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"Canti orfici" di Dino Campana - amcozzapoesie

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"Canti orfici" di Dino Campana - amcozzapoesie
«CANTI ORFICI»
DI DINO CAMPANA
di Alberto Asor Rosa
Letteratura italiana Einaudi
1
In:
Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere
Vol. IV.I, a cura di Alberto Asor Rosa,
Einaudi, Torino 1995
Letteratura italiana Einaudi
2
Sommario
I.
GENESI E STORIA.
5
1.
«Ma questo Campana [...] è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò “Te deum”».
5
2.
«Io sono un povero diavolo che scrive come sente».
13
3.
«Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari.
Sono molto modesto e non vi domando, amici, altro segno che il gesto. Il resto non vi riguarda».
19
«Ricevo io sottoscritto dal Sigr. Bandini Luigi fu Paolo la somma di lire centodieci (110) come
caparra per la stampa di 1000 copie del libro ‘Canti orfici’ del Sigr. Dino Campana [...]».
21
5.
Sfortunato, in vita e in morte.
22
6.
Scoperte e riscoperte.
23
6.1.
«I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno | potrà sembrare tutta robetta da fiera».
24
7.
Edizioni e commenti. Stato del testo.
27
II.
STRUTTURA.
28
1.
Il «libro».
28
2.
Il titolo.
29
3.
Sottotitolo e dedica.
30
4.
I testi.
32
5.
Il «colophon».
36
4.
Letteratura italiana Einaudi
3
6.
La «partenza» e il «ritorno».
37
III.
TEMATICHE.
38
1.
La notte e il canto.
38
1.1.
Mitico/mistico.
41
2.
Il poeta e la poesia.
44
2.1.
L’Eros.
47
3.
I luoghi e il viaggio.
49
3.1.
La poesia e il Cosmo.
51
IV.
MODELLI E FONTI.
51
1.
La tradizione poetica italiana recente.
52
2.
«L’idea simbolista».
54
3.
Gli anglo-sassoni.
58
4.
Dantismi e stilnovismi.
59
5.
Iconografia mentale.
60
6.
Un poeta all’avanguardia.
61
V.
UN PONTE SULL’INFINITO.
63
1.
«Visionario-visivo».
63
2.
«Armonia/melodia».
64
2.1.
2.2.
2.3.
Ritmi, movimenti, ripetizioni.
Il «panorama» scheletrico del mondo».
Colori e musica.
66
67
68
3.
I linguaggi del “moderno”.
72
3.1.
3.2.
3.3.
Simultaneità psichiche, rivoluzioni temporali.
Sogno e inconscio.
Le nuove tecnologie.
73
74
75
4.
«Una goccia d’acqua, una sola goccia».
77
VI.
NOTA BIBLIOGRAFICA.
80
Letteratura italiana Einaudi
4
I.
GENESI E STORIA.
1. «Ma questo Campana […] è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò
“Te deum”».
Quel nulla, cui Carlo Michelstaedter era pervenuto alla conclusione di un travagliato e doloroso percorso interiore, Dino Campana lo portava con sé, fin dall’inizio della sua avventura poetica ed umana, qual frutto di un turbamento psichico, che i casi della vita e la sua stessa sfortunata carriera letteraria non avrebbero fatto che accentuare. E quando scrivo: nulla, intendo, da una parte, una
più o meno conscia tendenza autodistruttiva, dall’altra, una spiccatissima, quasi abnorme sensibilità per le esperienze profonde ed essenziali, per quella ricerca del quid ultimo, che, come tutti sanno, in quanto coincide appunto con l’“ultimo”, mette capo subito dopo ad una sorta di rischioso dialogo con… appunto, il niente, il vuoto primigenio o, se si preferisce il vuoto finale.
Dire questo, tuttavia, e riconoscere che esiste in Campana un certo nesso
tra la sua personalità umana e morale e lo “stato” del suo cervello, – ovvietà, del
resto, che vale un po’ per tutti gli scrittori di questo mondo, oltre che, in maniera forse ancor più vistosa per personaggi del calibro di Hölderlin, Lautréamont e Esenin, – non significa affatto riconoscere legittimità alla tesi sciagurata
e purtroppo ampiamente diffusa che individua un nesso necessario e necessitante, nell’opera di Dino Campana, tra “poesia” e “follia”. Ha fatto più male alla
comprensione dell’opera di Dino Campana la vasta e fortunata affermazione
del mito di lui come “poeta pazzo” e “maledetto” di quanto Campana non sia
riuscito a farsene con le sue stranezze. Cercherò di dimostrare al contrario che
c’è tanto buonsenso e “logica letteraria” nella sua opera almeno quanto ce n’è
nella ricerca dei più paludati ed intellettuali poeti borghesi e, quel che più importa, che l’autore ne era perfettamente cosciente.
Del resto, la stessa citazione in epigrafe, che è di uno dei primi e meglio
disposti lettori dei Canti Orfici, e cioè Giovanni Boine, voleva intendere qualcosa di un po’ diverso da ciò che sembra. Boine, infatti, aveva rilevato nelle righe precedenti della sua recensione ai Canti Orfici (poiché di questo si trattava) che
c’è in giro per l’arte contemporanea (compresa l’italiana, parlo dell’italiana) un fermento d’esaltazione come un’ansia di novità e d’anarchia, un tumore di angoscia
che cerca sfocio. […] Ma c’è anche ed assai più la preoccupazione di metterlo in
mostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla rettorica dell’espressione [...].
[E] c’è infine gente che finge la libertà essendone dall’intimo schiava sprovvista; e poi-
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5
«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
ché s’è persuasa dell’ovvia verità sopra enunciata che la poesia è dei pazzi più pazzi, si
finge dunque per pazza e lo fa con scioltezza1.
Ecco dunque che definire Campana «un pazzo sul serio», significava riconoscergli un’autenticità e una verità rare in quei tempi (e non solo in quelli), di cui
bisognava esser grati al Signore. Resta il sospetto che anche in Boine, come in tanti altri dopo di lui, l’individuazione del rapporto tra caratteri della poesia e stato
psichico morboso dell’autore comportasse una sorta di limitazione nel giudizio,
indotta precisamente da quello. Infatti, la formulazione completa della sua frase
suonava in questo modo: «Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo parlare, questo che di elementare ed ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suo
stile (non l’ha cancellato), è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò Te deum»2.
Siamo, – nonostante l’innegabile acutezza dello ‘‘scopritore”, – agli antipodi di
una giusta impostazione nella lettura di un’opera indubbiamente singolarissima
come i Canti Orfici.
Io penso infatti che le eventuali “stranezze” del testo non siano commensurabili a quelle, puramente comportamentali, del suo autore empirico, biografico.
Esse rispondono invece ad una logica letteraria, che va giustificata in quanto tale.
Ricorrerò perciò ad una lettura fondamentalmente interna del testo per chiarire la
natura di certe scelte tematiche e stilistiche.
Non nego, naturalmente, che per raggiungere determinati effetti fossero importanti, forse decisive, certe condizioni della “visione”. Per esempio, una certa
forsennata esasperazione della dimensione metaforica e coloristica, un “occhio”
particolarmente allucinato e penetrante, potrebbero essere collegati ad una condizione psichica, per così dire, “fuori del comune”. Ma anche questo, come cercherò di mostrare, fa parte di una vera e propria regolamentazione dei rapporti
psichici, che stanno alla base della creazione della poesia europea moderna già in
area simbolista e, a miglior ragione, in quella post-simbolista: quando l’anormalità psichica non esiste in partenza, si fa ogni sforzo per “indurla” volontariamente e programmaticamente. Su questa base, – che è scientifica e non impressionistica, né moralistica, – si potrebbe fondare un’eventuale storia dei rapporti tra
poesia e, per così dire, “psichismo deviato” nell’età moderna e contemporanea.
La follia, infatti, non è che una delle tante forme possibili della “diversità”: se sopprimiamo la «diversità», sopprimiamo tre quarti della poesia europea tra metà
dell’Ottocento e giorni nostri (esiste anche, com’è noto, una vera, autentica poesia della “normalità”, particolarmente fiorente in Italia).
1 G. BOINE, Plausi e botte, in ID., Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano
1983, p. 203.
2 Ibid., pp. 203-4, c.n. (c.n. sta per «corsivo nostro»).
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
L’unico modo d’affrontare la biografia di Dino Campana è dunque quello di
non considerarla il prodotto di una necessità assoluta, di un “destino fatale”, prodotto dal germe di follia, che probabilmente, come capita, s’annidava nel suo cervello (come del resto in quello di molti di noi: cosa saremmo e come faremmo
senza?) Gli elementi di “libertà”, – le scelte esistenziali fondamentali, la cocciuta,
commovente vocazione letteraria, la passione per i viaggi e dunque per la conoscenza, – sono decisamente prevalenti in lui su quelli di un fato meschinamente
costrittivo, o quanto meno s’intrecciano profondamente con questi. Può darsi che
il ragazzo (poiché anche in questo caso di un ragazzo si tratta, di una giovane vittima predestinata e infelice) fosse poco “ordinato”, ma sapeva esattamente quel
che voleva. Certo, era estremamente vulnerabile. Ma questa “vulnerabilità”, – nel
senso proprio del termine: d’essere purtroppo disponibile al vulnus, – è già un dato intrinseco alla sua ispirazione poetica, ne costituisce uno dei tratti più caratterizzanti: possiamo forse dire che la sua poliformità e polifonicità traggono origine
da una innata predisposizione a ricevere ed assorbire “colpi”, – in ogni senso, – e
di conseguenza a restituirne (almeno qualche volta).
Un’ultima osservazione prima di fornire le scarne notizie biografiche, che
penso possano servire di più alla comprensione del suo percorso. Uno scrittore
e ricercatore argentino, Gabriel Cacho Millet, ha curato e allestito negli ultimi
anni due volumi, che costituiscono degli utilissimi strumenti di lavoro per gli
studiosi di Campana, intitolati rispettivamente Souvenir d’un pendu3 e Dino
Campana fuorilegge4. Nel primo sono raccolte pressoché tutte le lettere di Campana, numerose lettere di corrispondenti a lui dirette e testimonianze edite e
inedite riguardanti la carriera letteraria del poeta; si tratta, in sostanza, del Campana che ha avuto a che fare con il mondo della letteratura e della poesia e che
ne ha ragionato, anche in stretto rapporto, ovviamente, con la sua vicenda esistenziale. Nel secondo, invece, è raccolta la documentazione relativa alle sue avventure, – e disavventure, – biografiche, la chiamata alle armi, i ricoveri manicomiali, i referti psichiatrici, le varie informative della polizia italiana e straniera su di lui, i “fogli di via”, ecc.
3 D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931, con documenti inediti e rari, a cura di G. Cacho Millet, Napoli 1985 (il titolo, ricavato da una poesia di François Villon, è preso da una dedica dello stesso Campana al
poeta triestino Dario De Tuoni: ibid., p. 9).
4 G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge, Palermo 1985. Nella introduzione a questo volume, il Cacho
Millet, pur così benemerito degli studi campaniani, forse volendo dire altro, ripete a carico del suo autore uno dei più
vieti luoghi comuni che lo abbiano mai riguardato: «Nelle sue poesie e nelle sue novelle poetiche non esiste nulla di
programmato. Egli è poeta per caso, e ha scritto versi e novelle come avrebbe potuto esser vice-commissario di Marradi, o pompiere, o attore di teatro. Così i Canti Orfici non sono altro che brandelli di esistenza arsi dal fuoco della
poesia che l’orfico e selvaggio marradese non sempre riuscì a sublimare in opera d’arte, come poeta “di professione”»
(ibid., p. 12). E pensare che l’unica cosa che Campana aveva voluto essere era “poeta”.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Ebbene, di 182 “pezzi” raccolti in Souvenir d’un pendu, soltanto undici
precedono la stampa dei Canti Orfici (1914); in Dino Campana fuorilegge, in
maniera pressoché perfettamente rovesciata, su centodue documenti presenti,
ben settantadue precedono l’uscita dei Canti Orfici. Questo vuol dire, in sostanza, che prima della comparsa del suo libro Campana non esiste, letteralmente non esiste né come poeta né come letterato, ma esclusivamente come
“povero diavolo”, la cui biografia è ricavabile soltanto da una nuda elencazione di scritture burocratiche (tutte inerenti, per giunta, per usare una terminologia aggiornata, alle cosiddette “istituzioni totali”: scuola, esercito, manicomio, pubblica sicurezza).
Tenendo conto di questa osservazione, si potrebbe dire che la biografia di
Campana si divide in tre segmenti, assai diseguali fra loro: il primo, fino all’uscita dei Canti Orfici, pieno di “dati” biografici ma scarso di “eventi” letterari:
il secondo, dall’uscita dei Canti Orfici al definitivo ricovero manicomiale (19141918; è questo il periodo in cui Dino Campana si agita ai margini del mondo letterario, ha una corrispondenza abbastanza fitta con poeti, letterati ed artisti, si
arrabatta per emergere ed ha la sua grande, travolgente storia d’amore con Sibilla Aleramo); il terzo, tra il definitivo ricovero nel manicomio di Castel Pulci a
Badia a Settimo, vicino Firenze, e la morte avvenuta in quello stesso stabilimento psichiatrico per una setticemia (28 gennaio 1918-1° marzo 1932; il periodo
della grande reclusione e del grande silenzio, da cui ci sono pervenuti soltanto
alcuni messaggi intermittenti e indiretti)5. Il problema, dunque, di chi si proponga di analizzare e interpretare i Canti Orfici è che, a rigore, se si dovesse stare alla cronologia degli avvenimenti e della documentazione e si restasse quindi,
almeno fondamentalmente, all’analisi del primo periodo, non si avrebbero a disposizione che certificazioni manicomiali e avvisi di polizia, per arrivare a capire come il poeta pervenga all’ideazione e alla stesura dell’opera. Motivo di più
per fare riferimento alla storia interna dei testi, che invece è possibile. In ogni
caso userò, sia pure con discrezione, la documentazione epistolare 1914-18 e
qualche suggestione ricavabile dall’ultimo e definitivo periodo manicomiale,
per capire a quale sistema di idee e a quale corredo culturale il poeta si sia rifatto per scrivere la sua unica opera: operazione legittimata anche dal fatto che
buona parte delle sue dichiarazioni successive sono volte a spiegare e giustifica5 Un medico psichiatra, di nome Carlo Pariani, ebbe a visitarlo a lungo, attratto dal fascino promanante dai suoi
Canti Orfici recentemente ristampati da Bino Binazzi (1928), ponendogli domande sul suo passato e sulla sua opera, e
diede conto di queste conversazioni in Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore,
Firenze 1938. L’opera, tenendo conto dei limiti culturali e ideologici dell’autore, è ancora utile. Ne sono state fatte numerose ristampe, di cui la più recente, e dunque la più facilmente consultabile, è: C. PARIANI, Vita non romanzata di
Dino Campana. Lettere scelte (1910-1931), a cura di T. Gianotti, Firenze 1994.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
re natura e genesi dei Canti Orfici e che comunque il segmento temporale dentro cui l’intera vicenda dell’opera si svolse è assai breve: cinque, sei anni in tutto – e poi chiusura.
Dino Campana era nato a Marradi, paese della provincia di Firenze, ma collocato su quel versante dell’Appennino che digrada verso le Romagne, il 20 agosto 1885 (lo stesso anno di Palazzeschi e Rebora, – e di Esenin)6. La doppia natura, tosco-romagnola, è del tutto evidente nella sua opera e assai importante per
capire la formazione della sua sensibilità.
La sua famiglia, – il padre Giovanni, maestro, la madre Fanny Luti, donna
di casa e benestante, – apparteneva a quella piccola o piccolissima borghesia di
provincia, che proprio in quel momento in Italia partecipava anche senza saperlo di un più vasto moto ascensionale. Il fratello di Dino, Manlio, ad esempio, divenne un rispettabile e autorevole avvocato; lo stesso Dino fece studi regolari nelle scuole di Faenza, conseguendo infine la licenza liceale presso il Collegio Bresso di Carmagnola, dove aveva frequentato con scarso profitto l’ultimo anno (1903).
Va sfatata, dunque, la leggenda sempre su di lui gravitante di un’origine
umile e di un’educazione del tutto autodidattica e irregolare. Va invece attirata
l’attenzione su certe sue caratteristiche comportamentali, che possono aiutare a
capire taluni aspetti della sua poesia. È vero che, abbastanza precocemente (intorno ai quindici anni), in famiglia si cominciano a lamentare le sue “stranezze”,
consistenti soprattutto nell’atteggiamento aggressivo verso la madre e nella tendenza a sottrarsi il più possibile al controllo famigliare. C’è da chiedersi però se
ad una psichiatria post-basagliana gli indizi denunciati sarebbero sembrati sufficienti a pronunziare una diagnosi tanto grave da aprirgli assai presto le porte
del manicomio.
Valga per tutte la lettura della “modula informativa”, a firma del dottor V.
Mercatali, con la quale il Comune di Marradi, in data 5 settembre 1906, rivolgeva
domanda al Tribunale per l’ammissione coatta di Dino nel Manicomio di Bologna
in Imola. Tra le “notizie storiche”, che accompagnavano tale richiesta, troviamo le
seguenti precisazioni, davvero prodigiose:
Se l’individuo sia stato altre volte affetto da pazzia o qualunque altra infermità: Mai affetto da pazzia o d’altra malattia. – Cause fisiche e morali: Dedito al caffè del quale è avidissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo. – Epoca e modo di sviluppo della pazzia, se
intermittente o continua: Cominciata circa ai quindici anni alternata da periodi di eccita6 Esistono varie biografie del poeta. La più aggiornata e documentata è: G. TURCHETTA, Dino Campana. Biografia di un poeta, Milano 1990.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
bilità e misantropia quasi continua in forma non grave tanto da permettergli il proseguimento degli studi. – Manifestazioni sintomatiche attuali tanto fisiche che psichiche della pazzia: Esaltazione psichica – Impulsività e vita errabonda. – Cura pratica: Nessuna cura praticata. – Diagnosi della forma di pazzia e, se è possibile, della natura di essa: Demenza precoce? – Dichiarazione delle ragioni per le quali il medico sottoscritto ritiene
necessaria la custodia e cura del mentecatto in un manicomio: Per toglierlo dai pericoli
del suo stato impulsivamente irritabile e per la sua vita errabonda che lo potrebbe esporre
a gravi pericoli e per le cure necessarie in Manicomio7.
Anche un lettore totalmente ignaro di faccende e regolamenti psichiatrici
non avrebbe difficoltà a riconoscere, nella diagnosi del dottor Mercatali, – pronunziata, non dimentichiamolo, a carico di un individuo che in quel momento
aveva solo ventun’anni, – la presenza colpevolizzante di due fattori comportamentali, che nel nostro autore hanno indubbiamente una rilevanza notevole, e
cioè una certa irregolarità di condotta (ma, Dio mio, possibile che la passione per
il caffè anche nella Marradi dei primi del secolo fosse considerata l’anticamera
della follia?) e una incoercibile tendenza al nomadismo. Con chiarezza non dissimile, del resto, il Pariani riassumeva le cause che avrebbero condotto Campana
per la prima volta in manicomio nel seguente elenco: «il mutamento del carattere,
la perversione affettiva, i facili eccitamenti, gli impulsi errabondi, l’indipendenza
dagli atti della ragione»8: se ne potrebbero trarre considerazioni di molto analoghe a quelle precedenti.
Ignoriamo se i due aspetti del carattere sopra segnalati siano forieri di schizofrenia. Constatiamo che, quando il Comune di Marradi inoltra per la seconda
volta, nell’aprile 1909, una richiesta di ammissione per Campana nel Manicomio (questa volta di Firenze: San Salvi), le motivazioni non sono molto cambiate, con una maggiore accentuazione, forse, dell’elemento dell’aggressività e pericolosità («Il malato è oltremodo trascurato in famiglia ed in società, tanto da
attirare l’attenzione dei ragazzi che l’incontrano per le strade. Ha un odio speciale colla sua mamma, che è dovuta andar via di casa. È pericoloso specialmente dopo eccessive libagioni. Ripetutamente ha minacciato varie persone sia in
luoghi pubblici, sia nella pubblica via»)9 che, quando viene ricoverato nell’Asyle des hommes aliénés a Tournay in Belgio, tra il febbraio e il giugno 191010 dopo aver trascorso sessanta giorni nella prigione di Saint-Gilles a Bruxelles, lo
psichiatra che lo aveva avuto in cura, a felice testimonianza dell’uniformità di
7
G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., pp. 44-45.
C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 25.
9 G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., p. 61.
10 A questa esperienza fa riferimento il brano Il Russo, nei Canti Orfici, per i quali si veda: D. CAMPANA, Canti
Orfici, introduzione e commento di F. Ceragioli, nuova ed. Milano 1994 (19953), pp. 189-95.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
criteri che governavano allora la medicina in Europa, individua in lui sintomi di
«Dégénerescence mentale. Caractère déséquilibré [...] tendance à la paresse
[…] au café, […] à l’alcoolisme»11.
Ora, se si prescinde dalla “degenerazione mentale”, singolare in un uomo che
proprio in quel momento stava covando i Canti Orfici, il “carattere squilibrato”,
la «tendenza alla pigrizia, al caffè e all’alcoolismo» (succedanei, evidentemente, di
droghe più potenti, in quel momento sconosciute o poco usate), rientrano perfettamente nel quadro in precedenza tracciato (rilevo che, nella sintesi di Pariani,
l’atteggiamento definito «indipendenza dagli atti della ragione» s’inquadra benissimo nelle procedure d’esclusione più abituali a qualsiasi istituzione, in primo
luogo, ovviamente, quella psichiatrica: ma anche sul tema della “ragione” dovrò
tornare più avanti).
Dunque, facciamo un passo indietro. Io, la vicenda umana di Campana me la
immagino così: carattere irrequieto, instabile, insofferente alle regole famigliari e
civili; la famiglia e Marradi gli appaiono presto un carcere da fuggire (ma, fuggendone, come s’è detto, gli capitò d’imbattersi in altre forme di reclusione, come
ad esempio quella del collegio): del resto, dietro ogni grande scrittore della provincia italiana c’è una Recanati, e la Recanati di Campana fu Marradi, tanto più
crudele, sorda e persecutoria di quanto la condizione di Dino era inferiore, più
misera e meno protetta di quella del contino Giacomo.
Gli studi universitari, – si era iscritto nel 1903-904 a Chimica a Bologna, e poi
nel ’13 a Genova, – sbagliati nella sostanza e nella destinazione, non gli aprirono
nessuna nuova strada (non li portò mai a compimento)12; la fuga nel mondo, –
una fuga errabonda ed instabile anch’essa, piena d’inquietudini e di violenza, – si
conclude ogni volta con il ritorno a Marradi, prigione ma anche culla irrinunciabile della sua infanzia e della sua adolescenza; l’«eterno errante», come straordinariamente ebbe a definirsi13 lo stesso Campana, non era destinato a trovar requie
in nessun porto; e ad ogni ritorno la sua situazione sarebbe diventata peggiore, innestando una spirale senza fine di provocazioni, violenze e nuove provocazioni.
Siccome ci fidiamo più di lui che degli psichiatri che lo ebbero in cura, riteniamo
verosimile la descrizione che di questa situazione chiusa e senza sbocco egli diede
in una lettera a Emilio Cecchi, presumibilmente del marzo 1916:
11
G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., p. 74, c.n.
Molto assennatamente il poeta dichiarerà al Pariani: «Non riuscivo affatto a studiare chimica. Non avevo memoria. Ci vuole precisione. Ci vuole una passione speciale: io non avevo né precisione, né passione. Così trascuravo il
laboratorio di chimica. Fu uno zio che mi suggerì di studiare chimica. Io accettai senza pensarci, per inconsideratezza» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 42).
13 D. CAMPANA, Pampa, in ID., Canti Orfici cit., p. 185. Da questo momento in poi le citazioni dai Canti verranno date con il titolo del componimento seguito dal numero della pagina.
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Letteratura italiana Einaudi
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Quelli del mio paese che mi avevano sempre perseguitato con una infamia e una ferocia
tutte lazzaronescamente italiane e clericali, risultando che io non ero altro che un avanzo di galera perché varie volte ero stato rimpatriato pidocchioso e stracciato (sfuggivo
le loro infamie) mi fecero fare dalla polizia una persecuzione che mi impedì di continuare. Dicevano che ero anarchico pericoloso, che volevo uccidere il re, i professori
ecc. Provai a cambiare Università. Ma a Genova fu peggio […]14.
E più tardi, confessandosi a Pariani: «Non sapevo bene i costumi che c’erano
fuori [a Carmagnola, in collegio: forse le sue prima uscita nel mondo]; quando
tornai a Marradi mi ridevano, mi arrabbiai e divenni nevrastenico. Poi cominciai
a viaggiare. Non feci nulla di buono»15.
«Poi cominciai a viaggiare»16: secondo un elenco ancora incerto, nonostante tutte le ricerche, nella indicazione dei luoghi e delle date, Campana fu, oltre
che in varie città italiane (Firenze, Livorno, Pisa, Milano, Genova), in Svizzera,
in Francia (per qualche tempo di sicuro anche a Parigi), in Belgio; nel 1908 (?)
intraprende, con l’aiuto della famiglia, un grande viaggio oltre mare, in Argentina, dove, a piedi e nei treni merci, si sposta da Buenos Aires a Bahia Blanca,
da Mendoza a Rosario a Santa Rosa de Toay, facendo, secondo le sue testimonianze a Pariani, il pianista nei caffè concerto e nei bordelli, il suonatore di
triangolo nella Marina argentina, il manovale sterratore nella costruzione delle
strade ferrate, il poliziotto, «ossia il pompiere», ecc.17. Secondo la sua ricostruzione, sarebbe rientrato in Europa lavorando come mozzo sulla nave che lo trasportava, e sarebbe approdato ad Anversa, di li di nuovo a Parigi e da Parigi a
Marradi18. Campana parla anche di un suo non meglio documentato viaggio a
Odessa, come fuochista a bordo di una nave, dove poi si sarebbe accompagnato con i «Bossiaki», sorta di zingari, che campavano vendendo calendari e stelle filanti nelle fiere19.
Secondo uno schema che ha antecedenti, ma anche molti illustri continuatori, Campana antepose dunque all’esperienza letteraria e poetica un insolito disfrenamento delle sue energie vitali e conoscitive, da cui ricavò qualità non disprezza14
ID., Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 139.
C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 42. La definizione di «nevrastenico» è quella in cui
più volentieri Campana si sarebbe riconosciuto: cfr. La giornata di un nevrastenico (Bologna), pp. 169-75.
16 Campana dice anche, ed è anche questa una testimonianza di viva verisimiglianza psicologica: «Verso i vent’anni non potevo più vivere, andavo sempre in giro per il mondo» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana
cit., p. 42). E ancora: «Sissignore, viaggiavo molto. Ero spinto da una specie di mania di vagabondaggio. Una specie di
instabilità mi spingeva a cambiare continuamente» (ibid., pp. 43-44).
17 Ibid., pp. 42-45.
18 Ibid., p. 44.
19 Ibid., p. 45.
15
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
bili neanche per un’esperienza di tipo letterario e poetico: un’ampia conoscenza
del mondo, il discreto possesso di parecchie lingue straniere (francese, inglese,
spagnolo, tedesco), attraverso le quali ebbe accesso diretto alle corrispondenti letterature e poesie, una precisa nozione (come vedremo meglio più avanti) del come usare e mettere a frutto il corredo di esperienze raccolto a vantaggio di una
moderna poesia italiana.
Non abbiamo nessuna testimonianza, come dicevo, sull’intreccio che da un
certo momento in poi dovrebbe essersi realizzato tra vagabondaggio ed esercizio
poetico: salvo questa affermazione dello stesso Campana, che, come al solito, coglie molto precisamente almeno un aspetto della questione: «Viaggiando avevo
delle impressioni d’arte, le scrissi»20. L’abitudine di “taccuinare”, che, come vedremo, è alla base del suo peculiare metodo compositivo (cfr. pp. 350-351), è
strettamente connessa con la raccolta di queste «impressioni d’arte» e riconduce
ad operazioni analoghe della pittura del tempo: impressionisti e macchiaioli non
si sarebbero comportati diversamente, riempiendo le pagine dei loro “album” di
schizzi, abbozzi e... “impressioni”, nei loro vagabondaggi naturalistici, per riportarli sulla tela, compiutamente, più tardi. Ma, naturalmente, casi analoghi sono
frequenti anche nella poesia contemporanea (Rimbaud, ad esempio).
