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dalle parabole ai rapporti umani

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dalle parabole ai rapporti umani
I QUADERNI DI
IDEA SPIRITUALISTA
QUADERNO NONO
“DALLE PARABOLE AI RAPPORTI
UMANI”
“Dalle parabole ai rapporti umani”
I rapporti umani
Non fare il male anche se conviene è da uomo,
fare il bene anche se danneggia è da Dio.
(Seneca)
“DALLE PARABOLE AI RAPPORTI UMANI”
Gesù andando con i Suoi discepoli, narrò loro altre parabole, fra le quali,
quella degli operai delle diverse ore, e disse: “Poiché il regno dei Cieli è simile
ad un padrone di casa, il quale, in sul far del giorno, uscì a prender ad opra
dei lavoratori per la sua vigna. E avendo convenuto con i lavoratori per un
denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Ed uscito verso l’ora terza, ne
vide degli altri che se ne stavano sulla piazza disoccupati e disse loro:
“Andate anche voi nella vigna, e vi darò quel che sarà giusto”. Ed essi
andarono. Poi, uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece lo stesso. Ed
uscito verso l’undecima, ne trovò degli altri in piazza e disse loro: “Andate
anche voi nella vigna, e vi darò quel che sarà giusto”. Ed essi andarono. Poi
fattasi sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e
paga loro la mercede, cominciando dagli ultimi fino ai primi”. Allora, venuti
quei dell’undicesima ora, ricevettero un denaro per uno. E venuti i primi,
pensavano di ricevere di più, ma ricevettero anch’essi un denaro per uno. E
ricevutolo, mormoravano contro il padrone di casa, dicendo: “Questi ultimi
non han fatto che un’ora e tu li hai fatti pari a noi che abbiamo portato il
peso di tutta la giornata ed il caldo. Ma egli rispondendo ad uno di loro,
disse: ”Amico, io non ti fo alcun torto; non convenisti meco per un denaro?
Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare a quest’ultimo quanto a te. Non mi
è lecito far del mio ciò che voglio? O vedi tu di mal occhio che io sia buono?
Così gli ultimi saranno i primi, e i primi gli ultimi. (Matteo: 20; 1- 16)
Questa parabola è molto importante e, pur si lega al grande ciclo cosmico,
ed è la terza dopo quella del buon pastore e del figliol prodigo. Lasciando da
parte il significato trasparente e consolatore dei convertiti all’ultima ora, noi
dobbiamo trasportare lo spirito nostro in epoche ancora una volta
preadamitiche. L’uomo non ha solo molti nemici nel cosmo, ha pure molti
invidiosi. Indubbiamente, l’intelligenza degli Angeli, per consequenziale che
sia, non può impedir loro delle considerazioni. Non sappiamo se tutti sono
solo puri spiriti, non sappiamo e non vogliamo sapere, se in mondi simili alla
Terra vivono umanità simili alla nostra, umanità docili e obbedienti, umanità
senza peccato. Ma, certo è che l’uomo, “l’uomo terrestre”, è proprio questo
operaio dell’ultima ora, l’ultimo creato per ordine di tempo. E a quest’ultimo
creato il padrone della vigna si rivolge, per invitarlo al lavoro insieme ai suoi
compagni precedentemente inviati.
Se, per il cosmo, la sera è vicina, il lavoro dell’uomo terrestre sarà assai
breve però, nella parabola è stabilito, non per sua colpa. Evidentemente per
un lungo, lunghissimo periodo, all’uomo terrestre non fu affidato un
compito, non fu chiamato a lavorare. Esso giacque nella sua ignavia non del
tutto per sua colpa, perché nessuno l’aveva invitato a lavorare. Appena il
padrone della vigna lo chiama, egli, subito accorre e non pattuisce alcun
prezzo, pago di essere inviato ad un lavoro; alla fine la sua ricompensa sarà
identica a quella dei primi lavoratori. Non vi sono gerarchie fra i lavoratori,
non vi sono posizioni di privilegio: l’operaio della prima e quello dell’ultima
ora sono uguali, sono uguali perché entrambi hanno obbedito al richiamo.
Tempo verrà che: da tutte le terre del cielo le umanità saranno chiamate al
giusto guiderdone, e non vi sarà differenza fra loro, perché il padrone dei
cieli e delle terre è buono e del Suo fa ciò che vuole. In quell’ora suprema
non vi saranno sindacati, in quell’ora suprema varrà solo l’aver sperato,
l’aver obbedito con la migliore buona volontà.
All’alba delle epoche, il padrone della vigna stabilì un premio unico per
tutti i lavoratori della stessa, del resto questo premio non può che essere
unico. Il premio è l’indiamento, il possesso beato della stessa divinità e vi è
un sola divinità, la quale non può che darsi a tutti i Suoi fedeli nell’identica
maniera. Vi saranno dei brontolamenti e sarà logico che sia così, però questi
brontolamenti si attireranno solo lo sdegno del Padre, e l’acerba risposta del
padrone. Sdegno del padre, e risposta del padrone che testimoniano
un’infinita comprensione in un infinito amore. “Tu sei sempre stato con me”
dice al figlio maggiore il padre del figliol prodigo. “Amico, io non ti fo alcun
torto; non convenisti con meco per un denaro?” rispose il padrone della
vigna.
Le umanità incolpevoli e operose hanno avuto subito e di continuo ciò che
è mancato all’umanità peccante. Il figlio rimasto con il padre, ha sempre
diviso l’agiatezza paterna, non ha conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli
avvilimenti del fratello sviato. Gli operai della prima ora patteggiano
liberamente il prezzo, cosa che non poterono fare gli altri, ben felici
comunque di poter guadagnare qualcosa; essi ignorano la pena di veder
passare le ore senza essere cercati, di veder avvicinarsi la sera e con essa la
notte senza aver lavorato. Gli operai poi, dell’undicesima ora, avevano atteso
che qualcuno li cercasse, per tutto il giorno avevano trepidato e, se i primi
avevano durato la fatica e l’arsura, gli altri avevano conosciuto l’avvilimento
e l’angosciante vana attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna,
giustamente rimbrotta gli insoddisfatti: “Vedi tu di mal occhio che io sia
buono? Non mi è lecito di far del mio ciò che voglio?”.
Dal piano cosmico venendo al piano puramente umano e terrestre, noi
possiamo intendere tutta la grandezza del concetto cristico in
quest’affermazione. Il Cristo, che era venuto per i peccatori e non per i giusti,
per i malati e non per i sani, mostra di ben sapere la portata del suo
mandato. Come il malato e non il sano, abbisogna del medico, il peccatore e
non il giusto, abbisogna del Redentore, così colui che a lungo è stato
disoccupato abbisogna d’occupazione e d’impiego, egli non discute di
ricompense pago solo di lavorare. E qui vogliamo sfatare una troppo comune
interpretazione. L’operaio dell’undicesima ora non è, come tutti
comunemente intendono, il peccatore che si converte all’ultima ora; può
anche essere quello ma in linea di massima no. L’operaio dell’undicesima ora
è l’uomo buono, intelligente, spesso colto, psichicamente disoccupato;
l’uomo cioè privo d’idealità, non perché sia incapace d’ideali, ma perché sino
allora nessun vero ideale gli si è presentato. Di questi uomini ne esistono in
tutte le razze e in tutte le religioni. Spesso si vive un’intera vita senza
interessarsi dei massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con
indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese ed i riti della propria
religione senza curarsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è
vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai disoccupati della
parabola, si attende che qualcuno ci cerchi, che qualcuno ci faccia lavorare
finché qualcuno giunge, non importa chi giunge, talora il padrone che ci
manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria e dolore!
Giungerà colui che ci domanderà: “Perché ve ne state inoperosi?”. E noi
risponderemo: “Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l’undicesima ora”. Ed egli ci
dirà: ”Andate anche voi nella vigna”.
Spesso, dopo una vita inutile e vuota, un richiamo improvviso come un
bagliore sopra gli occhi chiusi, incomincia il lavoro dello Spirito. Che esso
duri molto o poco non importa, importa che esso ci sia, importa che tutta la
giornata terrena non sia conclusa nell’ozio. Ecco come si spiegano talune
tardive vocazioni, come si giustificano talune strane mutazioni di vita per
cui, uomini anziani vissuti sino allora tranquilli, di colpo, come obbedendo
ad un richiamo si gettano in grandi attività, si dedicano a studi cui mai
avevano pensato, s’interessano avidamente del mondo che li circonda e, con
uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del
Signore. L’operaio dell’undicesima ora è stato chiamato ed ha risposto;
avrebbe risposto prima se fosse stato cercato. L’uomo, ossia l’operaio
dell’undicesima ora, non dice mai “è tardi”, ma risponde sempre: “Eccomi!” Il
premio degli ultimi sarà perciò, giustamente, uguale a quello dei primi,
poiché, attendere di esser chiamato con l’anima di aderire al richiamo, è già
lavorare.
E Gesù, continuò: “Vorrei conoscere il vostro parere! Un uomo aveva due
figlioli. Accostatosi al primo, disse: “Figliolo, va’ oggi a lavorare nella vigna”.
Ed egli rispondendo disse: “Vado, padre mio”, ma non vi andò. E accostatosi
al secondo gli disse lo stesso, ma egli rispondendo disse: “Non voglio”; ma poi,
pentitosi vi andò. Quale dei due fece la volontà del padre? Essi risposero:
“L’ultimo”. E Gesù a loro: “Io vi dico in verità che i pubblicani e le meretrici
vanno innanzi a voi nel regno di Dio. Poiché Giovanni è venuto a voi per la via
della giustizia e voi non gli avete creduto; ma i pubblicani e le meretrici gli
hanno creduto e neppure voi, che avete veduto questo, vi siete pentit e avete
continuato a non credergli”. (Matteo: 21; 28- 32)
Anche questa parabola è, a nostro avviso, d’ordine cosmico. L’uomo
terrestre è il ribelle che nega obbedienza con la bocca, ma non con il cuore.
Le altre umanità possono essere quelle che, dicendo di si con molto rispetto,
poi non si curano della promessa fatta. Così, alla fine dei tempi, forse sarà
l’homo terrestre ad essere costituito sopra i Troni e le Dominazioni; sopra i
Deva ed i Geni, sopra gli Angeli ed i Giganti. Sarà proprio l’uomo terrestre
l’erede del regno. Così, come i peccatori e le meretrici saranno per virtù di
pentimento e strazio d’esperienza, infinitamente superiori all’innocenza
serena di chi nulla mai provò e in nulla mai si distinse. Molti credono che
basti non fare il male, ma se non fanno il bene, fanno già il male; se non si
opera, altri opereranno per noi, e non come vorremmo noi.
In un creato perennemente all’opera, perennemente se stesso
trasformante, non è lecito ad alcuno lasciarsi vivere. Tutti devono vivere in
proprio, anche e specialmente, se vivere è soffrire. Anche peccare è soffrire.
Ecco perché: i peccatori e le meretrici potranno, nel regno di Dio, precedere i
pigri discepoli che stanno lontano dalla colpa, non per avversione ed orrore
alla colpa stessa, ma per evitare di faticare, di soffrire. Meglio la protesta del
figlio ribelle, seguita dall’obbedienza per amore, che non il tiepido ossequio di
chi dice e non fa. Dio non ama l’ossequio verboso: “Non chi mi dice Signore,
Signore, ma chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica avrà parte del
Regno”.
Siccome Gesù sentiva avvicinarsi la Sua ora, cominciò a preparare i suoi
discepoli e narrò loro la seguente parabola: “Un uomo piantò una vigna e le
fece intorno una siepe, vi scavò un luogo dove spremere le uve e vi edificò una
torre, l’affittò a dei lavoratori e se ne andò in viaggio. A suo tempo, mandò a
quei lavoratori un servitore per ricevere da loro dei frutti della vigna. Ma essi,
presolo, lo batterono e lo rimandarono a vuoto. Egli, di nuovo mandò loro un
altro servitore ed anche lui ferirono nel capo e lo vituperarono. Egli, ne mandò
un altro ed anche quello uccisero. Aveva ancora un unico figliolo diletto e
quello mandò loro per ultimo dicendo: “Avranno rispetto al mio figliolo”. Ma
quei lavoratori dissero fra loro: “Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e l’eredità
sarà nostra!” E presolo, l’uccisero e lo gettarono fuori dalla vigna. Che farà
dunque il padrone della vigna? Egli verrà e distruggerà quei lavoratori e darà
la vigna ad altri. Non avete mai letto questa scrittura? La pietra che gli
edificatori hanno ritrovata, è quella che è divenuta pietra angolare. Ciò è stato
fatto dal Signore ed è cosa meravigliosa agli occhi nostri. Perciò io vi dico che
il regno di Dio vi sarà tolto e sarà dato ad una gente che ne faccia i frutti”.
(Matteo: 21; 33- 45)
Gesù alludeva a se stesso come figlio del padrone della vigna e come vigna
indicava Israele, ma evidentemente non solo Israele. Popolo deicida non è
solo quello ebreo. Deicida è ogni popolo, compreso il cristiano, che
contravvenga alle leggi della vita, che non faccia frutto, che non dia il dovuto
interesse spirituale a Colui che è l‘autore della stessa vita spirituale. “Il regno
vi sarà tolto”. Ad Israele il regno fu tolto e tuttora Israele non ha un suolo che
possa dire veramente suo, una patria che possa guardare con sicura
certezza. Uno strano destino pesa da duemila anni su Israele; per esso le
parole della scrittura si sono adempite punto per punto, cacciato su tutta la
terra, esso non ha sosta, non ha pace, ogni tanto sogna un sogno che viene
rotto dall’amaro risveglio. Uno spirito antisemita pervade regolarmente tutti i
popoli della terra, anche quelli che hanno loro successivamente dimostrato
una maggiore amicizia. Il fenomeno dell’antisemitismo ha certo una grande
ragione provvidenziale. Razze più forti, civiltà più grandi di quella ebrea,
sono letteralmente scomparse dalla faccia della Terra in un numero d’anni
ben minore (basta pensare alla splendida razza Incas distrutta da Pizzarro),
ma l’ebreo non scompare. Persecuzioni feroci lo mietono come il grano, lo
schiacciano come l’uva, ma non lo distruggono. I pogrom, prima di Hitler,
costituirono l’onta della Russia. In molte altre nazioni gli ebrei furono
umiliati al massimo, furono chiusi nei ghetti, furono cacciati di città in città
come pecore rognose, e con ciò non sono stati distrutti, non saranno
distrutti sino alla fine dei tempi. Essi, i più razzisti fra i razzisti, debbono,
loro malgrado, testimoniare perennemente sopra la Terra la realtà storica del
genio più universale che le terra abbia avuto, il genio di tutti gli uomini, che
nacque da loro: “Gesù, figlio di Davide”.
Il regno è stato tolto ad Israele, colpevole di non aver capito i tempi, di non
aver compreso ciò che stava avvenendo fra le sue genti. Queste parole
risuonano ancora adesso: “Il regno vi sarà tolto”. E queste parole, nel
Vangelo, sono indirizzate ai discepoli, a quei discepoli dai quali discende il
popolo cristiano e sono quindi indirizzate a noi; a noi che ci gloriamo, con la
bocca, di Cristo e lo rinneghiamo con le opere. Dove sono le tue opere, nuovo
Israele, o popolo che ti chiami cristiano? Tu hai innalzato templi di marmo, e
questi templi hai popolato di false divinità; anziché rinnovare a tua natura e
fare il frutto che da te si attendeva. Che differenza vi è fra te ed i popoli del
gentilesimo? In che cosa operi con vera carità, unico distintivo del Cristo?
Oggi, le molte, le troppe chiese che si chiamano cristiane, hanno perduto
quel vigilante senso cristico che dovrebbe essere segno di riconoscimento.
Come gli antichi scribi e gli antichi farisei, discutono sulle scritture invece
che praticarle e, mentre essi disputano, i falsi cristi ed i falsi profeti
imperversano. Una generale indifferenza religiosa trova la sua giustificazione
in un’ignoranza ancor più generale; si va in chiesa per uso, per costume,
talora per convenienza, ma poi non è alla chiesa che si cerca aiuto, consiglio
o guida, non è nelle sacre Scritture che si indaga il mistero, non è in
coscienziose analisi che si cerca l’interpretazione più esatta ma nelle
conventicole spiritiche, nelle confuse manifestazioni di visionari, nella vaga
paura che un bel giorno un disco volante ci sbarchi un marziano a
raccontarci come vanno le cose in Marte, ci si rifugia come bambini nella
favola e, intanto, la vita spirituale vien meno nelle masse e negli individui.
Come la fantascienza per molti sostituisce la scienza, così una vaga
favolistica peudo-spirituale, sostituisce la vera religiosità che è vita vissuta
dello Spirito, che è umile e gaudiosa certezza del divino che è in ognuno.
Attenzione, o popolo cristiano, che il regno non sia tolto anche a te!
Attenzione, che non si dica di te ciò che si disse degli antichi idoli: “Hanno
occhi e non vedono, hanno orecchie e non odono, hanno piedi e non
camminano, hanno mani e non afferrano e non manda un grido la loro
gola”. Oggi, a duemila anni dalla Sua venuta, il Cristo è, più che mai,
sconosciuto e ignorato in mezzo al Suo popolo. A Maria, madre di Gesù,
Vergine partoritrice di Dio, tutta la nostra devozione, tutto il nostro amore,
pronti a riconoscere e a venerare tutti i suoi attributi, pronti a difendere i
dogmi che la riguardano, ma non è giusto che Essa sostituisca, nella mente
e nei cuori dei cristiani, il suo divin Figliolo! Di una Madre che preghi per
noi, abbiamo bisogno, ma di un Maestro che ci indirizzi alla méta, abbiamo
necessità. Oggi la Madre nasconde, agli occhi di troppi, il Figlio divino.
Torniamo a Cristo! Torniamo alla severa nudità del Suo insegnamento. La
dolce figura muliebre, la “Donna vestita di sole e coronata di stelle” sarà la
prima ad approvare ed a rallegrarsene. Che può bramare la Madre di Colui
che è venuto a portare il Fuoco nelle mani nude, se non che esso divampi nei
cuori e nelle menti dei seguaci? Solo così si onorerà Maria, aderendo al Suo
divin Figliolo con ogni facoltà della mente, con ogni entusiasmo del cuore,
Il mondo scivola verso il matriarcato con tutti i danni ad esso inerenti,
primo fra tutti l’influenza lunare e il predominio degli stati animici su quelli
mentali, del sentimento sulla ragion pura, dell’analisi sulla sintesi, del
personalismo, che può addirittura trasmodare in forme di culto, anziché del
rinnegamento o dell’annichilimento dell’io. Bisogna tornare alle grandi
concezioni che fecero grande l’umanità e che il Cristo esaltò nel concetto del
Padre che è nei cieli. Tornare al Padre, tornare al Figlio, sia pure
immergendosi nell’Anima di Maria, immedesimandosi in Lei, imparando da
Lei. Peculiare appare l’atteggiamento di Maria verso il divin Figliolo: “Essa lo
seguiva e serbava ogni cosa in cuor Suo”. E noi, noi come popolo cristiano,
imitiamo Maria? Ci ricordiamo che Maria è l’obbediente, l’osservante, l’umile,
la silenziosa, la ferma, la forte, la coraggiosa, la paziente? Solo così sarebbe
logica la via attraverso Maria che il popolo ha intrapreso: imitare Maria per
essere degni di Gesù. Ma non è proprio questo che si fa! Maria è la
mediatrice di grazie? Grazie dunque chiediamole, che Essa preghi per noi,
meriti per noi, supplichi per noi! Indubbiamente ciò è comodo, ma dubitiamo
che sia cristiano, perché il vero cristianesimo è assai più azione che
impetrazione.
