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A casa di Elvis - La Repubblica.it
Domenica il fatto Rushdie e il ritorno della fatwa La di DOMENICA 15 LUGLIO 2007 MOHSIN HAMID e JOHN LLOYD la memoria Repubblica I sessant’anni dei guerrieri della Cia VITTORIO ZUCCONI A casa ELVIS FOTO MICHAEL OCHS ARCHIVES/GETTY IMAGES di Trent’anni fa moriva il re del rock Siamo andati a Graceland dai suoi amici a farci svelare i segreti del mito GIUSEPPE VIDETTI U MEMPHIS ndici del mattino. Una voce stentorea annuncia il loro arrivo, l’ascensore si apre: le cinque anatre escono precedute da un valletto. Attraversano altere due ali di folla e si tuffano nella fontana centrale, dove rimarranno a sguazzare fino alle cinque del pomeriggio, quando, con una cerimonia non meno pomposa, i blasonati pennuti saranno riaccompagnati nella loro suite. La marcia delle anatre va in scena al Peabody di Memphis da più di settant’anni. È una tradizione dell’hotel, due volte al giorno l’attività della hall si paralizza per accogliere i visitatori che non vogliono perdersi un attimo della surreale parata. In una città dove non c’è molto da fare, ogni occasione è buona per creare l’evento: di notte il blues che schizza fuori dai locali di Beale Street, di giorno le anatre superstar del Peabody. Memphis non era molto diversa, quando i Presley arrivarono da Tupelo, Mississippi, nel 1948: Gladys e Vernon in cerca di una vita migliore in quell’America povera, baluardo della segregazione razziale; il giovane Elvis già perduto nel suo sogno di gloria, sfondare nel mondo dello spettacolo. Tutto quel che il Re del rock’-n’roll ha toccato, o soltanto sfiorato, nei suoi vent’anni di trionfi og- gi è sacro. La casa dove abitò appena sbarcato in città, i leggendari studi della Sun dove immortalò la sua voce, l’Orpheum Theater dove stava rinchiuso notti intere a rivedere lo stesso film, i saloni del Peabody dove bighellonava con gli amici, ma soprattutto Graceland, la magione che acquistò nel 1957 dopo il primo milione di copie vendute. Il santuario, al numero 3734 dell’Elvis Presley Boulevard, con le spoglie del primo martire rock tumulate nel giardino suggestivamente battezzato “Meditation Garden”, è da trent’anni meta di incessanti pellegrinaggi. Priscilla e Lisa Marie, rispettivamente moglie e figlia di Elvis, hanno costruito intorno alla memoria della star un giro d’affari che frutta 150 milioni di euro all’anno, grazie ai 600mila visitatori che fanno incetta di gadget e acquistano il biglietto per entrare nella villa georgiana che per due decenni fu il rifugio dorato del mito (senza contare i proventi di un miliardo di copie vendute). Quest’anno saranno molti di più: Memphis e Graceland si preparano a celebrare il trentennale della morte di Elvis, che ricorre il prossimo 16 agosto. Ci saranno la veglia al lume di candela, la processione notturna davanti alla tomba, la visita rituale all’Heartbreak Hotel, già da mesi tutto esaurito, e infine il concerto di mezzanotte al FedEx Forum, dove cento tra musicisti e coristi che si sono esibiti con Elvis, sono pronti ad accompagnare la sua voce registrata per un pubblico che per due ore non la smetterà di esultare e piangere. (segue nelle pagine successive) i luoghi Il muro di Belfast che divide i morti DARIO BIOCCA e ADRIANO SOFRI la lettura Due scrittrici e le loro vite gemelle MELANIA G. MAZZUCCO e ANNEMARIE SCHWARZENBACH spettacoli Cinebox, il padre di tutti i videoclip EDMONDO BERSELLI e GIANNI VALENTINO l’incontro Karl Lagerfeld creativo inarrestabile LAURA LAURENZI Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 la copertina A casa di Elvis La mattina del 16 agosto 1977, il ragazzo venuto da Tupelo, Mississippi e divenuto il più grande rocker della storia moriva nella sua reggia di Memphis. Lasciò dietro di sé un miliardo di dischi venduti, un culto quasi religioso e miti e leggende sulla sua fine. Siamo andati a Graceland, trent’anni dopo, a incontrare chi l’ha conosciuto MISERIA E NOBILTÀ Da sinistra la casa a Tupelo, Mississippi dove è nato Elvis; la facciata di Graceland a Memphis Tutti gli uomini del Re GIUSEPPE VIDETTI (segue dalla copertina) «P resley, fai vedere ai signori come si fa». Il bambino avrà cinque o sei anni, imbrillantinato e tirato a lucido come un rocker in miniatura. È arrivato con i genitori dalla provincia inglese e davanti alla tomba del Re mima con impressionante energia il movimento pelvico che fece arrossire l’America. Sua madre, crudele coreografa che sbandiera in ogni gift shop la sua Visa oro con l’immagine di Elvis, lo incita: «Dai Presley, avanti la gamba destra, su le braccia, fai roteare il bacino». Il piccolo s’impegna diligentemente in quella farsa che l’assenza di una base musicale rende grottesca. Alla fine non avrà neanche un applauso: davanti alla tomba di Elvis i visitatori arrivano storditi, dopo aver vagato per le stanze della villa, ebbri della vista dei cimeli, del lugubre letto viola di Gladys e Vernon, della Jungle Room dove il divo faceva bisboccia, della cucina che sfornava manicaretti a tutte le ore. Perché a Graceland il giorno si confondeva con la notte. A forza di eccitanti e tranquillanti, Elvis aveva perso la cognizione del tempo. Erano le 7,30 del mattino, 16 agosto 1977, quando disse a Ginger Alden, la sua ultima fidanzata: «Tesoro, non riesco a dormire, vado in bagno a leggere un po’». Ginger si addormentò e solo più tardi scoprì che Elvis non era tornato a letto. Trovò il corpo riverso sulla moquette del bagno, accanto ai due libri che stava divorando, A Scientific Search for the Face of Jesus e Sex and Psychic Energy. L’autopsia evidenziò tracce di quindici farmaci diversi nel suo sangue e un colon ingrossato di sei volte rispetto alla norma. Le stanze del piano di sopra non sono aperte ai visitatori: né il bagno dove Elvis morì né la sua camera da letto. Il fatto che Vernon Presley, morto due anni dopo suo figlio, abbia disposto di non rendere noti i particolari emersi dall’autopsia fino al 2025, ha reso la morte di Elvis più misteriosa e controversa di quella di JFK e Lady D. C’è chi sostiene che si sia tolto la vita e chi, con un pizzico di follia, che abbia scientificamente architettato la sua scomparsa, che non fosse suo il corpo composto nella bara: il volto era quello del giovane, angelico Elvis, non quello di un quarantaduenne obeso e sfibrato. C’è addirittura chi assicura che il Dna di Elvis non corrisponda a quello del cadavere, adducendo prove non troppo convincenti legate a un fazzoletto intriso di sudore afferrato al volo durante un concerto a Las Vegas e a un capello strappato alla salma durante il funerale. George Nichopolous, “Dr Nick” come lo chiamava Elvis, il medico che prescriveva psicofarmaci come fossero mentine, è ancora vivo. Ha 79 anni ed è consulente di una compagnia di assicurazione. È stato radiato dall’ordine per aver prescritto farmaci in esubero a un altro cliente illustre, il rocker Jerry Lee Lewis. «È vero, c’erano una grande quantità di medicinali nel sangue di Elvis», ammette, «ma nessuno a livelli di tossicità, soprattutto per un paziente che aveva sviluppato una certa tolleranza a quelle sostanze». Fin dall’inizio Dr Nick ha cautamente alimentato, a sua parziale discolpa, la teoria del suicidio sulla quale il velenoso Albert Goldman basò nel 1991 la più inquietante di tutte le biografie, Elvis: The Last 24 Hours. Celso Mezzetti arrivò negli Usa da Valdottavo, provincia di Lucca, il 29 dicembre del 1946, tre giorni prima che il go- verno americano chiudesse definitivamente Ellis Island. Trovò lavoro come sarto nella boutique di Julius Lewis, tra Beale e Main Street, a Memphis. «A Elvis piacevano i bei vestiti, e io gli confezionai la prima giacca cangiante», racconta Mezzetti, che per comodità si fa chiamare Charlie. Ha 78 anni, i capelli candidi e oggi lavora nel negozio di James Davis, uno dei più esclusivi della città. Parla italiano con accento toscano, indossa un Rolex tempestato di diamanti e un anello in parure degno di una star di Vegas. Si accarezza fiero la vistosa cravatta Brioni, la cosa più vicina all’Italia che ha a portata di mano. «Elvis venne da me quando ancora non era famoso. Lo avevano scritturato per l’apertura della farmacia Katz, qui a Memphis. Mi confidò, battendosi il palmo della mano sulla fronte: “Sai Charlie, non ho mai studiato musica, ma ho tutto qui dentro”. Lo guardai da vicino, gli dissi: “Elvis, ma tu ti trucchi. Hai il fondotinta e le sopracciglia curate e l’eyeliner”. Lui arrossì: “Ma no, ma che dici, che ti viene in mente?”