Sempre secondo lui, «la prima» di queste «impressioni» sarebbe da far risalire a quando egli aveva «vent’anni»21. Saremmo, dunque, nel 1905: le date coincidono: «esaltazione psichica», «vita errabonda» (per dirla col dottor Mercatali) e
comparsa della vocazione poetica almeno temporalmente sono contigue (e non è
detto, ovviamente, che i primi segni della vocazione poetica non fossero annoverati tra i sintomi di quell’«esaltazione psichica», di cui famigliari e medici erano
così preoccupati).
2. «Io sono un povero diavolo che scrive come sente».
Lo spazio cronologico utile a definire le intenzioni e i caratteri del tentativo poetico compiuto da Dino Campana è dunque, come già accennavo, assai ristretto. A
partire dal 1910, infatti, cominciano le prime manifestazioni epistolari e letterarie
del nostro autore, ma soltanto con il 1913 s’infittiscono; e i Canti Orfici, come vedremo, appaiono nell’estate del ’14. Qui vorrei dunque definire sommariamente
il clima, i rapporti, le vicende culturali, con cui Campana ebbe a che fare in questo periodo, rimandando a più avanti una più precisa descrizione delle sue ascendenze letterarie e poetiche (sezione IV).
20
21
Ibid., p. 48.
Ibid.
Letteratura italiana Einaudi
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Non priva d’interesse per collocare esattamente il suo “punto di vista” è una
lettera da lui inviata – presumibilmente tra il 1909 e il 1910– alla rivista fiorentina
«La difesa dell’arte», nella quale, dopo un’auto-presentazione, anch’essa non del
tutto irrilevante («Io sono un uomo ancora inedito e non valgo in materia probabilmente per altra cosa che per l’amore vivace e costante che sento per tutte le
manifestazioni dell’arte»)22, così viene esposto il suo programma:
Io conosco cinque lingue e mi offro volentieri per far passare un po’ di giovine sangue
nelle vene di questa vecchia Italia, e ciò per tutte le questioni che loro crederanno opportuno sollevare. Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno la
posseggo anch’io. E i miei lunghi viaggi e le diverse manifestazioni del genio umano che
ho studiato nelle diverse letterature moderne mi hanno conferito qualche larghezza, serenità e indipendenza di giudizio23.
Dunque, se non attribuisco troppa importanza a queste semplici righe, gli
elementi che emergono sono: “modernità” (e la cosa dovrebbe apparire più eloquente e più importante di quanto non sembri a prima vista, se si pensi al valore
che una terminologia del genere poteva assumere nell’ambiente letterario ed artistico italiano d’inizio secolo); l’apertura, anche linguistica, verso le “letterature
moderne” straniere; una sostanziale indipendenza nei confronti del “gruppettarismo” intellettuale del tempo («larghezza, serenità e indipendenza di giudizio»); e,
soprattutto, un programma di ringiovanimento della cultura italiana contemporanea, che, molto espressivamente, il venticinquenne apprendista concepisce come
una vera e propria trasfusione di sangue («far passare un po’ di giovine sangue
nelle vene di questa vecchia Italia»), al tempo stesso offrendo il proprio braccio
agli specialisti che vogliano eseguirla.
Per certi versi è il programma della «Voce». E questo spiega due cose: sia perché Dino Campana, ingenuo ed appartato cultore di poesia, cercasse di accostarsi a quel gruppo; sia perché dovette ritrarsene quasi subito, stante l’abissale differenza di posizioni, che nella sostanza li contraddistingueva.
Al primo ordine di sentimenti appartiene la lettera che Campana scrisse a
Prezzolini il 6 gennaio 1914, quando questi era ancora direttore della «Voce» e
quando egli aveva già consegnato a Papini e a Soffici, direttori di «Lacerba», il
manoscritto delle sue poesie, senza ancora averne risposta (dicembre 1913):
Mi rivolgo a Lei, egregio signore. Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Lei
forse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all’esposizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone.
22
D. CAMPANA, Lettera alla rivista «La difesa dell’arte» dell’[estate 1910], in ID., Souvenir d’un pendu cit.,
p. 45.
23
Ibid., p. 46.
Letteratura italiana Einaudi
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di essere
stampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato.
Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia che
so fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi. Non sono ambizioso
ma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dalla vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata. Benché io la conosca appena sono certo che Lei ha un’anima delicata, che sente la giustezza del mio
appello come sentirà la verità della mia poesia. Sono certo che Lei non appartiene alla
schiera ironica dei bluffisti24.
Ma neanche Prezzolini, “anima delicata”, degnò d’attenzione quello «spostato», quel «tale che a tratti scrive delle cose buone» (parole nelle quali si sente l’eco vivente della voce, arrogantemente benevola, di Soffici). Il fatto è che le
rotte di Campana e dei “vociani”, compresa, e a miglior ragione, l’ala dissidente dei “Lacerbisti”, erano divergenti, e questo anche indipendentemente dalla
perdita del manoscritto, su cui tornerò più avanti. Già nel maggio 1913 (data
presunta), infatti, Campana si era scagliato violentemente in una lettera a Papini contro la linea di «Lacerba», di cui stigmatizzava la propensione accademica, e sia pure della più volgare e teppistica Accademia del Mantellaccio, da affiancare a quelle più paludate della Crusca e dei Lincei 25, in nome, – questo mi
pare estremamente significativo, – di un’idea di “arte”, che il poeta mette al di
sopra di tutto:
Non ho letto il vostro discorso sul futurismo ma lo stato di filosofo implica una purità
di coscienza tale che non può essere altro che artistica; ora se io ammettessi che voi foste filosofo e che foste riuscito ad esserlo tanto doverosamente, tanto latinamente, e tanto classicamente da riassorbire questa coscienza artistica, non vi dovreste voi vergognare di sputare in faccia al sentimento artistico facendo servire da mezzana per la propaganda delle vostre idee un’arte falsa e bastarda???? E se di arte non capite più niente cavatevi da quel focolaio di cancheri che è Firenze e venite qua a Genova e se siete un uomo d’azione la vita ve lo dirà e se siete un artista il mare ve lo dirà26.
Le evidenti “fonti” nietzschiane di questa posizione, – una filosofia che si
risolve totalmente in arte, un’arte che si coniuga e si misura da vicino con la natura e con la vita, – si mescolano alle ambizioni più tipicamente “italiche” di
Campana, tutt’altro che sottovalutabili, di creare una poesia capace di continuare le glorie della “classicità” e della “latinità”, dove chi lo voglia potrebbe
facilmente scorgere un’impronta carducciana ma dove, al tempo stesso, non sarebbe neanche qui impossibile scoprire un’eco del Nietzsche che voleva ritrova24
ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914, ibid., pp. 55-56.
ID., Lettera a Giovanni Papini del [maggio 1913], ibid., p. 53.
26 Ibid., c.n.
25
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
re in una spregiudicata modernità il ceppo della più raffinata e controllata grecità (come vedremo meglio più avanti).
La “monotonia” della rivista è inoltre, secondo Campana, definitivamente
sancita dalla ricorrenza dei sempre soliti autori: «i vostri Govoni», «l’immancabile Palazzeschi», «il fatale Soffici»27. Commenta Campana: queste sono «“Le
cose che fanno la Primavera” [titolo d’un pezzo di Govoni, apparso nel numero
di «Lacerba» del 1° maggio 1913]. Ora Bergson direbbe che colle cose che fanno la Primavera non si fabbrica la Primavera»28. Quindi un consiglio: «Ma scrivete un po’ a Marinetti che è un ingegno superiore, scrivetegli che vi mandi
qualche cosa di buono...»29.
Il riconoscimento personale a Marinetti non implicava però nessuna sostanziale adesione a programmi e caratteristiche del futurismo (anche se, come vedremo, tracce consistenti delle tematiche di quel movimento si possono senza
dubbio individuare nella sua poesia). Se dall’intollerabile moralismo vociano,
radicato, come suole, negli atteggiamenti più eversivi e spregiudicati, lo allontanavano profondamente il suo altrettanto dichiarato e radicato antimoralismo e
la sua visione dei rapporti tra filosofia e arte, tra pensiero e poesia, dal futurismo lo distinguevano il suo senso dell’arte e la sua ricerca dell’armonia poetica,
intesa come proiezione e forma dell’armonia cosmica. Ripetutamente li definisce «quei cretini dei futuristi», accomunandoli anche a «quei superidioti dei
fiorentino-napoletani» (cioè, ai vociani di matrice idealistica e vociana)30, che è
un’intuizione critica niente male (almeno per i futuristi fiorentini). In un appunto del Taccuinetto faentino troviamo questa graffiante osservazione: «Futuristi se aveste il senso del grottesco. Se sentiste l’enorme parodia dei fischi della
macchina del riso umano»31. E poi, anche più tardi, parlandone con il Pariani,
con una lucidità che fa impressione, soprattutto perché mette in relazione atteggiamenti e scelte, che a distanza di anni gli si sarebbero potuti cancellare o disintegrare: «Ogni tanto scrivevo dei versi balzani ma non ero futurista. Il verso libero futurista è falso, non è armonico. È una improvvisazione senza colore e senza armonie. Io facevo un poco di arte»32.
27
Ibid., pp. 52 e 53.
Ibid., p. 52.
29 Ibid., p. 54.
30 ID., Lettera a Mario Novaro [senza data, ma prima del maggio 1916], ibid., p. 167.
31 ID., Taccuinetto faentino, in ID., Taccuini, edizione critica e commento di F. Ceragioli, Pisa 1990, p. 253 (sui Taccuini campaniani si veda più avanti, pp. 350-51). Com’è evidente, Campana, per prenderli in giro, rifà il verso agli stessi futuristi.
32 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 43, c.n. E sul tema dell’«arte», che evidentemente doveva essergli rimasto nella mente come Leitmotiv fondamentale della sua ricerca, ritorna anche più avanti con una tonalità malinconica che accora: «Avevo qualche arte, ma poi non ne ho più» (ibid., p. 47, c.n.).
28
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Se, dunque, la ricerca di “modernità” di Campana non coincide in nessun
modo con quella delle due correnti culturalmente e poeticamente più “rivoluzionarie” dell’epoca e non può ovviamente, proprio in quanto tale, rifluire nell’imitazione pedissequa della Sacra Trimurti poetica nazionale del tempo, – Carducci,
Pascoli, D’Annunzio, – che può stare alle spalle non certo davanti ad un poeta del
nuovo e della “modernità”, le domande che correttamente bisognerebbe porsi
per cominciare a definire la “posizione” di Campana, sono: qual era il suo “progetto” poetico? in che cosa, più precisamente, consisteva la sua nozione di “modernità”? La mia opinione è che la critica abbia poco riflettuto su queste due domande. La risposta, come ho già accennato, è nei testi poetici. Però, alcuni segnali espliciti e programmatici Campana li ha lasciati e, se non erro, di sorprendente
chiarezza e lucidità. Bastava leggerli.
A Soffici, – che di tutti i suoi interlocutori egli sembra comunque stimare di
più – scrive da Ginevra nel maggio 1915:
Credo che si potrebbe fare una fusione tra la Svizzera sassone dello spirito in cui
Nietsche scrisse che si era rifugiato Schumann e la religione della maternità del lavoro e
dell’amore, così divinamente espressa dal nostro dolce e severo Segantini, e che già si
trova in Millet. Questa mi sembra la via da seguire perché è la più larga, quella che richiede maggiore umanità e realtà.
Ho trovato alcuni studi, purtroppo tedeschi, di psicanalisi sessuale di Segantini,
Leonardo ed altri, che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassunto
per Lacerba. Si tratta di utilizzare la capacità di osservazione di quella gente in favore
della nostra sintesi latina.
Se una nuova civiltà latina dovrà esistere, essa dovrà assimilare la Kultur.
La Francia da sola non ci è riuscita, essa è stata sommersa nella cultura tedesca, nella difformità che non è riuscita a forgiare, e anche noi in Italia per ripercussione siamo
stati vittime di questa débâcle, e proprio nel momento in cui una nuova cultura poteva
formarsi in Italia dove non esiste finora altro che una Kultur universitaria33.
E qualche mese più tardi, questa volta a Prezzolini:
Passando alla guerra trovo che il governo francese ha soppresso la quadricentenaria
monarchica Gazette de France, ciò che significa che il vecchio spirito aristocratico francese minaccia di riprendere il sopravvento e di mettersi di nuovo a capo della cultura
europea come fu sempre, anche per testimonianza dei tedeschi (Nietzsche). Se questo
fatto avvenisse, se questa coltura che adoriamo tornasse io le confesso che darei sul momento senza esitare la vita. Viva dunque la grande Francia. Questo presentimento appare in tutti i grandi tedeschi. Ricordi le ultime parole di Beetoven [sic]: Nel sud della
Francia, laggiù, laggiù. Era l’ideale della musica, dell’arte mediterranea che Nietzsche
presentì e credé di trovare in Bizet. E questo presentimento si verificherà certamente
33
D. CAMPANA, Lettera a Ardengo Soffici del [12] maggio 1915, in ID., Souvenir d’un pendu cit., pp. 83-84.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
perché Nietzsche e Beetoven [sic], erano dei genii. Viva dunque la Francia. E chi, modestia a parte, comprende queste cose da noi? cioè le integra e le risente non le violenta, colla animalità del parvenu? Ci dondoliamo sulle anche come l’Italia nelle poesie di
D’Annunzio che, poveraccio, dell’Europa moderna non capisce proprio nulla. Che
pietà vedere la grande cultura in certe mani mezzane34.
Di fronte ad asserzioni di questa portata vien voglia di dar ragione al povero
Campana, quando ad uno dei suoi più benevoli corrispondenti, Mario Novaro,
scriveva, con il modesto orgoglio che spesso lo contraddistingue: «[…] quel pochissimo di attività che ultimamente ho mostrato basta a provare che io seguo logicamente una via»35. A parte il sorprendente richiamo psicanalitico, sul quale
tornerò, il “programma” di Campana è niente di meno che la fusione tra le due
componenti più vigili e avanzate della cultura europea contemporanea, ossia la civilisation francese con la Kultur tedesca, – esprit con Geist, potremmo dire, poesia con filosofia, arte con vita, – secondo una linea che i grandi tedeschi, in primis
Wagner e Nietzsche, avevano loro stessi intuito e in qualche misura praticato: si
che la “mediterraneità” e la “latinità”, in cui si riversa la parte più esaltante e più
solare dell’ispirazione campaniana, ben lungi dall’apparire l’alternativa provinciale italiana all’egemonia dello “spirito critico” tedesco, dissolutore e dissacratore,
ne rappresenta il sogno segreto, il lato felice, in palese coerenza con tutte le teorie
della “grecità” e del “primitivo”, anch’esse profondamente riverberate dalla Germania nell’opera di Campana. Chi altri al di fuori di lui avrebbe potuto stendere
in quegli anni un pensiero davvero folgorante come questo?
Il secondo stadio dello spirito è lo stadio mediterraneo. Deriva direttamente dal naturalismo. La vita quale è la conosciamo: ora facciamo il sogno della vita in blocco. Anche
il misticismo è uno stadio ulteriore della vita in blocco, ma è una forma dello spirito
sempre speculativa, sempre razionale, sempre inibitoria in cui il mondo è volontà e rappresentazione: ancora, volontà e rappresentazione che del mondo fa la base di un cono
luminoso i cui raggi si concentrano in un punto dell’infinito, nel Nulla, in Dio. Sì: scorrere sopra la vita questo sarebbe necessario questa è l’unica arte possibile. Primo fra
tutti i musici sarebbe colui il quale non conoscesse che la tristezza della felicità più
profonda e nessun’altra tristezza: una tale musica non è mai esistita ancora. Nietzsche è
un Wagner del pensiero. La susseguenza dei suoi pensieri è assolutamente barbara,
uguale alla musica wagneriana. In ciò unicamente nell’originalità barbaramente balzante e irrompente dei suoi pensieri sta la sua forza di sovvertimento e tutto anela alla distruzione tanto in Wagner come in lui36.
34
ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del [4 ottobre 1915], ibid., pp. 97-98.
ID., Lettera a Mario Novaro del [12 aprile 1916, timbro postale (d’ora in poi t.p.)], ibid., p. 161.
36 Il frammento, la cui datazione nell’opera di Dino Campana resta assai incerta (ma l’affinità con i testi contigui
dovrebbe consentire di collocarlo nel 1916), fu pubblicato da Enrico Falqui in ID., Opere e contributi, Firenze 1973,
p. 446. Ma sullo stesso argomento si veda la prima di Storie, II, ibid., p. 444, dove il giudizio su Dante suona: «Come
sempre la poesia di Dante risulta dalla lotta tra il nordico e il latino...» (ibid., p. 430), e altri luoghi.
35
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L’Italia dovrebbe dunque assolvere con la sua poesia il compito che la cultura francese soltanto imperfettamente si era posto e che la cultura tedesca aveva
posto ma con troppe durezze soprattutto filosofiche per poterlo risolvere. Naturalmente, un’Italia e una cultura italiana molto diverse da quelle con cui gli toccava vivere e sopravvivere. Le accuse alla piccineria e alla taccagneria del fiorentinismo, con le quali egli tanto se la prese, vanno intese in questo quadro.
Da ciò la sua rovente polemica contro l’Italia contemporanea, continuamente accusata di «lazzaronismo» e di «clericalesimo» (dove anche l’esperienza politica in quel momento dominante, il giolittismo, veniva da lui letta come il segno di
un’antica degenerazione nazionale), e contro la figura che del pressapochismo e
dell’arretratezza italiani rappresentava il simbolo: ossia l’«arrivista» («Oh parvenu! Tu sei la rovina!»)37. Alla sua ambizione altissima il clima del tempo doveva
apparire addirittura desolante.
3. «Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei
farlo alla pari. Sono molto modesto e non vi domando, amici, altro segno
che il gesto. Il resto non vi riguarda»38.
Non c’erano, dunque, le condizioni per capirsi, né culturali né, come vedremo,
umane. Dino Campana aveva cominciato intanto a pubblicare qualcosa su dei
modesti fogli goliardici bolognesi, in quell’anno accademico 1912-13 in cui, dopo il suo lungo vagabondare, aveva ripreso a frequentare Chimica nell’Università
petroniana39: Montagna – La Chimera, Le cafard (Nostalgia del viaggio), Dualismo
– Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita Tchegarray [sic], in «Il Papiro», 1912; Torre Rossa – Scorcio, in «Il Goliardo», 1913 (tutti pezzi che, di peso oppure rielaborati o scorciati, entreranno a far parte dei Canti Orfici). Ma all’ambizione del giovane questa glorietta locale non poteva più bastare. Pensò
perciò di rivolgersi alla banda di giovani mascalzoni, che in quel momento dirigeva «Lacerba». Aveva messo insieme un manoscritto piuttosto corposo, che, come si seppe solo dopo molti anni, aveva preso il titolo de Il più lungo giorno. Secondo la sua ricostruzione, che tutto sommato resta la più attendibile, «venuto
l’inverno [dicembre 1913] andai a Firenze all’Acerba [sic] a trovare Papini che
conoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) e
me lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si
37
ID., Storie, I, ibid., p. 442.
ID., Lettera a Mario Novaro dell’ [aprile 1916], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 153.
39 Su questo momento della sua vita si possono consultare i ricordi, affettuosi e nostalgici, di F. RAVAGLI, Dino
Campana e i goliardi del suo tempo, Firenze 1942.
38
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aspettava (?) ma era molto molto bene e m’invitò alle giubbe rosse [il famoso
caffè “intellettuale” fiorentino] per la sera»40. Segue un autoritratto di terribile
sincerità: «Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino con
i capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo»41. Ad un personaggio di tal genere non si poteva certo dare troppo credito. Infatti, prosegue Campana, «per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi il
manoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stampato sull’Acerba [sic].
Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all’asilo notturno ed
era il giorno che loro [Papini e Soffici] facevano le puttane sul palcoscenico alla
serata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscritto
era passato nelle mani di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo 42 e mi
decisi di riscriverlo a memoria […]» 43.
Il manoscritto risultò definitivamente perduto tra le carte Soffici, fino alla riscoperta di anni assai recenti (cfr. p. 350). Il colpo non poteva essere più brutale:
Campana ne sviluppò una mania persecutoria, che in un cervello come il suo non
poteva non avere gravi conseguenze (egli maturò il convincimento che Papini
avesse avuto «dalla polizia l’incarico (o se lo è preso) di indirizzare la giovane letteratura»44: ma questo, a pensarci bene, poteva anche essere vero). Giusta era comunque la sua protesta: «Papini e Soffici si fecero complici degli assassini mentre
io pieno di fiducia gli abbandonavo in mano quello che era la sola giustificazione
della mia esistenza»45; e comprensibili gli strascichi di un risentimento, che arriverà fino alle minacce estreme: «Se dentro una settimana non avrò ricevuto il manoscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con un
buon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò»46.
40
D. CAMPANA, Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., pp. 139-40.
Ibid., p. 140. Lo stesso incontro visto con l’occhio di uno dei due mascalzoni, Ardengo Soffici: «Privo di un
qualsiasi soprabito che lo riparasse dal freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava un pentolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simile a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pecorai di mezzo secolo fa, i piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambe
ercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d’un tessuto incredibilmente leggero, giallastro, a fiorellini azzurri e rosei, uguale in tutto alle mussoline onde si servono i barbieri di paese per i loro accappatoi,
e le massaie povere per le tendine delle finestre che danno sulla strada. [Soffici 1930, 81-82]» (G. TURCHETTA, Dino Campana cit., p. 145). E impressionante come il patetismo autentico dell’autoritratto campaniano si rovesci in questo macchiettismo burlone, che sta alla base del fiorentinismo più becero e volgare.
42 Notabile l’estrema dignitosità con cui, all’inizio, il poeta, visibilmente ferito, chiede la restituzione del manoscritto: «Egregi Signori Papini e Soffici, Li prego ad usarmi la cortesia di lasciare i manoscritti miei che ho consegnato a Loro presso l’amministrazione di Lacerba. Un uomo da me incaricato passerà a ritirarli. Ossequi: Dino Campana» (ID., Lettera a Giovanni Papini [t.p. 4 febbraio 1914], in ID., Souvenir di un pendu cit., p. 59).
43 ID., Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., p. 240.
44 Ibid., p. 143.
45 Ibid., p. 141.
46 ID., Lettera a Giovanni Papini del 23 gennaio 1916, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 134.
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Il gesto atteso ed implorato non era arrivato. Trattamenti più umani Campana ebbe da Emilio Cecchi e da sua moglie Leonetta Pieraccini, da Mario Novaro,
da Giovanni Boine. Ma l’unico rilevante tentativo di contatto con uno dei giovani
e più organizzati gruppi intellettuali del tempo era miseramente fallito, ribadendo
una ormai cronica situazione d’isolamento e di esclusione.
4. «Ricevo io sottoscritto dal Sigr. Bandini Luigi fu Paolo la somma di lire
centodieci (110) come caparra per la stampa di 1000 copie del libro ‘Canti Orfici’ del Sigr. Dino Campana [...]»47.
Reagendo con vitalità prodigiosa, tenuto conto della situazione, alla terribile disavventura capitatagli, Dino Campana rimise insieme in pochi mesi la raccolta
perduta, apportandovi, come vedremo, non poche modifiche. Fin quando il testo
del Più lungo giorno non fu noto, poté apparire credibile la leggenda, che Campana volle avvalorare, di aver ricostruito i testi a memoria48. Ma il confronto tra le
due stesure permise di stabilire che l’identità di numerosi componimenti, anche a
prescindere da quelli già stampati in precedenza, è tale da rendere inverosimile
una applicazione letterale delle affermazioni campaniane. È più probabile che
Campana si servisse contemporaneamente e della sua memoria e degli scartafacci
e degli appunti rimastigli, secondo un metodo che, del resto, doveva essergli in linea di massima abituale.
Il manoscritto, comunque ricostruito, dovette esser pronto in un tempo non
lungo, se, forse già nella primavera del ’14, egli si rivolgeva da Berna ad un amico
di Marradi, Luigi Bandini, chiedendogli di aiutarlo a pubblicare i Canti49. Il Bandini versò allo stampatore Bruno Ravagli le famose 110 lire, di cui nel titolo di
questo paragrafo, – le 110 lire, alle quali dobbiamo, letteralmente il privilegio della conoscenza di questo capolavoro (il meno caro della letteratura mondiale), – e
i Canti Orfici videro finalmente la luce nel giugno del 1914. Si tratta dell’edizione
in carta rozza e grigiastra e con le pagine un po’ più grandi e un po’ più piccole,
destinata a passare alla leggenda del Novecento letterario italiano.
Nella storia della poesia italiana del Novecento, e, più in generale, nella storia della nostra poesia, le vicende editoriali dei Canti Orfici sono pressoché uni47 Si tratta della sottoscrizione del tipografo Bruno Ravagli di Marradi, al contratto con cui, il 6 giugno 1914, furono stabilite le condizioni per la stampa del volume dei Canti Orfici (cfr. G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., p. 117).
48 Si rammenti la conclusione del brano della lettera a Emilio Cecchi citata alla nota 44; ma anche a Giovanni Boine, in precedenza: «Je retourna à la campagne et j’écrivis de memoire mes canti orfici et je reussis à le faire publier par
un brute de mon village» [t. p. 18 gennaio 1916], in D. CAMPANA, Souvenir d’un pendo cit., p. 232.
49 ID., Lettera a Luigi Bandini della [primavera 1914], ibid., pp. 60-61.
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che, se si escludono, se non erro, alcune iniziative editoriali di Giacomo Noventa (che è, comunque, un bell’accostamento), e non sono state abbastanza valutate, – penso, – ai fini di una comprensione intrinseca dell’opera. Si aggiunga
che il libro fu venduto dallo stesso Campana nei caffè di Firenze e di Bologna,
come lui stesso e la leggenda tramandano, oppure agli amici mediante sottoscrizione. Quando apparve l’edizione Binazzi nel 1928, delle mille copie stampate
da Ravagli diverse centinaia erano ancora depositate presso l’editore. Il “circuito della comunicazione” non poteva dunque essere più ristretto: dall’autore al
lettore, saltando tutte le mediazioni, ma anche tutti gli appoggi, delle macchine
editoriali, pubblicitarie, dei gruppi intellettuali, ecc. Il carattere di “voce solitaria” della poesia campaniana ne risulta assolutamente ingigantito. Se Carlo Michelstaedter era risultato autore postumo in quanto noto, letteralmente, soltanto dopo la sua morte, la “postumità” di Campana consiste, ancor più crudelmente forse, nel non-ascolto pressoché totale del pubblico còlto suo contemporaneo (salvo, s’intende, le poche eccezioni d’obbligo: ma fino a che punto, verrebbe voglia di chiedersi, Cecchi e Boine, ad esempio, lo avevano compreso?)
Quella di Campana è davvero, in sé, una “voce altra”, una “voce diversa”: la reclusione è il simbolo non solo del suo “farsi” ma anche del suo “darsi”. Leggendolo, bisogna tenerne conto.
5. Sfortunato, in vita e in morte.
Alle difficoltà editoriali della prima stampa puntualmente seguirono le altre, in vita e in morte. Nel 1928 l’editore Vallecchi intraprese il progetto di una ristampa
dei Canti Orfici (a quanto sembra, senza neanche chiedere il parere all’autore, il
quale, in quanto ricoverato in manicomio da un decennio, doveva esser considerato morto e seppellito da un pezzo); e ne affidò la cura ad un giornalista e letterato, Bino Binazzi, amico di Campana, con il quale però questi aveva avuto in passato non pochi contrasti. L’edizione che ne seguì50 comprendeva, oltre ai testi presenti nell’edizione del ’14, alcune liriche di lui successivamente apparse (tra l’agosto 1915 e il marzo 1917) su vari giornali e riviste del tempo, e cioè: Bastimento in
viaggio (già Frammento), Arabesco-Olimpia, Toscanità (già A Bino Binazzi), Vecchi
versi, Notturno Teppista, A M[ario] N[ovaro]51.
