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il paradosso dell`obiezione di coscienza

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il paradosso dell`obiezione di coscienza
CAPITOLO QUINTO
TUTELA DELLA LIBERTÀ O DISGREGAZIONE
DELLA SOCIETÀ? IL PARADOSSO
DELL’OBIEZIONE DI COSCIENZA
SOMMARIO: 1. Conscientia e coscienza. – 1.1. Premesse storico-semantiche del
termine conscientia. – 1.2. La dimensione trascendente della coscienza. –
1.3. La dimensione interpersonale della coscienza etica. – 1.4. La coscienza
nella accezione classica. – 2. Concezioni diverse della coscienza a fondamento dei paradossi della obiezione. – 3. Considerazioni conclusive.
Accanto all’indubbio progresso dei moderni ordinamenti occidentali, tendenti a riconoscere sempre più l’obiezione di coscienza come
diritto costituzionalmente tutelato, non si possono non registrare alcuni moniti relativi a possibili conseguenze negative derivanti da un
uso distorto dell’obiezione intesa sia come diritto di pensare che di
vivere secondo coscienza.
Da una parte, la libertà di coscienza è considerata precondizione
fondativa essenziale degli ordinamenti democratici, venutasi emancipando nel corso dei secoli dall’originaria caratteristica, religiosa o
confessionale, di garanzia di singoli e di minoranze non conformiste
per divenire diritto alla pubblica proiezione dell’identità culturale
della persona 1.
L’obiezione di coscienza costituisce così un istituto fondamentale dei moderni ordinamenti democratici, capace di affermare un
proprio dominio riservato, sul quale la sovranità dello Stato non si
estende, e nel quale si afferma un ordine di norme diverso da quello statuale, capace, in caso di conflitto, di affermare il proprio primato 2.
Mentre si qualifica come opzione essenziale in una società liberale, l’obiezione di coscienza si paventa, d’altra parte, anche come stru-
1
S. PRISCO, Stato democratico, pluralismo dei valori, obiezione di coscienza. Sviluppi recenti di un antico dibattito, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 8 ottobre 2007.
2
Cfr. G. DALLA TORRE, Il primato della coscienza. Laicità e libertà nell’esperienza
giuridica contemporanea, Roma 1992, p. 101.
197
mento di possibili intransigenze, quasi di paralisi della comunità,
anziché essere luogo di tolleranza e dialogo 3.
Conseguenze estremamente gravi prospettava Pio Fedele nel caso
di affidamento esclusivo al primato della ‘coscienza’ 4.
Come è stato osservato:
«si è più volte posto al centro del problema il rispetto della coscienza personale, cioè del singolo individuo, sia da parte dello Stato che del gruppo
cui eventualmente appartenga o comunque faccia riferimento. La considerazione dell’individuo in sé, il rispetto di ogni coscienza, di ogni esigenza, di ogni esperienza, non porta però ad una polverizzazione delle
istanze sociali?» 5.
Non è remoto per alcuni il rischio che l’obiezione di coscienza
possa aprire un varco ad una radicale anarchia individualistica 6, in
un esito distorto dell’uso di diritti inerenti alla sola coscienza individuale 7.
L’accentuazione esclusiva del primato della coscienza si inserisce
nella diffusa tendenza:
«a fare dei diritti uno strumento insaziabile, divoratore della democrazia,
dello spazio politico e, alla fin dei conti, della stessa autonomia morale
da cui li facciamo scaturire» 8.
È stato affermato che attribuire alla coscienza personale il ruolo
di arbitro ultimo e definitivo del vigore delle leggi equivarrebbe a
consacrare l’anarchia individualista e a trasformare l’obiezione di
coscienza in tirannia della coscienza 9.
3
G. CAPUTO, L’obiezione di coscienza: un’erma bifronte fra tolleranza e fondamentalismo, cit., pp. 12-13.
4
AA.VV., L’obiezione di coscienza tra tutela della libertà e disgregazione dello stato democratico, p. 202.
5
P. CONSORTI, Obiezione, opzione di coscienza e motivi religiosi, in ibidem, p. 262.
6
Cfr. G. GEMMA, Brevi note critiche contro l’obiezione di coscienza, in ibidem, p. 321.
7
Cfr. G. GEMMA, Obiezione di coscienza ed osservanza dei doveri, in Il senso della
Repubblica. Doveri, a cura di S. MATTARELLI, Milano 2007, pp. 55-74, qui p. 55.
8
A. PINTORE, Diritti insaziabili, in L. FERRAJOLO, Diritti fondamentali. Un dibattito teorico, Bari 2001, p. 179.
9
198
J.T. MARTIN DE AGAR, Problemi giuridici dell’obiezione di coscienza, cit., p. 13.
Le osservazioni sollevate dalla dottrina giuridica trovano riscontro nel Magistero ecclesiale. Giovanni Paolo II ha affermato:
«Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell’altro, sentito come
un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, ma senza legami reciproci;
ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall’altro, anzi, vuol far
prevalere i suoi interessi» 10.
Ancora è stato notato che:
«in un contesto culturale come il nostro, caratterizzato da un deperire
delle evidenze etiche, l’appello alla coscienza, anche nelle forme di obiezione di coscienza, richiede un attento discernimento. Esso può mascherare proprio il contrario di quanto merita di essere inteso con tale nome,
cioè l’adesione libera e convinta a una verità per la quale si è disposti a
sacrificare i propri interessi particolari e, se necessario, la stessa sopravvivenza fisica» 11.
Di qui il paradosso:
«da una parte nella modernità la coscienza non può che essere apprezzata e al limite esaltata, perché essa soltanto funziona da ancoraggio dell’io,
solo ad essa può essere riferita l’individualità, nei suoi meriti come nelle
sue colpe; dall’altra però la coscienza appare come pericolosa, perché nella sua pretesa insindacabilità e a causa della sua intrinseca vocazione
anarchica, irriducibile alle forme del diritto, rifiuta formalmente la legittimità di qualsiasi controllo sociale a carico del soggetto agente in suo
nome» 12.
10
GIOVANNI PAOLO II, enciclica Evangelium vitae, n. 20.
11
C.M. MARTINI, La Chiesa opera a favore della interiorità, in Realtà e prospettive
dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordinamenti, a cura di B. Perrone, cit., pp.
444-445, che così continua: «D’altra parte, proprio questo contesto rende ancora
più preziosa ed apprezzabile ogni autentica espressione della coscienza morale. La
resistenza che essa solitamente oppone alle forme consolidate di valutazione e di
comportamento, non deve allora indurre al timore bensì alla speranza, perché conferma l’insopprimibile capacità del cuore umano di aprirsi alla inesauribile novità
dello Spirito di Dio».
12
F. D’AGOSTINO, L’obiezione di coscienza come diritto, cit., p. 178.
199
Ulteriori spunti di riflessione emergono dalla considerazione dei
mutamenti etnici e religiosi in Occidente.
Da alcuni decenni le religioni sono inaspettatamente divenute forze capaci di coagulare imponenti identità collettive e di configurare
spazi di appartenenza che travalicano i confini del ‘religioso’ e investono ambiti tradizionalmente riservati alla cultura, all’etica o alla
politica 13.
Dopo l’11 settembre, è stato osservato che le religioni riescono là
dove la politica non arriva più; dove – si è anche detto – non basta più
da sola con le sue retoriche a mandare al fronte individui in carne ed
ossa contro altri individui 14.
Il contesto europeo odierno è segnato da un pluralismo religioso
che, rispetto al passato, è per ciò stesso pluralismo etico e culturale.
Come ha osservato Silvio Ferrari, nel pluralismo religioso della Modernità, l’Europa è stata teatro di divisioni tra cattolici, protestanti,
con linee di frattura che in molti casi correvano dentro i confini di
uno stesso Stato: ma per quanto profonde e conflittuali, esse si collocavano all’interno di un ambito definito dal riferimento agli stessi testi sacri (l’Antico e il Nuovo Testamento) e allo stesso corpus interpretativo originario (la Patristica). Le differenze religiose s’inserivano all’interno di un orizzonte etico-culturale comune e sostanzialmente condiviso.
«Per questa ragione il modo di concepire il rapporto tra uomo e donna, tra cittadino e Stato, tra religione e politica – pur diverso nel mondo
protestante, in quello cattolico e in quello ortodosso – non ha mai raggiunto una soglia di reciproca incompatibilità e ha permesso di sviluppare, al di là delle differenze religiose, un sentimento di cittadinanza comune che sta alla base del processo di unificazione europea» 15.
Soltanto di recente il pluralismo religioso dell’Europa si è trasformato in pluralismo etico-culturale.
Nel contesto della post-modernità, alla dialettica Stato e Chiesa si
è aggiunta così una inedita frammentazione etica e culturale, ali-
13
Cfr. S. FERRARI, Diritti e religioni nello Stato, in Annuario DiReCom, VI (2007),
pp. 7-18, qui p. 8.
14
E. PACE, Perché le religioni scendono in guerra?, Roma-Bari 2004, p. IX.
15
S. FERRARI, Diritti e religioni nello Stato, cit., pp. 8-9.
200
mentata non soltanto da un «individualismo atomizzante» ma anche
dalla divisione della società in comunità parziali, alcune delle quali a
sfondo etnico-religioso. Ora, come è stato rilevato,
«mentre l’individualismo si limita ad affievolire il senso di partecipazione alla vita collettiva, favorendo forme di egoismo senza provocare vere
e proprie crisi di ‘lealtà’, il secondo aspetto (il comunitarismo) innesca il
pericolo latente di fedeltà alternative, capaci di contrastare il vincolo di
lealtà principale all’autorità statuale» 16.
Per quanto riguarda la disciplina attuale, l’atteggiamento obiettorio è in linea astratta applicabile ad una pluralità aperta di comportamenti umani, voluti come doverosi dall’ordinamento giuridico. Il suo riconoscimento positivo esige però l’interposizione del legislatore:
«s’impone al riguardo il filtro delle ragioni individuali da parte di quelle
dei più, mediate in concreto dalle sedi di rappresentanza politica, sia pur
sotto il finale controllo della Corte costituzionale; come si vede si alternano ed articolano – nel processo decisionale in materia – istanze aristocratiche (all’inizio e all’esito di esso) e altre maggioritarie» 17.
Per quanto riguarda il problema dell’ammissibilità di nuove obiezioni di coscienza, tratto qualificativo dell’ampiezza della democraticità di uno Stato 18, quale deve essere la reazione dell’ordinamento
davanti ai casi in cui nuove appartenenze corporative impongono fedeltà fortemente contrastanti con la lealtà richiesta ai principi fon-
16
Cfr. E. TORTAROLO-G. PAGANINI, Introduzione, in ID., Pluralismo e religione civile. Una prospettiva storica filosofica, Milano 2004, p. 6.
17
S. PRISCO, Stato democratico, pluralismo dei valori, obiezione di coscienza. Sviluppi recenti di un antico dibattito, cit., p. 3.
18
Nel Tractatus theologico-politicus (1670), Spinoza aveva presentato un approccio totalmente centrato sulla libertà individuale, posta come fondamento dello
Stato e dei suoi fini. L’idea era la seguente: gli Stati non devono costituirsi che sulla base della libertà degli individui; ciò fonda a sua volta il dovere fondamentale
dello Stato di salvaguardarla; sul punto si confronti J. LAFFITTE, Storia dell’obiezione di coscienza e interpretazioni attuali del concetto di tolleranza, in La coscienza cristiana al servizio del diritto alla vita, Città del Vaticano, 23-24 febbraio 2007, i cui atti sono in corso di pubblicazione, ma già disponibili nel sito web academiavita.org,
p. 2.
201
danti dell’ordinamento stesso, o ad istanze individuali che reclamano, appellandosi alla coscienza, il rispetto di un comportamento criminoso?
Sono, questi, problemi inediti, emegenti con forza nell’ambito
delle società occidentali multiculturali 19, ove il concetto, tutto occidentale di coscienza – come si vedrà meglio in seguito – può diventare lo strumento per legittimare orientamenti di pensiero e di vita che
negano radicalmente la coscienza e la sua libertà 20. L’obiezione di
coscienza erroneamente intesa e praticata potrebbe così consentire
l’ingresso nell’ordinamento democratico al:
«fondamentalismo ideologico e preconcetto, che trasforma l’incomunicabilità di fatto che purtroppo divide così spesso gli uomini in una incomunicabilità di principio, arrogante, dura e non di rado violenta» 21.
Proprio su questi quesiti si innesta l’aporia delle società contemporanee occidentali: se da una parte si fondano sul riconoscimento,
sulla tutela e sull’espansione della libertà di coscienza individuale,
dall’altro si trovano di fronte alla scelta di negare o ammettere libertà
che, nel loro esercizio, costituiscono negazione celata o manifesta
della libertà stessa. L’aporia è ben espressa nelle sue polarità da Rodolfo Sacco:
«Se il diritto di una data società tollerante accorderà al credente –
credente religioso, credente laico, credente isolato e convinto –, in ag-
19
Accentua i tratti paradossali qui accennati G. SARTORI, Pluralismo multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica, Milano 2000.
20
In questo consiste «il paradosso della libertà» ovvero nella tendenza della
massima libertà a rovesciarsi nella sua massima oppressione. Sul punto si rimanda a K. POPPER, La società aperta e i suoi nemici (orig. The open society and its Enemies, 1966), II, Roma 1977, p. 163. Gli estrermi del paradosso menzionato sono
ben formulati da Spaemann: «Quando una società aumenta le libertà e la soddisfazione soggettiva dei cittadini illimitatamente e senza considerare le condizioni
per la sua conservazione e la sua sicurezza, libertà e benessere finiranno probabilmente molto presto. Dove però al contrario la sicurezza di un sistema liberale
sia perfezionata al punto che tutto viene subordinato alla conservazione del sistema, allora viene sacrificato proprio ciò che deve essere conservato e che rende il
sistema degno di essere conservato» (R. SPAEMANN, Concetti morali fondamentali,
cit., p. 42).
