ouvrant son récit entre quatre murs. Dans
l’atmosphère confinée d’une discothèque parisienne, Ludo (Jean Dujardin, en version assombrie de Brice de
Nice, son personnage de café-théâtre
porté à l’écran en 2005) a manifestement consommé de la cocaïne, tant
ses rodomontades donjuanesques et
vulgaires semblent galvanisées artificiellement. La caméra le suit dans
les couloirs sous-éclairés, mais une
fois dehors, la grisaille de Paris ne
lui apporte guère mieux que la boîte
ringarde : usé par une nuit d’excès, il
grille un feu rouge en scooter et se
fait faucher par un camion. C’est donc
sur fond d’accident à la fois évitable
et grave (défiguré, il est immobilisé à
l’hôpital) que commence l’aventure
de ses amis. Et d’abord, leur dilemme :
partir ou ne pas partir en vacances, le
séjour étant prévu de longue date?
Résolution est prise de partir, mais
l’absence du copain amoché fonctionne dès lors comme un hors-champ
permanent, une mauvaise conscience
toujours susceptible de couper cours
aux « déconnades » amicales.
Plutôt qu’à l’horizon cinématogra-
phique avoué du film qui serait
Vincent, François, Paul et les autres de
Claude Sautet (1974), l’ancrage dans
cette mort en sursis le rapprocherait
plutôt, toutes proportions gardées,
de l’immense Règle du jeu de Jean
Renoir (1939), dont l’un des enjeux
était aussi l’amitié, notamment entre
hommes et femmes, et le centre narratif, une grande demeure de vacances
où la chasse et la fête se succédaient
pour se confondre tragiquement. Dans
Les Petits Mouchoirs, rien n’est grave,
rien n’est anodin non plus. Il ne s’agit
pas de prendre le prétexte du séjour
ensemble pour brosser une galerie de
portraits où les travers des uns et des
autres prêteraient à maints gags. Seul
le personnage de Max, le propriétaire
des lieux joué par François Cluzet,
semble délibérément plus caricatural: plus âgé que les trentenaires qu’il
réunit, c’est un grand frère bougon à
la fois généreux et râleur. Sa promptitude à la colère et son goût du luxe
évoquent immanquablement le président de la République de l’époque
du tournage, Nicolas Sarkozy, à la fois
people et monsieur-tout-le-monde,
bling bling et sale gosse.
De même que Sautet faisait un portrait de groupe au lendemain de
l’élection de Valery Giscard d’Estaing
(le centrisme aristocratique en habits
neufs), Canet livre celui de la furtive
génération Sarkozy. Et on ne peut pas
dire qu’elle éclate de santé : entre la
belle Marie, qui s’entend dire par son
meilleur ami qu’elle "couche avec
tout le monde, alors pourquoi pas
avec [lui] ? " et Vincent, marié et père,
qui se découvre homosexuel et attise
l’homophobie de Max, les éclats de
rire de la bande masquent un mal de
vivre soigné à coups de rouge et de
plantades en ski nautique. Autant les
situations amoureuses des amis sont
variées (Antoine ne rêve que de reconquérir son ex, Eric sent qu’une rupture
lui pend au nez, Marie fuit un amant
musicien apparemment idéal, la
femme de Max joue les cochonnes sur
Second Life...), autant chacun se pique
de respecter celle des autres. La génération petits-mouchoirs est donc avant
tout, plutôt que celle du collectif, celle
d’un individualisme inaliénable, pour
le meilleur (la tolérance) et le pire
(l’égoïsme).
Chacun peut se reconnaître dans de
tels désynchronismes : combien de
fois les rythmes de sommeil et de vie
interfèrent-ils dans l’harmonie des
couples, des familles? Campant endeçà de la caricature, Canet tend à un
miroir au quotidien de ses spectateurs,
même ceux qui n’ont pas les moyens
d’acheter dans un lieu de villégiature
chic. A intervalles réguliers, comme
des intermèdes, des séquences montées « en accolade » viennent célébrer
une forme de partage amical, par-delà
les idiosyncrasies. Mais l’égoïsme collectif, qui tient à distance le blessé
parisien, devra faire face à la réalité
de cette absence. Rétrospectivement,
on peut dire que le retour de vacances
(et de bâton) des Petits Mouchoirs anticipe ce qui arriva en 2012 à l’arrogance
sarkozyste. Leçon d’humilité plus que
d’indéfectible amitié, le film est bel et
bien devenu la chronique d’une mort
politique annoncée – libre à chacun de
sortir ou non son mouchoir...
Charlotte Garson
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
PIETÀ
Pieta
Regia, sceneggiatura, montaggio: Kim Kiduk. Fotografia: Jo Yeoung-jik. Musica:
Park In-young Tim Starnes. Suono: Lee
Seokjun. Scenografia: Lee Hyun-joo. Interpreti: Min-soo Jo, Eunjin Kang, Jae-rok
Kim, Jeong-jin Lee, Jin Yong-Ok. Produzione: Good Film, Finecut. Distribuzione:
Good Films. Paese: Corea del sud. Anno:
2012. Durata: 104 minuti.
A dispetto della sua iconografia sacrale, a prima istanza Pietà sembra
ed è un film che parla di denaro: "La
gente oggi è ossessionata dall’idea
che il denaro possa risolvere tutto",
scrive Kim Ki-duk introducendo il
film, e in effetti la sua è una storia in
cui i soldi determinano l’intera rete
di relazioni, in una sorta di virtuale
economia di scambio dove il denaro
sta esattamente allo snodo tra felicità e disperazione, gioia e dolore,
vita e morte. In realtà, come sempre
accade nel cinema del regista, ciò
che è più materiale finisce con l’assumere la funzione simbolica del
suo opposto, divenendo riflesso di
una spiritualità che definisce la natura di personaggi ed azioni.
È un po’ come la pietra legata alle
creature come una zavorra esistenziale in Primavera, estate, autunno,
inverno... e ancora primavera, che
nella sua immediatezza materiale racchiudeva il peso pienamente
spirituale della (buona o cattiva)
coscienza. Il denaro, in Pietà, è esattamente la zavorra che Kang-do,
spietato esattore di un usuraio,
pone sulle spalle della gente del
quartiere, imponendo umiliazioni,
mutilazioni e dolore a poveracci incapaci di restituire un debito. Il denaro dovrebbe liberarli dal bisogno
e invece li schiaccia sotto il peso
delle loro aspirazioni, lasciandoli
schiantati al suolo, offesi nello spirito prima ancora che nel corpo. Naturalmente, essendo questo un film di
Kim Ki-duk, la nemesi si impone al
protagonista come un nemico interno, un fantasma evocato dal vuoto
che coltiva dentro, svaporato dalla sua stessa assenza rispetto a sé
stesso, alla propria storia, alla biografia invisibile che gli appartiene.
Sicché, dal silenzio della coscienza
di questo essere intriso di spietata
materialità non poteva che essere
evocata una nemesi che si incarnasse in una madre, ovvero nella figura
più intima e vicina alla spiritualità
che in natura si possa immaginare.
Il personaggio di Mi-sun è, del resto,
perfettamente speculare a Kangdo: incede impassibile, silenziosa e
determinata come lui, ma invece di
pretendere la restituzione del denaro dato, pretende di offrire l’amore
non dato. La complementarietà delle due figure è il gesto logico sul
quale Kim Ki-duk costruisce la sua
parabola, basata sul ribaltamento
di prospettiva esistenziale che il
regista impone ai suoi personaggi e destinata a concludersi con la
dissoluzione del protagonista nel
suo dolore. Perché poi Pietà è un
film che racconta la sconfitta della
compassione, l’impossibilità di infrangere l’atarassia nella scoperta
di una spiritualità distaccata, che ne
sospinge la parabola in un mondo al
quale non appartengono e dal quale
sono rifiutati.
Pietà, insomma, scambia denaro per
sentimenti, materia per spirito, ribaltando l’economia di un sistema
che pretendeva invece di scambiare
soldi per felicità, benessere materiale per pienezza affettiva: la prospettiva spirituale che Kang-do scopre con l’arrivo della madre diviene
urgenza e bisogno quando la donna
sparisce una seconda volta, mettendolo nella condizione di provare
nella sfera spirituale quell’urgenza
e quel bisogno che le sue vittime
provavano nella sfera materiale.
Ovviamente, però, tale non può essere l’approdo di un personaggio
di Kim Ki-duk, poiché verrebbe a
mancare la tara tra vero e falso: il
vero dramma di Kang-do sta infatti
nell’inganno alla base dell’apparire
di Mi-sun, la finzione di un legame
di sangue nato in realtà dal sangue
sparso da Kang-do. Come sempre,
anche questo personaggio di Kim
Ki-duk è destinato a ritrovarsi solo
col proprio dolore, disfatto nella impossibile catarsi di un destino che si
compie lasciandolo esattamente al
punto di partenza, nella solitudine
silenziosa e impassibile del suo essere estraneo al Bene e al Male del
mondo.
La deposizione finale di Mi-sun
messa in scena da Kang-do (che
tra l’altro ribalta perfettamente
l’iconografia michelangiolesca ricostruita per l’immagine di lancio
occidentale del film e completa
quella della crocifissione evocata
dal poster coreano) è l’ennesima
ricostruzione in forma di natura
morta di uno scenario nel quale
il protagonista, infine astratto nel
proprio dolore, ricostruisce in vitro la completezza di quello scenario spirituale, affettivo ed esistenziale, che la vita gli ha prima
negato e poi lasciato crudelmente
assaporare per un attimo fugace e
menzognero.
Massimo Causo
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il giro del mondo
in 60 film
LE PRÉNOM
saison culturelle
Réalisation, scénario : Matthieu Delaporte
et Alexandre de la Patellière, d’après
leur pièce. Photographie : David Ungaro.
Montage : Célia Lafite-Dupont. Musique:
Jérôme Rebotier. Décors : Marie Cheminal. Costumes : Anne Schotte. Interprètes :
Patrick Bruel, Valérie Benguigui, Charles
Berling, Guillaume de Tonquédec, Judith
El Zein, Françoise Fabian. Production : Dimitri Rassam, Jérôme Seydoux, Chapter
2, Pathé, TF1 Films Production, M6 Films,
Fargo Films, Nexus Factory. Distribution :
Pathé Distribution. Pays : France, 2012.
Durée : 109 minutes.
Joli succès populaire du cinéma français, Le Prénom s’affiche d’emblée
comme un objet bricolé et suspect.
Soupçonné de n’être que l’avatar
cinématographique et opportuniste d’un grand succès du théâtre
parisien naguère mis en scène par
Bernard Murat, le film de Matthieu
Delaporte et Alexandre de la Patellière, adapté de leur propre pièce,
cherche de fait à réitérer sans complexes le triomphe déjà ancien du
Dîner de cons ou du Père Noël est
une ordure, adaptations triomphales
et quasi-historiques de comédies
françaises cultissimes. Sans surprise,
tous les ingrédients de la recette à
l’ancienne sont aujourd’hui réunis à
l’écran : reprise de dialogues percutants, personnages au profil taillé à
la hache, acteurs truculents pour la
plupart déjà présents dans la version
scénique (Patrick Bruel et Valérie
Benguigui), ouverture revendiquée
d’une « fenêtre sur la société », morale douce-amère...
Force est de constater que la version
filmée du Prénom ne parvient pas à
éviter, dans son déroulé boulevardier, quelques-unes des ornières de
ce type d’adaptation. Il en va ainsi
de la séquence inaugurale qui narre,
en voix off, un trajet en extérieur
destiné à nous faire oublier que la
suite ne sera qu’un huis-clos dans
l’appartement qui est sa destination.
De même, la première demi-heure
du film semble se contenter de faire
son miel d’un pitch accrocheur, mais
somme toute un peu étriqué, qui ne
repose que sur un ping-pong verbal :
une famille se déchire autour du pré-
nom d’un futur nouveau-né dont le
père, hâbleur, incisif et joueur, soutient mordicus le choix surprenant.
De ce début convenu, qui voit naître,
comme de bien entendu, la dispute
et la discorde familiales, n’émergent
que peu de propositions cinématographiques.
Le film, défense et illustration des
vertus ancestrales du champ-contrechamp, se contente de capitaliser
sur la force et l’acidité de répliques
souvent très drôles sans apporter de
plus-value à la pièce originelle. Pire,
même, l’adaptation paraît réduire
chacun des personnages, dans
un premier temps, à la caricature
consensuelle du milieu dont il est
issu. Un coup à droite : le cynique
charmeur libéral n’est qu’un grand
gamin immature et provocateur.
Un coup à gauche : le professeuressayiste humaniste n’est qu’un
bobo inattentif aux autres. Objectivité en trompe-l’œil : en dépit des
traits d’humour, toujours vachards
et parfois jubilatoires, il est alors
difficile de cautionner l’idéologie
conservatrice qui sous-tend cette
pseudo-neutralité en mettant très
commodément sur le même plan
l’idéalisme lâche de l’intellectuel
bien-pensant et le « bling bling »
cynique de l’agent immobilier sarkozyste.
La suite s’éloigne heureusement de
cet œcuménisme populiste et renonce opportunément à ses prétentions sociales pour s’intéresser davantage à la famille. Si ce glissement
figurait déjà dans la pièce, le film accorde une véritable ampleur à cette
réorientation, sans doute parce qu’il
se donne les moyens de mettre en
valeur deux personnages féminins
impeccablement interprétés par
deux actrices remarquables. C’est
ainsi que Babou, la maîtresse de
maison jouée avec brio par Valérie
Benguigui, étrangère au déclenchement de la querelle, devient peu à
peu le centre névralgique du film.
Derrière le personnage de comédie – auquel un diminutif tient lieu
de prénom ! – apparaissent dès lors
des doutes et des frustrations qui
nous éloignent du prétexte sociologisant pour scruter, avec davantage
d’authenticité, les angles morts des
relations hommes-femmes.
Le film devient alors l’histoire
d’une rébellion. L’autre grand rôle
féminin du film, bien que beaucoup
plus discret, est superbement interprété par Françoise Fabian. Mère
à l’écran de Babou et du Vincent,
incarné par Bruel, le personnage
lui-aussi prénommé Françoise souligne la nécessaire émancipation
d’une femme... dont l’existence
repose désormais sur la possibilité
d’échapper à l’étroitesse d’esprit
de ses propres enfants. C’est ce
vrai sujet, jadis traité dans la splendeur des mélos de Sirk, que frôle
alors le scénario. Que le passage au
film ait finalement permis au personnage de quitter le hors-champ
théâtral pour faire quelques brèves
et lumineuses apparitions est sans
doute l’une des qualités majeures
du Prénom.
Thierry Méranger
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
IL PRIMO UOMO
Le premier homme
Regia, sceneggiatura: Gianni Amelio. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Albert
Camus. Fotografia: Yves Cape. Montaggio: Carlo Simeoni. Scenografia: Arnaud
de Moléron. Costumi: Patricia Colin. Musica: Franco Piersanti. Interpreti: Jacques
Gamblin, Maya Sansa, Catherine Sola,
Denis Podalydès, Ulla Baugué, Nino Jouglet, Abdelkarim Benhabouccha, JeanFrançois Stévenin. Produzione: Cattleya,
Maison De Cinema, Soudaine Compagnie, France 3 Cinéma, Rai Cinema, Laith
Media, Canal +, Ciné +, France Télévisions, Ministère Algérien De La Culture.
Distribuzione: 01 Distribution. Paese: Italia/Francia/Algeria. Anno: 2011. Durata:
98 minuti.
Con Il primo uomo ci si ritrova nel
miglior cinema di Gianni Amelio. Con
naturalezza, senza forzature. Quel
cinema che fa degli spostamenti,
delle lontananze, del viaggio fisico
necessario per descrivere tensioni
interiori, un segno di riconoscimento immediato. Si tratta, anche in
quest’opera, di avviare e sostenere
una riflessione sull’essere umano,
sulle scelte da compiere, sul ruolo
degli individui nella società in relazione a significativi contesti storici
e politici. Punti di partenza che sono
serviti ad Amelio per disegnare le
tappe di una filmografia in territori,
geografici e dell’anima, ai margini:
nelle periferie dell’Italia (Il ladro di
bambini, Così ridevano), in un Sud
espanso (Lamerica) o ancora in «altrovi» verso i quali sconfinare per
riavviare identità instabili (La stella
che non c’è, Le chiavi di casa). E che
sono ben presenti nel Primo uomo,
personale avvicinamento, compiuto con sensibilità e ispirazione, alle
pagine dell’omonimo romanzo di
Albert Camus, la cui stesura fu interrotta dalla scomparsa dello scrittore
in un incidente automobilistico nel
1960.
La Francia, l’Algeria dei pieds-noirs,
la complessa questione algerina
dagli anni Dieci agli anni Cinquanta
del Novecento, il ruolo degli intellettuali, la memoria e il presente di
una persona: tutto questo costituisce
il corpo vivo del libro di Camus. E di
conseguenza del film di Amelio, che
ha trasferito in immagini, con esemplare espressione narrativa e formale, momenti della vita dello scrittore,
soffermandosi in particolare sugli
anni dell’infanzia e della formazione
scolastica, e specchiandovi in essa
la propria. Amelio ha infatti dichiarato di avere "ritrovato nell’infanzia
di Camus ad Algeri le tracce della
Calabria del secondo dopoguerra".
Autobiografia, dunque, ma non un
saggio, non un documento, bensì un film, e in precedenza un testo
letterario, radicato nella finzione,
nei nomi di fantasia; perché, come
afferma l’anziano maestro al protagonista, un tempo suo allievo, "è nei
romanzi che si trova la verità".
Il primo uomo è un film che si sposta con leggerezza nel tempo, fra il
1957 e gli anni attorno alla Grande
Guerra, fra il 1924 e il 1913. Ma le
date, per Jacques, hanno un’importanza relativa. È un uomo adulto, uno
scrittore famoso e contestato per
le sue scelte che rientra in Algeria
dopo una lunga assenza: deve partecipare a un incontro all’università
e trova una capitale militarizzata
e studenti divisi sulle posizioni da
sostenere riguardo alla relazione
con la Francia. Ma ritrova anche le
persone che hanno segnato la sua
vita, dalla madre all’ex compagno
di scuola algerino con il quale aveva instaurato un rapporto di "impossibile amicizia". Amelio descrive la storia di Jacques, il suo essere
"per sempre" metà francese e metà
algerino, non solo con una efficace
ricostruzione dei periodi storici, ma
con uno sguardo al tempo stesso
meravigliato e meraviglioso, capace di insinuarsi in quegli ambienti
per osservare vite sospese di fron-
te a mutazioni epocali.
Il primo uomo è un film sulla scrittura, sull’ostinazione a imparare e
apprendere nonostante le avversità sociali; sul disagio di non saper
leggere e scrivere, solo in parte superato in età anziana dalla madre
di Jacques, che scrive con grafia incerta il nome del figlio copiandolo
da un giornale. Ed è anche un film
sulla ricerca del padre, un’indagine
intima compiuta attraverso il cinema e le fotografie di guerra che il
maestro mostra agli alunni.
Costruito come un piano sequenza della memoria, Il primo uomo
adegua il proprio stile alle situazioni narrative. È esplorativo mentre accompagna Jacques nelle sue
scoperte, da bambino in un’alba
deserta o in una festa nei campi e
da adulto nei vicoli della kasbah
osservato da occhi arabi ostili; al
tempo stesso sa farsi anche crudo
nell’introdursi con camera a mano
nel buio delle celle dei prigionieri politici. E sa infine virare quasi
nell’astratto quando filma coppie
che ballano in un caffè, immobilizzate nell’inquadratura e sotto lo
sguardo di Jacques, o quando ritrae
il tempo e lo spazio sospesi, prima di un’improvvisa esplosione. Il
primo uomo è abitato da continue
separazioni e incontri, ricongiungimenti temporanei e distacchi
silenziosi, e ha al centro un personaggio al tempo stesso presente e
fantasma.
Giuseppe Gariazzo
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il giro del mondo
in 60 film
PROMISED LAND
saison culturelle
Regia: Gus Van Sant. Soggetto: Dave Eggers. Sceneggiatura: Matt Damon, John
Krasinski. Fotografia: Linus Sandgren.
Montaggio: Billy Rich. Musica: Danny
Elfman. Scenografia: Daniel B. Clancy.
Costumi: Juliet Polcsa. Interpreti: Matt
Damon, John Krasinski, Frances McDormand, Rosemarie DeWitt, Lucas Black,
Titus Welliver, Hal Holbrook, Ken Strunk,
Tim Guinee, Scoot McNairy, Terry Kinney.
Produzione: Focus Features. Distribuzione: BIM Distribuzione. Pase: Usa. Anno:
2012. Durata: 106 minuti.
Un film sull’esplorazione dell’identità. Ovvero, il nuovo capitolo di una
filmografia, quella di Gus Van Sant,
da sempre inscritta in questa ricerca. In Promised Land tale dinamica è
affrontata nel segno dell’essenzialità
narrativa e visiva, di una composizione formale meno innovativa rispetto
a opere precedenti (come Belli e dannati, 1991, e Elephant, 2003), traendo da essa sostanza, lentamente e
con precisione, scena dopo scena.
Ambientato in un luogo dell’America
profonda, Promised Land, con il suo
procedere «sotto tono», con il suo
ritmo piano e tuttavia incalzante,
aderisce al lento scorrere del tempo che plasma la quotidianità di una
cittadina rurale della Pennsylvania,
la natura sconfinata e i corpi che la
abitano. Sono luoghi non inusuali
nel cinema di Van Sant, evocano le
immense distese fra terra e cielo di
Belli e dannati e gli spazi desertici di
Gerry (2002), il lavoro più radicale e
invisibile del cineasta. Un altro elemento significativo lega Gerry e Promised Land: entrambi i film sono interpretati da Matt Damon, già attore
per Van Sant in Will Hunting - Genio
ribelle (1998). Una collaborazione che in questo caso si fa ancora
più stretta in quanto inizialmente
questo lavoro – sulle conseguenze
delle devastanti politiche di manipolazione dell’ambiente e delle
persone adottate dalle multinazionali petrolifere – avrebbe dovuto
dirigerlo lo stesso Damon. Poi, l’entrata in scena di Van Sant che parte
da quel forte argomento d’attualità, mantenendolo sempre in primo
piano, per costruire un’opera dove
le immagini e i comportamenti dei
personaggi possiedono il respiro di
un cinema d’altri tempi, evidenziato sia dalla struttura diegetica sia
da una fotografia (dello svedese
Linus Sandgren) nel segno dei toni
tenui talvolta accentuati da cromatismi più accesi. Una «sottrazione»
di colori che si coniuga con lo stile rarefatto adottato dall’autore di
Milk (2009) e abbandonato solo raramente nel corso del film (si pensi alle pause che contrappuntano
la narrazione principale, costituiti
dalle immagini velocizzate di una
folla o di nuvole in transito – ulteriore tratto d’identità del cinema
del regista americano).
Dopo avere affrontato con esemplare rigore in L’amore che resta
(2011) la tormentata relazione fra
due adolescenti toccati con esperienze diverse dalla solitudine e
dalla morte e in profondo contatto
con la natura, Van Sant percorre un
altro luogo lontano dalle metropoli accompagnando il protagonista
Steve Butler, esperto agente di vendita di una potente società specializzata nell’estrazione di gas naturale, nel suo «ritorno a casa». Infatti Butler, prima di trasferirsi in città
negli uffici della multinazionale, è
cresciuto in una campagna simile a
quella nella quale si reca per lavoro
con il compito di convincere la popolazione a vendere a poco prezzo
le terre. Così, il viaggio, intrapreso
con la collega Sue Thomason e che
si sarebbe dovuto concludere in
pochi giorni, fa esplodere in Steve,
complici gli imprevisti quotidiani
generati dall’ostilità degli abitanti,
un conflitto interiore che lo porterà
a ridisegnare la propria vita ripartendo proprio da quel posto dimenticato.
Sono emblematiche, a tale proposito, due brevi scene speculari collocate all’inizio e alla fine di Promised Land. In entrambe, il volto di
Steve affiora dall’acqua torbida di
due lavandini prima di affrontare
due colloqui rivelatori, rispettivamente con i colleghi di lavoro e con
la comunità alla quale deve riferire
la verità sui fatti accaduti in quel
territorio. E sono emblematiche
altre scene e situazioni che evolvono dal pre-testo per svilupparsi in
senso autonomo. Su tutte, il nascere di un amore, quello fra Steve e
la maestra Alice, che vive nella casa
di famiglia custodita dopo la morte
del padre.
Promised Land è un film che si concentra con uguale intensità sui volti
e sugli sguardi dei personaggi principali e di quelli anonimi mettendoli di volta in volta a fuoco o sfocandoli nel bar del paese, nell’aula
della scuola, in una abitazione. È un
film che assomiglia a un dipinto in
cui coesistono l’insieme e il particolare, dove i dettagli (di un’insegna o della preparazione di una
festa rovinata dal temporale) hanno la stessa importanza delle scene
più elaborate. Dove ogni immagine
è sempre osservata dall’occhio di
un autore attento e sensibile.
Giuseppe Gariazzo
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
QUALCOSA NELL’ARIA
Après mai
Regia, sceneggiatura: Olivier Assayas.
Fotografia: Éric Gautier. Montaggio: Luc
Barnier, Mathilde Van de Moortel. Musica:
Johnny Flynn, Jean-Marc Montera. Scenografia: François-Renaud Labarthe. Costumi: Jürgen Doering. Interpreti: Clément
Métayer, Lola Créton, Félix Armand, Carole Combes, India Menuez, Hugo Conzelmann, Mathias Renou, Léa Rougeron,
Martin Loizillon, André Marcon. Produzione: MK2. Distribuzione: Officine Ubu.
Pase: Francia. Anno: 2012. Durata: 122
minuti.
Una volta tanto possiamo evitare di
prendercela con i titolisti italiani:
Qualcosa nell’aria, che deriva dal
titolo internazionale del film, Something in the Air, non sarà la traduzione letterale dell’originale Après
mai, né si avvicina a esserlo, ma
nella sua vaghezza chiama in causa
uno degli aspetti più interessanti del
film e ne offre persino una possibile
lettura. Chiunque abbia letto A PostMay Adolescence – pubblicato prima
in francese dai Cahiers du Cinéma
e ora disponibile in lingua inglese
per le edizioni del Film Museum –
sa quanto il periodo tra la fine degli
anni ’60 e i primi anni ’70 ("un crocevia tra arte e politica") abbia rivestito un ruolo fondamentale nella formazione di Assayas uomo e cineasta.
L’impatto del Maggio ’68 sul tredicenne Olivier è fortissimo: appassionato di pittura e figlio di un celebre
sceneggiatore, viene precocemente
investito dall’ondata sovversiva, dai
furori della contestazione situazionista, dal contraddittorio miscuglio
di tensioni volte all’abbattimento
di codici preesistenti, a favore di...
«qualcosa di nuovo».
Osservatore attento, il giovane Assayas partecipa agli eventi con sguardo
critico, e gli anni successivi, quelli che
porteranno alla maturità, sono segnati
dalla disillusione e dalla necessità di
arrivare a patti con quanto è accaduto
e con ciò che è rimasto, con lo slancio
delle speranze e il tradimento degli
ideali. Nei suoi film, il regista francese
tornerà spesso su questa scena primaria: a tutt’oggi il suo film migliore resta
L’eau froide (1994), un piccolo capola-
voro che andrebbe visto (o rivisto) alla
luce della nuova opera, perché ne costituisce un precedente chiarificatore.