“Cercate il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù”; ebbene,
noi cerchiamo tutto il resto. Il regno di Dio, infatti, è fuori dal tempo, e noi
vogliamo trionfare nel tempo. Il regno di Dio è rinunzia ed abnegazione, e noi
vogliamo possedere ed imporre la nostra personalità. Il regno di Dio è amore
e noi pratichiamo, di continuo, se non addirittura l’odio certo il malvolere;
siamo divorati dall’invidia. Il regno di Dio è giustizia e noi siamo parzialissimi
in ogni nostro moto interiore. Il regno di Dio è armonia e noi siamo
disarmonici. Il regno di Dio è quiete e noi siamo agitati. Il regno di Dio è
serenità e noi siamo nel turbamento. Il regno di Dio è conoscenza e noi ci
rifugiamo nell’ignoranza volontaria. Il regno di Dio è verità e noi scegliamo la
menzogna più piacevole. Il regno di Dio è mente e noi vogliamo esser corpo. Il
regno di Dio è essenza e noi vogliamo solo l’esistenza. Soffriamo e sappiamo
di soffrire, abbiamo in noi i mezzi per uscire dalla sofferenza e aspettiamo dal
di fuori quello che solo può giungerci dall’interno. In perenne contraddizione
con noi stessi e con Dio ci chiamiamo cristiani. Dove, come e quando lo
siamo?
E Gesù narrò un’altra parabola: “Il regno di Dio è simile ad un re, che fece
le nozze del suo figliolo e mandò i suoi servitori a chiamare gli invitati alla
nozze, ma questi non vollero venire. Di nuovo mandò degli altri servitori,
dicendo: “Dite agli Invitati: -ecco io ho preparato il mio pranzo; i miei buoi ed i
miei animali ingrassati sono stati ammazzati e tutto è pronto; venite alle
nozze. Ma quelli, non curandosene, se ne andarono chi al suo campo, chi al
suo traffico; altri poi, presi i suoi servitori, li oltraggiarono e gli uccisero. Allora
il re si adirò e mandò le sue truppe a sterminare quegli o omicidi e ad ardere la
loro città. Quindi, disse ai suoi servitori: “Le nozze, sì, erano pronte, ma gli
invitati non ne erano degni. Andate dunque sui crocicchi delle strade e
chiamate alle nozze quanti troverete. Quei servitori, usciti per le strade,
radunarono tutti quelli che trovarono, buoni e cattivi finchè la sala delle nozze
fu ripiena di commensali. Ora il re, entrato per vedere quelli che erano a
tavola, notò quivi un uomo che non aveva l’abito di nozze. Egli disse: “Amico,
come sei entrato qua senza avere un abito di nozze?” E quello non rispose.
Allora il re disse ai servitori: “Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre
fuori. Ivi sarà il pianto e lo stridor di denti. Poiché molti sono i chiamati, ma
pochi gli eletti”.
(Matteo: 22; 1 – 14 / Luca: 14; 15 - 24)
Per ben intendere questa parabola, occorre prima chiarire un particolare
di costume: spesso accadeva che re e signorotti usassero, per rendere più
splendide le loro feste, di convitare improvvisamente dei loro vassalli i quali
erano, logicamente, sprovvisti degli abiti acconci. Questi signori, erano soliti
tenere una forbita guardaroba, alla quale i servi attingevano, per vestire
convenevolmente gli invitati dell’ultima ora, il rifiutarsi di indossare quegli
abiti era grave offesa fatta al signore.
La parabola parla degli ultimi tempi. Quando la grande ora delle supreme
decisioni starà per giungere e i primi invitati (gli ebrei ed i cristiani) si
faranno, con i fatti, beffe dell’invito, Iddio manderà i Suoi Angeli a chiamare
da un capo all’altro della terra tutti quanti gli uomini, buoni e cattivi, e li
unirà nella sala del convito non chiedendo loro nulla di più di quanto
possono dare. Ma siccome Egli, sovrabbondando di tutti i meriti dei giusti,
avrà di che giustificare anche i peccatori, solo colui che rifiuterà di indossare
la bianca veste della giustificazione si vedrà scartato e respinto. Quindi, tutti
possono aspirare al regno dei Cieli, supplendo con l’amore del Padre, alla
scarsezza di mezzi di perfezione. Nell’ora suprema, solo una deliberata
malvagia volontà ci potrà separare dall’amore del Cristo.
Intanto la tragedia cristica precipita, Gesù sente incalzare i “Missi
Dominici” e a Sua volta incalza i Suoi discepoli: “Siate vigilanti siate pronti;
voi non sapete né il giorno né l’ora e utte le ore possono essere quell’ora e tutti
i giorni quel giorno. Io verrò di notte come un ladro”. Ad imprimere
maggiormente questo pensiero, fa questo paragone: “Siate vigilanti, voi non
sapete in qual momento il vostro Signore verrà. Ma considerate questo, che se
il Padre di famiglia, sapesse in quale ora della notte il ladro ha da venire ,
veglierebbe e non si lascerebbe spogliare la casa”. Ed ancora “Quale mai è
quel servo fedele e prudente che il padrone abbia costituito sui domestici per
dare loro il vitto a suo tempo? Beato quel servo che il padrone, venendo,
troverà a fare così; in verità vi dico che lo preporrà a tutti i suoi beni. Ma se si
tratta di un servo cattivo, che dicendo in cuor suo: - Il mio padrone tarda a
venire - e comincia a picchiare i suoi conservi e a mangiare e a bere con gli
ubriaconi, verrà il padrone di quel servo nel giorno che meno s’aspetta e
nell’ora che non sa: lo farà squartare e gli assegnerà la sorte degli ipocriti, ove
sarà pianto e stridor di denti”.
(Matteo: 24, 36- 51; Marco: 13, 32- 37;
Luca: 12, 38-40)
L’ora della giustizia può tardare, l’adempimento delle profezie può essere
in un tempo indeterminato. ma nessuno è autorizzato a non curare il suo
dovere di vita e di evoluzione. Dio ha fiducia negli uomini, ha dato loro un
compito, ha affidato a loro una missione, invano essi diranno: “Dio non c’è,
Dio non vede, Dio non si cura ed io faccio il comodo mio; mi imbestio nei
vizi, maltratto il mio prossimo, conculco la giustizia”. Ma Dio verrà di notte
come un ladro, non manderà preavvisi, non manderà profeti, troppi ne ha
mandati, ultimo è il Cristo, ed Egli ammonisce: “Attenzione, vigilate e pregate
per non cadere in tentazione, operate secondo giustizia, fate ciò che vi è stato
comandato di fare fatelo continuamente. Quando meno lo attenderete, Dio
sarà sopra voi. Nessuno è padrone del suo tempo e della sua vita, ognuno è
provvisorio sopra la terra”. (Luca: 21, 34- 38)
Verità, questa, che se
davvero fosse un po’ più presente alle nostre menti, ci permetterebbe di
vivere meglio e di operare di più.
E continuò Gesù: “Poiché avverrà come di un uomo, il quale, sul punto di
mettersi in viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. Ad uno
diede cinque talenti, ad un altro due e ad un altro uno, a ciascuno secondo la
sua capacità, e subito partì. Coli che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito
a trafficarli e ne guadagnò altri cinque. Allo stesso modo chi ne aveva ricevuto
due, ne guadagnò altri due. Ma chi ne aveva ricevuto uno se ne andò, fece una
buca in terra e vi sotterrò il denaro del suo padrone. Dopo molto tempo, ritornò
il padrone di quei servi e li chiamò a rendere i conti. Venne chi aveva ricevuto
cinque talenti e ne presentò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai affidato
cinque talenti, eccone guadagnati altri cinque”. Il padrone gli rispose: “Va
bene, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità sul molto;
entra nel gaudio del tuo signore”. Si presentò poi anche quello che aveva
ricevuto due talenti e disse: “Signore, tu mi hai affidato due talenti eccone
guadagnati altri due”. Il padrone gli disse: “Va bene, servo buono e fedele sei
stato fedele nel poco, ti darò autorità sul molto; entra nel gaudio del tuo
signore”. Venne pure quello che aveva ricevuto un solo talento, e disse:
“Signore, io sapevo che tu sei uomo duro, che mieti dove non hai seminato e
raccogli dove non hai sparso, ebbi paura e andai a nascondere il tuo talento
sottoterra, eccotelo”. Ma il padrone gli rispose così: “Servo iniquo ed infingardo,
sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso;
dovevi, dunque, portare il mio denaro ai banchieri e al mio ritorno avrei ritirato
il mio con l’interesse. Toglietegli perciò il talento a datelo a colui che ne ha
dieci; perché: a chi ha sarà dato di più ed egli sarà nell’abbondanza; ma a chi
non ha sarà tolto anche quel poco che ha. E questo servo inutile gettatelo nelle
tenebre eterne; ivi sarà pianto e stridor di denti”.
(Matteo: 25, 14- 30;
Luca: 19, 11- 27)
Su questa parabola occorre che ci fermiamo con molta attenzione. Essa
conferma amplificandola, il paragone dei due servi, riportando la mente a
meditare sopra grandissime verità. Il Signore è il Creatore della vita e il
Padre celeste, i servi sono gli uomini. Nessun uomo, venendo in questo
mondo, viene sprovveduto, a tutti Dio da’ con la vita un dono, e la vita stessa
è un dono. Anche semplicemente vivendo, anche serenamente accettando il
bene ed il male della vita, anche desiderando che si compia ciò cui fu la vita
stessa ordinata, è fare un gran bene. Così Iddio a taluno da’ solo la vita, ad
altri da’ varie capacità e con esse, naturalmente, varie responsabilità. A tutti
dice una sola cosa: “Trafficate i talenti che Io vi ho dato, perché dopo dovrete
darmene conto”. L’operosità del vivere che viene imposta dall’essere,
stabilisce che alcuno ha dieci talenti, altri cinque, altri uno; non importa il
numero dei talenti, importa che tutti i talenti siano utilizzati, trafficati, cioè
che rendano frutto. Chi ne ha dieci ne farà venti; chi ne ha cinque ne farà
dieci e chi ne ha uno deve farne due; “deve”, su questo non si transige.
Vivere deve significare meritare, la vita deve essere un guadagno, ma
questo concetto è il più difficile da far penetrare. Molti, troppi, non riescono
a capire l’intimo valore di questa parabola. I servi dell’unico talento sono
legioni, ma si comportano tutti nello stesso modo, seppelliscono il talento
anziché farlo fruttare, giudicano il padrone, invidiano i compagni e stan lì
neghittosi. E’ al servo dell’unico talento che oggi s’indirizza la parabola,
perché secondo il dono vi è la responsabilità; ma siccome nessuno è senza
dono, nessuno è senza responsabilità. Se tu hai un solo talento, non ti è
chiesto di farne con essi dieci, ti è chiesto di farne solo due, cioè ti è chiesto
di essere compreso del tuo compito, qualunque esso sia, anche spazzando le
strade o pulendo le verdure si può acquistare merito, se si fa con amore e
devozione ciò che si sta facendo. A nessuno è chiesto ciò che non può fare,
ma a tutti è chiesto di far bene ciò che possono fare. Vivere non significa
lasciare che i giorni passino così, come l’acqua scorre, vivere significa
misurare ogni ora con il metro del proprio respiro, con l’aspirazione della
propria volontà, con la preghiera del proprio amore.
Dice una pia leggenda: “Un saltimbanco aveva passato tutta la vita sulle
piazze dei paesi divertendo il pubblico. Egli non aveva mai sentito parlare del
Signore. Un giorno incontrò un monaco che gli parlò di Dio con così grande
affetto, che il saltimbanco se ne innamorò, perciò tutto il giorno pensava a Dio
e non sapeva come fare per rendergli gloria. Si rivolse allora a uomini religiosi,
ma essi avevano troppa scienza e gli confondevano le idee, così, ad un certo
punto, si disse: “Tu che hai sempre, con i tuoi salti e le tue boccacce, divertito il
pubblico delle piazze, ebbene, ora guarda se ti riesce a divertire un poco il
buon Dio che ami tanto! Certo, tu non sei perfetto nell’arte tua come il tale o il
tal’altro, però sai cavartela discretamente. Su, saltimbanco, datti da fare,
mostra al buon Dio che vuoi fargli piacere”. Così stabilito, si recò con i suoi
attrezzi nel tempio in un’ora che questo era deserto e, dinanzi all’altare, eseguì
i suoi esercizi più belli e più difficili. Dio, gradì molto l’omaggio dell’umile fedele
e, al termine dello spettacolo, mandò un Angelo a condurre nel regno dei Cieli
il buon saltimbanco ed esso, in forma di candida colomba, fu visto ascendere
in cielo”.
Sin qui la leggenda, ma la nostra meditazione deve andare oltre; Dio ci
chiede solo l’uso intelligente di ciò che ci ha dato, nulla di più e ce lo chiede
per compensarcene. Noi dobbiamo vivere, ma vivere bene, generosamente,
arditamente, vivere con gioia, in letizia, vivere perché la vita è sempre un
dono di Dio; vivere coscientemente, perché alla fine Dio ci chiederà conto del
come la abbiamo saputa vivere. Sfuggire le responsabilità, allontanare le
cure, temere gli errori per ciò che le gente ne potrà dire, non è trafficare il
talento! Se il servo pigro fosse stato operoso, forse avrebbe perduto il talento,
ma avrebbe potuto dire: “Signore, ho cercato di obbedirTi, ma mi è andata
male, ho perduto il talento che mi hai affidato”. E il Signore avrebbe risposto:
“Figliolo, non importa se tu l’hai perduto, poiché hai cercato di fare la mia
volontà, ciò ti valga come l’avessi fatta. Ti ho dato un solo talento perché
sapevo che non saresti stato un buon trafficante, ma poiché ti sei curato solo
di obbedirmi, ti ripeto, ciò ti valga come tu avessi fatto un grande interesse”.
La nequizia del servo, non consiste nel non aver fatto l’interesse del padrone,
consiste nel non aver tentato di farlo. Dio ci chiede così poco, per darci come
premo l’eternità del Suo possesso divino! Molti o pochi siano i talenti che le
vita ci ha dato, non curiamoci che di trafficarli, tanto meglio per noi se in
questi traffici suderemo e ci arrovelleremo. Siamo fedeli nel poco e la vita,
che è Dio stesso, ci affiderà il molto.
Ora, giudichiamo sommamente importante parlare al servo neghittoso.
Vogliamo dire a costui: “Non buttare la tua ricompensa, vivi, per umile che
sia la tua vita, per piccolo che sia il tuo intelletto, tu puoi trarne frutto; non
ti si chiede che questo. Non invidiare chi ha avuto più di te, perché più di te
dovrà rispondere. Non giudicare il padrone del talento se ha fatto del suo ciò
che meglio credeva, curati solo di rispondere bene del tuo; non seppellire il
talento, non soffocare la vita, non rendere inutile il soffio divino che ti
anima”. Non esistono vite inutili fuorché per colui che rende inutile la sua
vita. Dio non ci rimprovera di render poco, ci rimprovera di rendere niente. Il
narcisismo, di qualsiasi natura sia, è questo “non render niente”. Narcisismo
è il ripiegamento su se stessi, l’ammirare la propria personalità, il
compiangere la propria vita, il sentirsi defraudato di qualcosa. Anche la falsa
umiltà di ammirare le opere altrui per esimersi dal fare le proprie, anche il
pigro applaudire l’altrui attività è narcisismo! Ognuno faccia quello che deve
fare e Dio farà che ognuno abbia la sua ricompensa. Ma che vuol dire fare?
Un paralitico sulla sua poltrona, un atrofico in un letto d’ospedale, fanno
qualcosa se non sanno meditare, pensare, sublimare la loro parte spirituale?
Se sopportano con serenità le loro infermità, se hanno pazienza, se si
rallegrano di essere causa di meriti a chi li assiste, essi fanno non solo
qualcosa, fanno molto. Chi accetta di vivere con la consapevole sicurezza che
la vita è buona, in qualunque modo si svolga, fa qualcosa di grande e di
meritorio. Naturalmente, chi più ha più dia, chi più sa più insegni, chi è più
forte porti i pesi maggiori e non critichi chi porta piccoli pesi che per lui sono
grandi. Impariamo a renderci edotti dei nostri talenti; il padrone ci chiederà
conto solo di ciò che ci ha affidato, nessuno risponderà per gli altri, ma
ognuno risponderà per se stesso. Se capiremo ciò avremo fatto un gran
passo nella via della vita ed avremo, in tal modo, capito l’essenziale. La
parabola dei talenti fu narrata per ognuno di noi e ad essa ognuno di noi
deve imparare a riferirsi.
Gesù prese a narrare un’altra parabola e disse: “Allora, il regno dei cieli
sarà simile a dieci vergini le quali, prese le loro lampade, uscirono incontro allo
sposo. Ora, cinque di queste erano stolte e cinque prudenti. Le stolte, nel
prendere le lampade, non s’erano provviste d’olio; le prudenti invece
portarono, insieme con le lampade, anche l’olio nei vasi. Siccome lo sposo
tardava, cominciarono a sonnecchiare e si addormentarono. Sulla mezzanotte
si udirono voci: “Ecco lo sposo, andategli incontro!” Si levarono allora, tutte
quelle vergini e prepararono le lampade. Le stolte dissero alle prudenti: ”Dateci
un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Ma le prudenti
risposero: “No, temiamo che non basti né a noi, né a voi; andatevene piuttosto
da quelli che lo vendono e compratene”. Ma, intatto che esse andavano a
comprarne, arrivò lo sposo; e quelle che erano pronte, entrarono con lui nella
sala delle nozze e l’uscio venne chiuso. Più tardi, vennero le altre vergini,
dicendo: “Signore, Signore, aprici!” Ma Egli rispose: “In verità vi dico: non vi
conosco”. Vigilate, dunque, poiché non sapete né il giorno; né l’ora”. (Matteo:
25, 1- 13)
Questa importante parabola concerne due specie di umani aspetti e cioè:
riguarda le nazioni così come gli individui. La figura delle dieci vergini, tutte
con la lampada, ma alcune con la scorta dell’olio e altre no, differenzia
l’atteggiamento dell’attesa. Vediamo dunque prima l’aspetto dei popoli, poi
vedremo quello degli individui. Lo sposo che deve venire è il Cristo. In altre
parti di questo lavoro, noi abbiamo lungamente parlato dell’attesa universale
del Cristo e delle molteplici sue controfigure e protofigure. Le dieci vergini
rappresentano le razze e nazioni umane che lo attendevano; la lampada,
simboleggia la ragione naturale che illumina indistintamente tutti gli uomini;
l’olio di scorta, simboleggia la fede ideale. la speranza, l’amore che deve dare
la virtù della pazienza, la genialità dell’intuizione, perché ad un certo punto
la ragion naturale di per se stessa non basta. Così, alcuni popoli arrivarono,
per la ragione naturale, alla conoscenza del Cristo, ma non seppero
attenderLo svegli e, quando venne, non lo riconobbero. Anche i popoli più
ricchi di ideali e di speranze si addormentarono nell’attesa, ma quando Egli
venne, ebbero di che rifornire le lampade d’olio e poterono entrare con Lui
nella sala delle nozze. Ciò spiega il perchè popoli evolutissimi, come in
genere i popoli orientali e semitici, non abbiano avuto l’intuizione del Cristo,
come più tardi lo ebbero i popoli barbari e grezzi quali gli ariani occidentali, i
greci ed i romani. Ma ciò che è vero per le razze è vero del pari per gli
individui di esse razze.