Il Binazzi invia copia dell’edizione a Dino Campana, e qui si verifica una sorpresa: il matto decennale si scopre lettore attento e puntiglioso delle proprie cose,
e rivela una vena filologica insospettabile solo per chi lo considerava “scrittore”
50
51
ID., Canti Orfici ed altre liriche, opera completa con prefazione di B. Binazzi, Firenze 1928.
Si possono ora leggere in ID., Opere e contributi cit., pp. 283-90.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
facile e approssimativo. Ringrazia dunque il Binazzi dell’edizione in un momento
di requie del suo male; ma subito dopo aggiunge:
A Marradi presso l’editore Ravagli si devono trovare ancora almeno cinquecento copie
ne la lezione originale: la Vallecchi varia quà e là non so perché: poco importa giacché è
un compenso dovuto a la modernità de l’edizione senza dubbio. Rimasugli di versi,
strofe canticchiate se ne potrebbe riempire un quadernetto. Ma che farne. Tutto va per
il meglio nel peggiore dei mondi possibili: variante vallecchiana. Passo lunghe ore pensando a la vanità del tutto52.
Queste frasi fanno pensare: accanto alla solita sardonica e orgogliosa malinconia, che costituisce il fondo del Campana matto (forse meno matto di quanto lui
stesso non volesse credere e far credere), viene fuori un piccolo problema criticoesistenziale: o davvero Dino aveva avuto e conservava una così straordinaria memoria da poter cogliere alla semplice lettura le varianti sbadatamente profuse nel testo
da Binazzi, oppure aveva presso di sé una copia dei Canti Orfici e persino delle poesie pubblicate in rivista, visto che, secondo una testimonianza del Pariani, il Campana avrebbe invitato a «raffrontare» e «correggere» l’edizione «sul testo di Marradi e delle riviste che stamparono i miei versi per la prima volta»53. Inequivocabile mi
sembra anche l’accenno ad una perdurante produzione poetica: «Rimasugli di versi, strofe canticchiate se ne potrebbe riempire un quadernetto», sopraffatta da una
ormai mortale disillusione: «Passo lunghe ore pensando a la vanità del tutto».
Ancor più sorprendente è il risveglio d’interesse testimoniato da questa lettera al
fratello Manlio, con il quale ebbe sempre una corrispondenza estremamente esile e
puramente informativa, intorno al solito tema delle scorrettezze dell’edizione Binazzi:
Caro Manlio,
tempo fa ebbi l’occasione di vedere la ristampa dei miei Canti Orfici edita da Vallecchi-Firenze. In qualche momento di tranquillità potei notare i continui errori del testo che è così irriconoscibile. Vi hanno pure aggiunte poesie di lezione fantastica. Non
sono più in grado di occuparmi di studi letterarii, pure vedendo che il testo va così perduto. Ti pregherei ricercare l’edizione originale di Marradi, per conservarla per ricordo. Non ho bisogno di nulla e continuo a vivere normalmente54.
6. Scoperte e riscoperte.
La vera storia editoriale dei Canti Orfici, dopo la stampa di Marradi, comincia
con l’attività di ricerca e di scavo compiuta con encomiabile dedizione da Enrico
Falqui alle soglie della seconda guerra mondiale, la quale approda innanzitutto al52
ID., Lettera a Bino Binazzi del [t.p. 11 aprile 1930], 10 ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 242.
C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 65.
54 D. CAMPANA, Lettera al fratello Manlio del 2 giugno 1930, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 243.
53
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
la stampa dei Canti Orfici, Firenze 1941, ricondotti alla lezione marradese, e di un
volume di Inediti, Firenze 1942, il quale comincia a rivelare, dietro i Canti, una
ricchezza di prove, di materiali, di appunti e di rielaborazioni in precedenza insospettabile. Dei Canti Orfici curati da Falqui appariranno negli anni successivi numerose edizioni, talvolta comprendenti taluni degli inediti.
Successivamente apparvero un Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo
1949, uscito dai materiali in possesso di Sibilla Aleramo, e un Taccuinetto faentino, a cura di Domenico De Robertis, presentazione di Enrico Falqui, Firenze
1960, il primo successivo, l’altro immediatamente precedente l’ultima stesura dei
Canti Orfici da parte del poeta55. È ovvio che io utilizzerò soprattutto questo secondo come strumento integrativo nell’interpretazione dei testi. Importante anche il Fascicolo marradese, a cura di Federico Ravagli, Firenze 1972, che raccoglie
altri testi manoscritti o gli stessi testi in versioni diverse, ritrovati nella casa della
famiglia Campana a Marradi.
Il punto d’arrivo di questa lunga fase di scoperte e riscoperte è rappresentato
dai due volumi di Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, presentazione di
Mario Luzi, note di Domenico De Robertis e Silvio Ramat, carteggio con Sibilla
Aleramo a cura di Niccolò Gallo, Firenze 1973 (due volumi con numerazione
continua), che a tutt’oggi rappresenta il repertorio più completo degli scritti di
Dino Campana.
Intanto, però, era avvenuto il disseppellimento (è il caso di dirlo) del manoscritto affidato a Papini e Soffici e poi perduto: ne dava notizia in un articolo sul
«Corriere della Sera» Mario Luzi56. Cos’era accaduto? Era accaduto che, nel riordino delle carte di Soffici seguito alla sua morte (1964), tra carte, manoscritti, corrispondenza, era riemerso lo sventurato fascicolo di Dino Campana. La stampa
(in due volumi) non doveva tardare: Il più lungo giorno, I: riproduzione anastatica del manoscritto; II: presentazione di Enrico Falqui, testo critico a cura di Domenico De Robertis, Firenze 1973.
6.1. «I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno | potrà sembrare tutta robetta
da fiera».
Un’analisi delle caratteristiche e delle scelte essenziali del Più lungo giorno verrà
fatta, nel capitolo successivo, a confronto con i testi dei Canti Orfici. A qualche
55 Dell’uno e dell’altro ha dato un’eccellente edizione critica Fiorenza Ceragioli in ID., Taccuini cit. Il primo è databile prima dell’estate 1916 (ibid., pp. 14 sgg.); invece, «numerosi [...] elementi confermano che il Taccuinetto è immediatamente prossimo all’edizione di Marradi» (ibid., p. 220).
56 M. Luzi, Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana, in «Il Corriere della Sera», 17 giugno 1971.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
considerazione preliminare si prestano invece i materiali presentati da Falqui per
la prima volta negli Inediti, e poi i Taccuini.
Mettendo insieme e confrontando le varie fasi dell’elaborazione poetica campaniana, risulta abbastanza chiaro che lo scrittore lavorava generalmente in questo modo: dapprima l’“impressione”, il dato psichico vivente immediatamente ricavato, sovente in forma assai sommaria, dall’incontro-scontro con il “fenomeno”; e si capisce che, trattandosi di un poeta abituato a modulare la sua tavolozza
“all’aperto”, questa fase originaria dell’ispirazione, tradotta nelle note frante, approssimative e allusive del genere “taccuino”, risulta molto importante (e chissà
quanti di questi appunti, ovviamente, sono andati perduti).
In seguito il poeta seleziona, elabora, costruisce; e successivamente mescola e
rimescola, prima d’arrivare al risultato considerato definitivo. Da questo punto di
vista utilissima risulta la lettura del fascicolo denominato Quaderno, una specie di
bella copia di pezzi già cresciuti altrove, la cui datazione è incerta (secondo alcuni 1908-14, secondo altri 1906/907 - 12), ma i cui caratteri fondamentali rivelano
già strette affinità con quelli dei Canti Orfici, e che perciò può esserne da molti
punti di vista considerato sia un antecedente sia un serbatoio57.
Si tratta di quarantatre componimenti, il che non è poco, considerando che i
Canti Orfici ne contengono ventinove: ma, naturalmente, niente che assomigli alla compattezza e all’unità d’intenti dell’opera maggiore. Anzi, qui sorprende la
pluralità e anche la confusione delle scelte messe in campo: che però vanno tenute presenti proprio per capire a quante e quali suggestioni si volgesse la cultura di
Campana all’inizio del suo lavoro. Qui c’è esotismo alla Salammbô e alla Pierre
Louÿs in un pezzo strano come Convito romano-egizio58; immaginismo simbolistico-decadente alla Leconte de l’Isle (Poèmes barbares) in Spada barbarica59; colore
mistico-medievale in Guglielmina e Manfreda al balcone (sec. XIII) e ne Le figlie
dell’impiccato60.
Soprattutto c’è un dispiegamento di conoscenze metriche e compositive che
colpisce. Il primo componimento raccolto, presumibilmente il più antico, Il tempo miserabile consumi61, è una saffica, che, sebbene non raggiunga i livelli di per57 Cfr. D. CAMPANA, Quaderno, in ID., Opere e contributi cit., pp. 295-355 (il commento di Silvio Ramat, ibid.,
pp. 295-355).
58 Ibid., pp. 317-18.
59 Ibid., pp. 244-300.
60 Rispettivamente alle pp. 312 e 330-32. Qualche curiosità desta il fatto che Dino Campana parli con una certa cognizione di causa di due personaggi, Guglielmina la Boema e Manfreda (o Maifreda), diventati recentemente famosi
per aver anticipato certi temi della polemica femminista (cfr. P. M. COSTA, Guglielma la Boema, l’eretica di Chiaravalle, Milano 1985, e L. MURARO, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, Milano 1985). Fin dove si
spingevano le letture di questo giovane curioso?
61 D. CAMPANA, Quaderno cit., pp. 297-98.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
fezione dei grandi modelli carducciani (Dinanzi alle Terme di Caracalla, Alle fonti
del Clitumno), sta in piedi benissimo. Sonetti come Quando gioconda trasvolò la
vita62 e come quello, caudato, intitolato, misteriosamente, Sonetto di Vittoria Colonna63, rivelano una mano esperta e lungamente collaudata. Ci vuole altro per
sfatare la tesi del poeta “primitivo” e guidato soltanto dalla sua follia?
Il Quaderno consente poi di cogliere e studiare l’incessante lavorio compositivo e ri-compositivo, cui ho già accennato. Prosa fetida64, una galoppante sfilata
d’ottonari su di un tema tipicamente maudit e teppistico come quello della prostituzione notturna fiorentina, confluisce, – questa volta per sottrazione, – nella Petite promenade du poète dei Canti Orfici65; il tema di Tre giovani fiorentine camminano66 viene ripreso, con operazione abilissima, in Frammento (Firenze)67; Pei vichi fondi tra il palpito rosso68, che è del resto lirica al livello dei componimenti più
alti dei Canti, e un’altra poesia, Sopra la larva di un antico sogno69, confluiscono,
con una singolare operazione di “compressione” metrica, stilistica e semantica, in
Batte botte70. E questa è solo una piccola parte delle considerazioni che si potrebbero fare a questo proposito.
Il poeta taglia, cuce, fonde e rifonde, plasma e continua a plasmare: come se
la materia verbale fosse, davvero, creta fra le sue mani.
Il Quaderno è importante anche perché allinea l’una accanto all’altra una serie di liriche sul tema della poesia: O poesia poesia poesia, O l’anima vivente delle cose, O poesia tu più non tornerai, I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno 71:
nel loro insieme costituiscono la più rilevante dichiarazione di poetica, che Campana abbia mai pronunciato. Io direi che l’ambito tematico ed ispirativo in cui
Campana colloca la sua ricerca risulta esser quello della grande “avanguardia”
europea contemporanea (tornerò su questo punto): il rifiuto dello scodellamento del “bell’e fatto” e della “specialità”; il poeta si è rivestito di quello che ha potuto: «Io così nel mio piccolo ho vestito | quel che ho potuto e che mi conveniva
| son mancante, stracciato, ebben guardate | s’è brutto quel che trasparirà») 72; il
cuore dei poeti assai spesso è bello da sé; tuttavia, anche «se a qualcuno | potrà
62
Ibid., p. 354.
Ibid., p. 353.
64
Ibid., pp. 319-21.
65 ID., La petite promenade du poète, p. 113.
66 ID., Quaderno cit., p. 303.
67 ID., Frammento (Firenze), p. 180.
68 ID., Quaderno cit., pp. 348-50.
69 ID., Taccuini abbozzi e carte varie, I, ibid., pp. 378-79.
70 ID., Batte botte, pp. 144-45.
71 ID., Quaderno cit., pp. 333, 334, 335, 336.
72 ID., I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno, ibid., p. 336.
63
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
sembrare robetta da fiera»73, la capacità “illusionistica” del poeta farà piacere a
ciascuno ciò che ciascuno aspetta di farsi piacere. La tonalità sardonica e ironistica è connessa con questo punto di vista, che sconta una totale dissacrazione
della funzione e del ruolo tradizionali della poesia: «O poesia tu più non tornerai | eleganza eleganza | arco teso della bellezza» 74. Per risorgere essa deve ammarare nella realtà del mondo moderno, mescolarsi al vento sinistro modulato
dai rumori, dai suoni e dalle forme della tetra, oscura, dinamica e fangosa, crepitante ed assordante dimensione del tempo presente: «O poesia poesia poesia |
sorgi, sorgi, sorgi | su dalla febbre elettrica del selciato notturno» 75. Influenze futuristiche sono fin troppo visibili. Ma, se fossimo in Russia, io direi più precisamente “cubofuturiste”. Il macchinismo e la città sono infatti collocati, nel sistema campaniano, in un orizzonte più vasto, che tende ad abbracciare il cosmo.
L’“elettricità” va bene, ma accanto a quella delle lampadine, dei fari e dei tram,
esiste quella delle stelle e della luna, secondo un corredo di associazioni analogiche, che, ad esempio, presso i russi del tempo è frequentissimo. Della sua “modernità”, programmatica ed intenzionale, fa parte dunque anche un occhio aperto sulla creazione76. Detto in una forma ancora un po’ troppo esplicita e dichiarata, è questo il senso dell’appello che lo scrittore rivolge alla poesia:
Scintilli il tuo pensiero
sulle forme molteplici
che muovono cantano e stridono
elettrizzate nel sole
anima oscura del mondo
son le tue forme molteplici
che tratte dal sonno alla vita
ora avviluppano il mondo77.
7. Edizioni e commenti. Stato del testo.
Dalla ricerca e dal lavorío impiantati da Enrico Falqui sono fondamentalmente
derivati le edizioni e i commenti successivi. Segnalo: Canti Orfici e altri scritti, introduzione di Carlo Bo, «Oscar Mondadori», Milano 1972; e l’eccellente Canti
Orfici e altre poesie, introduzione e note di Neuro Bonifazi, «i grandi libri Garzanti», Milano 1989.
73
Ibid.
ID., O poesia tu più non tornerai, ibid., p. 335.
75 ID., O poesia poesia poesia, ibid., p. 333.
76 Si veda a questo proposito anche ID., La Creazione, ibid., p. 327.
77 ID., O l’anima vivente delle cose, ibid., p. 334.
74
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Fiorenza Ceragioli ha curato per l’editore Vallecchi, Firenze 1985 (3a edizione, maggio 1987) un ottimo commento dei Canti Orfici, che tiene conto il più
possibile dei materiali e dei riscontri presenti in tutte le scritture precedenti di
Campana. Successivamente l’edizione Ceragioli-Vallecchi si è riversata in un’edizione della Bur, dalla cui ultima ristampa (Milano 1995) traiamo, anche per comodità del nostro lettore, le citazioni.
Nel 1986 l’editore Tallone di Alpignano ha presentato un’edizione anastatica
dei Canti Orfici, con una presentazione di Mario Luzi.
In conclusione.
Come il lettore avrà capito, seguendo la mia esposizione, lo stato del testo dei
Canti Orfici è attualmente ancora disastroso. Non esiste un’edizione critica dei
Canti; e soprattutto, direi, non è stata data nessuna sistemazione certa (se si eccettuano, come abbiamo visto, i Taccuini e Il più lungo giorno) all’ampio materiale
sopravvissuto alla possibile distruzione, di cui Falqui ha fornito una stampa ancor
più che in casi analoghi “sulla fiducia”. Il lavoro di riscontro e di confronto sui vari testi, iniziato dalla Ceragioli, è ben lungi dall’aver esaurito la grande ricchezza
dei materiali disponibili. E le molte scritture “in codice”, elaborate da Campana,
non sono ancora state che minimamente decodificate. Come scrive il poeta, anche
su questo terreno della fama postuma, sarebbe da ricercare «la stella | avvelenata
sotto cui [egli era] nato»78.
II. STRUTTURA.
1. Il «libro».
L’ipotesi che va messa alla base di ogni corretta lettura dei Canti Orfici è che questa “raccolta” è da concepirsi alla maniera di un “libro”, pensato, progettato e
realizzato come tale. Ha scritto Mario Luzi, che, oltre ad essere un grande poeta
del Novecento italiano, è stato uno degli interpreti più attenti e sensibili della
poesia di Campana: «[…] gli studi di due generazioni hanno messo in luce la natura profonda e organica del suo libro che insieme con quello coevo di Clemente
Rebora si staglia come il libro più libro, più ‘œuvre’ del nostro secolo italiano, anche se la persistenza dello schema latente della nostra cultura lo ha lasciato, mi
sembra, nel limbo delle assimilazioni imperfette»79 (osservo di sfuggita che anche
78
ID., Sonetto di Vittoria Colonna, ibid., p. 353.
M. LUZI, Al di qua e al di là dell’elegia, in AA.VV., Dino Campana oggi. Atti del Convegno (Firenze, 18-19 marzo 1973), Firenze 1973 p. 144 (ora, col titolo Campana, al di qua e al di là dell’elegia, in ID., Vicissitudine e forma, Milano 1974, pp. 160-61). Il medesimo testo era servito da introduzione a D. CAMPANA, Opere e contributi cit., pp. VX. Sul tema del “libro” cfr. anche G. TURCHETTA, Dino Campana cit., pp. 102 sgg.
79
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
l’accostamento a Rebora ha influenzato il nostro giudizio). Campana risale all’indietro, oltre la “forma canzoniere”, ancora dominante nel Novecento italiano, e
approda ad una sorta di “forma mista”, che sta fra il prosimetro dantesco della Vita nuova e il frammentismo poetico-prosastico decadente e simbolista (si pensi a
Les illuminations e a Une saison en enfer di Rimbaud: ma saranno da tener presenti anche le mallarmeane teorizzaziont del Libro). In più, – mi pare, – c’è in
Campana l’obiettivo di raccontare una storia a suo modo compiuta, con un inizio,
uno svolgimento e una conclusione, come cercherò di dimostrare.
La struttura del libro si compone di precisi elementi, in stretta coerenza fra
loro, che sono: 1) titolo; 2) sottotitolo e dedica; 3) testi; 4) il colophon, con cui si
chiude il testo. Mi propongo di esaminarli partitamente, per tornare alla fine ad
una conclusione unitaria.
2. Il titolo.
Canti Orfici sostituisce il precedente Il più lungo giorno, titolo che altro non era
che una citazione d’un passo della terza parte (Il ritorno) del poemetto in prosa
iniziale La notte: «E si raccoglie la mia anima – e volta al più lungo giorno de l’amore antico ancora leva chiaro un canto a l’amore notturno»80: passo poi scomparso nei Canti Orfici, in uno dei punti più rielaborati del poemetto.
Per quanto riguarda l’orfismo è d’obbligo la citazione del capitolo V, Orphée
(Les mystères de Dionysos), dei Grands initiés. Esquisse de l’histoire secrète des religions, di Édouard Schuré, che Campana poteva aver letto in una qualsiasi delle
numerose edizioni francesi del tempo, seguite alla prima del 1889. Tutti sanno,
peraltro, che il libro di Schuré contribuì a volgarizzare, anche presso masse abbastanza vaste di pubblico, una riscoperta del mondo religioso primitivo e dei primordi della civiltà ellenistica, che nella Nascita della tragedia (1874) di Nietzsche
aveva trovato uno dei suoi capisaldi. Ora, in Nietzsche, come poi in Schuré, il mito di Orfeo è strettamente collegato al motivo dionisiaco e questo sembra già un
buon motivo per la scelta di tale titolo da parte di Campana: in lui, infatti, la scelta di fondo è dionisiaca, anche se reminiscenze e nostalgie apollinee percorrono
da cima a fondo la sua poesia81.
80 D. CAMPANA, Il più lungo giorno, prefazione di E. Falqui, testo critico a cura di D. De Robertis, 2 voll., Firenze 1973, II, p. 22. Ma anche in ID., Taccuinetto faentino cit.: «(o ancora amore ancora, più lungo più lungo giorno
dell’amore antico)» (p. 269).
81 Su questo, come su altri punti del nostro discorso, cfr. S. RAMAT, Campana nella tradizione novecentesca
(1973), in ID., Protonovecento, Milano 1978, pp. 265-84, il quale a sua volta giustamente rimandava agli studi di Neuro Bonifazi, poi raccolti e ripresi nel volume N. BONIFAZI, Dino Campana, Roma 19782, importante soprattutto per
l’analisi dei rapporti fra Nietzsche e Campana e del tema dell’orfismo.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Ma con «orfico» Campana poteva far riferimento anche ad altre suggestioni. Orfeo è il poeta delle origini; e tale s’immagina Campana in contrapposizione al clima sfatto e snerbato della poesia dei suoi tempi. Orfeo e l’orfismo richiamano un rapporto visionario, pre-logico, che s’allarga facilmente a dimensioni cosmiche; e Campana sviluppa dall’osservazione concreta ed attenta del
“fenomeno” sensibile risonanze che possono arrivare fino alle stelle (rapporto
tra “visivo” e “visionario”, che costituirà una delle cruces più rilevanti della critica campaniana); Orfeo è sospeso tra il mondo umano e gli Inferi; e Campana,
anche lui, pendola strenuamente tra la ragione e la non-ragione, tra la chiarità
del giorno e l’oscurità della notte; Orfeo insegue la sua Euridice e la perde; e
Campana per tutta la vita cerca di concretizzare in una figura definita un eterno femminino, che tuttavia sempre gli sfugge; Orfeo finisce sbranato dalle Baccanti; e Campana si sente (vedi il colophon) immerso nel proprio sangue dalla
violenza degli aggressori. Orfico, poi, rappresenta una sottolineatura della
componente religiosa, mistica ed esoterica, presente nella voce della poesia; ed
in Campana c’è un’ansia mistica, che, senza diventare «religione», si fa contemplazione estatica del mondo.
Infine, c’è un atteggiamento orfico in ciò che riguarda il contenuto del mistero, ma c’è anche un atteggiamento orfico nel comunicarlo: l’orfismo è un culto
iniziatico; e anche Campana pensa, innegabilmente pensa ad una poesia, la cui
fruizione sia riservata al sacrificio di comprensione di pochi eletti (la cosiddetta
“difficoltà” campaniana).
Del titolo, insieme con l’aggettivo, va apprezzato nella giusta misura anche il
sostantivo: Canti. Da Leopardi in poi, – altro esempio chiaramente presente a
Campana, – Canti sta a significare una lirica alta, che travalica gli orizzonti di una
normale dimensione comunicativa: un ampliamento, più che un innalzamento,
della voce, che sia in grado di definire e accogliere una nuova dimensione dello
sguardo. Il nesso con lo spirito visionario è preciso ed evidente: anche Orfeo cantava, anche i suoi seguaci lo celebravano con il canto. E una “poesia delle origini”
o, meglio, del “nuovo inizio”, non poteva che essere canto.
3. Sottotitolo e dedica.
Nel frontespizio del libro, sotto Canti Orfici troviamo: «Die Tragödie des letzten
Germanen in Italien»); ossia: «La tragedia dell’ultimo Germano in Italia». Sulla
pagina successiva, bianca, spicca la dedica:
A GUGLIELMO II IMPERATORE DEI GERMANI
L’AUTORE DEDICA
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Se si tiene presente che ciò accade nell’estate del 1914, a pochi mesi di distanza dallo scoppio del primo conflitto mondiale, mentre il clima politico e militare in Europa va arroventandosi e cresce quasi ovunque l’odio per il tedesco, la
scelta di Campana appare ancora una volta ispirata ad una trasgressione pazzesca.
Più tardi cercherà di giustificare la cosa in termini di inesperienza e d’imprudenza82. La spiegazione invece è come al solito più profonda.
Chi abbia seguito finora la mia esposizione non può non rendersi conto che
l’autodefinizione di «germano» da parte del poeta calza a pennello, da una parte,
con la violenta polemica sua contro usi, costumi, abitudini nazionali italiani, in
particolare quelli intellettuali, dall’altra, con la sua ambizione di collegare nordicità e mediterraneità, spirito tedesco e tradizione latina. Campana dà la spiegazione più logica e completa della questione nella lettera a Emilio Cecchi del marzo
1916, già più volte richiamata:
Ora io dissi die tragödie des letzten Germanen in Italien mostrando di aver nel libro
conservato la purezza del germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro morte in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cercavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante del
tipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)83.
Più chiaro di così: per Campana «germano» o, come altrove, «germanico» è
sinonimo di purezza, – quella stessa purezza per conservare la quale gli antichi
barbari, calati in Italia, erano ad un certo punto scomparsi. Esso, perciò, è aggettivo usato sempre da lui positivamente, per marcare una differenza. Ad esempio, in tutt’altro contesto: «Nel portamento della testa Carducci ha del germanico [...]»84. Altrove si definirà da sé «ultimo avanzo dei barbari in Italia»85. La dedica a Guglielmo Il viene di conseguenza: nella logica così instaurata il poeta
rende omaggio al “proprio” sovrano.
82 Per esempio, in una lettera a Carlo Pariani dal manicomio di Castel Pulci, del 22 ottobre 1927, in D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu cit., p. 240: «Il mio piccolo libro contenente poesie patriottiche fu dedicato all’Imperatore
Guglielmo per confusione di idee. Testimoniava in forma di insufficenza di caratteri che l’ambiente in cui ero destinato a vivere, stante un indebolimento de la volontà prodottomi da una nevrastenia giovanile».
83 ID., Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., p. 143.
84 Da un frammento pubblicato in ID., Opere e contributi cit., p. 429, che si affianca a quello già richiamato in cui
si afferma che «come sempre la poesia di Dante risulta dalla lotta tra il nordico e il latino...» (ibid., p. 430).
85
ID., Lettera ad Anselmo Geribò del [25 dicembre 19151, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 116. Per capire l’atteggiamento mentale di Campana in questo contesto è importante leggere il seguito della lettera, in cui egli stigmatizza a modo suo la realtà morale e intellettuale dell’Italia contemporanea: «Sono assai dispiacente che lei mi misuri col
metro. No Signor Girabò io sono un uomo e se lei paga 25 lire le ultime propagini filosofiche del mal de Naples ((gesuitismo, camorra, borbonismo sbirro (= negazione di Dio ossia negazione dell’arte come la fa il campione Benedetto
Croce quando dice arte = espressione), papini, il papinismo, De Robertis (anello di congiunzione), putrefazione progressiva della lingua, stile, italianità, ruffianesimo, la Voce, la civiltà filosofica, la Somma di S. Tommaso, il barocco, lo
spionaggio ecc., all’infinito)) dico se lei paga 25 lire al pezzo le infami propaggini (vociane) della putrefazione progressiva di una buona metà d’Italia, perché perdio dà solo dieci lire a me?» (ibid., pp. 116-17).
Letteratura italiana Einaudi
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
È leggendario che, dopo lo scoppio della guerra, Campana si desse da fare
per cancellare o strappare le pagine incriminate. Fatto è, invece, che anche più
tardi Campana mostrò di non voler rinunciare all’appellativo. Inviando a Mario
Novaro i versi di una poetessa fiorentina recentemente scomparsa, Luisa Giaconi, per raccomandarne la pubblicazione, egli precisava: «La condizione della
stampa e [sic] che non sia omesso: Poeta germanicus»86. E siamo nel 1916! La
sua ostinazione dovette essergli fonte di non pochi fastidi, soprattutto quando,
continuando a vagabondare per l’Italia, cominciò ad essere scambiato per una
spia tedesca87.
