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La storia del vino

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La storia del vino
La storia del vino GAIO VALERIO CATULLO (Verona, 84 ‐ 54 a.C.) da ʺPoesieʺ “ Ragazzo, se versi un vino vecchio riempine i calici del più amaro, come vuole Postumia, la nostra regina ubriaca più di un acino ubriaco. E lʹacqua se ne vada dove le pare a rovinare il vino, lontano, fra gli astemi: questo è vino puro „ Gli eventi che segnano il percorso storico dell’umanità si intrecciano alla storia del vino, antichissima bevanda, che è stata una indispensabile fonte di energia per i popoli passati. La ricerca della qualità da parte dei produttori fa si che il vino venga oggi considerato un’opera d’arte, come espressione intima della potenza misteriosa della natura. La storia del vino muove i primi passi in oriente, nella culla della civiltà. Le tecniche enologiche erano ben conosciute già in epoca prediluviana, come testimonia la Bibbia quando, nella Genesi, ci riferisce che Noè, sfuggito miracolosamente con tutta la sua famiglia alla furia castigatrice delle acque, decide in segno propiziatorio di impiantare una vigna, la prima in assoluto nella storia. Gli egiziani erano maestri e depositari delle tecniche enologiche. Le scene che appaiono sulle pareti delle tombe rappresentano con grande ricchezza di particolari come si produceva il vino dei faraoni. Era la bevanda principale della classe nobile e veniva considerato superiore alla birra, infatti costava cinque volte di più. Poteva essere arricchito con alcuni ingredienti per variarne sapore e gradazione, per poi essere conservato in anfore tappate meticolosamente. Grazie alle liste delle offerte nei templi e nelle tombe, sappiamo che la sua divinità era la dea Hathor, raffigurata come una donna con corna bovine e un disco solare. Nel corredo funerario della tomba di Tutankhamun, morto nel 1323 a.C., sono state rinvenute una trentina di anfore, che presentano un’iscrizione in ieratico, come “Anno 4 per la casa di Tutankhamon” e una stampigliatura in geroglifico sul tappo d’argilla dove si legge “Vino dei possedimenti di Tutankhamon”, o anche “Vino di buona qualità dei possedimenti di Aton”, che indicano la zona di provenienza, l’annata e il produttore. DallʹEgitto la pratica della vinificazione si diffuse presso gli Ebrei, gli Arabi e i Greci. Attraverso i Greci e i Fenici il vino entrò in Europa. I Greci lo consideravano una bevanda sacra alla quale attribuivano unʹimportanza e una dignità assai elevata: reperti archeologici precedenti alla cultura Micenea, risalenti a prima del 1600 a.C., testimoniano che il vino era già a quei tempi utilizzato come bevanda per scopi rituali e religiosi. La mitologia greca riconosceva anche un dio del vino, Dioniso, che rivelò agli uomini i segreti della produzione della bevanda, e li istruì sul modo in cui servirsi del prezioso dono: esso doveva essere necessariamente mescolato all’acqua (perché il vino utilizzato dai Greci presentava un’altissima gradazione alcolica). Il vino era la bevanda d’elezione nel simposio, la pratica conviviale durante la quale i commensali bevevano secondo le prescrizioni del simposiarca, intonavano canti conviviali (skólia), si dedicavano ad intrattenimenti di vario genere (recita di carmi, danze, conversazioni, giochi ecc.); si credeva che colui che beveva era posseduto dal vino e dalle divinità (Eros, Dioniso o le Muse). Nell’Odissea Omero racconta le vicende di Ulisse nella terra dei Ciclopi: ʺAllora io mi feci avanti. Andai vicino al Ciclope, gli parlavo, tenendo fra le mani una ciotola colma di vino nero. Dicevo: ʹCiclope, toʹ, bevi vino ora che hai mangiato carni dʹuomo. Così saprai che sorta di