I temi sono sostanzialmente gli stessi:
il conflitto generazionale, l’alternarsi di spaesamento e partecipazione,
il solco tra aspirazione individuale e
dimensione collettiva, le resistenze
della società, che persistono anche
là dove sono messe in discussione,
l’impossibilità della fuga (in primis
da se stessi). Il cuore pulsante de L’eau froide era una Virginie Ledoyen
agli esordi, uno sguardo magnetico in
grado di catturare e infondere in ogni
inquadratura tremore e grinta, un’anima persa tra i falò della contestazione, una voce senza niente da dire in
un’epoca di proclami. E quando alla
fine Christine si dissolveva come un
fantasma nell’acqua gelida del titolo,
nessuna parola rimaneva sul foglio
bianco. Nel mezzo, il regista tracciava
il ritratto di una generazione decisa a
scrollarsi di dosso il peso di obblighi
e costrizioni sulle note di Dylan, Nico,
Leonard Cohen, Janis Joplin, ma senza
una reale consapevolezza di cosa offrire in cambio, e soprattutto di quale
posto trovare tra le macerie del passato.
In Qualcosa nell’aria affiorano gli
stessi problemi, ma cambia l’ampiezza dello sguardo, che si apre
alla coralità del racconto. Ciò che
nel film precedente veniva lasciato all’immaginazione da un finale
sospeso ed enigmatico, qui è maggiormente esplicitato: le diverse
posizioni sono incarnate dai singoli
personaggi, ciascuno portatore di un
proprio sentire, di esigenze indivi-
duali desiderose di creare un varco
nella Storia e trovare un proprio spazio. Il concetto di lotta, come mezzo
necessario al superamento dello
status quo, viene ancora una volta
ribadito (e ricordiamo che il regista
è fresco dall’esperienza di Carlos,
sul terrorista Ilich Ramirez Sanchez,
le cui gesta prendono il via proprio
nel ’73, anno in cui era ambientato
L’eau froide), mostrandone l’afflato anarchico, senza però rinunciare
alla dolente consapevolezza di chi,
in quanto combattente, deve essere
pronto a lasciarsi tutto alle spalle.
Qualcosa nell’aria è il racconto di
esperienze e fatti vissuti in prima
persona, filtrati da una sensibilità
e una riflessione personale che ancora si interroga sul significato di
azioni e pensieri confluiti disordinatamente in quell’epoca fervida
e bruciante. Perché solo a posteriori è possibile tracciare un bilancio e capire che fine hanno fatto
quelle persone, in cambio di cosa
hanno offerto la propria gioventù,
e tentare di dare un nome a quel
"qualcosa nell’aria" che in tanti
percepivano, nella speranza forse
vana di renderlo solido, tangibile.
Oppure di accettare una volta per
tutte che «qualcosa» si è infine
dissolto, senza lasciare traccia se
non nei ricordi, nelle canzoni, negli
incontri, nei desideri che hanno accomunato una generazione, l’ultima ad aver sognato collettivamente un mondo diverso da quello che
gli era stato lasciato in eredità.
Alessandro Stellino
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il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
QUARTET
Regia: Dustin Hoffman. Soggetto: dall’omonima pièce teatrale di Ronald Harwood. Sceneggiatura: Ronald Harwood.
Fotografia: John de Borman. Montaggio:
Barney Pilling. Musica: Dario Marianelli.
Scenografia: Andrew McAlpine. Interpreti:
Maggie Smith, Tom Courtenay, Billy Connolly, Pauline Collins, Michael Gambon,
Sheridan Smith, Luke Newberry, Trevor
Peacock. Produzione: BBC Films, Finola
Dwyer Productions, Headline Pictures.
Distribuzione: BiM Distribuzione. Paese:
Regno Unito. Anno: 2012. Durata: 98 minuti.
Vedendo Quartet, opera d’esordio
alla regia di Dustin Hoffman, non si
può non pensare a Il bacio di Tosca,
di Daniel Schmid (1984). Un capolavoro con il quale uno dei più originali esponenti della magnifica onda
del cinema svizzero degli anni ’70 e
’80 raccontava le giornate di anziani
musicisti residenti nella casa di riposo Giuseppe Verdi, fondata nel 1896
a Milano dal celebre compositore.
Cantanti lirici che vivevano in un tempo sospeso e che Schmid, con il suo
sguardo dolce, descriveva con sensibilità. La musica e il canto, per quelle
persone, erano e sarebbero rimaste le
fonti meravigliose delle loro esistenze, ancorate a un passato continuamente riproposto nel presente.
Daniel Schmid (scomparso nel 2006)
viene ringraziato nei titoli di coda di
Quartet. Infatti, Il bacio di Tosca è stato riferimento imprescindibile per la
doppia genesi del film: prima, la pièce
teatrale di Ronald Harwood andata in
scena a Londra; poi, il film di Hoffman,
che ha trovato ispirazione proprio nel
documentario di Schmid. Le analogie,
qui in forma di finzione, sono evidenti. Hoffman ambienta Quartet negli
spazi di una dimora per anziani musicisti e cantanti lirici in pensione, Beecham House, ne fa il set, il palcoscenico, quasi esclusivo della narrazione.
E fin dalla prima inquadratura, il corpo di un’anziana ospite della lussuosa
casa di riposo non nasconde l’essenza del suo lavoro, vale a dire una riflessione sulla vecchiaia, sul segno
lasciato dal trascorrere degli anni sui
corpi e nella psiche di donne e uomini
che furono star e che a quel ruolo non
vogliono, non possono, abdicare. In
tal senso Quartet si inserisce in quello
che sta diventando un vero e proprio
«genere» cinematografico con personaggi anziani narrati con una pluralità
di approcci. Dustin Hoffman, all’interno di questa collocazione, sceglie
il punto di vista dell’ottimismo, della
vita che non si chiude, della resistenza nonostante i disagi fisici e mentali
si insinuino nei protagonisti.
Film corale dove anche il personaggio
più marginale ha una sua necessità,
Quartet si concentra in particolare su
quattro figure dal legame tormentato
eppure indelebile, in periodi precedenti delle loro vite come nel presente. Il titolo fa riferimento al tenore
Reginald Paget, al baritono Wilfred
Bond, alla contralto Cecily Robson,
alla solista Jean Horton e, al tempo
stesso, al Quartetto del Rigoletto di
Verdi che interpretarono nei momenti
d’oro delle loro carriere e che, anziani e acciaccati, decidono, non senza
iniziali malcontenti, di rappresentare
ancora in occasione dell’annuale galà
per l’anniversario verdiano ospitato a
Beecham House. Tutto accade in funzione del concerto il cui clou, in maniera inattesa, Hoffman lascia fuori
campo abbandonando i quattro protagonisti sulla soglia della entrata in
scena e consegnando la fine a un’inquadratura, da lontano, della dimora
e del parco circostante, mentre il canto si diffonde. Si tratta di una scena
inscritta, come tutto il resto del film,
nella discrezione, nella morbidezza
del filmare, nella coesistenza di ampi
movimenti della macchina da presa e
di soste sui volti di un gruppo di attori
inglesi d’immensa grandezza.
Hoffman si muove leggero negli interni, nei saloni, nei corridoi, nelle
stanze e nei luoghi attorno alla villa
– il giardino, i gazebo, la chiesa – frequentati da alcuni personaggi sempre
disegnati con umanità fra umorismo e
dramma. Quartet è un film dove quel
che accade sullo sfondo ha la stessa
importanza di quanto viene in primo
piano, dove le finestre e gli specchi
sono utilizzati per moltiplicare i piani della visione, dove i pieni e i vuoti,
le parole e i silenzi contribuiscono a
definire gli strati di memoria appartenenti a ogni individuo, raccontato in
profondità o appena accennato, in un
luogo esso stesso carico di storia.
Inoltre, con altrettanta leggerezza,
e lontano da schematismi, Hoffman
colloca in quel luogo figure apparentemente inconciliabili. Una classe
di studenti i cui riferimenti musicali
sono il rap, l’hip hop e Lady Gaga visita Beecham House per assistere a
una lezione di Reginald. Il vecchio
tenore e i ragazzi scoprono che lirica e hip hop non sono poi mondi
così lontani, se vengono esplorati e
rappresentati con emozione autentica. Si tratta di restituire alla lirica
l’anima che le è stata tolta dai ricchi,
spiega Reginald. Di ritrovare le parole
e i comportamenti per farlo. Nulla di
più naturale, quindi, che gli studenti
assistano, coinvolti, al galà verdiano.
E che Hoffman isoli i loro volti tra la
folla filmandoli con identica, sincera
partecipazione.
Giuseppe Gariazzo
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
RE DELLA TERRA SELVAGGIA
Beasts of the Southern Wild
Regia: Benh Zeitlin. Soggetto: Lucy Alibar.
Sceneggiatura: Lucy Alibar, Benh Zeitlin.
Fotografia: Ben Richardson. Montaggio:
Crockett Doob, Affonso Gonçalves. Musica: Dan Romer, Benh Zeitlin. Scenografia: Alex DiGerlando. Costumi: Stephani
Lewis. Interpreti: Quvenzhané Wallis,
Dwight Henry, Levy Easterly, Lowell
Landes, Pamela Harper, Gina Montana,
Amber Henry, Jonshel Alexander. Produzione: Cinereach, Court 13 Pictures,
Journeyman Pictures. Distribuzione: Satine Film, Bolero Film. Paese: Usa. Anno:
2012. Durata: 93 minuti.
Un altro mondo. È questo il punto di
partenza dell’esordiente Benh Zeitlin, che in epoca di sofisticate fantasmagorie digitali da fantascienza
contemporanea racconta un universo ricco della concretezza materica
degli elementi primordiali: acqua,
terra, vento, fuoco. Un mondo al contempo lontano e vicino, realistico e
fiabesco. L’ambientazione, in linea di
principio, è tutt’altro che esotica, visto che la storia si svolge in Louisiana, dunque in una zona meridionale
degli Stati Uniti. In realtà siamo in
pieno «southern wild», come recita il titolo originale: terre paludose,
semisommerse dall’acqua, battute
da piogge e uragani che ridisegnano costantemente la geografia del
paesaggio, mettendo a serio rischio
le catapecchie e le vite degli abitanti del luogo. Un mondo d’altri tempi,
sordo alla modernità e alla civiltà, almeno per come la concepiamo oggi.
In questa galassia umida e fatiscente
vive una comunità di persone orgogliosamente arroccata alla propria
precarietà, e qui arriva la prima, salutare sorpresa del film, almeno per
chi, nell’Occidente ricco e confortevole dei nostri tempi, è abituato a
guardare l’alterità dall’alto in basso,
ora con intolleranza ora con condiscendenza. Nel «bathtub», la tinozza,
il soprannome che gli abitanti hanno
dato alla loro terra, la vita scorre serena e felice: privazioni e difficoltà
cementano i rapporti, l’inclemenza
della natura alimenta la solidarietà reciproca e conferisce al tempo
un sapore particolare; ogni giornata
da vivere come l’ultima, essendo la
morte una possibilità contemplata
dalle variazioni del meteo. Le paure sono invece metabolizzate come
si conviene a un mondo arcaico, attraverso un repertorio di leggende
su figure mitologiche e animali mostruosi che risalgono alla notte dei
tempi. In sintesi, nel bathtub ci si sta
a meraviglia, ad andarsene da lì non
ci pensa nessuno, prima di tutto il padre della protagonista, una ragazzina
di nome Hushpuppy: pur afflitto da
male incurabile, l’uomo rifiuta ostinatamente le cure ospedaliere che
comporterebbero il trasferimento in
città.
Nelle mani di un regista più convenzionale, il southern wild sarebbe
diventato oggetto di un documentario sociale sulle zone sfortunate e
disgraziate della terra. Zeitlin capovolge invece il punto di vista, raccontando il bathtub come fosse un luogo
incantato, da fiaba, una sorta di Atlantide dei poveri, che lo abitano e
vivono con orgogliosa consapevolezza del proprio privilegio. Nello stesso tempo, l’acutezza dello sguardo
riesce nel miracolo di farci entrare in
questo mondo, che pure non potrebbe esserci – sotto il profilo sociale,
culturale e geografico – più estraneo.
Il film innesca una sorta di tridimensionalità narrativa che ce lo avvicina al punto da renderlo familiare,
addirittura congeniale. Buona parte
dell’effetto è dovuto alla scelta di
utilizzare come figura intermediaria
una ragazzina, attraverso i cui occhi
tutto trova una sua logica misteriosa
e affascinante, in virtù della quale
la miseria e l’arretratezza si trasfor-
mano magicamente negli splendori
e nei paradossi di un regno stravagante e incantato. L’idea era già
alla base di La vita è bella di Benigni (1998), a sua volta incentrato
su un rapporto tra padre e figlio e
sull’affabulazione fiabesca dei momenti più drammatici. In quel caso
era l’adulto a dettare tempi e contenuti del «gioco», qui invece la
prospettiva è quella della ragazzina, voce narrante e nume tutelare
di un mondo strano e ammaliante
soprattutto grazie a un’ostinata determinazione nel vederlo tale.
L’impostazione narrativa genera un
cortocircuito tra parole e immagini che rappresenta un altro tratto
di grande originalità del film. Poiché mentre Hushpuppy racconta il
suo mondo con i toni inteneriti e
accorati di chi sta descrivendo la
propria terra d’origine, la messa in
scena spiega un paesaggio flagellato dalle intemperie e dalla miseria,
sulla soglia della sopravvivenza,
perennemente a rischio d’estinzione. Il cinema non può fare a meno
di registrare la desolazione umana
e geografica che passa davanti ai
suoi occhi; ma la parola ne raccoglie il testimone sul piano dell’immaginario, riscattando questo mondo attraverso un processo di trasfigurazione che dona logica, senso,
addirittura bellezza. Ed è in questo
attrito fra l’occhio della macchina
da presa e quello dell’infanzia che
Re della terra selvaggia trova la sua
identità e la sua ragione d’essere.
Leonardo Gandini
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il giro del mondo
in 60 film
IL ROSSO E IL BLU
saison culturelle
Regia: Giuseppe Piccioni. Soggetto: Giuseppe Piccioni, Marco Lodoli , Francesca
Manieri da Il rosso e il blu. Cuori ed errori
nella scuola italiana di Marco Lodoli. Sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Francesca
Manieri. Fotografia: Roberto Cimatti. Musica: Ratchev & Carratello. Montaggio:
Esmeralda Calabria. Scenografia: Ludovica Ferrario. Costumi: Loredana Buscemi.
Interpreti: Margherita Buy, Riccardo Scamarcio, Roberto Herlitzka, Silvia D’Amico, Davide Giordano, Nina Torresi, Ionut
Paun, Serena Autieri, Gene Gnocchi. Produzione: Bianca Film. Distribuzione: Teodora Film, Spazio Cinema. Paese: Italia.
Anno: 2012. Durata: 98
A partire dalla metà degli anni ’50,
il film ad ambientazione scolastica
si è consolidato come sottogenere, con i suoi tipi fissi, le proprie
progressioni narrative, la sua ispirazione da cinema civile. Accadeva nel Seme della violenza (1955)
di Richard Brooks, in cui il reduce
Glenn Ford arrivava in un istituto
professionale del Bronx infestato
da giovani ribelli, e da lì nascevano decine di variazioni, in particolare rispetto all’ambiente sociale,
passando per Stand and Delivery
(1988), L’attimo fuggente (1989) e
Pensieri pericolosi (1995) e giungendo al geniale ribaltamento di
School of Rock (2003), in cui la cultura giovanile non è più un enigma
da decodificare, ma il contenuto da
trasmettere. Secondo il modello
americano spesso la scuola è osservata dalla prospettiva del docente,
mentre nel modello europeo il racconto funziona più ad altezza bambino, come nei 400 colpi di Truffaut
(1959). Esistono ovviamente delle
eccezioni, che passano dal cinema
indie (Haynes, Van Sant) o da film
come Essere e avere di Nicholas Philibert (2002) e La classe di Laurent
Cantet (2008).
Il rosso e il blu cerca un punto di
equilibrio tra queste varie tendenze, richiamando l’immaginario di
sintesi elaborato da La scuola di
Daniele Luchetti (1995), tratto da
due libri di Domenico Starnone.
Anche nel film di Piccioni c’è un testimone d’eccezione, un affermato
scrittore ed esperto di temi giovanili che fa l’insegnante in un istitu-
to professionale di Roma e che si
chiama Marco Lodoli. Il modello si
percepisce immediatamente dalla
prima caratterizzazione dei personaggi dei docenti, un condensato
di nevrosi in cui spicca l’anziano
professor Fiorito, al cui cognome
basta aggiungere sin troppo facilmente una «s» iniziale per evocare un percorso di sfioritura basato
sullo scarto tra le aspettative e le
applicazioni sul campo. La recitazione teatrale di Roberto Herlizka,
peraltro voce narrante iniziale, dà
alla sua figura un necessario distacco dalla realtà quotidiana che tuttavia, insistendo sulla condizione
di alienazione, rischia di produrre
nello spettatore una sensazione di
straniamento verso il racconto. Ed
è intorno a questo difficile equilibrio tra le tante cose da dire e la
ricerca di una forma armoniosa che
le comprenda, che il film di Piccioni
si prende i rischi più grandi; la sceneggiatura in alcuni passaggi dà la
sensazione di non riuscire a trasformare la scrittura in prosa nella liberazione della vera poesia promossa dal giovane professor Prezioso.
Oggi a scuola mancano anche i soldi per fare le fotocopie; le Lim ci
sarebbero anche, ma nessuno le sa
usare; i professori hanno perso il
prestigio di un tempo anche in virtù
del carattere precario del proprio
status socio-economico, sempre
sull’orlo dell’esaurimento nervoso non sono neppure capaci di togliersi di mezzo e qualche genitore
arrogante li prenderebbe volentieri
a botte. Troppe verità, seppure sa-
crosante, e dunque troppo arduo
il compito di tenerle insieme. Il rischio, forse non abbastanza calcolato, è quello di enunciarle in modo
dimostrativo, senza prendersi il
tempo per lasciare che i temi e le
verità lievitino durante il racconto,
si rendano in tal modo necessarie e
non, più semplicemente, affermate.
È come la differenza tra l’eccessivo
ordine del classicismo e il creativo
disordine del romanticismo di cui
parla Fiorito nella sua lezione più
bella. Va bene la coralità, in un film
sulla scuola è per così dire essenziale, ma con un numero eccessivo
di personaggi c’è la possibilità che
gli insegnanti risultino sin troppo
caratterizzati e che gli studenti non
abbiano lo spazio per affrancarsi
dalla pura subalternità.
Spesso sono i genitori a non permettere ai loro figli di crescere,
come ha meravigliosamente raccontato di recente il Biancaneve
di Tarsem, e il film di Piccioni sottolinea con merito tale assunto.
La scuola è il delicatissimo punto
di raccordo tra due differenti missioni formative che non si trovano
più in equilibrio, tutto pesa dalla
parte dei docenti, e questa spesso è un’altra verità sacrosanta. Per
narrare verità così pesanti bisogna
scegliere una forma adeguata, e a
volte può capitare che funzioni meglio il gag di trenta secondi di due
insegnanti che si contendono una
sola sedia per due classi, che decine di irrisolti languori sentimentali.
Umberto Mosca
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
RUBY SPARKS
Regia: Jonathan Dayton, Valerie Faris.
Soggetto, sceneggiatura: Zoe Kazan. Fotografia: Matthew Libatique. Montaggio:
Pamela Martin. Scenografia: Judy Becker.
Costumi: Nancy Steiner. Musica: Nick Urata. Interpreti: Paul Dano, Zoe Kazan, Antonio Banderas, Annette Bening, Steve
Coogan, Elliott Gould, Chris Messina, Alia
Shawkat, Aasif Mandvi, Toni Trucks, Deborah Ann Woll. Produzione: Bona Fide.
Distribuzione: Fox Searchlight Italia. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata: 104 minuti.
Sulla carta, il soggetto di Ruby Sparks
sembrerebbe una variazione su temi
che il cinema indipendente americano già ben conosce per mano di
Charlie Kaufman: indagini sugli effetti postraumatici della scrittura applicata alla narrazione di personaggi
in bilico tra creazione e vita, desideri
e vissuti, labirinti mentali e stanze
dell’esistere, tutta roba che accade
in film da lui sceneggiati come Se
mi lasci ti cancello (2004) di Gondry
o Il ladro di orchidee (2002) di Jonze e nel suo film d’esordio alla regia
Synecdoche, New York (2008). In realtà, dietro Ruby Sparks c’è una naturalezza davvero poco incline agli intellettualismi pennaioli di Kaufman,
una genuinità che manipola la fragranza dei sentimenti con una accortezza tale da far vibrare i personaggi
più come in un film di Gondry che
come in un lavoro di Jonze. Sarà per
il fatto che Dayton & Faris lavorano
su soggetto e sceneggiatura di Zoe
Kazan, star off Broadway, che del
film è anche interprete e produttrice
esecutiva assieme al compagno Paul
Dano, ma Ruby Sparks riesce a tenere fede a una sensibilità psicologica
nei confronti dei suoi personaggi che
l’impianto tendenzialmente teorico
e tutto sommato teatrale della storia
di certo non garantirebbe.
Il modello cui Zoe Kazan si rifà è,
esplicitamente, quello di Pigmalione
e Galatea, dove al re scultore innamoratosi della statua da lui forgiata
e portata in vita da Afrodite, si sostituisce Calvin Weir-Field, un giovane
scrittore di talento che, nel pieno del
classico blocco creativo, vede mate-
rializzarsi in casa sua Ruby Sparks,
una ragazza di cui s’è innamorato in
sogno e che ha trasformato nella protagonista del suo nuovo, attesissimo
romanzo. Il film non tenta di risolvere
il dissidio sulla natura reale o immaginaria di Ruby, ma la pone accanto
a Calvin col suo statuto di «creatura/
personaggio», come un dato di fatto
soggettivo in connessione con la sfera reale del protagonista.
Adottando uno slittamento tra immaginazione e realtà tipico della
commedia fantastica (si pensi anche solo al coniglio invisibile di James Stewart in Harvey), Dayton &
Faris pongono la presenza di Ruby
accanto a Calvin con un passaggio
di stato che sublima nell’atto della
scrittura/creazione il transito dalla
dimensione psicologica del desiderio/immaginazione alla dimensione
esistenziale del contatto/relazione.
Il paradosso viene affrontato con
semplicità, lasciando che l’eccezionalità dell’evento trapassi dalla sfera
soggettiva del protagonista a quella
oggettiva, puntando sulla capacità di
Dayton & Faris di tenere il film sulla
corda di un malinconico senso iperbolico della realtà già comprovato in
Little Miss Sunshine (2007).
Il film lascia che Calvin affronti il paradosso della sublimazione tra immaginazione e vita puntando sul suo
potere creativo, che evidentemente
è un elemento fondativo della sua
identità di «giovane genio»: il parallelo tra la scarsa capacità di socializzazione, la ritrosia sentimentale, la
sessualità refrattaria e il blocco creativo di Calvin viaggia chiaramente
sul tema metaforico di una totale impotenza che paralizza il personaggio
nella sua solitudine, lasciandolo alle
prese con un disadattamento esistenziale che lo rende fragile nella
sua immagine di grandezza pubblica.
Questa incoerenza tra indole personale e attese sociali si traduce in un
sottotesto sulla solitudine socializzata che, come già avveniva in Little
Miss Sunshine, appone al testo filmico una sorta di perenne nota malinconica a pie’ di pagina, una postilla
umorale che smargina sia dall’ironia
dei personaggi e delle situazioni, sia
dal loro vissuto sentimentale. Del
resto, anche in Ruby Sparks risulta
evidente l’effettiva rimozione di
un reale sfondo sociale, in favore di
una raffigurazione del tessuto connettivo dei personaggi desertificato nel sentimento di isolamento
che il protagonista cerca rispetto a
ogni legame familiare e sociale.
La lunare e quasi adolescenziale
raffigurazione di Calvin offerta dal
sempre più bravo Paul Dano aggiunge un senso di fragilità al film,
una sorta di ritrosia che, nella raffigurazione del personaggio voluta
da Dayton & Faris, gioca forse non
a caso con la memoria della figura
di James Spader in Sesso, bugie &
videotape (1989). Zoe Kazan, dal
canto suo, offre la sua flagrante indeterminatezza al personaggio di
Ruby, tenendola perfettamente in
bilico sul suo doppio statuto reale/
immaginario.
Massimo Causo
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il giro del mondo
in 60 film
SILENT SOULS
saison culturelle
Ovsyanki
Regia: Aleksei Fedorchenko. Soggetto:
dalla novella Ovsjanki di Aist Sergeyev.
Sceneggiatura: Denis Osokin. Fotografia:
Mikhail Krichman. Montaggio: Sergei Ivanov. Musica: Andrei Karasyov. Scenografia: Andrey Ponckratov, Aleksei Potapov.
Costumi: Anna Barthuly, Lidiya Archakova. Interpreti: Igor Sergeev, Yuri Tsurilo, Yuliya Aug, Victor Sukhorukov, Ivan
Tushin. Produzione: Media Mir Foundation. Distribuzione: Microcinema. Paese:
Russia. Anno: 2010. Durata: 80 mimuti.
Dopo la morte della moglie Tanya,
Miron, proprietario di una cartiera,
chiede aiuto all’amico Aist Sergeyev
perché lo accompagni a compiere
quello che secondo le tradizioni
della cultura «merja» è il rituale di
addio con cui congedarsi dai morti. Il loro sarà un lungo viaggio nei
luoghi gelidi dell’inverno e in quelli
congelati dell’animo, solitario, malinconico e inquieto.
Nel primo film completamente di
finzione di Aleksei Fedorchenko,
le figure del paesaggio sembrano
prendere corpo direttamente dalle
parole e affiorare lentamente in superficie dalle profondità dell’acqua.
L’elemento primordiale per eccellenza è, infatti, una sorta di specchio
del tempo, il luogo dove fare ritorno
dopo la vita, ma anche quello dove
poter incontrare il volto delle persone amate e recuperare i misteri
della propria storia personale di
uomini. Aist e Miron, quindi, si mettono in viaggio, dopo che un fiume
di parole ha già travolto immagini
inondate di bianco, come se fossero
presenti e assenti in egual misura,
reali e proiezioni di racconti persi
nel tempo. Come per i riti dei merja
(antica etnia ugro-finnica di una remota regione del centro-ovest della
Russia, scomparsa circa quattrocento anni fa), anche della loro storia si
sono persi i contorni. Restano le reminiscenze nei nomi dei fiumi, che
donano al film il ritmo incessante e
lento, a tratti irregolare e dal sapore antico. "Non saprei dire quando
questa storia ebbe inizio", dice all’inizio il protagonista che vive sulle
rive di un fiume in una città ormai
dimenticata, e già si comprende che
si procederà in equilibrio tra il presente e l’oblio di un passato che si
sgretola velocemente e lascia dietro
di sé solo tracce sbiadite, oggetti irriconoscibili, gesti ripetitivi e pieni
di mistero.