Non è da escludere che il poeta amasse giocare anche sul proprio aspetto fisico: non molto alto ma robusto, biondo, capelli e barba lunghi (spesso), con gli occhi chiari, doveva sentirsi ed apparire un cittadino italiano molto particolare: un
residuo estremo di quelle popolazioni barbariche, – appunto, – pressoché sommerso dalla universale diffusione del tipo fisico e morale opposto.
«Tragedia» vuol dire ch’egli vede se stesso in posizione tragica rispetto al
mondo. È stato ricordato che il sottotitolo del Faust è Eine Tragödie88. È in questo
senso che va interpretato il termine: come storia di un’illusione, che si risolve in
disillusione, disperazione e sconfitta. Nel sottotitolo, dunque, è inscritta, ad apertura di pagina, la sofferta matrice autobiografica del testo.
4. I testi.
Il confronto tra il fascicolo del Più lungo giorno e il volume dei Canti Orfici permette di seguire con il massimo di precisione l’evoluzione creativa e compositiva del poeta e di cogliere l’enorme differenza di progettualità intercorrente fra
le due stesure. Dico subito che i due testi vanno intesi non come opere distinte
ma come fasi diverse e strettamente integrate di uno stesso processo evolutivo.
Campana si conferma in tal modo poeta unius libri: a questo libro ha lavorato
esclusivamente nel corso della sua attività fino al 1914; e si potrebbe forse anche dire che i versi suoi, apparsi dopo questa data, rientrano anch’essi nell’orizzonte compositivo del “libro”, – avrebbero potuto renderne possibile un futuro arricchimento e una ulteriore manipolazione, più che la comparsa di un
progetto diverso.
86
ID., Lettera a Mario Novaro [senza data, ma prima del maggio 1916], ibid,, p. 167.
Su uno di questi episodi, cfr. l’assai interessante A. MASTROPASQUA, Un episodio inedito della biografia di
Dino Campana, in «Es», n. 6 (1977), pp. 25-28; e le note di Gabriel Cacho Millet in D. CAMPANA, Souvenir d’un
pendu cit., p. 183.
88 Cfr. F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Immagini del viaggio e della montagna, in ID., Canti Orfici
cit., p. 329.
87
Letteratura italiana Einaudi
32
«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Le differenze fra le due stesure dovrebbero risultare evidenti nel confronto
reso possibile da questa tabella89.
Il più lungo giorno
Epigrafi (di N.N., di Nietzsche,
di Soffici)
I) La notte mistica dell’amore e del dolore –
Scorci bizantini e morti cinematografiche.
I. La notte mistica
II. Il viaggio
III. Il ritorno
IV. La sosta
Canti Orfici
1) La Notte (1)
I. La notte
II. Il viaggio e il ritorno
III. Fine
Notturni
2) La Chimera
3) Giardino autunnale (Firenze)
4) La petite promenade du poète (Firenze)
5)
6)
7)
8)
9)
Il canto della tenebra (Tono minore)
Scirocco serale (Piazza S. Petronio)
L’invetriata
Sul torrente notturno. La speranza
La notte di fiera
2) La Chimera (2)
3) Giardino Autunnale (Firenze) (3)
4) La Speranza (sul torrente notturno)
(8)
5) L’invetriata (7)
6) Il canto della tenebra (5)
7) La sera di fiera (9)
8) La petite promenade du poète (4)
9) La Verna (12)
Immagini del viaggio e della
montagna
10) «Amo le vecchie troie»
11) Firenze
12) Il mattino: Il pellegrinaggio: Le sorgenti
13) Alba
14) Giro d’Italia in bicicletta (1° arrivato
al traguardo di Marradi)
15) «Ma un giorno»
10) «... poi che nella sorda lotta
notturna» (13)
11) Viaggio a Montevideo (15)
*12) Fantasia su un quadro di
Ardengo Soffici
13) Firenze (Uffizii) (11)
*14) Batte botte
*15) Firenze
*16) Faenza
*17) Dualismo (Lettera aperta a
Manuelita Etchegarray)
89 Nella colonna di sinistra sono elencati i componimenti e le sezioni del Più lungo giorno, in quella di destra quelli dei Canti Orfici; nella prima colonna sono indicati in corsivo i componimenti che non appariranno più nei Canti Orfici; nella seconda colonna sono indicati con un asterisco i componimenti che appaiono per la prima volta in questa
raccolta; nella seconda colonna segue ai titoli un numero tra parentesi, che indica in quale posizione si collocava in
precedenza quel componimento nella prima raccolta, ove presente.
Letteratura italiana Einaudi
33
«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
*18) Sogno di prigione
*19) La giornata di un nevrastenico
(Bologna)
Varie e frammenti
*20) Barche amorrate
*21) Frammento (Firenze)
III. Il viaggio e l’incidente
16) Passeggiata in tram fino in America
e ritorno
17) Pampa
18) Il canto di Genova
Preludii mediterranei
22) Pampa (17)
*23) Il Russo
24) Passeggiata in tram in America e
ritorno (16)
*25) L’incontro di Regolo
*26) Scirocco (Bologna)
*27) Crepuscolo mediterraneo
*28) Piazza Sarzano
29) Genova (18)
Da questo raffronto emerge con chiarezza che esiste in realtà un solo libro, i
Canti Orfici, – e che di questo libro Il più lungo giorno rappresenta soltanto un
moncone: forse neanche un progetto di libro destinato alla pubblicazione, ma un
insieme di testi da esibire agli intendenti perché ne trascegliessero qualcosa a loro
piacimento. Infatti.
Il più lungo giorno è costituito da diciotto componimenti poetici, di cui cinque in prosa, o misti di prosa e versi, e tredici in versi. I Canti Orfici sono costituiti da ventinove componimenti. Di questi quindici erano già presenti nella stesura precedente; i tre caduti (6, 10, 14) sono interamente in versi. Ce ne sono ben
quattordici nuovi (quasi la metà); di questi, dieci sono prosastici. Il rapporto tra i
versi e la prosa si è dunque decisamente riequilibrato: quindici componimenti in
versi e quattordici prosastici90.
È del tutto evidente che le partizioni introdotte nei Canti Orfici intendono
segnalare esattamente la presenza di un percorso. Dopo La notte, che, sia pure
con profonde rielaborazioni, apre ambedue le stesure, la sezione Notturni raccoglie e risistema tutte le grandi poesie, che hanno come tema ispiratore la con90 I primi comprendono: La Chimera, Giardino autunnale, La speranza, L’invetriata, Il canto della tenebra, La sera
di fiera, La petite promenade (ossia, l’intera sezione dei Notturni, tutta poetica), «... poi che nella sorda lotta notturna»,
Viaggio a Montevideo, Fantasia su un quadro di Ardengo Soffici, Firenze (Uffizii), Batte botte, Barche amorrate, Frammento (Firenze), Genova. I secondi: i due grandi poèmes en prose La Notte e La Verna, ognuno dei quali precede e inquadra un lungo momento poetico, e Firenze, Faenza, Dualismo, Sogno di prigione, La giornata di un nevrastenico,
Pampa, Il Russo, Passeggiata in tram, L’incontro di Regolo, Scirocco, Crepuscolo mediterraneo, Piazza Sarzano.
Letteratura italiana Einaudi
34
«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
templazione della notte. Scirocco serale viene escluso e Firenze spostato più
avanti, perché, appunto, non così esplicitamente notturni come gli altri. «Amo
le vecchie troie» viene soppresso perché di tonalità non più conveniente alle alte ambizioni dei Canti Orfici; per lo stesso motivo viene censurato della parte
centrale, riferentesi più esplicitamente al mondo della prostituzione fiorentina,
La petite promenade du poète.
La sezione dei Notturni ha una tonalità uniformemente elevata; ma siccome nelle poetiche avanguardistiche il sublime ha sempre da dar di gomito nel
grottesco, ecco che La sera di fiera si conclude con un andante facile e volutamente popolaresco, un vero e proprio scioglilingua («una canzonetta volgaruccia», v. 25), che a sua volta anticipa e prepara le movenze realistico-grottesche de La petite promenade, sia pur depurata delle parti più crude. Segue poi
per contrasto il diario sublimizzante e mistico della Verna, dove il vagabondaggio s’incontra con gli innumerevoli fantasmi cristiani della devozione religiosa italiana.
Nell’incerta struttura grafica del volume Immagini del viaggio e della montagna potrebbe esser considerato in maniera egualmente legittima sia il titolo
del singolo componimento «... poi che nella sorda lotta notturna», sia il titolo
dell’intera sezione che segue, dedicata appunto al tema del viaggio, che arriva
fino a La giornata di un nevrastenico. Da qui comincia il rinnovamento più radicale nella struttura del testo, quasi del tutto nuovo. La Fantasia su un quadro di
Ardengo Soffici ha il valore di una dichiarazione di poetica della modernità, e
forse proprio per questo è inserito qui, oltre che per il riferimento della pittura
a un cafè chantant d’America (che è comunque ambientazione esotica).
In Varie e frammenti ci sono componimenti anche molto diversi fra loro, ma
sostanzialmente prosegue la serie dedicata alle impressioni e agli incontri di viaggio. Anche qui sono predominanti i componimenti del tutto nuovi rispetto al Più
lungo giorno.
Il “libro” finisce con tre componimenti dedicati a Genova: Crepuscolo mediterraneo, Piaggia Sarzano e la grandiosa raccolta di liriche, più che singola lirica,
riunite sotto il titolo di Genova.
Nel passaggio dal Più lungo giorno ai Canti Orfici si verifica lo stesso gioco di
rielaborazioni, rifusioni e sottrazioni che fra le poesie del Quaderno e le altre due
raccolte. Si accentuano e si moltiplicano i richiami tra un componimento e l’altro
(per esempio, tra La Verna, da una parte, La Notte e La Chimera, dall’altra; il Giro d’Italia in bicicletta, che scompare come componimento a sé, viene ripreso nella parte centrale di «... poi che nella sorda lotta notturna»; ecc.).
Sulle tracce dei metodi compositivi e delle intenzioni progettuali del poeta
ci mette un appunto a p. 38 del Taccuinetto faentino, sul quale ha giustamente
Letteratura italiana Einaudi
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
attirato l’attenzione la Ceragioli91. Vi troviamo scritto: «Novelle a gran velocità.
Il russo l’incontro». Successivamente integrato e corretto con varie interpolazioni, si potrebbe alla fine leggere: «Novelle (titolo del libro: incidenti) a gran
velocità | Il russo l’incontro | da unirsi a impressioni di città prose e poesie | finisce i notturni | chiaro di luna poesia per ridere | parte prima del libro i notturni | e [tutto] il libro finisce nel Più chiaro giorno | di Genova e la discussione
sull’arte | mediterranea»92. Si tratta, non v’è dubbio, di un abbozzo sommario
della struttura dei libro, ad uno stadio ormai avanzato di elaborazione. Per «titolo del libro: incidenti», si rammenti che una delle sezioni del Più lungo giorno
s’intitolava «Il viaggio e l’incidente». Definisce con grande chiarezza «novelle a
gran velocità» (intitolazione dal sapore futuristico) Il russo e L’incontro di Regolo. Nella lettera di presentazione a Prezzolini aveva preannunziato: «Scrivo novelle poetiche e poesie [...]»93.
5. Il «colophon».
In fondo al volume, ma come incorporato al testo, – lo separa dall’ultima riga di
Genova una semplice barra nera, – Campana ha inserito in forma di colophon i seguenti versi di Walt Whitman:
They were all torn
and cover’d with
the boy’s
blood
Si tratta di una citazione dal Song of Myself (v. 34) del poeta americano, che
nell’originale suona esattamente: «The three were all torn and cover’d with the
boy’s blood»94. Nella riduzione di Campana si potrebbe tradurre: «Erano tutti
stracciati e coperti del sangue del fanciullo». Sull’importanza attribuita da Campana a questa “chiusura”, si pensi a quanto il poeta ne dice nella solita lettera a
Emilio Cecchi del marzo 1916: «Se vivo o morto lui si occuperà ancora di me la
prego di non dimenticare le ultime parole [...] che sono le uniche importanti del
libro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of myself quando parla
della cattura del flour [sic] of the race of rangers»95. È evidente che Campana s’i91
Cfr. F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Il Russo, in ID., Canti Orfici cit., p. 380.
D. CAMPANA, Taccuinetto faentino cit., p. 267.
93 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 56.
94 Nel brano in questione Whitman descrive, con accenti epici e commossi, il massacro di Alamo: cfr. w. WHITMAN, Song of Myself, 1855 (trad. it. di E. Giachino, Il canto di me stesso, in ID., Foglie d’erba e Prose, Torino 1956,
pp. 141-42).
95 D. CAMPANA, Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., pp. 141-42.
92
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
dentifica con la sorte dei giovani massacrati a tradimento nella poesia di Whitman. E ciò è molto importante, perché risulta a questo punto ben chiaro che fra
la «tragedia» del sottotitolo e questa conclusione (addirittura le uniche parole importanti del «libro») esiste un nesso preciso, – autobiografico, certo, come è stato
notato96, – ma anche filosofico, cosmico. La poesia è concepita come sacrificio di
se stesso, frutto inerme della persecuzione, infine, letteralmente, massacro dell’innocente, vittima sacrificale. L’inserimento del colophon è una delle tante chiavi
iniziatiche di lettura sparse nel testo.
6. La «partenza» e il «ritorno».
Nella poesia di Campana è fondamentale, – ovviamente, – il tema dei viaggio: ma
il viaggio per lui è soprattutto la congiunzione di due momenti, che, normalmente, in un viaggio possono ma possono anche non essere ambedue presenti: la partenza e il ritorno. «Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricordarmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno [...]» (La Verna, p. 131). Una certa “circolarità” è dunque intimamente connessa con la visione
del viaggio da parte di Campana: si pensi, ad esempio, a La Verna: da Marradi a
Marradi; oppure al vagabondare stesso del poeta lungo le strade del mondo: da
Marradi all’universo; e dall’universo a Marradi.
Ma accanto al tema del viaggio fisico, geografico, esperienziale, Dino Campana ha sempre ben presente il tema del viaggio mentale, che si svolge secondo gli
inconsueti e spesso insondabili assi (e parallassi) immaginari del tempo, – passato,
presente, futuro, – e tra i diversi punti del suo cervello, ognuno dei quali assume
la forma e la funzione di un luogo da osservare e da descrivere.
Ora, questa anticipazione delle tematiche più tipicamente campaniane mi
serve a chiarire che anche i Canti Orfici, nella loro essenziale struttura, nella disposizione delle parti e nell’indice dei componimenti, si pone come un viaggio
o, forse sarebbe meglio dire, un percorso, che, in termini fisici, va dalla pesante
barbarica notte faentina alla luminosa «infinitamente occhiuta» notte mediterranea97 e, in termini psichici, va dalla cupa desolazione di quell’ingresso agli Inferi, che è La Notte, a quella sorta di liberazione spirituale, – un autenticamente
dantesco «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno, XXXIV, 139), – che è
la poesia di Genova. Converrebbe forse, in una qualche prospettiva di facile
volgarizzazione campaniana, sostenere un’interpretazione del testo opposta a
96
F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Canti Orfici cit., pp. 418-19.
Sono gli ultimi due versi di Genova: «Nuda mistica in alto cava | infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena» (vv. 158-59, p. 234).
97
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
questa, come progressiva discesa del poeta verso la parte più oscura dell’essere.
I Canti Orfici, invece, descrivono un’esperienza spirituale non molto dissimile
da quella compiuta nell’Inferno da Dante, il quale, a furia di scendere, si trovò
alla fine salito (e rovesciato) ad una dimensione più elevata di quella di partenza. Anche per Campana il viaggio è, nonostante le apparenze, ritorno ad una
più vera patria: il percorso è dunque ascensionale: «E dentro il cavo de la notte
serena | e nelle braccia di ferro | il debole cuore batteva un più alto palpito [...]»
(Genova, vv. 154-56). Il punto estremo del “ritorno” allude dunque ad un possibile stato di liberazione, su cui tuttavia incombono, a ricordare la “tragedia”
dell’autore, i versi ammonitori di Whitman.
III. TEMATICHE.
1. La notte e il canto.
La condizione propria del poeta orfico è la notte: è nella notte che si celebrano e
si chiariscono i misteri; è nella notte che il canto può alzarsi più puro, più concentrato, meno condizionato dal necessario rapporto con gli altri uomini e con la
storia, che la luce e il giorno invece favoriscono.
Notturna è l’ambientazione, et pour cause della Notte, che si colloca tra un
infuocato crepuscolo e l’ombra più fonda, inframezzata di luci e di suoni, e dei
Notturni, compresa quella, volutamente becera e un po’ disgustosa, de La petite promenade: questa è l’apertura, grandiosa, del libro. Ma preponderanti elementi notturni sono presenti anche in Firenze, Dualismo, La giornata di un nevrastenico. Tutto notturno, – e di una notturnità profonda e sconvolgente, – è
Pampa. Anche «... poi che nella sorda lotta notturna», che inizia da un tormentato risveglio, si chiude con ritorno alla notte, che Campana carica di ogni possibile riferimento psichico e letterario: «Ecco la notte: ed ecco vigilarmi | e luci
e luci: ed io lontano e solo: | quieta è la messe, verso l’infinito | (quieto è lo spirto) vanno muti carmi | a la notte: a la notte: intendo: solo | ombra che torna,
ch’era dipartito...» («... poi che nella sorda lotta notturna», vv. 72-77, p. 139).
Egli ultimi tre componimenti del volume, – Crepuscolo mediterraneo, Piazza
Sarzana, Genova, – sono una lunga, rinnovata immersione nelle tenebre della
Notte, che si conclude con gli ultimi due straordinari versi di Genova: «Nuda
mistica in alto cava infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena»
(Genova, vv. 158-60, p. 234).
La notte è per Campana la madre di tutte le forme dell’esistenza: essa è ricettacolo di meditazione (Pampa); luogo di disfrenamento e di visionarismo (La
Notte); scoperta del mito (La Chimera); luogo dello spirito dove è possibile
Letteratura italiana Einaudi
38
«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
scorgere un altro mondo («le stelle vivide nei pelaghi del cielo», La Chimera, v.
18, p. 105); alvo materno nel quale rientrare sconfitti (Sogno di prigione); premonizione di morte (Il canto della tenebra); più precisa nozione della inevitabilità della sofferenza umana («[...] è fatua la sera e tremola ma c’è | nel cuore della sera c’è, | sempre una piaga rossa languente», L’invetriata, vv. 9-11, p. 109);
luogo dell’imbestiamento e della corruzione (La Notte, La petite promenade, Firenze), che tuttavia prelude, come in tutti i casi di “maledettismo” e di trasgressione, ad una visione più pura e sublimata dell’esistenza (come nella conclusione della Notte e in Genova): «Fuori è la notte chiamata di muti canti, pallido
amor degli erranti» (La Notte, p. 10298; dove il motivo del vagabondaggio («erranti») è collegato a quelli dell’amore e della poesia, secondo un’associazione
che ritorna insistentemente in Campana).
L’impresa di sciogliere in precise spiegazioni razionali tutti i nodi della poesia
campaniana è non solo difficile ma anche rischiosa, perché è contraria alla logica
cui il poeta si rifà con rigore estremo. Quel che il critico può fare, in un caso del
genere, è non tanto restituire il senso ultimo di certe affermazioni quanto tentare
di ricostruire il “sistema semantico”, cui Campana si è ispirato e che ha voluto nel
suo linguaggio trasmetterci.
Se ragioniamo in questo modo, vediamo che la notte, – la quale è per lui quasi un sinonimo di “ispirazione poetica”, – sta al centro di una vera e propria costellazione di termini e di concetti, che nel loro insieme costituiscono una parte
non irrilevante dell’intero sistema poetico campaniano.
La notte, ad esempio, – in quanto rappresenta, per così dire, un fisiologico
“sfondamento” del campo visivo e dei limiti della percezione, – viene a confinare
strettamente con la nozione di “infinito”. Lo abbiamo visto nei versi già citati di
«... poi che nella sorda lotta notturna» (vv. 74-76) e di Genova (vv. 158-59, p. 234);
ma ancora in Genova, dove è motivo ricorrente e fondamentale: «sulla tacita infinita | marina chiusa nei lontani veli» (vv. 2-3, p. 229, c.n.); e «Nel paesaggio mitico di navi nel seno dell’infinito» (vv. 90-91, p. 232, c.n.). L’uso di questo “sistema
semantico”, metaforico-simbolistico, ha un aspetto scenografico, – la dimensione
notturna in La Notte, ne La Chimera99 in Pampa, in Genova, appare come l’immenso suggestivo velario, su cui si proietta l’intima tragedia del poeta, – e un
aspetto ideale, che si dipana lungo assi precisi.
Ad esempio, anche dalla ristretta campionatura, che in questo caso posso
presentare, risulta con grande chiarezza l’importanza della serie “notte —> infinito, nulla —> morte”: naturalmente, per tener fede alle mie avvertenze precedenti,
98
99
Cfr. anche La Speranza (sul torrente notturno), v. 5, p. 108.
Cfr. La Chimera, vv. 16-20, p. 105.
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devo subito precisare che la serie non va letta in modo strettamente lineare ma
piuttosto come un insieme di motivi, che continuamente si influenzano e si corrispondono a vicenda. Infatti, variando solo alcuni elementi della sequenza, se ne
potrebbe ricavare quest’altra, che ha molti punti di contatto con la prima, ma una
conclusione opposta: “notte —> infinito, stelle —> felicità”.
Un esempio della prima sequenza:
Chi le taciturne porte
guarda che la Notte
ha aperte sull’infinito? [...]
Per l’amor dei poeti, porte
aperte de la morte
su l’infinito!
(La Speranza (sul torrente notturno), vv. 9-11 e 15-17, p. 108).
E un esempio della seconda:
Ne la sera
calida di felicità, lucente
in un grande in un grande velario
di diamanti disteso nel crepuscolo [...].
Velario d’oro di felicità
è il cielo ove il sole ricchissimo
lasciò le sue spoglie preziose [...]100.
(Genova, vv. 92-95 e 110-12, pp. 232-33).
Si noti che «felicità» è termine che ricorre, se non erro, prevalentemente nel
conclusivo e ascensionale Genova, il cui ruolo di punto d’arrivo e di sublimazione
dell’intero processo anche da questo punto di vista si conferma101.
Con il “sistema semantico” della notte hanno a che fare anche tutti quegli attributi e nozioni, che rimandano a loro volta all’incertezza e all’indeterminatezza di
quello spazio della luce che sta fra il crepuscolo e la tenebra. Ad esempio, «ambiguo»: «Per i vichi marini nell’ambigua | sera cacciava il vento [...]» (Genova, vv. 4344, p. 230); «I palazzi marini avevan bianchi | arabeschi nell’ombra illanguidita | ed
andavamo io e la sera ambigua [...]» (ibid., vv. 46-48, pp. 230-31); «[...] e canti | udivo lenti ed ambigui su le vene de la città mediterranea» (ibid., vv. 143-44, p. 234).
Oppure, «ignoto»: «[...] o sorriso | di lontananze ignote | fosti» (La Chimera,
vv. 2-4, p. 105); «Ma per il tuo ignoto | poema di voluttà e di dolore [...]» (ibid.,
vv. 10-11); «D’ignota scena fanciulla sola» ( Viaggio a Montevideo, v. 6, p. 140);
«come un ignoto turbine di suono» (Genova, v. 17, p. 229).
100
101
I «diamanti», di cui al v. 95, sono le stelle che cominciano ad apparire in questo fulgido crepuscolo.
Ma cfr. anche Pampa, p. 184.
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Ma si capisce che, sia pur promanando dalla dimensione notturna, aggettivi
come «ambiguo» e «ignoto» finiscono per colorare d’una sfumatura tutta loro
l’impianto semantica dell’intera poesia campaniana: la quale, non a caso, si muove costantemente sull’incerto, mobile confine che sta fra l’immaginario esistenziale e l’immaginario cosmico, fra il mito e il “fenomeno”.
1.1. Mitico/mistico.
La notte si popola d’immagini, di vibrazioni, di luci, – e di “forme”. La notte
“produce” forme, che l’occhio poetico coglie come manifestazioni elementari dell’essenza: «[...] la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme delle
femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellensi dal cavo dei lampioni»
(La Notte, p. 98); «[...] sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra» (ibid., p. 99); «a me trepidante la vita passava avanti
nelle immortali forme serene» (Crepuscolo mediterraneo, p. 218).
Ma, per quel sottile gioco di rapporti e di scambi tra fenomeno ed essenza,
che costituisce tanta parte della poesia campaniana, il gioco delle “forme”, –
come quello, con esso strettamente intrecciato, dei nomi, delle luci e dei colori,
– esce continuamente dalla sfera puramente visiva, non dico per non più rientrarvi, ma per configurare una sfera superiore delle sensazioni e delle percezioni, che trascende l’esperienza. La poesia di Campana tende a creare miti, secondo un’accezione classico-orfica, che il poeta rivisita con sensibilità moderna, perfettamente decadente. E il mito, nella sua accezione più antica, è concrezione di esperienze, che si sublimano in un’idea e in un’immagine ricorrente. Ma, poiché per Campana il mito diventa associazione vivente di antico e di
moderno, di originario e di decrepito, in lui il termine «mitico» assai spesso
s’accosta e si lega al termine «mistico» (come del resto già s’è visto in molti degli esempi precedenti):
Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimo
dei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio:
mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mistico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente.
(La Notte, pp. 83-84, c.n.).
E ancora: «Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, una chioma
profusa, un corpo rantolante procubo nella notte mistica dell’antico animale umano» (ibid., p. 96, c.n.). Oppure, su di un altro registro, ma continuando e sviluppando il medesimo discorso: «E allora figurazioni di un’antichissima libera vita,
di enormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti al mio spirito. Rividi
un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbaro [...]» (ibid., pp. 96-97, c.n.).
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Il mito, dunque, è l’apertura fantastica su di una dimensione spazio-temporale, in cui il passato e il presente convivono e luoghi diversi possono essere poeticamente, analogicamente accostati fra loro. Nella Verna «mitico» e «mistico» trovano la loro fusione più piena, nel nome di una «leggenda francescana» (p. 125)
rivissuta anch’essa come proiezione d’un passato, che congiunge insieme «la tellurica melodia della Falterona» (p. 127) e la «divina dolcezza notturna» (p. 124)
del paesaggio sottostante: le divinità ctonie e quelle celesti, in una fusione di immaginari, che potrebbe essere definita, – se la contraddizione fosse intesa nei suoi
giusti termini, – pagano-cristiana. Il simbolo di questa sintesi è il paesello di Campigno, il quale è, al tempo stesso, «paese barbarico, fuggente, paese notturno, mistico incubo del caos» (p. 128, c.n.).
1.1.1. Barbarismi ed esotismi. Il corredo dell’immaginario mitico-mistico
spazia dal primitivo al moderno e s’apre allo spazio illimitato della conoscenza e
del viaggio.
Nella poesia di Campana ci sono, come del resto abbiamo già visto dalle citazioni precedenti, barbarismi: «Una antica e opulenta matrona, dal profilo di montone, coi neri capelli agilmente atlanti sulla testa sculturale barbaramente decorata [...]» (La notte, p. 86); bizantinismi e orientalismi: «Dormiva l’ancella dimentica nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco imbiancava in fondo il pallore incerto della tenda» (ibid., p. 96); «Laggiù nel crepuscolo
la pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobile
e mitica donata dell’enigma delle sfingi» (La Verna, p. 132)102; esotismi, che, senza
soluzioni di continuità, ma pressoché sullo stesso piano spazio-temporale, si richiamano anch’essi al motivo del barbarico e del primitivo:
Andavamo andavamo per giorni e per giorni: le navi
gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente [...]
ed ecco: selvaggia
a la fine di un giorno che apparve
la riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina [...].
(Viaggio a Montevideo, vv. 32-33 e 36-38, p. 141).
1.1.2. La Chimera. In questo corredo d’immagini mitiche, che qualche volta
nei momenti di stanchezza diventa armamentario stanco e un po’ demodé e che
tuttavia riempie la poesia campaniana di personaggi misteriosamente seducenti, –
102 Si noti particolarmente in questo brano il ricco intreccio di motivi mitici, che si richiamano a piani anche diversi del discorso: sì che lo stesso immaginario che produce un modello femminile da «icona bizantina», richiama a
pochissima distanza il modello della «sfinge».