bevanda è questa che la nave nostra teneva in serbo”. Leggendo attentamente l’Odissea, si può notare la presenza di molte informazioni storiche riguardanti il vino. L’autore del celebre poema, ci fornisce una “scheda tecnica” di “Ismaro”, primo doc della storia enologica, risalente al’epoca della guerra di Troia, circa 1200 anni a.C. “LʹIsmaro proviene da vigne ‐ accuratamente disposte in luoghi non troppo soleggiati sulle pendici dellʹomonimo monte in Tracia ‐ di proprietà di Marone di Evanto che realizza la sua preziosa creatura coltivandola in proprio, con il solo aiuto della famiglia. Alla vista, lʹIsmaro si presenta di un colore rosso profondo, tendente al nero; le sue caratteristiche olfattive sono di grande pregio e suggeriscono fragranze di eccezionale qualità (ʺdi origine divinaʺ); le sensazioni che trasmette al palato sono altrettanto piene e tendono al dolce sapore del miele. Si tratta di un vino dotato di una struttura e di un corpo prodigiosi, data la sua resa nella miscelazione con acqua e gli effetti micidiali che ha su Polifemo, il quale, ʺagendo da pazzoʺ osa berlo in purezza.”. Gli Etruschi portarono la vite dall’oriente e l’acclimatarono in Italia. Per farle crescere più forti, le viti venivano appoggiate ad una pianta di olmo, e circondate da siepi per proteggerle dagli animali alla ricerca di pascolo. Il vino era l’elemento cardine della spiritualità, della quotidianità, del divertimento e del gioco. Con il vino si adoravano i morti, insieme al suono dei flauti doppi e alla danza. La preziosa bevanda era per il ceto aristocratico il mezzo per raggiungere l’ebbrezza e possedere Flufuns (Bacco), nei riti segreti in onore della divinità, riservati agli iniziati. In alcuni affreschi tombali tarquiniesi sono rappresentate delle figure che giocano al “cottabo”, divertimento di origine greca, che consiste nel lanciare il vino contenuto in una coppa contro una colonnina. Gli Etruschi furono dei grandi produttori ed esportatori di vino, e numerose imbarcazioni cariche di anfore vinarie solcavano il Tirreno dalla Sicilia alla Gallia meridionale. Virgilio definisce l’Etruria terra fertile d’uva e di vino, decantandola nel secondo libro delle Georgiche: “At quae pinguis humus dulcique uligine laeta hic tibi praevalidas olim muiroque fluenris sufficier Baccho vitis….” (Ma il suolo grasso e ricco di fecondi umori e il campo coperto dʹerba, fertile e ubertoso ti offriranno un giorno viti rigogliose e fluenti di molto Bacco...). Allʹepoca dellʹImpero Romano la viticoltura si diffuse enormemente, raggiungendo lʹEuropa settentrionale. Nella Roma delle origini il vino era un lusso, un privilegio riservato ai capi famiglia e ai maschi adulti, ma precluso alle donne. Nell’epoca più antica, infatti, il vino era proibito a tutte le donne dal “Mos Maiorum”. Essendo molto costoso veniva mescolato con acqua calda in coppe molto capienti, mentre si consumava puro solo se aveva funzione di farmaco e per le libagioni votive. I sommelier dell’epoca si chiamavano haustores (da haurio che vuol dire bere, gustare, assaporare), che classificavano il vino in una infinità di modi, dimostrando di avere un palato sensibilissimo. Prima di iniziare un banchetto veniva sorteggiato ai dadi un ʺmagister bibendiʺ, che doveva astenersi dalla bevanda, e che aveva il compito di stabilire quante parti di acqua, calda o fredda, vi si mescolavano. Frequentemente il vino veniva condito con miele, resina, mirra e molti tipi di spezie e aromi, che ne esaltavano il sapore. Molto diffuso era il mulsum, vino mielato ottenuto mescolando miele fresco e vino vecchio. I più celebri scrittori elargivano i propri giudizi e decantavano le virtù dei vini a loro più graditi. Si scrisse tanto sul vino che