. Quando lo vidi in azione sul palco, rimasi sbalordito dalla trasformazione. Era un ragazzo bellissimo, generoso, troppo generoso. Sa che quando morì non aveva più una lira? Aveva dilapidato una fortuna. Una volta, sotto Natale, mi diede appuntamento in una concessionaria. Per ringraziare quattro ragazze che gli avevano ceduto il posto, regalò a ognuna di loro un’automobile. Quando lavorava a Hollywood, ordinava giacche per tutti i suoi amici. Una volta gliene consegnai una partita per trentamila dollari, che allora era una cifra da capogiro». Fu Charlie a confezionare la camicia che Elvis indossò per l’ultimo viaggio. «Mi chiamò Vernon: “Elvis è morto, porta una camicia con una cravatta bianca qui alla camera mortuaria”. Quando arrivai, mi chiese se volevo vedere il corpo. Non ebbi la forza di entrare». «La più grande bugia che sia mai stata scritta è che Elvis è ancora vivo», esclama “È vero, c’erano una grande quantità di medicinali nel suo sangue”, ammette il Dr Nick, quello che gli prescriveva i farmaci, “ma nessuno a livelli di tossicità, soprattutto per lui” George Klein. Il vecchio dj ha 72 anni, l’età che oggi avrebbe il suo “capo”. Klein faceva parte della cosiddetta “Memphis Mafia”, gli inseparabili di Elvis, quelli che avevano accesso ai suoi segreti più delle amanti, dei parenti, della moglie Priscilla, che, parole di Mezzetti «era una presenza muta al suo fianco». Klein cura le pubbliche relazioni del casino Horseshoe di Tunica, Mississippi, una piccola Las Vegas nascosta tra campi di mais e un’ansa del fiume a circa cinquanta chilometri da Graceland e a trenta dal confine col Tennessee. Ingioiellato come si conviene a uno del suo rango, i capelli troppo neri per la sua età, Klein, come quasi tutta Memphis, si è costruito una reputazione all’ombra del Re. E cerca di trarne profitto. «Quanto mi frutterà questa intervista?», esordisce col tono spavaldo di Al Pacino in Profumo di donna. «Ok, ok, scherzavo», minimizza quando capisce che questa volta non avrà un ALBUM DI FAMIGLIA Dall’alto in senso orario, Elvis con la madre Gladys e il padre Vernon nel ’37; con l’amico George Klein; Elvis in divisa alla fine degli anni Cinquanta; in un concerto nel ’56 a Tupelo. Nell’altra pagina con la figlia Lisa Marie e la moglie Priscilla e in un concerto negli anni Cinquanta Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 LA VITA L’INFANZIA I PRIMI SUCCESSI IL RE DEL ROCK IL DECLINO Nasce a Tupelo nel 1935. A dieci anni arriva secondo a un concorso canoro e due anni dopo la madre gli regala la prima chitarra Nel ’48 si trasferisce a Memphis con la famiglia Nel ’54 inizia la carriera con la Sun Records e nel ’56 Heartbreak Hotel è in vetta alle classifiche Nello stesso anno gira il primo film, Love Me Tender Nel ’58 muore la madre Gladys Dopo il servizio militare torna con l’album Elvis is Back!. Nel ’67 sposa Priscilla e nove mesi dopo nasce Lisa Marie Nel ’73 il concerto più importante della sua carriera: Elvis Aloha from Hawaii, trasmesso in oltre quaranta Stati Sempre nel ’73 iniziano i problemi di salute. Nello stesso anno il divorzio da Priscilla e il distacco dalla figlia. Alterna ricoveri ed esibizioni fino al 16 agosto ’77 quando muore per un attacco di cuore TRIBUTO Da sinistra, il soggiorno di casa Presley a Graceland, la statua di Elvis a Memphis; fan davanti alla tomba 81 gli album incisi in carriera per un miliardo di dischi venduti centesimo. «Vuol dire che chiederò un completo di Armani al mio buon amico Charlie Mezzetti. Insieme a una cravatta Brioni, s’intende». Klein sta preparando il suo primo libro su Presley, si chiamerà Elvis, My Best Man (il titolo allude al fatto che il Re fu suo testimone di nozze). «Ho aspettato tanto, perché sono state scritte troppe balle su Elvis e io, a 60 anni dal nostro primo incontro, voglio far chiarezza. Questo, poi, è un anno pieno di ricorrenze: trent’anni dalla morte, quaranta dal matrimonio con Priscilla, cinquanta da Jailhouse Rock, il secondo e il più glorioso dei suoi 33 film», aggiunge Klein, mentre spalma un formaggino sul cracker, nel ristorante a due passi dalla selva di slot machine che producono un rumore infernale. Prevedibilmente, Klein è assai protettivo nei confronti dell’amico scomparso: «Elvis era sovrappeso, ma ancora in gamba ne- 33 i film in cui Elvis è protagonista “Se investi un uomo semplice con un successo come quello, lo uccidi”, dice Charlie Mezzetti, l’italiano che gli confezionava le camicie. “Piango per lui perché era un bravo ragazzo” 1.000 le esibizioni dal vivo o in tv dal 1969 al 1977 gli ultimi giorni. La storia del suicidio è la seconda più grande bugia che sia stata scritta su di lui». Mezzetti non la pensa allo stesso modo: «Mi chiamò a Graceland tre giorni prima che morisse per ordinarmi alcune camicie. Il guardaroba doveva essere continuamente rinnovato, perché Elvis ingrassava a vista d’occhio. Aveva lo sguardo spento, era in uno stato pietoso. Mi si aggrappò letteralmente addosso. Disse: “Charlie, non mi lasciare altrimenti cado”». Perché gli inseparabili non fecero nulla per strapparlo a quella vita d’inferno? Klein diventa più sincero, e più triste: «Perché Elvis era una star, e quando sei una star nessuno può dirti quello che devi o non devi fare. Non l’avrebbe accettato né da me né da suo padre né da Priscilla. Da sua madre sì, ma Gladys era morta nel 1958. Il colonnello Tom Parker, suo manager, era l’unico che avesse voce in capitolo». Gladys e Parker sono le due figure chiave che hanno con- Il fantasma del gemello Jessie GINO CASTALDO l Re non nacque solo. Fu preceduto di 35 minuti da un gemello, Jessie Garon, morto subito dopo la nascita. Ma quell’immagine è sopravvissuta come uno specchio deformante, un angelico fantasma o, in chiave più sinistra, un vero e proprio doppelganger che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Secondo alcuni tra i più raffinati esegeti è qui che dobbiamo cercare la ragione principale della stupefacente duplicità di cui Elvis ha dato prova, sempre diviso tra impulsi ribelli e conservatori, diavolo e santo, protopunk e ligio cittadino, icona rivoluzionaria del primo universo giovanile dei tempi moderni e allo stesso tempo spione della polizia, bieco puritano, tossicomane autodistruttivo e quant’altro. La responsabile di questo complicato gioco di rifrazioni sarebbe soprattutto la madre, Gladys, convinta fin dal primo momento, e ovviamente visti i tempi senza alcuna prova, che avrebbe partorito due gemelli. Era una donna superstiziosa, incline alle intuizioni sovrannaturali, e nell’idea dei gemelli vedeva il segno di un ordine superiore, il riflesso di una perfetta simmetria cosmica. Era talmente convinta del parto gemellare, e di fatto la sua intuizione si rivelò esatta, che da tempo aveva già deciso nomi e prenomi: uno si sarebbe chiamato Jessie Garon e l’altro Elvis Aron, anche qui scegliendo tra nomi biblici e ascendenze familiari (Jessie era il padre di suo marito Vernon e Elvis era il secondo nome dello stesso I Vernon) creando una perfetta assonanza e utilizzando allo scopo lo stesso numero di sillabe. Voleva essere sicura che ognuno dei due gemelli per tutta la vita avrebbe percepito l’eco dell’altro ogni volta che qualcuno avesse pronunciato il loro nome. Ovviamente la morte di Jessie Garon fu un trauma devastante. La simmetria era persa, e oltretutto il medico disse a Gladys che non avrebbe potuto avere altri figli. Da qui la maniacale protettività riversata su Elvis, circondato di ogni attenzione, e legato al