Gli uomini possono, per la ragion naturale, accendere le loro lampade e
illuminare la via; possono perciò conoscere e sapere quello che attendono. I
saggi si fanno una scorta d’olio, cioè: coltivano virtù e alimentano entro di
loro la fede, la speranza e la carità. Gli stolti presumendo che basti la ragion
naturale, non si curano di farsi una scorta, e allora, quando l’attesa dura a
lungo, si addormentano. I saggi come i folli, sono tutti svegliati dalla voce
che grida: “Ecco lo Sposo!” Tutti sono svegliati, ma le lampade alimentare
solo dalla ragion naturale, sono spente e l’olio è finito; solo le lampade
alimentate dall’intuitiva virtù hanno una scorta d’olio che permette loro di
ardere. La ragion naturale ci può fare onesti e retti, ma è la grazia
soprannaturale che ci fa saggi e santi e, se la prima serve per l’esistenza, la
seconda è indispensabile per raggiungere la vita Eterna. La ragion naturale
ci fa uomini. la grazia soprannaturale ci fa dèi.
Le quattro Cariti sono, nella natura dell’uomo di creta, indispensabili per
sussistere su questa Terra, ma sono le loro soprannaturali sorelle, le “virtù
teologali”, che permettono l’ingresso nel regno di Dio. Il termine “Teologali”
sta proprio ad indicare la natura divina di esse virtù; è nella natura divina
dell’uomo che esse germinano e operano. Anche per fare il male occorrono le
virtù cardinali, non si creda che ad essere malvagi sia comodo ed agevole,
spesso occorre più forza d’animo, più costanza, più tenacia nel volere il male
che non volere il bene. Se noi analizziamo la più fredda figura del criminale
perfetto, quella di Cesare Borgia, detto duca Valentino, noi siamo costretti a
riconoscere che egli, le quattro virtù cardinali, le possedeva in sommo grado.
Nessuno era più di lui capace di forza morale, di temperanza, di prudenza e
di giustizia, intesa come fedeltà ad un impegno di omertà verso i suoi
seguaci. Ma il duca Valentino era del tutto privo del più pallido bagliore di
virtù teologali; perciò niuna fede spirituale, niuna idealità da proiettare oltre
se stesso. Feroce disprezzatore del più piccolo raggio d’amore, egli non fu che
una terribile e splendida belva. La ragion naturale, ardeva nella sua lampada
di una luce così viva che, Niccolò Macchiavelli, in questo tipico signore del
rinascimento, si ispirò in parte, per la figura vagheggiata nel “Principe”. In
questo libro egli riassume la vita di Cesare Borgia e, questa descrizione, è
fatta da un analista tanto più spietato quanto più entusiasta del soggetto. Il
Borgia poteva essere un buon principe, ma non era un uomo buono
Durare pazientemente nelle avversità, essere morigerati nel mangiare e nel
bere, procedere con cauta esperienza in ogni cosa, mantenere ad ogni costo
gli impegni presi, sono caratteri umani. Credere nella vita dello Spirito,
credere nella vita divina ed aderirvi, malgrado ogni evidenza contraria;
sperare fortemente in un’alta idealità di bellezza e di armonia, amare i propri
nemici, servire i propri amici e, soprattutto, amare ineffabilmente Iddio come
cagione prima ed unica di ogni bene, ecco il carattere di chi assurge al
Divino, il carattere di chi ha olio per la sua lampada, prima e dopo il sonno
della morte; il carattere di chi entrerà con lo sposo nella sala del convito. La
ragione naturale ha, come sue espressioni, i mezzi animici con tutte le loro
possibilità di vibrazioni, ma la natura soprannaturale dell’uomo sale con il
puro intelletto alle bellezze eterne dello Spirito e si compie nella
contemplazione serena e sicura. La ragion naturale serve per “esistere” e non
per “essere”; serve per un piano di contingenza non per un piano di essenza
e assolutezza. Per entrare nella sala del convito con lo sposo, occorre
sviluppare la natura spirituale, essere cioè sopra la natura corporea
esistenziale. Solo l’olio di riserva, l’olio che non si vede, ci permetterà di
accendere la lampada ancora una volta, la lampada che si è spenta: la
lampada della vita.
“Vergini sagge” sono coloro che credono contro ogni evidenza, che sperano
contro ogni apparenza, che amano contro ogni manifestazione di disamore.
“Vergini folli” sono coloro che credono solo a ciò che vedono o che credono di
vedere, che confidano solo in ciò che possiedono o credono di possedere e
che, per amare, aspettano di essere amate e ancora hanno paura di
slanciarsi. La lampada l’hanno le une e le altre, ma le prime possono
riaccenderla se spenta, le altre no. E le prime entreranno nella sala del
convito, ma non entreranno le altre. Ognuno di noi è una di queste vergini,
se sagge o folli spetta ad ognuno di noi stabilirlo. Mentre aspettiamo
cominciamo ad ispezionare la nostra lampada ed a controllare la nostra
provvista d’olio, non sappiamo se lo sposo tarderà o meno, ma sappiamo
che: se la lampada non è accesa, non entreremo nella sala del convito.
Inutile sarà poi chiedere l’olio a chi l’ha, perché chi l’ha non può darcene,
che, se ce ne desse, non basterebbe né a noi, né a lui. Nessuno può meritare
per nessuno, eccetto il Cristo, nessuno può pagare per nessuno! Cristo ha
meritato ed ha faticato una volta per sempre; adesso ognuno di noi risponde
in proprio per il bene e per il male, per la saggezza e per la follia. Aspettiamo
dunque lo sposo con le lampade accese e con l’utello colmo; saremo noi
fortunati se faremo così.
Gesù, continuando il Suo insegnamento, disse: “Verranno giorni che
desidererete vedere uno dei giorni del Figliol dell’Uomo e non lo vedrete. E vi
dirànno; “Eccolo là, eccolo qui”; non andate e non li seguite; perché come è il
lampo che balenando risplende da un’estremità all’altra del cielo, così sarà
per il Figliol dell’uomo nel suo giorno. Ma prima è necessario che Egli soffra
assai e sia rigettato da questa generazione. E come avvenne ai giorni di Noè,
avverrà pure ai giorni del Figliol dell’Uomo. Gli uomini allora mangiavano e
bevevano, si prendeva moglie e si andava a marito, fino al giorno in cui Noè
entrò nell’arca; e venne il diluvio e li fece perire tutti. Così pure accadde ai
giorni di Lot:: si mangiava, si beveva, si comprava, si piantava, si edificava,
ma nel giorno che Lot uscì da Sodoma, piovve dal cielo fuoco e zolfo che li fece
tutti perire. Lo stesso avverrà nel giorno in cui il Figliol dell’Uomo si
manifesterà. In quel giorno, chi sarà sulla terrazza, ed avrà la sua roba in
casa, non scenda a prenderla e, parimenti, chi sarà nei campi non torni
indietro. Ricordatevi della moglie di Lot. Chi cercherà di salvare la sua vita la
perderà; ma chi la perderà, la custodirà. Io ve lo dico: in quella notte due
saranno in letto, l’uno sarà preso e l’altro lasciato. Due donne macineranno
insieme, una sarà presa e l’altra lasciata; due uomini saranno nel campo, uno
sarà preso e l’altro lasciato”. E ancora io vi dico questa parabola per mostrare
che bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai.
(Matteo; 24, 26 –28; 36-44: Luca; 17, 20-37)
“C’era in una città un giudice che non temeva Iddio, né aveva rispetto per alcun
uomo; in quella città vi era una vedova, la quale andava da lui dicendo: “Fammi
giustizia del mio avversario”. Per molto tempo colui non volle farlo , ma poi disse fra
sé: “Benché io non tema Iddio e non abbia rispetto ad alcuno, siccome questa
vedova mi dà molestia, le farò giustizia, in modo che essa non venga a tormentarmi
sino alla fine”. E il Signore proseguì: “Ascoltate quel che dice il giudice iniquo. Ora,
Dio non farà giustizia ai suoi eletti i quali lo invocavano giorno e notte o sarà lento a
loro riguardo? Or io vi dico che prontamente Egli renderà giustizia. Ma quando il
Figliolo dell’uomo verrà, troverà ancora fede sulla Terra?”.
(Luca; 18, 1-8)
“Ovvero, qual è quella donna, che avendo dieci dracme e perdendone una, non
accenda la lucerna e non spazza la casa e cerca attentamente finché non l’abbia
trovata? E quando l’ha trovata, chiama intorno le amiche e le vicine e dice loro:
“Rallegratevi meco, perché ho ritrovato la dracma che avevo perduta”. Così vi dico, si
fa festa in presenza degli Angeli di Dio, per un solo peccatore che si pente”.
(Luca: 15, 8- 10)
Poi disse loro: ”Se qualcuno di voi ha un amico, va a trovarlo a mezzanotte e gli
dice: ”Amico, prestami tre pani, perché un amico mio in viaggio è arrivato a casa mia
e non ho nulla da offrirgli, e se colui dal di dentro risponde: ”Non importunarmi,
l’uscio è già chiuso ed i miei figli sono coricati con me, e non posso alzarmi per
darteli”. Io dico che: anche se egli continuerà a bussare, l’altro non si alzerà a
darglieli perché è suo amico, si alzerà invece per la sua insistenza e gliene darà
quanti gli occorrono. Io altresì vi dico: Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete;
bussate e vi sarà aperto. Poiché chiunque chiede riceve, chi cerca trova e sarà
aperto a chi bussa; pregate e non stancatevi di pregare”.
(Matteo; 7, 7 –10: Luca; 11, 5-13)
Cristo, cerca in tutti i modi di far penetrare, nella mente dei suoi discepoli,
questa importantissima fra le regole di qualsiasi ascesi. Che significa
pregare? Pregare, significa elevare la propria Anima a Dio, staccandola dalle
cure terrene. Pregare, vuol dire assurgere, mediante il pensiero, a mondi
super umani. Gesù porta i paragoni semplici e umili. Se persino un giudice
iniquo e un vicino annoiato, hanno accontentato il supplice, non fosse altro
che per togliersi la noia; come mai il Padre Celeste non accontenterà i Suoi
eletti che dicono Gesù, Gesù, e l’invocano giorno e notte? Questa preghiera
continua, unita allo stato di continua vigilanza, contraddistingue lo Spirito
sulla strada evolutiva. Non bisogna stancarsi di chiedere, ma di chiedere
cosa e come chiedere?
Gesù prevede la domanda ed incalza con l’altra parabola: “Due uomini
salirono al tempio a pregare, l’uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo,
ritto sui piedi, pregava dentro si sé così: “Ti ringrazio, o Dio, perché io non sono
come gli altri uomini rapaci, ingiusti, adulteri; e nemmeno come questo
pubblicano. Io digiuno due volte la settimana, pago la decima su tutto ciò che
posseggo. Il pubblicano, invece, stando da lontano, non ardiva neppure alzare
gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: “O Dio, abbi pietà di me,
perché io sono un peccatore!” Io vi dico, che questi tornò a casa sua giustificato
a differenza dell’altro; perché chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia
sarà esaltato”.
(Luca: 18, 9- 14)
Fare orazione! Ogni volta che questa parola è pronunciata o scritta,
qualcosa o qualcuno sogghigna. Per il mondo, il fare orazione è scandalo,
così come è di scandalo per ogni Anima superficiale. Molti poi confondono
l’orazione con la petizione o con la richiesta di grazie materiali e di favori
concreti. Invece, il fare orazione dovrebbe costituire la massima occupazione
per uno Spirito intelligente, per una mente aperta al soffio del Divino. Colui
che fa orazione, è simile ad un pescatore di perle, che ogni tanto sale alla
superficie del mare per riempire d’aria i suoi polmoni e per poter così
continuare il suo lavoro. Chi fa orazione. infatti, leva se stesso nello spazio
divino e respira la pienezza del soffio spirituale; dopo può sprofondare nelle
miserie e nelle mefitiche bassure dell’esistenza, tanto egli sa che sopra la
nebbia c’è il sole e, sopra le acque limacciose, c’è l’aria pura che egli può
respirare se lo vuole. “Vigilate e pregate per non cadere in tentazione”.
Queste parole non sono state dette per dire qualcosa, sono state dette per
insegnare qualcosa. Si vuol dire: “chi lavora prega”; ciò è vero fino ad un
certo punto, in realtà chi prega lavora e lavora al vero ed unico lavoro che è
quello della plasmazione spirituale, della realizzazione della divina
somiglianza. Ma come pregare? Ai discepoli, che gli richiedevano di questo.
Gesù risponde insegnando il “Pater Noster”. Il Pater Noster, che non è una
preghiera, come comunemente s’intende, ma presenta uno schema di sette
stupendi soggetti di meditazione; perché la preghiera è meditazione, è
lavorare interiormente all’individualizzazione della verità, alla compiuta
realizzazione del quantum di conoscenza che lo strumento mentale può
adire. Il resto, tutto il resto è dato in soprappiù. però colui che riesce,
attraverso l’orazione, di concepire la giustizia del regno di Dio. riesce
automaticamente ad avere tutto il soprappiù. Le perle più belle non le pesca
colui che indugia molto sul fondale, ma colui che sale di frequente alla
superficie delle acque; colui che fa orazione di frequente, è questo pescatore
di perle.
La vita materiale è soggetta alla vita spirituale, colui che vive di più nello
Spirito è colui che meglio signoreggia la materia. Ma il mondo si scandalizza
dell’orante e, a modo suo, ha ragione, perché: chi prega vince il mondo. Il
diavolo non teme tanto la virtù umana quanto l’umana orazione . Si può
corrompere il sale della terra, ma l’oro non si può corrompere; l’uomo
virtuoso e non orante è il sale, ma l’uomo orante è l’oro. Chi infatti inseguirà
un figlioletto stretto fra le braccia di un padre forte? E allora, come potrà il
diavolo stornare dal vero colui che si è rifugiato nella verità? Così, nessuno si
fidi di se stesso, ma tutti cerchino l’aiuto dove è in realtà, cioè, nel pensiero
dell’uomo. Infatti, colui che prega, non è che accumuli in una vuota
recitazione molte parole, vuota recitazione che il Cristo stesso stigmatizzò
con una frase rovente. Ma colui che prega entra nel tempio interiore ed ivi
adorna Iddio in Spirito e verità. L’orazione, così diviene ascesi, il grande
pensiero distrugge le vane fantasticherie e la grande forza sovviene ad ogni
debolezza. L’orante non è migliore degli altri, ma ha sugli altri questo
vantaggio: egli conosce il proprio limite. In ogni religione, che si vanti di
avere origine nello Spirito, noi vediamo che un grandissimo posto è sempre
dato all’interiorizzazione. Tutte le pratiche del culto esterno sono considerate
come utili e anche necessarie in certi casi, ma esse sono ben poca cosa in
fronte all’importanza dell’azione spirituale. Solo nella pienezza dello Spirito
infatti, l’uomo può dire di “essere” e l’uomo si avvicina alla pienezza dello
Spirito solo attraverso l’opera interiorizzante della meditazione.
Colui che penetra, anche solo una volta, nel segreto asilo della conoscenza
sa, per prova, che cosa ivi si trovi e non può staccarsene più; ma il difficile è
penetrarvi. Tutto lo studio religioso consiste nel rimuovere gli ostacoli che
impediscono la meditazione: è perciò che la forma religiosa insiste tanto sul
piano precettistico, in quanto che: il precetto ha, di per se, la funzionalità
specifica di predisporre lo Spirito al raggiungimento di questo stato. Più
l’uomo si libera dalle forme passionali, più esce dal piano contingente e più
attinge ai vertici del pensiero; più attinge ai vertici del pensiero più si rende
capace di individuare il punto supremo in cui tutto si fonde nell’unità piena
e raggiunge la piena liberazione della natura divina. Allora, la vita è bellezza
e pienezza, gioia e libertà, allegrezza di ogni ora e sicurezza del sempre, a
quel punto, il tempo come lo spazio non hanno più alcun significato. Il mio e
il tuo si perdono in un vuoto di significato, così l’onore e il disonore, la
ricchezza e la miseria, la salute e la malattia. Tutto ciò che affascina gli
uomini; che turba, che interessa e che gli uomini asservisce, perde ogni
importanza. “Ognuno è sé stesso e più non è se stesso”, come giustamente
osserva l’apostolo. Se non fosse per la precarietà della natura di creta,
l’uomo vivendo non saprebbe di vivere, né morendo di morire, perché in Dio
non è né vita né morte, né tempo né spazio, ma è solo Eternità e l’Eternità,
cosi come non ha principio, non ha fine. Anche se il cristianesimo, nella sua
attuale decadenza, ha perduto il contatto con il divin fondatore, è e rimane la
più aristocratica delle formule religiose. Il cristianesimo mira al
potenziamento dell’uomo di creta in uomo di Spirito, alla realizzazione della
redenzione dal piano delle apparenze. Seguire la via cristica non è facile; è
vero che: chi lo facesse, sarebbe appagato in pieno di ogni suo desiderio e di
ogni sua aspirazione, ma resta sempre il fatto che, per essere cristici,
bisogna prima compenetrarsi della convinzione piena dell’inutilità di molte,
di troppe cose. Non è facile rinnegare se stessi e questa è la prima
condizione, rinnegare se stessi non significa solo rinunziare a questo o a
quello; significa, in tutte le lettere, rinunziare a sé medesimi, ad essere morti
vivendo: “Solo chi non vorrà salvare la sua vita la salverà”.
Con la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone, Gesù, aveva vari
intendimenti; essa è una delle poche parabole sociali, poiché, checché si
dica, Gesù Cristo non fu affatto socialista. Il problema sociale non lo turbava
e non poteva turbarlo; Esso infatti è di per sé inesistente, perché non esiste
la società, “Esiste l’uomo e c’è Dio”, Dio che è Padre di tutti gli uomini. Per
chi accetti questo vero, non vi è che un dovere fraterno di per sé sufficiente a
cancellare ogni altro problema; e per chi questo vero non accetti, il problema
sociale esiste solo come azione coercitiva. Nessuno può essere costretto ad
amare, poiché l’amore è libero atto di libera volontà. Chi non intende l’amore
come un supremo diritto, non lo intenderà mai come imposto dovere.