21
202
F. D’AGOSTINO, L’obiezione di coscienza come diritto, cit., p. 182.
giunta alle libertà consacrate nel diritto comune, la libertà di ottemperare ai precetti, di tenere i comportamenti raccomandati, o addirittura
di esercitare le prerogative, che sono previste nel suo credo, i contraccolpi opereranno in due direzioni: a) In primo luogo, quella società tollerante potrebbe sentire urtare le proprie idiosincrasie in presenza
dell’obbligo del levirato, della libera poligamia, dell’antropofaghia rituale. I membri di quella comunità potrebbero sentire come menomazione
del proprio statuto la libertà concessa ad altri di compiere prestazioni
crudeli, ad esempio la libertà di ridurre tali persone (i discendenti di
Ham) in schiavitù o di uccidere questi o quegli uomini (si torni con il
pensiero allo ius vitae ac necis del diritto romano, si ricordi quale sia
l’etimo della parola assassino, si pensi ai culti americani precolombiani
praticati a mezzo di uccisioni di migliaia di vittime umane). b) In secondo luogo, il giurista considererebbe un rompicapo la costruzione
concettuale della libertà, fondata sulla fede, di negare legittimazione al
potere politico totalmente laico, e di rifiutare perciò la propria subordinazione all’autorità» 22.
Problematiche analoghe emergono in ambito ecclesiale, segnato
anch’esso da un individualismo disgregante e nel contempo dalla rapida crescita di ‘appartenenze forti’ ad associazioni caratterizzate da
rapporti di fedeltà interni, a volte più significativi del vincolo di lealtà
che lega gli appartenti alla Chiesa.
Le osservazioni fatte presentano in modo radicale domande non
più eludibili:
«In quale misura i popoli riuniti in uno Stato possono vivere soltanto
della garanzia della libertà del singolo, senza un vincolo preesistente a
questa libertà?» 23.
E ancora:
«l’incondizionata libertà di coscienza non comporta come necessaria
conseguenza che la validità dell’ordinamento generale del diritto venga
rimessa al privato giudizio di coscienza del cittadino e con ciò risulti praticamente soppressa?» 24.
22
Cfr. R. SACCO, Antropologia giuridica, cit., pp. 221-222.
23
E.W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione, cit., p. 52.
24
Cfr. E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato, costituzione, democrazia, cit., p. 293.
203
La questione costituisce il punto principale della moderna teoria
dello Stato: l’individuo rinuncia, in ciò che è necessario per la pace e
la sicurezza comune, al proprio giudizio privato e si sottopone alle
disposizioni del sovrano; egli ottiene, così, la sicurezza, la libertà per
legge e la possibilità di sviluppare lo status civilis al posto dell’insicuro status naturalis 25.
Le considerazioni fatte presuppongono – va da sé – la teoria secondo cui l’entrata in società costituisce una rinuncia liberamente
accettata ai fini del perseguimento di un vantaggio individuale, con il
corollario, però, che il limite sociale alla libertà individuale possa
comportare il rischio della negazione della coscienza.
Parte della dottrina ha visto, nell’acutizzarsi del paradosso richiamato, il passaggio epocale dalla concezione classica e cristiana di
obiezione a quella moderna, di segno relativistico e soggettivistico 26.
Ma la contrapposizione paradossale insita nell’obiezione di coscienza, ad un tempo essenziale strumento delle società democratiche
ed elemento potenzialmente disgregante della società, deriva però –
se bene si noti – dal mutamento del concetto stesso di coscienza.
Diventa a questo punto necessario approfondire teoricamente e
nella prassi tale concetto.
1. Conscientia e coscienza
1.1. Premesse storico-semantiche del termine conscientia
Il termine coscienza non appartiene certo all’ambito delle parole
il cui significato è chiaro per precisione e univocità semantica. Anzi,
difficilmente si può trovare una parola più equivoca e insieme maggiormente evocativa.
Nelle pagine precedenti abbiamo dedotto il concetto di conscientia dal contesto della lettera di Ivo, ravvisando nella fattispecie là
considerata gli elementi costitutivi della nozione di obiezione, ove la
coscienza emerge come:
25
Cfr. T. HOBBES, Elementa philosophica de cive, cap. 5, 7; J. LOCKE, Two treatises on government, parte II, cap. 9, n. 128-129; J.J. ROUSSEAU, Contrat social, libro I,
cap. 6, citati da E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato, costituzione, democrazia, cit., p. 294.
26
204
Cfr. M. JASONNI, La lealtà indivisa, cit., p. 5.
«quel complesso di fenomeni psicologici e morali, molto diversi e insieme in continua correlazione, quali si manifestano non solo nella successione, nella mobilità, nella complessità dei nostri atti, ma anche nella loro sorgente viva, anche di là da quello che è visibile, misurabile, analizzabile; al livello di ciò che chiamiamo oggi il subcosciente, che feconda
come un fiume sotterraneo tanto la più piccola delle nostre azioni come
i nostri più grandi progetti» 27.
Quale è, dunque, il concetto classico di coscienza studiato muovendo da alcune ricorrenze del termine nell’Epistolario di Ivo, e quali le implicazioni che ne derivano?
Risalendo in primo luogo all’etimologia latina del termine, le parole conscius, conscientia 28, richiamano l’idea di aver parte insieme
con altri alla conoscenza di una determinata cosa.
L’etimo della parola, composta da cum-scientia, evidenzia dunque la fondamentale ed originaria dimensione interpersonale della
coscienza, oggi riscoperta nella più aggiornata prospettiva scientifica 29.
In relazione alla persona il termine rinvia in primo luogo alla conoscenza di sé, all’intima consapevolezza. Così, scrivendo a papa Pasquale, Ivo dirà che la propria coscienza gli rende testimonianza del
fatto di essere figlio uterino della Chiesa romana 30, ove l’espressione
rimanda ad un fatto del passato che lo ha riguardato: la sua ordinazione avvenuta attraverso l’imposizione delle mani di papa Urbano a
Roma 31.
Tale significato emerge anche in una lettera inviata da Ivo a Filip-
27
D.M. CHENU, Il risveglio della coscienza nella civiltà medievale, cit., p. 21.
28
Cfr. A. ERNOUT-A. MEILLET, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit.,
s.v. scio.
29
È questa la linea guida volta alla riscoperta della dimensione scientifica della
mente con la quale John R. Searle conclude il suo libro, La riscoperta della mente
(orig. The Rediscovery of the Mind, Massachusetts 1992), Torino 1994, p. 265. Numerosi sono gli studi recenti che hanno esteso alla ricerca scientifica le indagini
dell’antropologia filosofica (di Buber e Levinas in particolare) sulla coscienza come
implicante sempre il confronto fra sé e l’altro; sul punto si confronti G. LIOTTI, La
dimensione interpersonale della coscienza, cit., pp. 31-33.
30
«Quoniam uterinum filium Romanae Ecclesiae testante conscientia mea me
esse cognosco» (Ep. LXXXIX).
31
Cfr. Ep. II e Ep. VIII.
205
po re dei Franchi, nella quale il vescovo di Chartres invoca la coscienza come testimone factorum meorum 32.
Questa è la coscienza in senso psicologico; essa:
«intuitivamente appare come un processo continuo, e che istituisce continuità. A partire da molteplici, diverse e reciprocamente indipendenti
informazioni sensoriali – visive, uditive, olfattive, tattili – la coscienza ci
offre una ‘scena’ unitaria del mondo. Nella coscienza, inoltre, le informazioni sul mondo esterno che i diversi organi di senso continuamente
raccolgono sono perennemente poste in relazione, o integrate, con la
percezione del nostro stesso corpo, con i nostri ricordi, con i sentimenti
che proviamo, con i pensieri che formuliamo, con le decisioni che prendiamo» 33.
Tale consapevolezza rinvia all’atto continuo del ricordare le percezioni e le rappresentazioni mentali che hanno appena avuto luogo,
nel quale si è permanentemente immersi 34.
Quando il termine conscientia esprime la conoscenza e l’intima
consapevolezza di sé, è spesso affiancato da un genitivo oggettivo:
conscientia virtutis et vitiorum, la conoscenza delle virtù e dei vizi.
Come facoltà di ricordare, conscientia indica la coscienza retrospettiva: la consapevolezza di sé è testimone oculare, comodo o scomodo 35.
32
«Cum testem factorum meorum circumspicio conscientiam meam, vehementer admiror, quia nihil in me reperio cur pia lenitas vestra atque regia mansuetudo in tantam adversum me conversa sit amaritudinem ut a vestra serenitate
nullum audiam nuntium bonum, nihil audiam nisi verbum asperum» (Ep. IX).
33
Cfr. G. LIOTTI, La dimensione interpersonale della coscienza, cit., p. 18.
34
«La proprietà di offrire continuità alla conoscenza che si accumula nel divenire temporale della vita umana pone la coscienza in stretta connessione con la memoria», (ibidem). Un possibile rimando alla memoria di sé e delle proprie azioni
sembra potersi ravvisare in Ep. CXXXIII, ove Ivo afferma: «Nec ista dico quod conscientiam meam aliquando tali scelere contaminatam intelligam».
35
Così si utilizza il concetto di testis che ricorda lo stoico epìtropos: conscientia
mille testes (QUINTILIANO, Institutiones oratoriae, 5,11,41). Tuttavia l’aspetto accusatore o addirittura giudiziario è nettamente confinato sullo sfondo rispetto a quello
di spettatore che applaude o che esprime la propria disapprovazione. Cicerone affermerà che bisogna lodare specialmente tutto ciò che avviene senza millanteria «et
sine populo teste», poiché «nullum theatrum conscientia maius est» (CICERONE, Tusculanae, 2,26,63.64). La coscienza sorveglia anche nei casi in cui il pubblico rima-
206
La considerazione della coscienza come testis praeteriti, ampiamente documentata nell’Epistolario di Ivo 36, già suggerisce l’accezione morale del termine 37.
Come già abbiamo notato in precedenza, fondamentale fu il ruolo normativo che assunse la Bibbia nella società medievale. Nella sua
traduzione latina compaiono trentacinque ricorrenze della parola
conscientia, di cui solo tre nell’Antico Testamento 38; delle 32 ricorrenze neotestamentarie, ben 19 sono in Paolo.
I termini ebraici yāda e lēb 39, nonché la parola greca συνεδησις,
confluiscono così, con la loro ricchezza semantica, nel termine latino medievale conscientia, e costituiscono le indispensabili premesse
storico-semantiche per comprenderne a pieno il significato.
Al pari delle parole latine conscientia e conscius il corrispettivo
gruppo lessicale greco σνοιδα rinvia in primo luogo ad una conoscenza condivisa.
La forma non riflessiva greca σνοιδα τινι significa condividere
con un’altra persona la conoscenza di una determinata cosa in base a
una testimonianza oculare 40.
ne escluso: «o te miserum, si contemnis hunc testem» (SENECA, ep. Mor. 5,43,4);
«sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorum nostrorumque observator et custos» (4,41,1). Numerose sono le lettere in cui Ivo attribuisce alla coscienza la funzione di testimone. Si confrontino per esempio le lettere: Ep. V; Ep. IX; Ep. LIX; Ep.
LXVII; Ep. CXIV; Ep. CL; CCXIX.
36
Si considerino per esempio le Epp. XLII; LIX; LXVII.
37
La coscienza infatti si mostra, oltre che come particolare «presenza» e conoscenza del fatto-azione, quale comprensione o memoria di sé; si parla allora di autocoscienza, o auto-consapevolezza, o di un «sapersi»; proprio per questo essa diventa il luogo di valutazione e reinterpretazione della propria vita. Nella scansione
temporale, il passato di se stesso è rivissuto, giudicato, sofferto ma anche ri-significato in un nuovo orientamento di vita, od orizzonte di senso e di valore (cfr. E.
TREVISI, Coscienza morale e obbedienza civile, cit., p. 91).
38
In Gn 43, 22 l’espressione non est in nostra conscientia traduce il verbo ebraico yāda reso dalla LXX con οκ οδαµεν. In Ecc 7,22 traduce invece l’ebraico lēb,
reso dalla LXX con καρδαν. In Sap. 17,10 rende invece il greco συνεδησις. In Sir
13,30 al testo originale buona è la ricchezza senza il peccato, la Vulgata aggiunge ‘in
coscienza’, così in Pr 12,18 il termine conscientia appare come una aggiunta rispetto al testo masoretico e a quello della LXX.
39
Cfr. F. STOLZ, lēb cuore, in E. JENNI-C. WESTERMANN, Dizionario teologico
dell’Antico Testamento, Torino 1978, I, pp. 743-748; F. ZORRELL, Lexicon Hebraicum
Veteri Testamenti, Roma 1989, s.v. lēb, pp. 386-388.
40
C. MAURER, σνοιδα συνε
δησις, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol.
207
8*.
L’attestazione più antica di συνε
δησις risale al V secolo a.C. A partire dal I sec. a.C. il sostantivo compare spesso sia nell’ambito giudeo-ellenistico e romano sia nella grecità pagana.
Per quanto riguarda il significato del termine:
«Ciò che deve essere chiaro è che la componente morale che conferisce l’impronta decisiva al moderno concetto di coscienza è emersa soltanto secondariamente nella storia della lingua greca» 41.
Quando la riflessione si estende alle proprie azioni, che vengono giudicate nel contesto della responsabilità umana, si arriva alla
coscienza in senso morale. Anche nell’accezione morale l’espressione continua comunque ad indicare sempre un processo razionale.
Tratto caratteristico della συνε
δησις, intesa tanto in senso filosofico quanto in senso morale, è il fatto che essa appare in certo senso
estranea alla divinità 42.
A partire dal I sec. a.C. il sostantivo, nel senso di coscienza, compare spesso sia in ambito giudeo-ellenistico e romano sia nella grecità pagana. Esso emerge soprattutto presso gli stoici 43.