grembo della mamma come se il cordone ombelicale non fosse mai stato reciso. Fino alla sua morte, nel 1958, era la sua unica confidente, il suo rifugio, l’intoccabile regina madre del regno che stava nascendo. Fu lei a sussurrare nell’orecchio di Elvis bambino che da qualche parte Jessie Garon doveva esserci, magari come un angelo con cui parlare nelle preghiere. Era Jessie Garon l’ideale figlio modello a cui Elvis doveva rapportarsi; se non fosse morto sarebbe stato di sicuro bravo, buono, perfetto, senza macchia. Ma Gladys era anche bugiarda, e del resto quando ci si avvicina alla storia di Elvis bisogna sempre fare i conti con la sistematica trasfigurazione operata dalla stessa famiglia e poi dai custodi del mito. La baracca dove è cresciuto è stata modificata e ingentilita nel tempo, ma anche sulla nascita e sulla prima infanzia c’erano versioni di comodo, più adatte a sostenere la potenza irresistibile della favola del Re Pescatore. Lo stesso Elvis è vissuto nella convinzione di essere venuto al mondo con una speciale missione e, se non proprio un Messia, si sentiva quantomeno un eletto. Il padre gli confidò che nel momento del concepimento era caduto in una specie di buco nero, un momento di incoscienza, nulla di meglio per convincere Elvis che la sua nascita fosse dovuta a intervento divino, come un eroe mitologico, quasi un novello Gesù. Gladys e Vernon mentirono su molte cose, denunciarono il falso quando scapparono per sposarsi: lei dichiarò 19 anni e ne aveva 21, lui che era più giovane se ne aumentò addirittura cinque per apparire ventiduenne (e non un implume diciassettenne), false erano le storie sui gospel cantati insieme in chiesa, e perfino sulla nascita ci fu un appropriato aggiustamento. Secondo il mito Elvis era nato per primo (del resto come eroe prescelto non poteva che essere il primogenito). A sfatare questa e altre leggende è stato il feroce biografo Albert Goldman (autore di una altrettanto impietosa biografia su John Lennon). Goldman nel 1980 riuscì a trovare i veri documenti della nascita, e scoprì qualcosa che neanche Elvis, a quell’epoca già morto, aveva mai saputo: alle 4 di mattina di una gelida notte tra il 7 e l’8 gennaio del 1935, nacque per primo il gemello morto, Jessie Garon, e alle 4 e 35 nacque Elvis. Sull’atto di nascita il medico scrisse Evis, e i genitori non furono in grado di pagare neanche i 15 dollari dell’onorario. Ecco come nasce un re. 600mila i visitatori a Graceland ogni anno dizionato tutta la vita e la carriera di Elvis. Lei, autoritaria e ubriacona, diventò un modello di donna che suo figlio non si scrollò mai di dosso (spregiudicati biografi hanno anche insinuato l’incesto), al punto che non riuscì mai a fare l’amore con Priscilla né prima del matrimonio né dopo il concepimento di Lisa Marie. Lui, scaltro e con il vizio del gioco, costrinse Elvis nella gabbia dorata di Las Vegas, scegliendo per lui copioni di serie B che non gli consentirono mai di diventare un numero uno a Hollywood (gli impedì, ad esempio, di partecipare a un provino per West Side Story, un film che avrebbe avuto un impatto decisivo sulla sua carriera d’attore). «È vero», borbotta Klein, «ma è altrettanto vero che senza il colonnello, Elvis non sarebbe mai stato Elvis. Non dimentichiamo che dopo la morte di Brian Epstein, i Beatles chiesero a Parker di occuparsi di loro. Lui accettò, a patto che Presley fosse rimasto il suo cliente privilegiato. McCartney, a quel punto, si tirò indietro. E sbagliò». Mike Freeman, 51 anni, una laurea in storia all’università di Memphis, non ha mai incontrato Elvis da vivo, ma dopo la sua morte ha incominciato a collezionare in maniera maniacale tutto quello che era stato scritto su di lui. Cindy Hazen, la ex moglie con la quale ha scritto il libro Memphis Elvis-Style, arrivò in pellegrinaggio a Graceland dal Massachusetts venticinque anni fa. Il motore del suo vecchio van andò in panne proprio sull’Elvis Presley Boulevard, e da allora non è più tornata indietro. Nel 1998, la coppia acquistò la prima casa che i Presley abitarono a Memphis, al 1034 di Audubon Drive. L’anno scorso, in un’asta su eBay, Uri Geller ha offerto 750mila euro per entrarne in possesso, «ma non avendo i requisiti per acquistare una casa nel Tennessee, è stato il discografico Mike Curb ad aggiudicarsela. Credo ne farà un museo», racconta Freeman, che sbarca il lunario organizzando viaggi a Tupelo, Mississippi, nel secondo luogo sacro della “chiesa” di Elvis, la casupola dove il Re vide la luce. «Elvis nacque sul lato sbagliato della strada», esordisce Freeman non appena varca la soglia dell’umile dimora in legno, sottolineando che i Presley vivevano allora in uno stato di estrema indigenza. Una coppia della Repubblica ceca in viaggio di nozze si segna come se stesse entrando in un luogo di culto. Farà lo stesso in tutte le altre tappe del pellegrinaggio: alla Tupelo Hardware Company, dove Gladys comprò a Elvis la prima chitarra; nel cimitero dove è sepolto (senza nome) il gemello Jesse Garon morto subito dopo la nascita; nella modesta casa di Becky Martin, scomparsa nel 2004, che per anni si è sostentata snocciolando ai fan aneddoti sul giovane Elvis, suo compagno alle elementari e primo fidanzatino. «Le racconterò un paio di cose che nessuno sa», dice George Klein in un eccesso di generosità. «Elvis era sonnambulo. E aveva una mania tutta sua: beveva sempre dalla parte della tazza vicino al manico, “così nessuno ci ha messo la bocca”, diceva». L’italiano Mezzetti brontola: «Mi hanno rubato tutti i cimeli che tenevo qui, sul mio tavolo di lavoro. Ormai non ho più niente che appartenga a Elvis». Apre il cassetto, mostra qualche fotocopia sbiadita, accarezza una vecchia foto di lui e Elvis nel negozio Julius Lewis: «Se investi un uomo semplice con un successo come quello, lo uccidi», dice, gli occhi gonfi di lacrime. Perché piange? «Per gli anni che passano, per tutti i ricordi che mi si affollano in testa, per l’Italia, per mia sorella Santina che non vedo da trent’anni. E per Elvis, che era un bravo ragazzo». Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 il fatto Da quando la regina Elisabetta ha nominato cavaliere l’autore dei “Versetti satanici”, una nuova ondata Libertà di pensiero di condanne e intimidazioni da parte dell’Islam più radicale si è abbattuta sul capo dello scrittore, colpito nel 1989 dalla terribile sentenza di Khomeini. Lui minimizza e dice: “Più che altro sono esercizi di retorica” Vivere con la fatwa la prova infinita di Salman Rushdie JOHN LLOYD alman Rushdie convive da lungo tempo con la minaccia di una morte violenta e ormai sembra rassegnato al riguardo. Anzi, ci scherza anche su. Anche se non vive più sotto sorveglianza costante, la fatwa contro di lui rimane ancora in vigore: Rushdie racconta che ogni anno, il 14 febbraio, riceve una sorta di “biglietto di San Valentino” dall’Iran che gli ricorda che quel Paese non ha ancora dimenticato di aver pronunciato il voto di ucciderlo. Gli è stata anche attribuita la frase: «Ormai è arrivato il momento in cui più che una reale minaccia sembra un esercizio di retorica». Nessuno la giudicava retorica quando fu pronunciata dal defunto ayatollah Ruhollah Khomeini, all’epoca capo supremo dell’Iran, nel febbraio del 1989. Rushdie aveva appena pubblicato il suo quarto romanzo, I versetti satanici: una scena del romanzo fa riferimento a una tradizione secondo la quale Maometto avrebbe aggiunto alcuni versetti al Corano, accettando la divinità di tre dee che venivano venerate alla Mecca. Secondo la leggenda, Maometto avrebbe revocato quei versetti, dicendo che era stato il diavolo a indurlo a scrivere quelle parole. Il narratore del libro di Rushdie, però, rivela che quei versetti furono pronunciati dall’arcangelo Gabriele, e che quindi il Profeta aveva mentito: una rappresentazione che i musulmani di più stretta osservanza giudicano come un’eresia. La reazione alla fatwa — che era estesa a «tutti coloro che sono coinvolti nella pubblicazione del libro se consapevoli del suo