Fin dalla prima immagine, però,
Silent Souls appare come un catalogo di antiche credenze, a partire
dagli uccellini giallo-verdi, gli zigoli cui è dedicato il titolo originale
(Ovsyanki). È su di loro che il film si
apre, con la corsa in bicicletta fino a
casa, chiusi in una gabbia, ma straordinariamente liberi nel loro delicato cinguettio. Aist li porterà con sé
in viaggio, come a voler dar loro il
compito di intonare il canto funebre
fino alle rive del lago in cui il corpo di Tanya (soprannominata non a
caso Ovsyanki) sarà cremato. E poi ci
sono i nomi dei fiumi, le parole che
stanno scomparendo, il senso di un
tempo che sfugge e si stratifica nelle cose.
Da sempre attento alle tradizioni e credenze delle etnie minori,
Fedorchenko sembra porre i suoi
personaggi su due livelli paralleli,
osservatori e narratori di una storia
che sono essi stessi a vivere, ma che
sembra sfuggire loro di mano. Lento
e triste, essenziale e lieve, il regista
si spinge nelle profondità temporali
a partire da un luogo senza tempo,
dai ponti in legno attraversati dal
protagonista, mentre tutto intorno
le molte tonalità di grigio riempiono
lo schermo e sospendono l’azione
tra la realtà e l’immaginazione.
Film sull’amore resistente e impalpabile (i merja non hanno déi,
si dice, solo amore reciproco), ma
anche così concreto da trovare conforto proprio nel racconto della vita
intima coniugale di Miron e Tanya,
rievocata per rafforzare il legame tra
vivi e morti. Da qui la nostalgia che i
protagonisti sembrano rivivere nelle lunghe scene silenziose e nei flashback sull’infanzia di Aist, fotografo e raccoglitore di memorie del suo
popolo, che in questo viaggio verso
la fine, ritroverà il ricordo del padre,
a sua volta morto di tristezza per la
perdita della moglie. Ne racconta,
infatti, la storia, affascinante e intrisa a sua volta di poesia: poeta autodidatta, la cui macchina da scrivere
viene gettata nell’acqua ghiacciata
del fiume, e con essa tutte le sue
parole, accudite e amate in una
vita di studio e d’amore. La ritroverà Aist nel fondo fangoso, nel suo
andare con naturalezza incontro
alla morte. Cronaca di una storia
impossibile, dove si compiono fino
in fondo i sentimenti di tristezza e
tenerezza accennati fin dalle prime
immagini. Nei movimenti spontanei della macchina a mano durante
il «funerale» sulla spiaggia, nella
flagranza di un incontro fugace e
dolce con due donne, nella passeggiata sul ghiaccio, per affidare
al fiume, e quindi all’immortalità, i
ricordi di un uomo che ha trascorso
la vita a sottrarre all’oblio le parole scomparse.
Grazia Paganelli
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
SISTER
L’ e n f a n t d ’ e n h a u t
Regia: Ursula Meier. Sceneggiatura: Antoine Jaccoud, Ursula Meier, Gilles Taurand. Fotografia: Agnès Godard. Montaggio: Nelly Quettier. Musica: John Parish.
Scenografia: Ivan Niclass. Costumi: Anne
Van Brée. Interpreti: Kacey Mottet Klein,
Léa Seydoux, Martin Compston, Gillian
Anderson, Jean-François Stévenin, Yann
Trégouët. Produzione: Vega Film, Archipel 35. Distribuzione: Teodora Film. Paese: Francia/Svizzera. Anno: 2012. Durata:
97 minuti.
Con due film, Home (2008) e Sister
(Orso d’argento speciale al festival
di Berlino 2012), Ursula Meier, regista nata a Besançon e con doppia
cittadinanza francese e svizzera, ha
già creato un personale universo
narrativo e visivo. I personaggi dei
suoi lavori abitano i margini degli
ambienti contemporanei, periferie
fisiche e dell’anima, separate da
altri luoghi confinanti eppure infinitamente distanti. La quotidianità vissuta dalle famiglie anomale
descritte da Ursula Meier non può
prescindere dagli ambienti in cui
i fatti si svolgono, che nello sguardo e nelle parole della regista "non
sono mai una semplice location, ma
posseggono una grande forza narrativa".
Sister, come Home, rende tangibile
tale percorso in ogni scena, quasi in ogni inquadratura. È un’opera
continuamente, nervosamente, tesa
fra due dimensioni spaziali: la stazione sciistica situata in cima alla
montagna, frequentata dai turisti
facoltosi così come dai lavoratori
stagionali, e le case popolari collocate ai piedi del massiccio. Fra loro
c’è il dodicenne Simon (interpretato
da Kacey Mottet Klein, già in Home e
con cui Meier voleva di nuovo lavorare, affascinata dal fisico delicato
e duro, fragile e violento del ragazzo). Simon è un piccolo ladro che
ruba sci, guanti, occhiali ai turisti
per rivenderli ai coetanei proletari
come lui e che vive in uno squallido appartamento con la «sorella»
Louise (Léa Seydoux, attrice ormai
più che emergente). Insieme, Simon
e Louise costituiscono una «coppia
misteriosa» la cui vera identità sarà
rivelata in una scena madre di notevole tensione e violenza verbale e
fisica. Ma Simon gioca anche a immaginare altri scenari familiari con i
personaggi che incontra alla stazione sciistica: al cuoco che per un po’
diventa suo complice dice di essere
orfano, alla ricca signora inglese che
i genitori sono proprietari di un hotel. Inoltre, deve prendersi cura di
quella ragazza/donna con la quale
vive perché Louise è attraversata
dall’instabilità, da una malinconica
ribellione, da una tenerezza schiaffeggiata dagli eventi, non sa tenere
un lavoro e nemmeno gli uomini che
la usano.
Simon è attratto dall’alto (e il titolo originale, L’enfant d’en haut, lo
conferma). Louise, dal basso. C’è un
ossessivo spostarsi di Simon e Louise in queste due dimensioni. Per Simon la funivia che collega la stazione e il quartiere popolare è non solo
il mezzo di trasporto da utilizzare
ogni giorno per il suo ben organizzato lavoro di ladruncolo, ma anche
un luogo di protezione e di rifugio,
spazio sospeso e protetto fra un
mondo che non gli apparterrà mai
e uno dal quale è costantemente in
fuga. Per Louise, le strade accanto al
palazzo grigio dove abita, e le automobili dei suoi amanti, sono spazi
nei quali avventurarsi, possibili vie
di fuga che però riportano sempre
al punto di partenza. Simon e Louise sono corpi inseparabili, hanno
bisogno l’uno dell’altra, si perdono
e cercano.
Emblematica, a tale proposito, è
la scena che chiude il film lasciando aperta ogni soluzione narrativa;
non casualmente è ambientata né a
monte né a valle, ma su due funivie
che incrociano il loro movimento e
su ciascuna delle quali si trova uno
dei due personaggi. È una scena rilevante anche perché, come in quelle simili che l’hanno preceduta, un
elemento concreto al suo interno
assume un valore simbolico: i cavi
sui quali scorrono incessanti le funivie sono infatti la visualizzazione
di quella tensione sempre presente
nel film.
Sister vive così di queste scosse nervose, di momenti che producono
collisioni e tenerezze manifestate
spesso silenziosamente. Si pensi alla
scena con Louise e Simon abbracciati
a letto e filmati come un unico corpo:
un attimo di amore, preceduto dal
rifiuto della ragazza ad accogliere il
«fratello» accanto a lei. Pur trattando
argomenti sociali forti (compresa la
funzione del denaro nelle relazioni
fra i personaggi o la descrizione delle
condizioni di vita dei lavoratori stagionali), Ursula Meier non ha fatto con
Sister un film «sociale» o «di denuncia». Ha posto il suo sguardo essenziale (che non può non far pensare al
cinema dei fratelli Dardenne, «evocati» anche da Denis Freyd, produttore
dei loro film e di Sister) per portare
sullo schermo le complesse dinamiche delle relazioni umane, del loro
manifestarsi, dibattersi, esprimersi.
Senza imporre giudizi.
Giuseppe Gariazzo
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il giro del mondo
in 60 film
IL SOSPETTO
saison culturelle
Jagten
Regia: Thomas Vinterberg. Sceneggiatura: Thomas Vinterberg, Tobias Lindholm.
Fotografia: Charlotte Bruus Christensen.
Musica: Nikolaj Egelund. Montaggio:
Anne Østerud, Janus Billeskov Jansen.
Scenografia: Torben Stig Nielsen. Costumi: Manon Rasmussen. Interpreti: Mads
Mikkelsen, Thomas Bo Larsen, Annika
Wedderkopp, Lass Fogelstrøm, Susse
Wold, Anne Louise Hassing, Lars Ranthe,
Alexandra Rapaport, Ole Dupont. Produzione: Zentropa Entertainments. Distribuzione: BIM. Paese: Danimarca. Anno:
2012. Durata: 106 minuti.
Secondo la nota tesi dell’antropologo francese René Girard nel suo libro
La violenza e il sacro (1972), il sacrificio umano è una delle funzioni alle
quali le popolazioni antiche affidavano il compito di sancire o ricostruire
la propria coesione sociale. Attraverso la scelta di un capro espiatorio sul
quale poi accanirsi in modo violento,
una comunità aveva modo di mettere in scena un sacrificio rituale da
cui usciva rafforzata e purgata delle
sue forme più estreme di aggressività. Pur facendo riferimento a eventi
che affondano nella notte dei tempi,
Girard delinea una traiettoria che,
nelle sue coordinate essenziali, non
è difficile rinvenire in epoche a noi
più vicine. Persino la tragedia dell’Olocausto è stata da più parti letta alla
luce di questa visione, con il popolo
ebreo nella parte della vittima sacrificale. Al giorno d’oggi invece il
politicamente corretto sembrerebbe
avere disinnescato certe tendenze
alla discriminazione immotivata e
generalizzata. Il condizionale è d’obbligo, poiché i fenomeni di emarginazione isterica e di caccia alle streghe possono comunque affiorare alla
superficie di una società che si crede
laica, equa e benevola.
Il film di Vinterberg parla di questo,
mettendo in scena – con una schematicità che può lasciare dubbi sul
piano estetico, nondimeno efficace
all’esposizione della tesi di fondo
– un caso esemplare di discriminazione del singolo da parte di una
comunità. Un gruppo cementato da
rapporti di forte affettività reciproca,
una scuola di paese dove tutti (bam-
bini, insegnanti, genitori) si conoscono fra loro, l’imminenza del Natale a
oliare i meccanismi della generosità
e del buon cuore: è in questo contesto di solidarietà a tutto tondo che
cade, come una meteora, la maldicenza di una bambina riguardo al
comportamento non irreprensibile di
un insegnante. A quel punto la paura
di non essere corretti, di non esserlo
pedagogicamente e politicamente,
genera dinamiche che non sono poi
così lontane da quelle descritte da
Girard. Semplicemente, nella nostra
epoca, la punizione non contempla la presenza di falò e fiamme, e
prende semmai la direzione opposta: il castigo assume la forma
dell’esclusione, dell’emarginazione. Il capro espiatorio non sta più al
centro del palcoscenico, circondato
da spettatori attirati dal rito del sacrificio; al contrario viene relegato
ai margini, condannato al silenzio e
all’interdizione sociale. È attraverso
un atto di esclusione che la comunità
rafforza la propria coesione, cementata dall’idea di avere fatto – tutti
insieme – quello che era giusto fare.
Sin dalla sua opera prima, l’acclamato Festen, Vinterberg si è dimostrato
attento ai rituali sociali, interrogandosi sulla loro legittimità e sincerità. Lì si trattava di un matrimonio,
qui della routine quotidiana di una
comunità. La predilezione per la disgregazione di forme di solidarietà
apparentemente inossidabili non va
però letta nell’ottica di una critica
anti-borghese. Non siamo dalle parti
di Buñuel, non vi è traccia di irrisione, né satira. La prospettiva non è
politica, né sociale, semmai antropologica, come bene spiega la presenza nel film di un tema chiaramente
metaforico, quello della caccia, cui fa
riferimento anche il titolo originale.
La caccia come valvola di sfogo di
un atteggiamento aggressivo e primitivo che apparentemente l’uomo
civile ha messo ai margini della propria esistenza. Sotto questo profilo,
Vinterberg espone tutto il risaputo
catalogo della civilizzazione del maschio adulto nel mondo occidentale:
l’elemento determinante pare essere la condizione di genitori, mariti,
uomini a capo di famiglie che vivono
le une accanto alle altre in piena armonia, conoscendosi e aiutandosi a
vicenda. Ma sotto cova qualcosa, che
un fucile e una selvaggina da abbattere non sono sufficienti a soddisfare
e placare.
Possiamo liquidare la storia di Il sospetto semplicemente come sgradevole e
infelice, come peraltro fa il protagonista alla fine, in quello che è il punto più
debole e meno convincente del film.
Ma sarebbe meglio guardare al film
come una parabola esemplare sui guai
e le ipocrisie del politicamente corretto, la strategia attraverso la quale
proviamo a sentirci un po’ più umani e
un po’ meno animali, macchine rigorosamente programmate alla generosità
sistematica e indiscriminata, del tutto
prive di risentimento. Tranne poi farlo
scaturire, il risentimento, in forme di
isteria collettiva che perlopiù si nascondono dietro il dito della preoccupazione per i propri figli.
Leonardo Gandini
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
LA SPOSA PROMESSA - FILL THE VOID
Lemale et ha’chalal
Regia, sceneggiatura: Rama Burshtein.
Fotografia: Asaf Sudri. Montaggio: Sharon Elovic. Musiche: Yitzhak Azulay.
Scenografia: Ori Aminov. Costumi: Chani
Gurewitz. Interpreti: Hadas Yaron, Yiftach
Klein, Irit Sheleg, Chayim Sharir, Razia
Israeli, Hila Feldman, Renana Raz, Yael
Tal. Produzione: Norma Productions. Distribuzione: Lucky Red. Paese: Israele.
Anno: 2012. Durata: 90 minuti.
La sposa promessa ha un’ambientazione contemporanea, ma potrebbe
anche arrivare da Jane Austen: il rapporto tra desiderio e regole sociali
che lo attraversa è infatti uno degli
elementi chiave dei romanzi della
scrittrice inglese. E nel film emerge
nei claustrofobici interni con le luci
deboli e i volti in chiaroscuro, visi
spezzati a metà, anime divise in due,
come quelle che dipingevano Bergman e il suo direttore della fotografia
Sven Nykvyst.
Le stesse anime di Bergman sono
nuovamente cicatrizzate dallo sguardo dell’israeliana Rama Buhrstein, in
un tempo dilatato e contaminato dalla penombra, da pause che sembrano
avvertirsi anche nei dialoghi, da effetti
mélo trattenuti in figure immobili, simboli di un rito che deve proseguire nella sua perenne ciclicità.
A Tel Aviv, Shira sta per sposarsi con
un ragazzo della sua classe sociale.
Le nozze imminenti passano però in
secondo piano quando la sorella Esther muore di parto durante la festività del Purim. Il marito della donna
defunta, Yochai, sa che prima o poi
dovrà risposarsi e pensa di unirsi a
una vedova belga. Ed è a questo punto che la madre di Shira, per evitare
che l’uomo lasci il paese, cerca di
combinare il matrimonio tra la figlia
e Yochai.
La sposa promessa sembra restare
sospeso tra il film familiare e il documentario sull’ortodossia ebraica.
Rama Buhrstein, nata a New York e
laureatasi alla Sam Spiegel Film and
Television School di Gerusalemme,
ha spesso utilizzato il cinema per
mostrare la comunità ortodossa e la
condizione delle sue donne. Per questo il suo film può essere considerato
lo strumento di una testimonianza,
uno sguardo su un mondo privato
che a prima vista non potrebbe essere mostrato a tutti. Ma in questo suo
primo lungometraggio di finzione la
cineasta condensa la materia narrativa accumulata per anni e la contamina con una visione personale segnata dal dolore. La sposa promessa
è chiuso nei suoi interni, confinato
tra porte che si aprono e chiudono,
tra zone di penombra e finestre dove
il fuori diventa l’estensione del dentro: ne sono un esempio l’immagine
di Shira che segue da dietro il padre
e Yochai, o l’inizio ambientato nel
supermercato, movimento frenetico
che rallenta fino a un ritmo uniforme.
Rama Buhrstein sa di avere fra le
mani un materiale incandescente
che prima o poi potrebbe esplodere. E ciò avviene nell’abisso emotivo
descritto dal finale, e in particolare
dall’immagine di Shira schiacciata
contro la parete. Quell’immagine è
il segno di un film non finito, intenzionalmente interrotto per mettere
in luce, fuoricampo, le strade di un
destino individuale rispetto a quello
di un gruppo. Un gruppo da cui Shira e
lo stesso Yochai, non sembrano distaccarsi anche nei momenti di intimità,
ma che anzi finiscono per confermare
con le loro parole e le loro azioni. Solo
nella parte finale la giovane ragazza
sarà lasciata da sola e finalmente (per
un attimo) libera: immersa in un biancore che stride rispetto alle ombre del
resto del film, Shira è ripresa in campo
medio e a una distanza di sicurezza,
laddove prima veniva inseguita, quasi
schiacciata, da primi piani che proiettavano sul suo volto ombre simboliche.
Ma in La sposa promessa dalla fine si
ritorna all’inizio, con un nuovo passaggio tra la vita e la morte. Da un funerale a un matrimonio che potrebbe
sembrare anch’esso la cerimonia per
una defunta. Perché dietro l’illusoria
distanza di uno sguardo oggettivo, il
film mette in risalto il contrasto tra il
mondo che rappresenta e il modo in
cui lo filma. La materia, come si è visto,
sembra appartenente a un documentario privato, ma lo sguardo cerca immagini che si sfibrino sullo schermo,
che ambiscano all’inconsistenza fisica
e trasformino le parole in rumori sordi. I fasci di luce sullo sfondo nero, che
provengono da fonti luminose interne
o vicine all’inquadratura, trasformano i
corpi in proiezioni, ne fanno delle icone più che dei personaggi, per quanto incontrollabili e devastate. I suoni
della colonna musicale, invece, come
la fisarmonica nella scena all’asilo,
preannunciano la rottura degli equilibri formali a cui si assiste nel finale:
Shira, vestita da sposa, è catturata in
un momento in cui si abbandona a un
dolce dondolio, il volto segnato dalle
lacrime e una luce di candele alle sue
spalle. Come se di colpo La sposa promessa avesse tolto ogni maschera e
messo a nudo il proprio cinema, senza
più trucco, focalizzando ogni abbraccio mostrato e spezzato.
Simone Emiliani
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il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
SU RE
Regia, montaggio: Giovanni Columbu.
Sceneggiatura: Giovanni Columbu, Michele Columbu. Fotografia: Massimo Foletti, Uliano Lucas, Francisco Della Chiesa. Scenografia: Sandro Asara. Costumi:
Stefania Grilli, Elisabetta Montaldo. Suono: Marco Fiumara, Enrico Medri, Andrea
Sileo, Elvio Melas. Interpreti: Fiorenzo
Mattu, Pietrina Menneas, Tonino Murgia,
Paolo Pillonca, Antonio Forma, Luca Todde, Giovanni Frau, Bruno Petretto. Produzione: Luches Film. Distribuzione: Sacher
Film. Paese: Italia. Anno: 2012. Durata: 87
minuti.
Perché ancora il Vangelo? Qual è la
motivazione cha ha spinto Giovanni
Columbu a raccontare, un’altra volta,
la storia delle storie? La risposta è
scritta nelle immagini del suo magnifico Su Re. L’idea di Columbu stravolge la narrazione lineare della Passione di Cristo per portarla, da una parte,
nel campo della visione soggettiva
(utilizzando come fonte la lettura sinottica di tutti e quattro i Vangeli, cogliendone le differenze nelle sfumature più che nelle contrapposizioni)
e, dall’altra, ricreandola in un contesto irriducibile e preciso come quello
delle montagne sarde. Nell’attingere
ai differenti testi di Marco, Matteo,
Luca e Giovanni, Columbu seziona il
Verbo e lo ricrea, lo interpreta senza
manipolarlo, regalandogli una frammentazione che ridona centralità al
sentire individuale, che getta fasci di
luce sul Cristo sofferente e sull’umanità circostante.
Già nel precedente Arcipelaghi
(2001), Columbu raccontava una storia di vendetta barbaricina facendo
esplodere il racconto, moltiplicando
i punti di vista, scomponendo l’azione per poi ricostruire un segnale
univoco dagli avvenimenti. Qui, alternando le voci e gli sguardi degli
evangelisti, realizza un’operazione
simile mirando piuttosto a ricompattare un’unità narrativa, a evocare ai margini dell’inquadratura una
moltitudine di dettagli, di anime e di
corpi. La frammentazione di Su Re è
un gioco di specchi che, pur tenendo ferma la centralità di Gesù, pone
l’accento sulle umane tensioni che si
sviluppano accanto, che arricchisco-
no la problematicità intima dei personaggi, che sciolgono la teologia
in un liturgico quotidiano. Columbu
si affida a volti e suoni che reificano
la storia di Cristo caratterizzandola
geograficamente, ma non per questo
privandola di universalità.
Su Re non è, ovviamente, un film sulla Sardegna ma è intimamente un
film sardo. A differenza del Vangelo
secondo Matteo di Pasolini (forse
l’unico film con cui concretamente
possono trovarsi similitudini per,
come dice Columbu, "il ricorso ai
non attori e il rilevante proposito di
raccontare le vicende evangeliche
filtrandole attraverso lo spirito e l’identità di un diverso e altro universo popolare"), l’autore non mira alla
creazione di una diversa Gerusalemme – che Pasolini trovò nei sassi di
Matera – ma affonda invece la storia
sacra in un contesto dominato dalla
natura, con le rocce scarnificate e
secche che echeggiano la rielaborazione linguistica del dialetto sardo.
Ma proprio la forte caratterizzazione
geografica e umana tramuta il racconto in un hic et nunc amplificato,
donando universalità attraverso una
sospensione spazio-temporale che
conduce a una perenne contemporaneità. Sulla stessa linea si muove la
ricerca iconografica di Columbu: la
scelta dei volti raddoppia quella dei
luoghi, la rispecchia. Quello di Su Re
è un Gesù non bello – che rispecchia
le parole del profeta Isaia: "Non ha
apparenza né bellezza per attirare
i nostri sguardi, non splendore per
provare in lui diletto. Disprezzato e
reietto dagli uomini, uomo dei dolori
che ben conosce il patire, come uno
davanti al quale ci si copre la faccia,
era disprezzato e non ne avevamo
alcuna stima" – capace di farsi immagine di pura sofferenza, lontano dalla
rassicurante rappresentazione dell’iconografia tradizionale.
Non è un caso che il regista citi quali
fonti d’ispirazione pittori tedeschi e
fiamminghi come Memling, Grunewald, Brueghel il Vecchio, ammirati per
il loro senso del sacro ricco di drammaticità terrena e di intuizioni astratte e metafisiche. Ed è proprio nel
contrasto tra un mondo antropologicamente arcaico e la modernità di
Cristo che si crea la scintilla dell’invenzione. Dallo strazio viscerale di
un Gesù stremato – lo sguardo denso
di un agnello portato al macello –
alla sofferenza interiore di un Giuda
lieve, dilaniato dalla colpa a venire,
strumento di un disegno inconoscibile come nelle Tre versioni di Giuda di Borges; dal potere preistorico
della casta sacerdotale fino al dolore
inconoscibile di Maria, madre senza
tempo che piange il figlio – e con lui
tutti i figli – brutalmente strappato:
tutto in Su Re rimbomba di un’eco di
infinito amplificato dall’uso narrativo di un silenzio che si spande come
una nuvola sul film.
Su Re è un’opera rigorosa e potente, ricca di competenza teologica e
umanissimo spirito popolare, ostica
come il Verbo e come il Verbo fonte
di grande forza, di sincera compassione, di infuocata pietà, di mirabile
senso del sacro.
Federico Pedroni
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
TO ROME WITH LOVE
Regia, sceneggiatura: Woody Allen. Fotografia: Darius Khondji. Montaggio: Alisa Lepselter. Scenografia: Anne Seibel.
Costumi: Sonia Grande. Interpreti: Alec
Baldwin, Ellen Page, Jesse Eisenberg,
Judy Davis, Woody Allen, Roberto Benigni, Antonio Albanese, Alessandro Tiberi,
Alessandra Mastronardi, Penelope Cruz,
Greta Gerwig. Produzione: Medusa Film,
Gravier Productions, Perdido Productions. Distribuzione: Medusa. Paese: Usa/
Italia/Spagna. Anno: 2012. Durata: 112
minuti.
Attenzione al titolo: non c’è Roma
più di quanto non ci sia amore in
questo quarantaduesimo film scritto
e diretto da Woody Allen. O per lo
meno non la Roma e l’amore che ci
aspettiamo. C’è una città non vera,
dove la luce non lascia ombra, e c’è
un amore che si lascia incorniciare,
ma solo per aggiungere distanza tra
il desiderio dei personaggi, frustrato perché governato da dinamiche
oscure, e il desiderio dello spettatore di perdersi nei codici di una
commedia romantica, tradito da un
autore che non vuole dire ciò che ci
si aspetterebbe di sentire.
Nell’opera di Woody Allen, infatti,
To Rome with Love trova il suo posto
non nel filone dei grandi temi attorno ai quali si agglutinano intrecci e
figure sempre più archetipiche, ma
nel genere delle improvvisazioni,
che partono da questi stessi temi e
li riportano alla loro origine: il confronto per assonanza o opposizione
con le voci di altri artisti, siano essi
scrittori, musicisti, pittori o registi.
To Rome with Love non è dunque
espressione di una maniera seconda
o minore dell’Allen commediografo
prestato al cinema, ma di un’autonoma e genuina forma di scrittura: un
registro di appunti di lettura, visione
e ascolto, dato in forma narrativa e
per immagini, articolate per libera
associazione.
Un esempio è dato dalla scena del
battibecco a tre girata sulla gradinata dell’arena dell’Auditorium Parco della Musica. Il soggetto della
stroncatura è la scrittrice Ayn Rand
attraverso il personaggio di Howard
Roark, protagonista del romanzo The
Fountainhead (da cui è stato tratto il
film La fonte meravigliosa, con Gary
Cooper). Rand è stata una fiera sostenitrice dell’individualismo più
sfrenato, conquistando alla propria
causa, diventata anche una filosofia
di vita con il nome di oggettivismo:
niente di più lontano dallo spirito
raffinato di Allen, attento alle minime sfumature dei sentimenti. Niente di più ragionevole, quindi, che
egli senta la voglia di deriderla per
puro piacere intellettuale. Da questo piacere nasce il suo desiderio
tutto intimo, totalmente estraneo a
qualunque costruzione finzionale e
al rapporto con lo spettatore, di associare liberamente un personaggio
(Howard Roark) che di mestiere fa
l’architetto, spingendo a parlarne
due altri personaggi che svolgono la
stessa professione, seduti all’interno
dell’opera di un architetto realmente
esistente.
Un altro esempio, in questo caso
per assonanza elettiva, è quello
della storia degli sposini pordenonesi che si perdono e si ritrovano
nel ventre della grande città. Delle quattro vicende che si alternano
senza intrecciarsi all’interno del
film è senza dubbio quella narrativamente più sconclusionata, soprattutto per quanto riguarda la
continuità temporale (quando nelle
altre storie passano i giorni, in questa sembra di vivere un presente
continuo), ma è anche la più fedele
alla sua ispirazione, che è Lo sceicco bianco di Fellini. Interessante
esempio di come la creatività di
chiunque non sia altro che l’eco di
quella di qualcun altro, la sequenza
mostra come Allen sappia spogliarsi della scrittura, riducendola al suo
modello, riprodotto in risposta a un
impulso tutto intellettuale: il sogno
di uno spettatore che ricorda e nel
ricordo inventa sul filo di una creazione altrui.