«Nella coscienza si distinguono e si contrappongono tra loro, all’interno di una stessa persona, due diversi io, che conoscono e giudicano le
medesime azioni da due punti di vista diversi. Questi due ‘io’ sono determinati da due distinti ordini, immanenti o trascendenti. Fra questi due
ordini l’uno, in forza della sua verità, bontà, bellezza, ecc., è un ordine affermato e da affermare, il che comporta un dovere, un imperativo; l’altro
è una forza effettiva ma negata, che distrugge l’ordine positivo mediante
XIII, pp. 269-326, qui p. 271. Con la formula riflessiva σνοιδα µαυτ che ricorre
dal VII sec. fin entro l’era cristiana, conoscenza e compartecipazione alla conoscenza sono associate nella medesima persona. In questo modo vengono a distinguersi due diversi io in un unico soggetto. Questo processo di riflessione si attua in
un primo tempo senza una valutazione morale e sottolinea la presa di coscienza di
situazioni o fatti accaduti. Intorno al V secolo la formula viene connessa al fenomeno della coscienza che giudica moralmente.
41
Ibidem, pp. 285-286.
42
«Infine occorre fare una costatazione negativa. Né la coscienza intesa in senso filosofico né quella intesa in senso morale ha molto a che fare con la divinità»
(ibidem, p. 279).
43
208
Ibidem, p. 283.
menzogne, malvagità, disordine, ecc. Dalla diversità di questi due ordini
deriva la componente etica costituita dalla tensione all’interno della persona» 44.
Poiché la coscienza ha a che fare con la riflessione dell’uomo su se
stesso, quando la riflessione attiene all’essere, il problema della coscienza è anzitutto conoscitivo; quando invece si riferisce all’agire,
compare in primo piano la coscienza etico-morale:
«Le due linee, già collegate fra loro nella storia del gruppo lessicale
σνοιδα κτλ., sono di fatto in rapporto reciproco» 45.
La coscienza in senso morale ha in primo luogo a che fare non
con decisioni imminenti (conscientia antecedens), bensì con il giudizio e la condanna di azioni compiute (conscientia consequens).
Per quanto riguarda l’Antico Testamento ebraico, esso non ha foggiato alcun termine per indicare la conscientia.
La mancanza del concetto si spiega con il fatto che l’antropologia
biblica vede l’uomo nella sua totalità e lo pone come un tutt’uno di
fronte a Dio. Per il fedele israelita è importante non la spiegazione di
particolari fenomeni del suo essere uomo, bensì il suo comportamento di fronte a Dio ed è guidato nella retta condotta da Dio e dalla sua legge 46.
Ciò che, nella visione biblica, determina fondamentalmente l’uomo è il suo essere di fronte a Jahvè, il Dio della rivelazione.
Sebbene manchi nella lingua ebraica un termine corrispondente
al concetto di coscienza, le problematiche ad essa attinenti non sono
assenti dagli orizzonti culturali dell’Antico Testamento, che ben presto ha colto nell’interiorità dell’uomo un’istanza giudicante, la stessa
che con altre parole si definisce «l’autocoscienza che emette giudizi
etici» 47.
Le funzioni che solitamente si attribuivano alla coscienza so-
44
Ibidem, pp. 286-287.
45
Ibidem, pp. 287-288.
46
Cfr. R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale del Nuovo Testamento. II. I primi
predicatori cristiani, (orig. Die sittliche Botschaft des Neuen Testaments. II. Die urchristlichen Verkündiger, Freiburg 1988), Brescia 1990, p. 65.
47
F. SCHICK, LThK 2, IV, p. 860.
209
no, per l’israelita, ancorati nel lēb, ovvero il cuore, l’unica ed identica sede dei pensieri, dei sentimenti, dei giudizi e degli impulsi
morali 48.
Mentre i sensi si occupano di registrare i ‘dati sensibili’, nel lēb
hanno luogo i processi del ricordo immaginativo (conoscenza e memoria), del pensiero e della comprensione oltre che dell’attenzione.
Connesso con il lēb sta l’atto di percepire e conoscere (yāda). È il lēb
che prende l’iniziativa di stimolare la percezione sensoriale registrata attraverso la vista degli occhi e l’udito degli orecchi 49.
Con riferimento alle percezioni sensoriali, il lēb ne costituisce il
prolungamento e l’interiorizzazione 50, divenendo così sede delle capacità mnemoniche.
La memoria, secondo la letteratura sapienziale, nella forma del
‘consiglio sapienziale’ o della ‘regola di esperienza’, diviene il luogo in
cui viene recuperato il ricordo di un fatto allo scopo di scoprire il motivo per una determinata azione.
Nelle relazioni interpersonali dimenticare qualcuno, togliendolo
dal proprio cuore 51, non significa solo l’interruzione di un legame
mnemonico, ma soprattutto di un rapporto vitale.
Il passaggio dalla funzione noetica del lēb alle attività volitive appare consequenziale al fatto che è impossibile separare la teoria dalla prassi.
Tale consequenzialità fa emergere l’essenziale connessione, più
volte sottolineata e ora esplicitamente affermata dall’antropologia
ebraica, tra il momento cognitivo e quello volitivo propri dell’interiorità umana.
Il lēb si atteggia così a forza motrice degli sforzi volitivi dell’uomo,
luogo della riflessione e della pianificazione dell’attività.
L’azione volitiva del lēb abbraccia l’ambito del comportamento
umano, a partire dall’idea originaria alla sua valutazione e infine alla sua traduzione pratica, escluso l’atto concreto.
Il primo passo del processo volitivo è il «pensare dentro se stessi»;
48
Cfr. R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale del Nuovo Testamento. II, cit., p.
49
In Deut 29,3 il lēb è messo in relazione al verbo yāda.
50
Ez 40,4; 44,5; Prov 22,17; Mal 2,2; Eccl 7,2; Ecclus 16,24.
51
Cfr. Sal 31,13.
65.
210
un determinato pensiero si cristallizza in un’intenzione 52. Le intenzioni si trasformano in desideri quando l’uomo non può realizzarle 53.
Elemento distintivo e caratterizzante l’antropologia biblica, dunque anche qualsiasi riflessione sul lēb 54, è il fatto che l’uomo non è
mai oggetto di attenzione esclusiva; la sua piena considerazione non
avviene se non coram Deo 55.
La consapevolezza di sé è resa possibile dalla parola di Dio 56. La
negazione di Dio come presupposto della propria esistenza è contrassegno dello stolto, che in questo modo inganna se stesso 57. Di
conseguenza, la riflessione vetero-testamentaria dell’io su se stesso è
l’ascolto ubbidiente di Dio. In tal modo anche l’io che si trovi interiormente in stato di conflitto diventa una persona unitaria, che sta
di fronte a Dio che parla. La coscienza si trasforma in ascolto, nel
senso di un’appartenenza intenzionale. La voce di Dio e la propria
voce vengono a coincidere, non nel senso di un potere autonomo della ragione, bensì nel senso di un accordo fra il proprio io e la volontà
di Dio.
La rilevanza del lēb ebraico ai fini della ricostruzione del concetto latino di conscientia si basa sulla traduzione latina di Eccle 7,22,
ove l’ebraico lēb, è tradotto con conscientia.
Senza soluzione di continuità con la traduzione della Vulgata, in
più luoghi anche Ivo considererà come sinonimici i termini cor e
conscentia 58.
52
Cfr. 1Sam 14,7; 2 Sam 7,3; 1 Cr 29,10.
53
Cfr. Sal 20,5; 21,3; Gb 17,11; il salmista loda JHWH che esaudisce i desideri
del cuore nel Sal 37,4.
54
Questi i sensi della parola lēb, latino cor, ravvisati dal Zorrel nel Lexicon Hebraicum Veteri Testamenti, pp. 386-388: cor, I) sensu proprio: cor; cor vel pectoris
pars supra cor; cor ut sedes roboris vitalis; II) improprie: pars interna, penetralia; III)
frequentissime: hominis pars interior invisibilis, cor= mens, animus; 1) universim
mens, interiora ut. Opp. Corpori et visibilibus; 2) mens ut cognoscens, cogitans, memoria tenens; 3) mens intellegens, prudens, sapiens; 4) mens affectibus commota ac
varie disposita; 5) mens ut sedes voluntatis consiliorum, ecc.; 6) in specie: sedes vitae ethicae ac religiosae, mens erga Deum, leges, virtutes, varie disposita.
55
Cfr. Sal 8,5; 144,3; Gb 7,17.
56
Cfr. Sal 139.
57
Così Sal 10,6; 14,1; 53,2.
58
Raccogliamo due esempi tratti dall’Epistolario di Ivo ove l’interiorità è raffi-
211
1.2. La dimensione trascendente della coscienza
In entrambe le ricorrenze esaminate in precedenza, emerge con
vigore il rimando di Ivo della conscientia a Dio 59.
Sua fonte di ispirazione primaria è il concetto neotestamentario
di conscientia, in particolare quale emerge negli scritti paolini. Delle
31 ricorrenze neotestamentarie della parola συνεδησις, una sola
compare nei Vangeli, e più precisamente in una variante di Gv 8,9, in
cui si richiama la funzione giudicatrice della coscienza 60.
Due sono le ricorrenze negli Atti degli Apostoli, riferite entrambe
a Paolo. In At 23,1 Paolo usa una parola greca per esprimere la consapevolezza della rettitudine del suo agire:συνεδησις. L’incontro tra
il mondo ebraico, romano e greco trova in questo brano un testimone fecondo. Il concetto greco di coscienza viene affiancato a Dio, che
diventa il suo fondamentale referente 61.
gurata dal termine cor: «Putabam concupiscentiae carnalis ardorem flumine lacrymarum tuarum medullitus in te refrigeratum; et si quid ille ignis urens aliquando
reliquerat in conscientia tua cauteriatum, putabam frequenti sacrae Scripturae
meditatione, tanquam temperativi malagmatis superpositione malaxatum, et coelitus infusa sancti Spiritus [0042A] unctione curatum» (Ep. XXIX); «Hoc itaque interim suadeo vobis, ut juventutem vestram honestis exercitiis occupetis, lectione,
oratione, sacrae legis meditatione, ut si aliquando aliqua foeda imaginatio per sensuum fenestras templum cordis irrumpens ibi appingi tentaverit, vel prorsus ab
ipso introitu repellatur, vel si forte aliqua incuria vel importunitate ostium cordis
irrepserit, casta intus vigente dignitate cum dedecore excludatur. Sic enim testimonio bonae conscientiae poteritis in justitia Dei exsultare, et internae suavitatis
gustum proximis fiducialiter eructare» (Ep. XLII).
59
Esponendo al re il percorso argomentativo che lo ha portato a disattendere il
suo invito, Ivo aveva affermato: «a motivo della mia coscienza, che io debbo preservare davanti a Dio, e della buona fama che un sacerdote di Cristo deve rendere
nei confronti di quelli che stanno fuori» (Ep. XV). Ancora, nella lettera scritta alla
contessa Adele, aveva chiamato a testimone Colui che solo può scrutare l’abisso
dell’umana coscienza: «Su questo argomento, chiedo con tutte le forze che la sublimità vostra non si sdegni contro di me, poiché mi è testimone colui al quale è nudo l’abisso dell’umana coscienza, che mi ha spinto a questo non l’astio mio o di altri, ma solo il rigore e l’amore della giustizia, tanto che, se non posso fare altrimenti, preferisco incorrere nell’astio degli uomini, piuttosto che delinquere contro
la legge del mio Dio» (Ep. V).
Così la variante citata in greco: «π τς συνειδσεως λεγχµενοι»: «ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, riprovati dalla loro coscienza».
60
61
Di nuovo il termine in esame ricorre nel discorso di difesa tenuto da Paolo nel
processo innanzi al procuratore Felice. Dopo aver smontato le tre fondamentali ac-
212
Delle altre ricorrenze neotestamentarie, ben 14 compaiono in
Paolo. Ciò porta a supporre che il vocabolo sia entrato nell’uso della
Chiesa cristiana tramite l’Apostolo.
L’assunzione di un concetto proveniente dall’ambiente ellenistico
è illuminante giacché l’apostolo oltrepassa in tal modo il linguaggio
biblico e fa vedere che la fede cristiana deve adattarsi al dialogo con
gli altri uomini 62.
In questa direzione sembra possa leggersi il primo richiamo di
Paolo alla coscienza contenuto nella Lettera ai Romani:
«Quando i pagani, che non hanno legge, per natura agiscono secondo
la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi: essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti che ora li
accusano ora li difendono. Così avverrà nel giorno del giudizio in cui Dio
giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di
Gesù Cristo» 63.
Dopo aver affermato che i pagani, con la loro condotta mostrano
come le prescrizioni della legge mosaica siano iscritte nel più profondo di essi, come principi direttivi della loro azione, Paolo rimanda alla testimonianza della coscienza 64 a sostegno della tesi di una legge
interiore. Questo è l’unico caso in cui il concetto di coscienza viene
chiaramente applicato alla moralità dei pagani 65, ed è come dire che
la coscienza costituisce un denominatore comune tra tutti gli uomini, a prescindere dalle loro identità religiose. La coscienza rappre-
cuse rivoltegli, ed esposto la sua fede, Paolo afferma: «Per questo mi sforzo di conservare in ogni momento una coscienza irreprensibile davanti a Dio e davanti agli
uomini» (At 24, 16).
62
Cfr. R. SCHNACKENBURG, Il messaggio morale del Nuovo Testamento. II, cit., p.
63
Rm 2,14-15.
64.
64
Tema caro a Paolo, quello della testimonianza della coscienza, ricorrente tra
l’altro anche in 2 Cor 1,12, e in 1 Tim 3,7, 5,10.
65
In senso implicito anche in Rm 13,5: «Perciò è necessario stare sottomessi,
non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza»; e in 2 Cor
4,2: «Al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con
astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci
presentiamo davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio».
213
senta la possibilità di verificare non solo l’attuabilità della Legge ma
anche, e soprattutto, la corrispondenza del comportamento umano
con i dettami della Legge stessa 66.