contenuto» — e alla ricompensa offerta dalle autorità iraniane fu immediata e violenta. Scoppiarono tumulti, sia in Medio Oriente che in Occidente, dove furono date alle fiamme librerie che vendevano I versetti satanici. Il traduttore italiano del libro, Ettore Capriolo, fu picchiato e accoltellato nel luglio 1991 nella sua casa di Milano, ma non fu ucciso. Lo stesso mese, il traduttore giappo- S nese Hitoshi Igarashi fu ritrovato accoltellato a morte nel suo ufficio nell’Università di Tsukuba. In Norvegia, l’editore che aveva pubblicato il libro, William Nygaard, e il traduttore Kari Risvik ricevettero delle minacce e la polizia li mise sotto protezione, ma questo non bastò ad impedire che Nygaard venisse aggredito con tre colpi di pistola fuori dalla sua abitazione di Oslo: l’attentatore scappò credendolo morto, ma l’editore riuscì a sopravvivere. Rushdie stesso, circondato dalla protezione costante di quattro guardie del corpo, è vissuto per anni in una serie di rifugi segreti fino a quando, nel 1998, il leader iraniano dell’epoca, Mohammed Khatami, relativamente moderato, emise una dichiarazione in cui si affermava che l’Iran non avrebbe portato avanti (ma non avrebbe ostacolato) l’esecuzione della fatwa. Quel decreto non ha incontrato un unanime consenso in Iran: nel 2005 il leader spirituale del Paese, l’ayatollah Ali Khamenei, è tornato a ribadire la fatwa in un messaggio rivolto ai pellegrini diretti alla Mecca, e i Guardiani della Rivoluzione continuano a invocare la morte di Rushdie. Lo scrittore angloindiano è sopravvissuto ad almeno un attentato. Nel 1989, poco dopo che era stata promulgata la fatwa, una bomba esplose anzitempo in un albergo londinese vicino alla stazione di Paddington, uccidendo un terrorista. L’incidente rimase avvolto dal mistero fino a quando, nel 2005, un giornalista del Times scoprì una lapide in un cimitero di Teheran che commemorava Mustafa Mahmoud Mazeh, «morto martire a Londra il 3 agosto del 1989. Il primo martire a morire in una missione per uccidere Salman Rushdie». La sua tomba era stata costruita dal Movimento islamico mondiale per la commemorazione dei martiri; nel cimitero sono ospitate anche migliaia di tombe di soldati iraniani massacrati nella guerra tra Iran e Iraq. Rushdie si è comportato con grande dignità in questi quasi vent’anni in cui la sua vita è stata costantemente in pericolo per la possibilità di un’aggressione da parte di estremisti. Quando, nel 1990, Per le parole dell’ayatollah iraniano un traduttore venne ucciso, un altro ferito, un editore lasciato in fin di vita L’anatema di Teheran risale a una generazione fa, come un abito fuori moda Una minaccia che viene dal passato MOHSIN HAMID ché se dicessimo loro: «Idioti, sembrate una manica di crimisoltantocon una certa fatica che l’ultimo caso Rushdie sta nali», quelli potrebbero tagliarci la gola. Tutti abbiamo sia il diconquistando i titoli dei giornali. Ho incontrato Salman ritto di parlare che l’istinto di autoconservazione e passiamo la Rushdie l’altra sera a Londra, ad una cena, e mi è parso vita a barcamenarci tra questi due punti. sconcertato dai tentativi in atto da più parti per trasformare Forse Salman Rushdie si è allontanato dall’istinto di autoquesto evento in qualcosa di molto più importante di ciò che conservazione più di quanto la maggior parte di noi avrebbe esso in effetti è. scelto di fare (a dire il vero, più di quanto lui stesso avrebbe Riflettiamo un momento sulla realtà di quanto è accaduto. forse scelto di fare se avesse saputo in anticipo i rischi che Un famoso romanziere che ha già ricevuto moltissime onoriavrebbe corso scrivendo I versetti satanici). Ma lo ha fatto ficenze è stato insignito di un cavalierato. Un romanzo scritto una generazione fa. Qualcuno si è offeso, ha fatto delle miventi anni fa, molto odiato (anche se non molto letto) nel monnacce, Rushdie si è dovuto nascondere e il mondo è do musulmano, per un momento è stato riportato al andato avanti. centro dell’attenzione dei mezzi d’informazione di Alla grande maggioranza degli esseri umani, mututto il mondo. C’è stata qualche sporadica protesta e sulmani e non musulmani, non importa più un acciqualche risoluzione di governo non vincolante. Abdente. biamo sentito un capo terrorista, che di frequente lanChi c’è dunque al centro dell’ultimo caso Rushdie? cia minacce, lanciarne un’altra. Non Rushdie, dal momento che lui non ha aggiunto In altre parole, non è successo assolutamente nulla. nulla di nuovo. La risposta è che al centro di questo caIo sono un romanziere. Non c’è bisogno che dica so ci sono due gruppi. Uno è quello dei parolai eterche sostengo il diritto di ogni scrittrice o scrittore a dinamente arrabbiati che sostengono di parlare in nore ciò che vuole. Non credo che la legge debba punire me del mondo musulmano e che saranno in collera uno scrittore perché questi dà l’impressione di deMohsin Hamid qualunque cosa accada, perché questa è la fonte del ridere ciò che altri considerano sacro: che si tratti loro potere. L’altro è quello dei mezzi d’informazione occidell’islam, dell’Olocausto, dell’11 settembre o della proibiziodentali, sempre alla ricerca di un altro racconto dell’orrore, un ne della pedofilia. altro segnale che il loro immaginario mostro musulmano è viMa poiché sono un romanziere, riconosco che anche le pacino, spaventoso e terrificante. role hanno un potere. Le cose che si scrivono producono conLa verità sull’ultimo caso Rushdie è che non c’è nessun caso. seguenze. Uno scrittore potrebbe essere ucciso per le sue paLa collera del mondo musulmano su questo tema è stata esarole, oppure essere ricoperto d’oro, o schiaffeggiato per stragerata, così come la minaccia che quella collera poneva. E tutda oppure baciato da una bella sconosciuta. Quando scrivo, ti noi che ne scriviamo e ne parliamo, compreso io, abbiamo lo faccio con la consapevolezza di avere la mia vita tra le mani. l’aria vagamente sciocca e a disagio di chi indossa abiti fuori Ci sono frasi, periodi, paragrafi che potrebbero letteralmente moda ormai da vent’anni. uccidermi. Traduzione di Antonella Cesarini Noi tutti lo sappiamo. Quando, in una strada buia della noMohsin Hamid è autore del libro stra città, passiamo accanto ad un gruppo di ragazzi con il cap“Il fondamentalista riluttante”, pubblicato da Einaudi puccio in testa e gli abiti larghi, teniamo la bocca chiusa. Per- FOTO M AGNUM / CONTR ASTO È Repubblica Nazionale LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 FOTO AP FOTO CONTRASTO DOMENICA 15 LUGLIO 2007 ‘‘ I due rischi Se resto nel mio isolamento corro il rischio di essere dimenticato Se appaio in pubblico, rischio di essere ucciso Scelgo la seconda soluzione Da REPUBBLICA del 7 luglio 1992 ‘‘ In pubblico Vado regolarmente ai ricevimenti Da un punto di vista simbolico è molto importante mostrare a quelli che hanno voluto farmi vivere nascosto come un topo per il resto dei miei giorni che hanno fallito Da REPUBBLICA del 17 ottobre 1992 ‘‘ Essere umano Mi irrita moltissimo vedermi ridotto a un’astrazione, a un simbolo, a un principio Voglio ridiventare un essere umano Uno scrittore col diritto di dire ciò che vuole, senza essere punito AUTODAFÉ Nell’immagine grande, la quarta di copertina della prima edizione britannica dei Versetti satanici di Salman Rushdie data alle fiamme nel 1989. In alto a sinistra, un recente ritratto dello scrittore. Qui sopra, un’immagine delle manifestazioni antibritanniche a Lahore, in Pakistan, lo scorso 18 giugno, per protestare contro la concessione del titolo di cavaliere a Rushdie da parte della regina Elisabetta in Pakistan fu realizzato un film che lo raffigurava come un feroce assassino, che finiva ucciso da raggi di luce (in Pakistan il film fu molto applaudito), lui disse alle autorità britanniche, che avevano vietato il film, che non intendeva intraprendere azioni legali contro di esso e che vietarlo era il modo migliore per renderlo popolare presso un certo pubblico. Rushdie ha partecipato appieno alla vita pubblica, tenendo