oggi non è difficile ricostruire una mappa vinicola della penisola al tempo dei Cesari. Le tecniche vitivinicole conobbero in quei secoli notevole sviluppo: a differenza dei Greci, che conservavano il vino in anfore di terracotta, i Romani cominciarono a usare barili in legno e bottiglie di vetro, introducendo il concetto di ʺannataʺ e ʺinvecchiamentoʺ. Tra i migliori intenditori di vino troviamo i militari romani, che esportarono la coltivazione della vite in Europa settentrionale, impiantandola in aree oggi rinomate, come Bordeaux, Borgogna, Loira e Champagne. Nei secoli bui del Medioevo il potere assoluto della Chiesa influì fortemente sullo sviluppo della vitivinicoltura. Le invasioni barbariche causarono devastanti danni all’agricoltura, e la coltivazione della vite sopravvisse solo grazie ai monasteri, dove la preparazione del vino, simbolo del sangue di Cristo, era indispensabile allo svolgimento dei riti liturgici. Il vino, ma soprattutto il buon vino, era ancor più sinonimo di ricchezza e prestigio e lʹeccellere nella produzione di qualità divenne per alcuni ordini ecclesiastici quasi una ragione di vita. I benedettini sono conosciuti come validi produttori di vino nonché appassionati e raffinati consumatori. I monaci studiarono le caratteristiche dei vini prodotti nei vari vigneti e nei vari luoghi, stabilendo i confini di quelli che ancora oggi sono considerati i tipici climat della Borgogna, piccoli vigneti le cui caratteristiche sono fortemente influenzate dalle condizioni microclimatiche e del suolo. Quando Bernardo, ex monaco benedettino, fondò nel 1112 lʹordine dei Cistercensi, fu dato ulteriore impulso al tentativo di produrre vini di alta qualità, specialmente in Borgogna, obiettivo alimentato anche dalla forte competizione tra le abazie. Ben presto il vino divenne una bevanda molto comune, e i Governi Comunali si occuparono di emanare disposizioni riguardanti la preparazione e la confezione dei vini, nonché la data di inizio della vendemmia fissata con l’apposito “bando vendemmiale”. Intanto Bordeaux fa storia a sé, dominata non dal potere ecclesiastico ma da interessi commerciali con lʹInghilterra. Questo legame vinicolo tra Francia e Inghilterra, nonostante qualche peripezia, è destinato a durare nei secoli. Si comincia a delineare fortemente, in questo periodo, il ruolo centrale della Francia nella produzione di grandi vini. Il vino veniva classificato in base ai metodi di spremitura delle uve. Il migliore prodotto, destinato ai ricchi, era ottenuto da una blanda compressione delle uve, che produceva un succo naturale e corposo. Con una compressione più vigorosa si otteneva un vino di qualità inferiore, destinato al clero. La terza spremitura generava un quasi vino, chiamato “acquerello”, bevuto dal popolo e ottenuto aggiungendo acqua alla poltiglia delle vinacce. Il sapore del vino veniva poi rifinito con l’aggiunta di spezie, erbe, assenzio e miele. In questa epoca il vino riconquistò il ruolo di farmaco, come testimoniano i ʺtheatra e tacuina sanitatisʺ, preziosi codici manoscritti realizzati a partire dal XIII secolo, dei quali un celebre esempio è il ʺTacuinum sanitatisʺ conservato nella Biblioteca Casanatense di Roma. Nel Rinascimento ci fu un grande sviluppo enologico, dovuto soprattutto a motivi di carattere economico‐sociale. Gli artigiani e i commercianti iniziarono ad investire le loro risorse finanziarie nella viticoltura, perché la richiesta di vino era sempre più grande, grazie all’incremento demografico, all’accentramento della popolazione nelle città e alle aumentate disponibilità economiche delle varie classi sociali. Inoltre la diffusione della mezzadria stabilizzò i contadini nelle campagne, favorendo la coltivazione di