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22/02/2002 - LP5 - trascrizione

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22/02/2002 - LP5 - trascrizione
Nome file
020222LP_MGM1.pdf
data
22/02/2002
Contesto
LP
Relatore
MG Monopoli
Liv. revisione
Trascrizione
Lemmi
Agostino, santo
Città
Competenza
Corpo
Freud, Sigmund
Kant, Immanuel
Soggetto
Spazio
Tempo
SEMINARIO DI STUDIUM IL LAVORO PSICOANALITICO 2001-2002
UNA IDEA SEMPLICE. LA PIETRA SCARTATA. IL PENSIERO
ANCORA SULL’AMORE NELLA PSICOANALISI
22 FEBBRAIO 2002
5° SEDUTA
COME SI COSTITUISCE L'APPUNTAMENTO
SPAZIO E TEMPO NELLA TECNICA di Freud
TEMPO E SPAZIO COMPETENZA DEL SOGGETTO
M. GRAZIA MONOPOLI
Intanto, è già stata ricordata dal Dr. Alemani quella frase di Freud di Al di là del principio di piacere.
Appunto, «oggi la tesi kantiana che il tempo e lo spazio sono forme necessarie del nostro pensiero può essere
messa in discussione».
Ero partita da questo punto.
Sull’onda di questa citazione, su questa vorrei esprimere un pensiero, apparentemente banale.
Se spazio e tempo fossero dei concetti a priori — e qui mi veniva in mente anche solo quell’a priori
che è proprio del Super-io, del «già dato», del «già definito», quello del «Sei fuori tempo», «Non è più tempo
di…», «Non c’è più spazio per me», «Non c’è più spazio per te». Insomma di quella regola che acquisita dal
pensiero, quella regola che non si può trasgredire — quindi se spazio e tempo fossero dei concetti a priori,
anche solo in questo senso, si avrebbe l’idea di qualche cosa che si è interrotto, che si è guastato, che è
andato storto, di una tirannia dello spazio e del tempo: o di qua o di là.
Pensando a queste cose mi veniva in mente un breve scambio di battute con Ambrogio Ballabio dove
io gli domandai se avrebbe preso in analisi una persona di 60 anni circa, e lui mi rispose: «Se questa persona
è convinta di avere del tempo davanti, sì». Allora, tempo e spazio non sono a priori, ma sono competenza del
soggetto.
Poi mi è venuto spontaneo accostare il titolo di questa sera al tema dell’unica Città oppure delle due
Città e ricordo alcune brevi citazioni dal Pensiero di natura.
I termini di Agostino sono due: sono corpo e Città. La Città, ossia il rapporto, è la condizione della
vita dei corpi, e nella condizione umana che conosciamo affinché vi sia Città ve ne devono essere due. E la
Città dei malati non è una terza Città, bensì è l’una che resta quando è abolita la distinzione fra le due Città
agostiniane.
Allora, tempo e spazio di una sola Città, sono per esempio il campo del «Ma siamo la tua famiglia», della
professione, realizzazione, della coppia lavoro-tempo libero, degli spazi comuni, etc.
Ho pensato che in fin dei conti il tempo e lo spazio di una sola Città sono un tempo e uno spazio che
sono ricattatori, che sono agorafobici, che sono claustrofobici, che sono interminabili, che sono infiniti, che
in ultima analisi sono angoscianti. Per esempio, è abbastanza comune e rilevabile da chiunque, non solo in
ambito di analisi, nella migliore delle ipotesi, rilevare lo smarrimento, fino alla tristezza e all’angoscia, di
fronte a un panorama.
1
Mi domandavo perché claustrofobia e agorafobia possono essere considerati vizi nel pensiero delle
due Città. Perché ci sono due Città quando c’è norma di competenza individuale. Quindi, se c’è pensiero di
competenza non c’è mai conflitto fra le due Città; è quando non c’è questo pensiero di competenza che allora
lo spazio e il tempo fanno me; la claustrofobia è il disorientamento nella legge di moto. Poi mi domandavo
se c’è un termine che definisca la stessa cosa della claustrofobia in relazione al tempo. Al momento non mi
veniva in mente.
Poi il Dr. Contri a Genova, quando è venuto a parlare al Monastero, ha riposto la questione
dell’abitare e diceva «Il nostro mondo è male abitato. Solo dove c’è abitato e abitabilità si incontrano altre
persone. E un abitato è anche una piazza, se ci si incontra. È un abitato, è un fatto civile, anche la piazza e
non solo le tavole da pranzo, non solo le stanze». Ecco che allora mi veniva in mente che claustrofobia e
agorafobia sono il tempo e lo spazio di una carcerazione a vita, cioè di uno spazio occupato e di un tempo
ristretto. Tempo ristretto nel senso di pre-definito. Anche se fossero nel senso della classica frase «Ti
aspetterò tutta la vita». Oppure anche l’uso del tempo come attesa di vendetta: «Ti aspetto al varco».