conferenze, presentando uno show televisivo, addirittura comparendo in un cammeo nel Diario di Bridget Jones, il film inglese che tanto successo ha avuto nelle sale di tutto il mondo. Ha approvato i bombardamenti sulla Serbia come deterrente nei confronti delle azioni di Slobodan Milosevic e ha espresso il suo sostegno al ministro degli Esteri Jack Straw quando questi si è pronunciato contro la possibilità di concedere alle donne musulmane in Gran Bretagna di indossare il velo integrale, il niqab. Si è sposato e ha divorziato quattro volte, l’ultima volta dalla modella e presentatrice televisiva indiana Padma Lakshmi (ha chiesto lei il divorzio). La colpa della fine di questi matrimoni (anche se lui non l’ha mai detto pubblicamente) secondo molti è da cercare nella tensione che inevitabilmente ha circondato — e ancora circonda — la sua vita, anche se il primo divorzio, quello dall’inglese Clarissa Luard, risale al 1987, due anni prima della fatwa. Quando è stato nominato cavaliere dalla Regina il mese scorso — Rushdie ha dichiarato di sentirsi «emozionato e onorato» — il Consiglio islamico di Gran Bretagna ha gettato ulteriore discredito su di lui con una dichiarazione del suo leader, Muhammad Abdul Bari, il quale ha detto che «Salman Rushdie è diventato famoso tra i musulmani per il modo estremamente insultante e blasfemo con cui ha rappresentato alcune figure degli albori della storia dell’Islam. Assegnargli il titolo di cavaliere non può che danneggiare l’immagine del nostro Paese agli occhi di centinaia di milioni di musulmani in tutto il mondo. Molti interpreteranno questo cavalierato come l’ultimo, sprezzante regalo d’addio di Tony Blair al mondo islamico». Il ministro pachistano per gli Affari religiosi, Mohammed Ijaz ul-Haq, si è spinto molto più in là, dicendo in Parlamento, a Islamabad, che «questa è un’occasione, per un miliardo e mezzo di musulmani, di considerare la gravità di questa decisione. L’Occidente accusa i musulmani di estremismo e terrorismo. Se qualcuno si farà esplodere avrà ragione a farlo, se il governo britannico non presenterà le sue scuse e non revocherà il titolo concesso a Rushdie». Il ministro in seguito ha smentito le sue affermazioni, dicendo che non intendeva dire che Rushdie dovesse essere fatto oggetto di un attento suicida (ma è esattamente quello che ha detto). In Iran un portavoce del ministero degli Esteri, Mohammad Ali Hosseini, ha detto che la decisione di rendere onore al romanziere è stato un deliberato atto di aggressione contro le società islamiche. Rushdie, ha detto Hosseini, è «uno dei personaggi più odiati» nel mondo islamico. «Questo atto dimostra che l’offesa ai sacri valori islamici non è accidentale, ma è pianificata, organizzata, guidata e supportata da determinati Paesi occidentali». L’ultimo a farsi vivo, questa settimana, è stato il numero due di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, che ha annunciato «una risposta» al gesto della Regina, aggiungendo che il minimo che i musulmani possono fare è boicottare i prodotti britannici. È improbabile, tuttavia, che Rushdie torni a nascondersi. Sembra convinto, come ha dichiarato, che le minacce non siano altro che «retorica», e che non verrà fatto nessun tentativo reale per ucciderlo. C’è dell’ironia nel fatto che un uomo che ha ferocemente criticato la Gran Bretagna per il suo passato imperialista e per quello che considera il suo presente razzista abbia dovuto affidarsi alla protezione di questo Stato e abbia ricevuto, sempre da questo Stato, un’alta onorificenza. Rushdie ha dimostrato anche di avere il coraggio di affrontare le conseguenze della sua apostasia ed è diventato ancora più grande di prima, sia come uomo che come autore. Traduzione di Fabio Galimberti “Se qualcuno si farà esplodere avrà ragione a farlo, se Londra non revocherà il titolo”, ha detto un ministro pachistano Da REPUBBLICA del 7 luglio 1992 ‘‘ La premessa Possiamo vedere la fatwa come la premessa dell’11 settembre [...]Una cosa piccola prima di una grande Da THE INDEPENDENT del 13 ottobre 2006 Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la memoria Sessant’anni fa, nell’estate del 1947, un avvocato di illustre famiglia, diventato spia per combattere i nazisti, e un generale dalla testa calda convinsero il presidente Truman e il Congresso a istituire la Central Intelligence Agency. Dalla lotta contro l’Unione Sovietica al disastro iracheno, gli agenti di questa immensa burocrazia sono spesso finiti (e morti) in prima linea FOTO CHRISTOPHER MORRIS/VII/GRAZIA NERI Storia segreta DOMENICA 15 LUGLIO 2007 La Cia e i guerrieri dell’ombra l numero 44 di Wall Street, pochi passi oltre il toro di bronzo che fa la guardia ai trionfi e ai disastri della Borsa americana, sta il nido ormai vuoto di un rapace che da qui spiccò il volo per spiegare le ali e conficcare i propri artigli sul mondo. Dentro un edificio anonimo in pietra chiara e mattoni rossi che nessun turista alza mai gli occhi a guardare, in uno degli infiniti studi legali incrostati attorno a Wall Street, un avvocato reduce dalla guerra segreta contro fascisti e nazisti e un generale dalla testa calda soprannominato “il selvaggio” immaginarono, in un’estate di 60 anni or sono, la Cia. Furono Allen Dulles, il patrizio di augusta famiglia che la guerra aveva trasformato da giureconsulto in superspia, e il suo ex superiore, “Wild” Bill Donovan, già comandante dell’Oss, il servizio segreto disciolto nel 1945, che dopo infiniti incontri e trame fra loro in quello studio al “44 Wall Street” riuscirono a convincere il recalcitrante Harry Truman e un gelosissimo Edgar Hoover allo Fbi a rispondere al nuovo nemico, l’Unione Sovietica di Stalin e di Beria, con gli stessi metodi e la stessa mancanza di scrupoli. E fu grazie a loro, e poi a un terzo uomo, James Angleton, che aveva vissuto bambino nella Roma di Mussolini per seguire il padre piazzista di registratori di cassa americani Ncr, che nell’estate di sessanta anni or sono il Con- A gresso degli Stati Uniti partorì la Central Intelligence Agency. Da due generazioni, tra successi nell’oscurità e fiaschi sotto i riflettori, la creatura che quei tre uomini misero al mondo sotto il simbolo dell’aquila, dello scudo e della rosa dei venti, la Cia, è il sinonimo concreto e inafferrabile, romanzesco e ideologico, di tutto ciò che il mondo ama e detesta degli Stati Uniti d’America. «Nulla di quel che sapete della Cia è vero», ammoniva il “terzo uomo” James Angleton, paranoico di professione, responsabile del controspionaggio e della disinformazione. E se perdersi nel labirinto delle bugie, dei doppi e tripli giochi, dei complotti reali o immaginari, è uno sport praticato con passione, dal Cremlino ai monti del Kandahar, dai tribunali d’Italia ai college americani, la realtà più ovvia e dunque più dimenticata è che la Cia è un organismo fatto di uomini, e ora anche di donne. È un’immensa e indefinibile burocrazia, nella quale persino il numero di dipendenti è classified, segreto di Stato, che nasconde, dietro le finestre illuminate che d’inverno gli alberi nudi permettono di intravedere sorvolando di notte la sede in Virginia, storie appunto di uomini e ora anche di donne. Votati, spesso soltanto per la paga avara del bu- rocrate di Stato e per una vita di noia straziante interrotta da sprazzi di terrore, al compito ingrato di essere la serva sciocca dei leader politici che sbagliano. Pronti a prendere, oltre a qualche occasionale pallottola nella nuca in un vicolo di Beirut o in una caverna afgana, «più bastonate di un mulo in prestito», come disse l’ex agente Vincent Cannistraro, da presidenti, ministri, generali, parlamentari in cerca di alibi alla propria stupidità. Cerchiamo persone «per le quali il compimento della missione sia più importante del riconoscimento pubblico», dice lo slogan che in questi giorni la Cia ha prodotto per tirarsi su il morale, mentre fischia il solito vento gelido di accuse e di rimproveri che sempre si alza quando la politica umiliata dai propri abbagli e