Abbiamo detto che l’amore è un diritto: la libera coscienza, di per se stessa
consapevole, ama perché vuole amare; ora, qualsiasi atto sia fatto in virtù di
libera volontà non coercitiva e non convinta, è atto di diritto. Dio ha il diritto
di amare e l’uomo lo ha del pari. Non s’impone l’amore, esso non è legato a
vincolo di bene e di male, d’interesse o di egoismo, d’istinto o di legge; esso è
Spirito. perciò totalmente libero e padrone di sé. La più alta maniera per
somigliare a Dio è, per l’uomo, quella di amare: di amare Dio che non vede,
ma intuisce; di amare il suo prossimo umano che vede e non conosce.
l’immensa potenza dell’amore nasce dalla Sua infinita libertà.
L’odio, invece, è sempre imposto da qualcosa, esso germina dalla paura,
dal bisogno, dall’invidia, si scatena dall’urto delle mille contrastanti ragioni
di vita, delle mille contrastanti maniere dell’esistere. L’odio è una triste legge
della schiavitù; anche il bruto può odiare e il diavolo è solo odio, ma l’amore
no! L’amore è legge di libertà, l’amore può riversarsi anche sul nemico, anche
sulla cosa più spiacevole. L’amore non conosce né limiti, né ostacoli, ignora
le paure, ignora le invidie, ignora gli egoismi, ignora ogni potenza limitante e
ostacolante, esso supera tutto, comporta tutto, comprende tutto. Esso è
generoso, paziente, indulgente, tollerante e mite, ma può essere più terribile
di un’armata in battaglia, più travolgente di un uragano, più assoluto di un
incendio, più pieno di un oceano. Chi ama è tutto, chi non ama è nulla; chi
ama può tutto, anche creare e distruggere mondi; chi non ama non può
nulla, neppure esistere, poiché: anche l’esistenza pone la sua ragione
nell’amore, sia pure un povero amore deteriore, un amore mutilato e tradito,
un amore rinnegato, ma pur sempre amore. L’inferno è tale, non per le
sofferenze che racchiude, ma per l’impossibilità che ivi si ha di amare. Se un
dannato, nell’inferno, potesse per un attimo solo amare, l’inferno sarebbe
distrutto di colpo. La tragedia della recisione eterna è quella della privazione
della facoltà di amare. Il tralcio che si dissecca e si separa dalla vite, è il
tralcio che rifiuta di amare. Dio ha creato negli uomini, in tutti gli uomini,
l’intelletto d’amore, ma esso, l’abbiamo detto, è un diritto che deve essere
esercitato: se questo diritto non viene esercitato, esso decade e si perde.
Il triste operare del diavolo consiste nel cercare che gli uomini
dimentichino di avere questo diritto e dimentichino di esercitarlo. Non vi è
peccato che non possa essere rimesso, fuorché il peccato di non amare. Chi
non ama rinuncia alla società di Dio e fa società con il diavolo; poiché: “Amor
omnia vincit”, tutto vince l’amore. Il diavolo non può persuadere a non
amare, ma può pervertire la facoltà di amore, potenziando l’egoismo della
personalità e deviando verso ingiuste mete la grande corrente; allora l’amore
pervertito diventa odio, rancore, invidia e paura; allora il diavolo trionfa e se,
sino all’ultimo istante, riesce a mantenere pervertito l’amore, allora l’Anima
diventa suo miserabile mancipio.
Se l’uomo può cessare di amare, Dio non cessa di amare! Il dannato
nell’inferno odia Iddio, ma noi siamo convinti che Dio lo ama ancora, siamo
convinti che anche l’inferno sia una necessità dell’amore di Dio, una
necessità amara e dolorosa per Dio stesso, ma pure prevista e scontata dalla
Sua misericordia. Anche un padre terreno può sottoporre un figlio a penose
operazioni e mutilazioni pur di salvargli la vita. Anche un padre terreno può
far chiudere in carcere il figlio deviato, ma con questo il padre non cessa di
amare suo figlio, non cessa di soffrire per lui e di adoperarsi in suo pro.....
Ora, se un padre terreno può fare questo, come potrebbe non farlo il Padre
Celeste? Anche il tralcio reciso dalla vite sarà arso nel fuoco, ma le sue
ceneri verranno, dal vignaiolo, sparse ai piedi della vite come concime e la
vite le assorbirà e diverranno ancora vite, diverranno linfa della vite, origine
a nuovi polloni e a nuovi tralci.
Noi siamo rigidamente legati ad affermazioni troppo categoriche, che in
più sono in contrasto fra di loro. Noi crediamo che la discesa agli inferi
continui e che l’operante amore di Cristo non sia cessato. Come Egli è
immanente sulla terra, Egli è per noi immanente anche negli abissi. Noi
crediamo perciò fermamente che l’amore salvifero non abbia ancora detta
l’ultima parola perché, se così fosse, Dio sarebbe in contraddizione con Dio e
gli uomini sarebbero migliori dell’Uomo. Ma torniamo alla parabola del
povero Lazzaro e del ricco epulone. Gesù non è mai stato tenero con i ricchi,
non perché demagogicamente odi la ricchezza, ma perché in essa Egli vede
un triste potere di ottundimento, un potere di annichilimento delle facoltà
spirituali. Il ricco è, nella casistica cristiana, quasi sempre lo sciocco, il folle
che corre dietro all’ombra sacrificando il corpo; colui che è schiavo dei beni,
anziché trattare i beni da suoi propri schiavi. Ma se Gesù, vede nel ricco lo
stolto, non per questo, ancora una volta lo ripetiamo, è un socialista; come
comunemente lo si intende. Folle è colui che della ricchezza si fa un
padrone, saggio è colui che della ricchezza se ne fa una schiava. “Collocate il
vostro tesoro in alto, dove la tignola non rode, dove il ladro non ruba; date ai
poveri le vostre ricchezze e avrete un tesoro nei cieli”. Questo è
l’insegnamento cristico e nel caso del ricco epulone, esso è ripreso.
Narra la parabola: “C’era un uomo ricco, il quale vestiva di porpora e di
bisso, e tutti i giorni dava grandi pranzi. C’era poi anche un poveretto,
chiamato Lazzaro, il quale, pieno di piaghe, giaceva alla porta di lui, bramoso
di sfamarsi con le briciole che cadevano dalla tavola del ricco, ma nessuno glie
ne dava: soltanto i cani venivano a leccargli le piaghe. Ora, avvenne che il
povero Lazzaro morì e fu portato dagli angeli in seno ad Abramo; morì anche il
ricco e fu sepolto nell’inferno. Alzando questi gli occhi mentre era nei tormenti,
vide da lungi Abramo e Lazzaro in seno a lui. Ed esclamò : “Padre Abramo,
abbi pietà di me, e manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del suo
dito per rinfrescare la mia lingua, poiché io spasimo in questa fiamma. Ma
Abramo gli disse: “Figliolo, ricordati che ricevesti la tua parte di beni durante
la vita, mentre Lazzaro ebbe, invece, la sua parte di mali; perciò ora questi è
consolato e tu sei tormentato. Oltre a tutto ciò una grande voragine è posta fra
voi e noi, in modo che, chi vuol passare di qui a voi non può, né di là si può
passare a noi. E quegli replicò: “Ti prego, dunque, o Padre, che tu lo mandi alla
mia casa paterna, perché ho cinque fratelli, affinché attesti loro queste cose,
onde non abbiano anch’essi a venire in questo luogo di tormento”. Abramo
rispose: “Hanno Mosè ed i profeti, non crederanno neppure ad un morto
resuscitato”.
(Luca: 16, 19- 31)
Sin qui la parabola. Adesso a noi l’interpretazione, cosa non semplice anzi,
molto complessa, poiché in questa parabola molteplici sono i motivi che si
intrecciano e quasi si contraddicono. La figura del ricco, se pure appena
abbozzata, è potente. Egli è il ricco ignavo, il ricco crudele con il povero non
per malvagità d’animo, ma per insipienza, per indifferenza pigra. La parabola
dice: “Il povero Lazzaro desiderava avere le briciole della mensa del ricco, ma
nessuno gliene dava. Forse il ricco faceva regolarmente le sue offerte al
tempio (come oggi molti versano i contributi alle varie istituzioni, alle varie
assistenze e con ciò ritengono di aver fatto tutto il loro dovere verso il fratello
in necessità). Gesù, evidentemente, non l’intende così. La vera colpa del
ricco, è di non aver accolto il messaggio di dolore che la provvidenza gli aveva
inviato in Lazzaro, di essere rimasto indifferente dinnanzi alla rovina umana
che gli era stata sottoposta; di non avere, in una parola, amato. Il ricco a
Lazzaro, non fa né bene né male e qui sta l’errore massimo, nessun uomo ha
il diritto di non occuparsi dell’uomo. La carità per legge o la carità per
interposte persone non vale; vale il gesto del cuore, il piegarsi dell’uomo
sull’uomo, l’aderire all’altrui necessità sia pure con le briciole, quando non si
hanno maggiori possibilità.
Il ricco nel suo inferno vede Lazzaro nella sua beatitudine, lo vede come
l’incarnazione della sua colpa; Lazzaro: al quale non diede soccorso mentre
avrebbe potuto, senza alcun disturbo, fargli tanto bene! Lazzaro: la buona
occasione respinta che ritorna mutata in colpa. A Lazzaro chiede aiuto, cioè:
al bene che si poteva fare e non si è fatto si rivolge sempre l’anima in pena e,
questo bene che si poteva fare e non si è fatto, diventa strumento anche
involontario di accrescimento di pena. Ma qui si intrecciano altri motivi.
Lazzaro è nel seno di Abramo e di lì contempla la pena del ricco, forse da lui
invidiato. Orbene, il seno di Abramo è forse il regno di Dio? Evidentemente
no! Allora esso è uno dei tanti paradisi-inferni, ove la personalità si diverte e
dove la rivalsa costituisce il massimo premio. Ivi il giusto vede punire il
peccatore, il povero vede i suoi cenci glorificati e la porpora del ricco avvilita.
Il ciclo della rivalsa va oltre, colui che era sprezzato come l’ultimo degli
uomini, viene cercato ed invocato come mediatore.
Il regno di Dio è lontano da tutto ciò, ma non importa, la grande massa
non vuole il regno di Dio, si accontenta del regno della rivalsa e Gesù alla
grande massa questo regno rivela. “Non vendicarti da solo, ti vendicheranno
le circostanze; siediti sull’argine del fiume ed attendi: vedrai passare il
cadavere del tuo nemico”, dice un proverbio indù. Il cielo cui molti, troppi
aspirano, è prima d’ogni cosa proprio quest’argine del fiume, quest’argine,
seduti sul quale, si può godere l’inebriante spettacolo dell’umiliazione dei
propri nemici e nessuno pensa che i nostri nemici siamo noi stessi e che una
sola stilla di pena umana avvelena di sé la stessa pienezza dei cieli.
Ma qualche altra cosa questa parabola ci insegna. Il ricco, che in vita sua
non si era mai posto il problema dell’al-di-là, di colpo, si ricorda di avere dei
fratelli e si preoccupa per loro: “Ti prego, o Padre di mandar Lazzaro alla mia
casa paterna, perché ho cinque fratelli, affinché attesti loro queste cose,
onde non abbiano anch’essi a venire in questo luogo di tormento”. Ahimè!
Pia illusione: chi è immerso nella foia dei piaceri non si distoglie solo perché
un morto torna tra i vivi! Non la morte ammaestra, ma la vita stessa. Chi
non ascolta il profeta che testimonia di per sé, non ascolterà il morto che
non può più testimoniare né per se stesso, né per gli altri. Così inutilmente
l’epulone chiede che l’acqua scorra al contrario: il fiume si versa nel mare e
non il mare nel fiume; così la vita si versa nella morte e non la morte nella
vita. L’uomo ha guide sicure nelle leggi, nelle tradizioni, nello stesso suo
intuito, ad esse si attenga. Ma noi possiamo vedere anche qui ripetuto il
grande insegnamento: “Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti”. Chi
non vive la vita dello Spirito, chi non irradia da sé la grande luce di una
attività mentale, è morto tal quale il cadavere che giace sulla bara, ed è
giusto che i morti allo Spirito seppelliscano i morti alla carne. Dice il
salmista: “Noi che viviamo glorifichiamo il Signore”. Non vi è altra vita che non
sia quella dello Spirito, non vi sono possibilità di continuazione che nella
costruzione di una solida individualità.
E’ necessario che l’uomo arrivi ad identificare se stesso come causa ed
effetto di tutto, così da riferire al “centro interiore” ogni accadimento esterno,
allora, solo allora si potrà dire che l’uomo vive, perché solo allora l’uomo avrà
raggiunto il centro della vita che non è nella carne e non è nel sangue, ma è
nell’essenza dello Spirito che è mente, perciò Via, Verità e Vita. Chi non si è
mai posto il problema dello Spirito dinanzi all’enorme mistero della Vita, non
se lo porrà dinanzi a quello tanto minore della morte. Un morto che risusciti,
passato il primo di stupore e di paura, non può fare che la mente intorpidita
nelle cose della materia si risvegli al pensiero dello Spirito. Anche se si
crederà che il morto sia davvero risuscitato, la teoria della morte apparente
servirà a spiegare tutto e, se anche non servisse, non con questo la gente ci
penserebbe a lungo. Chi è immerso nelle cure materiali non può occuparsi
delle cose del Padre celeste. La triste e terribile condanna del mondo è tutta
qui.
Se i miracoli, se i prodigi servissero a qualcosa, allora dovrebbe bastare lo
sbocciare di una rosa a commuovere, ma i miracoli e i prodigi non servono a
far pensare chi è corto di mente, chi ha mutilato la sua parte migliore, chi,
immergendosi nel mare delle quattordici avidità, non può più raggiungere la
riva della sicurezza.
Spiega il Buddo che: “Quattordici sono le avidità che generano ignoranza e
causano “skanda” allo Spirito. Esse sono di tre specie e occupano tutto
l’essere concreto.
Quattro sono le avidità del corpo: l’avidità di mangiare; l’avidità si bere;
l’avidità di dormire e di uccidere.
Tre sono le avidità del corpo sottile: l’avidità di possedere; l’avidità di
godere; l’avidità di imporsi.
Tre sono altresì le avidità del mentale concreto: l’avidità di conoscere ciò
che accresce la potenza; l’avidità di essere considerato dai propri simili; l’avidità di
essere amato.
Quattro sono le avidità del primo mentale astratto: l’avidità di essere
onorato; l’avidità di permanere; l’avidità di essere eletto dagli dèi; l’avidità di essere
ricordato dagli uomini”.
E così si hanno quattordici avidità distinte in tre specie: le avidità della forma
concreta corporea; le avidità dei corpi sottili e del mentale concreto; le avidità della
personalità che si insinua nel primo mentale astratto. Chi è immerso in queste avidità
non crederà neppure se un morto risusciterà dai morti, perché egli è ancor più morto.
Ma chi ha vinto le quattordici avidità, non ha bisogno che il messaggio della vita gli
sia portato dalla morte, perché egli ha raggiunto la vita ed è la vita. Così, chi è
immerso nel mare delle quattordici avidità: non può pensare che nel modo in cui
esse vogliono che egli pensi; ma colui che è fuori dalle quattordici avidità: pensa
come vuole lo Spirito vivente che è in lui e non ha bisogno di miracoli per essere
convinto del più grande di tutti: il possesso della verità.
Per questo, né il ricco può chiarire ai suoi fratelli ciò che a lui si è fatto
chiaro, né Lazzaro può fare cosa alcuna per lui. Si è fatto tardi nella corsa e
la notte è caduta; non resta dunque che bivaccare in parete ed attendere
l’alba nuova, l’alba che forse non verrà e, che venendo, sarà però diversa da
come l’attendevamo. Poco vale pentirsi dopo, è assai meglio riflettere prima.
Molte altre parabole narrò Gesù e in ognuna di esse fu racchiuso un alto
insegnamento. Così la parabola dei due debitori, al maggiore era stato
rimesso, dalla pietà del suo signore, un enorme debito; egli non seppe, con lo
stesso cuore, condonarne uno piccolo ad un suo conservo e così perdette il
primo beneficio. “I misericordiosi troveranno misericordia”. Sempre il motivo
fondamentale ritorna. Così la parabola del buon samaritano, troppo nota e
trasparente per commentarla: “Ama il Signore Dio tuo, con tutto il cuore, con
tutta l’Anima, con tutta l’intelligenza, ama il tuo prossimo tuo come te stesso.
Perdona se vuoi essere perdonato, consola se vuoi essere consolato, ama se
vuoi essere amato. Sciogli i vincoli della carne se vuoi stringere quelli dello
Spirito; rinuncia alla morte se vuoi la vita; rinnega la personalità se vuoi
conquistare le altezze della conoscenza.” Traverso i secoli ed i millenni, le voci
s’intrecciano nello spazio dell’essere e non si confondono. Buddha annuncia
Cristo, Gesù conferma Buddha. Il vero ha un solo volto e molteplici
espressioni; chiunque indaghi, con onesta lealtà, verso se stesso e verso il
vero, riconosce il vero dai caratteri inconfondibili che lo distinguono. Così,
nella grande onda di vita, tutta la luce è di se stessa splendente ogni volta
che lo Spirito dell’uomo innalza il limite augusto della sua soma mortale.
Forse qualcuno può beffardamente chiedere se tutto ciò abbia un
significato reale, e noi possiamo rispondere semplicemente, no! No, tutto ciò
non ha un significato reale se non per chi lo comprende; per chi non lo
comprende, tutto ciò non significa nulla. Non è possibile parlare dello Spirito
a chi non è dello Spirito. Nella grande via dell’ascesa è facile incontrare dei
sentieri, ve ne sono di ripidi che salgono pericolosamente e di comodi che
scendono dolcemente e ingannevolmente; non si può dire a nessuno prendi
questo o quello, a tutti si può dire: “Se tu segui la strada, la strada stessa ti
porterà”. Vi è nella strada dell’evoluzione umana la grande linea generale,
seguendo la quale, l’uomo non può che essere l’uomo. Questa evoluzione
conduce, di per se stessa, la natura umana a divenire natura pensante; ma
ogni singolo uomo ha in sè la possibilità di trasformare la sua natura,
accelerando la sua evoluzione. La strada riguarda l’umanità; il sentiero che
dalla strada si diparte, riguarda invece il singolo uomo. Per esso è
importante la scelta del sentiero, perché: traverso questo sentiero, egli può
giungere prima o può giungere dopo, molto prima o molto dopo. Certamente
per lui, singolo uomo, è molto importante giungere prima e giungere bene,
che non giungere dopo e male.