Come spettatori, che esperienza ci
propone allora To Rome with Love?
Di certo non quella della leggerezza e del romanticismo, ampiamente
sfruttati in occasione di Midnight
in Paris. Ma nemmeno quella della
partecipazione a un gioco narrativo
ben congegnato, all’opposto di tante altre opere di Allen meno rapidamente scritte e realizzate. La risposta sta nelle parole del personaggio
interpretato da Alec Baldwin, citate
da un sonetto di Shelley: la "malinconia di Ozymandias", potentissimo faraone, "re di tutti i re", la
cui statua gigantesca, costruita per
incutere timore, giace ora ridotta
in frantumi, e "attorno alle rovine
di quel colossale relitto, sconfinate e nude", le sabbie del deserto.
Malinconia della fine di una vita,
di un’opera destinata, se non altro
nei millenni, a non durare, e di un
artista che a settantasei anni cita se
stesso e in particolare Stardust Memories, quando per la prima volta
accennò a questi versi di Shelley e
per la prima volta cominciò a riflettere su come l’arte ci faccia sentire
immortali, almeno fino a quando
non moriamo.
Marco Gianni
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il giro del mondo
in 60 film
TUTTI I NOSTRI DESIDERI
saison culturelle
To u t e s n o s e n v i e s
Regia: Philippe Lioret. Soggetto: Vite che
non sono la mia di Emmanuel Carrère.
Sceneggiatura: Philippe Lioret, Emmanuel Courcol. Fotografia: Gilles Henry.
Musica: Flemming Nordkrog. Montaggio:
Andrea Sedlácková. Scenografia: Yves
Brover-Rabinovici. Costumi: Anne Dunsford-Varenne. Interpreti: Vincent Lindon, Marie Gillain, Amandine Dewasmes,
Yannick Renier, Pascale Arbillot, Isabelle
Renauld, Laure Duthilleul. Produzione:
Fin Août Productions. Distribuzione:
Parthénos. Paese: Francia. Anno: 2011.
Durata: 120 minuti.
"L’ordre est le plaisir de la raison",
scriveva Paul Claudel nell’introduzione a Le soulier de satin. In questa
formula è richiusa una certa idea
della letteratura e della cultura francese, che vede nell’organizzazione
razionale della realtà non solo il vero
senso del bello, ma il senso stesso
dell’esistenza. Un ordine che, nel
cinema francese classico, si declina
come dogma di misura ed equilibrio
tra le diverse parti di un racconto e
nelle articolazioni stesse del linguaggio che lo svolge.
Philippe Lioret aderisce con convinzione a questo dogma, a partire
dalla scelta – che si potrebbe definire ideologica – di affrontare nei
suoi film grandi temi esistenziali,
in alcuni casi con un forte accento
sociale, attraverso il punto di vista
minuto di personaggi di rivendicata
normalità. In altre parole, lo scontro
squisitamente classico tra l’infinito e
il particolare, tra il trascendente e il
concreto.
In Tutti i nostri desideri sono la morte
e l’ingiustizia gli avversari contro i
quali la protagonista Claire combatte, e tutto il film si risolve nell’organizzazione del suo combattimento
sul collaudato arco dei cinque atti.
L’astuzia di Lioret – e la coscienza del
ruolo fondamentale giocato dagli attori nel suo cinema – lo porta a utilizzare Vincent Lindon come motore di
un’accelerazione che alza l’intensità
della narrazione nel passaggio da un
atto all’altro. L’ingresso in scena dalla porta di un bar; l’arrivo inaspettato
a casa di Claire un sabato mattina; la
scoperta da parte sua della malattia
di Claire; il «rapimento» della donna dall’ospedale per accompagnarla
a un match di rugby: ecco i passaggi
attorno ai quali, come in una pièce,
tutti i personaggi, maggiori e minori,
prendono posto.
E se tra i maggiori possiamo contare
i soli Lindon e Marie Gillain, è interessante sottolineare come tra quelli
minori – i classici «chevilles ouvrières» di un racconto – spicchi il valore negativo che Lioret attribuisce
al marito di Claire: l’uomo è infatti
disoccupato, quando persino i personaggi socialmente più disgraziati si
distinguono per la loro professione;
è distratto, quando la concentrazione e l’attenzione ai dettagli animano
il lavoro della moglie; ma soprattutto è inconsapevole di tutto, quando
«sapere tutto» è fin dal principio il
tratto distintivo dei due protagonisti. Per quanto poca sia l’incidenza di
questo personaggio nella narrazione, è importante notare che è grazie
ai suoi disvalori che Lioret riesce a
definire in opposizione i valori del
personaggio di Lindon.
Finché i due uomini che ruotano attorno a Claire sono accomunati dal
«non sapere» (della sua malattia e
della sua lotta con la morte), il loro
rapporto è paritario e non alimenta il
racconto. Ma quando Lindon accede
al «sapere tutto» di Claire, la loro opposizione diventa, con la lotta contro
la morte e l’ingiustizia, il motore della narrazione. Un motore legato alla
necessità di tenere in piedi un film
di lunga durata che rischierebbe di
perdere ritmo e cedere al patetismo
della lotta con la morte o all’eccesso
di «agonismo» civile della lotta contro le società di credito.
Proprio su questi due aspetti Lioret
dirige il suo film su strade potenzialmente pericolose. Da un lato la
diagnosi che Claire riceve all’inizio
richiede necessariamente un’organizzazione in crescendo delle emozioni, in antitesi con i requisiti di misura che Lioret si è imposto. Dall’altro il lato giudiziario della vicenda
espone al rischio di trasformare le
posizioni opposte in caricature. È su
quest’ultimo aspetto che il film ha i
suoi momenti meno riusciti, quando
vediamo un procuratore capo, con la
legion d’onore appuntata sul bavero
della giacca, ricordare freddo a Marie
che "il contratto è il fondamento del
codice civile". O come quando Lindon, con un’espressione troppo seria
per non risultare involontariamente ironica, ci dice che "il credito è il
consumo e il consumo è la base del
sistema".
Per tornare a Claudel, viene in mente un altro passaggio del suo libro:
"Il faut que tout ait l’air provisoire
[…], improvisé dans l’enthousiasme".
Come a voler dire che compito della
misura è anche quello di rappresentare il suo contrario: ovvero ciò che
fa Lioret alla fine, chiedendo alla
sentenza di un tribunale di portare a
termine ciò che Marie ha lasciato in
sospeso e vincendo la lotta contro
l’assoluto, perché, concludeva ancora Claudel, "le désordre est la délice
de l’imagination".
Marco Gianni
saison culturelle
il giro del mondo
in 60 film
TUTTO PARLA DI TE
Regia: Alina Marazzi. Soggetto, sceneggiatura: Alina Marazzi, Dario Zonta, Daniela
Persico. Fotografia: Mario Masini. Musica: Dominik Scherrer, Ronin. Montaggio:
Ilaria Fraioli. Scenografia: Petra Barchi.
Costumi: Bettina Pontiggia. Suono: Vito
Martinelli. Interpreti: Charlotte Rampling,
Elena Radonicich, Valerio Binasco, Maria
Grazia Mandruzzato, Aice Torriani, Marta
Lina Camerio. Produzione: Mir Cinematografica, Ventura Film, Rai Cinema, RSI.
Distribuzione: BIM. Paese: Italia/Svizzera.
Anno: 2012. Durata: 83 minuti.
Tutto parla di te, il quarto lungometraggio di Alina Marazzi, il suo
primo dichiaratamente di finzione,
concentra l’attenzione sulla nascita: di un figlio e delle difficoltà
che possono arrivare. Lo sguardo,
il cuore, la mente sono rivolti alle
madri e alla loro solitudine. Per non
lasciarle sole, per seguire, anche
professionalmente, senza temere di usare la parola «malattia», il
loro cambiamento rapido e definitivo. Perché la maternità è anche
una nuova identità che traligna,
che ostruisce il corso naturale delle cose e che talvolta può defluire
nella tragedia di donne schiacciate
da un altro destino. Talvolta può insorgere la cosiddetta «sindrome
post-partum», coi suoi sintomi di
tristezza, fatica, insonnia, inappetenza, ansia, depressione e irritabilità.
Sono due donne le protagoniste
di Tutto parla di te: la sessantenne
Pauline (Charlotte Rampling), che
assiste e sostiene nei momenti di
ansia e depressione giovani madri in difficoltà, e la giovane Emma
(Elena Radonicich), neomamma
frustrata dalla maternità e confrontata con l’evoluzione a genitrice.
Per la prima, il selciato su cui cammina è il ritorno a una sorta di Golgota individuale svelato sul finale,
un trauma di giovinezza mai del
tutto guarito, segno di un amore e
una paura così grandi da portare
alla morte; per la seconda, invece,
la strada sembra avere come unica
uscita l’incapacità di affrontare le
responsabilità di donna a cui è incolpevolmente chiamata. L’incontro e il progressivo avvicinamento tra le due donne genera il film
stesso, restituisce l’emotività della
maternità, il piacere intellettuale
dello scambio, la tensione psichica
del trauma. Fra di loro si instaura un
gioco di specchi, un rapporto fatto
più di sguardi che di dialoghi, di ricerche di complicità e tentativi di
aiuto di Pauline verso Emma.
Sullo sfondo le strade e le luci di
Torino, quasi un labirinto, luoghi
di un presente che può diventare
memoria, essendo quest’ultima
un elemento sempre presente nel
lavoro della regista milanese, dal
primo Un’ora sola ti vorrei (2002) ai
successivi Per sempre (2005) fino a
Vogliamo anche le rose (2007). In
quest’ottica di recupero di una dimensione collettiva, non solo personale, della maternità e dei suoi
ostacoli, va inteso l’irrinunciabile
elemento documentario, l’inchiesta-intervista sulle mamme assassine per follia e per solitudine, lo
sguardo sui centri di sostegno. La
sottile ambiguità dell’approccio
provoca una frantumazione del
dramma e prova strade inedite per
il cinema italiano.
I frequenti silenzi di Pauline e i movimenti nervosi
di Emma amplificano la sospensione espressiva ed emotiva del film,
il vuoto lasciato tra le immagini in
bianco e nero, le fotografie, le animazioni in stop motion, le prove di
uno spettacolo di danza moderna,
lo scontro tra le voci registrate del
passato e il pianto di un bambino
nel presente.
Tutto parla di te è un film che non ha
paura di filmare e raccontare la paura stessa, i gesti muti e il drammatico carico di non-detto che lasciano
dietro di sé, nello spazio esiguo in
cui una donna prova a diventare
madre. Dietro a tutto, come una cicatrice inguaribile, come il trauma
che segna la vita di Pauline, c’è il
dolore della stessa autrice, la solitudine di figlia abbandonata dalla
madre suicida, già ricordata, richiamata, agognata in Un’ora sola ti
vorrei, e poi rimasta come presenza
incombente nelle altre opere. Alina
Marazzi, insomma, parla sempre di
sé, ma così facendo riflette su cosa
significhi essere donna in Italia, dal
dopoguerra in poi. La stessa commistione di generi, di elementi formali
e toni del discorso, la stessa fragilità del film, così ricco di elementi da
perdere in molti momenti la bussola
del discorso, fa comunque parte del
suo lavoro di cineasta, informa una
visione del mondo che non indietreggia di fronte al progetto inedito
di un film di finzione. Madre nella
vita, Alina Marazzi ricompone febbrilmente un patchwork che è la rappresentazione poetica di una donna/
madre alle prese con la dispersione
di sé. Ma anche, inevitabilmente, la
metafora di una creazione artistica
che nasce come un progetto/figlio,
si rivela a poco a poco e prende vita
con la sua bellissima fragilità.
Andrea Bergese
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il giro del mondo
in 60 film
VENUTO AL MONDO
saison culturelle
Regia: Sergio Castellitto. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini. Sceneggiatura: Sergio Castellitto, Margaret Mazzantini. Fotografia: Gian Filippo
Corticelli. Montaggio: Patrizio Marone.
Musica: Eduardo Cruz. Scenografia: Francesco Frigeri. Costumi: Sonoo Mishra.
Interpreti: Penélope Cruz, Emile Hirsch,
Adnan Haskovic, Saadet Aksoy, Pietro
Castellitto, Luca De Filippo, Vinicio Marchioni, Jane Birkin, Mira Furlan, Sergio
Castellitto. Produzione: Medusa Film, in
collaborazione con Telecinco, Mod Producciones. Distribuzione: Medusa. Paese:
Italia/Spagna/Croazia. Anno: 2012. Durata: 127 minuti.
Dopo una telefonata nella sua casa
di Roma, Gemma decide di ripartire per Sarajevo con il figlio Pietro:
è da qui che prende avvio il quarto
lungometraggio di Sergio Castellitto, secondo adattamento di un
libro scritto dalla moglie Margaret
Mazzantini, a quattro anni da Non
ti muovere. Roma rappresenta per
Gemma un passato di ricordi contrapposti, momenti pieni di felicità
e tristezza, di dolore, amore e morte: e come il romanzo, anche il film
rappresenta le sue due storie attraverso l’uso ripetuto del flashback.
Dalle immagini che mostrano il
presente, con la protagonista invecchiata e terribilmente indurita
dalla vita, si passa agli anni della
sua giovinezza, al periodo passato
a Sarajevo nel 1984, durante i Giochi olimpici invernali, con l’amico
e poeta Gojko, fino agli anni ’90 e
ai terribili anni dell’assedio della
città.
Sullo sfondo dell’ultimo conflitto civile europeo, tra i bombardamenti, i massacri e gli stupri,
scoppiano gli stati d’animo e le
pulsioni irrazionali dei personaggi
che Gemma incontra nei suoi due
viaggi in Bosnia: Castellitto ne restituisce la drammaticità con un
frequente uso di primi e primissimi piani e con una messa in scena
molto teatrale, mentre Penelope
Cruz si immedesima così a fondo
nella complessità e nell’insoddisfazione del suo personaggio da
convogliare l’attenzione quasi
esclusivamente sulla sua perfor-
mance e sulla storia d’amore con il
fotografo Diego.
Il personaggio di Diego (interpretato dall’attore americano Emile
Hirsch), solido nell’assolutezza
del suo amore ma debole di fronte al male del mondo, incarna l’obiettivo e insieme la caratteristica
principale del film: l’assenza di sovrastrutture. L’amore che anch’egli
vive è così impetuoso, appassionante e imperfetto, da mettere
in moto una nuova esistenza per
entrambi, a partire soprattutto da
Gemma, che lascia il primo marito
e intraprende un’avventura con un
ragazzo più giovane, forse ancora
un po’ bambino ma con un’immensa voglia di vivere. È però la visita
a una mostra fotografica in memoria delle vittime dell’assedio a far
affiorare l’inferno, i lati più oscuri
dell’essere umano: alle immagini
degli orrori della Storia si accostano quelle di sofferenza e disperazione di una donna sterile che
si sente responsabile del proprio
difetto fisico e cerca in ogni modo
di dare un «lucchetto di carne»
all’uomo che ama. Il desiderio di
maternità diventa un’ossessione
tale da portare a una scelta discutibile: trovare una donna-surrogato per concepire un bambino.
La creatura tanto cercata, colei
che «viene al mondo», è l’essere
umano privo di colpe, la speranza
per un futuro migliore: non a caso
Castellitto sceglie di darle il volto
del figlio Pietro, nonostante tale
scelta sbilanci il tono della recita-
zione del film. In un mondo carico
di dolore e passione, trambusto e
pianto, Castellitto e la Mazzantini,
anche co-sceneggiatrice del film,
innestano tutti gli elementi di
forza del romanzo di partenza: la
scoperta di un mondo sconosciuto,
l’amore sostenuto da una passione
travolgente, la guerra che devasta le coscienze, il dramma della
sterilità, la maternità, la paternità… L’esito sullo schermo schiude
a un’intensità di toni che rende
fedelmente il sentimentalismo
della pagina scritta, per quanto
nelle mani del Castellitto regista l’incandescente materia narrativa rischi talvolta di scivolare
nella retorica. La musica stessa,
composta da brani di grande potenza espressiva, prova a rendere
fluido l’amalgama tra emozioni e
immagini e a trasportare lo spettatore nelle viscere della Storia.
Un compito arduo e ambizioso,
che se il film talvolta non centra
in pieno, al contrario la sua interprete principale riesce perfettamente a sostenere: cresciuta nei
«tourbillon emotivi» del cinema di Almodovar, Penelope Cruz
dona al film la sua forza di attrice
naturale: soprattutto nel finale
regala allo spettatore la verità
dell’amore che salva e redime e
che trasforma Venuto al mondo in
un melodramma capace di spurgare le ferite e ridonare speranza
per un futuro diverso.
Alexine Dayné
il giro del mondo
in 60 film
saison culturelle
VITA DI PI
Life of Pi
Regia: Ang Lee. Soggetto: dal romanzo
omonimo di Yann Martel. Sceneggiatura: David Magee. Fotografia: Claudio
Miranda. Montaggio: Tim Squyres. Musica: Mychael Danna. Scenografia: David
Gropman. Costumi: Arjun Bhasin. Interpreti: Suraj Sharma, Irrfan Khan, Rafe
Spall, Gérard Depardieu, Tabu, Adil Hussain, Ayush Tandon. Produzione: Rhythm
& Hues, 20th Century Fox. Distribuzione:
20th Century Fox Italia. Paese: Usa. Anno:
2012. Durata: 127 minuti.
Bastano alcune immagini tratte dal
nucleo pulsante e centrale del film,
vale a dire la parte in cui il ragazzo
indiano Pi e la tigre del Bengala Richard Parker sono insieme sulla scialuppa di salvataggio, per ripensare
a Bazin e al suo famoso saggio sul
montaggio proibito, testo spessissimo citato ed evocato come dettame
critico, punto limite della rappresentabilità dell’immagine. Se dovessimo
prendere il saggio di Bazin alla lettera, come norma morale ed estetica,
allora dovremmo negare a Vita di Pi
il suo status di film, proprio perché il
ragazzo e la tigre non sono mai stati
insieme sulla scialuppa, diversamente ad esempio da Chaplin e il leone
nella gabbia de Il circo, che invece
erano lì, nella stessa inquadratura,
filmati e visti dalla macchina da presa. Ma il saggio di Bazin non si riduce a una serie di precetti (l’equivoco
del montaggio proibito inteso come
dogma). Esso indica, più che altro, la
potenza del cinema di diventare atto
necessario, la possibiltà di sperimentare la forza di un’immagine come
impronta-limite del reale. L’impossibile coesistenza di un essere umano
e di una belva all’interno di un’unica inquadratura diventa appunto
un’inquadratura-limite, esempio di
un cinema ai confini della rappresentabilità del reale.
Da questo punto di vista dobbiamo
allora guardare al film da un’altra
prospettiva. Vita di Pi ha infatti vinto
i principali premi «tecnici» all’ultima
cerimonia degli Oscar, dalla fotografia agli effetti speciali alla regia, e
non è certo un caso: la fabbrica sem-
pre più artificiale dei sogni sa riconoscere le sue tendenze più importanti,
e di sicuro Vita di Pi lo è, in quanto
indica una sfida, una strada aperta
che si contrappone radicalmente alla
potenza del cinema baziniano e lo fa
in nome di un’altra potenza, quella di
un’immagine fantastica, realmente
fantastica. Tutto lo sforzo tecnico e
registico del film sta proprio in questo, nel mostrare al tempo stesso la
doppia possibilità, reale e fantastica
del cinema. Le identità stesse dei
personaggi sono dislocate, spostate:
Pi non si chiama così (si chiama «Piscine», alla francese), Richard Parker si chiama in realtà Thirsty (il suo
nome è stato scambiato con l’uomo
che l’ha venduta allo zoo). Entrambi
sono costruzioni fantastiche con la
pretesa di diventare reali. Non siamo
più dalle parti dell’immagine-sogno,
del cinema visionario che crea mondi – come può essere il cinema di
Cameron, ad esempio –, siamo entrati, attraverso le immagini di Lee,
in un mondo che vuole raddoppiare fantasmagoricamente la realtà.
La storia che Pi racconta allo scrittore potrebbe anche essere un’altra,
perché alla fine della sua narrazione
l’uomo offre un’altra possibilità al
suo ascoltatore e narra una vicenda
così terribile e insieme verosimile
da non aver bisogno di immagini. La
seconda storia viene solo raccontata
a parole, perché il cinema, sembra
suggerire il film, non ha più voglia di
raccontare queste storie. Lo scrittore
(e Ang Lee con lui) si terrà la storia
con la tigre.
Tutto quindi lavora in questa dire-
zione, nel mostrare come identici
il mare e il cielo, nel disegnare un
mare che diventa una tavola piatta
e riflettente, nell’illuminare fondali
e profondità marine come se fossero
luoghi magici e al tempo stesso immagini del reale. Il regista taiwanese
(ma cresciuto cinematograficamente
negli Stati Uniti) crea di fatto un’idea
di regia che moltiplica i momenti riflettenti in attimi in cui lo sguardo
si posa su spazi simmetrici (il sopra
e il sotto della barca, il fondo del
mare e l’orizzonte del cielo, il corpo che nuota in piscina e sembra
fluttuare nell’aria), spazi che – ed
è questa la novità che attraversa la
Hollywood più consapevole degli
ultimi anni – hanno l’obiettivo di
costruire un reale al tempo stesso
concreto, riconoscibile e irreale, se
non allucinato. È insomma qui che
risiede la vera rivoluzione del digitale, la possibilità di rendere più
vicina a noi un’altra promessa, di
costruire «letteralmente» un altro
reale presente solo sullo schermo.
Ed è quindi su una tale polarità radicale che si gioca oggi la doppia
partita del cinema, che non è ancora (e forse non è mai stato) post-cinema. Una partita che Hollywood è
pronta a giocare fino in fondo e che
mostra, dall’altra parte, un cinema
del reale (capace cioè di pensare
il reale come spazio mobile e mai
«ricostruibile» fino in fondo) impegnato con altrettanta intensità in
una partita opposta. Lo scenario è
aperto, oggi più che mai.
Daniele Dottorini
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il giro del mondo
in 60 film
ZERO DARK THIRTY
saison culturelle
Regia: Kathryn Bigelow. Sceneggiatura: Mark Boal. Fotografia: Greig Fraser.
Montaggio: Dylan Tichenor, William
Goldenberg. Musica: Alexandre Desplat.
Scenografia: Jeremy Hindle. Costumi: George L. Little. Interpreti: Jessica Chastain,
Jason Clarke, Joel Edgerton, Jennifer
Ehle, Mark Strong, Kayle Chandler, Édgar
Ramírez, Scott Adkins, Chris Pratt, Mark
Duplass, James Gandolfini. Produzione:
Annapurna Pictures. Distribuzione: Universal. Paese: Usa. Anno: 2012. Durata:
157 minuti.
Partiamo dal fondo. Dal finale di un
film che non finisce, e che proprio in
chiusura pone gli interrogativi più
importanti, più gravidi di significati
e (necessità di) prospettive. Portata
a termine la sua missione (l’ossessione di eliminare Bin Laden, a partire
da quell’11 settembre 2001 che apre
il film) l’agente della CIA Maya, interpretata con appassionata partecipazione da Jessica Chastain, si ritrova
sola, sulla pista di un aeroporto dove
l’aspetta un velivolo militare tutto
per lei. "Dev’essere un pezzo grosso", le dice il pilota, "è la mia unica
passeggera".
Ma alla domanda su dove andare,
quale sia la destinazione, la casa alla
quale tornare, l’intrepida e sicurissima Maya non sa dare una risposta
certa. E cede. Cede alle lacrime, alla
fatica, alla solitudine. Cede a tutto
quello che ha dovuto sempre reprimere per non essere considerata
«una donna», cede a tutto quello
che ha dovuto sacrificare sull’altare
dei sogni e degli incubi.
Eppure, è proprio la sua condizione
di genere – che riafferma secondo
traiettorie diverse sia dal femminismo tradizionale sia dalla società
maschile nella quale opera – che le
ha garantito la possibilità di successo. È la sua condizione di genere che
le ha donato la forza e la sicurezza
necessarie per continuare ad agire in
un mondo dove le incertezze, i dubbi e le paure spingevano verso una
paralisi che rischiava di riguardare il
pensiero prima ancora che il corpo.
Perché Maya non antepone l’azione
al pensiero, ma fa scaturire la prima
dal secondo: così facendo, condanna le azioni senza ragionamento responsabili del disastro contemporaneo e al tempo stesso il ragionamento senza applicazione pratica, sterile
riflessione che mal nasconde il terrore di compiere errori. Maya ha il coraggio di rischiare grazie a una determinazione figlia delle sue sicurezze,
e perfino delle sue contraddizioni.
Perché solo accettando la propria natura contraddittoria, che si esplicita
nell’accumulo di modalità e simboli
spesso contrastanti, può calarsi in un
mondo nel quale la caduta di certezze e punti di riferimento rende vane
le tradizionali bussole e le sicurezze
monolitiche e ideologiche.
Il mondo che Kathryn Bigelow racconta in Zero Dark Thirty – con modalità identiche a quella della sua
protagonista – è un mondo confuso
e impaurito, nel quale attaccarsi al
feticcio della soppressione di un
nemico pubblico è un antidoto momentaneo ma necessario a un senso
di smarrimento pervasivo e generalizzato. Quel senso di smarrimento che
deflagra impietoso nel cuore e nella
testa di Maya a missione compiuta, alla
fine del film.
Eppure il cammino indicato dalla Bigelow non è affatto circolare e senza
vie d’uscita. La scelta di un finale non
consolatorio, ma addirittura sconsolato, coerente con l’andamento solenne
e funerario di un film costruito attorno
all’uccisione di un uomo, non è affatto
una dichiarazione di resa. L’ammissione di fragilità e solitudine che Maya
compie nei confronti di se stessa e
dello spettatore è coerente con le
precedenti necessità di mascherarla e
negarla; è la dichiarazione della consapevolezza che, dissolto il feticcio, sarà
ancora più importante abbracciare
la propria complessità per affrontare
quella del mondo. Un mondo dove,
oramai, i simboli sono spariti, o svuotati di senso, dove l’intero universo
simbolico è da ricostruire. Basti pensare all’uso e abuso che nel film viene
fatto dalla bandiera statunitense, del
modo in cui Maya vi si approccia e riflette, e di come, proprio nel finale, tutto questo cambi e perda di senso.
Come possa Maya, e come possiamo
noi tutti, uscire dal vuoto dalla confusione e dall’assenza di riferimenti,
la Bigelow lo indica quindi con il suo
agire filmico: se ne esce accettando e
unendo il doppio binario del pubblico e del privato, per lei che racconta
un thriller d’azione e al tempo stesso
un dramma intimo senza distinguerli;
abbracciando la natura meticcia di
una realtà che spinge verso una riorganizzazione di senso e pensiero
che va ben oltre l’indossare le All
Star sotto il burqua; facendo sì che
la nostra vulnerabilità sia la base di
nuove sicurezze e nuove azioni figlie
di un pensiero rinnovato, meticcio ed
empatico.