dalla propria arroganza ha bisogno di un mulo da bastonare. E che il nuovo motto sia qualcosa di più serio che un jingle pubblicitario stanno a dimostrarlo le 88 piccole stelle anonime, ciascuna grande appena sei centimetri, che punteggiano il “muro dell’onore”, il memoriale dei caduti in servizio, all’ingresso del palazzone di Langley sul Pomotac, la sede centrale dell’agenzia. Ottantotto fra uomini e donne la cui storia e identità sarebbe dovuta rimanere segreta, ma che ormai per tutti meno uno, l’ultima stella ag- “Nulla di quel che sapete dell’Agenzia è vero”, ammoniva James Angleton, uno dei fondatori e capo del controspionaggio e della disinformazione giunta due mesi or sono senza commenti, è venuta alla luce. Sono storie che dovrebbero fare giustizia dei miti e degli stereotipi giornalistici sugli “007”, sull’esistenza glamorous e fascinosa di scavezzacolli alla guida di motoscafi o spider, e forse per questo la Cia è così ostile a farle conoscere, oltre che per ragioni di onnipresente riservatezza. Cominciano dal caduto numero uno, dalla prima stella, incastonata nel muro per ricordare Douglas Mackierman, un esperto di crittografia durante la Seconda guerra mondiale che Donovan, colui che i sovietici chiamavano “il padre” della Cia e Angleton, in codice “la mamma”, spedirono nella Cina dove Mao marciava. Mackierman morì ucciso per errore dalle guardie di frontiera del Tibet ancora indipendente, dove stava cercando di rifugiarsi tallonato dai guerriglieri maoisti. I tibetani lo aveva scambiato, micidiale ironia, per un agente russo al servizio di Mao. Mentre i presidenti, le loro corti, i senatori, si palleggiavano questo ministero del tutto e del nulla, adoperandolo come stampella, gettandolo come un vecchio arnese, cercando addirittura di stravolgerlo per salvarsi la cotenna politica come volle fare Nixon per bloccare le indagini dello Fbi sul Watergate, i suoi uomini morivano sparpagliati per il mondo, in silenzio. A Langley i direttori centrali, Dci nel gergo ufficiale, si avvicendavano per seguire i venti della politica, portando al vertice bravi scalatori di scrivanie o raccomandati inetti, come quel parlamentare Porter Goss voluto da George W. Bush e rimasto alla guida della Cia per meno di nove mesi, un record assoluto. Il suo merito principale era di avere sponsorizzato FOTO CHRISTOPHER MORRIS/VII/GRAZIA NERI VITTORIO ZUCCONI Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 EDGAR J. HOOVER Nato a Washington il primo gennaio 1895, mitico direttore dello Fbi dal 1924 al 1972 Si oppose alla creazione della Cia, temendo che il nuovo ente avrebbe limitato l’azione del suo GEORGE TENET Newyorkese, classe 1953, ha diretto la Cia per sette anni dal 1997 al 2004 I suoi rapporti diedero i pretesti (rivelatisi infondati) per la guerra in Iraq all’amministrazione Bush VALERIE PLAME Nata nel 1963, ex agente segreto della Cia. Insieme al marito, l’ambasciatore Joseph Wilson, è stata vittima dello scandalo dei falsi documenti sull’export di uranio dal Niger all’Iraq FOTO CHRISTOPHER MORRIS/VII/GRAZIA NERI ALLEN DULLES Classe 1893, dopo la laurea a Princeton scelse la carriera diplomatica Fu il primo direttore della Cia a pieno titolo e colui che la guidò più a lungo, dal 1953 al 1961 NOTTURNI Nelle immagini, da sinistra a destra e dall’alto in basso: l’esterno della sede centrale della Cia a Langley, in Virginia, presso Washington; nell’atrio, il “muro dell’onore” con le 88 stelle che simboleggiano gli agenti caduti in servizio; una veduta dell’interno; un ufficio; una sala monitor; funzionari al lavoro shington e segretamente finanziato, pretese di aprire la bara che la Cia le aveva consegnato per la sepoltura (il marito era precipitato con il suo Hercules C-130) e la trovò vuota. Il cadavere era sparito, una stella si era accesa. Due agenti morirono in Afghanistan, nei primi giorni dell’invasione dopo l’11 settembre, quando i generaloni a quattro stelle del Pentagono confessarono balbettando di non avere alcun piano per rovesciare i Taliban e soltanto la Cia aveva commando pronti a partire per i monti e un piano per comperare in contanti i mercenari del nord da spedire poi verso Kabul per insediare un amico. «Usano le vite umane come stracci al mercato», ringhiava il fratello del morto che non era nella bara, se è morto davvero («Niente di quello sapete è vero», ricordiamo) e quando la Cia sbaglia - e tanto ha sbagliato nelle proprie azioni e nelle proprie analisi, dal Cile alla deposizione di Mossadeq in Iran, giudicato troppo di sinistra - si ritrova sola davanti a senatori corrucciati che rivoltano il carretto degli stracci, a presidenti furiosi, come Kennedy dopo la Baia dei Porci, a vice presidenti imperiosi e allucinati, come Dick Cheney, che pretendeva quelle armi di distruzioni di massa in Iraq che non c’erano più. Quando vede giusto, come nel caso del cosiddet- to “liberatore di Bagdad”, il fanfarone magliaro Ahmed Chalabi che aveva infinocchiato il Pentagono di Rumsfeld e la banda dei neocon ansiosi di credere quel che volevano credere, viene tradita dal proprio capo, da quel George Tenet che aveva promesso a Bush arsenali da vendere. Se poi la Guerra fredda, il lungo duello di ombre con Mosca, sia stata vinta grazie alla Cia o nonostante la Cia, se “la mamma” Angleton, il cacciatore di talpe cresciuto nella Roma fascista mentre il padre vendeva casse ai bar e poi allevato a Yale tra i figli del privilegio, fosse un paranoico clinico umiliato dall’amico Kim Philby o un occhiuto vigilante, sono questioni che soltanto la storia e la verità sui fatti segreti, sui “gioielli di famiglia” come la pagliacciata per uccidere Castro coi veleni della mafia, potrà dirimere. Ma la Cia che compie 60 anni e ha visto la fuga dei propri migliori quadri dopo l’umiliazione dell’Iraq non sarebbe riconosciuta o riconoscibile per i vecchi ragazzi, la rete degli old boys che la crearono da uno studio d’avvocato a Wall Street. Gli old boys non ci sono più. I loro protetti e raccomandati, che Dulles sceglieva tra gli amici, mentre J. Edgar Hoover mandava rapporti segreti a Truman accusandoli di essere tutti omosessuali (proprio Hoover, che rincasando a sera Da Rachel Dean, caduta in Kazakistan nel 2006, a Valerie Plame “smascherata” nella faida con la Casa Bianca, oggi le donne sono protagoniste dalla direzione dello Fbi si travestiva da ballerina classica con tutù e polpe per la gioia del fedele compagno e vice) sono morti, per vecchiaia o per la fiala di veleno che il preferito di Dulles inghiottì quando il Kgb lo ricattò, avendo scoperto che era davvero omosessuale, peccato imperdonabile nell’America anni Cinquanta. L’ultima stella murata nell’atrio della Cia porta il nome di una donna, Rachel Dean, arruolata nel 2005 e morta nel 2006 in Kazakistan, ufficialmente in un incidente stradale. E il più atroce imbarazzo porta di nuovo il nome di una donna, l’agente Valerie Plame, colei che svergognò la Casa Bianca e il torvo Cheney inviando il marito, l’ambasciatore Joseph Wilson, a certificare la ridicola patacca dell’uranio nigerino. Valerie era una covert operative, una funzionaria coperta dal segreto ufficiale, come ha definitivamente accertato l’inchiesta del Procuratore speciale scelto proprio dall’amministrazione Bush, finita con la condanna per falsa testimonianza del braccio destro di Cheney, Scooter Libby, salvato dal carcere per mano di Bush. Uno di quegli orrendi pasticci nei quali la Cia annaspa puntualmente, per dover funzionare da scudo non della nazione, ma del potere in carica. Ora la Plame ha sporto querela per danni proprio contro il governo che l’ha esposta al pubblico per vendetta. I “vecchi ragazzi” ne sarebbero inorriditi. Una donna capo sezione alla Cia, che per di più querela il governo. Il tutù rosa di Hoover avrebbe avuto un fremito di indignazione. FOTO CHRISTOPHER MORRIS/VII/GRAZIA NERI la leggina per intitolare la sede a poppy, papà George Bush. Nel mondo, agenti morivano e muoiono in silenzio, “omicidi bianchi”, caduti sul lavoro. James McGrath, una