La coscienza in questo brano è la voce che attesta all’uomo ciò che
è scritto nel cuore e richiesto dalla legge.
«La coscienza legge, per così dire, ciò che è scritto nel cuore e l’annunzia all’uomo; e ciò avviene – il κα è esplicativo – in guisa che, nella riflessione della coscienza, si esprimono l’accusa e la difesa» 67.
Con la coscienza e tramite essa l’esigenza della legge scritta nei
cuori si esprime nei λογισµο, nei pensieri, nelle considerazioni, nelle
riflessioni che accusano o difendono adducendo ragioni a favore
dell’accusato 68. È questa una sorta di continuo processo giudiziario
che avviene nell’interiorità dell’uomo, attraverso una ponderata di-
66
R. PENNA, Lettera ai Romani. I Rm 1-5. Introduzione, versione, commento, Bologna 2004, pp. 240-241.
67
H. SCHLIER, La lettera ai Romani, Brescia 1982 (orig. Der Römerbrief, Freiburg
19792 ), p. 148.
68
L’esegesi è incerta sull’esatto rapporto corrente tra la «testimonianza della coscienza» e i «ragionamenti» descritti attraverso pensieri che accusano e giustificano. Se la riflessione è una spiegazione della testimonianza di coscienza, allora questa si verifica attraverso il dibattito interiore del pagano. Ciò implica che questa testimonianza si rivolga non a terzi, ma alla medesima persona che sta riflettendo. Se
invece la riflessione non ne è una spiegazione, ma un’aggiunta rispetto ad essa, essa si aggiunge alla testimonianza della coscienza apportandovi un complemento.
Secondo il Légasse la prima opinione, grammaticalmente corretta, ha a proprio favore il fatto che la seconda frase esprime un’idea che si colloca nel medesimo registro interiore e psicologico della testimonianza della coscienza e, per questo, forma
con quest’ultima un gruppo compatto che decide sulla manifestazione esteriore
delle prescrizioni legali inscritte nel cuore dei gentili. Qui si avrebbe allora l’esplicitazione del modo in cui avviene la testimonianza della coscienza per dimostrare
che queste prescrizioni sono proprio ciò che determina l’agire morale dei pagani.
Essi possono orientarsi prendendo atto di quanto accade dentro di loro, di quello
scambio contraddittorio del pro e del contro circa il comportamento da tenere (S.
LÉGASSE, Excursus, la ‘coscienza’ (synéidēsis) in Paolo, in L’epistola di Paolo ai Romani, Brescia 2004, pp. 137-145, qui pp. 139-140). Propende invece per la seconda
soluzione Romano Penna, che conclude: «Rispetto alla coscienza i pensieri/ragionamenti/riflessioni vanno oltre la sfera meramente morale per investire l’ambito
più propriamente intellettuale dell’uomo» (R. PENNA, Lettera ai Romani, cit., p.
242).
214
scussione di questi pensieri, che in dialogo soppesano la voce della
sua coscienza.
Nelle riflessioni morali sull’agire dell’uomo si esprime la coscienza, la quale, per così dire, volge lo sguardo alla parola di Dio incisa
nel buio del cuore, la coglie e se ne fa portavoce 69.
L’ultimo passaggio del brano mette in relazione quanto detto sulla coscienza con il giudizio di Dio, che si differenzia da quello degli
uomini per il fatto che la sua valutazione va oltre ciò che si osserva,
ed è capace di apprezzare gli atti nel loro giusto valore.
Il concetto di coscienza nel brano citato rimanda altresì alla testimonianza di una legge che seppure non posseduta e, dunque, non
prescritta, si scopre inscritta nel proprio cuore, coessenziale al proprio essere, in base alla quale si agisce secondo natura; rimanda inoltre ad un processo dialettico tanto interno e psicologico quanto esterno e dialogico del soggetto stesso; a Dio e al suo giudizio.
In un altro brano della Lettera ai Romani, Paolo esterna i propri
più profondi sentimenti:
«Dico la verità in Cristo, non mento, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua» 70.
L’esternazione inizia con una dichiarazione solenne volta a garantire la sincerità di quanto sta per affermare. Quello che si accinge a
dire Paolo è la verità 71 nel senso di accordo con la realtà.
Questa sincerità è confermata allegando la testimonianza della
coscienza dell’Apostolo, coscienza che con molta forza comprova la
dichiarazione già sostenuta. La frase al genitivo assoluto con il verbo
symmarturêin figura, rispetto al rimando oggettivo della realtà, come
una aggiunta soggettiva, arricchita però da un apporto propriamente divino: questa coscienza non è abbandonata alle sole sue forze,
perché la sua testimonianza avviene nello Spirito Santo in quanto
69
Così H. SCHLIER, op. cit., p. 149, che prosegue: «e così anche il pagano, il quale, in virtù del suo essere creatura umana, percepisce la richiesta dei λογισµο perché la coscienza glielo attesta, si trova in uno stato di accusa e insieme di difesa, ossia appunto in una sorta di incessante processo giudiziario».
70
Rm 9,1.
71
Qui come in 1 Cor 2,12 e 1 Tim 2,7.
215
rinnovatore delle facoltà più intime della persona umana, il che garantisce la loro credibilità 72.
Il legame tra verità intesa come realtà oggettiva e la coscienza,
emerge anche nell’Epistolario, attraverso la connessione ravvisata
processualmente da Ivo tra veritas e testimonium conscientiae 73.
Il legame tra i due concetti è ribadito dall’endiadi conscientia e veritas 74.
La seconda ricorrenza rimanda però ad una verità che non si riduce alla realtà oggettiva visibile, ma coinvolge Dio. Già nel passo di
Paolo era emerso il rimando trascendente. Tale rimando appare approfondito da Agostino 75. A lui si deve l’approfondimento sulla relazione tra verità ed interiorità 76.
72
Cfr. S. LÉGASSE, L’Epistola di Paolo ai Romani, cit., pp. 445-446.
73
«Sed sola veritas secundum testimonium conscientiae suae prolata et probata defendat» (Ep. CCLVIII).
74
«Vera esse quae dico testis est mea veritas et conscientia mea», in Ep. CL;
«Hoc prorsus dico teste veritate, quae Deus est, et conscientia mea» (Ep. CXCV);
«Ubi eum temeraria multitudo non terreat, nulla principum violentia cogat, sed sola veritas secundum testimonium conscientiae suae prolata et probata defendat»
(Ep. CCLVIII).
75
L’influenza di Agostino sul pensiero di Ivo appare dal richiamo esplicito al
passo delle confessioni in cui Agostino afferma: «Et tibi quidem, Domine, cuius
oculis nuda est abyssus humanae conscientiae, quid occultum esset in me, etiamsi
nollem confiteri tibi?» (AGOSTINO, Confessiones, L, X, 2.2).
76
Per Agostino la verità è presente alla mente, e la mente non può ignorarla.
L’enunciazione più concisa e penetrante si trova nel De vera religione, ove Agostino
afferma «In interiore homine habitat veritate» (De vera religione, 39,72).
Nelle Confessioni racconta quando, leggendo i platonici, scoprì il principio dell’interiorità: «Ammonito da quegli scritti a tornare in me stesso, entrai nel mio intimo … Vi entrai e scorsi con l’occhio della mia anima, per quanto torbido fosse, sopra l’occhio medesimo della mia anima, sopra la mia intelligenza, una luce immutabile. Non questa luce comune, visibile a ogni carne, né della stessa specie ma di
potenza superiore, quale sarebbe la luce comune se splendesse molto, molto più
splendida e penetrasse con la sua grandezza l’universo. Non così era quella, ma cosa diversa, molto diversa da tutte le luci di questa terra. Neppure sovrastava la mia
intelligenza al modo che l’olio sovrasta l’acqua, e il cielo la terra, bensì era più in alto di me, poiché fu lei a crearmi, e io più in basso, poiché fui da lei creato. Chi conosce la verità, la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità. La carità la conosce.
O eterna verità e vera carità e cara eternità, tu sei il mio Dio (Sal 42,2), a te sospiro
giorno e notte (Sal 1,2; Ger 9,1). Quando ti conobbi la prima volta, mi sollevasti verso di te (Sal 26,10) per farmi vedere come vi fosse qualcosa da vedere, mentre io
216
1.3. La dimensione interpersonale della coscienza etica
La connessione costitutiva della conscientia con la veritas e senza
soluzione di continuità con Dio, non costituisce però il tratto esclusivo della coscienza cristiana.
È ancora dalla lettera XV che ricaviamo un ulteriore dato fondamentale della concezione della coscienza di Ivo di Chartres. Ciò che
lo preoccupa non è soltanto la trasgressione della justitia, ma anche
di essere di scandalo «alle menti dei deboli» 77.
Già nella Lettera ai Romani Paolo aveva raccomandato ai forti di
sostenere i «deboli» 78. Nella prima Lettera ai Corinzi svilupperà questo pensiero riferendolo alla coscienza. Al richiamo implicito contenuto nella lettera citata, farà seguito una citazione esplicita nella lettera di Ivo scritta in risposta al monaco Laurenzio che gli chiedeva se
era possibile ricevere donazioni dagli scomunicati; accanto al consiglio di evitare tale donazioni non perchè cosa in sè impura, ma per
non indebolire la coscienza dei deboli, Ivo affianca l’exemplum paolino riportato nel capitolo ottavo della prima Lettera ai Corinzi 79.
non potevo ancora vedere (Ger 31,15); respingesti il mio sguardo malfermo col tuo
raggio folgorante, e io tutto tremai d’amore e di terrore. Mi scoprii lontano da te in
una regione dissimile, ove mi pareva di udire la tua voce dall’alto: «io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me». Riconobbi che hai
ammaestrato l’uomo per la sua cattiveria e imputridito come ragnatela l’anima
mia. Chiesi: «La verità è dunque un nulla, poiché non si estende nello spazio sia finito che infinito?»; e tu mi gridasti da lontano (cfr. Lc 15,13.20): «Anzi, io sono colui che sono». Queste parole udii con l’udito del cuore. Ora non avevo più motivo di
dubitare. Mi sarebbe stato più facile dubitare della mia esistenza, che della esistenza della verità, la quale si scorge comprendendola attraverso il creato» (Confessiones, 7,10,16).
77
«… malo cum mola asinaria in profundum mergi, quam per me mentibus infirmorum tanquam caeco offendiculum poni» (Ep. XV).
78
«Debemus autem nos firmiores inbecillitates infirmorum sustinere et non nobis placere» (Rm 15,1).
79
«Donationes vero et concessiones excommunicatorum, quibus nec dicendum est ave (II Joan. I), propter infirmos vitandas esse consulimus, quia, licet
Apostolus dicat: Omnia munda mundis (Tit. I): consequenter tamen addit, sed malum est homini qui per offendiculum manducat (Rom. I, 4). Unde etiam in Epistola ad Corinthios: Si quis, ait, vocat vos infidelium, et vultis ire, omne quod vobis apponitur manducate, nihil interrogantes propter conscientiam. Sive ergo
manducatis, sive bibitis, omnia in gloria Dei facite. Sine offensione estote Judaeis
217
Lo spunto è dato dalla questione degli idolotiti, sollevata probabilmente da una lettera che i Corinzi avevano inviato in precedenza
a Paolo 80, e riguardante le carni che erano state sacrificate agli idoli 81.
Ora a Corinto c’era chi, forte della certezza offerta dalla nuova fede che esiste un solo Dio, era perfettamente convinto della inconsistenza degli dei pagani; perciò si sentiva interiormente ed esteriormente libero di mangiare le carni sacrificate agli idoli:
et gentibus et Ecclesiae Dei, sicut ego per omnia omnibus placeo, non quaerens
quod mihi utile est, sed quod multis, ut salvi fiant (I Cor. X). Haec est apostolica
et sana doctrina. Quare talium donationes vel concessiones vitandae sunt, non
quod Dei creatura ex eis munda immunda fiat, quia Domini est terra et plenitudo
ejus (Psal. XXIII), sed ne simplicium ex hoc infirmetur conscientia, cum talibus
conjecturis existimant bonis eorum malefacta facere, vel quae prius abhorrebant
mala non esse» (Ep. CLXXXVI); anche nell’Ep. CXCII si riferisce alla «conscientia
infirmorum»; nell’Ep. CCXLIX, rinvierà all’esame di essa per emettere una decisione: «Si tamen in aliis honesti sunt, et ex eorum accusatione fama crebrescit et
foedus rumor infirmorum conscientias percutit cogenda est mulier ut ad arbitrium praesidentium de objecto crimine probatarum personarum testimonio se
expurget».
80
L’esistenza della lettera in questione, a noi non pervenuta, è documentata da
1Cor 7,1, ove Paolo afferma: «riguardo a ciò che mi avete scritto».
81
«Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto. Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate
agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio,
se non uno solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e signori –, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Ma non tutti hanno la conoscenza;
alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate
agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. Non sarà certo
un alimento ad avvicinarvi a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di
qualcosa, se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. Badate però che questa
vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te,
che hai conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo
debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? Ed ecco, per
la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto!
Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più
carne, per non dare scandalo al mio fratello» (1 Cor 8, 1-13).
218
«noi diremo che era presente in loro una coscienza illuminata e lucidamente chiara, fonte di un agire libero e responsabile del soggetto» 82.
Paolo riconosce, in linea di principio, la libertà di agire conseguente alla conoscenza del soggetto che crede nell’esistenza dell’unico Dio e nega l’esistenza degli dei 83.
Come però osservava Lanfranco da Pavia, maestro di Ivo, nel
Commento alle Lettere di San Paolo:
«la sola scienza non basta per osservare ciò che è retto; ma piuttosto gonfia, se manca la carità che edifica» 84.