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la matrona barbarica, le «sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva» (La
Notte, p. 83), «la barba giudaica di un vecchio» (ibid.), l’ancella dal volto d’icona
bizantina e dal corpo di sfinge, la «bronzina» «fanciulla della razza nuova» (Viaggio a Montevideo, vv. 34-35, p. 141), – si consolidano qua e là, riempiendosi di significati riposti, figure e immagini, che diventano i miti personali, ancestrali, del
poeta. Uno di questi, e forse il più importante, è la Chimera.
Non so se sia stato sufficientemente notato che la Chimera è in sé figura mitologica della più grande stranezza103, tanto è vero che essa è passata a designare
per antonomasia le illusioni più sfrenate e inverosimili degli umani104. Nella poesia che Campana le dedica essa appare come la figura misteriosa che l’occhio del
poeta vede apparire nelle condizioni di lontananza e di oscurità che la situazione
descritta delinea, – «pallida» ed «esangue», perché i suoi colori sono appunto
quelli della lontananza e del mistero, – come proiezione di un desiderio al tempo
stesso insopprimibile e inattingibile: sorella della Gioconda leonardesca (anch’essa lontana e impenetrabile come un mito), della Cerere-Proserpina, rapita da Plutone e divenuta regina degli Inferi, e della Santa Cecilia del dipinto di Raffaello105;
e al tempo stesso creatura autonoma della fantasia campaniana, pura immagine
della sua insoddisfatta richiesta di amore proiettata all’intorno sul cosmo intero e
destinata a restare senza risposta:
guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti
e l’immobilità dei firmamenti
e i gonfi rivi che vanno piangenti
e l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
e ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti
e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
(La Chimera, vv. 27-32, p. 106).
In questi che sono sei tra i versi più belli del Novecento italiano risalta con
chiarezza inconfondibile ciò che intendo per caratterizzazione mitica della poesia
campaniana. L’indeterminatezza del simbolo, – a me pare indifferente che si tratti di una versione dell’Eterno Femminino oppure, come altri vogliono, di una raffigurazione della Poesia, – consente d’allargare lo sguardo alla visione cosmica in
cui esso s’inquadra, dove l’acqua, l’aria, la terra, – gli elementi-base del mondo, –
s’allacciano strettamente al fuoco della passione poetica, che insegue, insegue e
103 La Chimera è, com’è noto, un mostro mitologico dalla testa di leone, corpo di capra e coda di drago: dalla bocca alita fiamme. Dino Campana poteva averne visto l’esemplare scultoreo più famoso, d’origine etrusca, presso il Museo Archeologico di Arezzo. Naturalmente, l’uso che il poeta ne fa è essenzialmente metaforico e simbolico: non è
però senza significato che il suo immaginario rimanesse colpito, anzi folgorato, da una «figura» così singolare.
104 E in questo senso viene usata da Campana in Il Russo, p. 194: «Nella camerata non c’era che il tanfo e il respiro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere».
105 Cfr. N. BONIFAZI, Dino Campana cit., p. 135.
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continua ad inseguire senza posa se stessa: pura espressione di desiderio, ripeto,
contro i ristretti confini della carne umana, del tempo e dello spazio.
Altrove, coincidendo in questo caso il chimerico sogno con la predilezione
del poeta per l’universo stellare:
ed io gli occhi alzavo su ai mille
e mille e mille occhi benevoli
delle Chimere nei cieli:...
(Genova, vv. 49-51, p. 231);
in questo caso, l’identificazione stelle-chimere è diretta e porta ad inserire la figura di questo mito in una delle catene semantiche già descritte, dimostrando anche
per questo verso come funziona il processo, associativo e analogico, della composizione campaniana.
2. Il poeta e la poesia.
Da quanto sono venuto finora esponendo dovrebbe risultare evidente che il poeta è non solo protagonista pressoché costante della sua poesia, ma anche tema, argomento privilegiato di essa. Le due cose, per quanto possa apparire arduo, sono
distinguibili. C’è nella poesia di Campana un personaggio che dice «io» e che racconta le sue esperienze. Ciò accade in quasi tutti i componimenti, e spesso in posizione semanticamente molto significativa, come ad esempio all’inizio del discorso, in posizione, musicalmente, di “attacco”: «Ricordo una vecchia città [...]» (La
Notte, p. 83); «Non so se tra roccie il tuo pallido | viso m’apparve [...]» (La Chimera, vv. 1-2, p. 105); «Il cuore stasera mi disse: non sai?» (La sera di fiera, v. 1, p.
105); «Io vidi dal ponte della nave [...]» (Viaggio a Montevideo, v. 1, p. 140); ecc.
L’«io» è spesso assolutamente, prepotentemente centrale: esso si assimila totalmente le caratteristiche della poesia che produce, come in questo scandito, martellante suo presentarsi al proscenio del cosmo:
[...] io poeta notturno
vegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo,
io per il tuo dolce mistero
io per il tuo divenir taciturno.
(La Chimera, vv. 17-20, p. 105, c.n.).
Ciò garantisce il tono uniformemente lirico, alto, dell’esperienza poetica di
Campana, che è sempre discorso dell’ego e nell’ego, anche quando il poeta descrive situazioni e paesaggi.
Ma il poeta, e la sua poesia, sono anche oggetto, tema, del racconto di quel
personaggio che dice «io». Questo accade, ovviamente, per ogni forma di poesia lirica, che, oltre a raccontare altre cose, racconta sempre anche il suo autore.
In Campana, tuttavia, questo aspetto è più accentuato: è come se l’immaginario
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poetico di Campana fosse al tempo stesso soggetto e oggetto di se stesso. L’Orfeo, che sta dietro e dentro il reietto matradese, tende a imporsi come un personaggio autonomo; e i Canti sono, come ho già accennato, anche il resoconto della sua storia.
Estremamente significativo è che, in un punto nodale de La Notte, il poeta si
identifichi nella figura di Faust: «Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti
[...] Faust era giovane e bello» (pp. 93-94); poi, con rapido passaggio dalla terza
alla prima persona singolare, che svela il facile arcano: «Oh! ricordo!: ero giovine,
la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e di
stanchezza [...]. Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro le
larve del mistero» (p. 94).
Dunque, Faust. Ma cosa di Faust, a parte la non irrilevante conferma del rapporto con la sempre sovrastante “tragedia” goethiana? Del Faust, io credo, soprattutto il rapporto con il diavolo, che gli consente di sperimentare fino in fondo, a rischio della sua anima e della sua ragione, la sfera altrimenti impenetrabile
dei misteri mondani («Le larve del mistero»), e l’invalicabile, dolorosissimo dissidio tra il livello alto e quello basso dell’esistenza umana, tra lo spirito e la carne,
tra l’amore e la morte.
Solo che Campana trasporta lo spunto goethiano in un’aura perfettamente
nietzschiana: perché l’avventura del poeta percorre in lui binari fatali, ripete
un’eterna vicenda, è sottomessa fino in fondo alla prepotenza del destino, –
buoni o cattivi che siano gli effetti che esso produce su di lui, come sulle altre
esistenze, coscienti o incoscienti, che popolano l’universo: ossia «larve che si
scioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delle
profondità meravigliose del destino» (Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), p. 163). Per cui, di fronte alle alternative della speranza e del dolore,
ecco l’affermazione decisa e inequivocabile: «io dovevo restare fedele al mio destino» (ibid., p. 164, c.n.).
C’è un ritmo, dunque, nell’eterno svolgimento delle vicende cosmiche, che la
poesia coglie, e al quale non resta che adeguarsi. E in questo adeguamento c’è anche un approssimarsi il più possibile, – l’unico, del resto, concesso alla consapevolezza del poeta, – a quello stato di «illusione», in cui forse consiste l’unica possibile felicità umana:
Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonando
tutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutiti
del bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosamente sembravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in distanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura.
Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio
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essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uomini
verso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare. Drammi meravigliosi, i più meravigliosi dell’anima umana palpitavano e si rispondevano a
traverso le costellazioni. Una stella fluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosa
la fine di un corso di storia. Sgravata la bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: – per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni.
(Pampa, pp. 183-84, c.n.).
Comincia da qui, e da qui si sviluppa, la componente utopica, palingenetica,
indubbiamente presente nella poesia di Campana (come, del resto, in tanti poeti
dell’avanguardia). La scoperta dell’America è decisiva per il processo di rivelazioni cui egli perviene. Di fronte alla contemplazione di un universo così diverso e
maestoso le barriere del pensiero cadono e si apre la porta ad uno stato di esaltazione e di conoscenza, talvolta favorito dalla droga, che provoca la nascita di una
nuova creatura, ab imis rigenerata:
– Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca vena profonda il nostro sangue nelle vene: – che noi assaporavamo con voluttà misteriosa – come
nella coppa del silenzio purissimo e stellato [...]. E allora fu che nel mio intorpidimento
finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere [...]. Mi ero alzato. Sotto le stelle impassibili, sulla terra deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia
al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.
(ibid., pp. 183, 186, 187).
L’illusione della pace, – che presenta anche una variante mistica nella Verna, – non è però un pacifico e tranquillo punto d’arrivo, una meta ultima e definitiva del percorso. È solo uno dei nodi resistenti dell’esistenza. Più complessivamente, la storia dell’illusione si presenta invece come la storia di una scissione. Il Faust è diviso in due. In questo quadro assume un suo rilievo anche l’inserimento grottesco della Petite promenade du poète, che, pur depurato dei suoi
aspetti più crudamente descrittivi, rappresenta pur sempre l’immersione del
poeta in un universo postribolare, raccontato con i mezzi dimessi di una filastrocca «volgaruccia»: la parte putrida dell’esistenza fa da ineliminabile pendant
a quella luminosa, limpida, sottile.
Più in generale ancora: non c’è punto della storia o dello spazio in cui il poeta possa trovare requie, neanche in quel lontano Nuovo Mondo, dove pure «la
mia vita ritrovò un istante il contatto colle forze del cosmo» (Dualismo (Lettera
aperta a Manuelita Etchegarray), p. 161). Da questo punto di vista Dualismo risulta decisivo (fin dal titolo) per la comprensione del tema, di cui stiamo parlando.
Al sogno d’amore, che la señorita Manuelita Etchegarray gli ha acceso in cuore, si
contrappone in lui la nostalgia invincibile delle origini, in questo caso il fascino
del ritorno, come del resto in altri casi quello altrettanto irresistibile della partenza: «Il silenzio era scandito dal trotto monotono di una pattuglia: e allora il mio
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anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi della sensibilità della vecchia Europa e mi si stringeva con violenza il cuore [...]» (ibid., p. 162). In
questo caso la felicità non è, come in Pampa, la contemplazione dell’universo vergine del Nuovo Mondo ma al contrario è il ricordo di quello passato, – l’altro lato del mondo, appunto, che coincide con l’altro lato insopprimibile del poeta: «E
così lontane da voi passavano quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche e
sensuali che scioglievano in tenerezze i grumi più acri del dolore, ore di felicità
completa che aboliva il tempo e il mondo intero, lungo sorso alle sorgenti dell’Oblio!» (ibid., pp. 163 -64). Appunto, come ho già ricordato: «[…] io dovevo restare fedele al mio destino: era un’anima inquieta quella di cui mi ricordavo sempre
quando uscivo a sedermi sulle panchine della piazza deserta sotto le nubi in corsa» (ibid., p. 164, c.n.)106.
2.1. L’Eros.
I Canti Orfici e dunque la storia del poeta sono percorsi da una ininterrotta pulsione sessuale, – molto più costante e profonda di quanto critici troppo pudichi
non abbiano finora rilevato. Il calore intenso, – talvolta torbido ma in molti casi
luminoso, – che si sprigiona dai suoi versi e dalle sue prose ha molto spesso questa origine.
L’eros in Campana tende spesso a coincidere con quella pura espressione di
desiderio, di cui ho già parlato: esso è per lui, prevalentemente, manifestazione di
un sogno d’amore, che sgorga dagli abissi più profondi del suo essere e tende a rimanere insoddisfatto: è una virtualità, più che una realtà; oppure, quando si trasforma in realtà, deve acconciarsi ad accettare il compromesso con la dura e spesso mortificante realtà dell’essere.
L’eros si manifesta in una serie di forme, che si dispongono come lungo una
scala digradante (o ascendente, a seconda del punto di vista): anche qui esistono degli Inferni e un Paradiso. Ma non è difficile accorgersi che il rapporto
mercenario, tanto da lui cantato, – e il quale, del resto, ha una lunga storia nell’immaginario della poesia simbolista e decadente, – non è la moralistica alternativa, il surrogato costrittivo di un amor puro destinato a restare irrealizzabile:
è solo un gradino diverso, appunto, che Campana concepisce comunque come
iniziatico. In ogni donna, – signora o prostituta che sia, – l’Orfeo-Campana scopre un’Euridice, a cui accostarsi superando una serie di prove (a meno che non
si precipiti nel grottesco volgare della Petite promenade, ma in tal caso del tutto
106 L’inquietudine del poeta si contrappone al suo sogno d’amore come un ostacolo insormontabile: «So Manuelita: voi cercavate la grande rivale [...]» (ibid.).
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intenzionalmente): prova ne sia il complicato rituale cui il poeta sottostà in
quello che dobbiamo immaginare “realisticamente” come un modesto lupanare
di Faenza onde pervenire alla conquista dell’«ancella»: dove la Ruffiana attinge
al ruolo di «sacerdotessa orientale», mentre l’«ancella», destinata ad esser posseduta, anche lei immersa in questa evocativa penombra orientale, si presenta
come una misteriosa creatura d’altri luoghi e d’altri tempi: «L’agile forma di
donna dalla pelle ambrata stesa sui letto ascoltava curiosamente, poggiata sui
gomiti come una Sfinge [...]» (La Notte, p. 87). L’accostamento delle due figure
femminili a quella del poeta, – esplicitamente presentata come tale, il che conferma alcune delle mie osservazioni precedenti, – definisce ancor più esattamente il senso profondo di un tale convito, che, nonostante la sua limitatezza
sul piano puramente aneddotico e occasionale, assume la rilevanza di un incontro di destini: «[...] la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avida
e il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problema
della loro vita» (ibid.).
Si sale poi sempre più su in questa scala dei desiderio irrealizzato, passando
attraverso le matrone, le zingare, «le bambine dei Bohemiens» (Dualismo (Lettera
aperta a Manuelita Etchegarray), p. 163), la stessa Manuelita di Dualismo (ibid.), la
folgorante apparizione della Russa ne La giornata di un nevrastenico («È passata la
Russa. La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. È venuta ed è passata portando il fiore e la piaga delle sue labbra [...])», pp. 172-73); fino alla mitica
figura della Siciliana, che unisce in sé la tellurica imponenza delle forme e la sacralità millenaria della professione esercitata: «O Siciliana proterva opulente matrona | a le finestre ventose del vico marinaro | nel seno della città percossa di
suoni di navi e di carri | classica mediterranea femina dei porti [...]» (Genova, vv.
135-38, p. 233).
Fin qui siamo, in un modo o nell’altro, nel campo dei sensi. Più in alto il sesso, il desiderio, l’amore sfumano nella dimensione dell’irreale e del mito, pur senza mai perdere il fuoco iniziale. È una figura dell’eros – ovviamente, – anche la
Chimera, dove l’eros, come ho già detto, torna ad essere espressione di desiderio
puro, slancio dell’essere al di là dei confini fisici. Ma se il poeta si prova a tratteggiare il suo sogno e a dare una forma al mito, ecco che sul volto della Chimera si
stampa la maschera incredibilmente sensuale della Russa: «Musica fanciulla esangue, | segnato di linea di sangue nel cerchio delle labbra sinuose [...]» (La Chimera, vv. 12-14, p. 105).
Ma chimerica è anche quella figura femminile, – che chiameremo la Donna
della Notte, – nella quale l’illusione erotica e il soddisfacimento sessuale sembrano trovare per un istante un accordo pressoché completo, che trascende persino
la dimensione occasionale dell’incontro:
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Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino.
Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle
mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero su
di una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescente
come l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventura. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innumerevoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimera
teneva fra le mani rosse il mio antico cuore.
(La Notte, p. 99).
3. I luoghi e il viaggio.
Come ho già accennato (sezione II, § 6), il “percorso” di Campana non ha soltanto uno svolgimento verticale, – dall’alto verso il basso, o dal basso verso l’alto, e
comunque dentro i meandri più segreti della sua psiche, – ma ne ha anche uno
orizzontale, che corrisponde alla dimensione del viaggio.
Il viaggio è per Campana la forma suprema della conoscenza sensoriale e
della esperienza umana. Esso, perciò, – anche quando ha una meta più o meno
precisa, la Verna, Parigi, l’America Latina, – segue il più possibile suoi tempi,
suoi ritmi, sue modalità, che non coincidono con quelle di un viaggio normale:
più correttamente si dovrebbe definire vagabondaggio, se si liberasse questa parola della sua coloritura moralisticamente negativa e la si riconducesse al suo
etimo. Non a caso esso il più delle volte si fa a piedi o con mezzi di fortuna,
adattando le modalità del percorso alle esigenze della visione e della conoscenza, e non viceversa.
Il viaggio è dunque per Campana esperienza di libertà, rottura dei vincoli conoscitivi e culturali imposti dalle situazioni di “partenza” (è il caso di dirlo), apertura illimitata agli orizzonti dell’esperienza. Lo dice benissimo il poeta in quella
“novella rapida” di grande intensità e bellezza, L’incontro di Regolo, che è, al tempo stesso, un ritratto partecipe di un’altra figura di vagabondo e, attraverso questo, un autoritratto suo dei più espliciti e rilevanti:
Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e senza esitazione. Andiamo.
L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente, Ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione [...].
Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione e ci
lasciammo stringendoci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo,
senza accorgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi liberamente ci abbandonammo all’irreparabile.
(L’incontro di Regolo, pp. 206 e 207).
«Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione»: è una
limpidissima professione di fede nelle ragioni dell’avanguardia, come se ne trovano
poche anche in ambito europeo; è l’orgogliosa affermazione del nesso che passa tra
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la rottura dell’universo razionale e la scelta del viaggio, che, appunto, va contro le
regole e contro tutte le costrizioni; ed è anche il riconoscimento che, partire o non
partire, quel che conta è fare la propria scelta da liberi, la quale nietzschianamente
coincide con l’accettazione del proprio destino (l’“irreparabile”, – ciò che, appunto, non si può “parare”, che non può essere deviato in una direzione altra).
Il Viaggio di Campana assurge dunque a metafora della sua vita, forse d’ogni
vita: e come ogni vita assume, l’ho già detto, un’inevitabile forma circolare. Parte
dall’odioso ventre materno, Marradi (La Verna, pp. 133-34); s’aggira nell’inquieta
provincia romagnola, dove Faenza si presenta come il cupo, barbarico ricettacolo
delle prime esperienze adolescenziali e giovanili (La Notte, pp. 83 sgg.)107; sale alla
Verna, fra Romagna e Toscana, alla ricerca d’un puro soffio d’aria spirituale (La
Verna, pp. 115-33); s’aggira irrequieto nella tronfia Bologna, la città delle sue frustrazioni umane e studentesche, contraddistinta dalle sue «sanguigne» luci nebbiose (La Notte, pp. 92 sgg.)108; sosta ammirato e disgustato ai piedi dei monumenti e
delle bellezze fiorentini109; attraversa esaltato le grandezze architettoniche e naturali di Milano e delle Alpi, viste in successione, senza soluzioni di continuità (La
Notte, pp. 94-95); intravvede una Parigi notturna e zingaresca (Dualismo (Lettera
aperta a Manuelita Etchegarray), p. 163); fa conoscenza con le dimensioni carcerarie e manicomiali del Belgio110; si spinge fino ai mari giganteschi e fangosi e alle
pianure vergini e smisurate dell’America del Sud111; rientra e “si ferma” in una Genova solenne e impressionante, ricca di tutte le sfumature dell’esistenza112.
Di ogni luogo egli coglie i tratti e le forme, che più ne restituiscono l’essenza. Il viaggio, dunque, perde ogni aspetto aneddotico per diventare un percorso
di rivelazione e di conoscenza. Alcuni stilemi o gruppi di stilemi vi assumono
una particolare rilevanza: per esempio, la nave, il mare e il porto; o, per restare
alla terra ferma, la forma delle case e delle strade, le quali, come nel caso dei «vichi», continuamente ricorrenti nel gruppo di componimenti genovesi, si presentano come altrettanti tracciati obbligati dell’esperienza, degli “indicatori” del
viaggio da compiere.
In taluni casi le osservazioni si raggrumano in una nuova dimensione mitica,
al tempo stesso fisica e spirituale. Penso, ad esempio, alla nozione di «mediterra107
Cfr., naturalmente, Faenza, pp. 153-57.
Cfr., ovviamente, anche La giornata di un nevrastenico (Bologna), pp. 169-75, e Scirocco (Bologna), pp. 209-14.
109 Cfr. Giardino autunnale (Firenze), p. 107; Firenze (Uffizi), p. 143; Firenze, pp. 147-51; Frammento (Firenze), p.
180.
110 Cfr. Sogno di prigione, pp. 165-67, e Il Russo, pp. 189-95.
111 Cfr. Viaggio a Montevideo, pp. 140-41; Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), pp. 159-64; Pampa,
pp. 181-87; Passeggiata in tram in America e ritorno, pp. 197-201.
112 Cfr. Crepuscolo mediterraneo, pp. 215-19; Piazza Sarzano, pp. 221-25; Genova, pp. 227-34.
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neo», così importante per chiarire sia, come abbiamo già visto, la visione ideologico-filosofica del poeta, sia la sua concreta, fisica percezione del mondo: mito,
simbolo, osservazione del fenomeno fisico ed estasi psicologica ed intellettuale si
fondono insieme in un brano come questo:
Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto battaglia
glorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nell’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi dorati
(Crepuscolo mediterraneo, p. 217).
fantasmi, notturna estate mediterranea?113.
Il viaggio, iniziato nella cupezza tenebrosa e sanguigna delle città e dei borghi
romagnoli ed emiliani, si conclude nell’estasi potenzialmente felice della genovese
notte mediterranea: la pulsione del desiderio inappagato ha trovato un suo sbocco,
per quanto precario, – e al di là di questo il discorso necessariamente s’arresta.
3.1 La poesia e il Cosmo.
Tra Marradi e la Pampa, la Verna e Place d’Italie, la soffocante tenebra romagnola e l’immensità aperta e illimitata della Pampa notturna, tra il Mar della Plata e il
porto di Genova, – il poeta stende la rete delle sue relazioni e delle sue associazioni, scopre legami invisibili, rivela il “senso” che sta nascosto dietro paesaggi,
montagne, rocce, fiumi e porti diversi.
Il mistero interiore si collega orficamente al mistero del Cosmo, che ci circonda, impenetrabile, con la sua notte tenebrosa, ma anche con le sue stelle, con le sue
tenebre e con le sue luci. Campana, stabilendo un nuovo diretto rapporto tra la
creazione poetica e la Creazione tout court, – alla maniera, verrebbe voglia di osservare, del Leopardi dell’Infinito, – allarga a dismisura lo sguardo dell’osservatore, fino a tentare di abbracciare il mondo. Poesia e Cosmo alla fine, si corrispondono,
come se fossero le due facce, appunto, della medesima Creazione. Il tema vero della poesia campaniana è l’infinito dispiegamento del “fenomeno”: gli strumenti e gli
espedienti molteplici usati dal poeta servono essenzialmente a rendere possibile che
le parole aderiscano fedelmente alla ricchezza senza limiti dell’osservazione.
IV. MODELLI E FONTI.
In un’opera come Canti Orfici l’indagine sui modelli e sulle fonti si presenta come
potenzialmente ricchissima di suggerimenti e al tempo stesso disperante. Campana, infatti, usa il più delle volte i suoi modelli e le sue fonti in un modo non dissi113 Ho segnato con il corsivo tutti i termini che si richiamano all’unità profonda di questo «sistema semantico»
campaniano, che ho cercato finora di descrivere.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
mile da come un pittore userebbe i colori da stendere sulla sua tela: li prende, li
stende, li mescola e li confonde, al punto che alla fine il lettore ha l’impressione
che sotto quel viola si celino quel tale rosa e quel tale blu ma senza averne alcuna
certezza. Aggiungo che la critica ha dedicato scarsa attenzione a questo punto,
che potrebbe risultare addirittura decisivo114. In assenza di precedenti indagini sistematiche ritengo utile fornire, più che un elenco puro e semplice di riscontri, la
linea di un discorso possibile: la lotta del poeta per piegare al suo punto di vista
l’immenso materiale verbale e, come vedremo, iconografico del quale in pochi anni s’era impossessato (uomo com’era di letture forse disordinate ma immense).
1. La tradizione poetica italiana recente.
Carducci, Pascoli, D’Annunzio: come avrebbe potuto il giovane apprendista provinciale non cominciare da loro115?
Il rapporto più forte resta a mio giudizio con Carducci: in Quaderno se ne
hanno le prove, dalla scelta dei metri (per esempio, dalla già chiamata in causa
saffica iniziale Il tempo miserabile consumi116 alla predilezione fabbrile per il bel
sonetto in Sonetto perfido e focoso117 e in Sonetto di Vittoria Colonna118) al gusto
per il quadro robusto, sia cosmico che storico. Ma soprattutto io trovo che per
Campana il carduccianesimo fu una sorta di solido basamento, una scuola di abilità e di forza (soprattutto di forza), sulla quale edificare la sua sregolata avventura degli anni successivi. A questo credo pensasse il poeta quando formulava quella domanda in cui è contenuta una parte non irrilevante della sua poetica: «Non
vi sembra che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per i
miei giuochi di equilibrio?»119.
Qualche considerazione in più merita anche il rapporto con Pascoli. In taluni
casi il rapporto è diretto, letterale, e per di più in un contesto che avvalora ancor
di più la sostanza del riferimento: «Qualche cosa di nuovo, di infantile, di
profondo era nell’aria commossa [...]» (Scirocco (Bologna), p. 213): ovviamente
114 Mi limiterei a segnalare la fine analisi di M. COSTANZO, Cultura e poesia di Campana (1955), in ID., Critica e
poetica del primo Novecento (Boine, Campana, Sbarbaro, Rebora), Roma 1969, pp. 81-96; le osservazioni ampiamente
sparse in N. BONIFAZI, Dino Campana cit.; le note di commento al testo di F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Canti Orfici cit.
115 In una confessione a Pariani, che come molte altre ha l’aria d’esser verisimile, Campana dichiara: «Leggevo qua
e là. Carducci mi piaceva molto: Pascoli, D’Annunzio. Poe anche: l’ho letto molto Poe» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 48).
116 D. CAMPANA, Opere e contributi cit., p. 297.
117 Ibid., p. 309.
118 Ibid., p. 353.
119 Si tratta della terza delle Storie inviate nell’aprile del 1916 a Mario Novaro (ID., Souvenir d’un pendu cit.,
p. 150).
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
L’aquilone, vv. 1-2: «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, | anzi d’antico […]»120.
Ma tutto Il Canto della tenebra può dirsi d’impianto pascoliano, dalla metrica
morbidamente atteggiata a cantilena (un impasto sorvegliatissirno di versi lunghi
e, prevalentemente, di novenari) al tema di fondo, – la Morte incombente, – all’uso reiterato di monosillabi («Più Più Più», v. 13, p. 110) a quella conclusione:
«Pùm! mamma quell’omo lassù!» (v. 24, p. 110), che non potrebbe essere più pascoliana. Notturni sono del resto molti dei temi della poesia pascoliana, com’è noto; e pascoliano è il senso profondo della vita che s’annida in tutte le forme dell’esistenza, destinato a ritornare anche in Campana (e la poesia del cosmo può avere
in lui un’ascendenza al tempo stesso e leopardiana e pascoliana).