Un pensiero che ridefinisca le dinamiche di genere (di ogni genere), nel
cinema e nella vita, che le riorganizzi
e le ricostruisca a partire da specificità e differenze da intendere come
ricchezze e non limitazioni. Un pensiero che parta dalla fine che stiamo
vivendo, verso un nuovo inizio.
Federico Gironi
TRA LA VITA
E LA MORTE
ROTTERDAM
Conversazione con Leonardo Brzezicki,
Rotterdam, 2013
N
el cinema che vive il presente
e che guarda al futuro, l’immagine digitale non può che essere
la sola forma di sguardo possibile.
Un’immagine piatta, trasparente,
dove la luce non si accumula in
colori e ombre fragranti, pastose,
ma si dispone uniforme sulla superficie, creando visioni nette e
iperrealiste. La realtà si trasfigura
in qualcosa che la ribadisce, che la
connota in senso sempre più realista (iperrealista, per l’appunto) e al
tempo stesso la supera e la nega. Il
digitale toglie verità all’immagine
e le regala la piattezza dell’oggetto puro, dischiudendo di fronte al
cinema, in modo diverso rispetto ai maestri che con la pellicola
hanno lavorato su temi esistenziali quali la morte, il divino, la
concretezza dell’invisibile (Bresson, Bergman, Ozu, Mizoguchi,
Dreyer), una dimensione spirituale intangibile. Non è certo una
cosa nuova o propria delle ultime
stagioni (la regista giapponese
Naomi Kawase, tanto per fare un
nome, ricerca una dimensione
trascendentale
dell’immagine
digitale da più di un decennio),
ma è innegabile che grazie alla
diffusione dell’alta definizione il
cinema abbia superato il realismo
della rappresentazione nella direzione di uno sguardo tanto più
preciso e nitido, quanto più accecato dalla sua stessa precisione.
Un cinema che insegue ossessivamente il mito della realtà da
toccare con mano, eppure sempre
più se ne allontana…
La partita si gioca a livello visivo. Un film come Noche, esordio
dell’argentino Leonardo Brzezicki, storia di un gruppo di amici
che si ritrova per ricordare uno
di loro morto suicida e ascoltarne i pensieri registrati in punto di
morte, lavora su elementi immateriali come la memoria, la morte, il rimorso, concentrandosi sul
rapporto fra l’immagine e il suono, creando il racconto a partire
da connessioni puramente sensibili. Nel film le immagini sono
separate dalle parole e dai suoni,
ma il montaggio audiovisivo unisce gli elementi su un piano del
tutto originale, oltre il racconto
e vicino all’andamento disconnesso del pensiero automatico.
Come lastre di vetro impresse,
con la trasparenza tipica del digitale contemporaneo (riscontrabile anche nel cinema mainstream,
ad esempio in un film come Vita
di Pi), le immagini di Noche si so-
vrappongono, lasciando emergere i singoli elementi che le compongono e al tempo stesso fondendoli in nuove forme visive:
tecnicamente il film è composto
da lunghi piani che si concludono in dissolvenze incrociate, ma
a livello visivo l’effetto è quello
di sovrimpressioni fra immagini che durano il tempo di creare
una realtà inattesa e puramente
cinematografica.
Sullo schermo emerge una dimensione unica, irripetibile, che
a livello visivo supera l’opposizione tra vita e morte, tra luce
e buio, e a livello sonoro tesse
dialoghi impossibili tra passato
e presente, tra vivi e morti. Non
ci sono connessioni logiche, non
c’è legame tra gli elementi, ma
solo la sensazione di un’esperienza unica e irripetibile: per i
personaggi, persi fra il giorno e
la notte e incapaci di distinguere la realtà che vivono, e per gli
spettatori, immersi in un’operazione sperimentale inafferrabile
e proprio per questo affascinante,
sospesa, forse, chissà, su uno dei
possibili futuri del cinema d’autore, oltre il realismo e dentro l’immanenza delle cose.
R.M.
66
Da dove nasce l’idea del film? Il
racconto è ancorato all’idea di passato e memoria, bloccato da un
rimpianto difficile da estirpare, eppure al tempo stesso è molto forte
la voglia di ricominciare, di creare
un mondo interiore dove la vita e la
morte possano condividere lo stesso spazio…
L’ispirazione per Noche viene da
alcuni miei ricordi, non eventi specifici, ma reminiscenze di sensazioni provate in momenti diversi
della mia vita. Tempo fa ho vissuto
per un lungo periodo all’estero, e
quando sono tornato a Buenos Aires molte persone vicine alla mia
famiglia erano morte. Di colpo mi
sono così ritrovato a vivere una
strana sensazione: un luogo familiare come la città in cui avevo
sempre vissuto era diventato uno
strano posto, per via dell’assenza
di tutte quelle persone… Giorno
dopo giorno sperimentavo sensazioni soggettive molto forti, fatte
di conversazioni nella mia testa,
richieste rivolte a persone scomparse (per vederle ancora una
volta, per sentire ancora le loro
parole…), sogni che li vedevano
come protagonisti e che potevano
essere sia gentili sia spaventosi.
Mi ricordo ad esempio della mia
nipotina, nata giusto una settimana prima della morte di mio padre:
eventi come questi non potevano
che generare inevitabili domande
sul significato della vita, sulla presenza di una natura che si dispiega
dinnanzi ai nostri occhi incurante
di quanto possiamo tener strette
le cose che amiamo o di quanto possiamo sforzarci di dare un
significato a ciò che ci capita. La
verità è che il mondo va avanti,
spesso in modo incomprensibile, e
sempre in modo irreversibile. Con
tutti questi pensieri nella testa,
volevo fare un film introspettivo,
alla ricerca di elementi sensuali e
fisici più che psicologici; e volevo
una struttura narrativa che favorisse associazioni di natura poetica
piuttosto che una storia compiuta.
Noche doveva essere un viaggio
sensoriale, soggettivo e insieme ambiguo, aperto a molteplici
interpretazioni e senza risposte
chiare da dare…
Ma le domande che pone sono giustamente molte…
Esatto. Ad esempio, cosa rimane
qui, sulla Terra, delle persone che
ci hanno lasciato. O come continuare a vivere la propria vita… Tutte queste domande sulla vita e la
morte, tutte queste incertezze erano le figure guida del film, in cui le
sole risposte da trovare sono quelle soggettive, che inevitabilmente
sono incerte e fragili. Come dici,
però, Noche è anche un film sulla
possibilità di ricostruire ancora
una volta il mondo attorno a noi,
ignorando come andrà a finire e
accettando un carico ancora maggiore di domande senza risposta e
incertezze; un mondo fragile, ma
che va avanti e che, soprattutto,
si percepisce come nuovo. Perché
alla fine di ogni ragionamento o
pensiero, si capisce che la novità,
la voglia di rinascita rappresenta
ciò di cui ognuno di noi ha più bisogno, ciò che ognuno di noi più
desidera: cercare di rappresentare queste sensazioni attraverso il
cinema ha rappresentato per me
la sfida creativa più esaltante. Ne
era anzi il punto centrale: vedere
le cose in modo originale e per me
nuovo, senza sapere cosa sarebbe
venuto fuori e accettando i rischi
e le incertezze di imbarcarsi in un
processo del genere.
Alla base del film c’è l’idea di fondere gli elementi fra loro, la luce con
il colore, la notte con il giorno.
Ma l’opposizione più evidente è
quella tra la vita passata e la vita
presente, e di conseguenza quella
tra la vita in generale e la morte.
Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. Mi interessava
evocare un paesaggio emotivo a
partire da opposizioni come quelle fra passato e presente, vita e
morte. Nel film un gruppo di amici
ritorna a far visita alla casa e ai luoghi che appartenevano a Miguel,
un loro compagno suicidatosi l’anno precedente. In realtà, sono loro,
gli amici ancora in vita, a essere rivisitati da Miguel e dalla sua voce:
perché qualcosa di molto interessante succede quando i vivi si confrontano con la voce e i suoni del
passato, qualcosa di molto simile a
un sogno a occhi aperti, che nessuno sa distinguere da tutto il resto
e a cui nessuno sa porre un freno.
Personalmente, collego questa
particolare sensazione ai momenti
67
in cui si cerca di ricordare qualcosa
che sfugge e si costruisce a ritroso
un evento con la memoria. È una
delle mie ossessioni: spesso mi ritrovo a ricostruire ricordi e a giocare con loro nella mia testa… Credo
infatti che in queste ricostruzioni
ci sia un elemento molto forte di
finzione, elementi narrativi che
aggiungiamo volontariamente ai
ricordi o cose accadute in modo
totalmente diverso da come sono
andate. È come se il presente provasse ad appropriarsi del passato
o, viceversa, il passato provasse
a prendersi gioco del presente…
Non sono molto sicuro di cosa accada in quei momenti, ma nei labirinti della mente c’è il bisogno
umanissimo di aggrapparsi alle
cose o alle persone; per questo c’è
sempre una forma di racconto che
nasce in mezzo ai ricordi…
La cosa più affascinante e sorprendente di Noche è l’aspetto visivo. In
particolare, l’uso della dissolvenza
ha qualcosa di trascendentale: per
esempio nell’ultima scena, in cui la
notte e il giorno, fondendosi, creano uno spazio innaturale. Non a
caso un personaggio pensa di vivere
nella notte e un altro dice di vivere
nel giorno… C’è dunque lo scorrere
naturale del tempo e la percezione
interiore dei singoli personaggi, e
tutte queste emozioni nel film sono
rese come sensazioni profonde, quasi materiali, grazie a una resa visiva
carica di intensità. Puoi raccontarci
come hai lavorato sulle dissolvenze
e soprattutto di come hai sfruttato
la tecnica digitale per ottenere degli
effetti così particolari?
Dopo le riprese ho lavorato a lungo con il montatore, ogni giorno
a casa mia, per ottenere un final
cut soddisfacente. A essere onesti,
abbiamo scoperto durante il montaggio che fondere le immagini fra
loro sarebbe stato il modo migliore
per ottenere il tipo di sensazioni
che cercavo di catturare; non era
una cosa prevista in partenza. Il
montaggio del film si è sviluppato
in un modo molto plastico, come
se il film fosse un dipinto, come
se le immagini fossero dei colori e
noi cercassimo di fonderle talvolta
in modo anche casuale per vedere
l’effetto che si veniva a creare. Abbiamo fatto molti tentativi e spesso
c’erano giorni davvero frustranti in
cui l’idea di non seguire una narrazione strutturata e comprensibile
ci buttava giù; non c’era una logica
narrativa dietro le unioni di colori,
luci e corpi, non c’era una sceneg-
giatura da seguire e dunque nessuna struttura. A volte, poi, le immagini si fondevano bene all’inizio,
ma andando avanti si capiva che
la cosa non funzionava… Si è trattato di momenti molto difficili, ma
al tempo stesso molto stimolanti,
perché spesso la combinazione di
due immagini generava a sua volta
combinazioni ancora più sorprendenti, elementi che nessuno aveva
notato o intuito in precedenza, immagini create da un sistema di libere dissolvenze. Il momento finale
che tu citi è nato proprio in questo
modo, grazie a un’associazione
inattesa di più elementi: quando ha
funzionato, è stato davvero esaltante.
Puoi raccontare come hai lavorato
con la colonna sonora? Così come
le immagini, anche il suono è composto da più elementi: i rumori della
natura, la voce dei vivi e la voce registrata dei morti. In questo modo è
ancora più intensa la sensazione di
base del film, la creazione di una realtà che è sogno e incubo, un mondo
che esiste o forse no…
La maggiore parte del suono che fa
riferimento a Miguel l’ho creato io
stesso. Ho comprato un registratore e per più di un anno l’ho portato
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sempre con me, in modo da cogliere qualsiasi cosa mi stesse attorno
e attirasse la mia attenzione. È una
specie di suono documentario registrato nei luoghi dove sono stato
e insieme con le persone che ho
incontrato. L’aspetto concettuale relativo al sonoro, però, è stato pensato e costruito in una fase
successiva, durante il montaggio
della parte visiva, perché trovavo
veramente difficile procedere nella costruzione del film tenendo
separate le immagini dal suono.
Era fondamentale che le due cose
avanzassero insieme.
In generale, penso che grazie al
suono viviamo emozioni impossibili da articolare altrimenti in
modo razionale, e alla base del film
c’è proprio la voglia di fare qualche esperimento con un elemento
che funziona soprattutto a livello
emotivo. Spezzare con il suono la
linearità del tempo e dello spazio,
lavorare con uno spazio trasformato dal suono stesso in una dimensione indipendente rispetto
all’immagine, ritrarre sensazioni e
stati mentali in modo sottile: ecco
dove nasce Noche. Sono infatti
convinto che nel suono ci sia qualcosa che intrighi la mente in modo
speciale; di solito infatti non giudichiamo ciò che ascoltiamo in modo
altrettanto severo rispetto a ciò
che vediamo, e le informazioni che
processiamo attraverso il suono ci
attraversano soprattutto al livello
subconscio. Nel film, ad esempio,
si ascolta un testo o un suono lontano non sempre riconoscibile, ma
capace di far viaggiare la mente, di
generare, nei personaggi e spero
anche nello spettatore, pensieri
intimi, associazioni poetiche con il
passato… All’improvviso è come se
la mente fosse altrove. Inoltre, oggigiorno registrare suoni rimanda
a qualcosa che si è perso: in genere, infatti, le registrazioni del
passato riguardano l’audiovisivo,
qualcosa che si vede e insieme si
sente, mentre una volta la gente
registrava i propri pensieri e le
proprie memorie su un diario e
quell’intero mondo poteva rinascere solamente grazie al suono,
attraverso la parola. Così il suono
rappresentava di per sé qualcosa
di perduto, memoria da desiderare e recuperare…
Il tuo è un film sulla morte, ma al
tempo stesso fortemente legato a un
sentimento della vita e dell’amore.
Non a caso tutti i personaggi sono
innamorati e hanno a che fare con
il desiderio e il sesso. Sei d’accordo
con questa visione più ottimistica e
solare di Noche?
Sì, assolutamente. C’è una frase
che io stesso leggo da qualche
parte del film, e che dice: "La vita
è per i vivi". Forse è un’affermazione un po’ troppo sintetica, ma
è senza dubbio vera: la vita è per i
vivi, i quali, mentre vivono, devono
vedersela con la morte, l’amore, il
desiderio. Ecco perché era importante, nel film, dopo aver sentito
le ultime parole di Miguel pronunciate prima di uccidersi, tornare
ai personaggi in riva al fiume: per
stare con loro, lì vicino all’acqua, e
senza sapere dove andranno fare
un pezzo di strada insieme, senza
abbandonarli.
a cura di Roberto Manassero
IL SILENZIO
ATTRAVERSO
LA MUSICA
BERLIN
Conversazione con Matthew Porterfield,
Berlino, 2013
I
l rock m a l i n c o n i c o a m e r i cano, indie, lo-fi o folk,
è una sorta di inno dei nostri tempi. Distante dalla
mitologia o dallo sciamanesimo che a Berlino si è
visto in un film come A batalha
de Tabatô di João Viana, dove la
musica è un tramite tra l’uomo e
la divinità, tra la vita e la morte,
il rock americano ha una dimensione secolarizzata e minimale, è
profondamente ancorato al mondo dei vivi, alle loro sofferen ze
capaci di consumarsi nello spazio
di una canzonetta, ed è diventato
ormai un devastante strumento
di autoanalisi. Matthew Porterfield, nel suo terzo film I Used to
Be Darker, intesse una rete sfaldata e fragile di relazioni fra individui sull’orlo del collasso e usa la
musica come unico, per quanto
improbabile e altrettanto fragile
collante. La storia è tradizionale:
una diciottenne nordirlandese ar-
riva negli Stati Uniti, nei sobborghi di Baltimora, per fare visita
alla sorella della madre, a suo marito e alla cugina coetanea. Solo
che la coppia si sta separando e
l’ingombrante ospite straniera,
per quanto accolta con gentilezza, diventa un problema: per loro
e per lei. Tutto sembra già scritto
e già visto, ma Porterfield si prende del tempo, imposta la trama
e poi la sfilaccia, lasciando che i
personaggi emergano, con la loro
storia interiore e il loro dolore.
La musica folk, eseguita da autentici musicisti, per l’occasione
anche interpreti, per fortuna non
è un semplice riverbero dei sentimenti dei personaggi, ma si inserisce nel racconto come parte del
discorso, come personaggio. Ci
sono concerti di autentici gruppi
indie, ci sono prove dal vivo, ci
sono sfoghi solitari in cui un verso anche banale, anche immediato, esprime pensieri taciuti. La di-
sperazione si stempera così nella
dolcezza della musica e il film a
poco a poco acquisisce un passo
dolce, quasi naturalista che rende i personaggi dolorosamente
credibili. Perché Porterfield, aiutato dalla splendida fotografia
nitida di Jeremy Saulnier (il regista di Blue Ruin), non dimentica lo sguardo documentario del
suo film precedente, Putty Hill
(2011), e sta lì a osservare, partecipe e distante, costruendo sì
una finzione con personaggi immaginari, ma lasciando al caso,
all’epifania della realtà il compito di prendersi il film e, dopo
un inizio stentato, fatto di troppi
silenzi e troppe attese, diventare
uno splendido ritratto collettivo
di uomini e donne alla deriva,
desiderosi di ricominciare. Da
una canzone, un suono, una parola detta, non importa come, se
cantando o bisbigliando.
R.M.
70
Dopo Putty Hill, con cui seguivi la vita
quotidiana di una famiglia colpita da un
grave lutto, con I Used to Be Darker il tuo
cinema sembra volgere verso un naturalismo meno documentario e più virato
verso la finzione. Eppure c’è sempre la
sensazione di qualcosa lasciato al caso,
la presenza di uno sguardo che lascia "la
porta del set aperta", come avrebbe detto
Jean Renoir…
I Used to Be Darker è il mio terzo film, e
quello in cui forse ho voluto sperimentare di più. La cosa può sembrare paradossale, perché forse è un film con la struttura tradizionale, ma in realtà si tratta di
una costruzione lenta e ragionata. Il racconto di un divorzio e di un’estranea che
spezza l’equilibrio di una famiglia già pericolante, è in realtà saldamente ancorato a una forma tradizionale di racconto, e
a partire da qui volevo tentare vie formali più avventurose e sorprendenti. I Used
to Be Darker è infatti un dramma pieno
di emozioni, di comportamenti incomprensibili, di liti e riappacificazioni, ma
come il cinema realistico ci ha insegnato
a fare si prende anche tutto il tempo del
mondo per dipingere il quotidiano dei
personaggi. Le canzoni stesse sono sia
momenti autentici, perché i personaggi
sono dei musicisti, sia riflessioni sul loro
stato interiore. L’elemento di base è una
continua interrogazione su una serie di
aspetti formali del cinema, su come si
possa spezzare l’illusione di realtà della finzione attraverso un’ambientazione
naturalista e la scelta di lavorare con attori non professionisti.
Consideri il film più la storia di una ragazzina che si ritrova in un mondo che non le
appartiene e nel quale, sbagliando, cerca
di farsi strada oppure la storia di un divorzio che coinvolge non solo la coppia, ma
tutte le persone che le stanno attorno?
Credo la seconda. Anzi, ne sono certo.
Insieme con la co-sceneggiatrice volevamo raccontare in modo onesto una storia
di divorzio, perché su questo argomento
avevamo un terreno comune. Entrambi
infatti siamo reduci da un divorzio, e se
ripenso alla mia vita ne ho addirittura
vissuti due, se conto oltre al mio anche
quello dei miei genitori nell’estate in
cui tornai a casa dal mio primo anno di
college. Quello che volevamo fare era
rendere nel modo più sincero possibile
le nostre esperienze e soprattutto pro-
vare ad andare oltre. Provare, cioè, a far
emergere quanto una separazione possa essere complessa e nonostante tutto
piena di vita, visto che la fine di un matrimonio è certamente la fine di un mondo, ma anche l’inizio di qualcos’altro. E
questo sia per la coppia coinvolta, sia
per le persone che frequenta.
La musica è una delle protagoniste del
tuo film, quasi un personaggio. Con la
musica i protagonisti si esprimono, tirano fuori quello che hanno dentro, dicono
quello che non sanno esprimere a parole.
Eppure questo rapporto in fondo classico
tra emozione e canzoni rock non è forzato, si intesse perfettamente nel film. L’hai
pensato così fin dall’inizio?
La musica, certo, è decisiva. Quando
con Amy Belk, la mia co-sceneggiatrice,
abbiamo cominciato a lavorare al film
ascoltavamo un sacco Bill Callahan (cantautore statunitense, tra i più noti dell’universo indie e del genere lo-fi, ndr). Mi
ricordavo che durante il mio divorzio
ascoltavo spesso una sua canzone, Sometimes I Wish We Were An Eagle, e l’ho
fatta ascoltare ad Amy. Anche a lei, come
dicevo, è passata attraverso un divorzio,
e per quanto nessuno dei due avesse
voglia rivivere quell’esperienza, sentivamo comunque la necessità di tornarci sopra, di provare a capire cosa resta
dopo che tutto è passato. La musica, se
ci pensi, è fatta proprio di cose che ti
lasci dieto, si porta con sé memorie e sensazioni, le lascia fluttuare nell’aria, e permette
anche di esprimere,
o semplicemente
dire, cose che
altrimenti si
71
tacerebbero. Per Amy, poi, la canzone
in cui tutto si raccoglieva era un’altra,
ancora di Callahan, Jim Cain: diceva
sempre che per noi era una specie di
inno. Alla fine, il titolo del film viene proprio da lì: "I used to be darker,
then I got lighter, then I got dark again
/ Something to be seen was passing
over and over me". L’abbiamo scelto
perché ci piacevano le emozioni contraddittorie che esprime, il carico di
vita che quelle parole contengono, e
ovviamente anche il «mood» della
canzone.
Quindi che significato ha per te, per voi,
il fatto che gli interpreti siano musicisti
nella finzione e anche nella vita?
Direi che fa parte del generale processo di messa in discussione dell’illusione realista e della finzione tradizionale. C’è un dialogo tra la storia, la realtà
e i personaggi tenuto insieme dalla
musica. In un certo senso il protagonista maschile, il marito della coppia
che si separa, è modellato sullo stesso
Callahan: non sulla sua persona, ma su
quello che dimostra di essere nelle sue
canzoni, un uomo con pensieri profondi, oscuri, e una logica tutta sua, non
così facile da intuire. Di conseguenze,
da un personaggio impostato in questo modo non poteva che nascere
una controparte in grado di tenergli testa, capace di condividere
con lui un intero mondo di
pensieri e di attitudini verso la vita, e forse proprio
per questo destinata a
separarsi da lui. Nel
film la moglie è
interpretata
da Kim Taylor, una cantante folk piuttosto nota nell’ambiente, nonché compagna di scuola di Amy. Prima ancora
che pensassimo di chiederle di interpretare il ruolo – e in qualche modo di
non smettere di essere se stessa – Amy
mi ha fatto ascoltare le sue canzoni
per entrare nel «mood» della storia;
e quando l’ho incontrata sapevo già
che di suo nel film non ci sarebbero
state solo le canzoni, ma ben altro, la
sua presenza, la sua bellezza fragile e
intensa. In un certo senso, come dice
sempre Amy, "Kim era Kim fin dall’inizio".
Nel film poi si vede un altro gruppo musicale, quello a cui si unisce la moglie
una volta andata via di casa…
Quelli sono un vero gruppo pure loro:
sono i Palace Brothers di Ned Oldham,
fratello del più celebre Will (cioè Bonnie Prince Billy), che spesso e volentieri fa anche l’attore. Inizialmente avevo
pensato a lui, ma poi ho pensato che
anche Ned potesse far parte del film:
siamo andati fino in Virginia a incontrarlo, e quando abbiamo visto la sua
casa, il cortile, gli alberi, il giardino, lo
studio nel garage, e abbiamo cominciato a parlare e bere birra, abbiamo
capito che lui, Ned, sarebbe stato il
nostro Bill.
Come sempre, dunque, la vita si ripresenta nella finzione. Giunti al tuo terzo film, dopo Hamilton (2006) e Putty
Hill (2011), si può dire che sia una tua
caratteristica precisa. Sei d’accordo?
In generale credo di prediligere un cinema dell’osservazione. Scelgo forme
narrative, come dire… «ascetiche», in
grado di unire documentario con tecniche narrative classiche. In questo
modo provo a cogliere l’essenza di ambienti precisi, dove però privilegiare il
ritratto degli essere umani come individui singoli, e non tanto come parti di
un gruppo sociale. I miei personaggi
sono persone colte nel loro tempo, e
resto lì in attesa che in loro scatti qualcosa… In definitiva potrei dire di essere un regista modernista che lavora nel
solco della tradizione. Mi piace infatti
pensare che nel film ci sono elementi
molto tradizionali, ad esempio le emozioni, i gesti estremi e il ricorso alla
musica tipici di un il melodramma del
XVIII secolo, ma al tempo stesso
anche cose contemporanee, uno
sguardo realistico e intimo sulla realtà. L’effetto è quello di una
«dicotomia dinamica», qualcosa
che emerge poco a poco e smuove le acque, che chiede allo spettatore di pazientare, perché prima
o poi il film avrà il suo ritmo e la
sua forza. Mi rendo conto che ci
vuole del tempo per costruire sensazioni di questo tipo in un film, e
che la cosa valga sia per noi che lo
facciamo, sia per lo spettatore che
lo guarda. Quello che I Used to Be
Darker chiede è una sorta di fiducia emotiva, uno sguardo attento
che sappia osservare e in questo
caso anche ascoltare.
Puoi chiarire meglio cosa intendi
per «dicotomia dinamica»?
In pratica la questione cruciale riguardava il modo con cui rendere
l’unione di elementi armoniosi
con altri contraddittori e discordanti, come unire la musica con
il silenzio, come, soprattutto, risolvere il silenzio attraverso la
musica. I lunghi piani fissi in cui
i personaggi suonano servono
proprio a far emergere ciò che
di taciuto e nascosto c’è in loro.
A livello narrativo l’unione degli
opposti si ottiene costruendo con
cura e lentezza caratteri ed emozioni, a livello stilistico utilizzando
uno sguardo attento, osservatore,
capace di andare oltre il semplice dato realistico. Certo, mi rendo
conto che vedere sullo schermo
persone che parlano poco, o non
parlano quasi mai, possa portare
lo spettatore ad alienarsi rispetto
al film. Al cinema di solito si va per
vedere gente parlare e fare delle
cose: ma a me interessa il naturalismo della vita quotidiana, voglio
che lo spettatore si avvicini a una
forma di narrazione a metà strada tra la finzione e l’osservazione
della vita, in modo da sentirne il
respiro. Spesso i film sono mossi dai conflitti, dallo scontro fra
diverse volontà: tutto questo in
I Used to Be Darker c’è, ma viene
dopo i personaggi, inizia a partire dai loro movimenti e dalle loro
azioni non spiegate…
A proposito dell’ambiente sociale,
trovo molto interessante che i tuoi
lavori abbiano un legame molto
forte con il paesaggio americano
nel quale sono ambientati, la costa
est meno nota e più povera, la zona
di Baltimora. Qual è il tuo legame
con quel luoghi?