Si legge nei racconti buddhici: -La strada del conoscimento è come una
carovana di uomini e di animali che si accinga ad attraversare il deserto per
giungere ad una grande città. La carovana va compatta sotto la guida del
capo, si ferma e si muove seguendo gli ordini che il capo crede necessario
dare. La carovana cammina lentamente, progredisce regolarmente a marce e
soste prefissate. Ora, se qualcuno ha premura di giunger prima, può lasciare
la carovana e andarsene, solo o in compagnia e, se conosce bene il deserto e
sa le scorciatoie, può giungere alla città assai prima, perché può camminare a
marce forzate, rinunciare alle soste o diradarle molto; così come può anche
perdersi nel deserto e incappare nei ladroni o negli animali selvaggi ed essere
sbranato o derubato-.
Ogni cosa ha in sé quel tanto necessario di male che può essere dominato
o vinto solo dalla realizzazione del bene traverso il conoscimento. Ciò
dimostra che: nella via non si può né si deve procedere a tentoni e a prove,
ma saper bene cosa si vuol raggiungere e perché si vuole raggiungere una
méta più che un’altra. Colui che segue ogni impulso, che non ha in sé regola
alcuna, che va come foglia secca dietro ogni soffio si perderà sicuramente.
Ma colui che fermamente si dà una direzione e in essa persevera, certamente
giungerà dove si è prefisso di giungere. Ma, seguendo umilmente la grande
carovana o traversando audacemente il deserto, l’importante è che il
cammino sia preso e lasciato e che le giravolte non siano moltiplicate. Certo,
non è nel vero, l’uomo cocciuto in una sola idea, ma nemmeno è nel vero,
l’uomo svolazzante senza alcuna idea. Nell’insegnamento di Cristo vi è la
strada e vi è la scorciatoia, si può procedere e giungere alla méta. Talora,
qualche sacerdote non si dimostra degno del suo ministero, oggi, come
allora, esistono scribi e farisei, dottori della legge e teologi che, cattolici o
protestanti, predicano bene e razzolano male. Anche questo, Cristo, aveva
preveduto. Ma: colui che segue l’insegnamento, con cuore sincero, sa che
risponderà del frutto dell’insegnamento e non della vita privata
dell’insegnante.
Al capo carovana si chiede di conoscere bene la strada e di indicarla con
sicurezza. Seguendo tutti i precetti della chiesa, procedendo sulla via del
piccolo catechismo, non impicciandosi di questioni complicate e sottili, ma
tenacemente procedendo di virtù in virtù, vivendo mortificati nei sensi,
corretti nel pensiero, umili per dolcezza di cuore si giunge alla grande mèta e
si partecipa alla comunione generale come colui che, con il suo fardello,
seguendo la carovana nel deserto, con la carovana giungerà, dividendo nel
cammino la fatica e il ristoro, partecipando ai beni e ai mali, avendo parte al
cibo e alla bevanda. Però, per chi vuol prendere la scorciatoia essa esiste, è
l’ordine cristico, è il bruciare le tappe, è il consumare tutto in una fiammata
sola. Può essere l’incontro sulla via di Damasco, come può essere il sonno di
Giovanni sul cuore del Maestro o l’immolazione incruenta ai piedi della croce
come Maria di Magdala. E’ il “Charitas Christi urget nos” che può risuonare
in qualunque istante e renderci di colpo ciechi e sordi ad ogni cosa di
quaggiù.
Colui che prova l’invasazione di Dio non ha più possibilità di altre
sensazioni. Vi è un punto in cui l’annichilimento di ogni separatività,
corrisponde allo stato di liberazione; l’uomo diviene una sola cosa con Dio,
come la sposa con lo sposo. Ecco il significato delle mistiche nozze che
presto o tardi tutti gli asceti provano, uscendone inebriati di Dio. E’ l’orgia
orfica che diviene mensa eucaristica. Su questo piano, naturalmente, non si
può parlare di esperienza collettiva, ognuno è davvero per sé e Dio è per
tutti. Nessuno ha l’esperienza uguale e, se sul sentiero stretto ponessero
contemporaneamente il piede tutti gli uomini della terra, ognuno avrebbe la
sua incomunicabile esperienza, una sua individuale percezione. Dio è
ineffabile: solo Egli conosce come l’Anima può sbocciare e per ogni Anima c’è
l’ora della fioritura. L’ordine cristico è l’ordine segreto della gioia, è la piena
gioconda rispondenza della parte al tutto, è il morire per vivere, l’annullarsi
per essere. Taluni giungono a questo traverso speciali vocazioni o chiamate,
ma si può giungere a questo anche traverso la vita semplicemente vissuta
nella pienezza di una buona volontà. Si può fare come Zaccheo, salire sul
fico per vedere passare Gesù, ed essere chiamato da Lui. Zaccheo salì sul
fico, dato che la sua piccola statura gli impediva di vedere Gesù, la sua
buona volontà gli insegnò come ovviare al difetto. Vi sono molti fichi nel
mondo sui quali salire per vedere Gesù, ma prima occorrono due cose: voler
vedere Gesù e accorgersi di essere di piccola statura. Vi sono nani che si
credono giganti, essi non vedranno Gesù e diranno (poiché non lo vedono)
che Gesù non esiste; vi sono dei nani che sanno di essere nani e a parole
vorrebbero veder Gesù, ma senza arrampicarsi suo fico, senza scomodo da
parte loro, neppure costoro vedranno Gesù. Zaccheo ci riporta fuori dal gioco
sottile delle parabole, nella pienezza della vita, nella pienezza dell’avventura
evangelica, della superba avventura che ognuno di noi, da circa duemila
anni, vive più o meno pienamente. Cristo è il punto di partenza e di
confluenza di questa grande formidabile sfida all’imponderabile, di questa
corsa cieca di maratoneti di Dio.
Zaccheo era un ricco pubblicano, una specie di ufficiale delle gabelle
romane, perciò visto poco bene dagli israeliti, che lo consideravano poco
meno che un traditore della patria. Cosa l’aveva portato a farsi pubblicano,
questo ebreo, servo dell’odiato straniero? Forse quella sua piccola statura, a
cagion della quale, doveva aver sofferto spesso derisioni e beffe. Ponendosi
sotto le aquile romane, qualcosa della loro grandezza veniva anche a lui e lo
ingrandiva. Meglio l’insulto alla derisione, meglio essere odiato che beffato.
Piccola la statura di Zaccheo, ma grande la sua personalità! Dicono che il
rospo adori l’usignolo: così Zaccheo, piccolo di corpo, ammirava tutto ciò che
era grande di spirito, ammirava le aquile romane e la grandezza di Roma;
ammirava la terribilità della scrittura e constatava quanto in basso fosse
caduto quel popolo eletto che pure la scrittura aveva prodotto. Così Zaccheo
aveva sentito parlare di Gesù e sapendo che sarebbe passato per quel luogo,
volle, se non conoscerlo, almeno vederlo. Ma il suo piccolo corpo veniv a
soffocato nella folla e allora egli, incurante delle consuete beffe incurante
ormai di dare atto della sua miseria fisica, si arrampica con giovanile slancio
su di un fico per vedere il tanto decantato profeta. Tutto egli si attende
fuorché Gesù levi la testa a cercarlo sopra l’albero, nonché proprio a lui, il
pubblicano deforme, indirizzi la parola ed è proprio a Zaccheo che il
Nazareno dice: “Zaccheo, scendi presto dall’albero, e va a casa a preparare la
cena che io verrò da te”. Zaccheo, con grande allegrezza, pur non credendo
alle sue orecchie, non se lo fece ripetere e, sceso dall’albero, corse a casa a
preparare ogni cosa ove, con grande allegrezza, ricevette Gesù. Ma tutti,
veduto ciò, si scandalizzarono di Gesù e mormorarono dicendo: “Come mai
Egli è andato nella dimora di un pubblicano?”. Ma Zaccheo si presentò al
Signore e gli disse: “Ecco, Signore, la metà dei miei beni la do ai poveri, e se ho
frodato qualcuno, gli rendo il quadruplo”. Gesù gli replicò: “Oggi è entrata la
salvezza in questa casa, perché egli pure è figliolo di Abramo. Il Figliolo, infatti,
è venuto a cercare ed a salvare ciò che era perduto”. ( Luca: 19, 1-10)
Zaccheo, è ognuno di noi che, essendo piccolo, vuole essere grande
all’ombra di un grande. Quante grandezze, vere o false, ognuno di noi
incontra sulla sua strada e quante di esse serve? Ogni volta che ci si iscrive
ad un partito, che si ostenta un distintivo, che ci si gloria della conoscenza
di un personaggio; ogni volta che si parteggia con entusiasmo per un forte o
supposto tale, che si ascoltano e ci si esalta per certi discorsi roboanti, noi
siamo Zaccheo. Deboli ci gloriamo del forte, poveri del ricco, oppressi persino
dell’oppressore, purché l’oppressore sia un qualcuno; la nostra piccola
statura morale abbisogna di un piedistallo. Il successo di certi uomini
politici, di certi letterati, di certi attori, di certi industriali, è legato al numero
di Zaccheo che sono riusciti ad illudere. Il prestigio di taluni idoli delle folle,
nasce dal complesso d’inferiorità che aduggia troppa parte degli uomini. Ma
se è facile esser Zaccheo all’ombra delle aquile, non è facile esser Zaccheo
sul fico. In genere vari Zaccheo vogliono essere veduti assai più che vedere.
Quando si sale sul fico la statura è già modificata, e si può attendere
tranquillamente il grande annuncio al quale corrispondere con un più
grande amore, con un amore che diviene umiltà nel sacrificio, che diviene
riparazione e offerta. E’ allora che il nano diviene gigante, il debole forte, il
povero ricco. E’ allora che il complesso d’inferiorità scompare, perché colui
che ha sentito la parola divina e questa parola ha messo in pratica, è
maggiore dello stesso Battista che pure fu, fra i nati di donna, il più grande.
Se il nascere nel peccato ci fa Zaccheo, Zaccheo ci faccia nascere alla grazia.
In comune con il pubblicano abbiamo la statura morale; cerchiamo di avere
anche l’altra statura, saliamo sopra la nostra statura terrena, per essere
riconosciuti dalla nostra eterna natura celeste. Allora, anche a casa nostra si
fermerà Cristo, perché anche noi siamo figlioli di Abramo e possiamo
divenire figlioli di Dio.
Gesù, continuando il suo magistero, venne fermato da un tale che,
inginocchiatosi davanti a Lui, gli domandò: ”Maestro buono, che debbo fare
per acquistare la vita eterna?” Gesù disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno
à buono, tolto uno solo, Iddio. Conosci i comandamenti: non uccidere, non
fornicare, non rubare, non attestare il falso, non frodare nessuno, onora tuo
padre e tua madre?” Quegli rispose: “Maestro, tutto ciò l’ho osservato fin dalla
mia giovinezza”. Gesù, guardandolo negli occhi l’amò e gli disse: “Ti manca
una cosa sola: va, vendi quanto hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli;
poi vieni e seguimi”. Ma colui, contristato da queste parole, se ne andò dolente,
perché aveva grandi ricchezze. Gesù volgendo lo sguardo intorno disse ai suoi
discepoli: “Quanto difficilmente quei che possiedono ricchezze entreranno nel
regno di Dio!”.
(Matteo: 19, 16-30; Marco: 10, 17-23; Luca: 18, 18- 30)
Il giovane ricco si allontanerà da Gesù, e Gesù stesso restò turbato. Egli
aveva guardato con tenerezza a quella bella e preparata giovinezza che si
accostava a Lui. Egli, che nella sua corte terrena, contava solo dei poveri e
dei pubblicani, Egli che, venuto per tutti gli uomini, si vedeva seguito solo
dai più miseri di essi, lo avrebbe accolto come figlio diletto; il giovane che,
bello, ricco, onesto, puro e colto lo aveva riconosciuto, lo aveva chiamato
Maestro buono, ma alla richiesta semplice e logica per Gesù, il giovane
risponde rifuggendo indietro “perché era molto ricco”. Tema di meditazione ci
sia il peso delle ricchezze. Secondo gli uomini quel giovane era buono; egli fin
dalla giovinezza aveva seguito la legge; in lui era l’aspirazione a vedere oltre,
a volere la vita eterna. In Gesù aveva riconosciuto il Maestro, che cosa lo
separava dunque da Gesù? Le sue ricchezze, quelle che egli non riteneva un
male, con le ricchezze le mille abitudini di mollezza e di piacere che, senza
essere direttamente peccato, al peccato ne preparano insensibilmente la
strada. La ricchezza, che è abitudine ad essere servito anziché servire, a
comandare invece di obbedire, ad essere lodato anche quando sarebbe
giustificata la critica. Egli aveva seguito la legge di Mosè, ma non era pronto
a seguire quella di Cristo. Era un figliolo di Abramo, mai sarebbe diventato
un figlio di Dio; a meno che, essendo possibile a Dio ciò che agli uomini è
impossibile, la provvida sventura non lo avesse privato delle sue ricchezze,
disperdendo l’ostacolo che egli non sapeva disperdere, e dandogli
forzatamente la libertà che egli non sapeva acquistarsi. Gesù non è un
demagogo, Egli sa che esse sono pericolose, non di per se stesse, ma per il
torpore in cui facilmente inducono le anime. La pigrizia nasce dalla sicurezza
finanziaria e, con la pigrizia l’indolenza, l’indifferenza, la crudeltà. Chi è ricco
è portato facilmente a vedere questo bene come qualcosa di acquisibile con
l’oro. Il ricco può essere giusto secondo la legge, può fare bene le sue cose,
può osservare tutte le prescrizioni e tutti i codici, ma una cosa non potrà
fare: non potrà inventare la sua vita giorno per giorno, ora per ora, non potrà
conoscere l’incanto di poter dire a Dio: “Dammi!”. Tutto si vende e tutto si
compra nel mondo degli uomini, la coscienza degli uni e l’onore degli altri,
ma la grazia divina non è in vendita a prezzo d’oro! Nessuna ricchezza
materiale può dare un attimo solo di conoscenza, nessun tesoro aurifero può
avvicinare di un attimo l’ora della saggezza. Il mendico avvolto di cenci nella
sua capanna in rovina, può gustare la pace e una sicurezza ignota al ricco
nel suo palazzo avvolto nella porpora e nell’oro.
Si legge nei racconti buddhici: “Un potente signore, che aveva in odio tutti
gli dèi, ordino che nei suoi domini, in un certo giorno, tutti gli uomini che ivi
vivevano dovessero sfilare davanti ad un altare di Brahama, dicendo al dio
ogni sorta di contumelie. Tutti, cominciando dai più ricchi, si affrettarono ad
obbedire al signore, sia pure con nel cuore la rivolta, ma il signore era molto
potenteed ognuno voleva conservare le proprie ricchezze. Così, in quel giorno,
sfilarono ad insultare Brahama molte migliaia di uomini. Verso sera passò
anche un mendico, il quale guardò l’altare profanato e ne chiese il motivo di
tale profanazione. “Ciò è -gli fu spiegato- perché il signore del paese è in
collera con Brahama e oggi ha voluto che tutti gli uomini sfilassero innanzi
all’altare a dire contumelie al Dio”. “Ah” fece semplicemente il mendico e si
mosse per passare oltre. Ma uno scherano gli gridò: “Anche tu devi dire
contumelie al Dio”. “Perché? -egli rispose- io non sono ricco, non ho nulla nel
paese che il vostro signore possa togliermi, così egli ha nulla che possa darmi,
perciò, stia egli nell’obbedienza dei tuoi simili, ch’io uso dalla mia libertà per
non curarmi di lui”. “Ma tu non vivi nel paese?”, Chiese lo scherano. “Io posso
anche vivere altrove” rispose il mendico, e si allontanò dal paese perché era il
mendico e il mendico è libero.
Migliaia di anni prima della venuta di Cristo, questo gli uomini lo avevano
già saputo e su questo avevano orientato la loro liberazione. Il Buddo,
lasciando il suo real palazzo, le sue spose, i suoi gioielli, lasciando tutti gli
onori e tutte le magnificenze della vita, non aveva dato il segnale, aveva
seguito una tradizione. Chi vuol essere libero sia povero, sia cioè staccato
con lo spirito da ogni attaccamento alle cose della materia, sia morto vivendo
e nulla possa su di lui aver dominio: solo nella povertà è libertà, nella
ricchezza è schiavitù.
Sempre nei racconti buddhici, si legge che: re Vassatara, sentì la fama di
grande saggezza del monaco Vavasana, asceta che viveva poverissimamente
in un posto poco lontano, desiderò di averlo alla sua corte e di parlare con lui,
mandò i suoi servi a chiamarlo ed egli venne. Prima di essere ammesso alla
presenza del re, uno schiavo, malgrado le sue proteste, lo liberò del vecchio
mantello e lo introdusse innanzi al re. Il re e il monaco incominciarono a
parlare della saggezza, ma il monaco era sempre preoccupato del suo
mantello. Di lì a poco si sentì nel palazzo un grande strepitio e degli schiavi
vennero tremanti a dire: “Grande sventura oggi, grande sventura, o re, arde
l’ala del palazzo dove sono i tuoi tesori e le collezioni delle opere d’arte!” -Per
gli dèi- esclamò il re- certo è cosa sgradevole che io perda i miei tesori e le mie
collezioni d’arte, ma perché disturbate la mia conversazione con questo
annuncio? Cercate di spegnere il fuoco e lasciate che io acquisti altri tesori
acquistando saggezza ! Continua pure, o venerabile Vavasana. Ma dove è
andato?- Intanto che il re parlava con gli schiavi, il monaco alla parola “fuoco”
era uscito dalla sala per ricercare il suo mantello; “Ahimè! -Commentò il re- il
venerabile monaco è più schiavo di me-.
L’attaccamento alle cose della materia può aversi nelle grandi e nelle
piccole cose. Non ingiuriamo il povero monaco se amava il suo mantello più
di quanto il re amasse i suoi tesori, si può capire anche il monaco Vavasana.
Capirlo, perché vi sono molti monaci Vavasana, molti che, apparentemente,
sono staccati dai beni della terra, massime da quelli che non possono e non
sanno godere, ma sono attaccatissimi a dei piccoli microscopici beni in cui
pongono tutto il loro cuore. Costoro non possono giudicare il giovane ricco,
perché sono della loro stessa specie. Spirito di distacco non è spirito di
rinuncia, poiché alla rinuncia vi si può sempre giungere anche forzati,
coerciti dal di fuori: al distacco si giunge solo per persuasione interiore.
L’attuazione dello spirito di distacco è già aver capito, è già aver trasformato
la natura interiore.
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Nei contatti con la gente Gesù non perde occasione d’insegnamento. Alcuni sadducei, i quali sostenevano che non vi è resurrezione, accostarono
Gesù per sottoporgli una sottile questione, e dissero: “Maestro, Mosè ci ha
scritto che se il fratello di uno muore avendo moglie, ma senza figlioli, il fratello
ne prenda la moglie e susciti progenie a suo fratello. Or v’erano sette fratelli. Il
primo prese moglie e morì senza figlioli. Il secondo ne sposò la vedova ed egli
pure morì senza figlioli. Anche il terzo la sposò e lo stesso fecero tutti e sette,
che morirono senza lasciar figlioli. Ultima di tutti, morì anche la donna. Di chi,
dunque, nella resurrezione, sarà moglie, dato che lo è stata di tutti e sette?”