Discorso diverso bisognerebbe fare per D’Annunzio. Da una parte, infatti,
la poesia dell’“imaginifico” non poteva non lasciare tracce nella lussureggiante
ricerca metaforica e coloristica del nostro autore. Recentemente è stata esplorata, senza lasciare ragionevoli dubbi, l’influenza della prosa narrativa di D’Annunzio sulla poesia campaniana121. Ma gli incroci e i prestiti sono ancora più ricchi e numerosi. Si prenda, ad esempio, l’inizio di Firenze: «Fiorenza giglio di potenza virgulto primaverile» (p. 149). Non c’è dubbio che si tratti di Alcyone, Ditirambo I, vv. 113-15: «O Fiorenza o Fiorenza, | giglio di potenza, | virgulto primaverile»122. Forse d’origine dannunziana è anche l’uso di un termine colto e arcaicizzante come «cuna»: «angeliche cune» (Sogno di prigione, p. 167): «quando
la valle è una cuna | di fiori di sogni di pace»123; «Ma cuna dell’anima mia | è il
solco del carro stridente»124.
Rovesciando il rapporto, ci si potrebbe anche chiedere se il Notturno dannunziano (1921) non debba qualcosa all’idea campaniana dei Notturni. Certo,
come ho detto, il «notturno» è situazione pienamente decadente, che circola
ininterrottamente nella poesia europea del tempo. Tuttavia, non può non essere
segnalata la coincidenza per cui fra i titoli o sottotitoli significativi del Novecento italiano due soltanto si richiamino così esplicitamente alla “notte”, quello di
Campana e quello di D’Annunzio: non avrà per caso il prensile, il “camaleon120
G. PASCOLI, L’aquilone, vv. 1-2, in ID., Poemetti, a cura di E. Sanguineti, Torino 1972, p. 147.
A. CORSARO, La prosa narrativa di D’Annunzio nell’opera di Dino Campana, in A. CORSARO e M. VERDENELLI, Bibliografia campaniana (1914-1985), Ravenna 1985, pp. 83-98. Ma bisogna, per questo punto, richiamarsi
anche alle pagine che Neuro Bonifazi gli dedica nel capitolo Campana e Nietzsche della sua monografia Dino Campana cit. (particolarmente alle pp. 61-65). Cfr, inoltre C. GALIMBERTI, Dino Campana, Milano 1967, particolarmente
alle pp. 99-102 (dove tuttavia si enfatizza eccessivamente, a mio giudizio, il rapporto fra i due poeti), e M. DEL SERRA, L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti Orfici», Firenze 1973, passim.
122 G. D’ANNUNZIO, Ditirambo I, vv. 113-15, in ID., Alcyone, ed. critica a cura di P. Gibellini, Milano 1988,
p. 53.
123 Ibid., vv. 118-19.
124 Ibid., vv. 121-22.
121
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te”, l’onnivoro “vate” captato una suggestione dal suo modestissimo e sfortunatissimo fratello d’arte?
Ma, d’altra parte, deciso e altrettanto inequivocabile è lo stacco polemico
con cui Campana si separa da questo eventuale maestro. Neuro Bonifazi, ad
esempio, nelle pagine già richiamate, indica con precisione le differenze abissali intercorrenti fra i due nell’approccio a Nietzsche. Più in generale direi che il
polimorfismo campaniano tende ad ottenere un effetto esattamente contrario
all’estetismo dannunziano: per questo il culto delle belle forme mira essenzialmente al rutilante dispiegamento d’uno splendido scenario; per quello si tratta
di passare da uno sguardo di superficie alla comprensione dell’essenza delle cose e dei “destini” che esse celano. Le espressioni di polemica e talvolta anche di
sarcastico disgusto nei confronti del Grande Vate sono sparse in tutta la sua
opera e nelle sue lettere. A proposito della miseranda situazione intellettuale e
culturale italiana: «Ci dondoliamo sulle anche come l’Italia nelle poesie di
D’Annunzio che, poveraccio, dell’Europa moderna non capisce proprio nulla»125; sarcasticamente, delle studentesse bolognesi di scienze naturali: «Non
hanno l’arduo sorriso d’Annunziano palpitante nella gola come le letterate
[…]» (La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 172); con violenza maggiore,
che attinge ad una lucidità critica estrema:
Mio Carrà, non ho potuto leggere il discorso del Vate [forse uno dei tanti discorsi di
guerra di Gabriele D’Annunzio]. È troppo letterato anche nei migliori e peggiori momenti. A me sembra che sia la massima cloaca di tutto il letteratume presente passato di
tutti i continenti e non mi sento di ritrovarmi nei suoi discorsi. Il dolore del Vate non è
il dolore del poeta: è senza nobiltà senza silenzio, senza umiltà, senza luce. Il Vate gramofono, quale meccanismo più tedesco di questo? Non vedi che gli estremi si toccano
e l’ironia del destino sferza oggi come uno scudiscio?126.
2. «L’idea simbolista»127.
Alle ambizioni di “modernità” di Campana la recente tradizione poetica italiana doveva tuttavia apparire al massimo come un materiale verbale da usare come calcina per una costruzione tutta diversa. Il suo sguardo perciò si volge alla
grande poesia simbolista francese, perché lì egli indubbiamente poteva trovare
125
D. CAMPANA, Lettera a Giuseppe Prezzolini del [4 ottobre 1915], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 98.
ID., Lettera a Carlo Carrà della [Vigilia di Natale 1917], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 233.
127 Traggo il titolo di questo paragrafo da quello di un libro-antologia apparso anni fa a cura di Mario Luzi, in cui
si tentava di ricostruire nella sua configurazione storica il percorso di un grande fenomeno come il simbolismo europeo, all’interno del quale anche Campana, con alcune specificazioni che farò più avanti, va ricompreso (M. LUZI, L’idea simbolista, Milano 1976).
126
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il germe della modernità e lo strumento stilistico e formale per coniugare, come
ho già detto, esprit e Geist. Nel merito, però, le linee di contatto sono ancora
tutte da scoprire.
Le esplorazioni già richiamate di Mario Costanzo128 risalenti ad anni non recenti, hanno permesso di individuare prestiti e citazioni da Baudelaire, Rimbaud,
Verlaine. Qualche ulteriore rilievo si può aggiungere.
In Campana, più di una volta, il motivo mitico della notte si collega a quello
della Notte michelangiolesca, secondo una procedura sulla quale intendo tornare
più avanti: «[...] poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano» (La Notte, p. 88); «Caprese, Michelangiolo, Colei che
tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa [...]» (La Verna, p. 125). Si tratta, inequivocabilmente, di un suggerimento baudelairiano: «Ou bien toi, grande Nuit, fille de Michel-Ange, | qui tors paisiblement dans une pose étrange | tes appas façonnés aux bouches des Titans!»129.
Egualmente baudelairiano è, secondo me, il riferimento costante in Campana ai
grandi artisti del passato, ispiratori di un atteggiamento creativo e superiore anche ai tempi nostri130.
Un altro personaggio del passato, che ritorna costantemente in Campana, è
Ofelia, simbolo di vari stadi della condizione femminile, dal più puro al più degenerato (dove evidentemente agisce una riflessione del poeta sulle ragioni e sulla
natura della follia del personaggio). Ad esempio: «Ofelia la mia ostessa è pallida e
le lunghe ciglia le frangiano appena gli occhi: il suo viso è classico e insieme avventuroso» (Faenza, p. 156); «[...] l’infame cadavere di Ofelia» (La giornata di un
nevrastenico (Bologna), p. 175). Direi che a far da serbatoio a queste varie definizioni sia il ben noto Ophélie di Rimbaud, in cui già si presenta il motivo della folle contemplazione del cavaliere amante nei confronti della povera sventurata
(«C’est qu’un matin d’avril, un beau cavalier pâle, | un pauvre fou, s’assit muet à
tes genoux!»)131.
Probabilmente a Rimbaud si deve far risalire l’origine di certi giochi ritmici e
metrici ben presenti nei Canti Orfici:
Pouacre
boit:
nacre
voit:
A le rotte
ne la notte
batte: cieco
per le rotte
128
Cfr. p. 375, nota 1.
CH. BAUDELAIRE, L’idéal, in ID., Les fleurs du mal, in ID., Œuvres complètes, Paris 1961, p. 21.
130 ID., Les phares, ibid., pp. 12-14.
131 A. RIMBAUD, Ophélie, in ID., Poésies, in ID., Œuvres complétes, Paris 1963, pp. 51-52.
129
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Acre
loi
fiacre
choit!132.
Dentro l’occhio
disumano
de la notte
di un destino
ne la notte133.
Altri nomi, ovviamente, possono esser fatti. A cominciare da quelli che indica esplicitamente il poeta: «Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopo
la pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallido
sulla tappezzeria memore e sulle stampe» (La Verna, p. 130). Ma poi, sicuramente, Verhaeren, per un certo suo colorismo grigio ed intenso e per le sue ambientazioni malinconiche e autunnali134; e, molto probabilmente, Paul Laforgue e i Poèmes barbares di Leconte de l’Isle.
Ma, naturalmente, il nocciolo della questione non è qui, in questi limitati anche
se interessanti riscontri. Ciò che dobbiamo chiederci è cosa Campana andasse cercando in questi poeti del grande simbolismo francese. La risposta è che vi andava
cercando la lezione di un linguaggio poetico all’altezza dei tempi e in grado di esprimere la “rivoluzione mentale”, di cui egli si sentiva portatore. Secondo la dichiarazione di un testimone, Mario Bejor, «i due che egli riconosceva, senza dichiararlo,
ma da come s’esprimeva, maestri erano Nietzsche per la filosofia e Verlaine per la
poesia; e dell’uno prendeva la dedizione, talvolta malata per eccesso; e dell’altro il
superamento violento, egoistico, esplodente a tratti in furori di distruzione»135.
La citazione di Bejor, chiara nella sua sostanza, apre tuttavia un altro problema che si è sempre rimosso nella critica campaniana, senza trovare una definitiva
sistemazione, e che potrebbe essere sintetizzato in questo modo: fra Verlame e
Rimbaud quale deve considerarsi il referente poetico più vicino a Campana?
Nonostante la testimonianza di Bejor io penso che la risposta giusta sia: Rimbaud. Verlaine, certamente, doveva aver sedotto la sua ansia di una forma nuova
impeccabile, di una classicità che sarebbe nata proprio dalla disperazione e dalla
follia. Ma a me pare innegabile che l’esperimento di Rimbaud fosse più vicino alla sua sensibilità, sia per la forma originalissima delle sue opere maggiori, – Les illuminations e Une saison en enfer, – che egli non può non aver tenuto presenti
nello strutturare i Canti Orfici, sia per il sistema di idee, di obiettivi, di tematiche,
che è caratteristico della poesia rimbaudiana.
Noi non possiamo sapere se la famosa lettera di Rimbaud a Paul Demeny, no132
ID., Cocher ivre, ibid., p. 115.
D. CAMPANA, Batte botte, vv. 30-38, p. 145.
134 Segnalo di E. Verhaeren Les heures claires, Un village, Un toit, là-bas, Le port décher, in ID., Choisie de poèmes
- Poesie scelte, a cura di G. Montagna, Firenze 1956, pp. 106-19, 164-67, 168-71, 174-75.
135 M. BEJOR, Dino Campana a Bologna (1911-1916) (1943), in D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu Cit., p. 295.
133
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ta come Lettre du voyant136, uno dei documenti capitali della poetica decadente e
simbolista in Europa, fosse nota a Dino Campana, pur essendo questo non del
tutto impossibile, dal momento che essa fu pubblicata nel 1912 su «La Nouvelle
Revue française»137. Io dico però che ciò che Rimbaud scrive in questa lettera di
sé e dunque del Poeta s’adatta mirabilmente al caso di Campana, e ciò può dunque significare sia che Campana aveva delibato in qualche modo il brano rimbaudiano sia che il brano rimbaudiano definisce e circoscrive con estrema precisione
l’ambito entro cui storicamente si sviluppa e prende forma l’immaginario poetico
di Dino Campana. Non sarà perciò inutile prendere visione, per quanto sommariamente, dei suoi principali contenuti.
Rimbaud comincia da un richiamo allo spirito del Romanticismo, non ben
compreso dagli stessi romantici, e punto di partenza imprescindibile di ogni sperimentazione poetica nuova: «On n’a jamais bien jugé le romantisme. Qui l’aurait
jugé? Les Critiques!! Les Romantiques? qui prouvent que la chanson est si peu
souvent l’œuvre, c’est-à-dire la pensée chantée et comprise du chanteur»138. Rimbaud ferma dunque la sua attenzione su questa nozione nuova e decisamente rivoluzionaria: la poesia non è che “pensiero cantato”: ossia, pensiero che si esprime
da sé, rivelandosi in canto (e si dovrà ammettere che questa identificazione della
poesia con il canto e del poeta con il cantore sembra fatta apposta per spiegare la
posizione di Campana nei Canti Orfici).
C’è dunque qualcosa di misterioso, per Rimbaud, nel processo di creazione
poetica: la poesia è una voce che spira quando e come vuole: il passaggio dal pensiero all’espressione si potrebbe dire automatico: «Car JE est un autre. Si le cuivre
s’eveille clairon, il n’y a rien de sa faute. Cela m’est evident: j’assiste à l’éclosion de
ma pensée: je la regarde: je l’écoute: je lance un coup d’archet: la symphonie fait
son remuement dans les profondeurs, ou vient d’un bond sur la scène»139.
So bene che dare dell’automatico al ragionamento sopra citato significa accostare oltre la giusta misura Rimbaud alla poetica del surrealismo, nella cui formazione tuttavia egli occupa come tutti sanno, un posto estremamente rilevante; ma
individuare e sottolineare la possibilità di questi accostamenti servirà anche, come
vedremo, a capire meglio Campana.
Rimbaud prosegue: «La première étude de l’homme qui veut être poëte est sa
propre connaissance entière; il cherche son âme, il l’inspecte, il la tente, l’apprend. Dès qu’il la sait, il doit la cultiver!»140.
136
A. RIMBAUD, Lettera a Paul Demeny del 15 maggio 2872, in ID., Œuvres complètes cit., pp. 269-74.
Ibid., p. 823.
138 Ibid., p. 269.
139 Ibid., p. 270.
140 Ibid.
137
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Il poeta deve dunque possedere la propria anima per poterla “dire” fino in
fondo; ma neanche ciò è sufficiente al bisogno di trasformazione e di rinnovamento, da cui la “nuova poesia” è mossa: bisogna andare al di là della normalità
psichica e sensoriale, entro cui la “vecchia poesia” è rimasta costretta: «[...] il s’agit de faire l’âme monstrueuse [...]. Imaginez un homme s’implantant et se cultivant des verrues sur le visage»141.
Alla luce di queste affermazioni rimbaudiane la cosiddetta “follia” di Campana, – in pratica il suo disordine, la sua irregolarità, il suo ostinato nomadismo, –
potrebbe esser guardata con altri occhi.
Infine: «Je dis qu’il faut être voyant, se faire voyant»142. Poeta e veggente dunque s’identificano (e quanto questo abbia a che fare con l’idea della poesia che si
fa canto non è difficile capirlo). Il poeta è veggente, anzi deve farsi veggente. E come? L’ultima risposta è davvero decisiva: «Le Poëte [si noti che a questo punto
compare la maiuscola] se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens […]»143. Questo, «lungo, immenso» e, si noti, persino «ragionato» (cioè sistematico, programmatico e dunque totale) «sregolamento di tutti i sensi» è davvero la chiave di volta di una poetica simbolista che tende ormai a
superare i suoi stessi limiti.
Spiegare Campana con Rimbaud non deve apparire un’operazione azzardata.
Io uso Rimbaud come una chiave per penetrare nell’universo del nostro poeta: se
la toppa si adatta, vuol dire che l’esperimento non è del tutto infondato. Vedremo
che lo si può spingere anche più avanti.
3. Gli anglo-sassoni.
Dell’ammirazione di Campana per Poe abbiamo numerose testimonianze; ma
dire come e dove questo scrittore abbia influenzato la sua poesia sarebbe molto
più arduo. Il caso di Walt Whitman è invece assai diverso. Non solo, infatti,
Campana dichiara di «adorarlo»144, – espressione quanto meno impegnativa, –
ma non c’è dubbio per me che la poesia di Whitman, cosmica, grandiosa, intesa
a cogliere il rapporto profondo tra l’anima del poeta e la natura, incline al canto, metricamente e stroficamente di grande novità inventiva, toccava alcune delle note più profonde del cuore e della sensibilità campaniani. La conoscenza di
questo rapporto andrebbe approfondita, al di là della citazione tratta dal Song
141
Ibid.
Ibid.
143 Ibid.
144 D. CAMPANA, Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., p. 142.
142
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of Myself per farne il colophon dei Canti Orfici (che pure è anch’esso episodio
non irrilevante), se non altro perché alcuni elementi dei due sistemi semantici, –
la terra, la notte, la luna, le stelle, il vagabondaggio, gli spazi sterminati – sono
assolutamente comuni.
Quanto all’uso anche ideologico, oltre che stilistico, dal bardo americano,
colpisce, – anche per la natura originalissima dell’accostamento, tipicamente
campaniana, – questo brano di un’altra lettera al Cecchi: «Quanto è meglio la
sitibonda Sibilla. È una donna che capisce. Walt Whitman e San Francesco questo è un buon programma e anche se non seppe attuarlo, rappresenta enormemente un progresso come scusa delle necessità nazionali»145. Walt Whitman e
san Francesco: la versione italiana della “cosmicità” whitmaniana. Campana ci
lavorò su molto.
4. Dantismi e stilnovismi.
Dobbiamo ora fare un passo indietro e poi uno laterale per arrivare infine alle
conclusioni nella maniera più ricca possibile.
Il passo indietro riguarda l’ampio tessuto di presenze dantesche, che si sottende all’esperienza pienamente simbolista e volutamente “moderna” dei Canti
Orfici146. Alcuni dei numerosi esempi possibili: «[...] l’antica amica, l’eterna
Chimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore» (La Notte, p. 99)147: «e ne
l’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, e
pareami che mi dicesse queste parole: vide cor tuum» (Vita nuova, III, 5); «e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore» (La Verna, p. 127): «Era
già l’ora che volge il disio | ai navicanti e ‘ntenerisce il core | lo dì c’han detto a’
dolci amici addio: | e che lo novo peregrin d’amore | punge, se ode squilla di
lontano | che paia il giorno pianger che si more» (Purgatorio, VIII, 1-6); «[...]
Solo | ombra che torna, ch’era dipartito...» («... poi che nella sorda lotta notturna», vv. 76-77, p. 139): «Intanto voce fu per me udita: | onorate l’altissimo poeta | l’ombra sua torna ch’era dipartita» (Inferno, IV, 79-81); «lucidamente trasumanati» (Pampa, p. 183): «Trasumanar significar per verba | non si poria [...]»
(Paradiso, I, 70-71). Che non si tratti di pure combinazioni lo dimostra questa
più impegnativa citazione, in cui il riferimento a Dante assume un valore di145
ID., Lettera a Emilio Cecchi del [31 luglio 1916], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 191.
Sul tema cfr. L. SCORRANO, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna 1994,
pp. 83-90.
147 Per i confronti testuali con le opere dantesche cfr.: D. ALIGHIERI, Vita nuova, in ID., Opere minori, t. I, parte I, a cura di D. De Robertis e G. Contini, Milano-Napoli 7984; ID., La Divina Commedia, testo critico stabilito da G.
Petrocchi, Torino 1975.
146
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chiaratamente compositivo e procedurale: «Riposo ora per l’ultima volta nella
solitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in memoria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate!» (La Verna, p. 128) (Vita
nuova, XL: «Deh peregrini che pensosi andate»). Campana usa Dante come un
suggestivo serbatoio di immagini e di movenze poetiche. Sulla «modernità» egli
innesta un sogno di rimembranze arcaiche: «Figura del Ghirlandaio, ultima figlia della poesia toscana che fu [...]» (ibid., p. 129)148. Ciò è connesso, da una
parte, alla sua aspirazione a creare una rinnovata poesia italica, con le radici ben
affondate nella tradizione nazionale; e dall’altra a quel gusto moderno per l’antico, che occupa un posto così rilevante nella poetica dell’avanguardia europea
primo-novecentesca. Più che ai pre-raffaelliti io penserei all’impasto di periferie
e di monumentalità, che troviamo, ad esempio in un Sironi.
5. Iconografia mentale.
L’uso moderno dell’antico non si ferma però in Campana né alla poesia né tanto
meno a Dante: ma abbraccia segmenti interi di storia dell’arte (come del resto il
nome del Ghirlandaio, già tirato in causa, dimostra). Spesso, antico poetico e antico artistico vengono accostati e fusi insieme. Un esempio dantesco da questo
punto di vista ci soccorre ancora:
Mentre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo di
Lei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi sorelle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche di
cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto il
sogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regine
antiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi che
stanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna dell’amore149.
(La Notte, p. 88).
Questo brano ci consente di comprendere alla perfezione un modo tipico
della procedura poetica campaniana. Il meccanismo dell’immaginario è in lui
sempre molto complesso. Il punto di partenza, – l’accensione, – è generalmente
148
Un’intuizione critica non poco acuta, oltre che una preziosa testimonianza autobiografica della propria formazione, esprimeva un Vasco Pratolini in procinto di dar vita alle delicate movenze liriche e cronistiche di Via de’ Magazzini, con queste parole: «Ricordo che a me ragazzo Fernando Agnoletti parlò di Campana che egli si recava spesso
a visitare. A me ragazzo le parole di Agnoletti suonavano Vangelo. Usciva allora la prima stampa dei Canti Orfici a cura di Bino Binazzi: fu il secondo libro di poesia che lessi, dopo la Vita Nova [...]» (V. PRATOLINI, Omaggio a Campana. «A Badia a Settimo», in «Primato», n. 6, 1942).
149 Quasi con le stesse parole nella Verna, p. 125. I riferimenti a Dante riguardano le antiche regine, Semiramide,
Cleopatra, Elena e Didone, Inferno, V, 31 sgg., Francesca e la rappresentazione della Romagna, delle sue corti e dei
suoi fiumi, sempre nel V dell’inferno.
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un momento di esperienza vissuta, intesa anche nel senso più elementare del termine (per esempio, la visita ad un lupanare o una passeggiata in montagna). Poi,
il poeta “scompone” quel “dato” iniziale in più piani, lo “lavora” nel senso artigianale del termine, lo “distribuisce” in diverse dimensioni, lo “visionarizza” abbattendo le paratie, fisiche e temporali, tra fenomeno e fenomeno, tra piano e piano: l’immagine, artistica o poetica, del passato è materiale figurativo da plasmare
o riplasmare in continuazione.
Le grandi “figure” femminili dei Canti Orfici sono sempre ‘immaginate’ in associazione con i capolavori figurativi e poetici del passato: la Gioconda di Leonardo, la Notte di Michelangelo, la Francesca di Dante, la Ofelia di Shakespeare.
Ma la galleria delle suggestioni è molto più ricca: comprende, oltre al Ghirlandaio, Andrea del Castagno (La Verna, p. 118), più volte Leonardo, il «divino primitivo» (ibid., p. 120), Ribera (ibid., p. 131), Dürer (ibid., pp. 131-132), Botticelli
(Firenze, p. 149), Puvis de Chavannes (Faenza, pp. 155-156); e ancora altri.
6. Un poeta dell’avanguardia.
Ritorniamo alle parole di Rimbaud. Per quanto perfettamente rappresentative di
una poetica simbolista, esse sono ad un passo dallo sprigionare da sé la grande
fiammata dell’avanguardia. E un simbolismo che si va facendo avanguardia, –
questo è esattamente ciò che io penso della poesia dei Canti Orfici.
E non solo per le suggestioni futuristiche, che pure sono molto presenti nella
sua poesia, e sulle quali torneremo in sede di analisi stilistica. Ma soprattutto per
l’atteggiamento complessivo nei confronti della ricerca poetica e per l’adozione di
procedure compositive, in cui si riflette un’attenta meditazione sulle grandi correnti dell’arte contemporanea150.
Campana è il primo, – e forse l’unico in area italiana, – poeta d’un certo rilievo ad aver tentato la rappresentazione della città moderna, riproducendo a modo
suo (ovviamente) il livello tecnologico più avanzato della civiltà del tempo e mescolandolo al tempo stesso alla sua contemplazione della natura e dell’infinità:
Di già tutto d’intorno
lucea la sera ambigua:
battevano i fanali
il palpito nell’ombra.
Rumori lontano franavano
dentro silenzi solenni
150 Ritengo perfettamente condivisibile nelle grandi linee il saggio di M. VERDENELLI, Campana e le avanguardie, in A. CORSARO e M. VERDENELLI, Bibliografia campaniana cit., pp. 99-129.
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chiedendo: se dal mare
il riso non saliva...
chiedendo se l’udiva
infaticabilmente
la sera: a la vicenda
di nuvole là in alto
dentro del cielo stellare.
(Genova, vv. 74-86, pp. 231-32).
Ma ciò che colpisce di più è che alla rappresentazione di tale modernità egli
non arriva in maniera puramente descrittiva, ma realizzando una sorta di moltiplicata scomposizione dei piani, a cui ormai non si possono trovare più equivalenti nella tradizione strettamente simbolista. In taluni casi, ad esempio in Fantasia su un quadro di Ardengo Soffici (p. 142), la scoperta prende la forma di un
esercizio in cui Campana rivaleggia direttamente con la figuratività futurista (è
comunque interessante osservare che il poeta «usa «i capolavori dell’arte contemporanea in maniera non dissimile da come usa quelli antichi). Ma in altri casi l’esperimento si spinge più in là ed oltrepassa i confini del mero «calco» illusionistico. Marcello Verdenelli parla di ispirazione cubista; e parrebbe dargli ragione questo brano della Verna, tanto più in quanto il soggetto è arcaico e non
moderno (ma l’esercizio del rinnovamento formale più spinto nei confronti di un
soggetto antico è, appunto, uno dei caratteri dell’avanguardia più raffinata ed intelligente):
Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese:
così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i fini
capelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente dai fini tratti traspare il
sorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: la
dolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia toscana che fu.
(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!)
(pp. 119-20, c.n.),
Troviamo qui, riuniti in sintesi, quasi tutti gli elementi di cui abbiamo ragionato negli ultimi paragrafi: la contemplazione, poetica e pittorica, del passato, la
chiamata in causa del grande artista (forzato a rientrare nella categoria cara al
poeta e ai suoi contemporanei del «primitivo»), il gioco scompositivo e ricompositivo dei piani, alla maniera, qui esplicitamente richiamata, del «paesaggio cubistico», un colorismo che, a forza di esasperazioni, tende da realistico a diventare
astratto.
Esperimenti di questo tipo mi farebbero pensare, – al di là dei limiti delle mie
conoscenze linguistiche, – a certi grandi poeti e scrittori russi tra Ottocento e Novecento, quali, ad esempio, Andrej Belyj e Aleksandr Blok. Ne sapeva qualcosa
Campana? Qualche luce forse si potrebbe fare, quando fosse chiarito l’enigma di
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quei versi incastonati in un brano della Notte: «Tutto era mistero per la mia fede,
la mia vita era tutta “un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso”» (p. 94): di cui Campana laconicamente informò il Pariani: «Li scrisse un poeta russo, un poeta del tempo dei Romanoff»151.
V. UN PONTE SULL’INFINITO.
1. «Visionario-visivo».
Nel suo saggio del 1937, denso come pochi altri dello stesso periodo (anche per
quanto riguarda la storia interna del critico), Gianfranco Contini s’impegna ad
una riprecisazione dei termini interpretativi della questione Campana, che è già,
in nuce, l’apertura di una diversa prospettiva sull’autore: «[...] Campana non è un
veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa»152. Indi precisa:
«Si dice: un visivo, e s’intende qui un temperamento così esclusivo da assorbire e
fondere in quella categoria d’impressioni ogni altra […]»153. L’errore di Campana
sarebbe consistito nell’attribuire valore di simbolo a quello che in molti casi è
«semplice luogo di evocazione»154: «è per questa via che il visivo Campana, fin
qui nel giusto, giunge a credersi un veggente»155.