In tutti i miei film, e in particolare
negli ultimi due, un valore fondamentale ce l’ha sicuramente
l’ambientazione sociale, non c’è
dubbio. La scelta dei sobborghi
di Baltimora è dovuta al fatto che
io stesso vengo da quelle parti e
li conosco molto bene: con i miei
film ho cercato di esplorare le diversità della classe media americana che abita in quella zona, provando a capire come far emergere
sullo schermo le diverse fasce sociali e razziali che la abitano. Non
è certo un argomento che voglio
trattare direttamente, preferisco
farlo emergere dal contesto, utilizzare l’ambiente sociale come una
presenza che condiziona in parte
l’atteggiamento dei personaggi.
Da questo si intuisce che c'è molto
di personale nei tuoi lavori, anche
qualcosa di autobiografico. È vero?
Sì assolutamente, per quanto mediato dal bisogno di fare cinema e
di raccontare storie e personaggi
che non sia io. Paradossalmente,
73
I Used to Be Darker è forse il mio
film più personale, ma al tempo stesso quello realizzato con il
maggior numero di persone, quello per cui ho sentito il bisogno di
confrontarmi maggiormente. Senza l’aiuto di queste persone forse
non sarei riuscito a farlo: avevo infatti bisogno di uno sguardo esterno al mio per poter andare a fondo
delle mie sensazioni rispetto a un
tema come il divorzio.
Una grossa mano te l’hanno dato
anche gli interpreti, che non sono
professionisti e proprio per questo
riescono perfettamente a fondersi
con l’ambiente naturalistico. Come
hai lavorato con loro?
Abbiamo lavorato tantissimo sulla
recitazione, e devo ammettere che
ogni volta che rivedo il film, come
qui a Berlino, mi stupisco di quanto gli interpreti abbiano dato al
film. Sullo schermo vedo persone
che amo, non personaggi immaginari, e per quanto in questo film
ci sia meno il gioco di rimbalzi fra
la finzione e la vita vera rispetto a
Putty Hill, che era più sul versante del documentario che su quello della finzione, anche in questo
caso le singole performance degli
attori rimandano alle loro vite re-
ali. Ciascuno pesca nella propria
esperienza, nelle proprie debolezze e intuizioni, e trova il modo
di portare sullo schermo la vita
interiore del personaggio.
E come è stato il lavoro con il tuo
direttore della fotografia di fiducia,
quel Jeremy Saulnier che è anche
regista e che ha da poco finito il suo
film Blue Ruin?
Con Jeremy lavoriamo da tempo insieme e di lui mi fido ciecamente. Per I Used to Be Darker ha
scelto una ARRI Alexa a mano, uno
strumento leggero e per questo
in grado di dare un’energia molto
intensa alle singole inquadrature.
Non volevamo una luce sfocata e
slabbrata, tipica del digitale nervoso, ma qualcosa di molto stabile, qualcosa di pittorico, come mi
ha detto un giorno Jeremy, che aumentasse ulteriormente il senso
di intimità delle situazioni.
Da qui si coglie anche l’estrema
attenzione che avete avuto nel scegliere gli spazi: la casa americana
con le sue scale, i suoi scantinati,
i suoi giardini… È come se anche
l’ambiente partecipasse al sentimento comune di malinconica
rassegnazione. Tant’è che in uno
dei momenti più belli del film il
protagonista maschile canta una
canzone per intero con la sua chitarra e poi, una volta finita, spacca
lo strumento contro la colonna di
uno scantinato: è come se volesse
parlare con il cemento…
È vero, povera colonna! Comunque
sì, abbiamo fatto un lavoro attento
agli ambienti, soprattutto quelli interni, in modo che potessero
rappresentare lo stato d’animo dei
personaggi, la loro dimensione
interiore, senza però che questo
togliesse naturalismo alla rappresentazione. Raccontare una storia
sul divorzio, farlo in modo onesto
e delicato, non doveva per forza
significare scegliere spazi ristretti e situazioni chiuse. Quello che
colpisce delle relazioni, infatti, è
la varietà di sensazioni, pensieri,
ricordi, effetti che mette in moto:
un movimento che coinvolge tutte
le persone che stanno attorno alla
coppia e che quindi allarga lo spazio, chiama in causa un mucchio
di altre ragioni e pensieri. Da qui
nasce l’idea di inserire un personaggio estraneo alla coppia, che
è vittima delle azioni che testimonia, ma in un certo senso ne viene
coinvolta e migliorata.
a cura di Roberto Manassero
CANNES
LA
DISTRUZIONE
DELLA CLASSE
MEDIA
Conversazione con Jeremy Saulnier,
Cannes 2013
L
a direzione presa dalla Quinzaine des realisateurs dopo
l’arrivo del nuovo delegato generale Edouard Waintrop è tanto
rischiosa quanto, a volte, sorprendente (o anche solo fortunata).
La sfida, non facile, non sempre
condivisibile, specie se mirata solamente a consentire la distribuzione in sala dei film in selezione,
è quella di equilibrare la proposta
tra il cinema autoriale, il «cinema
da festival», secondo un’accezione non proprio positiva, e il cinema di genere, che dall’altra parte
della barricata sconta pure lui un
mucchio di pregiudizi, spesso vittima di chi si rifugia nel cinema
classico e non accetta in nessun
modo che nuovi autori abbiano
il coraggio di riprendere vecchi
modelli.
Jeremy Saulnier, che è al secondo
lungometraggio e nell’ambiente
indie lavora anche come operatore (in particolare per Matthew
Potterfield, regista di I Used to Be
Darker), prende ad esempio il modello del revenge movie, della storia di vendetta familiare, e ne fa
un racconto di precisione cristallina. Un film diritto, come le strade di Lynch o dei Coen, e capace
per questo di contenere cinema
puro e spettacolare.
La storia è semplice, già vista,
eppure piena di sorprese: c’è un
poveraccio a cui hanno ucciso padre e madre che si sente braccato
dall’autore dell’omicidio, appena
uscito di galera; invece di fuggire,
però, si mette in viaggio e lo va a
cercare per ammazzarlo. E dalla
sua azione assurda si innesca una
trama gialla che scivola verso il
dramma familiare, il mélo pieno
di sangue, gli omicidi incrociati di
una tragedia elisabettiana, e con
l’America delle autostrade che diventa la provincia redneck e ignorante di Un tranquillo weekend da
paura.
Nell’intervista Saulnier cita i Coen
e Mann, Ashby e Kelly Reichardt,
ed è tutto vero: ma ciò che rende
prezioso il suo Blue Ruin è una
consapevolezza stilistica e narrativa che mette il personaggio
principale al centro di tutto, che
non disperde il filo del racconto,
che non punta all’affresco corale,
e imbastisce così una storia tragica e insieme divertente. In una
parola, per l’appunto, spettacolare. Senza per questo togliere nulla
al cinema d’autore a cui Saulnier
giustamente aspira, ma aggiungendo molto alla necessità dello
spettatore (non solo quello festivaliero) di assistere a un cinema
(soprattutto americano) che non
ripieghi su se stesso, che non rifletta con insopportabile cinismo
sui propri meccanismi, che si fidi
della propria storia e si prenda
tutto il tempo che ci vuole – tra
inseguimenti, assedi, ferimenti,
sangue, suspense, sorprese, salti
sulla sedia – per raccontare una
storia come si deve.
R.M.
75
Partiamo dal genere, dal modo in
cui Blue Ruin prende il thriller, il
revenge movie, e senza per nulla
snaturarlo sa anzi dare vita a un
racconto di limpida precisione, a
una discesa agli inferi che non rinuncia all’ironia, ma sta lontano
mille miglia dal cinismo tipico del
cinema postmoderno. Come sei arrivato a una tale consapevolezza?
Dunque… Come prima cosa devo
dire che in origine avevo piani diversi. La prima stesura della sceneggiatura aveva un tono molto
più scanzonato, da commedia, e
prevedeva la presenza di una banda di criminali da strapazzo incaricati di uccidere il cane di qualcuno.
Poi però ho scoperto che un film
simile era già in lavorazione e allora ho deciso di cambiare strada.
Ho deciso che avrei lasciato perdere con la solita commedia indie,
un po’ violenta e un po’ furbetta,
e ho optato per una storia di vendetta da girare con grande pulizia
formale. Il mio unico film precedente, Murder Party (2007), era un
horror volutamente stupido, roba
da gonzi che vanno al cinema a
mezzanotte, e in un certo senso in
quel settore avevo già dato. Quando però ho dovuto convincere un
finanziatore a darmi dei soldi per il
film ho pensato a un altro modello,
oltre a quello del genere puro a cui
ti riferisci tu: ho pensato ai Coen,
a un noir negli spazi dell’America
provinciale come Blood Simple, e
pure a Non è un paese per vecchi.
Ci ho pensato un po’ su e poi gli ho
detto: "È come No Country, con la
differenza che il protagonista è un
idiota totale!".
Visto che hai tirato in ballo la questione dei finanziamenti e il modello del cinema indie, puoi raccontarci come è nato Blue Ruin e come ti
consideri nel panorama indie americano, per quanto vaga e indefinita
questa categoria possa sembrare?
Blue Ruin viene fuori da un periodo non troppo facile per il mio
lavoro. Il mio primo film, Murder
Party, aveva avuto un discreto
successo nel giro dei festival indipendenti ed era stato comprato
per la distribuzione dalla Magnolia Pictures. Era un gran bella cosa,
ma poi l’accoglienza è stata pessima e io sono tornato a girare spot
pubblicitari per mantenermi. Nel
frattempo ho lavorato come direttore della fotografia, in particolare
per Matthew Porterfield e per altre
produzioni, e poi lo scorso anno
ho deciso che era ora di riprovare
a realizzare un film. Dal 2007 in
poi mi erano arrivate un sacco di
sceneggiature e progetti, ma era
tutta robaccia. Il nuovo film lo volevo scrivere io, e di conseguenza
anche finanziarlo, visto che poi
abbiamo usato il fondo pensione
di mia moglie, la mia American
Express e per fortuna anche un
investitore privato, quello a cui ho
parlato dei Coen, che siamo riusciti a convincere. Certo, però, che
quando il film è stato rifiutato al
Sundance non è che fossi contento, ho pensato che sarebbe passato un altro anno prima di poterlo
ripresentare. E invece un giorno,
mentre mi trovavo a Cleveland per
girare uno spot, ho ricevuto l’invito della Quinzaine… Se davvero
esiste un universo indie, questa di
Cannes è l’occasione per far uscire
il mio film da quell’universo…
E in effetti, come dicevamo, Blue
Ruin ha una compostezza formale
così solida da far pensare al cinema classico, non a quello indie. La
combinazione di emozioni e sensazioni diverse, dalla violenza alla
comicità al dramma famigliare, fa
pensare a una sceneggiatura scritta con estrema attenzione…
Blue Ruin è un film molto personale, un progetto indipendente
nel senso letterale del termine.
Non per questo motivo, però, deve
anche essere un film volutamente disconnesso o automatico; al
contrario, penso che debba stare
su da solo, vivere di vita propria e
in questo senso rifarsi a un genere preciso come il revenge movie
aiuta molto la solidità del racconto. Per quanto mi riguarda posso
essere stato influenzato da diverse
emozioni, dal mito della famiglia
americana, dal moralismo, la reli-
gione o la tradizione redneck della
cultura provinciale: ma un film non
può essere una terapia personale,
un film si costruisce con una profonda attenzione per le logiche
del racconto e della narrazione,
e solo in quel modo riesci nell’obiettivo di intrattenere il pubblico
e magari dire anche qualcosa che
vada oltre il piacere del racconto.
Credo che in questo senso il merito
principale del film sia quello di non
abbandonare mai il protagonista,
per quanto idiota possa essere. La
trama è solida, non sbanda, resta
con il suo protagonista e ne fa l’unico sguardo con cui identificarsi.
Sembra facile, ma non è così…
Ho cercato di scrivere il film tenendolo in equilibrio su diversi
aspetti. Il genere, per l’appunto, la
comicità, la suspense, talvolta anche l’effetto sorpresa. L’elemento che fa sì che il tutto non crolli
è proprio il protagonista, Dwight
Evans: lui è improbabile, è ingenuo, non sa cosa fare. Dopo averlo
visto conciato come un barbone
alla deriva, si taglia barba e capelli, si mette dei vestiti puliti e torna
quello che è sempre stato, quello
che è: un uomo della classe media
con la vita completamente distrutta. Questo aspetto ci ha permesso di portare piccole innovazioni
al genere: perché Dwight è sì il
protagonista di una vendetta, ma
non è un veterano di guerra o un
esperto, bensì un assassino novello, uno che nemmeno sa come si
tiene un’arma in mano… In questo
modo tutti gli aspetti più evidenti del film, la sua parte violenta e
tragica, così come quella comica,
sono venute spontaneamente.
Oltre ai citati Coen, ci sono altri
modelli per la tua revisione del genere classico?
L’ho detto sempre nelle interviste
che ho fatto fino a ora, qui a Cannes: Blue Ruin è come un personaggio di Hal Ashby preso in mezzo ad un film dei Coen, oppure la
protagonista di Wendy and Lucy
che si ritrova in una sparatoria alla
Taxi Driver. Nonostante l’evidente
76
ironia della situazione, nonostante l’iniziale effetto di straniamento, non volevo in nessun modo
che dal film trapelasse il cinismo
di un’operazione intellettuale e
insieme popolare. E allora è diventato fondamentale il riferimento
al cinema di Michael Mann, e in
particolare al realismo drammatico, all’attenzione ai dettagli di
Strade violente. Ma in Blue Ruin
non c’è solo il cinema: c’è soprattutto il mio legame con l’America,
con l’idea di terra selvaggia eppure mitologica che la nostra cultura
trasmette da sempre. E questo è
un aspetto affrontato soprattutto
dalla letteratura, da autori come
McCarthy o George Pelecanos, che
con i loro romanzi dimostrano che
se l’America può essere una terra
di violenze e disparità sociali, al
tempo stesso è anche una terra di
grandi narratori.
La violenza nel tuo film è una presenza quasi scontata, un universo
nemmeno così distante nel quale
chiunque, come dimostra la parabola tragica del protagonista,
può entrare. Se penso poi al personaggio del suo amico redneck,
il fanatico delle armi che spara
come un cecchino (quella è la scena più bella del film!), mi viene da
pensare, però, che nella tua riflessione ci sia anche una forte componente ludica. È così?
Sarebbe davvero ingenuo dire
che la violenza al cinema non sia
divertente. Io amo la violenza, al
cinema, è una cosa divertente e
insieme spaventosa e proprio
per questo motivo non si può
chiedere niente di più intenso o
appassionante a un film. In Blue
Ruin la violenza è ritratta in modo
brutale e al tempo stesso stilizzato; non è mai esaltata, ma non
diventa nemmeno il tema principale. È un mezzo narrativo e
stilistico, è cinema niente di più.
Per questo credo sia importante
mettere in chiaro il patto che c’è
alla base della rappresentazione della violenza. Quando due
bestie selvagge combattono, ad
esempio, lo fanno per uccidersi,
nessuno mette in dubbio la cosa,
e la stessa situazione si ripete
con i personaggi di un film: sono
lì per sfidarsi, mettono in conto
che possono morire e a tutti va
bene così. Se in un film di genere vedi un’arma, sai che sparerà:
non è che stai lì a chiederti se sia
giusto o meno che quel personaggio maneggi un arsenale.
Il genere è un gioco, questo protegge il cinema da molte possibili
derive sociologiche…
Ho sempre pensato che le armi
siano una cosa molto divertente, ma per qualche strana ragione gli americani non sanno gio-
carci, non sanno distinguere tra
il racconto di una tragedia e la
tragedia stessa. In questo senso, come in fondo dice lo stesso
Dwight nel suo monologo finale,
la storia del film è una specie di
avvertimento contro la pericolosità della vendetta incrociata,
della spirale di morte che si può
innescare. Questo fa di Blue Ruin
un classico cautionary tale (un
racconto ammonitorio, ndt), per
quanto non abbia nessuna intenzione di dire la mia sul dibattito
sull’uso delle armi nella società
americana. Non voglio schierarmi né da una parte né dall’altra
e per questo motivo ho pure
tolto dalla sceneggiatura finale
diverse battute che avrebbero
potuto essere ricondotte alla recente strage di Newton e distrarre l’attenzione dalla storia. Sono
da sempre un appassionato del
cinema di genere e penso che la
violenza al cinema rappresenti
una forma d’arte a sé. All’inizio
della mia carriera ho fatto anche
il truccatore, ed era uno spasso
creare sui corpi degli attori tutti
quegli effettacci…
La tua passione per la violenza
fisica, ovviamente fasulla, si vede
anche da come tratti il tuo povero
protagonista. Come un personaggio di Chandler, Dwight si ferisce
di continuo e la sua sofferenza
77
è autentica, quasi scioccante…
Come hai lavorato con l’attore
principale, Macon Blair, il cui volto impassibile e assolutamente
comune diventa un infinito panorama di emozioni?
Macon è un attore straordinario,
e prima di tutto uno dei miei migliori amici. Ho pensato per lui
a una parte come questa per almeno quindici anni e quando finalmente sono riuscito a cucirgli
addosso un personaggio ideale
ho pensato che tutta la fatica fatta da me e da lui avrebbe dovuto
in qualche modo comparire sullo
schermo. L’intero progetto del
film è costruito attorno a Macon
e lui mi ha aiutato in tutto, non
solo perché è un ottimo attore,
ma perché si è prestato volontariamente alle tribolazioni fisiche
del personaggio. Credo sia indistruttibile, per trenta giorni ne
ha passate di tutti i colori, è passato attraverso un vetro, è saltato da una finestra, ha sopportato
delle riprese massacranti con
una barba lunga fatta crescere in
otto mesi…
Questo in realtà fa parte del carattere assolutamente indipendente
del film, il legame stretto
con gli interpreti e la partecipazione collettiva al risultato finale…
Assolutamente. Lavoro nell’indie
da molti anni, soprattutto come
operatore, e so bene, anche per
averlo visto dall’esterno, che se
un regista non ha un rapporto
autentico con gli interpreti, il
film non viene, l’energia mancante rischia di rovinare tutto.
Se l’intera equipe non è coinvolta nel progetto, sei fottuto.
E non solo in relazione al film che
farai, ma anche a
quello che avrai da
offrire al pubblico. Un film come
Blue Ruin, piccolo
e insieme classico,
destinato a essere
noto grazie ai festival e non tanto
alla distribuzione
che ancora non ha,
ha bisogno della
fiducia dello spettatore:
bisogna
avere fiducia nel
regista, nella sua
troupe, nel fatto che ci abbiamo
messo tutto noi stessi, e la cosa
deve trasparire dal film, deve
venir fuori spontaneamente. Un
film, è sempre una questione di
onestà: sia quando vai a chiedere soldi a un finanziatore, sia
quando lo presenti di fronte a un
pubblico come quello di Cannes,
magari non troppo disposto ad
assistere all’ennesima storia di
una vendetta famigliare…
a cura di Roberto Manassero
CANNES
Les fous,
les outsiders,
les héros
maudits
Entretien avec Basil da Cunha,
Cannes 2013
V
éritable découverte de la
Quinzaine des réalisateurs,
Basil da Cunha est auteur d’un
univers unique qui respire au
rythme des gens qu’il filme. C’est
un monde où faire de la bouffe,
bricoler avec le peu de moyens
dont on dispose, fumer un pétard
ou cambrioler une voiture ne font
qu’un. C’est l’art de la survie. Un
univers où le discours laisse la
place au rap, la marche à la course,
la parole aux cris. Comme chez Pasolini, les héros sont des hommes
qui habitent aux marges de la
société d’un point de vue géographique aussi bien que culturel. Ils
sont l’expression d’une humanité
qui ne fait plus aucune différence
entre la maison et la rue, entre le
privé et le public. Ils sont partout
et en mouvement perpétuel, car
celui qui arrête de bouger est mort.
Sombra et ses amis peuvent très
bien dire, comme le célèbre Accattone : " Mo’ sto bene " (" Mainte-
nant je suis en paix ") alors qu’ils
tombent raides dans la rue.
C’est dans une bidonville hors de
Lisbonne que Basil da Cunha a
trouvé son univers d’élection et
son lieu de résidence. Lui-même
est un peu à l’image de ses personnages : il aime te regarder droit
dans les yeux et parler d’une façon
directe. Quelque chose de physique se dégage de sa personne :
comme si même les mots peuvent
être des gestes ou des actions.
Haut en couleurs, expression d’un
métissage qui vite a su trouver son
imaginaire, le jeune cinéaste après
trois court-métrages et un long a
les idées claires sur ce qui l’intéresse au cinéma. Du néoréalisme
italien - via Pasolini – jusqu’au
cinéma américain d’action : ce
n’est pas un regard cinéphile qui
nourrit son esprit. Ou bien il s’agit
d’une cinéphilie qui ne se penche
pas sur l’idée d’auteur. Ce sont les
lieux et les visages qui priment
dans la vision de Basil Da Cunha :
son premier long-métrage met en
évidence la force de son regard
et la complicité avec ses personnages. Si la narration suit un
parcours codifié, qu’on pourrait
retrouver aussi bien dans un polar
américain que dans un film français des années ’70, l’ensemble
des sons, des voix et des couleurs
composent une image tout à fait
nouvelle. Son héro, Sombra avec
l’inséparable caméléon, est le
pivot autour duquel se compose
un ballet qui finit par sublimer
la violence de la vie réelle dans
le quartier. A la différence de la
démarche littéraire de certains
cinéastes (Melville ou Scorsese),
Basil Da Cunha partage le même
milieu que ses héros. Si la vision
est parfois poétique le but reste
celui de rendre hommage à ces
gens qui, jour après jour, résistent
sans perdre leur identité.
C.C.
79
On ne peut pas commencer à parler
du film sans aborder le sujet de son
univers. Je voudrais avoir quelques
informations en plus sur le quartier
où tu as tourné les films.
C’est le quartier de Reboleira, situé
sur la ligne de Sintra. Un bidonville
habité par une communauté capverdienne. Je suis arrivé là-bas il y
a quelques années, non pas pour y
faire des films mais parce que les
loyers étaient bon marché. Très rapidement je me suis fait
des amis. Comme dans tout quartier populaire, plusieurs générations se superposent. Il y a les plus
anciens, les premiers à être arrivés
au Portugal. Et il y a la mienne,
des fils d’immigrés. Tous ont une
histoire à raconter. Certains travaillent, d’autres sont artistes et
certains font d’autres trucs. Quand
aux plus jeunes, entre l’école et
la rue, ils grandissent un peu trop
vite. C’est un ghetto où l’on vit
beaucoup dans la rue. Les gars
sont là, il y a des petits cafés, le
rap et le funana, des sorciers aussi.
Mais, il y a du respect et du savoirvivre avant tout. C’est un lieu de
résistance où la vie est dure mais
la solidarité est grande. Il y a
quelque chose qui fait que je vois
ce quartier comme un des derniers
maquis. Une poche de résistance.
Comment se déroule le choix des
endroits ?
Tout le film, sauf la scène finale,
est tourné au quartier. Il y a donc
des endroits par lesquels je
passe tous les jours. Je suis toujours attentif à la physionomie
du lieu car cela fait partie intégrante du dispositif que je mets
en place autour des acteurs. Le
lieu, s’il est habité ou pas, fermé
ou ouvert, labyrinthique ou juste
poétique va forcément jouer
un rôle sur la manière dont les
acteurs vont jouer. Et puis il y la
couleur des murs, la lumière, les
perspectives.
Le lieu de la scène finale a été
choisi avec un repérage classique. J’ai pris une voiture et j’allais à la plage la nuit, jusqu’à en
trouver une qui me plaisait.
Et les comédiens ?
Les comédiens sont des amis, des
voisins ou juste des mecs qui sont
arrivés pendant les tournages
des courts par hasard et qui font
désormais partie de l’équipe. Ils
habitent tous le quartier. En général, plus le temps passe,
plus j’écris en pensant à des gens,
pour des gens. J’ai fait à peu près
la moitié du casting déjà là. Je
sais jusqu’où je peux aller avec
chacun des mecs. Je sens surtout
s’ils vont pouvoir porter telle ou
se faire en plan séquence en général, surtout dans les scènes avec
dialogues. Des fois, je demande à
un acteur de répéter ce qu’il me
disait l’autre jour. Par exemple
dans la scène ou un des mecs du
gang raconte qu’il connait l’histoire d’un mec mort deux fois.
Je lui dis qu’il va devoir faire une
blague, et sans qu’il le sache il y
a un mec qui va le traiter de menteur. Lui, dans la réalité il déteste
qu’on l’interrompe et il ne sait pas
que l’autre va l’empêcher de par-
telle scène. Certains sont devenus
des complices de mise en scène,
conscients ou pas. Ils mettent en
scène de l’intérieur en provoquant
certaines discussions ou émotions.
Ils mènent la danse en quelque
sorte. Et puis l’autre moitié du casting reste toujours ouverte. Il y a
toujours des gars qui apparaissent
sur le moment et qui créent des
choses incroyables. Des cadeaux
qu’il faut juste savoir recevoir.
ler en se foutant de sa gueule. Du
coup ça dégénère et c’est ce que
je voulais à ce moment, qu’on se
rende compte qu’ils sont un gang
pas sérieux, des gros bras qui se
disputent comme des gamins. Quelle est la relation pendant
le tournage avec les comédiens.
Comment les diriges-tu ?
Je ne leur donne pas le scénario.
On tourne dans l’ordre chronologique. Il y a les complices, qui sont
ceux qui lancent la scène avec mes
indications. Juste des enjeux à défendre, ou simplement la situation
de base et la fin. Je laisse la scène
Comment développes-tu ton
script ? Est-il établi dans les détails
ou laisse-t-il beaucoup de place à
ce que le tournage peut amener ?
Dans les détails, car cela me fait
réfléchir à des questions cinématographiques. Quand j’écris,
je suis déjà au tournage et j’y
règle une série de problèmes de
mise en scène. Même les dialogues sont écrits, alors que c’est
de l’improvisation au tournage.
Mais l’essence, même les effets
comiques d’échanges verbaux, je
les retrouve à la fin. C’est magique.
Je n’aime pas l’idée d’appliquer un
80
scénario, donc je le laisse ouvert.
Et puis au tournage, on se met
en danger et on regarde ce qui
se passe. On réécrit le film à ce
moment-là. A la fin d’une journée
de tournage, je rentre et je réécris
celle du lendemain. Forcément.
Dans son parcours narratif, Ate ver a
Luz fait référence au film noir. Est-ce
que tu avais à l’esprit des modèles ?
Les fous, les outsiders, les héros
maudits, je leur voue un culte. Il y
a Accattone, I Vitelloni, Chat Noir,
Chat blanc, Les sept samouraïs, Die
Hard ou L’Etranger... Puis ceux que
j’ai rencontrés dans la vie... C’est
très difficile d’en choisir car tous
sont des morcellements de souvenirs et tous participent à ma foi en
la liberté.
Les scènes sur les toits sont plutôt
incroyables. Tu les avais prévues
dès le départ ? Quels ont été les enjeux dans le tournage ?
Oui, je voulais retrouver un peu
cette sensation qu’on a en voyant
les films de vampires ou de samouraïs, des créatures de la nuit qui, en
équilibre sur les toits, se frayent
un chemin parallèle. L’enjeu c’était
surtout de ne pas tomber car les
toits sont en taule, tout en ne faisant pas trop de bruit car mes voisins pétaient un plomb ! Comment procèdes-tu au tournage ? Préfères-tu obtenir beaucoup de matériel que tu composeras au montage ? Ou cherches-tu
la bonne prise qui sert le scénario ? Quelle est la part de l’improvisation (des comédiens et de la
caméra) ?