Gesù rispose loro: “I figli di questo secolo sposano e sono sposati, ma quelli
che saranno reputati degni d’aver parte al secolo avvenire e alla resurrezione
dei morti, non sposano e non sono sposati, perché neanche non possono più
morire, giacché sono simili agli angeli e sono figlioli di Dio, essendo figlioli
della resurrezione. Che poi i morti resuscitano anche Mosè lo dichiarò nel
passo del “pruno” quando chiama il Signore l’Iddio di Abramo, l’Iddio d’Isacco;
l’Iddio di Giacobbe. Or Egli non è un Dio di morti, ma di viventi, poiché per Lui
vivono tutti. E alcuni degli scribi, rispondendo, dissero: “Maestro, hai detto
bene”. E non ardivano più fargli altre domande-.
(Matteo: 22, 23-33; Marco: 12, 18-27; Luca: 20, 27-40)
Parallelamente a questo, ci sovviene un delicato buddhico. Andava, il
Buddha, per via insieme ai suoi monaci, quando udì un pianto angosciato e di
lì a poco scorse una donna in gramaglie alla quale pietosamente si accostò,
chiedendo perché piangesse così accoratamente: “Piango la morte di
Salahuntala, l’unica mia dolce figliola, morta per il morso di un serpente”. E
così dicendo ruppe in altri affannosi singhiozzi. Il Buddha si sedette al suo
fianco in silenzio e prese a fare scorrere la sabbia della strada, lentamente, fra
le dita guardando attentamente ogni granello. Dopo un po’ la donna, per
quanto addolorata, presa dalla curiosità, sospese di piangere e chiese al
Buddha cosa facesse. “Cerco, rispose il Buddha, il granello di sabbia che fu
tua figliola, ma finora non l’ho trovato”. “Come, proruppe indignata la donna,
la mia figliola un granello di sabbia?”. “Si, confermò serenamente il Buddha,
ma non solo la tua figliola, ma tu stessa ed io, tutti i monaci, tutti i re sopra i
loro troni e i brahmani nei loro templi, siamo granelli di sabbia che,
avvenimenti indipendenti dal nostro volere, avvicinano e allontanano, ma lo
scopo del loro esistere non può essere rivelato che oltre le apparenze. Ogni
volta che un granello si avvicina lo chiamiamo nascita e quando si allontana lo
chiamiamo morte, ma sappiamo di non sapere perché si avvicini o si allontani.
Cosi, le montagne diventano sabbia nel mare e i fondi del mare innalzati da
questa sabbia, ridiventano monti. E dov’è ora il granello che era qui poco fa?
Non c’è più, ma qui eccone un altro! Tu piangi tua figlia, o donna, ma cosa
piangi, che cosa sai tu di lei? Ciò che io so su questo granello che si è posato
sulla mia unghia? Chi era, o meglio, che cosa era Salahuntala? La tua figliola
mi dici, ma perché era la tua figliola?”. “Perché l’avevo fatta io”. “Ah! Tu hai il
potere di fare una figlia! Allora perché piangi e ti disperi; non puoi farne
un’altra?”. “Non posso farne un’altra alla mia età”. “Allora, non tu hai fatto
una figlia, ma la tua età l’ha fatta, ebbene, lascia che sia la tua età a piangere
o a rallegrarsene, a meno che, tu non abbia errato quando mi hai detto che
Salahuntala è tua figlia, perché tu l’hai fatta. Tu non l’hai fatta come figliola,
ma lei ti ha fatto come madre sua, perché tu hai, concependo, ricevuto nel tuo
seno un essere vivente, completo in ogni sua parte e capace di scegliere te
anziché essere scelto da te; così, come ho raccolto questa sabbia, ma non
facendo questa sabbia, questa sabbia è già fatta, io la stringo nel pugno, è
compatta, ha una forma, posso plasmarla se voglio, ma non mutare la sua
natura di sabbia. Ebbene, così tu hai raccolto una manciata di sabbia in cui
era tua figlia, e ora questa manciata ti è caduta di mano, ma cosa è mutato
per la sabbia? Nulla e anche al caso tuo nulla è mutato; tu ci sei e tua figlia
c’è, manca solo l’apparenza. la sostanza è intatta. Nella ruota delle vite e delle
morti, tutto è cambiamento, perciò tutto è pena, solo chi spezzerà questa ruota
potrà godere di somma quiete. Il ritmo delle vite e quelle delle morti non ha
sosta, tu piangi un pianto antico, tu ritrovi un vecchio dolore come ritrovasti
una nota gioia quando tua figlia ti nacque. Vedi, la sabbia scorre identica fra
le mie dita; ogni granello passa e non è mai lo stesso. Così Salahuntala, se la
cerchi nella forma ogni forma è Salahuntala, ma ogni forma potrebbe non
essere Salahuntala. Fra dieci anni -ti fosse vissuta- essa non sarebbe stata
più la Salahuntala che tu piangi ora. ma se nell’essenza tu la cerchi, essa non
è mai nata, essa non è mai morta. Non nasce e non muore l’essenza, ma essa
è di sua natura eterna. Se tu ti fisserai nell’essenza, tu sarai fuori dalla rigida
legge. Nascita, morte e trasformazione non significheranno più nulla per te. Se
il tuo spirito si staccherà dall’apparenza delle cose, tu continuerai a vedere le
cose, ma non le vedrai come appaiono, ma come sono. Così Salahuntala sarà
per te ciò che è, cioè una forma in perenne trasformazione, un’essenza di sua
natura immutabile. Amando l’essenza tu non hai perduto nulla, amando
l’apparenza non hai posseduto nulla, perché non era tua la persona, più di
quanto tuo non sia il capriccioso disegno che fan sulla strada l’ombra di quei
rami”,
Ogni cosa apparente non è ciò che appare, il saggio lo sa e non pone
quindi le supreme ragioni dello Spirito nel variare perenne degli avvenimenti.
Nessuno si bagna due volte nella stessa acqua di un fiume perché essa
scorre di continuo così nessuna cosa apparente merita che il saggio la
prenda a condizionamento del suo vivere. Colui che ha realizzato traverso il
ragionamento meditato il vero delle apparenze, non pone più la domanda dei
sadducei. La condizione della vita dello Spirito non è, non può essere
condizionata da quella della carne, perciò alla domanda del Vangelo: “Sette
fratelli sposarono una sola femmina e tutti e sette morirono senza lasciare
frutto: chi avrà nella resurrezione dalle morte la donna come sua sposa?” la
risposta è : Nessuno! Perché nella vita dello Spirito, non vi sono mogli e
mariti, genitori e figli, ma spiriti più o meno liberi e puri, simili agli angeli di
dio, uniti vicendevolmente dall’affinità e dalla carità. La forma perisce e con
essa tutte le apparenze. L’Essenza eterna, di sua natura, più tende al suo
perfezionamento, più assurge alla somiglianza con il Padre, più libera sé di
ogni vincolo ulteriore. Nella resurrezione dalla morte è proprio da
considerare questa piena acquisizione di coscienza per cui giustamente il
Cristo pone l’accento sulla frase: “Che i morti risuscitino, lo dichiara Mosè
stesso, quando presso il pruno nominò il Signore Dio di Abramo, Dio
d’Isacco e Dio di Giacobbe come Dio di viventi
Cristo chiama Figli della resurrezione coloro che aderendo a Lui meritano
pertanto di resuscitare con Lui. Una resurrezione fisica della forma non
avrebbe senso, ancorché essa non sia per se stessa impossibile, ma ha senso
la realtà gloriosa del risorgere della coscienza consapevole che se stessa
riconosce, riconoscendosi in Dio. La natura eterna della verità della via
spirituale, diviene possibile solamente nella rivelazione misteriosa della
morte fisica per cui, in una autentica resurrezione, l’Anima spirituale, la
celeste psiche, raccoglie se stessa nello specchio di Dio. Ritrovare ingrandita
e potenziata la propria individualità, assurgere alla piena consapevolezza di
se stesso, ecco il sorgere pieno dell’essere che non conoscerà mai più cosa
sia morto. Bis in idem, l’identificare sé è l’immortalità autentica. Una
semplicistica credenza di una resurrezione meramente fisica è priva di
significato. Nel corso di una vita fisica l’uomo muore interamente nel rinnovo
decennale delle sue cellule organiche almeno sei volte, se fissiamo a sessanta
anni la durata media di una vita umana. Eppure, l’uomo non si accorge di
morire e di rinascere, o se ne accorge in modo impercettibile, perché, ad un
certo punto,. trova di aver mutato qualche gusto, di aver assunto qualche
diversa abitudine, ma non connette ciò con uno stato di morte, perché egli si
trova identicamente se stesso nella sua attività di sentimenti, di affetti, di
passioni e di interessi; in questa identità consiste la vita e, questa identità,
non è solo fisica, è mentale, è animica, è morale, è personalistica, anzi, è
soprattutto personalistica, perché sovente basta una lieve dissociazione nella
personalità, perché quell’individuo non sia più quello, come se un’autentica
morte fosse intervenuta. Figli della resurrezione Cristo chiama coloro che
riescono a fissare la modalità del proprio risveglio, della propria
identificazione spirituale. Costoro risorgeranno, o meglio, non moriranno
mai, perché una continuità di vita divina fluirà in loro e non permetterà la
minima dispersione. Naturalmente coloro che han meritato questo non
sposano e non sono maritati, ma sono pari agli Angioli di Dio, cioè, non sono
avvinti dalla ruota karmica delle vite separate o delle morti conseguenti, ma
sono nell’essenza immortali e immutabili come le leggi stesse della vita e
della morte.
I sadducei non avevano torto a negare la resurrezione dei morti, ma non
avevano neanche ragione, poiché, se per resurrezione s’intende un corpo
morto che rivive, ciò, pur essendo possibile, è illogico; ma se per
resurrezione, si deve intendere la possibilità di una eterna identificazione, ciò
non solo è logico, ,ma è logicamente il corollario naturale della vita stessa
dell’Anima. Cristo perciò risponde loro non solo a tono. ma chiarisce le
condizioni necessarie per attuare questa resurrezione: “Non i figli del secolo
terreno risorgeranno, non coloro che sposano e sono sposati; non coloro che
comprano e vendono; non coloro che edificano e abitano le case; ma coloro
che, figli di Dio, meritano di essere assunti in Lui e di partecipare
coscientemente della divina natura; costoro risorgeranno veramente dalla
morte, perché in essi è natura di vita e non è contaminazione di
corruttibilità. Nel supremo giudizio, alla fine dei tempi, quando il figlio
dell’Uomo verrà veramente a rivelare se stesso, nella Sua venuta si
distingueranno i vivi dai morti, i primi si riconosceranno in Lui, i secondi
saranno come massi insensati e incerti, come ubriachi inconsci e storditi. I
primi, allora, parteciperanno eternamente della natura del Cristo e non
conosceranno mai più la morte. I secondi, come sarmenti disseccati, verran
recisi dal ceppo della vite ed inceneriti con il fuoco, come scarto di
lavorazione e divenuti inutili.
“Possedete le Anime vostre nella vostra pazienza”, dice il Cristo; in questa
frase mette l’essenza dell’insegnamento. Cos’è infine la pazienza? La
pazienza è la caratteristica del genio spirituale, è la capacità ci voler patire,
non per libidine di dolore, ma per raggiungere il risultato del patimento che è
perfezione. Traverso la sofferenza (il mondo fisico è solo sofferenza), l’uomo
perviene alla deposizione di ogni scoria e al raggiungimento pieno della linea
archetipica tracciata da Dio; il raggiungimento di questa linea è lo scopo
della vita fisica. Il genio spirituale possiede se stesso, ecco il senso della
grande frase: “Possedete le Anime vostre con la vostra pazienza!”, cioè,
comportate con intelligente consapevolezza le pene e le gioie dell’esistere
come mezzo per arrivare ad essere; non fatevi fermare né dai piaceri; né dai
patimenti, ma conoscendo che: né gli uni né gli altri sono durevoli; fondate le
vostre ragioni sulla natura essenziale dell’Anima vostra, così potrete
possedervi e vivere nella vita eterna, così sarete figli della resurrezione. Nella
concezione buddhica tutto ciò è espresso con altre parole. Il Buddha tende a
far sì che gli uomini si sveglino dal sonno dell’illusione e, realizzata la
coscienza del vero, identifichino la pienezza della vita nella pienezza della
mente liberata dal peso ingombrante di una personalità permanente in un
piano di egoismi ciechi e di illusioni folli. Cristo definisce questo sonno
dell’Anima come uno stato di morte dal quale si potrà risorgere, se si vorrà
risorgere. Voler risorgere, voler svegliarsi; ecco l’essenza dell’insegnamento di
vita, ecco la buona volontà che occorre all’uomo per meritare la pace. Che
cos’è la pace? La pace non è la cessazione dell’attrito, è il conoscere
pienamente le necessità di evoluzione dell’attrito stesso, è il comportare
serenamente come transitorie queste necessità. In questo piano di pensiero
l’uomo può e deve attuare la sua coscienza, ma egli non potrà farlo se prima
non ha imparato a realizzare in sé l’indispensabile spirito di distacco (da non
confondere con quello di rinunzia) che, solo, potrà permettergli di vedere con
obbiettività se stesso e il mondo che lo circonda.
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I RAPPORTI UMANI
Regina di Magdala, la bellissima Maria, riempiva le conversazioni delle sue
stravaganze. Essa era tremendamente bella; bella come l’angelo caduto di cui aveva
l’intelligenza pronta ed il sarcasmo crudele. Ebrei e gentili se ne disputavano i favori
e ne sopportavano i capricci; più di una casa era stata rovinata per lei, più di una
fiorente giovinezza era stata stroncata, più di una veneranda canizie aveva
conosciuto l’umiliazione di bamboleggiare, per ottenere a peso d’oro, il privilegio di
posare un bacio sul roseo piedino stretto in sandali dorati. La beltà di Maria faceva
epoca e aveva sola rivale la splendida Salomè, la figlia di Erodiade. Un’agiografia
scioccamente sentimentale, tende a negare a Maria di Magdala la qualifica di
peccatrice, come se non fosse maggior gloria realizzare la redenzione dalla colpa,
che vivere tutta una vita in margine alla colpa senza cadervi, non per odio alla colpa,
ma per timore del castigo. Maria di Magdala fu grande nel peccato e grande nella
redenzione. Essa non era l’isterica donnetta affascinata dal Rabbi Galileo, era la
donna orgogliosa, consapevole, corteggiata. Era la donna che aveva davvero
qualcosa da perdere, qualcosa da lasciare per seguire Cristo. Essa si staglia
formidabile sullo sfondo del lago che vide la predicazione del battista e la colpa di
Erode.Come la meretrice apocalittica, essa aveva fornicato con i potenti e con i
sapienti, aveva visto dinanzi allo splendore delle sue carni, piegarsi l’orgoglio di
sacerdoti, di scribi, di farisei e di romani. Già una volta aveva incontrato il Nazareno e
ne aveva provato una strana impressione, ora, quell’impressione si faceva il lei
tormento, ansia, paura. Come sette spiriti maligni, le sette passioni capitali la
stringevano d’assedio, ma era un assedio al quale essa poneva già un termine nella
sua stanchezza infinita.
Giovane, bella, ricca e amata, essa era mortalmente stanca. La massa dei suoi
capelli odorosi gravava sopra di lei con l’assillo di una corona di spine. Le sue
schiave non sapevano più come fare per richiamare il sorriso sulle labbra impallidite,
i suoi amanti invano mendicavano uno sguardo. La bella era ammalata e non vi era
rimedio al suo male. i germi della corruzione mortale l’avvelenavano lentamente e
sicuramente; essa lo sapeva, ma non faceva nulla per guarire, come non faceva
nulla per morire. La malattia di Maria aveva un nome, si chiamava “nausea” nausea
della vita e del piacere, nausea di tutto e di tutti. Nella sua suntuosa casa faceva
chiudere le finestre per non vedere la luce e allontanava i vasi degli aromi per non
sentirne il profumo acuto. Niun cibo più le dava gioia, niuna musica; continuamente
assillata dai fantasmi dei suoi vizi e da quelli dei suoi innumerevoli amanti, essa
sentiva la sua carne come estranea a lei, come qualcosa di non più suo, di forse mai
stato suo. Maria di Magdala si faceva una gloria e un vanto di non aver mai amato.
Un giovane poeta che l’aveva adorata e che essa aveva trattato come un trastullo
di un’ora, le aveva imprecato: “Possa tu vivere sino a che conoscerai l’amore e
piangerai le mie stesse lacrime”, Maria aveva riso insolente: “In tal caso allora io son
certa di essere immortale” aveva risposto. Il giovane morì di dolore per causa sua, ed
essa lo aveva prontamente dimenticato, ma ora nel suo stato penoso lo rivedeva, lo
riudiva e lo desiderava, ma era morto! Chi è morto non desidera più nulla, neanche il
fiore della valle, neanche la bella fra le belle. Nella sua irrequietezza, essa amava
girare occulta fra la gente, coperta di un fitto velo, celata alla stessa vigile gelosia.
Così doveva incontrare ancora una volta lo strano Nazareno e, questa volta in una
scena tragica, cioè quando la folla lo aveva fatto giudice di una povera donna
sorpresa in flagrante adulterio. Maria aveva ascoltato le sue parole, controllato il
gesto, ammirato il genio, e aveva sentito in strano modo che nella folla il Nazareno la
cercava e trovatala la fissava. Lo sguardo indicibile era rivolto a lei, mentre la parola
s’indirizzava all’adultera “Neppure io ti condanno; va, e non peccare più”. Maria di
colpo si sentì leggera come se un carico fosse caduto dalle sua spalle; i sette
malvagi spiriti che l’ossessionavano, erano stati stranamente esorcizzati, essa si
sentiva nuova, giovane, pulita, si sentiva come sbocciare da un guscio di uovo crudo.
Maria di Magdala, l’abbiamo detto, era intelligente, essa non cadde ai piedi dello
strano Rabbi pur avendone il desiderio, frenò la sua gioia come aveva frenato la sua
pena, essa non aveva chiesto nulla e aveva ricevuto molto, ma voleva esser sicura di
aver ricevuto, voleva guardare da sola il dono impareggiabile, voleva esser certa di
non aver subito una allucinazione, di non esser vittima di una suggestione, voleva
soprattutto una cosa, sapere se quel bene e quel male nuovo che era nato in lei era
veramente l’amore.
Tornata a casa, essa ordinò alle schiave stupite di preparare un sontuoso festino e
d’invitarvi tutti i suoi adoratori. Era guarita? Allora era giusto festeggiare la
guarigione. A Magdala il festino fece epoca, Maria vi apparve vestita come Venere,
coperta cioè solamente di fiori, ornata dal fulgido manto della sua chioma dorata.