specie arboree, come la vite, che richiedono frequenti e diligenti cure colturali. Nell’Italia centro settentrionale si affermarono i Principati e le Signorie, che portarono un cambiamento nelle abitudini alimentari, con la ricerca di vini di più alta qualità, sia sulle tavole dei ricchi sia su quelle dei poveri. Si degustavano soprattutto vini giovani, perché le conoscenze sulle tecniche di conservazione e di mantenimento erano poco diffuse. Il vino era uno dei protagonisti principali dei lussuosi banchetti della Corte Estense, caratterizzati da cibi elaborati e da bevande prelibate, con splendide scenografie e con un complesso ornamentale ricercatissimo. Erano dei veri e propri spettacoli, che richiamavano la tradizione classica greca e latina; un esempio memorabile furono le nozze tra Alfonso II e Barbara d’Austria, celebrate nel 1565 a Ferrara. Il Rinascimento è caratterizzato da un’ampia letteratura dedicata alla vite. Nelle opere si può notare la presenza di uno spirito nuovo, che rivela l’intento di osservare e descrivere i fenomeni con lʹesperienza valorizzata dalla ragione, secondo una nuova concezione filosofica, che recupera la dimensione terrestre dellʹuomo, il quale aspira a realizzare se stesso, senza trascurare il valore del corpo e dei beni di consumo. In questo periodo nasce l’ampelografia (disciplina che studia, identifica e classifica le varietà dei vitigni), e inizia a svilupparsi la ricerca sperimentale. La conservazione del vino finito in bottiglia fu introdotta nella seconda metà del 1600, quando re Giacomo I d’Inghilterra proibì alle vetrerie l’uso del legno da ardere, per la tutela del legno boschivo che serviva per il mantenimento della flotta. I vetrari, allora, iniziarono ad impiegare il carbone , producendo così vetri di notevole consistenza. A partire dal 1660 in Inghilterra si cominciano a usare pesanti bottiglie di vetro, chiuse ermeticamente con tappi di sughero, per la produzione di ʺsparkling Champagneʺ. L’utilizzo delle bottiglie di vetro con tappi di sughero si diffuse in Francia alla fine del 1600, e dopo alcuni anni anche in Italia. Appariva ormai chiaro a tutti che il vino si conservava più a lungo in bottiglie di vetro ben chiuse, e che aveva una durata ben maggiore di quello conservato in botte, essendo in grado di mantenere le sue caratteristiche organolettiche per circa 4 o 5 anni. In questo periodo inizia a diffondersi l’uso dell’etichetta, perché con la grande varietà di vini prodotti si sentì il bisogno di identificare i vini stessi per origine e qualità. La più antica etichetta annoverata nei musei è quella scritta dal monaco francese Pierre Pèrignon, inventore dello champagne, che aveva la consuetudine di etichettare le bottiglie con una pergamena che veniva legata al collo della bottiglia con un pezzo di spago. Il 1600 è caratterizzato anche dalla diffusione della vite in California, grazie alle prime missioni di gesuiti, francescani e domenicani che, per la necessità di avere il vino per l’eucarestia, iniziarono a coltivare la vite negli orti intorno ai conventi. Il 1800 rappresentò per l’enologia un secolo fondamentale. Il panorama ampelografico di questo periodo era molto complesso e confuso, e l’esigenza di maggiori conoscenze portò allo sviluppo degli studi ampelografici, che consentirono di classificare scientificamente i vitigni conosciuti e le metodologie enologiche. In questo periodo le viti europee furono colpite da gravi malattie, alle quali non fu compito facile trovare rimedio. Nella primavera del 1848 vennero dati i primi allarmi in Francia, quando i vivaisti della regione parigina constatarono il disseccamento dei germogli della vite. Si trattava dell’ Oidium Tuckeri (oidio), una muffa proveniente