Non è chi non veda come intorno ad una questione di tal genere si giochi l’intero giudizio critico sull’autore. Dirò di più. A me pare del tutto evidente che dietro le raffinate notazioni critiche del Contini, in una certa misura anche condivisibili, si affacci un’intenzione di ridimensionamento e, forse, l’assenza di simpatia e
di partecipazione del critico nei confronti di questo poeta. Di certo Campana, –
come del resto Michelstaedter, – non era autore continiano: critico attentissimo e
interessatissimo alle novità in letteratura, come sappiamo, il Contini, tuttavia, tollerava poco che la trasgressione infrangesse in maniera eccessivamente clamorosa
i «vincoli» del sistema letterario in quanto tale. Quindi, per restare in tema di trasgressione, Gadda benissimo, molto meno Campana. Lo dice con estrema chiarezza in un altro punto del suo saggio: «Questo anarchico, questo «bohémien»
non seppe liberare l’uomo d’ordine ch’era in lui, ma tocca pure alla critica estrarlo, se non vuol rimanere a uno stadio di tradizione orale»156.
151
C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 49.
G. CONTINI, Due poeti degli anni vociani. II. Dino Campana (1937), in ID., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un ‘appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino
19922, p. 16.
153 Ibid.
154 Ibid., pp. 17-18.
155 Ibid., p. 17.
156 Ibid., p. 23.
152
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La questione, dunque, va di nuovo affrontata per la sua decisività, entrando
di più nel merito delle analisi stilistiche e formali, alle quali essenzialmente si deve chiedere una risposta agli interrogativi sollevati. La prima osservazione, che
verrebbe in mente di fare, è che, pur comprendendo il senso della distinzione (e
della riduzione) di «visionario» e «visivo», non c’è forse fra i due termini, – e le
due nozioni, – una contrapposizione così netta. Lo ha già detto, mi pare, nella sua
solita maniera limpida e precisa Sergio Solmi: «[...] a fondo di tale concezione
della poesia è, e non può non essere, unicamente, la diretta esperienza autobiografica, per Campana (come, d’altronde, per Rimbaud, sebbene lo sforzo di quest’ultimo fosse stato tanto più energico, consapevole e coerente), ‘visivo’ viene a
coincidere con «visionario», e l’accensione poetica non è in fondo che vibrazione,
dilatazione del dato documentario»157. Vorrei richiamarmi ad un punto che ho
già sottolineato: nei Canti Orfici c’è un costante gioco di rimandi tra «fenomeno»
ed «energia». Ciò, ovviamente, è vero per qualsiasi soluzione di tipo simbolista.
In Campana, tuttavia, il sistema semantico è particolarmente ricco e complesso:
in quanto, in primo luogo, il fenomeno non è mai isolato ma è sempre evocato all’interno di un intreccio di relazioni con una moltitudine di altri «fenomeni», in
secondo luogo, il «fenomeno» è sempre assunto in chiave fortemente evocativa e
allusiva, «in funzione» di altro, che viene semplicemente fatto intendere, non trascinato sul proscenio. La risposta agli interrogativi continiani potrebbe dunque
risolversi per me in un’altra domanda: in che rapporto sta nella poesia di Campana la pura «visibilità» delle cose, – forme, colori, suoni, oggetti, – con la «visione»
del mondo, – in cui entrano fantasmi, suggestioni, simboli, miti?
2. «Armonia/melodia».
Dobbiamo tornare ad alcune importanti dichiarazioni del poeta nel tempo della
follia. A Pariani aveva detto: «Il verso libero futurista è falso, non è armonico. È
una improvvisazione senza colore e senza armonie. Io facevo un poco di arte»158. E
poi, ancora più importante: «Cercavo armonizzare dei colori, delle forme. Nel paesaggio italiano collocavo dei ricordi»159. I termini che ricorrono sono sempre gli
157
Si tratta della Nota 1953 apposta in calce al saggio I «Canti Orfici» del 1928 (cfr. S. SOLMI, La letteratura italiana contemporanea, I, Milano 1992, p. 77). In maniera ancora più decisa: «[...] Campana, poeta «orfico» o, se si vuole, voyant (e non «visivo» tout court)» (M. COSTANZO, Cultura e poesia di Campana cit., p. 83). Anche Eugenio
Montale ha espresso qualche dubbio sulla legittimità della contrapposizione continiana così netta: «Campana poeta
visivo o poeta veggente? L’impressione che ci ha lasciato una recente rilettura dei Canti Orfici […] è che le corna di
questo dilemma siano tutt’altro che inconciliabili [...]» (E. MONTALE, Sulla poesia di Campana (1942), in ID., Sulla
poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, p. 249).
158 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 43.
159 Ibid., p. 63.
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stessi: Campana raccoglie il senso complessivo del suo tentativo sotto il termine di
«arte», contrapponendola al pressapochismo futurista. La «forma» che l’«arte»
prende in poesia è l’«armonia»: cioè, un insieme di suggestioni fisiche e percettive,
che, tradotte in stile, diano l’impressione di un risultato felice e sonante e al tempo
stesso non tronfio né stridente («Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti |
e l’immortalità dei firmamenti e i gonfi rivi che vanno piangenti», ecc.). L’«armonia» si raggiunge, componendo insieme opportunamente «colori» e «forme».
La parola-chiave di questo «sistema dell’armonia», in cui si risolve il credo
stilistico-cosmico di Campana, è «melodia». «Melodia» è termine che sta a significare in Campana non soltanto una situazione musicale ma, più in generale, uno
stadio di rapporti armonici, compiuti, nell’esistenza, – sia che si tratti, anche in
questo caso, di un’esistenza singola, individuale, umana, sia che si tratti di una
qualche forma di esistenza cosmica.
«Regina de la melodia» (La Chimera, v. 15, p. 105) è la Chimera; ma «melodica», in accordo con la terra che la circonda e l’avvolge, è anche la fanciulla del
Viaggio a Montevideo:
Io vidi dal ponte della nave
i colli di Spagna
svanire, nel verde
dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
come una melodia:
d’ignota scena fanciulla sola
come una melodia
blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola...
(vv. 1-8, p. 140, c.n.).
Ma, passando dal campo visivo umano a quello fisico e terrestre, troviamo,
fra l’altro, «la tellurica melodia della Falterona»160 (La Verna, p. 127); «la melodia
docile dell’acqua» (ibid., p. 130); «le melodie della terra» («... poi che nella sorda
lotta notturna», v. 19, p. 137). Ma «melodia» è anche la manifestazione di un «ritmo» che sta non nelle cose ma nei movimenti, nelle persone, nella musica del
mondo: «Io fisso tra le lance immobili degli abeti credendo a tratti vagare una
nuova melodia selvaggia e pure triste [...]» (La Notte, p. 95); «[...] la città (le vie le
chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare» (ibid., p. 101); «[...] il battello è una casa scossa
dal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare tenace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria,
una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danze bizzarre che la
scuotono!» (Passeggiata in tram in America e ritorno, p. 200).
160
Prosegue: «L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole».
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Si ricordi poi l’attacco di Scirocco: «Era una melodia, era un alito? Qualche
cosa era fuori dei vetri [...]» (p. 211), cui seguono: «Sotto lo scorcio dei portici seguivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodioso, smorzato nella cadenza lieve ed uguale» (ibid., p. 212); «Sbiancava nel cielo
fumoso la melodia dei suoi passi» (ibid., p. 213).
E, infine (ma l’esemplificazione potrebbe essere più vasta), in un’accezione
che comprende contemporaneamente un ritmo fisico ed uno psichico, cosmico
(visionario?):
Quando,
melodiosamente
d’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Grazia
come dalla vicenda infaticabile
de le nuvole e de le stelle dentro del cielo serale
dentro il vico marino in alto sale...161.
(Genova, vv. 52-57, p. 231, c.n.).
2.1. Ritmi, movimenti, ripetizioni.
La «melodia» è dunque un ritmo che si colloca tra i comportamenti umani e le
forme della percezione, e tra le forme della percezione e l’infinito (anche la «Nuda mistica in alto cava | infinitamente occhiuta devastazione [...] notte tirrena» è
un ritmo, e dunque una «melodia»). Questi ritmi psichici e cosmici il poeta li rende in vari modi. Per esempio, si potrebbe dire, come Campana diceva della poesia di Dante, che quella di Campana è una poesia di movimento, – et pour cause,
naturalmente, visto che il viaggio, – ossia una forma di «traslazione» spazio-temporale, – costituisce un tema tipico della sua ispirazione. Il psichismo del movimento e dello spostamento è da lui espresso in vari modi, che naturalmente si differenziano tra la prosa e la poesia, ma non, mi pare, in modo radicale.
Nel campo della prosa gli esempi potrebbero essere numerosi, ma nessuno,
forse, così clamoroso come quello di Pampa, dove il poeta si rappresenta supino sul
fondo di un carro merci in rapido movimento mentre contempla il cielo stellato che
fugge: alla traslazione fisica s’accompagna, come ho già accennato, il rapidissimo
movimento interiore, che sovrappone continuamente il passato al presente:
Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei, e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile
che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi.
(Pampa, p. 186).
161 Per capire le relazioni tra le varie parti del «sistema semantico» campaniano, si tenga presente che, immediatamente prima del brano qui citato, il poeta, in un passo già richiamato, rivolgeva lo sguardo «ai mille | e mille e mille
occhi benevoli | delle Chimere nei cieli:...» (vv. 49-51): il che significa che tra il mito della Chimera e il ritmo della melodia esiste un’associazione profonda e non episodica.
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Il senso del movimento è dato dall’associazione armonica di sostantivi e aggettivi, – «costellazioni fuggenti», «veli argentei», «flutti amari e veementi», – con
effetti quasi di prosa rimata; e dalla rapida enumerazione di termini, che dànno il
senso della velocità e della ineluttabilità del movimento: «cieca fantastica infrenabile».
In poesia, – ad esempio in Viaggio a Montevideo, – lo spostamento può esser
reso con ritmi gravi e pesanti, come a rendere il senso del tempo che passa: iterazioni e aggettivazioni sottolineano la «lunga durata» dell’esperienza:
Andavamo andavamo, per giorni e giorni: le navi
gravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente [...].
(Viaggio a Montevideo, vv. 32-33, p. 141).
La ripetizione in altri casi sta a segnalare che c’è un ritmo connesso all’esistenza delle cose, cogliere il quale significa penetrare al di là dell’apparenza ed entrare in una dimensione di comunione mistica con il mondo. Si potrebbe tornare
all’esempio più volte fatto, – ma in ogni caso fondamentale, – degli ultimi quattro
versi della Chimera, con quella quadruplice rima fissa («venti», «firmamenti»,
«piangenti», «algenti»), che di volta in volta amplia indicibilmente lo spazio ritmico e semantico dei versi, quasi in una cadenza da creazione primigenia. Ma anche altrove troviamo compiuto il miracolo evocativo della ripetizione:
Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare,
sorgenti, sorgenti che sanno
sorgenti che sanno che spiriti stanno
che spiriti stanno a ascoltare...
(Il canto della tenebra, vv. 4-7, p. 110).
2.2. Il «panorama scheletrico del mondo».
È impressionante osservare come l’occhio del poeta, non pago di realizzare le associazioni più imprevedibili tra i fenomeni, viventi e no, passa attraverso la materia e vede, come ai raggi x, cosa si nasconda dietro di essa. In questo si verifica come una rivelazione di morte.
Questo tema è centrale nella Notte, che per l’appunto, essendo il luogo per
eccellenza delle rivelazioni, consente allo sguardo, abituatosi alle tenebre, di scorgere ciò che normalmente non si vede. Così il ricordo delle prime esperienze d’amore si proietta su questa realtà profonda, che la visione poetica fa emergere:
«[…] e ancora tutto quello che era arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza,
tornava a rivivere nel panorama scheletrico del mondo» (p. 89)162. Altre volte è la
162 Ripetuto poco più avanti: «così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva nel
panorama scheletrico del mondo» (p. 90).
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forza barbarica del mito a suggerire l’immagine che fa pensare alla morte, mediante identificazioni in cui raggiunge il massimo valore l’idea di un’antica vita
che penetra nel presente e lo lacera: «Rividi un’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbarico, gli occhi gorghi cangianti vividi di linfe oscure [...]» (ibid., p. 96-97).
Come abbiamo visto altrove (sezione IV, § 5), la visione del mondo può essere diretta, come negli esempi testé citati, – Campana «vede», visionariamente «vede», sotto la superficie dei fenomeni affiorare lo scheletro che essi contengono e
celano, – oppure può essere còlta e riverberata dalle visioni del mondo che altri
hanno avuto: è il caso delle stampe di Dürer, osservate una volta dal poeta nel
Museo Civico di Faenza: «Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un meriggio torrido fantasmi della pietra...» (La Verna, pp. 131-32)163.
Ancor più clamorosa la deduzione che dal linguaggio cinematografico (poiché di questo si tratta) viene fatta del motivo della irrealtà e della sua spettrale
parvenza: «Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panorami scheletrici di
città» (La Notte, p. 91; ma su questo punto ritorneremo).
L’idea di fondo è che nel mondo delle apparenze è difficile definire con esattezza i confini del certo e dell’incerto, del conscio e dell’inconscio. Riprendendo
anche, in parte, una citazione già fatta, vediamo come dal notturno «sogno d’amore» lo sguardo si volga al mondo esterno come se fosse popolato di esseri puramente onirici, esistenti solo nella fantasia del poeta. Il rapporto con la realtà è
rovesciato: nella stanza chiusa è racchiusa tutta la forza del desiderio e del sogno
(per quanto anche lì sia ben presente e fortemente cadenzato il senso della disillusione e della sconfitta: «tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è sogno»); fuori della stanza non c’è che una dimensione puramente irreale, a cui solo la poesia può dare una forma e un ritmo: «Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come gli spettri vaganti: vagavano come spettri: e la città (le vie le
Chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare» (ibid., p. 101).
2.3. Colori e musica.
Sull’ossatura del mondo Campana mette però della carne, tanta carne, e il mondo
all’improvviso si anima di colori e di musica: una vera cascata di colori e di musiche. Rammentiamoci delle confessioni al Pariani sui versi futuristi: «È un’improvvisazione senza colore e senza armonie»164. Le «forme del mondo», come abbia163 Quasi con le stesse parole in Faenza, p. 156: «Nel corpo dell’antico palazzo rosso affocato nel meriggio sordo
l’ombra cova sulla rozza parete delle nude stampe scheletriche».
164 Cfr. p. 387, nota 1.
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mo visto, sono talvolta descritte direttamente; ma il più delle volte vengono richiamate, – anzi, alluse, – mediante il tocco di colore e la suggestione di un ritmo
musicale.
Sono anche questi procedimenti tipici della più grande poesia simbolista. Basti ricordare che Rimbaud ha scritto uno splendido sonetto, Voyelles, attribuendo
a ciascuna delle vocali un colore privilegiato: «A noir, E blanc, I rouge, U vert, O
bleu [...]»165. Ma il colorismo campaniano è più netto, violento, oltraggioso. Il
poeta non riempie di colori ben distribuiti un disegno già abbozzato: butta i colori sulla tela ad ampi e violenti colpi di spatola; gli effetti possono essere inizialmente anche disarmonici: è il complesso del quadro che restituisce armonia all’insieme. Cade a puntino un riferimento ad un pittore, che può aver esercitato
sulla sua poesia un’influenza espressiva più che tematica, e cioè Cézanne, della cui
conoscenza restano poche ma significative tracce nell’opera di Campana166.
L’analisi del colorismo campaniano occuperebbe da sé le dimensioni di un
vasto saggio. Mi limito a rilevare che ogni colore ha per Campana, oltre alla sua
funzione puramente descrittiva, pittorica, una proprietà simbolica, profonda.
Il «pallore», con i suoi derivati, è il colore della Chimera: «Non so se tra roccie il tuo pallido | viso m’apparve [...]» (La Chimera, vv. 1-2, p. 105); «Non so se
la fiamma pallida | fu dei capelli il vivente | segno del suo pallore [...]» (ibid., pp.
21-22). Ma anche, – a due passi dall’inizio della Chimera, e forse non involontaria
liaison tra i due componimenti, – nella conclusione della Notte: «pallido amor degli erranti» (p. 102); e nella Speranza, – che anche da questo punto di vista si conferma pendant minore della Chimera, – troviamo «La pallida Sorte» (v. 13. p.
108). Anche «Ofelia la mia ostessa è pallida» (Faenza, p. 156); e, per completare
questa galleria di figure femminili reali-irreali, che nel loro pallore portano il sogno di una insuperabile irraggiungibilità, ricordiamo l’apparizione della Russa
nelle vie di Bologna: «La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido» (La
giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 172).
«Bianco» è il colore di un’incantata purezza ma anche delle fugaci apparizioni notturne che suggeriscono una pulsione di torbida lussuria (e anche questa associazione significherà pure qualcosa): «E le tue rive bianche come le nubi, trian165
A. RIMBAUD, Voyelles, in ID., Poésies cit., p. 103. Particolarmente significativa l’ultima terzina, in cui elementi coloristici e musicali si mescolano: «O, suprême Clairon plein des strideurs étranges, | Silences traversé des
Mondes et des Anges: | – O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!» (ibid.).
166 Per esempio in Arabesco-Olimpia, un componimento dedicato a Giovanni Boine e pubblicato su «La Riviera ligure» nel marzo 1916: «Se esiste la capanna di Cézanne pensai quando sui prati tra i tronchi d’alberi una baccante rossa mi chiese un fiore [...]» (D. CAMPANA, Opere e contributi cit., p. 284). E, sia pure indirettamente, in una lettera di
Emilio Cecchi a Campana del 13 marzo 1916: «Si parlò di queste cose, mi ricordo, a proposito di Cézanne e di Baudelaire, a Firenze» (ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 146).
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golari, curve come gonfie vele […]» (La Verna, p. 128); «Noi vedemmo sorgere
nella luce incantata | una bianca città addormentata […]» (Viaggio a Montevideo,
vv. 24-25, p. 141); le «bianche forme della bellezza» (Firenze, p. 149); con evidenza poetica straordinaria: «[…] dai segreti dedali | uscíi: sorgeva un torreggiare
bianco nell’aria: innumeri dal mare parvero i bianchi sogni dei mattini [...]» (Genova, vv. 12-15, p. 229); «Una donna bianca appare a una finestra aperta» (Piazza
Sarzana, p. 224). Ma anche: «[…] nel fondo bianca e torbida a lato dei lampioni
verdi la lussuria siede imperiale» (ibid., p. 225). Ma subito dopo si torna, – e nel
senso più proprio, – al simbolo della purezza: «[...] si scorge in fondo il trofeo
della V.M. tutto bianco che vibra d’ali nell’aria» (ibid.).
«Rosso» è il colore dei vecchi palazzi e delle vecchie torri e viene spesso associato all’idea della corrosione e del decadimento: «[...] una lunga contrada dove
tutti i palazzi sono rossi e tutti hanno una ringhiera corrosa» (Faenza, p. 155)
«Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente le
lunghe vie» (La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 171); «Il mattone rosso
ringiovanito dalla pioggia sembrava esalare dei fantasmi torbidi [...]» (Scirocco
(Bologna), p. 213); «[...] sopra dei vicoli il velo rosso del rosso mattone» (Piazza
Sarzano, p. 223). Ma anche la luce può essere rossa: «La vecchia amica luna che
sorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame» (La Verna, p. 520); «la rossa velocità
di luci» (Fantasia su un quadro di Ardengo Soffici, vv. 5-6, p. 142).
«Sanguigno» è il colore della luce quando filtra faticosamente attraverso la
nebbia ed è tipico di Bologna: «Ero sotto l’ombra dei portici stillata di goccie e
goccie di luce sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre» (La Notte, p. 92);
«Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce sanguigna, poi l’ombra,
poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti» (La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 574).
«Viola» è colore tipico della tenebrosità campaniana: non a caso appare spesso associato ad un’altra parola-chiave come «melodia»: «Il tuo corpo un aereo dono sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di viola: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un ignoto cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze» (La Notte, p. 100). Ma
anche: «D’ignota scena fanciulla sola | come una melodia | blu, su la riva dei colli
ancora tremare una viola...» (Viaggio a Montevideo, vv. 6-8, p. 140).
Ma, a parte questi colori «fondamentali» (fondamentali per Campana, intendo), la tavolozza è assai più ricca e completa (e qui riduco l’esemplificazione al
minimo): «Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume» (ibid., v. 43, p.
141, c.n.); «Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città» (La giornata
di un nevrastenico (Bologna), p. 173, c.n.); «L’aria pura è appena segnata di nubi
leggere. L’aria è rosa [...]. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
estate» (Piazza Sarzano, p. 223, c.n.); «[...] del giardino il verde sogno» (Genova,
vv. 6-7, p. 229, c.n.); «contro l’azzurro serale» (ibid., v. 35, p. 230, c.n.) e in una
successione caratterizzante lo stesso componimento: «ed era l’azzurro mattino»
(«... poi che nella sorda lotta notturna», v. 3, p. 137, c.n.); «giurando noi fede all’azzurro» (ibid., v. 10, c.n.); «nel silenzio azzurrino» (ibid., v. 26, p. 138, c.n.); «in
azzurrina | serenità» (ibid., vv. 48-49, c.n.); «E si riposa nell’azzurro eguale» (ibid.,
v. 54, c.n.); «e il mare e il cielo è d’oro» (Genova, v. 100, p. 232, c.n.); «Velano d’oro di felicità» (ibid., v. 110, c.n.).
Ma, naturalmente, queste elencazioni possono dare un’idea unicamente
quantitativa della consistenza del fenomeno: sia perché i colori, oltre che puri, sono disposti sulla tela anche in una serie infinita di sfumature («Il pulviscolo d’oro
che avvolgeva la città parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno», Il
Russo, pp. 193-94, c.n.; «La Falterona verde nero e argento», La Verna, p. 119,
c.n.; «Pei grigi rosei della città di ardesia», Genova, v. 138, p. 233, c.n.); sia perché
i giochi coloristici s’intrecciano continuamente con quelli musicali.
Da quest’ultimo punto di vista la poesia di Campana presenta una ricchezza
inesauribile: la «forma del mondo», cui essa attinge, nient’altro è che un ritmo
musicale, e ciò, sia pure in forme diverse, sia che si tratti di prosa che di versi.
La musica di Campana si staglia sempre contro grandi silenzi: anzi, il silenzio
è già in lui una forma di musica. Si pensi, ad esempio, alle scene notturne di Dualismo e di Pampa: dove i rumori e i suoni esprimono una sorta di lotta umana alla
cancellazione totale e universale: «Il silenzio era scandito dal trotto monotono di
una pattuglia [...]», Dualismo, p. 162167 (e da lì la fantasia del poeta parte per il
viaggio all’indietro, verso la vecchia Europa, che lo allontana dall’amore presente
di Manuelita); mentre impressionante è il fragore del treno che attraversa la Pampa solitaria e inattingibile, nella quale «la corsa penetrava, penetrava con la velocità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubre
fracasso della corrente irresistibile» (Pampa, p. 185).
Ma ritmo e musica è anche la percezione del movimento che intorno a noi rivela la cadenzata presenza del destino: come in questa bellissima notazione del
Russo: «Ora io lo vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo come di torrente sassoso del continuo strisciare dei passi» (p. 193).
E musica, – musica di ampiezza e dignità sinfonica, – è quella che percorre
dall’inizio alla fine un «poema» come Genova, dove Campana compie il miracolo
raro di dare forma e ritmo ai rumori anche stridenti del lavoro moderno:
167 Semantica della luce, del colore e dell’ombra e semantica del suono e del silenzio si confondono in questo brano di Genova: «Di già tutto d’intorno | lucea la sera ambigua: | battevano i fanali | il palpito nell’ombra. | rumori lontano franavano | dentro silenzii solenni [...]» (vv. 74-79, p. 231).
Letteratura italiana Einaudi
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Come le cateratte del Niagara
canta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare […]
guardavo dall’invetriata la folla salire veloce
tra le venditrici uguali a statue, porgenti
frutti di mare con rauche grida cadenti [...]
(vv. 23-24 e 28-30, p. 230).
Il battello si scarica
ininterrottamente cigolante,
instancabilmente introna […].
Cigolava cigolava cigolava di catene
la grú sul porto nel cavo de la notte serena […]
(vv. 97-99, p. 232).
(vv. 152-53, p. 234).
Ciò che l’analisi faticosamente e impietosamente divide e frantuma, la lettura
dovrebbe saldare e unificare. Tutti gli elementi descritti si ritrovano infatti presenti, collegati e fusi in quasi tutti i componimenti che costituiscono i Canti Orfici e, ovviamente, all’interno di ognuno di essi.
Quale esempio di una fusione pressoché perfetta di tali elementi riporto per
intero Sogno di prigione, dove l’inequivocabile matrice onirica e subconscia dell’ispirazione favorisce, fino a punte massime, tale linea di ricerca. Colori, suoni, sensazioni, – stato di veglia, coscienza, delirio e sogno, – si compongono in un quadro ormai del tutto unitario:
Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco.
La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, delle
voci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschi
dalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso ad Anika: stelle deserte sui monti nevosi:
strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffo
dall’occhio infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra le montagne. Io al parapetto del cimitero davanti alla stazione che guardo il cammino nero delle macchine, sù,
giù. Non è ancor notte; silenzio occhiuto di fuoco: le macchine mangiano rimangiano il
nero silenzio nel cammino della notte. Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: la
porpora del treno morde la notte: dal parapetto del cimitero le occhiaie rosse che si
gonfiano nella notte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga io? io
ch’alzo le braccia nella luce!! (il treno mi passa sotto rombando come un demonio).
(Sogno di prigione, p. 167).
3. I linguaggi del «moderno».
Alla domanda che a un certo punto ci siamo posti: in quale rapporto sta «visivo»
con «visionario» nell’universo stilistico e semantico campaniano, credo che si
possa cominciare a rispondere che in Campana il «visivo» è un puro tramite, la
«forma sensibile», in cui prende corpo e si manifesta il «visionario»: l’occhio che
guarda e vede oltre l’apparenza dei fenomeni.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Il convincimento si convalida e si consolida se, al di là dell’immaginario simbolista, di cui finora, sostanzialmente, ho esplorato la presenza nella poesia di
Campana, si tenta di saggiare in essa la consistenza di nuovi patrimoni linguistici,
semantici e percettivi, che più concretamente testimoniano in lui quello che ho
definito il passaggio dall’area propriamente simbolista a quella avanguardista.
Naturalmente, siccome il confine fra queste due aree è mobile ed estremamente
permeabile, non escludo che nell’elenco siano comprese anche soluzioni che a taluno apparirebbero non estranee al campo del simbolismo. Si tratterà allora di valutare di volta in volta il grado di tensione e di radicalità, con cui quelle soluzioni
vengono applicate da Campana.
3.1. Simultaneità psichiche, rivoluzioni temporali.
Una chiave di lettura indispensabile a cogliere il significato (persino nel senso
letterale del termine) dei testi campaniani è la persuasione che svolgimento del
tempo (o dei tempi) e psichismi conseguenti (percezione-conoscenza-rappresentazione) ubbidiscono a regole interiori, che nulla hanno a che fare con quelle razionali e fisiche. Del resto, questo è in alcuni punti esplicitamente detto.
All’inizio della Notte: «e del tempo fu sospeso il corso» (p. 83); il che vuol dire
che il resto del racconto è fuori del tempo, come del resto si conferma di seguito: «anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo» (ibid.,
p. 84).
La situazione che si determina è che il poeta può collocarsi contemporaneamente nel passato, nel presente e nel futuro, e può «dirsi», «raccontarsi» come
una creatura che passa da una stagione all’altra della storia e della vita come
procedendo su di un invisibile tapis roulant: è evidente che un atteggiamento
del genere ha a che fare, da una parte, con l’inconscio, – sorgente vitale di ogni
a-temporalità, – dall’altra, con il mito, che ne rappresenta, sul piano espressivo
il prodotto più significativo: «Inconsciamente colui che io ero stato si trovava
avviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza»
(ibid., c.n.).
Un esempio perfetto di simultaneità psichica e d’inconscia traslazione dei
tempi si trova nella Verna, quando il poeta scorge (crede scorgere) un fanciullo
addormentato presso la gora di un mulino:
L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stesso
fanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quanto
tempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la prima
volta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così come
l’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la gora
profonda e uguale: conservando il servizio come ogni giorno l’ombra...
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile lag(La Verna, p. 133).
giù: come il mio cadavere168.
Il fatto è che Campana è ossessionato dalla possibilità di stabilire un rapporto tra lo scorrere empirico del tempo e quel tempo senza tempo che, dantescamente, è l’eternità. Così in Pampa169, oppure in Piazza Sarzano, dove
Campana mette in atto una combinazione così prodigiosa di fattori da sfiorare il surrealismo: «Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orologio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza»
(p. 225).