Se la legittimità del gesto attiene alla sfera individuale, quando il
‘forte’ si trova ad esercitare la propria libertà di azione in un contesto
sociale, entrano in gioco altri fattori di valutazione. Oltre alla conoscenza-coscienza individuale, la decisione, per essere retta, deve tenere conto della dimensione intersoggettiva della coscienza. La critica sollevata da Paolo ai forti sottende una diversa concezione di uomo:
«Per costoro, affetti da intellettualismo, la persona si definisce in
quanto soggetto dalla mente illuminata che coglie la realtà di Dio e del
mondo; mentre per l’apostolo è l’amore, inteso quale forza socializzante
e costruttiva nei rapporti interpersonali e comunitari, che qualifica l’uomo autentico» 85.
Quella che dai forti era considerata come presenza insignificante
o comunque non condizionante la scelta, è invece per Paolo un ‘fra-
82
G. BARBAGLIO, Coscienza, libertà, agape, in Servitium, (43) 1986, pp. 16-24, qui
p. 18.
83
«In altre parole, Paolo riconosce il valore normativo della coscienza illuminata dei forti, che li autorizza a comportarsi in modo consequenziale con la propria
fede monoteistica. In breve, il soggetto trae dalla propria conoscenza-coscienza la
norma per poter agire moralmente bene» (ibidem, p. 20).
84
«De his autem, id est, omnes scimus quid debeat fieri de immolatitiis idolorum; sed sola scientia non sufficit ad observandum quod rectum est; sed potius inflat, si desit charitas, quae aedificat», LANFRANCUS CANTUARIENSIS, Commentarius in
omnes Epistolas Pauli, PL 150, col. 181.
85
G. BARBAGLIO, Coscienza, libertà, agape, cit., p. 21.
219
tello’. L’affermazione di tale relazione forte come il legame di sangue
diventa un ‘dato’ fondamentale ai fini dell’esatta valutazione di un
comportamento retto. La libertà di agire dei forti non può non fare i
conti con il fratello debole. E così Paolo chiede ai forti, in nome della doverosa attenzione all’altro, la rinuncia a tradurre in atto la loro
libertà interiore. La critica di Paolo allora non è diretta contro la libertà di azione, quanto contro la concezione individualistica e solipsistica della libertà di agire conformemente alla conoscenza-coscienza.
Contrapponendosi ad un’autorealizzazione del proprio io visto
come microcosmo autosufficiente, Paolo vede la realizzazione della
persona all’interno dei suoi rapporti e delle sue relazioni costitutive,
in un processo di maturazione ad un tempo personale e comunitario. La carità, principio assoluto dell’agire cristiano, libera da una libertà individualistica e apre a una libertà costruttiva in senso comunitario:
«a una libertà per sé, anche contro l’altro, Paolo intende sostituire un essere libero per l’altro e per la sua crescita, appunto nell’amore. Così Gesù
Cristo è stato libero, dando se stesso» 86.
Tornando sulla questione degli idolotiti al capitolo X della stessa
Lettera dirà:
«Tutto è lecito! Sì, ma non tutto giova. Tutto è lecito! Sì, ma non tutto edifica. Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri. Tutto ciò che è in vendita sul mercato mangiatelo pure, senza indagare per
motivo di coscienza, perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene. Se un non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello
che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza.
Ma se qualcuno vi dicesse: ‘è carne immolata in sacrificio’, non mangia-
86
Ibidem, p. 23. L’Autore arriva alla conclusione (p. 24) che: «attraverso i motivi della coscienza e della libertà di azione Paolo riconosce i diritti della soggettività
umana: l’uomo trae dal suo mondo interiore la norma di agire. Ma, a suo avviso, la
soggettività della persona non deve essere intesa in senso individualistico e solipsistico. È la soggettività di chi è chiamato a realizzarsi come unità di un tutto comunitario, insieme con i fratelli, come membro di un organismo, in cui la crescita personale va di pari passo con la crescita degli altri, a cui presiede come forza costruttiva l’agape».
220
tela, per riguardo a colui che vi ha avvertito e per motivo di coscienza;
della coscienza, dico, non tua, ma dell’altro. Per quale motivo, infatti,
questa mia libertà dovrebbe essere sottoposta al giudizio della coscienza
altrui? Se io partecipo alla mensa rendendo grazie, perché dovrei essere
rimproverato per ciò di cui rendo grazie? Dunque, sia che mangiate sia
che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di
Dio. Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare
il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza» 87.
Nell’esporre i principi fondamentali della coscienza cristiana,
Paolo afferma che ogni azione ha una ripercussione sociale, della
quale si deve tenere conto. Edificare la comunità significa giovare
agli altri senza ricercare il proprio interesse: «nemo quod suum est
quaerat sed quod alterius» 88; sull’esempio di Paolo «non quaerens
quod mihi utile est sed quod multis ut salvi fiant» 89. La finalità suprema dell’agire del cristiano emerge, solenne, alla fine: «affinché
giungano alla salvezza», il cui perseguimento diventerà, nella riflessione teologico-canonistica di Ivo, legge suprema della carità, fine ultimo di ogni istituzione canonica.
1.4. La coscienza nella accezione classica
Seguendo l’accezione classica di coscienza, due sono i livelli che si
devono distinguere accuratamente, ma anche raccordare sempre, in
quanto la coscienza ne è la reciproca correlazione: il momento conoscitivo («ho coscienza di … sono cosciente di …») 90 e il momento
morale («la coscienza mi impone di …»).
Il risvolto cognitivo della coscienza emerge dall’etimologia latina
della parola conscientia che rimanda a con-scientia, e designa il possesso di, e/o il procedere con scienza; questa intesa:
87
1 Cor 10,23-33.
88
1 Cor 10,24.
89
1 Cor 10,33.
90
Come affermava Bernhard Häring: «La coscienza è la facoltà morale della
persona, il centro e il santuario intimo dove uno conosce se stesso nel confronto
con Dio e il prossimo. Possiamo confrontarci riflessivamente con noi stessi soltanto nella misura in cui incontriamo davvero l’Altro e gli altri», in Liberi e fedeli in Cristo. I, Roma 1980, p. 268.
221
«nel significato largo del greco episteme, trasmesso al latino scientia: il
sapere certo, veritiero, distinto dall’opinione (doxa)» 91.
Il momento conoscitivo così inteso presiede, fonda quello morale,
ossia la decisione morale presuppone la scienza del vero 92.
Estranea alla concezione classica di coscienza è la sua riduzione
ad autocoscienza dell’io, a certezza soggettiva su di sé e sul proprio
comportamento morale. Essa, secondo la prospettiva cattolica 93, significa piuttosto la presenza percepibile e imperiosa della voce della
verità all’interno del soggetto stesso; così intesa la coscienza rimanda
semmai al superamento della mera soggettività nell’incontro tra l’interiorità dell’uomo e la verità che proviene da Dio 94.
91
Così S. COTTA, Coscienza ed obiezione di coscienza (di fronte all’antropologia filosofica), cit., p. 157, che continua la disamina filologica considerando il termine
tedesco Gewissen: «Ebbene il Ge-wissen morale non ha significato diverso: il verbo
wissen indica il sapere, così come Wissenschaft significa scienza, mentre il prefisso
Ge- indica un mettere insieme (come ha rilevato Heidegger), come nelle parole notissime Ge-sellschaft (società) e e Ge-meinschaft (comunità). Nel nostro caso Gewissen significa in primo luogo un sapere comune e comunicabile».
92
Ibidem.
93
Sul punto sempre valide le considerazioni di S. MAJORANO, La coscienza. Per
una lettura cristiana, Cinisello Balsamo 1994.
94
Cfr. J. RATZINGER, Coscienza e verità, cit., p. 27. Tale rimando richiama la descrizione della coscienza operata in una celebre pagina della Costituzione pastorale sulla Chiesa e il mondo contemporaneo Gaudium et spes 16: «Nell’intimo della
coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a sfuggire il
male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita
ques’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro il cuore: obbedire è
la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa sarà giudicato (cfr. Rm 2,14-16). La
coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo dove egli è solo con Dio, la
cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo (cfr.
Mt 22,37-40; Gal 5,14). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri
uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l’uomo
poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca
in seguito all’abitudine del peccato».
222
Le riflessioni della teologia scolastica e della teologia morale
posteriore sono state influenzate dalla distinzione tra la conscientia, ovvero il giudizio o l’atto per mezzo del quale l’uomo raggiunge la conclusione che questo o quello è bene o male, e la synteresis
o synderesis 95, consistente nella capacità da parte dell’uomo di
apertura sulla veritas 96, ovvero l’attitudine che spinge l’uomo a
cercare la verità e a tradurla in pratica, a fare il bene ed evitare il
male 97.
95
Questo vocabolo fu introdotto nella riflessione teologica probabilmente attraverso il commento di san Gerolamo su Ezechiele, come corruzione della parola
syneidesis. Così Tommaso la definisce: «synteresis dicitur lex intellectus nostri, inquantum est habitus continens praecepta legis naturalis, quae sunt prima operum
humanorum» (Summa Theologiae, I. II, q. 94. 1 ad 2); e in altri luoghi: «in ipsa (sc.
anima) est quidam habitus naturalis primorum principiorum operabilium, quae
sunt naturalia principia iuris naturalis, qui quidem habitus ad synteresim pertinet»; «synteresis dicitur instigare ad bonum et murmurare de malo, inquantum per
prima principia procedimus ad inveniendum et iudicamus inventa». Per l’interpretazione di San Tommaso con riferimento al suo ambiente culturale e teologico, si
confronti O. LOTTIN, Psychologie et morale au XIIe et XIIIe siècles, II, Louvain-Gemblaux 1948, pp. 103-350.
96
Secondo P. Delhaye essa rappresenta la disposizione interna dell’uomo, a lui
innata, che rende il soggetto umano capace di giudicare moralmente, o meglio che
imprime in lui i principi morali (P. DELHAYE, La coscienza morale del cristiano, Roma 1968, p. 86). Già Agostino aveva osservato che nei nostri giudizi non ci sarebbe possibile dire che una cosa è meglio di un’altra, se non fosse impressa in noi
una conoscenza fondamentale del bene: «Neque enim in his omnibus bonis, vel
quae commemoravi, vel quae alia cernuntur sive cogitantur, diceremus aliud alio
melius cum vere judicamus, nisi esset nobis impressa notio ipsius boni, secundum
quod et probaremus aliquid, et aliud alii praeponeremus» (AGOSTINO, De Trinitate,
VIII, 3, 4). Scriverà San Tommaso che «il raziocinio umano, essendo una specie di
moto, parte dalla conoscenza di alcune verità, che sono note per natura senza il lavoro investigativo della ragione, come da un principio immobile; così pure ha il
suo termine in qualcosa di intuitivo, per il fatto che giudichiamo delle cose conosciute attraverso il raziocinio, alla luce dei principi di ordine speculativo, ma anche di quelli di ordine pratico … Ora, i primi principi della vita speculativa, insiti
in noi per natura, non sono solo i principi di ordine speculativo, ma anche quelli
di ordine pratico … perciò si dice che la sinderesi spinge al bene e mormora del
male, perché mediante i primi principi noi procediamo nell’indagine [del bene da
compiere] e giudichiamo dei risultati» (Summa Theologiae, I, q. 79, a. 12, citato da
S. MAJORANO, La coscienza, per una lettura cristiana, Cinisello Balsamo 1994, pp.
53-54).
97
Cfr. B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo. I, cit., p. 275.
223
A questo termine, elaborato dalla tradizione medievale, Ratzinger
preferisce sostituire anamnesi, parola più consona al pensiero biblico e alla sua antropologia:
«Il primo livello ontologico del fenomeno della coscienza consiste nel
fatto che è stato infuso in noi qualcosa di simile ad una originaria memoria del bene e del vero (le due realtà coincidono) … fin dalla sua radice l’essere dell’uomo avverte un’armonia con alcune cose e si trova in
contraddizione con altre. Questa anamnesi dell’origine, che deriva dal
fatto che il nostro essere è costituito a somiglianza di Dio, non è un sapere articolato concettualmente, uno scrigno di contenuti che aspetterebbero solo di venir richiamati fuori. Essa è, per così dire, un senso interiore, una capacità di riconoscimento, così che colui che ne è interpellato, se non è interiormente ripiegato su se stesso, è capace di riconoscerne in sé l’eco» 98.
In questo senso Paolo può dire che i pagani sono legge a se stessi:
«non nel senso dell’idea moderna e liberistica di autonomia, che preclude ogni trascendenza del soggetto, ma nel senso molto più profondo che
nulla mi appartiene così poco quanto il mio stesso io, che il mio io personale è il luogo del più profondo superamento di me stesso e del contatto con ciò da cui provengo e verso cui sono diretto» 99.
L’anamnesi così concepita rimanda allora ad una:
«antecedente conoscenza fondamentale circa gli essenziali elementi costanti della volontà di Dio, che venne messa per iscritto nei comandamenti, ma che è possibile ritrovare in tutte le culture e che si sviluppa
tanto più chiaramente quanto meno un arbitrario potere culturale interviene a distorcere questa conoscenza primordiale» 100.
Da un punto di vista filosofico, la dimensione cognitiva della coscienza trova la sua base fondamentale in primo luogo nella verità
strutturale dell’uomo, definita in termini strettamente filosofici (an-
98
J. RATZINGER, Coscienza e verità, cit., p. 33.
99
Ibidem.
100
224
Ibidem, p. 34.
tropo-ontologici) come unione sintetica di trascendenza e realtà empirica personale (ontica) 101.
Questa affermazione implica una deduzione importante ai fini
dell’esatta definizione dell’uomo:
«Per la trascendenza del proprio sé empirico che lo contraddistingue,
l’uomo non è soggetto chiuso in sé, bensì un soggetto comunicante e
comprendente l’altro da sé» 102.
Ciò è provato dal fatto che il soggetto non pensa senza ricevere,
dunque senza riferirsi ad altri da sé; il soggetto non agisce senza ricadute su altri (e quindi non evita responsabilità oggettive) e senza
richieste nei loro confronti:
«In altre e semplici parole, il soggetto umano è relazionale per struttura. Si completa la sua verità strutturale che costituisce il fondamento
conoscitivo-prescrittivo della coscienza, tanto in campo conoscitivo che
prescrittivo: morale e giuridico» 103.