Beaucoup d’improvisation mais
très dirigée et retravaillée, avec
un découpage sérieux et exigeant. Donc il s’agit de voir le
tournage comme un espace de
recherche et d’écriture, un vrai
espace de liberté mais avec des
contraintes et un respect de ma
part pour le fil rouge narratif. Je
ne pars pas tant que je n’ai pas
tout. Après ça n’empêche pas
que le montage s’approche plus
de la pêche que de l’assemblage
d’un puzzle.
Quelle part tient le cinéma dans ta
relation avec les gens que tu filme ?
Elle n’avait pas d’importance les
premières années dans le sens où
pas grand monde s’intéressait à
ce qu’on faisait, elle devient assez
grande maintenant car nos films
sont médiatisés, presque tous le
quartier participe et on m’appelle
«le réalisateur» au quartier. Mais
bon, la plupart du temps on parle
quand même d’autre chose et on
vit, simplement.
Peux-tu me parler un peu du
rapport avec les couleurs et la
lumière ? C’est là que réside pour
moi un des points forts de ton travail au cinéma et, bien que cela
soit dû au quartier, je suis sûr qu’il
y a derrière un grand travail de
composition et de définition.
Je ne filme pratiquement jamais
de murs blancs, car les couleurs
jouent un rôle dans la manière
dont on fait exister l’acteur dans
le cadre. Je choisis vraiment les
lieux en fonction du moment que
vit le personnage. Des murs qui
ont une histoire de préférence.
Mais des fois je les repeins aussi,
comme chez la tante de Sombra
ou le vert tire vers l’absurde, le
comique. La lumière, toujours
travaillée avec peu et de façon
à avoir un traitement de la peau
sensuelle. Une fenêtre le jour, la
nuit des bougies, des phares, des
lampes, des briquets et une mandarine de temps en temps.
Et la musique ?
La musique, en général, je sais
à quel moment je vais la placer,
mais toujours diégétique. Elle
vient sublimer le récit et faire ce
que sans elle on n’arrive pas à
faire sentir.
par Carlo Chatrian
LA CITTÀ
DIVISA
CANNES
Conversazione con Hany Abu-Assad,
Cannes, 2013
I
spirato dalla confessione fatta
al regista da un amico avvicinato da un agente governativo
israeliano affinché diventasse un
collaborazionista, Omar è un’opera solida che si concentra sui volti
e le emozioni trasmesse da interpreti quasi tutti esordienti, capace
di aprirsi sia a scene d’azione dal
montaggio serrato, sia a elementi
quasi documentaristici. Costruito
con un incastro narrativo che sfiora il genere spionistico, è un film
sulla fiducia, sul tradimento, sulla
complessità delle relazioni umane, sulla fine di amicizie e la confusione delle identità. Girato in
Cisgiordania, come il più celebre
film di Hany Abu-Assad, Paradise
Now (2005), Omar è fatto di muri,
di confini, di sospensione lungo
linee fisiche (il muro costruito da
Israele che il protagonista scavalca regolarmente, i muri dei cortili
e dei vicoli nei quali fuggire...) e
lungo barriere interiori, meno visibili, ma in grado di rendere la
fiducia tra le persone instabile,
sempre sul punto di infrangersi.
Per Abu-Assad si tratta di un ritorno a casa. Nato a Nazareth nel
1961, infatti, ha incontrato il successo con Paradise Now, in cui raccontava con stile secco la storia di
due palestinesi pronti a sacrificare
le loro vite in un attacco suicida a
Tel Aviv. Dopo quel film ha scelto
di girare altrove, di cercare altre
terre, per poi tornarvi ora con una
storia che affronta una situazione poco evidenziata del conflitto
israelo-palestinese, quella del collaborazionismo dei palestinesi.
Abu-Assad nelle sue opere ha quasi
sempre parlato della sua terra con
argomenti e sguardi mai convenzionali, arricchendo la cinematografia palestinese di testi rilevanti,
rendendola ancora più ricca e stratificata. Film di finzione e documentari compongono una filmografia da
una parte radicata in Medioriente e
dall’altra in viaggio in altri territori e culture. Nel film d’esordio Het
14e kippetje, commedia romantica
prodotta e girata in Olanda (dove il
regista ha studiato e lavorato come
ingegnere aeronautico) e il successivo Rana’s Wedding (2002), girato a Gerusalemme, ci sono il tema
del matrimonio e la tensione di un
conto alla rovescia, l’attesa dell’evento nel primo caso, solamente
dieci ore per realizzare il proprio
sogno nel secondo, tra check point
e ostacoli della burocrazia israeliana. L’infernale vita sotto l’occupazione torna invece in primo piano nel documentario Ford Transit
(2002), opera corale che segue un
gruppo di persone nei territori occupati in viaggio su mini-bus Ford
appartenuti agli israeliani e dati ai
palestinesi dopo gli accordi di Oslo,
mentre per The Courier (2001) AbuAssad ha scelto una «deviazione»
cinematografica clamorosa, girando
a Las Vegas e New Orleans un thriller d’azione con Lili Taylor e Mickey
Rourke.
G.P. e G.G.
Pensiamo che Omar sia un film sulla fedeltà e sulla complessità delle
relazioni umane…
Era mia precisa intenzione fare un
film di questo tipo. Se guardate attentamente vi accorgerete infatti
che ogni scena in questo film è sulla fedeltà o sulla mancanza di fedeltà. Sono davvero convinto che
la fedeltà sia il fondamento più
importante della società. Quando
un uomo perde la propria fiducia
nelle altre persone diventa insicuro e la sua vita inizia a essere molto più complicata di quello che è
realmente. I leader del mondo approfittano spesso della mancanza
di fedeltà tra le persone in modo
da controllarli e prolungare il loro
potere. Negli anni scorsi ho riflettuto a lungo su questa idea e Omar
è davvero un’esplorazione della
mia preoccupazione a proposito
di questa situazione sociale, che è
un problema in tutto il mondo, non
solo in Palestina.
In questo senso Omar è anche un
film sul tradimento. Ogni personaggio tradisce ed è tradito. È come una
tragedia di Shakespeare dove tutti
sono tenuti prigionieri dal/nel tradimento.
È molto sottile da parte vostra questa affermazione, ed è soprattutto
vera. Ho assistito a simili situazioni
così tante volte nella vita reale…
Quando tradisci, sarai tradito, ma
la gente non sembra capire né vedere questo schema. Al contrario
si finisce per cadere in un circolo vizioso. In realtà, si tratta di un
aspetto molto interessante, perché
quasi tutti sono capaci di giustificare il loro tradimento, ma sono
poi devastati quando vengono
traditi a loro volta. Non riescono
a riconoscere l’ipocrisia delle loro
azioni e, abbastanza stranamente,
non riescono a identificarsi con i
loro traditori.
Omar è un film sulla Palestina contemporanea, dove il muro separa la
Palestina dalla Palestina. Il muro è
un simbolo molto forte di oppressione.
Abbiamo creato una città palestinese virtuale, dove la città stessa è
divisa, il villaggio è diviso, il campo profughi è diviso e non c’è differenza tra le due parti del muro.
A proposito di Omar, mi sono
chiesto, da regista, in che modo
volessi raffigurare l’oppressione.
Paradossalmente il muro ne è una
grande e semplice rappresentazione, dal momento che esiste già e
non ha bisogno di essere costruito.
Questo film mette in evidenza un
aspetto nascosto della Palestina
contemporanea: il fatto che alcuni
palestinesi siano collaborazionisti.
Voleva mettere in evidenza questo fenomeno?
Il collaborazionismo è una
parte più piccola del grande
tema della fedeltà e del tradimento. Quando tradisci
la tua società sei un collaborazionista, ma al
tempo stesso con una
simile azione finisci
per tradire anche te
stesso. Sono convinto che la più
grande vergogna
dell’occupazione sia
l’abuso della
debolezza
della gente, allo lo scopo di renderli dei collaborazionisti. La manipolazione e il collaborazionismo
sono temi che vale decisamente la
pena di esplorare, che vorrei vedere affrontati in molte opere.
A causa della costante presenza
del muro nel film si ha sempre
l’impressione di essere in un equilibrio precario, sia fisicamente che
esistenzialmente.
La vita è un gesto costante di
equilibrio precario. Quasi nessuno è sempre la stessa persona in ogni occasione della vita.
Abbiamo facce diverse per diverse persone, diverse circostanze
o contesti, con o senza un muro
a dividerci. In Omar il muro mette
semplicemente in evidenza una
parte di comportamento umano
che spesso cerchiamo di nascondere, o che è naturale celare a causa della sua presenza pervasiva.
83
In Omar diversi attori non sono
professionisti. Sono efficaci nel
mostrare le loro emozioni e i fremiti che li pervadono. Come hai
lavorato con loro?
Lavoro sia con attori professionisti che con attori non professionisti e, molto spesso, mi piace
affiancarli. La parte più importante del lavoro con gli attori non
professionisti è assicurarsi che si
fidino di te. Una volta ottenuta
la loro fiducia, puoi fare in modo
che esprimano ogni emozione
necessaria, perché sono umani e
dunque sanno esprimersi e reagire alle situazioni. Ciò che inibisce l’espressività, negli attori non
professionisti e negli altri, è l’assenza di fiducia, dal momento che
senza fiducia nessuno è capace di
esporsi, di mostrare la sua «nudi-
tà» a un pubblico. Tra l’altro, una
differenza sta anche nel fatto che
gli attori professionisti imparano
a fidarsi del regista in un modo diverso. Cercano qualcuno che mostri loro cosa stia facendo, mentre i
non professionisti più di ogni altra
cosa cercano una figura paterna.
Omar contiene due scene d’azione
che evocano la tradizione del genere. È un elemento interessante dal
momento che sappiamo che, nel
2011, hai diretto un film d’azione
negli Stati Uniti, The Courier.
In tutti i film le scene di inseguimento o d’azione sono fatte per
appassionare il pubblico. In Omar
volevo assicurarmi che queste scene andassero oltre il loro abituale
impiego, utilizzarle anche come un
modo per esplorare ulteriormente
gli sviluppi dei personaggi. Le migliori scene di inseguimento sono
quelle in cui i personaggi scoprono qualcosa su se stessi durante la
corsa. Invece, girare scene di questo tipo negli Stati Uniti significa,
più di ogni altra cosa, avere a che
fare con effetti speciali e visivi.
La scena del funerale è molto diversa da tutte le altre. Ha un aspetto
quasi documentario. Sembra voler
ritrarre non solo quel funerale, ma
anche tutti i funerali palestinesi.
Drammatizzare una scena di f u n e ra l e, e farlo bene, è
davvero un’impresa
difficile. Come prima cosa, conosciamo tutti
le immagini
di funerali
trasmesse
dai
notiziari, e questo significa che
l’«evento» ha già un’iconografia
stabilita e molto difficile da «sfidare»; in secondo luogo, in un
vero funerale quasi tutti i partecipanti sono coinvolti in una situazione personale molto emotiva.
Ricreare questo tipo di emozione
con delle comparse, come accade
puntualmente in una scena di funerale al cinema, è virtualmente
impossibile. Io però non scritturerei mai degli attori professionisti per una scena soltanto, né un
attore professionista farebbe una
scena simile sapendo di non avere battute o altre apparizioni nel
film. Essendo consapevole di tutte
queste implicazioni, la mia sfida
era quella di creare un funerale
autentico; così ho usato un approccio filmico diverso, un uso del colore diverso e, inoltre, ho inserito
della musica per la prima e unica
volta nel film, un brano ispirato al
Miserere del compositore italiano
Gregorio Allegri, una composizione conosciuta per il suo misterioso
e inaccessibile sentimento. Tutto
ciò risulta efficace perché la scena
del funerale è di fatto un momento
di svolta per Omar e per il racconto
stesso. Un cambiamento drammatico di questo tipo può essere fatto solo in un momento di svolta di
primaria importanza.
Omar è un dramma, ma è pervaso
da un sottile senso dell’umorismo.
I personaggi, ad esempio, raccontano spesso delle barzellette.
Perché questa scelta?
Perché Omar mostra la vita reale.
a cura di Giuseppe Gariazzo
e Grazia Paganelli
VENEZIA
TERRA
d'ORIGINE
Conversazione con Alessandro Rossetto,
Venezia 2013
A
mbientato nella profonda provincia veneta, Piccola patria è
il racconto di un rapporto d’amicizia adolescenziale fra due ragazze
e del mondo che ruota attorno a
entrambe, un regno imprenditoriale un tempo benestante e oggi
rimasto al palo per via della crisi
economica, ma soprattutto per
colpa di una cultura arida e razzista che nulla sa più creare e tutto
desidera al contrario comprare, e
dunque possedere e distruggere. Il Veneto del documentarista
Rossetto, all’esordio nel lungometraggio di finzione, è popolato
di famiglie sull’orlo del baratro,
di amici infidi e ipocriti, di (pochi)
soldi a cui tutti danno la caccia, di
sesso spudorato e manipolato, di
una violenza pesante a parole e
sottile nei fatti che si offre come
forza motrice in grado di trascinare tutti i personaggi in una caduta
vertiginosa. Accanto all’ondata di
film che continuano a riproporre
l’immagine di un Sud connotato,
talvolta sincero ma spesso macchiettistico e stereotipato, Rossetto racconta un Nord non meno
esente da passioni e conflitti, una
terra chiassosa e volgare, grigia
di cemento e prefabbricati tanto
quanto la Sicilia di Emma Dante
e Daniele Ciprì è colorata e fatiscente. Anche in questa parte d’Italia, però, l’anima provinciale del
nostro paese si erge a una sorta di
catalogo delle tensioni nazionali,
il dialetto si fa la lingua di affetti,
di odio, di rinascita, una lingua che
esprime un radicamento al territorio a cui il Nord, almeno a livello
cinematografico, sembrava esente.
Insieme alla sua troupe e i suoi collaboratori, tra cui la sceneggiatrice
Caterina Serra che ha partecipato
all’intervista, Rossetto ha costruito
il film come un lungo processo, in
cui è visibile la ricerca del connubio tra la finzione e la necessità di
lasciare alle riprese il respiro che
solo la realtà può conferire. Il risultato è un film carico di tensione
e sofferenza, forse imperfetto, ma
con il pregio di portare lo sguardo
dello spettatore verso altri luoghi
e altri modi di concepire il cinema
in Italia.
N.D.
Questo lavoro è fortemente connotato dal punto di vista geografico:
è un film sull’Italia del nord, sulla
provincia veneta, localizzazione
che lo spettatore può effettuare
fin dalle primissime scene del film,
dove i canti in dialetto accompagnano le immagini della campagna
padana.
A.R.: Ho eletto il Veneto un po’ a
teatro unico delle mie opere, anche perché è la mia terra d’origine.
Per me era abbastanza automatico
pensare che il mio primo film di
finzione dovesse essere ambientato in questa parte di Italia. Inoltre,
l’idea stessa del film com’era stata
concepita da me e da Caterina Serra, la mia co-sceneggiatrice, partiva da un lavoro di ascolto e ricerca
di svariate piccole storie di personaggi reali dislocati sul territorio
veneto. Abbiamo poi convogliato
tutto il materiale raccolto in una
scrittura dall’impostazione classica, avendo in testa il modello di
una tragedia appunto classica. Per
me, pensando in termini cinematografici, è stato molto interessante sottolineare la «balcanicità»
del Nord-est, l’estremizzazione di
sentimenti ed emozioni. Di solito quando in Italia ci si riferisce a
questi argomenti si pensa al calore
e alle passioni del Sud, ma anche
qui al Nord non siamo esenti da
una forte carica di emotività. Cito
sempre come esempio il fatto che
in questa regione di piccoli e medi
imprenditori in crisi, la scelta di
fronte al tracollo di moltissime imprese spesso non sia stata, come ci
si sarebbe potuto aspettare, l’adesione a iniziative di ordine tecnico,
ma il suicidio. Sono fatti documentati dalla cronaca degli ultimi due
anni, e mostrano una passionalità
inaspettata in una zona un tempo
ricca e pragmatica.
Parliamo della struttura narrativa
del film, che è frammentario, schizofrenico, alla fine sospeso su un
evento di grande impatto drammatico, ma lasciato fluttuare nella
mente dello spettatore…
A.R: Il film vuole essere una tragedia classica che affronta temi
universali: amori difficili, relazioni
complicate, rapporti amicali difficoltosi, esplosioni delle famiglie
e mercificazione dei corpi dei
giovani… Argomenti che si possono trovare nella provincia veneta
come in qualsiasi altro posto. Abbiamo poi raccolto delle storie sul
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territorio che ci hanno ispirato e
convinto a inserire parte di ciò che
avevamo ascoltato nella struttura
portante della tragedia. Volevamo
uno sviluppo drammaturgico vicino alle corde del melodramma,
scatenato però dall’immobilismo
di un mondo in crisi. Tutti i guai
che costellano la trama nascono
dall’immobilismo, dalla rabbia,
dalla paura, dall’accecamento.
Non sono iniziative. Le uniche che
tentano di modificare concretamente la situazione iniziale sono
le due giovani ragazze, ma così
facendo non fanno che peggiorare le cose, si lasciano scappare di
mano tutto. Anche l’iniziativa finale del padre fa sì che il risultato di
questo modo di fare raffazzonato
e improvvisato sia la possibilità di
un tragico errore.
Se la sceneggiatura parte da una
raccolta di storie realmente accadute e ascoltate dalle persone che
le hanno vissute, viene da pensare che anche Piccola patria abbia
un’anima documentaria, e che dunque il documentario sia sempre lo
sbocco naturale del tuo lavoro…
A.R.: Dalla concezione della storia alla direzione degli attori, fino
alla scrittura e al montaggio, ho
usato quelli che definirei i tipici
strumenti del documentario, non
ho inventato nulla. In modo particolare per la direzione degli attori,
ho deciso di adottare il metodo
di molti registi americani: ho creato le condizioni dimenticando
la storia e le battute e ho cercato
di creare appartenenza, identità,
profondità antropologica e psicologica. Nelle ricerche che ho fatto
di scrittura, nello scouting che ho
condotto personalmente, e anche
nel casting, posso dire di aver operato da documentarista.
Sul set hai anche lavorato come
operatore di macchina?
A.R.: Sì, assolutamente. Ho portato nel film tutto il mio stile, che è
molto istintivo. Ho inoltre creato
una troupe giovane, composta da
persone che avessero una formazione o un’esperienza legata al
documentario. Questo mi ha permesso di organizzare il tempo delle riprese quasi come si organizza
un documentario, senza sapere
mai bene cosa si sarebbe fatto
giorno per giorno. Se un metodo
del genere l’avessi proposto a dei
professionisti del cinema di finzione, sicuramente avrei creato non
pochi problemi. Invece, avendo
al mio fianco persone che si sono
formate secondo quella che era la
mia esperienza, tutto ciò che causava cambiamenti di programma,
attese, momenti di stasi e ozio
funzionale, era perfettamente
concepito e considerato come necessario.
Lasciare spazio alle cose che possono accadere…
A.R.: Esatto. È un metodo che ho
sperimentato anche con gli attori, con i quali ho lavorato in modo
molto eterogeneo, privilegiando
l’improvvisazione pura nelle location delle riprese; un’improvvisazione che ha creato battute che
poi sono diventate veri e propri
dialoghi per alcune scene. Nel
quadro della tragedia ho dato al
territorio il ruolo del coro, e quindi l’ho trattato in maniera molto
precisa, scegliendo situazioni reali nelle quali calare scene che in
fase di sceneggiatura avevano le
loro dinamiche e i loro movimenti
di macchina prefissati.
Caterina Serra, anche per quel che
riguarda la tua attività di scrittrice
la modalità del documentario si accorda al tuo modo di lavorare?
C.S.: Sì. La mia scrittura non nasce mai da un’invenzione: quando scrivo un libro, un racconto o
una sceneggiatura parto sempre
da storie vere, mi piace lo spunto
offerto dalla realtà, dalla verità.
Dunque, lavorare con Alessandro
è stato decisamente congeniale.
Inventiamo, certo, ma nel modo in
cui possiamo immaginarci qualcosa sempre connesso con la realtà.
Come avete fatto, nella pratica, ad accordare le vostre modalità lavorative?
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A.R.: Abbiamo concepito la storia
iniziale e stabilito a grandi linee
il modo in cui il racconto si sarebbe svolto. Poi si è unito un terzo
sceneggiatore, Maurizio Braucci,
che ha lavorato a Gomorra e Reality, e con lui abbiamo lavorato
«sul campo», durante le riprese.
Anche lui, in realtà, nonostante
la lunga esperienza come sceneggiatore di film di finzione,
ha un modo di lavorare che ben
si accorda al nostro. Parte cioè
dall’inchiesta e sviluppa un
percorso di invenzione.
C. S.: Credo sarebbe stato impossibile lavorare a una sceneggiatura
chiusa, scritta come se fosse un
libro, e poi proporla ad Alessandro e adattarla al suo cinema di
apertura alla realtà, fatto di scene
e dinamiche reali. C’è un salto fra
realtà e finzione che fa sì che tu, in
quanto sceneggiatore, non trovi le
battute, non ritrovi la tua scrittura.
Se non si cambia prospettiva, un
tale metodo di lavoro da parte di
un regista può diventare per uno
sceneggiatore molto frustrante,
ma allo stesso tempo può generare un’esperienza arricchente e
permettergli ugualmente di realizzare le cose che aveva in
mente fin dall’inizio.
A.R.: È impressionante, infatti, notare come la realtà spesso si accordi al progetto iniziale. Per esempio, per la sequenza in cui i due
fidanzati si mettono in viaggio
per liberare un loro coetaneo era
previsto che uno dei due dovesse
cantare qualcosa in albanese. Incredibilmente, facendo il casting
ho trovato un ragazzo che cantava rapper, e lo faceva in albanese.
Era dunque perfetto per rispettare
la sceneggiatura. Certo, al tempo
stesso la genesi del racconto, la
sua formalizzazione, ha preso una
piega che ha sorpreso pure me.
E infatti dovrei essere il primo a
sorprendersi di ciò che accade nel
film.
E come avete gestito il lavoro
sul set?
C.S.: Ho partecipato a metà delle
riprese, perché non abito in Italia.
Fino alla fase del montaggio, però,
c’è stato un lungo lavoro di cura
nei confronti di quello che accadeva e di ciò che sarebbe potuto accadere. C’erano scene da rivedere,
reinventare, ricostruire rispetto a
quello che Alessandro vedeva. E
questo è avvenuto anche durante
il montaggio, secondo l’idea che
la storia potesse rimanere aperta fino all’ultimo, pur rispettando
l’idea originale, ma attraversando
una realtà in grado di sorprenderci. Per me è stato interessante lavorare in un progetto in cui non
potevo mai dire, nemmeno a me
stessa, di aver finito. L’ultima
parola spettava sempre ad
Alessandro, era lui a
decidere quando la
storia doveva finire e prima ancora
quale direzione doveva prendere.
La sceneggiatura è stata comunque sempre presa in considerazione durante le riprese, in modo da
tenere sotto controllo il senso e la
direzione generali.
A parte l’improvvisazione di cui
parlavi prima, qual è stata la relazione con gli interpreti?
A.R.: Una parte fondamentale del
lavoro è stata cercare di far calzare ciò che avevamo previsto in
fase di sceneggiatura con ciò che
ogni singolo interprete portava al
personaggio. Un lavoro enorme.
Ma, come dicevo prima, l’improvvisazione ha rappresentato l’elemento decisivo. Molti interpreti
conoscevano già il dialetto, ma
per poterlo parlare fluentemente
hanno dovuto lavorare molto sulla
psicologia dei loro personaggi, su
trascorsi personali e famigliari in
cui il dialetto e l’origine erano stati
quasi cancellati del tutto. Nel caso
di Roberta Da Soller, ad esempio,
l’attrice che interpreta una delle
due ragazze protagoniste, è stata
una fatica: lei viene da un paese
della provincia di Treviso e più
di tutti è cresciuta parlando in dialetto, salvo
poi rifiutarlo una
volta
cresciuta.
Abbiamo dovuto
tirarglielo
fuori
con le tenaglie, e
credo che questo
nel film si veda e
si senta, perché
l’emancipazione
dalla lingua con la
87
quale si è cresciuti è sofferta, e il
fatto di dover poi tornare indietro
e riappropriarsene è un processo
doloroso.
Mi sembra poi che nella scelta del
dialetto ci sia una precisa scelta
psicologica, il dialetto dice molto,
di per sé, dei personaggi…
A.R.: Quella del dialetto è stata
una scelta registica, ma anche una
comodità, perché una profondità
bisognava cercarla, la psicologia
paga poco. Con il dialetto si arriva
a lavorare sull’intimità, nell’attore
scatta qualcosa che esiste a prescindere, che va nel profondo e lo
slega da ciò che è successo nella
sua vita adulta, trasportandolo da
un’altra parte. Tralasciando l’effetto sonoro e linguistico che un dialetto può fornire, le cose cambiano
parecchio, e si creano situazioni
completamente diverse, se si parla in dialetto o in italiano. È anche
una questione di appartenenza, e
non solo di un legame con il proprio passato. Ad esempio, con Maria Roveran, che viene da un paese
dell’interland triestino, ho trovato
diversi punti di contatto soprattutto con il sentimento di un’appartenenza condivi-
sa. Nonostante abbia la metà dei
miei anni, è cresciuta in una situazione di vita di quartiere identica
a quella in cui sono cresciuto io.
Io potevo fare le stesse battute e
guardare alle cose che ci circondavano nel medesimo modo. Trovavo nel suo modo di fare la stessa
ironia, lo stesso senso dell’umorismo e sarcasmo che classificherei
come «veneto». Avevamo alle nostre spalle un terreno comune, e
questo faceva sì che le mie richieste fossero sempre accolte.
Quante settimane sono durate le
riprese?
A.R.: La lavorazione del film è durata poco: abbiamo avuto una preparazione brevissima e tempi di
ripresa un po’ più lunghi, perché
non avendo alle spalle una preparazione, diciamo, canonica ho
dovuto ritagliare delle ore e dei
giorni per lo scouting e l’organizzazione generale. Inoltre avevamo
bisogno di più tempo per il lavoro
di ricerca, per le scene più documentarie. Diciamo che abbiamo
passato l’intera estate sul set, e
che la parabola estiva ha coinciso
con la parabola del film. Durante
le riprese c’era una grande energia, complice il fatto che molti degli attori erano esordienti e hanno
recitato senza conoscere la trama.
Tenendoli all’oscuro siamo riusciti
a lavorare con cose molto «materiche», con ciò che accadeva sulla
scena o nel momento stesso
della ripresa. Inoltre abbiamo
lavorato
molto anche sull’idea delle location: abbiamo vissuto veramente
le case in cui giravamo, le abbiamo abitate, condividendo spazi e
tempi con chi ci abitava veramente. Si sono quindi create situazioni
imprevedibili, momenti che hanno
a che fare con il tentativo di spettacolarizzare una quotidianità
altrimenti anonima. Gli attori si
sono presi un bel rischio a fidarsi
di noi: ci sono state infatti delle
difficoltà molto grandi durante le
riprese; spesso i più giovani erano
convinti di aver fatto malissimo la
loro parte, senza accorgersi però
che più volte si lamentavano proprio delle scene venute meglio.