dall’Inghilterra, le cui spore furono trasportate in Francia dai venti del Nord. Nel 1851 la malattia aveva ormai invaso il Sud della Francia e il Nord dell’Italia. Cavour, che oltre ad essere il Primo Ministro del Regno era anche un uomo di esperienza agraria, incaricò la Reale Accademia di Agricoltura di Torino di studiare la malattia e trovare un rimedio. Al termine dello studio, si presentarono i risultati in unʹadunanza straordinaria del 10 settembre 1851, nella quale si indicò lo zolfo come mezzo di difesa. Tra il 1868 e il 1869 ci furono le prime segnalazioni della presenza della fillossera, l’afide che attacca le radici della vite europea. Nel 1879 l’invasione della filossera venne notata per la prima volta in Italia. Il ministero costituì nel 1879 la Commissione consultiva sulla fillossera, un organo apposito per lo studio della malattia. Quasi tutti i vigneti europei andarono distrutti o furono gravemente danneggiati. La soluzione fu quella di ripartire da zero, innestando la vite europea sulla radice americana immune alla fillossera. Ci fu un’altra malattia che fece la sua prima comparsa in questo secolo, la peronospora, una muffa di origine americana. I primi segni ci furono in Francia nel 1879, ma fece sentire i suoi effetti soprattutto a partire dal 1884. La nuova malattia indusse stazioni sperimentali, istituti agricoli, fito‐patologi e viticoltori a studiare i possibili rimedi. Si formarono tre grandi correnti in merito alle possibili soluzioni, una a favore dello zolfo, una in favore della calce e una in favore del solfato di rame. Studi e sperimentazioni portarono alla proposta di diverse formule in cui la calce e il solfato di rame erano miscelati in vario modo allo stato liquido, come la poltiglia Bordolese, in seguito ampiamente utilizzata. Nei primi anni del 1900 la produzione vitivinicola italiana e di altri paesi europei era concentrata soprattutto sulla quantità, trascurando in parte la qualità. Il commercio e la produzione hanno permesso alla frode di assumere dimensioni tali, che il mercato mondiale si trovò inondato di bevande che portavano abusivamente il nome di “vino”. Per esaminare il grave problema vennero organizzati vari congressi, e seri miglioramenti si realizzarono grazie alla prima definizione di vino e alla conferma dei principi della Convenzione di Madrid del 14 aprile 1891, relativa alla repressione delle false indicazioni di provenienza. Nel 1924 Spagna,Tunisia, Francia, Portogallo, Ungheria, Lussemburgo, Grecia e Italia firmarono un accordo che istituì la creazione a Parigi di un ʺUfficio internazionale del vinoʺ (O.I.V). La viticoltura italiana tornò a rifiorire soltanto dopo la seconda guerra mondiale, con l’avvento delle leggi sulla Denominazione di Origine Controllata (D.O.C. e D.O.C.G.). La produzione si concentrò nuovamente sulla qualità, dando origine a vini apprezzati dagli appassionati ed esperti di tutto il mondo. Sono nati in questo periodo piccoli produttori che dedicano una grande attenzione al territorio, alla qualità ed alle tecniche tradizionali di produzione. Negli ultimi decenni l’antica arte di produrre vino è stata investita da grandi trasformazioni scientifiche e tecnologiche, al fine di migliorare e semplificare il processo produttivo. Nuovi paesi produttori di vino, come Australia, Cile e USA, hanno fatto il loro avvento sul mercato internazionale grazie alle nuove tecnologie, oltre che ad organizzazioni commerciali e di marketing molto aggressive. La scienza ha introdotto cambiamenti in tutta la filiera industriale, dallʹirrigazione ai tappi, dalla genetica della vite fino al controllo delle malattie della pianta. A cura di Maria Ricci 
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