La coscienza, in questa accezione cognitiva, diventa la finestra
che spalanca all’uomo la vista su quella verità universale, che fonda e
sostiene ogni uomo e che in tal modo rende possibile, a partire dal
suo comune riconoscimento, la solidarietà del volere e della responsabilità 104.
Coscienza dunque come apertura dell’uomo al fondamento del
suo essere, possibilità di percepire quanto è più elevato e più essenziale; coscienza infine come anamnesi dell’essere 105.
Essa, in questa ottica di autotrascendimento di sé e dei propri interessi, apre il soggetto alla sua verità relazionale, nel riconoscimento delle implicazioni morali conseguenti a tale fondamentale verità 106.
101
Cfr. S. COTTA, Coscienza ed obiezione di coscienza (di fronte all’antropologia filosofica), cit., p. 158.
102
Ibidem, p. 159.
103
Ibidem.
104
Cfr. J. RATZINGER, Coscienza e verità, cit., p. 21.
105
Ibidem, p. 37.
106
Su tali osservazioni si fonda l’ammissibilità di una obiezione dianoetica non
225
La coscienza così intesa, lungi dall’accettare le prevaricazioni dispotiche delle forze (psichiche, biologiche, economiche, mediatiche,
politiche e religiose) che ne possono azzerare l’effettivo esercizio, si
erge giudice inappellabile di esse: in questo modo crea lo spazio autentico della libertà del soggetto, nel suo riconoscimento di verità che
implicano personali ed inediti comportamenti morali, anche se ostacolati o rigettati dalla convinzione della maggioranza politica che si
esprime nella legge.
2. Concezioni diverse della coscienza a fondamento dei paradossi della obiezione
Una nuova visione antropologica della coscienza viene elaborata,
secondo la più avvertita dottrina, a seguito dei cambiamenti spirituali e culturali che si avviano a partire dal Trecento.
In questo periodo emergono i prodromi dell’affrancamento dell’individuo dai legami con la natura cosmica e con la comunità e un
religiosa: «anche l’obiettore, pur nella motivazione non religiosa del suo comportamento, postula una concezione della coscienza capace di una verità superiore a
quella legale» (R. BERTOLINO, L’obiezione di coscienza moderna, cit., p. 45). D’altronde, come è noto, nella visione cattolica la verità, pur riferendosi in ultima istanza a
Dio, non costituisce patrimonio esclusivo della religione. Valga per tutti, su questo
punto, l’affermazione di san Tommaso che, riprendendo il commentario dell’Ambrosiaster alla prima lettera ai Corinti (AMBROSIASTER, Commentaria in Epistolam
ad Corinthios Primam, PL 17, col. 245), nel suo commento alla lettera di Tito sostiene: «Verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est» (SAN TOMMASO, Super
Tit. cap. 1 l.3 in fine); ancora nel commento a Giobbe, sosterrà che la verità non
muta a seconda delle persone: «Veritas ex diversitate personarum non variatur, unde, cum aliquis veritatem loquitur, vinci non potest cum quocumque disputet» (SAN
TOMMASO, Exp. Sup. Iob ad litt., XIII). Tali richiami rendono ammissibile, in linea
di principio, la possibilità di un’affermazione veritativa pronunciata in contrapposizione ad una affermazione «religiosa» che pretende di imporsi come assoluta.
Non si può dimenticare il fatto, a tutti noto, secondo cui i primi obiettori cristiani
furono condannati, tra gli altri capi di accusa, anche per ateismo (impietas) e per
asebeia (sul punto si confronti M. SORDI, I cristiani e l’impero romano, Milano 20062,
pp. 78-79), non piegandosi alle pretese assolutistiche dell’ordinamento politico-religioso dell’epoca. Ma se la dimensione religiosa non può vantare il dominio esclusivo della verità, occorre sottolineare anche il fatto che la negazione della verità
non costituisce in alcun modo la cifra onnicomprensiva del pensiero laico moderno. Sul punto ci limitiamo a segnalare l’agevole e illuminante saggio di DIEGO MARCONI, Per la verità. Relativismo e filosofia, Torino 2007.
226
progressivo riconoscimento della libertà individuale: una libertà caratterizzata dall’auto-determinazione della volontà concepita come
dominium, chiamata tendenzialmente ad espandersi, senza limiti,
sulla realtà naturale e sociale 107.
Se l’antropologia medievale concepiva primariamente l’uomo come intelligente, identificandolo soprattutto nella dimensione razionale, ove la conoscenza lo proietta al di fuori di sé, e lo inserisce e lo
rende, con un atteggiamento di umiltà psicologica, in qualche modo
tributario del reale, l’uomo nuovo, disegnato dalla teologia e dalla filosofia francescane, è un soggetto che ama e vuole e che trova la propria identità nella volontà, la più autonoma ed auto-referenziale delle molte dimensioni psicologiche. Tutto arriverà così, in uno sviluppo che attraversa più secoli, a soggettivizzarsi e a risolversi all’interno del soggetto, che afferma il proprio distacco ontologico dal mondo e reclama la propria libertà su di esso 108.
Il tratto tipizzante la nuova visione antropologica è che al concetto di persona, definita dal rapporto costitutivo con altre persone, si è
ormai affiancato quello di individuo, definito da ciò che lo distingue
dagli altri.
Un individuo che viene astratto, – qui l’aggettivo italiano traduce
con precisione il significato del latino abs-tractus –, estratto cioè dal
proprio contesto storico, isolato dalla sua carnalità storica, soprattutto rappresentata dalla socialità 109.
È un individuo qualitativamente anonimo, solo contrassegnato da
un elemento a lui esterno: la proprietà 110.
E poiché trova nella dimensione economica la sua fondazione, è
anche uomo egoista e necessariamente egocentrico. Mentre la persona era – e deve – essere pensata nella sua proiezione verso l’altro (e
per il cristiano fondamentalmente verso l’Alto), nelle sue connessioni essenziali con gli altri, l’individuo si segnala per la propria insularità. Nella vita di relazione, impostagli dall’esercizio della funzione
107
Cfr. P. GROSSI, L’Europa del diritto, cit., pp. 69-70.
108
Ibidem.
109
Seguo in questa ricostruzione, la lezione di P. GROSSI, nell’articolo: Le molte
vite del Giacobinismo giuridico. Ovvero la «Carta di Nizza», il progetto di «Costituzione europea», e le insoddisfazioni di uno storico del diritto, in Rivista di Storia del
diritto italiano, LXXVI (2003), pp. 31-50, riportando qui pp. 42-45.
110
P. GROSSI, Le molte vite del Giacobinismo giuridico, cit., p. 43.
227
9.
economica, la regola costituzionale del suo microcosmo, il profitto,
non gli consentirà di gestirsi se non all’insegna del soddisfacimento
individuale.
Al principio del non quaerere suum, che descriveva le vette morali
della persona cristianamente intesa (per il vero, più spesso contemplate che raggiunte), la nuova antropologia sostituisce il profitto come metro delle azioni dell’homo oeconomicus.
E introduce la formula paradossale ‘vizi privati, pubblici benefici’.
I vizi avevano già fatto un ingresso trionfale nel dibattito politico
settecentesco proprio attraverso la Favola delle api, ovvero i vizi privati, pubblici benefici, scritta da Bernardo di Mandeville e pubblicata
per la prima volta a Londra nel 1714.
Nell’opera, considerata oggi un classico dell’individualismo moderno, l’autore sostiene che ogni passione umana deriva dal più universale e sincero dei sentimenti, cioè l’amore che tutte le creature
umane portano a se stesse. Per questo motivo la repressione autoritaria o la censura moralistica delle passioni non solo è destinata a fallire, ma reca pregiudizio alla prosperità sociale, che proprio sui vizi,
e non sulle virtù, si fonda. La competizione, l’aggressività, l’amore
per il lusso ed i consumi sono le colonne portanti di una società opulenta, mentre la depressione economica segna il destino inevitabile
delle società dominate dal moralismo e dal rigore 111.
Emerge così il discorso della positiva riutilizzazione delle passioni,
culmine di un percorso intellettuale che, da Machiavelli a Smith 112,
arriva a:
«superare la disperante dicotomia tra passione distruttiva e ragione ineffettuale, e costruire i lineamenti inconfondibili dell’homo oeconomicus,
dominato dalla calma passione di far denaro, passione universale, inconfondibile con ogni altra. La tradizionale contrapposizione tra passione e ragione cede il posto a quella, tipicamente borghese, tra passione positiva della ricchezza e le altre: tutte potenzialmente minacciose, ma opportunamente controbilanciate dalla prima» 113.
111
Cfr. G. ALESSI, Il soggetto e l’ordine. Percorsi dell’individualismo nell’Europa
moderna, Torino 2006, p. 38.
112
Tale itinerario è narrato da A.O. HIRSCHMAN, Le passioni e gli interessi. Argomenti in favore del capitalismo prima del suo trionfo, Milano 1979.
113
228
G. ALESSI, Il soggetto e l’ordine, cit., pp. 39-40.
Con la rivoluzione industriale, obiettivo primario dell’homo oeconomicus diventerà la ricerca del proprio profitto individuale, elevato
a legge suprema per il perseguimento della felicità 114 e di un regime
di concorrenza perfetta: gli individui, in quanto homines oeconomici,
saranno separati l’uno dall’altro precisamente in forza dello scopo essenziale della propria azione, il profitto, giacché il mio profitto è
realtà che non prevede la considerazione dell’altro, nemmeno sotto il
grossolano profilo del profitto dell’altro.
L’individuo viene isolato mediante un procedimento di un’astrazione del pensiero: è, infatti, non una concreta realtà vivente, ma il risultato di un taglio concettuale operato sulle diverse relazioni costitutive della persona, dal momento che «ogni voce individuale è
estratta da un dialogo» 115.
Generato dalle correnti secolarizzate giusnaturalistiche, dal momento che non esiste in nessun luogo 116, viene collocato in quell’Eden
artificiale che è lo «stato di natura», dove l’uomo, precedentemente alla stipulazione del patto sociale, può fare ciò che vuole e contro chi
vuole 117.
Da tale teorizzazione completamente astorica discende che la dimensione sociale dell’uomo non viene più concepita come fatto naturale ma come atto artificiale 118, espressione di una voluntas che,
114
Sul punto si confronti S. ZAMAGNI, L’economia del bene comune, Roma 2007,
pp. 42-45.
115
Così J. BRUNER, La ricerca del significato (orig. Acts of Meaning, Harvard
1990), Torino 1992, p. 11.
116
Cfr. H. ARENDT, Le origini del totalitarismo, Milano 1997, p. 404.
117
Si consideri sul punto il pensiero di Hobbes quando afferma: «La natura ha
dato a ciascuno il diritto su ogni cosa; e quindi, prima che gli uomini si fossero vincolati con un patto, a ciascuno era lecito fare qualunque cosa; e contro chiunque volesse» (HOBBES, De cive, I,2; Leviathan, p. 13). Nello stato di natura non vi sono norme di condotta, e la sola «legge» da cui l’uomo è guidato è la ricerca del proprio utile. Al fine di garantire la pace e la sicurezza, gli uomini, non essendo per natura animali sociali come le api o le formiche, si accordano mediante un patto volontario,
che è artificiale; per rendere questo loro accordo costante e duraturo istituiscono
un’autorità comune che ispiri loro timore e indirizzi le loro azioni al vantaggio di tutti (De cive, V, 1-6; Leviathan, 17, citati da: G. FASSÒ, Storia della filosofia del diritto. II.
L’età moderna, ed. aggiornata a cura di C. FARALLI, Roma Bari 20032, pp. 111-113).
118
Concetto ben espresso nelle pagine di MASSIMO JASONNI, Pascal e il diritto del
più forte, in ID., Alle radici della laicità, Firenze 2008, pp. 85-96.
229
perseguendo il proprio utile, conclude un pactum unionis che però si
rivela congiuntamente subiectionis, dunque intrinsecamente negativo e limitante la libertà stessa dell’individuo.
La socialità diventa allora non più realizzazione e compimento
della persona costitutivamente correlata e chiamata alla relazione,
ma mezzo per il perseguimento dei fini individuali ed insieme limite
ed ostacolo all’espandersi della libertà dell’individuo. A questa prima
causa di pesantezza del vivere sociale se ne aggiungerà un’altra 119.
Il divorzio tra la capacità di infinito propria dell’uomo e la trascendenza 120, in un mondo sempre più secolarizzato, porterà l’individuo a ricercare l’infinito entro gli orizzonti intramontani della massimizzazione del profitto e del piacere 121, nella ricerca inesausta di
affermare quelli che, seppur in altro contesto, sono stati definiti come diritti insaziabili 122.
Tale ricerca, mai completamente paga e sempre insaziabile, in un
cammino di progressiva emancipazione ed accumulazione porterà la
coscienza ad essere sempre più libera e nel contempo sempre più sola, sempre più triste 123.
119
Di coscienza infelice parla F. D’AGOSTINO, L’obiezione di coscienza, cit., p. 227.
120
Connubio espresso nel medioevo dal desiderio di Dio (sull’argomento si confrontino le pagine ormai classiche di J. LECLERCQ, Cultura umanistica e desiderio di
Dio. Studio sulla letteratura monastica del Medioevo, (orig. L’amour des lettres et le
désir de Dieu, Paris), Firenze 19882), desiderio paradossale, definito dalla Scolastica come «naturalis quoad appetitionem, supernaturalis vero quoad adsecutionem», negato in seguito dal Gaetano, secondo cui non vi può essere nell’uomo un
desiderio naturale del soprannaturale (sul punto, nonché sul passaggio dal concetto di appetitus beatitudinis ad appetitus societatis si confronti F. TODESCAN, Le radici teologiche del giusnaturalismo laico. III. Il problema della secolarizzazione di Samuel Pufendorf, Milano 2001, pp. 23-27.