Per fortuna, appunto, che si sono
fidati…
C.S.: Forse l’energia di cui parla Alessandro era anche data dal
fatto che nel documentario c’è
un'umanità tangibile, sempre presente. Il documentario parte da
un’ipotesi di relazione, e senza
quella, senza la fiducia reciproca
tra chi filma e chi viene filmato, il
film non si fa. Se non ti affidi a nessuno e a niente, la tua storia non
salta fuori, non cresce, e questa è
proprio la magia di un film come
Piccola patria.
a cura di Nora Demarchi
WASTED
LAND
VENEZIA
Conversazione
con Andrea Pallaoro,
Venezia 2013
M
edeas, lungometraggio d’esordio di Andrea Pallaoro,
trentino emigrato giovanissimo
negli Stati Uniti e mai più tornato
dopo aver frequentato l’anno di
Intercultura e poi, una volta finito
il liceo, la California Institute of
the Arts, è un film americano nei
colori e negli spazi, con evidenti riferimenti al cinema di Malick e una
trattazione originale, spigolosa dei
tipici paesaggi di un western non
deserto, ma collinare. Al tempo
stesso, però, è un lavoro profondamente europeo, a partire ovviamente dai riferimenti alla tragedia
greca di Euripide (declinata però
in chiave maschile, con un padre
che uccide i figli perché sopraffatto dal tradimento della moglie)
per arrivare a una sensibilità profondamente impressionista, a una
resa fotografica che al di là di riferimenti pittorici lega la condizione
interiore dei personaggi all’aridità
di una natura indifferente.
Pallaoro ricrea nelle montagne
della California la mitologia americana, ma toglie al suo film qualsiasi afflato epico: c’è una famiglia
che vive sola in un deserto senz’acqua, in un silenzio esteriore che si
ripercuote tra le mura di casa; c’è
una madre sordomuta che vive una
vita interiore che non comunica a
nessuno e che influisce sulle altre
persone, sui figli bambini e sui figli
adolescenti, sul neonato trascurato e sul marito abbandonato alla
sua fragilità. Non c’è un tempo definito, in Medeas, ci sono oggetti,
particolari, riferimenti iconografici
che possono far pensare agli anni
’80 così come al tempo presente: è
come se Pallaoro avesse messo in
scena l’immaginario del suo personale sogno americano (qualcosa a metà tra I giorni del cielo e La
casa nella prateria, con l’aggiunta
però di un legame italiano con le
canzoni, rigorosamente in mangiacassette e cuffie, di Patty Pravo) e
vi avesse poi calato dei personaggi
intrappolati. La sua America è una
terra desolata in cui si ripresenta
una tragedia senza tempo, rinnovata dal ribaltamento dei sessi, ma
sempre uguale a se stessa nella
spaventosa solitudine che chiama
in causa: quasi la rabbia e la disperazione degli essere umani, donne
o uomini che siano, non dipendesse dalle relazioni personali, ma dal
fatto stesso di stare al mondo.
R.M.
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Perché Medea nel deserto della California, per di più virata al maschile?
Ho fatto molte ricerche sul mito di
Medea, ho letto la tragedia di Euripide e ho lavorato sulle molteplici
variazioni che ha avuto nel corso
del tempo. Lo sviluppo della vicenda mi ha permesso di esplorare
una deriva estrema del comportamento umano, quella disperazione
senza via d’uscita che porta al gesto più inumano di tutti, l’uccisione
dei propri figli. Più studiavo, però,
e più mi convincevo di una cosa: e
cioè che le ragioni per cui Medea
compie quel gesto così atroce e
vendicativo sono ragioni prettamente maschili, sono le ragioni
per cui un padre, e non una madre,
ucciderebbe i propri figli. L’incapacità di accettare il tradimento, la
sconfitta personale, l’impotenza
sorda di sapersi umiliati dal piacere dell’altra persona, sono sensazioni che l’uomo non sa tollerare.
Al di là degli aspetti psicologici, hai
lavorato sulla figura di Medea anche da un punto di vista narrativo?
In realtà, al di là del riferimento a
Euripide, la vicenda del film è basata in gran parte su fatti realmente
accaduti. Quello che abbiamo fatto in fase di sceneggiatura è stato
semplicemente rielaborare la psicologia dei personaggi e inserirli
in un contesto narrativo astratto.
Fin da subito ho scelto come cifra
del film un rigore strutturale preciso, quasi geometrico, per far sì che
la vicenda veleggiasse sospesa tra
il concreto e il metafisico, coinvolgendo in questa ambivalenza, sia
stilistica che tematica, i personaggi e l’ambiente che li circonda. I
paesaggi di questa terra riarsa, sofferente per la siccità, sono trattati
come estensioni visive degli stati
emotivi dei protagonisti, di cui richiamano e amplificano sentimenti, aspirazioni, turbamenti.
In effetti Medeas è un film fatto di
nulla, in cui tutto il peso della narrazione poggia sulle spalle della
messinscena…
Fin dalla sceneggiatura la mia intenzione era dare importanza al
pensiero dei personaggi, piuttosto
che alle loro parole o allo sviluppo
della trama. Ogni evento si vede
per frammenti, suggerimenti, momenti rubati all’intimità dei personaggi: anche la scena del tradimento è gestita in questo modo,
come se non fosse distinta dal
resto. Direi che più che attraverso
la successione di eventi, il film si
manifesta attraverso impulsi estetici, derive sensoriali e percettive.
Non c’è una vera e propria dimensione narrativa: sia perché la struttura della tragedia è così forte, così
nota che l’unico modo per affrontarla oggi è eluderla, affermarla e
al tempo stesso nasconderla, sia
perché, seguendo la mia idea di cinema e di rappresentazione della
realtà fenomenica, volevo minimizzare il più possibile la manipolazione dello spettatore. Ecco perché ho scelto di eliminare la colonna sonora, inserendo solamente
suoni diegetici, e allo stesso modo
ho insistito nella ripresa del suono
d’ambiente. Volevo che lo spettatore potesse trarre liberamente le
proprie conclusioni senza manipolazioni esterne; volevo uno spazio
e un tempo in grado di comunicare
con i personaggi, e un paesaggio
percepito come una presenza viva.
Ecco, il paesaggio: è quasi un personaggio del film, l’evidente metafora
di quello che i personaggi provano.
Non pensi che tutto questo, al di là
di regalare al film molto fascino visivo, rischi anche di appesantirlo?
Il paesaggio è una visualizzazione delle emozioni dei personaggi,
del loro mondo interiore. La siccità, il deserto, le colline brulle, per
me che sono sbarcato in America
andando subito in Colorado e poi,
qualche anno dopo, in California,
sono state scelte naturali: quella è
l’immagine che ho di un paesaggio
affascinante e al tempo stesso spaventoso come solo la natura può
essere. Il film l’abbiamo girato in
California, in piena estate, a un’ora e mezza da Los Angeles e io e il
direttore della fotografia abbiamo
cercato in tutti i modi di trasformarlo in un luogo immaginifico e al
tempo stesso realistico. Dal punto
di vista tecnico abbiamo insistito
sulla profondità di campo, in modo
da ottenere un intreccio continuo
tra primi piani e sfondo. La fissità
della macchina da presa è stata in
tal senso una scelta consapevole,
perché dava tempo all’inquadratura di fissare le sue linee, i suoi
spazi, e allo spettatore di stabilire
relazioni fra i vari elementi che la
compongono.
E come contraltare della profondità di campo ci sono specchi, finestre, corridoi, elementi che chiudono lo spazio, che costringono a
una distanza ravvicinata…
Esatto. Molte inquadrature rielaborano lo spazio per realizzare
ciò che avevo in mente: rimandare cioè a una dialettica continua
tra interno e esterno, tra psicologico e fisico. A tutto questo
aggiungerei anche le scelte che
abbiamo fatto con il fuoricampo,
che ha un ruolo fondamentale e
ha guidato molte scelte di composizione e illuminazione. Io non
ho una formazione prettamente
cinematografica, bensì artistica:
ma basta guardare i migliori film
della storia per capire che il cinema costruisce la sua grandezza
sulla dialettica tra ciò che sta in
campo e ciò che sta fuori.
E quindi hai deciso di tagliare spesso le teste e i corpi, di mettere la
macchina da presa sempre un po’
più in alto, o a lato, di quello che
dovrebbe…
Mi piace reinquadrare e frammentare i corpi, mi piacciono le scelte
visive che offrono la possibilità di
osservare la realtà da un altro punto di vista. Nel caso di alcune scene
specifiche, poi, come ad esempio il
momento in cui il marito si trova
in un nigth club ed è avvicinato da
una ragazza, la testa tagliata e fuori quadro era un modo piuttosto
esplicito di rappresentare lo spaesamento del personaggio.
Proprio a partire da questa idea di
spaesamento, come hai lavorato
con gli attori?
90
La collaborazione con gli interpreti dei due personaggi principali del
film, vale a dire la madre e il padre
(ndr: rispettivamente Catalina Sandino Moreno, star del cinema messicano, e Brían F. O’Byrne, interprete
fra gli altri di Million Dollar Baby e
Mildred Pierce) è stata totale. Abbiamo parlato e provato tantissimo
prima e durante le riprese, volevamo capire le ragioni dei personaggi,
volevamo dare una forma visibile
a un dolore che nessuno, nel film,
sarebbe stato in grado di esprime a
parole. Questo perché il lavoro con
gli attori è molto legato all’attenzione, alla concentrazione su quei piccoli momenti in cui una performance può disorientare e perturbare lo
spettatore, portandolo a un livello
più profondo e personale di comprensione. Ci vuole quindi molto
istinto da parte degli interpreti e al
tempo stesso molta preparazione. È
una questione soprattutto emotiva,
non intellettuale, e io sono attratto
da esperienze artistiche che lavorino più sulla visceralità, sull’impulso,
più che sulla costruzione di una narrazione precisa.
Tornando al modo in cui filmi il paesaggio americano, mi viene da pensare che l’unione tra una dimensione intima e una realista sembra sì
omaggiare il mito di quei luoghi iconici, propri del western, del road movie, della frontiera, ma al tempo stesso lo supera, o lo mette da parte per
recuperare invece una dimensione
impressionista. Viene perciò in mente Malick, soprattutto per quei colori
ocra e quegli azzurri quasi strappati
allo schermo. Sei d’accordo?
Devo ammettere che il riferimento
a Malick non era voluto: ma non essendo l’unico che me l’ha fatto notare, evidentemente c’è ed è molto
forte. Non posso che esserne felice,
sia chiaro, ma se dovessi fare il nome
di un regista a cui ho voluto avvicinarmi nella rappresentazione dello
spazio americano, quello sarebbe
Antonioni, che in Zabrieskie Point ri-
usciva a cogliere nel deserto una dimensione tragica e al tempo stesso
impressionistica. Non si aveva l’impressione di vedere un paesaggio da
western, ma si arrivava a capire che
quei luoghi potevano diventare anche qualcosa d’altro. Francamente
spero che questo emerga anche da
Medeas.
Nei paesaggi di Antonioni i personaggi sembravano vivere una dimensione extranaturale, qualcosa
di profondamente solitario e silenzioso. È da un pensiero simile che
potrebbe essere nata l’idea della
madre sordomuta?
La scelta di fare della madre una
donna muta mi serviva per esplorare ancora di più il tema dell’alienazione, dell’incomunicabilità tra
persone. La madre di Medeas è una
figura molto dolce, ha occhi comprensivi e affettuosi: ma è come
se con il suo incolpevole silenzio
finisse per contagiare il resto della
famiglia, condannando tutti quanti,
marito e figli, a una prigione comunicativa prima ancora che fisica o
spirituale. In generale, volevo che
il film fosse come immerso in una
bolla. Ho tolto riferimenti temporali e spaziali precisi, ho sospeso la
percezione del tempo, in modo che
emergesse la sensazione di una
situazione universale e al tempo
stesso specifica.
E Patti Pravo?
C’è Patti Pravo, certo, ma è una
specie di vezzo: è sempre stata
una delle mie cantanti preferite e
attraverso le sue canzoni volevo
rappresentare il desiderio di un
personaggio – Ruth, la figlia adolescente – di fuggire, di immaginare
un altro possibile mito. Se per me
da ragazzino quel mito poteva essere l’America, è normale che per
una ragazza americana possa essere l’Italia…
a cura di Roberto Manassero
ERRANTE
OSSESSIVO
IMPUDICO
Ritratto del regista
Wang Bing
I
n diversi modi può essere considerato lo sguardo di Wang Bing,
un cineasta che fin dal suo esordio
ha declinato il cinema come atto di
uno sguardo che si fa corpo. In Tie
Xi Qu (2003), colossale progetto
dedicato a un distretto industriale nel nord della Cina, non è solo
la libertà con cui la videocamera
si muove tra gli stretti spazi della
fabbrica, combinando dimensione
storica e umana, ma ciò che colpiva, affascinava e al contempo metteva in crisi le regole canoniche
del “guardar documentando” era
la posizione del cineasta rispetto
alla sua materia. Wang Bing si sente un cineasta del popolo: non ha
problemi a mettersi tra le persone,
filmando al loro stesso livello. Non
ha problemi a entrare in camere
chiuse, a seguire gli uomini nella doccia o ad accompagnarli fin
dentro la loro umile casa. L’atto di
filmare è in se stesso significante.
Non ha bisogno di giustificazioni.
Se lo si guarda attraverso la lente
del cinema moderno, quel cinema
in cui il viaggio è un elemento centrale e il regista si sente in dovere
di giustificare la sua posizione di
viaggiatore (per evitare di essere
confuso con un turista o peggio
con un voyeur), tutti i film di Wang
Bing creano problemi. Se invece
si accetta il fatto che il regista appartiene a un altro orizzonte culturale ed epistemologico (non è
un caso che Wang Bing provenga
da studi di arte plastica e che da
sempre il suo strumento sia una
videocamera), il suo lavoro produce degli spaccati di una forza
incomparabile.
Come accade con il suo coetaneo
Jia Zhang-ke, Wang Bing ha l’a-
bilità di saper ritrovare la Storia
nelle parabole individuale o nei
microcosmi che affronta. In Tie Xi
Qu è la fine della classe operaia a
essere raccontata; in He Fenming
(2007) – lancinante testimonianza
di una donna il cui marito è stato
deportato nei campi di lavoro – il
passato di un paese si fa parola
e – attraverso questa - acquista
un’immagine che il regime ha negato (da questa testimonianza
nasce il progetto di finzione The
Ditch, 2010). Ciò che però caratterizza la narrazione di Wang Bing è
senza dubbio il suo lavoro sul tempo. Non solo i suoi film eccedono
di norma la misura di un lungometraggio classico, ma includono
procedimenti narrativi e soluzioni
che sono usati della serie tv (vedi i
capitoli di Tie Xi Qu) e li contamina
con altri che derivano dal mondo
delle installazioni (vedi la fissità di
He Fenming). Il tempo non è solo
la tela che regge le inquadrature,
ma è il tessuto con cui Wang Bing
costruisce i suoi racconti. Questa
sensazione è dominante in Feng
Ai (2013), ritratto agghiacciante di un ospedale psichiatrico,
dove sono detenuti tanto malati
reali quanto persone indesiderate. Sfruttando le limitazioni
spaziali imposte – un piano solo
dell’edificio, costituito da tante
camere prive di arredo e dunque indistinguibili – Wang Bing
dà corpo a un film che si proietta
in un “tempo senza tempo”. In
quella che potrebbe letta come
una “pura durata”; di qui la scelta
di allungare ancora di più le inquadrature, giocando su evidenti
effetti di accumulo e ripetizione.
Mettendo in evidenza la circola-
rità del luogo, l’edificio si dispone attorno a un cortile centrale,
Feng Ai finisce per assomigliare
ad un girone dantesco, dove le
azioni e i personaggi oltrepassano il dato realistico e acquistano
un valore simbolico. Il cinema
secondo Wang Bing è un’arte che
deforma la realtà e, presentandola nelle sue “estremità”, finisce per simboleggiarla. Il cinema
di Wang Bing è erratico e profetico. Al viaggio sostituisce l’erranza, il seguire apparentemente
senza meta personaggi o linee di
fuga altrimenti non definibili: il
percorso di un treno (Tie Xi Qu), il
vagare di un malato (Feng Ai), le
svolte di una parola che ricorda
(He Fenming). Così facendo la visione finisce per acquistare una
dimensione che eccede la narrazione per diventare visionarietà.
I detenuti nell’ospedale sprofondati nelle loro coperte nere,
ricordano le anime che spuntano
dai sepolcri nella visione dantesca. In questo senso Feng Ai è
il film che meglio evidenzia una
tensione propria di tutti i film di
Wang Bing, il suo diventare visionario a furia di immergersi nel
reale. Guardando a come Wang
Bing abbraccia il digitale e della
sporcizia e imperfezione ne fa un
proprio dogma, viene in mente
la lezione di Vertov, quel cineocchio mobile. che guarda la città e ne rappresenta l’anima. Alle
soglie del XXI secolo il cinema
non ha più una città da guardare;
così Wang Bing resta tra le rovine
a domandarsi dove sia finita l’anima del suo popolo.
Carlo Chatrian
FOLLIA
E AMORE
VENEZIA
Conversazione con Wang Bing,
Venezia 2013
Visione spiazzante e folgorante
della 70esima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Feng Ai
(Til Madness Do Us Part) di Wang
Bing ci immerge nella vita quotidiana di alcuni degenti di una
clinica psichiatrica dello Yunnan:
uomini dallo sguardo spento, i
corpi nervosi dentro abiti lacerati, voci lamentose che procedono
per nenie e frasi interrotte. Gli
internati trascorrono le loro giornate nelle brande sporche, avvolti
in lenzuola che li trasformano in
larve: ogni stanza affaccia su un
ballatoio, spazio comune, luogo
del potere e dell’azione impossibile. Lungo il corridoio, girone infernale che, non a caso, è sfruttato
all’imbrunire e nelle lunghe notti,
si svolge il rito giornaliero della
somministrazione delle medicine,
violento e assoluto, reiterato nella
sua efficiente banalità contro cui
il regista non può nulla se non lasciarci queste riprese testimoniali.
D’altra parte, sul ballatoio inizia
anche la speranza che qualcosa
possa resistere, come la corsa folle di un paziente inseguito dalla
telecamera nelle sue ronde scatenate attorno a quel cerchio che lo
esclude dalla vita e dalla libertà.
Proprio alla ricerca di questi lacerti di umanità si dirige lo sguardo di
Wang Bing, che modula la denuncia verso uno stato di detenzione
(pericolosamente simile ai campi
di lavoro sotto Mao, raccontati nel
suo film di finzione The Ditch) con
la sorprendente resistenza dell’umano, con i suoi desideri e il suo
bisogno di ricevere e donare amore. In un film di quasi quattro ore,
progressivamente fa capolino tra
le mura della segregazione anche
la società, una moglie vendicativa
e un ragazzo timido, e poi arriva
persino il mondo, nell’insperata
uscita di uno dei pazienti, che tornando al paese si ritroverà in uno
stato di alienazione, rilanciando la
questione da una dimensione politica a una ontologica. Un uomo
si perde all’orizzonte, senza che
lo si possa accompagnare nell’oscurità che sta attraversando: la
solitudine della condizione umana, dettata dalla diversità o da un
piccolo atto di rivolta contro il sistema (come svela il cartello finale
del film), si informa nella precaria
immagine digitale, imperfetta e
tremolante che è ormai la marca
di questo anomalo cineasta. Preciso e lancinante nel restituirci un
ritratto della Cina come universo
concentrazionario, imperfetto e
aperto nel saper accogliere la bellezza che si conserva nei più semplici gesti umani.
D.P.
93
Quando ha scelto di girare un film
sui manicomi in Cina? E come è
riuscito ad ottenere i permessi per
realizzarlo?
La prima volta che ho messo piede
in un ospedale psichiatrico risale a
dieci anni fa, gironzolavo per Pechino e mi sono imbattuto in una
struttura simile. Ho subito pensato che mi sarebbe piaciuto girare
un film, ma il rifiuto totale a farmi
entrare con una telecamera mi ha
fatto procrastinare il progetto fino
a oggi. Quello che avevo visto in
quel lontano pomeriggio continuava a tornarmi in mente: era
una storia che dovevo raccontare.
Nove anni dopo, un mio amico dello Yunnan (a cui avevo raccontato
questa idea), mi chiama per dirmi
che ha trovato un modo di farmi
entrare in una struttura simile. Infatti conosceva un medico che era
stato trasferito da poco nella clinica: una fortuna, perché soltanto
una persona del genere avrebbe
potuto farci entrare con una telecamera. Una doppia fortuna perché quel medico era una persona
sensibile, capace di comprendere
il mio progetto, era anche lui allibito della condizione in cui versavano i pazienti e ci ha incoraggiato
a portare a termine il documentario per dare visibilità a questa situazione.
Il film si apre subito a una dimensione simbolica potente, evocata
fin dall’architettura del ricovero: richiama alla memoria un girone infernale. Ma è estremamente potente anche come immagine-mondo:
un cortile su cui affacciano tante
finestre, che nascondono e svelano
quello che accade. La scelta del luogo dunque non è stata cercata?
Come ho detto sono arrivato lì per
via del medico, ma devo dire che
questa struttura architettonica è
identica in tutta la Cina. Ci sono
due tipi di posti in cui vengono
tenuti i pazienti instabili mentalmente: i primi sono degli ospedali,
poco interessanti come luoghi, i
secondi sono queste cliniche, che
grazie alla loro pianta diventano
dei luoghi ideali per rappresentare uno stato di reclusione e sottomissione.
Feng Ai, il film segue questo binomio: avrebbe subito scommesso
che anche in questa situazione in
cui gli uomini sono ridotti a larve
resista una grande umanità?
Il titolo, che ho scelto io nella versione cinese (mentre ho affidato
ad altri la traduzione inglese), è la
mia ipotesi di partenza: anche nella follia resiste l’amore, il nostro
sentimento più alto. Non vorrei
infatti che si interpretasse l’amore come nell’accezione comune,
l’amore tra un uomo e una donna, e ci terrei a chiarire che quel
sentimento che appare nel finale
tra due uomini non è un rapporto
omosessuale, bensì l’amore nella sua accezione più essenziale, il
contatto fisico con l’altro. Gli uomini che sono internati da anni in
queste cliniche ricercano qualcuno da stringere, qualcuno con cui
dormire: hanno bisogno di uscire
dall’alienazione attraverso un rapporto umano.
Entrare in una clinica con una videocamera, implica trovare un rapporto con la realtà difficile che si ha
di fronte. Come è stata questa ricerca della propria posizione?
Lo spazio all’interno della clinica
era estremamente ristretto e all’inizio mi sono trovato a disagio:
non sapevo che distanza tenere,
quasi fosse il luogo a dettarmi
delle inquadrature e non io a sce-
94
glierle. L’ambiente era affollato, tra degenti
e infermieri, noi ci trovavamo sempre persone da tutte le parti, la confusione non
mi aiutava a trovare un’idea di cinema e
ho avuto paura. Soltanto dopo dieci giorni ho iniziato ad ambientarmi, a trovare
il giusto modo per stare il quel posto, la
maniera per interagire con le persone. Da
quel momento ho iniziato a scegliere i
miei personaggi.
Come documentarista ho chiaro che è la
mia presenza a costruire il film, paradossalmente trovo che il segno dell’autore
sia più marcato nel cinema del reale che
non nella finzione. Al contempo, quando
giro i miei film, cerco di non disturbare la
realtà, non mi piace intralciarla, provocarla o interromperla: alcune reazioni delle
persone che riprendo possono essere causate dalla mia presenza, ma cerco di andare sempre aldilà. Per questo uso delle
inquadrature lunghe, in cui a poco a poco
chi mi è davanti dimentica la mia presenza ed è spinto a superare il suo essere un
personaggio. Quando ho iniziato a girare
il film pensavo potesse durare 150 minuti,
poi mi sono reso conto che questa storia
aveva bisogno di un tempo più ampio per
far entrare gli spettatori nella particolare
dimensione di queste cliniche e, in effetti,
al montaggio sono arrivato a 210 minuti.
Quale rapporto si è instaurato con i pazienti?
Ho scelto quelli che erano più incuriositi
dalla mia presenza nella clinica, con alcuni
di loro si è instaurato un rapporto umano
molto forte. Nella maggior parte dei casi
mi vedevano come uno sconosciuto, venuto da Pechino. All’inizio alcuni avevano
un po’ di timore nei nostri confronti, altri
sembravano poco interessati a quello che
stavamo facendo: solo un paziente ci ha
attaccato in maniera aggressiva mentre lo
riprendevamo, il mio operatore è rimasto
ferito ma l’uomo si è subito pentito del suo
gesto ed è venuto a chiederci scusa (l’episodio non è inserito nel film, n.d.r.). Poi
siamo diventati una presenza discreta, che
si teneva alla giusta distanza per diventare
invisibile.
Ha più volte parlato di «storia» da raccontare e in effetti l’uscita improvvisa di un paziente nella seconda parte del film offre una
svolta drammatica potente.
Ho sperato fin dall’inizio che almeno un
paziente venisse dimesso, c’erano delle
buone possibilità che in tre mesi di nostra
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permanenza questa eventualità si verificasse. E, in effetti, così è stato.
Per me l’uscita dalla clinica rappresentava una liberazione, andare incontro alla
società, ritornare alla vita e agli affetti.
Ma ho scoperto che la mia posizione era
idealista. Quando il paziente è uscito, e
noi lo abbiamo seguito, abbiamo dovuto
costatare che la sua vita nel paese d’origine era totalmente priva di convivialità,
la sua famiglia non lo aspettava e non ha
avuto alcuna reazione quando lo ha visto
arrivare. Lui trascorreva le sue giornate
da solo, dormiva, leggeva, andava in giro.
Era isolato nel mondo così come nella clinica. Mi sono sentito impotente: pensavo di poter trovare una facile via d’uscita
alla storia che stavo raccontando e invece ho capito che dovevo tornare dentro
quelle stanze sporche e cercare lì il mio
finale.
Per me il cinema è il materiale video che
agisce su corpi e paesaggi, li informa cercando di renderne manifesta la loro bellezza. Questa convinzione è stata confermata nel mio soggiorno in manicomio: gli
uomini, seppur ridotti a uno stato primordiale, resistono e sperano. I corpi sono
spesso celati dai lenzuoli e dalle coperte,
da vestiti sporchi e informi, eppure non
perdono la propria umanità. Un momento
magico nel film è quando uno dei degenti
si mette a inseguire una mosca, si accorge che lo sto filmando e quindi continua
in questa sua lotta contro l’insetto. Ma la
mosca ormai è sparita, resta soltanto il
suo gesto reiterato, così bello da sembrare una danza. Ho pensato che quell’uomo,
distrutto nel fisico e nello spirito, stesse
iscenando per me una recita, elegante e
magnifica quanto il teatro kabuki. La magia del movimento, l’essenza della vita.
Difficile immaginare una diffusione in
Cina di questo film, come arriverà al pubblico cinese?
Come tutti i miei film, anche questo sarà
diffuso grazie a dvd pirata. È una maniera efficace per raggiungere un pubblico
metropolitano, di tutte le età. In molti
sostengono il mio lavoro e mi scrivono
dopo aver visto i miei film. Questo mi
spinge ad andare avanti: faccio film prima di tutto per la mia società, anche se è
stato decisivo l’appoggio europeo per la
diffusione del mio cinema.
a cura di Daniela Persico
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