Maria era splendida e il festino fu come la celebrazione di un rito. Si cantò, si
recitarono versi, si onorò la dea del convito insolitamente benigna e stranamente
remota. Alle fine del convito essa offrì a tutti una corona di rose, permise a tutti di
baciarla, ma essa era già lontana. Ordinò poi alle schiave di spezzare le coppe
preziose ove nessuno avrebbe mai più bevuto e di distribuire ai poveri i mobili, i
vasellami, i drappi d’inestimabile pregio e di ritenersi loro stesse libere e padrone di
quanto fosse loro piaciuto, poscia, presa con sé una sola e vecchia serva, essa si
ritirò in un’umile casa, portando seco un solo ricordo del suo splendore: un vaso di
preziosissimo nardo. A Magdala si diffuse la voce che Maria era impazzita. Il tempo
passò e nessuno dei beneficiati le fu grato della sua prodigalità. Ricca, desiderata e
possente era onorata; povera, nascosta e umile fu disprezzata. Indifferente agli
omaggi, essa lo fu maggiormente ai dispregi.
L’imprecazione del giovane amante si era avverata. Maria amava per la
prima volta e per l’ultima, amava ma non piangeva, perché gioia infinita era
a lei il segreto amore celato come il vaso di nardo nei penetrali più intimi
della sua realtà. Gioia infinita il colloquio silenzioso con l’amato; giorno per
giorno, ora per ora, essa si spogliava di se stessa, come la serpe a primavera:
rinasceva nella sua macerazione ad una mai conosciuta verginità dell’Anima.
Nel gruppo delle silenziose seguaci del Rabbi, spesso si aggiunse una
compagna fittamente velata e più silenziosa di loro. Una cosa stupiva Maria
quella di non provar rimorso del suo passato! Essa era come staccata da se
medesima, come se la vita di follie da lei tenuta non la riguardasse; non
aveva né rimorsi né rimpianti, amava solo serenamente, sicuramente,
confidentemente qualcuno che passava per le strade annunziando la Buona
Novella. Così era passato il tempo, un tempo infinito e pur breve, come
quello che passa nei sogni. Maria attendeva che qualcosa in lei desse il segno
che l’ora era giunta, l’ora di sentirsi come una torcia d’amore squassata dal
vento. In questo stato, seppe che Gesù era comparso nella città e che quella
sera avrebbe cenato in casa di un fariseo. Di colpo, si sentì l’impulso: era
giunta anche per lei l’ora splendida e terribile della confessione suprema,
l’ora della piena dichiarazione d’amore.
E così, quella sera, avvolta in un velo grossolano, tenendo fra le mani
tremanti il vaso di nardo, che aveva serbato dalla sua vita passata, si recò
nella casa del fariseo e vide al banchetto Gesù, e Gesù come fosse stato
chiamato si voltò e la guardò. Che cosa c’era nello sguardo di Gesù? Cosa può
esserci nello sguardo di una tenera madre posato sopra il figlio infermo? Maria
sentì nascere in sé la grazia delle lacrime, il miracolo del pentimento. Essa
sentì che il suo amore si sublimava in dedizione, sentì che solo nella dedizione
suprema avrebbe fissato in eterno su di sé quello sguardo d’amore che non
somigliava a nessun altro, e allora, con lo scoppio del cuore, ripieno e
riboccante di grazia, ruppe in pianto e si gettò ai piedi del Maestro lavandoli
con il pianto, ungendoli con il nardo, asciugandoli e tergendoli con il tesoro
della ricca chioma disciolta. Ma il fariseo che aveva invitato Gesù, si
scandalizzò e disse in cuor suo: “Costui non è un profeta, ché, se lo fosse,
saprebbe che razza di donna è questa che lo tocca e come sia una peccatrice”.
Gesù allora gli disse: “Simone, ho qualcosa da dirti”. Ed egli: “Maestro parla”.
E Gesù: “Un creditore aveva due debitori; uno gli doveva cinquecento denari e
l’altro cinquanta. Non avendo essi di che pagare, condonò il debito ad
entrambi. Chi dei due l’amerà di più?” Simone rispose: “Quello, suppongo, la
quale ha condonato di più”. E Gesù gli disse: “Hai giudicato bene”. Poi rivolto
alla donna, disse a Simone: “Vedi questa donna? Sono entrato in casa tua e
non mi hai dato l’acqua per i piedi, ma lei mi ha bagnato i piedi con le sue
lacrime e me li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato il bacio, e lei,
da che è entrata, non ha smesso di baciarmi i piedi. Tu non mi hai unto il capo
d’olio, e lei mi ha unto i piedi con profumo. Per la qual cosa, ti dico che le son
rimessi i suoi molti peccati, perché molto ha amato. Ora, quegli a cui meno si
perdona, meno ama. Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i peccati”. E i convitati
cominciarono a dire fra sé: “Ma chi è costui che perdona anche i peccati?” Alla
donna disse: “La tua fede ti ha salvata, vattene in pace”. (Luca: 7, 36 - 50)
******************
“Or essendo Gesù a Betania, quivi gli fecero una cena. Maria prese una libbra di
profumo di nardo di gran valore e ne unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi
capelli, e la casa fu ripiena dell’odore dell’unguento. Allora, uno dei suoi discepoli,
Giuda Iscariota, che l’avrebbe tradito, disse: “Perché non si è venduto questo
unguento per trecento denari e non lo si è dato ai poveri?” Egli disse ciò, non perché
si curasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la borsa, aveva con sé
quello che vi si metteva. Gesù però gli disse: “Lasciala stare, ella ha serbato questo
profumo per il giorno della mia sepoltura, poiché i poveri li avrete sempre con voi, ma
non sempre avrete me”.
(Matteo: 26, 6-13; Marco: 14, 3-9; Giovanni: 12, 1-8)
Ciò dicendo, una grande tristezza venne su Gesù, perché Egli sapeva che la
Sua ora si avvicinava e capiva che i suoi discepoli non sapevano distinguere i
segni dei tempi, allora fece loro questo paragone: “Osservate il fico e tutti gli
alberi. Quando germogliano, voi, guardando, v’accorgerete subito che l’estate è
vicina. Così pure, quando vedrete accadere tali cose, sappiate che il regno di
Dio è vicino. In verità vi dico che questa generazione non passerà prima che
queste cose siano avvenute, il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole
non passeranno.
(Matteo: 24, 32-35; Marco: 13, 28-31 Luca: 21, 29- 33)
“Tra i farisei c’era un tale chiamato Nicodemo, uno dei capi degli ebrei. Ora, questi
andò di notte a trovare Gesù e gli disse: “Maestro noi sappiamo che sei venuto da
parte di Dio come un dottore; in verità, nessuno può fare i miracoli che Tu fai, se Dio
non è con lui”. Gesù gli rispose: “In verità, in verità vi dico che se uno non nasce di
nuovo, non può vedere il regno di Dio”. Nicodemo gli domandò: “Come può un uomo
nascere quando è già vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel seno di sua
madre e nascere di nuovo?” Gesù rispose: “In verità, in verità ti dico che se uno non
rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è
generato dalla carne è carne e ciò che nasce dallo Spirito è Spirito. Non meravigliarti
se ti ho detto -bisogna che voi nasciate di nuovo- il vento soffia dove vuole e tu ne
odi la voce, ma non sai donde venga, né dove vada; così è ogni cosa nata dallo
Spirito. Nicodemo gli domandò: “Come è possibile mai che questo avvenga?” Gesù
gli rispose: “Tu sei dottore in Israele e non lo sai? In verità, in verità ti dico: Noi
parliamo di quel che sappiamo e rendiamo omaggio a quel che abbiamo visto e voi
non accettate la nostra testimonianza. Se non credete quando vi parlo delle cose
terrene, come potrete credere quando verrò a parlarvi delle cose celesti? Nessuno è
salito al cielo all’infuori di Colui che è disceso dal cielo, cioè il Figliolo dell’Uomo, che
è nel cielo. Come Mosè ha innalzato il serpente nel deserto, così è necessario che il
Figliolo dell’Uomo sia innalzato, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia
vita eterna. Infatti Dio ha talmente amato il mondo da dare il Suo Figliolo Unigenito,
affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Poiché Dio non
ha mandato il Figliolo nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia
salvato per mezzo di Lui. Chi crede in Lui non è giudicato, ma chi non crede è già
giudicato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figliolo di Dio. E il giudizio
è questo: “La luce è venuta nel mondo, e gli uomini hanno preferito le tenebre alla
luce, essendo le loro opere malvagie. Perché chi fa il male odia la Luce e non si
accosta ad essa per paura che le sue opere siano giudicate come cattive. . Chi,
invece, opera secondo la verità, s’accosta alla Luce affinché le sue opere si
manifestino come compiute da Dio”. (Giovanni: 3, 1 – 21)
Soffermiamo il pensiero sopra questa importantissima pagina.
Gesù viene da Nicodemo riconosciuto come dottore delle cose di Dio,
poiché i segni della Sua azione nel mondo sono segni della compiacenza
divina. Nicodemo teme i giudei perché non ignora la loro malvagia ignoranza,
ma ancor di più desidera essere addottorato dalla sapienza rivelata in Gesù.
Il colloquio fra i due, assurge ad una bellezza socratica, esso sfiora altezze
vertiginose e supera abissi di conoscenza; peccato ch’esso sia giunto troppo
frammentato e spezzato, ma l’essenza per fortuna è intatta. In esso risplende
la parte più fulgida dell’insegnamento segreto del cristicismo. La carne è
carne, e, ciò che è nato dalla carne, muore con la carne ed è come se non fosse
stato; ma lo Spirito è Spirito e ciò che nasce di Spirito è immortale, non solo,
ma è divino, poiché Dio è Spirito. Ora, gli uomini, nascono tutti di carne, sono
tutti figli della donna e del desiderio; la vita che è in loro è vita apparente,
vita della forma “simile al fiore dell’erba che ora è, e ora non è più”. Se essi
non nasceranno di nuovo e non nasceranno d’acqua e di Spirito, non potranno
aver parte al regno di Dio. Molto importante è il notare come in questa frase
non si alluda affatto a nessuna forma reincarnazionistica, ma di vera e
propria nascita; tanto è vero che Nicodemo, essendo dottore in Israele e
necessariamente non poteva ignorare le correnti reincarnazionistiche
esistenti nel paese, pone in modo inequivocabile la questione: “Potrà un
uomo già vecchio rientrare in grembo alla madre e nascere di nuovo, cioè
reincarnarsi?” Chiara suona la risposta di Gesù: “In verità, in verità ti dico,
che se uno non rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo, non può entrare nel
regno di Dio”. E rincalza: “Ciò che è generato dalla carne è carne, e ciò che
nasce dallo spirito è Spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: -Bisogna che voi
nasciate di nuovo-.
“Nascere dall’acqua e dallo spirito”. L’acqua simboleggia il Battesimo di
penitenza; indispensabile a chiunque voglia sradicare in sé la sanguigna
radice del desiderio, della forma e della personalità; ma l’acqua è anche
l’unico elemento privo di etericità, quindi di per se stesso incapace di ogni
vibrazione, di ogni commozione. L’acqua, origine di ogni forma di vita, ha in
sé la “indifferenza” alla vita della forma, crea e distrugge con moto alterno; la
sua assenza è assenza di ogni forma vivente, la sua presenza è creazione
perenne della forma stessa. Essere come l’acqua, vuol dire possedere e non
essere posseduto, vuol dire creare e non immettersi nella propria creazione,
annullare la vibrazione passionale, bloccare l’emozionalità, causa di paura e
avidità, quindi di vera immissione nella forma. Passionalità ed emozionalità
fan sì che l’uomo sia tutto nella carne, cioè tutto nella sua forma concreta,
tutto nel piano esistenziale. Logicamente quindi, la carne non sarà che
carne, qualcosa cioè che c’è e non c’è, di per se stessa insignificante.
Reincarnarsi che vorrebbe dire se non: essere di nuovo in carne, forma,
esistenza? Come aver parte in queste condizioni al regno di Dio che è
Spirito? Nascere dunque d’acqua, come il Battesimo di pentimento insegna,
come la sapienza consiglia; ma il nascere d’acqua nulla vorrebbe significare
se non si nasce contemporaneamente di Spirito, cioè: se non ci si
reindentifica nella nostra reale essenza che è la divina!
Dio è Spirito, l’uomo lo è del pari; nascere allo Spirito significa capire
questa suprema realtà: “creato ad immagine e somiglianza di Dio”! Non
quindi la forma che muta, la carne, che è come il fiore dell’erba, somiglia a
Dio, ma l’essenza immutabile, la mente folgorante, l’intelletto d’amore
incandescente e ineffabile somigliano a Dio; tutto ciò è l’Uomo, tutto ciò è il
Figlio dell’Uomo. Assurgere a questa realtà è nascere di nuovo pur essendo
nati, è nascere in ogni ora della vita in cui s’intenda di riconoscerci nella
Verità che trascende “le Verità”. La reincarnazione, che Nicodemo non
ignorava, non era questo, e Gesù pone chiaro l’accento, “Ciò che è nato dalla
carne è carne e ciò che è nato dallo spirito è spirito, perciò ti dico che vi
conviene nascere di nuovo”. Diecimila immissioni nella carne, nella forma,
nell’esistenza a che varranno, se per diecimila volte continueremo ad essere
schiavi della carne, della forma, dell’esistenza, ripetendo gli stessi errori,
permettendo alle stesse passioni e alle stesse paure, anche mimetizzate, di
condizionare il viver nostro?Noi, se nasceremo nello Spirito, se, solo nello
Spirito, avremo adempiuto il mandato della vita e solo nasceremo se vorremo
nascere, allora sì potremo aver parte al regno di Dio. E cosa è mai il regno di
Dio? E’ la fine della paura, l’inizio della carità. Dio è amore, ma quale amore?
Ama forse la carne? Vi è nella carne un amore che non si sradichi in una
forma di egoismo o che non rampolli da una forma d’inibizione generata
dalla paura? L’amore secondo la carne è mortale, solo l’amore secondo lo
spirito è eterno! Se noi condizioneremo nello spirito le ragioni del nostro
vivere, anche sulla terra saremo come gli angeli di Dio, vivremo nella
pienezza del regno che si rivela secondo giustizia, verità e carità. Giustizia,
Verità e Carità, che non sono peculiari alla carne, ma allo spirito; non sono
peribili, ma eterne. Allora, solo allora, saremo dei nati; allora, solo allora la
somiglianza con il Padre che è nei cieli, inequivocabilmente, ci rivelerà come
figli e non come servi. Padroni delle leggi, delle forme e delle forze e non ad
essi assoggettati. Questa splendida libertà dello spirito è l’essenzialità che
vive potenzialmente in ciascuno di noi.
“Tu sei dottore in Israele e queste cose non le sai?” dice Gesù a Nicodemo.
Questa osservazione di Gesù, oltrepassa Nicodemo; sarà ripresa più tardi
nell’apostrofe: “Guai a voi scribi e farisei, guai a voi dottori della legge che,
avendo le chiavi, non entrate voi e non lasciate entrare gli altri!” Le chiavi
della conoscenza sono contenute in quei breviari della sapienza spirituale
che sono le varie religioni degne di questo nome. In esse è inserito il potere di
conoscere, traverso i valori escatologici, i misteriosi detti dello spirito, però
bisogna aver volontà di conoscere. Ora, quanti sinceramente, realmente lo
vogliono? Il cercare sempre il meraviglioso si oppone al ritrovamento del
vero, e gli uomini come bambini, vogliono le fiabe della fantasia, anziché il
raziocinante bene dell’intelletto. Cosi, giustamente, Gesù opporrà: “Non avete
creduto alla mia testimonianza quando vi parlavo delle cose terrene, come
potrete credere ad essa se vi parlerò delle celesti? Nessuno è salito al cielo se
non Colui che ne è disceso, cioè il Figlio dell’Uomo che è nel cielo. Chi
rivelerà i segreti del Padre se non il Figlio cui il Padre li ha rivelati?” Ma
quando Gesù parla del misterioso regno di Dio, gli uomini amano divagare, il
regno di Dio è troppo impegnativo. Più che d’incapacità di attingervi, si tratta
di cattiva volontà, si tratta di pigrizia spirituale, di inerzia allo stimolo
interno. Quali le cause profonde?
Esse germinano con la personalità, ma hanno la loro più vera
affermazione nelle concupiscénze. Queste concupiscénze sono tre, tutte e tre
causa di separazione e, quindi, di frattura nell’unità mistica. La
concupiscenza della carne o sessualità, divenuta fine a se stessa. La
concupiscenza dell’oro e bramosia di potere. La concupiscenza degli onori o
presunzione della personalità. Per queste tre concupiscenze l’uomo non
riesce ad attingere nel regno mistico che pur gli urge dentro. Alle tre
concupiscenze si oppongono tre virtù: la castità o custodia dei sensi; la
generosità o sprezzo delle ricchezze materiali; l’umiltà o il ragionamento
intellettivo. Cioè: l’esercizio di facoltà mentali che sole possono essere causa
della nascita spirituale. “Dov’è il tuo tesoro, ivi è il tuo cuore”, cioè l’anima
tua, la tua volontà: se il tesoro è il possedimento dei beni materiali, se il
tesoro è la soddisfazione dell’orgoglio con il cibo dell’adulazione: niente da
fare, il regno di Dio non si potrà mai attingere, la nuova nascita sarà
impossibile; ma se il tesoro è l’amore alla giustizia, alla verità, se il tesoro è il
senso di amore universo, che si spande ugualmente su tutte le creature,
allora: la nascita è già in atto, allora: ognuno può attendere che su di lui si
ripeta il prodigio del Giordano e che, al suo battesimo mistico, i cieli si
aprano e che una voce ne scenda a proclamare: “Questo è il mio Figlio diletto,
nel quale mi sono compiaciuto”.
Non è campo questo per entrare in merito ad una disquisizione sopra la
teoria della reincarnazione (altrove esprimemmo già il nostro pensiero in
proposito). Non di reincarnazione, intende parlare il Cristo, ma di vera e
propria “Nascita nuova” a tutti i fini di una vita veramente eterna. Colui che
è chiamato a nascere alla vita spirituale sa che deve morire internamente ad
ogni forma di vita materiale, se per vita materiale s’intende il piano
dell’esistenza, nascere cioè in acqua e Spirito Santo, nascere alla verità. Ma
della conversazione con Nicodemo alcune altre cose interessanti noi
possiamo desumere. Innanzi tutto che Iddio, inteso come sostanza segreta
della stessa esistenza, ha amato il mondo degli uomini sino ad inviare ad
esso il medesimo Unigenito Suo, cioè il Cristo, inteso come afflato universale
di verità e di amore che, traverso i secoli e gli eventi, ha di se stesso
galvanizzato ogni segreto atto della vita spirituale dell’umanità, così che già
millenni prima dell’incarnazione di Gesù il senso cristico riempiva si sé
l’essenza stessa della vita mentale umana. Falsi e bugiardi gli dèi, ma non
falsa e non bugiarda la simboletica che si celava “dietro il velame deli versi
strani”. Dalla fondazione, il mondo era oggetto del pensiero di Dio e Dio non
aveva mandato l’Unigenito Suo a condannare il mondo, ma: perché chiunque
credesse nel Verbo, per questa fede venisse salvato.