121
Per quanto concerne la ricaduta di tali nuove concezioni sull’istituto del matrimonio, si confrontino con profitto le riflessioni di ANDREA ZANOTTI, Il matrimonio
canonico nell’età della tecnica, Torino 2007.
122
123
A. PINTORE, Diritti insaziabili, cit.
In questa sede non va dimenticata l’esistenza di importanti correnti di pensiero che non legano il rispetto della dignità dell’uomo a fondamenti di carattere religioso ma alla garanzia dei diritti inviolabili laicamente ritenuti patrimonio universale. Tuttavia il limite di tali teorie appare essere l’eccessiva relativizzazione del
concetto di diritti umani, che è stata ben descritta da Massimo Jasonni: «di qui
l’amara riflessione critica di Michelangelo Bovero, secondo cui la nozione di diritti
umani appare ormai vaga e imprecisa, tanto ambigua quanto predisposta a usi re-
230
Lo Stato poi, anch’esso affrancatosi dalla legittimazione trascendente fondata sulla volontà divina, o sul servizio della verità, scopre
la propria ragion d’essere nella salvaguardia dei diritti e delle libertà
naturali e pre-statali dei singoli 124. Come però giustamente è stato
osservato:
«L’individualismo dei diritti dell’uomo, realizzato nella sua piena portata, emancipa però non solo dalla religione, ma anche, in una fase successiva, dalla nazione (di popolo) come forza vincolante» 125.
Nel fondare la propria legittimazione sulla tutela della libertà individuale, nella misura in cui tale libertà non è espressione della persona ma di un individuo inteso radicalmente, lo Stato moderno fonda anche la sua dissoluzione.
Là dove l’uomo si concepisce come individuo costitutivamente
chiamato non alla socialità ma alla libertà, sarà sempre portato a vedere nella socialità un limite alla piena realizzazione di se stesso.
La mutata visione antropologica determina altresì una nuova
comprensione della coscienza, radicalmente differente dalla concezione classica:
«Nell’idea di coscienza prevalente nel mondo occidentale contemporaneo è implicata la nozione di uno stato (più che di un processo) ‘in pritorici polivalenti e divergenti. I diritti umani, così disancorati da qualunque fonte
di legittimazione superiore, religiosa, etica o politica, scadono a frutto di un’incessante produzione di ‘regole’, sorde a ogni appello a una logica sistematica e a
un’unità interpretativa. È in questo quadro che Slavoj Žižek pone il paradigma di
Odradek per dimostrare che i diritti umani si traducono in pura retorica, pretesto
per altrimenti ingiustificate avventure militari» (M. JASONNI, Alle radici della laicità,
Firenze 2008, p. 28).
Tale ambiguità rimanda all’aporia riscontrata da Benedetto XVI: «i diritti vengono proposti come assoluti, ma il fondamento che per essi si adduce è solo relativo» (BENEDETTO XVI, La persona umana, cuore della pace. Messaggio per la celebrazione della giornata mondiale della pace, in L’Osservatore Romano, 13 dicembre
2006, p. 5), riecheggiata dal paradosso di Janne Haaland Matláry: «Facciamo dei
diritti umani il fondamento della legittimità dello Stato e contemporaneamente dichiariamo che questi diritti umani non possono essere definiti oggettivamente»
(J.H. MATLÁRY, Diritti umani abbandonati? La minaccia di una dittatura del relativismo, Lugano 2007, p. 32).
124
Cfr. E.W. BÖCKENFÖRDE, Diritto e secolarizzazione, cit., p. 48.
125
Ibidem, p. 53.
231
ma persona’, qualitativo, assolutamente privato. Per ogni individuo la
sua coscienza è un dato, mentre quella degli altri implica un’estrapolazione induttiva. Metafore comuni della coscienza la rappresentano come
un campo o spazio interiore (mutevole come la volta celeste e come essa
illuminata più o meno chiaramente), da cui entrano ed escono vari contenuti mentali (pensieri, percezioni, ricordi, emozioni)» 126.
Da ciò deriva il convincimento dell’assoluta autonomia della coscienza:
«giudice infallibile del bene e del male, secondo la frase emblematica ma
ambigua di Rousseau (giudice di che cosa siano il bene o il male? O giudice se si è agito secondo il bene o il male?). La ‘modernità’ ha fatto proprio
il primo significato, da Rousseau a Nietzche a Sartre e via dicendo …» 127.
Una coscienza che, una volta svincolata dal legame con la fede:
«posa solo su stessa e viene concepita come ultima e suprema istanza della personalità autonoma che ha nella coscienza l’organo della sua conoscenza morale: è immediatamente in rapporto a se stessa e dà a se stessa
le leggi dell’agire» 128.
Alle tradizionali funzioni ‘giurisdizionali’ attribuite alla coscienza, vista ora come giudice, ora come testimone 129, la nuova concezione tende ad attribuirle funzioni ‘legislative’, disconoscendo di fatto una tavola comune di valori, presupposto fondamentale del vivere
sociale.
Si teorizza in questo modo la libertà di agire conformemente alla
legge che la coscienza si è data, rispetto all’obbligo antico di obbedire alla legge data alla coscienza e da questa testimoniata.
Il principio dell’autonomia e dell’autolegislazione della coscienza
risulta pertanto del tutto estraneo alla concezione classica, anzi, ne
appare il travisamento radicale.
126
G. LIOTTI, La dimensione interpersonale della coscienza, cit., pp. 22-23.
127
S. COTTA, Coscienza ed obiezione di coscienza (di fronte all’antropologia filosofica), cit., p. 154.
128
129
Cfr. E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato, costituzione, democrazia, cit., p. 274.
Valgano per tutte le citazioni di San Paolo e di Ivo di Chartres riportate nelle pagine precedenti.
232
Per quanto concerne poi il giudizio della coscienza, esso:
«non erra mai e non può errare; perché essa è la consapevolezza immediata del nostro io puro e originario al di là del quale non va nessun’altra
coscienza; essa non può venir esaminata e corretta da nessun’altra coscienza; essa stessa è giudice di ogni convinzione, ma non riconosce nessun giudice più alto al di sopra di sé» 130.
L’affermazione riportata nega per principio la possibilità di appello avverso il giudizio della coscienza, facendo venire meno un altro
principio fondamentale ravvisato dall’accezione classica di coscienza: quello della sua dimensione dialogica ed interpersonale.
Ciò che era assoluto nella conscientia di Ivo era la sua costitutiva
apertura dialogica obbedienziale alla realtà esterna, agli altri e all’Alto, tutte dimensioni negate dal monologo irreformabile e immotivato del giudizio emesso dalla coscienza intesa in senso radicalmente
soggettivistico:
«Il criterio per cui si sia in presenza di una reale decisione della coscienza non può essere trovato nella sua verità in conformità a principi
giuridici universali, alla legge morale generale, ad un ordinamento dei
valori o simili. Con ciò sarebbe negata l’individualità della coscienza, la
sua libertà ed autonomia. Sarebbero riconosciute come coscienza solo
quelle coscienze che si assoggettano a verità che sono esterne alla coscienza stessa e nient’affatto ad essa immanenti» 131.
Un solo elemento consentirebbe allora di afferrare la coscienza
anche dall’esterno:
130
J. FICHTE, System der Sittenlehre, III, § 15, trad. id. in Il sistema della dottrina
morale, Firenze, 1857, p. 201.
131
E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato, costituzione, democrazia, cit., p. 318. Così anche
Niklas Luhmann quando afferma: «La coscienza non è più syn-eidesis, con-scientia,
co-scienza, sapere comune; essa non è più, in assoluto, alcun sapere, ma una specie di erudizione dell’originalità del sé della quale si può soltanto prendere atto con
meravigliata tolleranza e rispettarla, ma che non può essere verificata con riguardo
al contenuto» (N. LUHMANN, La libertà di coscienza e la coscienza, in ID., La differenziazione del diritto, Bologna 1990, p. 267). Consegue da ciò che: «Ciascuno ha un diritto alla sua coscienza. Il contenuto della coscienza, allora, non può essere riferito
al diritto sovra positivo e vincolato ad esso» (ibidem, p. 268).
233
«la sua disposizione ad assumersi le conseguenze» 132.
La coscienza così intesa, allora:
«Non si presenta come la finestra, che spalanca all’uomo la vista su
quella verità universale, che fonda e sostiene tutti noi e che in tal modo
rende possibile, a partire dal suo comune riconoscimento, la solidarietà
del volere e della responsabilità. Non è l’apertura dell’uomo al fondamento del suo essere, la possibilità di percepire quanto è più elevato e più
essenziale. Essa sembra essere piuttosto il guscio della soggettività, in cui
l’uomo può sfuggire alla realtà e nascondersi da essa. A tal riguardo è qui
presupposta proprio la concezione di coscienza del liberalismo: la coscienza non apre la strada al cammino liberante della verità, la quale non
esiste affatto o è troppo esigente per noi. La coscienza è l’istanza che ci
dispensa dalla verità, essa si trasforma nella giustificazione della soggettività, che non si lascia più mettere in questione …» 133.
Il nuovo concetto di coscienza sembra dunque configurare quella
che, nella sua nozione classica, lungi dall’essere la conscientia, ne era
in realtà la sua alienazione 134.
Muovendo da questi presupposti, parte della dottrina ha ravvisato
una radicale metamorfosi del fenomeno dell’obiezione 135, conse-
132
N. LUHMANN, Die Gewissensfreiheit und das Gewissen, in Archiv des öffentlichen Rechts, 90 (1965), pp. 283-285, cit. in E.W. BÖCKENFÖRDE, Stato, costituzione,
democrazia, cit., p. 319.
133
J. RATZINGER, Coscienza e verità, cit., p. 21.
134
Con riferimento a queste due visioni della coscienza radicalmente opposte,
parte della dottrina ha ravvisato il fondamento delle due diverse valutazioni del
magistero della Chiesa nei confronti dell’obiezione di coscienza: da una parte
l’obiezione della coscienza, espressa da quella coscienza che obietta per testimoniare la sua fedeltà alla legge di Dio, all’ordine morale oggettivo, lodata e incoraggiata. Dall’altra l’obiezione di coscienza, non condivisa, espressa da quella coscienza che rivendica il primato assoluto dell’individuo, trova il suo fondamento nella
volontà del soggetto, presuppone la non esistenza dell’ordine morale ed implica in
ultima analisi la negazione della legittimità dell’ordinamento giuridico (sul punto
si confronti D. CASTELLANO, Obiezione di coscienza e pensiero cattolico. Considerazioni sul fondamento di un problema etico con particolare riferimento alla resistenza
al servizio militare, in Diritto e società, 1991, pp. 437-452, qui p. 442).
135
Come ha affermato F. D’Agostino, «l’obiezione ‘moderna’ conosce una radicale metamorfosi; da fenomeno etico-religioso diviene fenomeno politico; da appel-
234
guente al radicale cambiamento del concetto di coscienza venutosi a
delineare nella Modernità filosofico-giuridica.
L’obiettore moderno, da custode della verità, pretende di porsi come il creatore di una verità futura (soggettiva), che è egli stesso a plasmare, con la sua azione. La dialettica si sposta da verità contro forza, a forza contro forza 136.
E così, rispetto all’obiezione ‘classica’, quella che è stata definita
come obiezione ‘moderna’:
«rivendica il diritto di non rispettare il principio di legalità in base a un giudizio personale, poiché nella ‘modernità’:
a) si è (sempre più) negata l’oggettività della verità, persino in campo
scientifico;
b) di conseguenza non essendovi verità oggettive fuorché quelle meramente fattuali dei costumi facilmente criticabili come esteriori, si è imposto in morale il principio non cognitivista, secondo il quale la decisione morale è una scelta del tutto personale. Principio penetrato anche nell’area cristiana.
Pertanto il fondamento dell’obiezione di coscienza rischia di essere il
puro sentimento o la pura volontà, dando così luogo all’arbitrio» 137.
lo alla verità diviene manifestazione di opinione; da purissima manifestazione del
Selbstsein si oggettiva ineluttabilmente nel più estrinseco Alssein» (F. D’AGOSTINO,
L’obiezione di coscienza, cit., p. 227). Parla di progressiva metamorfosi chi considera la storia dell’istituto, «nato in origine come meccanismo di difesa della coscienza religiosa di fronte alla intolleranza del potere, e passato poi a tutelare anche contenuti etici della coscienza, non necessariamente vincolati a credenze religiose»
(così R. NAVARRO VALLS-J. MARTINEZ TORRON, Le obiezioni di coscienza. Profilo comparato, cit., p. 10). Ad una metamorfosi più profonda fa riferimento invece Luciano
Guerzoni quando afferma la «radicale trasformazione delle sue giustificazioni culturali, delle sue ragioni storiche, delle sue forme e dei suoi obiettivi» (L. GUERZONI,
L’obiezione di coscienza tra politica e diritto e legislazione, in AA.VV., L’obiezione di
coscienza tra tutela della libertà e disgregazione dello Stato democratico, cit., pp. 181182). Accanto alla linea dottrinale tendente a sottolineare la discontinuità, non
mancano voci autorevoli che con fondati argomenti sostengono che: «non necessariamente la metamorfosi intervenuta della obiezione abbia comportato una sua
modifica qualitativa e ontologica» (così R. BERTOLINO, L’obiezione di coscienza moderna, cit., p. 28). Sul punto si confronti anche V. TURCHI, Obiezione di coscienza: a
trent’anni dalla prima legge, cit., p. 79).
136
Ibidem, p. 226.
137
S. COTTA, Coscienza ed obiezione di coscienza (di fronte all’antropologia filosofica), cit., pp. 155-156, che così continua: «Questa posizione tocca il suo culmine
nel pensiero di Nietzche, che esplicitamente spregia il bene comune, l’umanitarismo
235
Come appare evidente dal percorso fatto, lo stesso termine viene
utilizzato per designare due realtà opposte: da una parte il richiamo
alla verità intesa in senso tanto religioso quanto laico, dall’altra l’affermazione di una soggettività definita sulla base di una impenetrabile individualità.