delle nuove stelle, era morto negli anni Sessanta, fulminato mentre riparava un trasmettore radio ad altissima potenza ai confini della Germania Est, ma senza che la sua morte fosse spiegata alla vedova, per tenere segreta l’esistenza di quel trasmettitore che ovviamente la Stasi e il Kgb conoscevano benissimo. Trent’anni sono stati necessari perché si conoscesse il nome di John Merriman, mandato nell’allora Congo per contrastare ai sovietici il controllo di quella terra ricca di risorse naturali. Morì, ferito in una sparatoria nella savana, chiedendo nel delirio della cancrena che gli portassero «un gelato al cioccolato». Se l’agenzia, la Company, come la chiama chi ci lavora, lo avesse ripescato e trasportato in un ospedale sarebbe stato salvato, ma il rischio di svelare la presenza americana in Congo venne giudicato troppo alto per la vita di un solo uomo. Larry Friedman saltò su una mina anti-uomo. Tre “stelle” si spensero e quindi si accesero in Libano, nel massacro dei marines a Beirut, ufficialmente reclutati tra i militari, ma in realtà personale della Cia, dunque condannati a morire nel buio per non rivelare quello che ogni marine in quella caserma sbriciolata aveva certamente capito: che quelli non erano dei loro, ma civili in uniforme. La vedova di Bud Petty, pilota arruolato per trasportare armi e soldi al capo guerrigliero angolano Savimbi, ufficialmente condannato da Wa- Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi DOMENICA 15 LUGLIO 2007 Berlino, Israele, la frontiera Usa-Messico: il mondo conosce e ricorda molte barriere costruite per dividere i vivi dai vivi Ma quel che succede nel cimitero della città nord irlandese Intolleranza è un caso unico: il “sunken wall” è una parete interrata, profonda quattro metri, che isola le anime cattoliche da quelle protestanti e da quelle ebraiche. Per sempre Il muro di Belfast che separa i morti DARIO BIOCCA È BELFAST un caso unico in Europa e non ha precedenti. Un muro lungo centinaia di metri è stato eretto, ma si dovrebbe dire scavato, nel sottosuolo del cimitero di Belfast per isolare il perimetro di una gigantesca campana disegnata nel terreno. È alto, ma si dovrebbe dire basso, undici piedi (circa quattro metri) ed è chiamato il sunken wall, il “muro verso il basso”, il muro “sprofondato”. In una città che è stata per anni al centro di scontri sanguinosi, la sua funzione non è separare gli spazi riservati ai cattolici e ai protestanti in visita alle tombe. Tutti infatti si muovono liberamente lungo i viali e i sentieri alberati del cimitero. Nel sottosuolo invece il muro isola i corpi in uno spazio oscuro di terra e sassi dove anche l’anima rimane imprigionata, segregata, condannata a restare dalla “sua” parte. Il muro non separa i vivi ma i morti. I cimiteri sono il luogo della memoria e del silenzio, della pace e della pietà. Ne esistono di piccoli e grandi, di sobri e monumentali. Ogni confessione religiosa e ogni cultura ne ha concepito di nuovi e sempre diversi allo scopo di riflettere le percezioni complesse e mutevoli del rapporto tra la vita e la morte. Ciò che i cimiteri hanno in comune è però sempre il mistero della fine, della pace senza tempo, dell’ignoto e dell’inconoscibile. I cimiteri — persino quelli “moderni” prescritti dal Codice napoleonico — hanno conservato decoro, intensità, valore simbolico e rituale. Il cimitero di Belfast è diverso: invece di rimarginare le ferite le riapre, invece di lenire il dolore lo inasprisce, invece di invocare pace chiede vendetta. È stato così prima ancora che i troubles riaccendessero il conflitto nell’Irlanda del Nord. Le stragi e il terrore sono oggi un ricordo ma il cimitero di Belfast è lì a testimoniare la diffidenza e il rancore che hanno segnato gli ultimi cento anni di storia irlandese. Il cimitero di Belfast sorprende e sconcerta. È tra i più estesi in Europa, ospita oltre 260mila tombe, e si trova a nord-ovest della città, in una zona abitata da protestanti. Su centinaia di lapidi, da entrambi i lati del muro, è scritto: «Died for his faith», morto per la sua fede. Ed è, anche per questo, un cimitero diverso. La storia del muro è nota a tutti in città, anche se se ne parla con riluttanza. Il cimitero è stato costruito più di cento anni fa ma già prima che la guerra civile sconvolgesse l’Ulster la gente non andava più a visitare le tombe, neppure per lasciare un fiore, rimuovere l’edera dalle lapidi, recitare una preghiera in raccoglimento. Era un luogo pericoloso: gruppi di giovani vi penetravano la notte spostando le lapidi, distruggendo le scritte sulle lastre di marmo, oltraggiando i nomi dei morti. Trovarsi nel posto sbagliato poteva costare caro. Ancora oggi, sostengono i cittadini di Milltown, le autorità si limitano a controllare alcune aree mentre altre sembrano abbandonate. Un City councillor rappresentante di Sin Feinn, Tom Hartley, ha scritto alcuni mesi fa un accorato appello ai suoi concittadini affinché finalmente qualcosa cambi. Sono sepolti a Belfast molti uomini illustri, testimoni di un passato operoso e pacifico della città. Tra loro J.T. Sinclair, proprietario del terreno che poi divenne il suolo consacrato destinato al cimitero. Sinclair aveva fondato un’azienda commerciale con sedi anche negli Usa. Era lui stesso il simbolo del dinamismo economico e della intensa religiosità di Belfast, allora una città più ricca di Dublino e assai più popolosa, con quasi mezzo milione di abitanti. Nel cimitero, all’interno dell’area riservata ai cittadini di origine ebraica, c’è anche la lapide che ricorda Otto Jaffe, a capo di una fiorente azienda di esportazione di lino. Jaffe fondò la locale Congregazione ebraica e nel 1899 fu eletto sindaco della città. Sorprende che tra le sue a volte stravaganti iniziative ci fosse anche la ricerca di relitti nelle acque dell’Atlantico, un’impresa a cui dedicò anni di lavoro e ingenti somme di denaro. Grazie anche all’esperienza degli equipaggi addestrati da Jaffe fu possibile recuperare, nel 1918, il mercantile britannico Otranto, requisito dalla Royal Navy e convertito al trasporto di truppe e munizioni, naufragato a Islay con a bordo mille soldati americani. Erano arrivati dalla Georgia e dall’Oregon, si preparavano allo sbarco in Francia ma la nave fu speronata per un errore di manovra e finì sulle scogliere. Annegarono più di quattrocento reclute. I loro corpi furono recuperati, ricomposti e sepolti a Belfast con gli onori dovuti ai combattenti. Ma qualche anno dopo il Governo americano decise, al contrario di quanto si era stabilito per i caduti in altri teatri di guerra, di riesumare le salme e riportarle in America. Perché al Belfast Cemetery c’era il muro e i comandi militari Usa non vollero scendere a compromessi sui “loro” morti. Il sunken wall è costruito con pietre e pesanti massi squadrati, a volte di grandi dimensioni, tenuti insieme da una malta scura. In superficie la bar- riera emerge dall’erba e dalla ghiaia solo a tratti, ma quanto basta per intuirne le dimensioni e, soprattutto, dividere il cimitero in zone distinte. Capire le ragioni e il significato di questo monumento alla segregazione dei morti non è semplice. Anche perché il mondo oggi si è abituato ai muri di separazione: essi hanno il compito di prevenire i conflitti e gli scontri, testimoniano la volontà di evitare un futuro e possibile scontro. Ma il muro di Belfast è rivolto al passato, inasprisce uno scontro già avvenuto, mette anche i morti in guerra tra loro. Le inumazioni al cimitero di Belfast sono ufficialmente cominciate nel 1869. La città era in una fase di intensa crescita sociale, economica e culturale e il cimitero era, in teoria, aperto a tutte le fedi e confessioni religiose, anche se subito fu delimitata una zona riservata agli ebrei. Verso la fine del Diciannovesimo secolo il vescovo di Belfast presentò una petizione affinché i cattolici potessero disporre di un cimitero separato. La richiesta fu accolta e un terreno adiacente fu riservato alla Chiesa che tuttavia pose subito una condizione: non