3.2. Sogno e inconscio.
È evidente che simultaneità psichica e traslazione dei tempi costituiscono dimensioni della percezione e della rappresentazione, che trovano un humus particolarmente fecondo nell’inconscio e nel sogno. Abbiamo visto170 che Campana aveva avuto una conoscenza non superficiale né indiretta di testi della teoria
psicanalitica applicata al mondo dell’arte e della rappresentazione, quali i lavori di Sigmund Freud su Leonardo171 e quelli di Karl Abraham su Segantini172. Si
potrebbe osservare che, stando alle date, tale conoscenza risalirebbe ad una fase successiva alla comparsa dei Canti Orfici: infatti, la lettera a Soffici, in cui ne
parla, è del maggio 1915. Ma è un fatto che molti dei componimenti dei Canti
riproducono situazioni oniriche: tale è il caso del già citato Sogno di prigione,
della parte iniziale di «... poi che nella sorda lotta notturna»; mentre in Pampa lo
scrittore s’immagina in preda agli effetti allucinatori del mate, con conseguente
estasi da droga.
La Notte, da parte sua, – coerentemente con la sua impostazione generale,
– è un lungo percorso nelle tenebre, che, se per un verso sono quelle fisiche,
naturali delle città e dei borghi attraversati, per un altro rappresentano una mitica, simbolica discesa agli Inferi e per un altro ancora l’oscurità interiore, che
giunge fino a velare e nascondere l’identità del poeta: «Non seppi mai come,
costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo»
(p. 86).
168
Altro esempio straordinario di simultaneità psichica è Passeggiata in tram in America e ritorno.
«Sgravata bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: – per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni [...]» (Pampa, p. 184). Si rammenti – per capire il rapporto cosmico che il poeta stabilisce fra sé e un destino universale – che è in Pampa che egli si definisce l’«eterno errante» (ibid., p. 185).
170 Cfr. p. 344, nota 12.
171 S. FREUD, Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, 1910 (trad. it. Un ricordo d’infanzia di Leonardo da
Vinci, in ID., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, I, Torino 1969, pp. 73-158).
172 K. ABRAHAM, Giovanni Segantini: un saggio psicoanalitico (1911), in ID., Opere, II, Torino 1975, pp. 629-83.
169
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
3.3. Le nuove tecnologie.
Campana è il poeta del Novecento italiano che, in assoluto, ha più cercato d’incorporare nella propria poesia forme, manifestazioni ed effetti dei nuovi mondi della
tecnica e della produzione, – se si eccettuano, naturalmente, i futuristi, i quali però,
avrebbe detto lo stesso Campana, commettevano l’errore di separare disarmonicamente tali novità da un contesto più vasto, mentre per lui si trattava di farne altrettanti aspetti di una realtà universale, del resto con questa strettamente connessi.
Una vera passione il poeta dimostrò per quel fenomeno scoppiettante, dinamico e luminoso, che era l’elettricità, simbolo, in un certo senso, di questo mondo nuovo, che però poteva facilmente collegarsi a quello antico173. Si trattava di
una passione di vecchia data, se già in Pei vichi fondi tra il palpito rosso troviamo:
«[...] Le navi inermi, drizzate in balzi | terrifici al cielo | allucinate in aurora | elettrica inumana risplendente | alla prora per l’occhio incandescente»174, destinato a
diventare in Batte botte: «Ne la nave | che si scuote, | con le navi che percuote | di
un’aurora | sulla prora | splende un occhio | incandescente [...]» (vv. 1-7, p. 144).
E, con maggior forza e bellezza, unificando universo tecnologico e universo
naturale, in Genova:
Vasto, dentro un odor tenue vanito
di catrame, vegliato da le lune
elettriche, sul mare appena vivo
il vasto porto si addorme.
(vv. 123-26, p. 233).
Una minuziosa analisi tecnologica meritebbero, naturalmente, il porto di Genova, il treno di Pampa, il tram di Passeggiata in tram in America e ritorno175, il ricorrente tema della gara in bicicletta176, l’aeroplano177. È abbastanza evidente che
tutti questi inserimenti non fanno altro che aumentare il ritmo e il dinamismo della prosa e dei versi campaniani. Si noti che, conformemente alla lezione dell’avanguardia, l’universo semantico delle nuove tecnologie non resta chiuso in sé ma
173 A voler essere una volta lugubremente ironici, si potrebbe osservare che questa mania per l’elettricità gli era restata anche nel manicomio di Castel Pulci, dove dichiarava di essere «elettrico», anzi, addirittura di essere Edison e di
essere «tutto pieno di correnti magnetiche» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 36).
174 D. CAMPANA, Quaderno cit., p. 349.
175
«Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo
ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormi palazzi
regali e barbari, i diademi elettrici spenti» (Passeggiata in tram in America e ritorno, p. 199).
176 «Dall’alto giù per la china ripida», in ID., Quaderno cit., p. 355; ID., Traguardo (a F. T. Marinetti), in ID., Taccuini, abbozzi e carte varie cit., p. 383; ID., Giro d’Italia in bicicletta, in ID., Il più lungo giorno cit., p. 60; ID., Alba, vv.
7-18, ibid., pp. 57-58, poi in «... poi che nella sorda lotta notturna», vv. 29-41, p. 138.
177 Compare nella Forza: «Un balocco formidabile di raziocinio umano | irraggia la sua volontà per i cieli | l’energia doma
bramisce immane nel motore [...]» (vv. 11-13; in ID., Quaderno cit., p. 329); e in forma metaforica in La giornata di un nevrastenico (Bologna): «Ecco inevitabile sotto i portici lo sciame aeroplanante delle signorine intellettuali [...]» (pp. 173-74).
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s’espande, a colpi di metafora, anche sull’antico universo naturale. Anche la luna,
sorgendo sulla Pampa, può diventare un «elemento» di questo nuovo universo:
«Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontano profumato irraggiando riflessi gelidi d’acciaio sopra la prateria» (Pampa, p. 184).
3.3.1. Cinematografo. Un posto di singolare rilievo va assegnato ai rapporti
tra la poesia di Campana e il nuovo linguaggio cinematografico. Non dimentichiamo che Il più lungo giorno portava come sottotitolo: La notte mistica dell’amore e del dolore – Scorci bizantini e morti cinematografiche. Questo sottotitolo risultava però dalla cancellatura di una precedente versione, che diceva più semplicemente e più significativamente: Cinematografia sentimentale178. Si tratta di
un’indicazione da non trascurare.
Numerosi passi dei Canti Orfici rivelano ritmi e dinamismi, uso dei primi piani, scorciature e salti temporali, che sarebbero impensabili senza una conoscenza
appassionata del nuovo mezzo. Ma in uno di essi, precisamente La Notte, c’è la riproduzione pura e semplice di una proiezione cinematografica, finora non individuata né dalla critica né dai commentatori, nonostante la sua inequivocabile evidenza. Il poeta, nel corso di una serata di fiera, accompagna la fanciulla amata o
sognata in una sala cinematografica del tempo:
Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nella
luce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia notturna dei
suoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dalla
festa, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedute. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panorami scheletrici di città. Dei morti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose. Una odalisca di gomma respirava sommessamente e volgeva attorno gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che felpava i passi e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. «È così Parigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden». Noi guardavamo intorno: doveva essere
tardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno!
Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino si
approfondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con una
punta d’amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque come si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stranieri dopo la strepitoso della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo179.
(pp. 90-91).
178 Cfr. D. CAMPANA, Il più lungo giorno, riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici, Firenze 1973, p. 3.
179 Un particolare consente di stabilire con precisione la data dell’episodio, se non quella di composizione del brano: la battaglia di Muckden è infatti uno degli episodi culminanti della guerra russo-giapponese del 1905, alla quale
probabilmente fanno riferimento anche i «panorami scheletrici di città» e i «morti bizzarri» che «guardavano il cielo
in pose legnose».
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
Si vede bene qui come l’immaginario campaniano si fonda perfettamente con
le suggestioni provocate dal nuovo «mezzo»: «Tutte quelle cose viste per gli occhi
magnetici delle lenti in quella luce di sogno!» L’«irrealtà spettrale» del cinema,
Campana la proietterà nelle pagine successive, come abbiamo già visto, sul mondo vero, al quale la «camera oscura» ha strappato la sua fisicità.
Campana ha anche intravisto il valore straniante dello spettacolo cinematografico rispetto alla vita: l’amore tra i due giovani evapora nel chiuso di quell’odierno «mistero», che è la sala cinematografica e di fronte allo spettacolo, fatto
realtà, del «panorama scheletrico del mondo». Se si vuol parlare, come molti hanno fatto, di una Euridice che si perde, si tenga presente che la sua scomparsa non
è un luogo letterario ma avviene nell’atmosfera irreale di un fascio di luce proiettato nella tenebra polverosa su di un telone bianco.
4. «Una goccia d’acqua, una sola goccia».
Sarebbe sbagliato concludere la nostra esplorazione con un bilancio finale, soprattutto se fondato su confronti.
Dovrebbe essere chiara, ormai, la portata del tentativo campaniano. Se le nostre analisi non sono riuscite finora a fare chiarezza, c’è un punto dei Canti Orfici
che ci indica, in maniera inequivocabile, la strada giusta. Si tratta del brano finale
della parte II della Notte, Il viaggio e il ritorno, che riproduco per intero, nonostante sia già stato parzialmente citato, proprio perché il suo senso appaia senza limitazioni chiaro:
Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano come
gli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abitato da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfale? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ci
appare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? La
luna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina.
(La Notte, p. 101).
Tutto qui l’esperimento campaniano (ma certo non è poco): gettare un ponte sull’infinito per cogliere nelle cose viventi e nei fenomeni l’«ombra»
dell’«eternità».
Si tratta, chiaramente, di un riferimento nietzschiano: «Quel che è grande
nell’uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo è
che egli è un passaggio e un trapasso»180. Il Nietzsche, si badi, di Zarathustra, in
180 F. W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, introduzione e commento di G. Pasqualotto, traduzione di S. Giametta, Milano 1985, p. 30.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
cui la voce della poesia è diventata l’oracolo di una missione profetica (non estranea, neanch’essa, come abbiamo visto, al misticismo di Campana).
La relazione è ancora più chiara in questo appunto del Taccuinetto faentino,
steso a stretto contatto con le note che avrebbero dato vita a Faenza:
Il valore dell’arte non sta nel motivo ma nel collegamento e quindi nel punto di fusione
si ha la grande arte: e la grande arte come la grande vita non è che [un simbolo] un ponte di passaggio181.
Con questi chiarimenti torniamo al brano de Il viaggio e il ritorno: è qui, in
questo momento di «fusione», che il poeta può concepire possibile la realizzazione
di questo suo sogno nostalgico di bellezza, che tutto il mondo intorno sembrava negargli. L’arabesco finale, in puro stile decadente-avanguardistico, sembra concludere con un esemplare sberleffo marionettistico il poderoso pensiero. Ripeto: siamo
nel pieno – e consapevolmente – dell’avanguardia poetica europea più avanzata.
È vero, come osservava Montale182 che l’accoglienza degli intendenti all’apparire dell’opera, fu meno spietata di quanto ci si potesse aspettare. E tuttavia
non si può certo dire che al poeta morto fosse riserbata un’accoglienza molto migliore di quella che ebbe in vita. A restare soltanto ai poeti, o ai grandi poeti, si
dovrebbe registrare nei suoi confronti la gelida ritrosia di Saba, gli avari riconoscimenti di Pasolini, l’indifferenza di Ungaretti. Forse soltanto a Montale si deve
riconoscere l’onesta volontà di capire e soltanto a Mario Luzi una dichiarata passione, che tuttavia derivava molto probabilmente da una non del tutto legittima,
anche se giustificabilissima, sovrapposizione del suo «cosmicismo» cristiano a
quello, mistico sì, ma niente affatto cristiano di Campana.
L’elenco delle «differenze», ingenuamente esibite e persino sfrontatamente
ostentate dal reietto marradese, sarebbe assai lungo e tale comunque da giustificare una sostanziale relegazione della sua opera ai margini del dibattito letterario
italiano del Novecento.
I poeti italiani del Novecento son quasi tutti «poeti da camera» o, avrebbe
detto Cecchi, «d’atelier»183, anche e forse soprattutto i più grandi: per loro, quando diviene un elemento del loro immaginario, anche l’«infinito» resta un’astrazione metafisica (si pensi a Ungaretti). Campana è un tipico poeta «en plein air», come avrebbe potuto esserlo il più fedele seguace di Cézanne. La sua tavolozza «si è
fatta» osservando la natura, e l’occhio precede in lui la mente, anche se poi la
mente suggestiona e «sregola» l’occhio, secondo il comandamento rimbaudiano.
181
D. CAMPANA, Taccuinetto faentino cit., p. 308.
«Incomprensione propriamente detta [...] non ci fu» (E. MONTALE, Sulla poesia di Campana cit., p. 249).
183 «Nulla, in Campana, di una psicologia d’uomo d’“atelier” [...]» (E. CECCHI, Dino Campana (1952), in ID., Di
giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Milano 1959, p. 315).
182
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I poeti italiani del Novecento sono «nazionali» nel senso più stretto del termine: non uno, voglio dire, che abbia gettato lo sguardo al di là del borgo natio e
delle coste, dei monti, delle siepi e dei muretti a loro noti fin dall’infanzia. Campana in Italia è di una specie rarissima, quella a cui fa di scena il mondo. I poeti
italiani del Novecento sono dei calligrafi splendidi e purissimi, dei «distillatori»
impareggiabii di essenze rare e squisite, cui serve da principale «ingrediente» la
componente nobile del cervello, la parte superiore – la più vigile e razionale – della struttura cerebrale. Campana butta nel crogiolo una inverosimile quantità di
sensazioni, esperienze, ragionamenti e passioni, e una indicibile volontà di fusione e di annullamento, rischiando – appunto – di perdere il cervello sul serio invece di elegantemente sublimarlo.
Infine, i poeti italiani del Novecento sono in larga misura – avrei dei dubbi,
anche se in tutt’altro senso, soltanto su Montale – dentro la corrente fondamentale del moralismo del secolo (per non parlar dei critici, naturalmente), dentro l’idea cioè che fare della buona poesia significa fare una buona azione. Campana
aveva, come abbiamo visto, un’idea altissima della Poesia (e anche, io credo, della propria poesia), proprio perché era radicalmente, assolutamente antimoralista
e aveva deciso che tutta la sua vita si svolgesse al di fuori di tutti i parametri del
costume corrente (anche di quello letterario).
Non comincerò alla fine ad avanzare quelle spiegazioni ed interpretazioni
psichiche e psicologiche, che ho rifiutato sostanzialmente di applicare in tutto il
mio discorso precedente. Non c’è dubbio, però, che Campana avvertisse l’onda
montante dell’indifferenza intorno a lui e che, sentendosi tradito negli affetti più
cari, cominciasse a nutrire una stanchezza crescente, una difficoltà sempre maggiore a combattere e a resistere. Persino la docilità con cui, per quanto ne sappiamo, accondiscese al suo ultimo e definitivo ricovero manicomiale, sembra un segno di resa più che di follia. Il manicomio a quel punto si presenta come un porto sicuro, un rifugio tranquillo, di fronte ai marosi di un’esistenza troppo travagliata e sempre più solitaria.
Ci si può congedare in modi diversi dal proprio autore. Non ne trovo uno migliore che lasciargli la parola, nell’ultima lettera prima del ricovero in cui affronti
assennatamente problemi di letteratura e di poesia, rivolta ad uno degli ultimi
amici, Carlo Carrà, che egli credeva gli fosse restato. È la lettera in cui si scaglia
prevalentemente contro il Vate, «il Vate gramofono», e in cui, in estrema conclusione, confessa all’amico: «Caro Carrà, sono sempre orribilmente innamorato di
Sibilla»184. In questo contrasto di situazioni, fra il disgusto letterario e il tormento
erotico, il poeta così manifesta il suo congedo:
184
D. CAMPANA, Lettera a Carlo Carrà della [Vigilia di Natale 1917], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 234.
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Ah serva Italia! come questo plebeo dolore, come questa plebea indifferenza mi offende! Credi che è così dolce sentirsi una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome!185.
Si rammenti l’inizio della «storia»: «[...] per provarmi che esisto, per scrivere
ancora ho bisogno di essere stampato»186. Stampatosi da solo, scopri che non bastava per essere amato. E la goccia d’acqua rinunciò a riflettere i raggi del sole.
VI. NOTA BIBLIOGRAFICA.
Delle vicende editoriali dei Canti Orfici ho riferito nella sezione I, §§ 4-5-6-7, ai
quali rimando.
Esiste un’ottima Bibliografia campaniana (1914-1985), a cura di A. Corsaro e
M. Verdenelli, premessa di N. Bonifazi, contributi critici di A. Corsaro e M. Verdenelli, Ravenna 1985.
L’epistolario e i principali documenti biografici si possono trovare in: D.
CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti e
rari, a cura di G. Cacho Millet, Napoli 1985, e in G. CACHO MILLET, Dino
Campana fuorilegge, Palermo 1985.
Testimonianze biografiche importanti, anche se non sempre affidabili, sono: A.
SOFFICI, Dino Campana a Firenze, in ID., Ricordi di vita artistica letteraria, Firenze 1931, pp. 109-29; G. PAPINI, Il poeta pazzo (1948), in ID., Autoritratto e ritratti, Milano 1962, pp. 969-73; C. PARIANI, Vite non romanzate di Dino Campana
scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze 1958 (ora ID., Vita non romanzata
di Dino Campana, a cura di T. Gianotti, Firenze 1994); L. CECCHI PIERACCINI,
Apparizioni di Dino Campana, in ID., Visti da vicino, Firenze 1952, pp. 201-17.
Profili biografici, intesi a ritrovare dietro lo svolgimento degli eventi il senso
di un percorso, sono quelli di G. GEROLA, Dino Campana, Firenze 1955, e di G.
TURCHETTA, Dino Campana. Biografia di un poeta, Milano 1985.
La critica campaniana si organizza sostanzialmente in quattro decisivi momenti: 1) alla prima uscita dei Canti Orfici; 2) intorno alla ristampa del 1928 (Firenze); 3) intorno agli anni Quaranta, in relazione alla ristampa del Falqui (Firenze 1941) e alla comparsa del volume degli Inediti (Firenze 1942); 4) dopo il 1973,
ossia dopo il Convegno fiorentino di quell’anno, la comparsa del volume di Opere e contributi curato dal Falqui (Firenze 1973) e la pubblicazione del Più lungo
giorno (Firenze 1973) – avvenimenti che, in effetti, cadono tutti in quell’anno.
185
186
Ibid, p. 233.
ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914 cit., p. 56.
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«Canti Orfici» di Dino Campana - Alberto Asor Rosa
1) Nella primissima fase sono rilevanti gli interventi di: G. DE ROBERTIS,
Un po’ di poesia (1914), in ID., Scritti vociani, a cura di E. Falqui, Firenze 1967,
pp. 322-23; B. BINAZZI, Un pacco di libri, in «Giornale del mattino [Bologna]»,
14 luglio 1915; G. BOINE, Canti Orfici (1915), in ID., Il peccato. Plausi e botte.
Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano 1983, pp. 200-4; E. CECCHI,
False audacie, in «La Tribuna [Roma]», 13 febbraio 1915; ID., Carlo Linati - Dino
Campana, ibid., 21 maggio 1916.
Importante in questa fase anche la testimonianza di S. ALERAMO, Il passaggio (1919), Milano 1985, particolarmente alle pp. 99-100 (ma dell’Aleramo si vedano i ricordi e le riflessioni sparsi nei suoi diari, e cioè ID., Diario di una donna.
Inediti 1945-1960, con un ricordo di F. Cialente e una cronologia della vita dell’autrice, scelta a cura di A. Morino, Milano 1978, passim, e ID., Un amore insolito. Diario 1940-1944, con una lettura di E. Melandri e una cronologia della vita
dell’autrice, scelta a cura di A. Morino, Milano 1979; importante, ovviamente, anche l’epistolario tra Sibilla e Dino, di cui, dopo la vecchia pubblicazione a cura di
Niccolò Gallo nelle Opere e contributi del 1973, è apparso recentemente una
stampa a cura di Bruna Conti: S. ALERAMO e D. CAMPANA, Un viaggio chiamato amore. Lettere 1916-1918, Roma 1987).
2) Dopo il 1928 mi sembrano particolarmente importanti i seguenti contributi: S. SOLMI, I «Canti Orfici» (Il libro di cui si parla) (1928), in ID., La letteratura italiana contemporanea, I. Scrittori negli anni, Milano 1992, pp. 66-77,
con due Note del 1942 e del 1953; A. GARGIULO, Dino Campana (19001930) (1933), in ID., Letteratura italiana del Novecento, Firenze 1940, pp. 35763; C. BO, Dell’infrenabile notte (1937), in ID., Otto studi, Firenze 1938, pp.
105-25; G. CONTINI, Dino Campana (1937), in ID., Esercizi di lettura sopra
autori contemporanei con un’appendice di testi non contemporanei Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino 19922, pp. 16-24; G. DE ROBERTIS, Scrittori nostri (1938), in ID., Scrittori del Novecento, Firenze 1940, pp.
381-83; R. FRANCHI, Omaggi a Campana, in ID., Memorie critiche, Firenze
1938, pp. 39-47.
Importante, anche se minore, la linea di un’interpretazione radicalmente «toscana» dei Canti Orfici in: B. RICCI, Campana, in «Il Selvaggio», V (1928), 9, p.
35; ID., In morte di Dino Campana, in «L’universale», II (1932), 6, p. 2; V. PRATOLINI, Il «pappagallo», in «Il Bargello», XI (1939), 44, p. 3; ID., Omaggio a Dino Campana. «A Badia a Settimo», in «Primato», III (1942), 6, p. 119.
Si segnala in questa sezione l’interessante A. HERMET, La ventura delle riviste (1903-1940), Firenze 1941, passim (ora ID., La Ventura delle riviste, a cura di
M. Biondi, Firenze 1987).
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3) Dopo il 1941 riparte un’altra fase della critica campaniana, di cui le testimonianze più importanti mi sembrano: E. MONTALE, Sulla poesia di Campana
(1942), in ID., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp. 248-59; A. SERONI, Lettura di Campana, in ID., Ragioni critiche. Studi di letteratura contemporanea, Firenze 1944, pp. 73-83; M. COSTANZO, Corazzini, Michelstaedter, Campana, Roma 1949, pp. 21-32, 33-43, 44-50 (del medesimo Costanzo si veda anche
Studi critici. Rebora - Boine - Sbarbaro - Campana, Roma 1955, pp. 97-112; poi,
Roma 1969); F. CHIAPPELLI, Langage traditionnel et langage personnel dans la
poésie italienne contemporaine, Neuchâtel 1951, pp. 40-46; A. BOCELLI, Fortuna di Campana (1952), in ID., Letteratura del Novecento, Caltanissetta-Roma
1975, pp. 221-26; E. CECCHI, Dino Campana (1952), in ID., Di giorno in giorno.
Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Milano 1954, pp. 313-18;
A. PARRONCHI, Genova e il «senso dei colori» nella poesia di Campana (1953),
in ID., Artisti toscani del primo Novecento, Firenze 1958, pp. 239-76; O. MACRÌ,
Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze 1956, pp. 29-32, 3238, 107-28; G. POZZI, La poesia italiana del Novecento da Gozzano agli Ermetici,
Torino 1956, pp. 110-16; P. BIGONGIARI, Poesia italiana del Novecento, Firenze 1965, pp. 27-40, 41-58, e ID., Capitoli di una storia della poesia italiana, Firenze 1968, pp. 345 -55, 356-73, 374-414.
Nel 1964 appariva il libro di N. BONIFAZI, Dino Campana, Roma 1964, che,
accresciuto e ristampato anni più tardi (Roma 1978) dopo le successive acquisizioni testuali e documentarie, rappresenta una tappa importante nella storia della
critica campaniana. Importanti anche i numerosi studi di S. RAMAT: L’ermetismo, Firenze 1969, passim; La pianta della poesia, Firenze 1972, pp. 192-215; Storia della poesia italiana del Novecento, Milano 1976, pp. 115-28; Protonovecento,
Milano 1978, pp. 265-84, 285-31.
Ancora ricca di spunti la monografia di C. GALIMBERTI, Dino Campana,
Milano 1967. Forse un po’ sommarie, rispetto alla ricca materia, le osservazioni di
M. DAVID, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino 1966, pp. 345-48.
4) Nel 1975, quasi contemporaneamente ai due volumi di Opere e contributi,
a cura di Enrico Falqui, apparivano gli atti del Convegno Dino Campana oggi, Firenze 1973, con contributi di Carlo Bo, Enrico Falqui, Domenico De Robertis,
Neuro Bonifazi, Silvio Guarnieri, Maura Del Serra, Silvio Ramat, Giuseppe Raimondi, Mario Luzi, Ruggero Jacobbi, Ludovico Bernabei.
L’importante intervento di M. LUZI, Campana al di qua e al di là dell’elegia, è
stato poi raccolto in ID., Vicissitudine e forma, Milano 1974, pp. 157-63.
Inoltre: M. DEL SERRA, L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti Orfici», Firenze 1973; ID., Dino Campana, Firenze 1974; A. ABRUZZESE, Lo stile e
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il viaggio (1975), in ID., Lo stile e il viaggio, Venezia 1979; A. ASOR ROSA, Die
Tragoedie des letzen Germanen in Italien, in ID., La cultura, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano e C. Vivanti, IV. Dall’Unità a oggi, t. II, Torino 1975, pp. 128486; P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale,
Milano 1975, pp. 117-18, 141-42, 314-16; R. JACOBBI, Invito alla lettura di Dino
Campana, Milano 1976; S. GENTILI, Trionfo e crisi del modello dannunziano. «Il
Marzocco», Angelo Conti, Dino Campana, Firenze 1981.
Il giudizio non proprio simpatizzante di P. P. PASOLINI, Campana e Pound,
in ID., Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino 1979, pp. 235240 (ma l’articolo è del 1973).
Seguono, di diseguale valore e non sempre persuasivi: L. PEIRONE, La ricerca espressiva di Campana, Genova 1978; I. LIVIGNI, Orfismo e poesia in Campana, Genova 1983; A. PIETROPAOLI, «La Chimera» di Campana) o dell’ossessione, in ID., Le strutture della poesia, Napoli 1983, pp. 7-18; R. MAZZA, La forza, il nulla, e la Chimera, Roma 1986; Materiali per Campana, a cura di P. Cudini,
Lucca 1986 (saggi e interventi di Alberto Casadei, Fiorenza Ceragioli, Piero Cudini, Giovanni Nencioni, Aldo Pecoraro, Beatrice Stasi); M. VERDENELLI, I
«Canti Orfici» nell’inscenamento della «notturna estate mediterranea», in ID., La
teatralità della scrittura, Ravenna 1989, pp. 105-20; A. CAPODAGLIO, Un’idea
di poetica. Nuovo saggio su Dino Campana, con una premessa di M. Marti, Galatina 1992.
Importanti i saggi raccolti in Dino Campana nel Novecento. Il progetto e l’opera, a cura di F. Bernardini Napoletano, Roma 1992, atti delle giornate di studio
tenutesi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università «La Sapienza» di
Roma il 16-17 maggio 1988; e La Liguria per Dino Campana. Il viaggio, il mistero,
il mare, la mediterraneità, numero monografico di «Resine», nuova serie, n. 58-59
(1993).
Naturalmente hanno un’importanza capitale anche per l’impostazione complessiva del discorso le due introduzioni, contrapposte anche nel giudizio su
Campana, alle rispettive raccolte poetiche del Novecento italiano, di E. SANGUINETI, Poesia italiana del Novecento, Torino 1969, e di P. V. MENGALDO,
Poeti italiani del Novecento, Milano 1978.
Nei miei numerosi riferimenti ai rapporti fra Campana e l’avanguardia ho tenuto presente la mia voce «Avanguardia», in Enciclopedia, diretta da R. Romano,
II, Torino 1977, pp. 195-231.
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