Insieme all’equivocità del termine coscienza, è cresciuto in modo
esponenziale, anche nell’interpretazione del giudice, il valore prioritario riconosciuto alla sua libertà:
«La libertà di coscienza, infatti, è un ‘bene costituzionalmente rilevante’ (sent. 18 luglio 1989, n. 409) e quindi ‘deve essere protetta in misura proporzionata alla priorità assoluta e al carattere fondante ad essa
riconosciuta nella scala dei valori espressa dalla Costituzione italiana’
(sent. 5 maggio 1995, n. 149, che richiama la n. 467 del 19 dicembre
1991), al punto che la stessa libertà religiosa ne diventa una particolare
declinazione: ‘libertà di coscienza in relazione all’esperienza religiosa’
(sent. n. 334 del 1996, cit.). Ne consegue che questa libertà, nel ‘pluralismo dei valori di coscienza susseguente alla garanzia costituzionale delle libertà fondamentali della persona’ (sent. 3. dicembre 1993, n. 422), va
tutelata nella massima estensione compatibile con altri beni costituzionalmente rilevanti e di analogo carattere fondante, come si ricava dalle
declaratorie di illegittimità costituzionale delle formule del giuramento,
operate dall’alta Corte alla luce di quel parametro» 138.
In questa equivocità semantica del termine coscienza, nella quale
al significato originario si è sovrapposto il suo contrario, sta la ragione del paradosso post-moderno dell’obiezione di coscienza.
Rispetto alla dottrina che tende ad identificare in modo assoluto
la coscienza della Modernità in senso soggettivistico, segnalando così l’antinomia tra coscienza classica e coscienza moderna con la con-
sociale e l’amore del prossimo, e che fa dipendere la giustizia e il diritto dalla volontà di potenza. L’autorealizzazione di sé ne è la versione ‘debole’. All’opposto va
invece ricordata la ben diversa concezione della coscienza di Kant, per il quale il
giudizio personale (la ‘massima’) deve venir spogliato dalla sua particolarità empirica mediante il ricorso al processo della sua universalizzazione, onde poter pervenire al livello della moralità e delle sue leggi, valide per ogni essere razionale. Rispetto alla posizione kantiana (ma ignorandola), l’obiezione di coscienza moderna
viene affermata come dovere verso se stesso (dovere interiore), ritenuto ragione sufficiente per rivendicarla come diritto rispetto agli altri membri della società».
138
236
Corte di Cassazione, Sez. IV pen., sentenza 1° marzo 2000, n. 439/2000.
seguente inconciliabile antinomia tra obiezione di coscienza classica
e obiezione di coscienza moderna, si deve però evidenziare come, in
realtà, vi sia un intenso dibattito nelle correnti psicologiche-filosofiche post-moderne 139 in ordine al concetto e alla struttura della coscienza.
Numerosi contributi della psicologia contemporanea sottolineano invero, in opposizione all’idea della coscienza e della coscienza
di sé come realtà del tutto private, la loro essenziale natura relazionale 140.
La ricerca scientifica contemporanea ha poi ribadito come:
«La coscienza riguarda la persona (che è una realtà intrinsecamente
relazionale): non è proprietà del cervello o dell’individuo isolato (che sono astrazioni del pensiero prive di concreta realtà) né di qualsiasi sistema di autocoscienza ‘chiuso’ in se stesso. Le riflessioni filosofiche, sociologiche, psicologiche, neuropsicologiche e antropologiche sulla coscienza come processo che nasce dalla relazione fra sé e mondo, e che fa di sé
e del mondo i propri oggetti o contenuti, ci inducono dunque a considerare, logicamente, la coscienza in una dimensione sovraordinata a quella dell’individuo isolato. Di fronte alla visione della natura fondamentalmente relazionale della coscienza si pone il problema del rapporto fra coscienza e responsabilità individuale, fra coscienza e volontà, fra coscienza e senso di sé» 141.
Tali osservazioni fanno emergere l’attualità e la fondatezza scientifica della comprensione ‘classica’ del fenomeno coscienza ed eviden-
139
Si pensi per esempio al filosofo non credente Jean-Luc Nancy, secondo il
quale tutto ciò che esiste, dal momento che esiste, ‘coesiste’. Da qui il concetto di
‘Essere singolare plurale’ ove cioè «l’essenza dell’essere è, ed è soltanto, una co-essenza; ma co-essenza o l’essere-con-l’essere-in-tanti-con designa a sua volta l’essenza del co-, o ancora meglio il co- (il cum) stesso in posizione o in guisa di essenza»
(cfr. J.-L. NANCY, Essere singolare plurale, Torino 2001, p. 45).
140
«L’io cosciente è stato considerato come prodotto della storia sociale, o della relazione con altri interiorizzati, da psicologi e sociologi del calibro di Mead, Vygotskij e Lurija (rapide rassegne degli studi classici su tale argomento sono fornite
da BRETHERTON, 1991, e MARTINEZ-TABOAS, 1991; per riflessioni più recenti sulla natura sociale dell’autocoscienza, cfr. la famosa opera di POPPER ed ECCLES, L’io e il
suo cervello, e il volume di GERGEN e DAVIS, The Social construction of the Person)»
(G. LIOTTI, La dimensione interpersonale della coscienza, cit., pp. 23-24).
141
Ibidem, pp. 24-25.
237
ziano nel contempo la mancanza di serie fondazioni scientifiche circa
la comprensione della coscienza in senso esclusivamente privato.
3. Considerazioni conclusive
A questo punto, a fronte del dilemma circa le domande che l’attualità pone con forza all’istituto dell’obiezione, occorre affrontare la
domanda non più eludibile: intorno a quale concetto di coscienza la
società post-moderna intenderà costruire la propria identità, posta
l’inconciliabilità delle due concezioni considerate?
Nel caso in cui a prevalere sia la concezione soggettivistica, alcune sue implicanze estreme aiutano ad esplicitare il paradosso accennato.
Se il dovere di obbedire a leggi contrarie alla propria coscienza
costituisce una violazione della coscienza stessa, dal momento in cui
la coscienza rappresenta un valore costituzionale, quando si ammetta che il principio di legalità e di osservanza della legge sia recessivo
dinanzi alle istanze della coscienza individuale ed all’esigenza di non
tenere comportamenti difformi ad essa, la coscienza individuale prevarrà sulle leggi. Questa però non è la coscienza classica, definita attraverso la sua dimensione interrelazionale e il richiamo ad una verità trascendente data, ad una legge che può essere recepita 142.
Essa è invece una coscienza che, in quanto legge a se stessa, può,
in forza del principio dell’autonomia e dell’autolegislazione, darsi
qualsiasi prescrizione, insindacabile nel rispetto del principio dell’assoluta autodeterminazione.
Tale concezione comporta la negazione palese di quel dualismo
che il percorso storico svolto ha rivelato costitutivo della nozione
142
Come affermava San Tommaso, ogni creatura razionale, allo stesso modo in
cui conosce in qualche modo («aliqualiter») la verità, conosce anche la lex aeterna
almeno quanto ai principî comuni della lex naturalis («principia communia legis
naturalis») (Summa theologiae, Ia-IIae, q. 93, a. 2, co.). Per un approfondimento sul
punto cfr. G.M. AZZONI, Lex aeterna e lex naturalis: attualità di una distinzione concettuale, in Vitalità del diritto naturale, a cura di F. Di Blasi-P. Heritier, 2008, pp.
159-209. Sulla legge naturale si confronti anche da ultimo: Commissione Teologica
Internazionale, Alla ricerca di un’etica universale: nuovo sguardo sulla legge naturale, in La Civiltà Cattolica, 160, 3814 (2009), pp. 341-398.
238
classica dell’obiezione di coscienza, nonché elemento fondamentale
della nascita e dell’evolversi del concetto di libertà 143.
Appare ancora – come è evidente – inadeguata e incapace di riferimenti a valori di sintesi, superiori tanto alla legge positiva quanto
all’individuo, in grado di raccordare in armonia le due polarità.
L’impossibilità di raccordare tali istanze provoca però l’emergere
di un’altra contrapposizione insanabile, bene espressa dalle parole di
Kelsen:
«La discordanza fra la volontà dell’individuo, punto di partenza
dell’esigenza di libertà, e l’ordine sociale, che si presenta all’individuo come volontà estranea, è inevitabile» 144.
Ordine sociale e libertà dell’individuo vengono così paradossalmente a costituire una inconciliabile polarità antinomica, tanto che
l’affermazione di una sembra implicare la negazione dell’altra: l’affermazione della libertà individuale mette a rischio lo Stato democratico, erodendo i principi stessi della convivenza; d’altro canto,
però, lo Stato democratico, dal momento che si definisce nella tutela
delle libertà individuali, quando non le riconosca, arriva a negare se
stesso.
La negazione di un concetto di giustizia sovraordinato rispetto alla legge, di un ordine non scritto cui gli uomini in qualche modo partecipano senza poterlo manipolare arbitrariamente, terzo rispetto sia
al potere sia all’autonomia dell’individuo fa emergere, le aporie che
evidenziamo a modo di conclusione.
Accolta l’inammissibilità delle ‘leggi non scritte’, è ancora possibile parlare di «diritto iniquo», come fa Radbruch nella sua celebre formula? Se sì, in base a quali criteri oggettivi?
Eliminando il postulato implicito di una giustizia sovralegale, viene infatti meno qualsiasi oggettivo orizzonte valoriale e veritativo di
143
Tale negazione rinvia a quello che è stato definito come il «carattere più fermo e sicuro» della Modernità giuridica, ovvero «la fine di ogni dualismo, di quelle
antitesi e distinzioni e alternative, che hanno percorso la storia giuridica»: «Laicizzate le fonti del diritto e sciolto ogni legame con la teologia le norme sono venute
nell’esclusivo e totale dominio della volontà umana» (N. IRTI, Il nichilismo giuridico, Roma-Bari 2004, p. 7).
144
H. KELSEN, La democrazia, Bologna 1999, p. 53.
239
riferimento; tale orizzonte costituisce però la condicio sine qua non
di ogni giudizio che non voglia definirsi come arbitrario. La dissoluzione della pensabilità di tale orizzonte non rende forse arbitrario ed
illegittimo qualificare come «ordini criminali di tiranni disumani» i
comandi posti in essere secondo una legittima procedura? In base a
quale principio un regime può, nonostante il rispetto formale di una
sua legalità, essere giudicato, oggettivamente dispotico e tirannico?
Da quali motivazioni ideali può la persona trarre linfa per resistere
ad un potere dispotico?
La dissoluzione di un orizzonte normativo sovralegale e nel contempo metaindividuale solleva questioni anche con riferimento al
principio di autodeterminazione.
Fino a che punto il diritto può misconoscere, dalla definizione
giuridica dell’uomo, elementi intrinsecamente qualificativi l’umano,
quali il limite e la socialità, senza fargli torto? Venuti meno tali limiti ‘naturali’, fino a che punto l’autonomia individuale può spingersi?
Posta la progressiva eliminazione giuridica degli impedimenti al
principio di autodeterminazione, come giustificare l’imposizione dei
limiti essenziali all’essenza stessa della socialità? Come e dove fondare la legittimità del sentimento di ripugnanza circa il consenso libero e volontario dato dalla vittima al suo carnefice nella nota vicenda del ‘cannibale di Rotenburg’ 145?
Negando il riferimento ad una verità o ad un ‘diritto altro’, superiore sia alla legge sia all’individuo 146, a quali criteri oggettivi bisogna richiamarsi per distinguere la disobbedienza arbitraria dall’obiezione di coscienza, la coscienza che deve essere tutelata rispetto a
quella che integra l’elemento soggettivo di un reato, e venir dunque
sanzionata? Questi stessi criteri, svincolati da un’oggettività certa,
non risulteranno poi arbitrari, mutevoli al cambiare delle maggioranze o dei luoghi?
Se la coscienza va tutelata là dove viene invocata, come non tutelare ogni disobbedienza, là dove il suo autore si richiama alla coscienza? D’altro canto, come non allarmarsi davanti a chi sostiene
145
Per un approfondimento sul ‘cannibale di Rotenburg’, rinviamo a: blog.centrodietica.it.
146
In grado cioè di legittimare tanto l’intervento dello Stato avverso un comportamento illegale ed arbitrario dell’individuo, quanto la resistenza dell’individuo
avverso un comportamento arbitrario dello Stato.
240
che certe coscienze sono troppo ristrette e troppo anguste per poter
essere erette a principio della decisione? 147.
D’altra parte, là dove si pretende di annullare il giudizio di certe
coscienze perché ritenute troppo ristrette e troppo anguste, come
non appellarsi agli exempla di Ivo, ad Antigone e alle figure bibliche
femminili, madri generatrici della cultura giuridica occidentale? 148.
Sono queste le domande fondamentali che le obiezioni di coscienza con la loro storia, nella loro forza dialettica, per coerenza logica e per la loro persuasività giuridica, continuano a sollevare alla
società post-moderna, la quale non può rinviare oltre la riflessione
seria sul proprio fondamento.
147
Umberto Galimberti arriva ad esempio a contestare il medico che opta per
un’obiezione di coscienza all’interruzione di gravidanza (obiezione di coscienza
questa secundum legem, ovvero positivamente prevista come legittima dal legislatore), affermando che «questo tipo di «coscienza» che non assume alcuna responsabilità sociale è una coscienza troppo ristretta, troppo angusta per poter essere
eretta a principio di decisione» (U. GALIMBERTI, La dittatura della coscienza, in La
Repubblica, 26 febbraio 2007).
148
Madri e padri che, trovando la loro inesauribile fecondità nell’attraente bellezza insita nel conformarsi ad un ordine superiore, sono sempre pronti, davanti ai
latenti o manifesti attentati contro la dignità della persona, a rigenerare nuovi ed
inediti cammini di rinascita e liberazione (cfr. S. VIOLI, Le obiezioni bibliche e il loro volto femminile, cit., p. 182).
241
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