GIACOMO B. CONTRI
«Ti aspetto al varco» è il significato della frase «Ti aspetterò per tutta la vita».
M. GRAZIA MONOPOLI
Infatti. Perché prima o poi te la faccio pagare, se ti aspetterò per tutta la vita. Oppure il classico
esempio di sedersi sulla riva del fiume aspettando che passi il cadavere del nostro nemico.
Ora, perché una sola Città non costituisce regime dell’appuntamento? Perché nell’unica Città non c’è
lavoro. Cioè è il passaggio di Aristotele dalla potenza all’atto, cioè dal «Vieni» al «Vengo». Ora, questo
passaggio nella patologia si risolve nel «Vediamo… Ci devo pensare…» che non è il tempo del giudizio. Ma
è il posto, spazio, già occupato dal pensiero che ci può essere sempre qualcosa di meglio che lo può
occupare.
E poi mi torna in mente la parola «spazialità». Un breve esempio: un bambino di 7-8 anni con cui sto
lavorando e la parola «Meraviglie» del primario del Centro di Psicologia dell’ospedale Gaslini che a una
verifica periodica sul lavoro con questo bambino mi dice: «Ah! La spazialità è risolta». Ora, se c’è una cosa
su cui io non ho lavorato è proprio la spazialità. Semmai ho dato spazio al pensiero, con questo bambino.
Allora dando spazio al pensiero, il corpo risponde bene e quel corpo di quel bambino lì che si costituisce
ogni volta come un appuntamento, al quale il bambino, se ci sta, risponde quando gli viene bene: arriva e
dice «Lo sai che…» e ti racconta.
Quando si dice anche come consiglio terapeutico «Ma prenditi i tuoi spazi», «Si riappropri del suo
tempo». Mi puzza davvero di rivendicazione, perché c’è qualcuno che mi porta via i miei spazi, mi espropria
del mio tempo, ed è una concezione sindacale del tempo e dello spazio e del rapporto.
Ora, nel pensiero delle due Città sono radicalmente implicati i concetti di spazio e tempo. Non come
a priori di Kant, perché allora davvero sarebbero solamente uno spazio da occupare e un tempo da far
passare, come quel paziente che viene e ti dice: «Venendo su ho pensato come occupare questo spazio di
tempo». Mi ha colpito questa frase.
Oppure sarebbero solo una contrattazione su coma shakerare adeguatamente i miei tempi e spazi e i
tuoi, in modo che ne risulti un mix rispettoso di entrambi. Non in questo senso, ma nel senso che passano e si
orientano spazio e tempo al passo con la soddisfazione o con l’insoddisfazione, cioè appunto con la
giuridicità dei rapporti.
Poi qua ricordavo anche una questione sul passaggio aristotelico dalla potenza all’atto, ma la lascio
un attimo da parte.
Passerei subito al tema che mi è venuto in mente dell’ Analisi terminabile e interminabile di Freud.
Freud dice:
2
A proposito delle richieste pulsionali, che di norma l’analista riesce a tenere represse, queste
richieste pulsionali diventano i pericoli dell’analisi. Ciò significherebbe che non solo l’analisi
terapeutica del malato, ma anche la sua stessa analisi, da compito terminabile si trasformerebbe in
compito interminabile.
Poi Freud dice alla fine:
Non intendo sostenere che l’analisi sia comunque un lavoro che non finisce mai.
Però ciò che dice dopo è grandiosamente nel regime dell’appuntamento:
La fine di un’analisi, a mio avviso, è una faccenda che riguarda la prassi. L’analista, rebus bene
gestis, cioè fatte le cose per bene, ha preso definitivamente congedo dal suo paziente.
Allora, quel rebus bene gestis, è il tempo della reciproca soddisfazione, del «Va bene così». Come
conclusione dell’analisi, e come pensiero che la soddisfazione ha un termine per poi ricominciare. Allora si
capisce poi bene, anche da questo esempio di Freud sull’analisi, che questo tempo e questo spazio sono un
patto, sono un affare insindacabile del rapporto. E solo dentro il rapporto potranno essere giudicati.
© Studium Cartello – 2007
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senza previa autorizzazione del proprietario del Copyright
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