Credere nel Cristo! Come si crede nel Cristo? Vi è diversità fra cristicismo
e cristianesimo? Sì, vi è diversità. Il cristicismo è universale, il cristianesimo,
ci spiace doverlo riconoscere, non lo è. Il cristicismo è un’accettazione
filosofica di un “vero” indiscutibile in sè; il cristianesimo è un qualcosa di
chiuso e di personalistico che vieta l’adesione non formalistica ad una forma
prefissata. Credere in Cristo significa accettare la divina paternità, ma
questa cosa semplice, viene spesso resa complicatissima da mille diverse
versioni della stessa verità. Credere in Cristo vuol dire credere nell’amore.
Chi crede nell’amore fine a se stesso; chi a questo amore offre la più alta
significazione delle sua esistenza; chi non si cura di un personale vantaggio,
anche riferibile oltre la vita, ma affettuosamente cura di obbedire all’interiore
spinta che lo porta oltre ogni egoismo, costui crede in Cristo, anche se non
sa come che si chiami così, costui non sarà condannato; greco o barbaro,
ebreo o mussulmano, egli è nella salvezza dell’amore se il suo cuore è colmo
di amore, non effimero, non personalistico.
Dice il Cristo: “Chi avrà voluto salvare l’anima sua non la salverà, ma la
salverà chi non si curerà di salvarla”, cioè la salverà chi oserà gettarla oltre il
limite estremo delle apparenze. “Non chi mi dice Signore, Signore, avrà la vita
eterna, ma chi ascolta la parola di Dio e la mette in pratica”. Ascoltare la
parola di Dio e metterla in pratica, tutto il segreto della vita è qui. “Io sono la
resurrezione e la vita, chi crede in me non perirà in eterno”. Come la
pratichiamo questa parola? Noi che morti, seppelliamo piangendo i nostri
morti, e al margine della vita non allunghiamo un dito per farla nostra? Noi
che nell’odio, nella rivalsa, nell’invidia, nella concupiscenza ci maceriamo e,
sapendo la via, non la seguiamo e non lasciamo seguire? Siamo cristiani?
Ove sono le nostre opere che ci rivelano tali? E la fede senza opere più che
morta è irrisione.
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“Quando dunque il Signore ebbe saputo che i farisei avevano udito ch’Egli
faceva e battezzava più discepoli di Giovanni (quantunque non fosse Gesù
che battezzava, ma i Suoi apostoli), lasciò la Giudea e se ne andò di nuovo il
Galilea. Or doveva passare per la Samaria. Giunse dunque ad una città della
Samaria chiamata Sichar, vicino al podere che Giacobbe dette a Giuseppe, suo
figliolo; e quivi era la fonte di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del cammino,
stava così a sedere presso la fonte. Era circa l’ora sesta. Una donna
samaritana venne ad attinger l’acqua, Gesù le disse: “Dammi da bere”.
(Giacché i suoi discepoli erano andati in città a comprar da mangiare). Onde la
samaritana gli disse: “Come mai Tu che sei giudeo chiedi da bere a me che
sono una donna samaritana?” Infatti i Giudei non hanno relazioni con i
samaritani. Gesù rispose e le disse: “Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è che
ti dice -dammi da bere- tu stessa glie ne avresti chiesto, ed Egli ti avrebbe dato
dell’acqua viva. La donna gli disse: “Signore, tu non hai nulla per attingere, e il
pozzo è profondo; donde hai dunque codesta acqua viva? Sei tu più grande di
Giacobbe nostro padre che ci dette questo pozzo e ne bevve egli stesso con i
suoi figlioli e i suo bestiame? “, Gesù rispose e le disse: ”Chiunque beve di
quest’acqua avrà sete di nuovo; ma chi beve dell’acqua che io gli darò,
diventerà in lui una fonte d’acque che scaturisce in vita eterna. La donna gli
disse: “Signore, dammi codesta acqua, affinché io non abbia più sete, e non
venga sin qua ad attingerne”.
Gesù le disse: “Va a chiamare tuo marito e vieni qua”. La donna gli rispose:
“Non ho marito”. E Gesù: “Hai detto bene -io non ho marito-, perché hai avuto
cinque mariti; e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”.
La donna gli disse: “Signore, io vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno
adorato su questo monte, e voi che a Gerusalemme è il luogo dove bisogna
adorare”. Gesù le disse: “Donna, credimi; l’ora verrà che né su questo monte,
né a Gerusalemme adorerete il Padre; Voi adorate quel che non conoscete; noi
adoriamo quel che conosciamo, perché la salvazione viene dai Giudei. Ma l’ora
viene, anzi è già venuta, i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e in
Verità; perché tali sono gli adoratori che il Padre richiede. Iddio è Spirito; quelli
che l’adorano, bisogna che l’adorino in Spirito e Verità”. La donna gli disse: “Io
so che il Messia (ch’è chiamato Cristo) ha da venire; quando sarà venuto, ci
annuncerà ogni cosa”, Gesù le disse: “Io che ti parlo, son Desso”.
In quel mentre giunsero i Suoi discepoli, e si meravigliavano ch’Egli parlasse
con una donna; ma pur nessuno gli chiese -“Che cerchi?”- o -”Perché discorri
con lei?”- La donna lasciò dunque la sua secchia, se ne andò in città e disse
alla gente: “Venite a vedere un uomo che m’ha detto tutto quello che ho fatto;
non sarebbe Egli il Cristo?” La gente uscì dalla città e veniva a Lui. Intanto i
discepoli Lo pregavano, dicendo: “Maestro, mangia”. Ma Egli disse loro: “Io ho
un cibo da mangiare che voi non sapete”. Perciò i discepoli si dicevano l’un
l’altro: “Forse qualcuno Gli ha portato da mangiare?” Gesù disse loro: “Il mio
cibo è di far la volontà di Colui che mi a mandato, e di compiere l’opera sua.
Non dite voi che ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi
dico: levate gli occhi e mirate le campagne come già son bianche da mietere. Il
mietitore riceve premio e raccoglie il frutto per la vita eterna, affinché il
seminatore ed il mietitore si rallegrino insieme. Poiché questo è il vero detto:
L’uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandato a mietere quello che intorno a
cui non avete faticato, altri hanno faticato e voi siete entrarti nella loro fatica.
Ora, molti dei samaritani di quella città credettero in Lui a motivo della
testimonianza resa da quella donna: -Egli m’ha detto tutte le cose che ho fattoQuando dunque i samaritani furono venuti a Lui, Lo pregarono di trattenersi
da loro ed Egli si tratteneva quivi due giorni. E più assai credettero a motivo
della Sua parola e dicevano alla donna: “Non è più a motivo di quel che tu ci
hai detto, che crediamo, perché abbiamo udito da noi, e sappiamo che Questi è
veramente il Salvatore del mondo”.
(Giovanni: 4, 1 – 42)
Lo stupendo episodio del pozzo di Sichar offre, alla nostra meditazione,
assai più di uno spunto. Indubbiamente questo episodio ci è giunto mutilato,
mutilato per più ragioni. Con Gesù non vi era alcuno: fra Gesù e la donna
dovette esservi stato un colloquio non privo di drammaticità. Esso ci è giunto
frammentario e, probabilmente, solo quello che di esso colloquio, la donna
avrà voluto riferire. Innanzi tutto chi era questa samaritana? Non una
meretrice, in quanto che: il suo contegno e la stessa stima della città che
aveva ascoltato Gesù per la sua testimonianza, dimostrano che essa era, se
non stimata, indubbiamente considerata. Il suo passato, ancorché pieno
sessualmente, era tuttavia limpido, poiché anche la parola del Vangelo si
accentua sul termine “mariti”: “Avesti dunque cinque mariti, e quello con il
quale vivi non è tuo marito”.
Il valore dell’episodio della samaritana è un valore di vera testimonianza.
La donna non è una mistica esaltabile, una penitente depressa, una isterica
suggestionabile; è una donna matura sana, equilibrata; una donna capace di
controllo la cui parola è da prendere seriamente. A questa donna Gesù tende
il suo divino tranello per mietere in Samaria. La samaritana non è ben
disposta verso i giudei e, conosciuto in Gesù un giudeo, lo tratta con
stupore, dicendogli: “Tu non hai nulla per attingere e il pozzo è profondo”. E la
conversazione si avvia, ma solo quando Gesù si rivela all’intelligenza in armi,
la donna comincia a chiedere quell’acqua viva di cui lo strano viandante si
dice depositario. Qui il dialogo si fa drammatico: “Vai a chiamare tuo marito e
vieni qua”. Queste parole Gesù deve averle pronunziate fissandola negli occhi
con lo sguardo folgorante di chi attende che sia confermata una menzogna,
la donna ha capito che lo strano viandante ha ignoti poteri. Del resto essa
può sfidare evidentemente la verità, essa ha una posizione sicura, perciò
risponde: “Non ho marito”. Vi è della sfida ini questa confessione, ma Gesù
non raccoglie la sfida. Gesù usa il suo potere di interiorizzazione per
dimostrarsi alla donna: “Hai detto bene -Io non ho marito- , perché hai avuto
cinque mariti, e quello che hai ora non è tuo marito”.
Ma subito il tono muta, la donna riconosce in Gesù un profeta e subito
passa ad argomentazioni escatologiche, strane sulla bocca di una donna del
popolo, di una donna che va da sé al pozzo ad attinger l’acqua. “I nostri padri
hanno adorato su questo monte, e voi dite che a Gerusalemme adorerete il
Padre”. E Gesù risponde con le sublimi parole dell’insegnamento religioso di
tutti i tempi: “Iddio è spirito, e quelli che l’adorano, bisogna che l’adorino in
spirito e in verità”. E poi ancora: “L’ora viene che né su questo monte, né a
Gerusalemme adorerete il Padre”. Non nelle formule, nei riti, nella varie
liturgie; ma nell’essenza dello Spirito è contenuto il mistero della vera
adorazione e, per questa divina realtà, il Padre celeste ha mandato agli
umani il Suo Primogenito. Le Verità più sublimi escono dalla bocca di Gesù e
la samaritana stranamente lo comprende al punto da rivolgerGli l’audace
domanda: “Io so che il Messia ha da venire; quando sarà venuto ci annunzierà
ogni cosa”. Gesù le disse: “Io che ti parlo, sono desso”. Questa è una delle
poche volte in cui Gesù afferma se stesso essere il Cristo. Generalmente, Egli
preferisce che siano gli altri a riconoscerLo, a proclamarLo, a confessarLo.
Perché con la samaritana tanto confidente abbandono, non solo, ma quasi
una lieve punta di esibizionismo? La donna non si stupisce, accetta come un
fatto naturalissimo che sia così e, visti avvicinarsi i discepoli, tronca la
conversazione e si allontana a chiamar la sua gente proclamando la sua
convinzione: “Venite a vedere un uomo, che m’ha detto tutto quello che ho
fatto; non sarebbe Egli il Cristo?”.
Ancora una volta noi chiediamo: Chi era dunque la samaritana? Perché ad
una donna straniera, Gesù apre il segreto abisso delle conoscenze più
segrete? A quale bisogno Gesù andava incontro? Non lo sappiamo, possiamo
solo constatare che è così, e cercare di capire il movente segreto. Non era
facile che Gesù si intrattenesse con donne, anzi a differenza dei vari profeti,
maghi o santoni, a differenza degli scribi o dei dottori, Gesù non amava un
pubblico femminile. La facile esaltazione, l’acceso sentimento, la sensuale
mollezza, propria dei paesi caldi; l’ignoranza volontaria o meno, in cui
generalmente era sprofondata la donna; la continua richiesta di miracoli o di
favori, comune al sesso femminile, faceva sì che Gesù si cercasse i discepoli
fra i maschi e tollerasse che le compagne o le parenti dei suoi discepoli
seguissero appartate le Sue lezioni e sovvenissero ai bisogni della piccola
comunità, ma discepoli non ne faceva e non ne ammetteva; è per questo che
i discepoli tornando e vedendo il Maestro intento a conversare con una
donna, stupirono grandemente. Certamente, fra di loro, avranno lungamente
parlato della cosa, pure senza riuscire a spiegarsela, ma forse la spiegazione
è questa: -Nella donna samaritana Gesù aveva riconosciuto un’affiliata
essena, quindi un’anima maschia dalla mente aperta a vasti problemi, come
trapela dalle poche frasi che ci sono giunte e lì, nella solitudine tranquilla,
anche Gesù aveva goduto la purissima gioia dell’intelletto che è quella di
comunicarsi ad un altro senza preconcette posizioni da difendere. La
samaritana aspettava il Cristo anche lei, ma non per chiederGli dei favori o
dei prodigi, ma perché facesse chiaro nel suo interno, perché saziasse la sua
inestinguibile sete di sapere e di conoscere. L’acqua viva dell’eterna sapienza
sgorgava, e che poteva desiderare se non che gli assestati bevessero? La
samaritana era assetata, e Cristo godeva di saziarne la sete.
L’antico proverbio dice giustamente che: -Quando il discepolo à pronto il
maestro appare-. E’ il discepolo che suscita il maestro, non il maestro il
discepolo. Solo il sincero desiderio della conoscenza apre le porte della
conoscenza stessa, ma il desiderio della conoscenza deve essere senza
secondi fini, deve essere puro, senza egoismi, senza avidità, senz’altra
speranza che di vedersi compito. Allora il prodigio avviene, la comunione si
attua e, andando per acqua peribile e marcescibile, ci si imbatte nella fonte
eterna della vera acqua viva di cui è così dolce dissetarsi che si desidera
l’ardente sete. L’incontro di Cristo con la samaritana è un incontro che si
ripete nel tempo; ognuno che voglia, sinceramente, avrà il suo pozzo di
Sichar sul cui parapetto il Cristo l’attende. Se anche Gesù non amasse molto
di esser circondato da donne, ad esse però affida un grande compito: il
compito della testimonianza delle cose più difficili. In Samaria, non era facile
per un uomo giudeo predicare e insegnare, tuttavia anche in Samaria era
stato seminato il Verbo della verità e, da quel seme, si era maturato un
raccolto. La samaritana sarà la testimone creduta e credibile, sarà la
messaggera del popolo di Samaria della venuta del Cristo sin che il popolo,
che aveva creduto alla parola della donna, potesse di per sé credere alle
parole del Cristo.
Quante volte nella vita terrena, un libro sfogliato a caso, una parola udita,
un incontro inatteso ci sono di testimonianza del Cristo che è venuto?
Quante volte la risposta alle nostre segrete domande ci è giunta
apparentemente per caso, in realtà perché suscitata dalla rispondenza piena
fra noi e l’oggetto delle nostre brame? Nella donna samaritana, così come
nella città di Samaria, vi era quest’inconscia attesa del Cristo; attesa cui il
Cristo non poteva che rispondere. Nel contatto fra scolari volenterosi e
maestro la comunione avviene fulminea, i grandi problemi sono subito
affrontati; gli unici che al solito non capiscono sono i discepoli, ma Gesù li
ammaestra parlando del seminatore e del mietitore, spiegando come l’uno e
l’altro devono rallegrarsi insieme ancorché il seminatore non mieta e il
mietitore non semini. Nella vita dello spirito, come in quella della materia,
nulla avviene improvviso, spesso un seme attende decenni per sbocciare, ma
poi alla sua ora fiorisce e fa frutti. Chi l’ha deposto quel seme? Chi lo sa,
qualcuno certo lo depose! Chi s’inebria però del fiore e del frutto non conosce
l’ignoto, ma un ignoto vi fu che credendo alla virtù del seme, il seme stesso
espanse. Non vi è raccolto senza semina, ma chi semina non raccoglie, altri
raccoglieranno per lui, e se fu seminato il bene, il frutto sarà bene, se fu
seminato male, il frutto sarà male. Attenzione a ciò che si semina, perché ciò
che si semina sarà raccolto. Possa il seminatore rallegrarsi con il mietitore
nella vita eterna.
In Samaria era stato sparso il seme di verità che merita di aver come
mietitore lo stesso Cristo. Ognuno può essere Samaria, perché in ognuno
Cristo fu seminato da Dio; in ogni uomo Cristo è il seme di Dio, il seme che
farà frutto se le cattive erbe delle passioni e dei vizi non lo soffocheranno.
Eppure, queste cattive erbe non sono onnipotenti, la samaritana lo
testimonia, neppure la carne è più forte di Dio se essa non offusca
l’intelletto. Cinque mariti e un amato in carica testimoniano indubbiamente
una certa attività sessuale, eppure l’intelletto non ne è offuscato e, appena il
Cristo si appalesa, tosto essa, con gioia, Lo riconosce e Lo testimonia. Di
questa testimonianza Cristo mostra di compiacerSi, ed a simboleggiare il
diritto dell’uomo ad esser maggiore di se stesso, signore del suo stesso vizio.
Non vi è mai da disperare di chi sa pensare, vi è solo da temere per chi
abdica alla sua capacità intellettiva. L’intelletto è, tra i doni dello Spirito
Santo, quello che maggiormente scolpisce la divina somiglianza, quello che
più di ogni altro esprime la paternità divina. All’intelletto l’uomo deve
aggrapparsi per esser se stesso, e l’intelletto non è rifiutato se non a chi lo
rifiuta. L’intelletto non è erudizione, non è la cultura, non è neppure quello
che il mondo chiama intelligenza. L’intelletto è una facoltà segreta dello
spirito che tanto più di appalesa quanto più interiormente s’impara a fare
silenzio.
Gesù si trattenne due giorni a Samaria e miete la messe spirituale che Lo
attendeva. In quell’occasione disse: “Le messi sono mature e sono molte, ma
gli operai scarseggiano. Vi e fame e sete di conoscenza spirituale nel mondo,
ma ancora una volta i dottori della legge avendo la chiave non la usano, non
entrano loro e non lasciano entrare gli altri, eppure il seme divino germoglia
e le messi biondeggiano, ma non sono gli operai del padrone delle messi
quelli che mietono e non è nei granai del regno di Dio che si accoglie il
raccolto. Una divina sete d’amore è seduta sul parapetto del pozzo del nostro
inconscio e supplichevole chiede: “Dammi da bere, dammi l’acqua
marcescibile della tua natura umana, in cambio io ti darò quella viva della
mia natura divina!” Anche se risponderemo come la samaritana poco
importa, purché rispondiamo alla grazia: berremo di quell’acqua e non
avremo più sete in eterno. I cinque mariti che sono i nostri sensi e l’amante
che è la nostra personalità non potranno impedircelo. Cristo mediante i Suoi
rapporti umani fa sì che mille strade convergano ad una unica strada, quella
che conduce alla vita eterna.
Più avanti esamineremo il valore esoterico delle preghiere e degli atti
rituali compiuti dal Cristo sacerdote e vedremo nella luce della conoscenza,
l’importanza dei sacramenti carismi dello Spirito Santo, siano essi di diretta
emanazione cristica o della chiesa, come società emanata a governo delle
anime. Cercheremo di vedere, con l’ausilio dell’intelletto, i complessi aspetti
di quel misterioso e semplicissimo vero che si chiama l’amore di Dio per
l’uomo. Amore che fece incarnare il Verbo acciocché le anime, per mezzo di
Lui, fossero riscattate alla vita del regno di Dio.
Proprietà letteraria “ASSOCIAZIONE IDEA SPIRITUALISTA”
Riservati tutti i diritti- Autorizzate le riproduzioni purchè ne venga citata la fonte
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