giacessero i corpi dei cattolici accanto ai corpi dei protestanti e degli ebrei. Già nel 1820, a Roma, il Pontefice aveva autorizzato la costruzione di un cimitero acattolico; a Belfast fu invece deciso di costruire un muro sotterraneo intorno al vecchio cimitero. Solo oltre il muro, dopo la consacrazione del suolo, sarebbero state autorizzate le sepolture cattoliche. Fu poi acquistato un terreno, Glenalina, per espandere il cimitero verso ovest. Ma poche famiglie cattoliche scelsero Glenalina per il riposo eterno dei propri cari: il muro era troppo vicino. Invece di accogliere il progetto di un’area separata all’interno di un cimitero protestante, al principio del Novecento i fedeli e il vescovo proposero l’acquisto di un nuovo plot, molto più vasto, a ovest del cimitero già esistente. Nacque così, nel 1912, il Milltown Cemetery, cattolico sì ma incuneato in un quartiere protestante. Il nuovo cimitero fu subito segnato dalla tragedia. L’epidemia di spagnola che devastò l’Europa nel 1918 provocò solo a Belfast quasi settantamila vittime, per le quali non si ebbe neppure il tempo di allestire funerali e sepolture appropriate. I corpi finirono a Milltown in una zona che oggi è un prato senza pietre tombali, quasi una immensa fossa comune. Da allora, e per i successivi settant’anni, i cattolici sono stati sepolti a Milltown, i protestanti al City Cemetery. I due luoghi sono vicini, separati da una strada senza traffico, e le incursioni e le violenze da una parte e dall’altra si sono ripetute incessantemente. Celebre tra tutte la strage compiuta da Michael Stone, un militante dell’Ulster Defence Association, nel marzo del 1988. Nel corso dei funerali di tre leader dell’Ira colpiti dalle Forze di sicurezza britanniche, a pochi passi dalla tomba di Bobby Sands, il più famoso dei martiri dell’Ira, Stone aprì il fuoco contro i familiari e gli amici radunatisi per la cerimonia. Aveva con sé cinque granate e due fucili mitragliatori; uccise con una prima raffica tre giovani e ne ferì poi più di quaranta. Le televisioni ripresero l’agghiacciante sequenza e la impressero per sempre nella memoria dei cittadini di Belfast, e del mondo. Stone provò a fuggire aprendosi la strada a colpi di mitra ma fu catturato dalla folla. Si salvò miracolosamente dal linciaggio solo per l’intervento della polizia. La verità sul muro sotterraneo di Belfast è percepibile, quasi palpabile, percorrendo i sentieri che dall’antico cimitero e dalle solenni tombe monumentali di Sinclair e di Jaffe conducono ai nuovi lotti di Milltown, alle lapidi di Bobby Sands e alle nude e povere croci in ferro dell’area cattolica. Il percorso si snoda inizialmente lungo viali con alberi di alto fusto e aiuole fiorite fino a superare il sunken wall. Poi, a Milltown, tutto cambia: compaiono cespugli mai potati e scritte a vernice sulle pietre tombali, murales osceni, edere cresciute fino a ricoprire le lapidi, ingiurie scolpite con il cacciavite sulle tombe. È lo stesso degrado che i cattolici di Belfast hanno conosciuto nei loro quartieri segregati, nella violenza delle loro strade, nelle immagini a volte sconcertanti dipinte sui muri di cemento che isolano i loro quartieri dalle zone controllate dai protestanti. Ancora oggi, sulle case che circondano il cimitero, campeggiano immagini di odio affrescate su murales e custodite, quasi fossero monumenti storici, da telecamere. Dal 1997, in coincidenza con l’apertura del negoziato con Sinn Feinn e il referendum sugli accordi di pace, è finalmente ripresa la sepoltura dei cattolici nel vecchio cimitero, tra il sunken walle l’ingresso a Milltown, in quell’area che prima era considerata terra di nessuno. Le tombe cattoliche sono finalmente vicine alle tombe protestanti, pur se ancora divise dal muro. È il segnale che qualcosa a Belfast è cambiato. Mentre si demoliscono i muri di cemento tra i quartieri della città, si recidono i fili spinati e si smantellano i check point delle Forze di sicurezza, anche il sunken wall, ora che la guerra è finita, sprofonda fino a diventare invisibile. In un luogo dedicato alla memoria, forse anche il lungo serpente di pietra nascosto tra le croci sarà dimenticato. Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 1869 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 l’anno in cui fu aperto il cimitero di Belfast 260 mila le tombe costruite nel cimitero 11 piedi è di circa 4 metri la parete interrata del cimitero L’amore di Antigone e lo specchio buio ADRIANO SOFRI obert Hertz, nel suo saggio anticipatore Sulla rappresentazione collettiva della morte (1907), catalogò le culture in cui i morti si immaginano (e si seppelliscono) come antipodi dei vivi: come i vivi si drizzano dal suolo verso l’alto, i morti scendono a testa in giù dal suolo verso il fondo. C’è un mondo dell’aria e della luce, e un mondo sprofondato. I morti sono dei vivi alla rovescia. Stanno al buio, usano la sinistra invece che la destra, quando usano parole le pronunciano con le sillabe invertite, o nel significato opposto. Per placarli e sventarne le distruzioni vendicative dei campi, i vivi coltivano per loro un piccolo orto, accanto alle sepolture, con le piante interrate al contrario, le radici in alto. I morti — non a caso assimilati all’ombra, che non riesce a staccarsi dalla superficie: ma le ombre dei defunti sprofondano — sono l’altro mondo nello specchio buio. La crosta della terra li separa. Per scongiurarne l’abbraccio, i sopravvissuti indossano il lutto, si simulano un po’ morti anche loro. Si immagina che le guerre fra gli abitanti del lato in luce, che sale verso l’alto, debbano arrestarsi spaventate, o impietosite, davanti agli abitanti del sottosuolo, che scendono verso il fondo, inghiottiti dall’unico destino dei mortali. È vero bensì che non di rado gli odii e le violenze fra i vivi prendano a bersaglio i morti reciproci e i luoghi dedicati alla loro memoria. I cimiteri sono il luogo prediletto dalla viltà superstiziosa delle profanazioni. Ma nel cimitero di Belfast visitato da Biocca un muro scende sottoterra a separare i morti dai morti, e la maledizione di quella frontiera sopravvive addirittura alla lenta riconciliazione fra i vivi. I muri dei vivi, che salgono verso il cielo, hanno una sorte ambigua. La Muraglia cinese attrasse più spesso le persone dei due lati e si mutò in un luogo di incontri e di scambi. Le mura che cingevano le città medievali le difesero qualche volta, ma gli assalti più feroci e vittoriosi venivano dai nemici di dentro, di quei che un muro e una fossa serra. Il muro israeliano — la barriera, come vuole l’eufemismo politico — ostacola gli attentatori, ma frustra e umilia le persone. Il Muro di Berlino era lì, sia pure tanto a lungo e odiosamente e sanguinosamente, per far più bella la festa della demolizione. Ma il muro che separa i morti, come faranno i morti a smantellarlo? È la storia antica, la più bella delle storie antiche: Antigone, sorella, ribelle al decreto che, onorando in Eteocle il difensore della città, vieta la sepoltura di Polinice e lo abbandona in pasto ai cani e agli uccelli. Antigone è la radice viva della nostra civiltà — di quel che abbiamo di buono per trovare la strada. Possiamo anche essere così accecati da dimenticarlo, così giovani da non saperlo. Ho appena imparato i versi di un greco contemporaneo, Titos Patrikios: Beveva un’aranciata sullo sfondo di parrucchieri e agenzie turistiche mentre il suo vicino la incantava con versi cretini. E tuttavia si chiamava Antigone. Forse mandare le ruspe a scalzare quel muraglione divisorio nel sottosuolo sarebbe un gesto a sua volta retorico e artefatto. Ma se toccasse a me, promuoverei una recita dell’Antigonedi Sofocle nella terra di nessuno del cimitero di Belfast, dedicata a tutti i vivi, e a tutti i morti. ORANGISTI Un gruppo di protestanti durante la controversa marcia annuale nei quartieri cattolici di Portdown FOTO CHIARA MEATTELLI FOTO FRANCE PRESSE IRA Un bambino davanti a un murales dell’Ira raffigurante un libro aperto con la scritta “Nuova vita” ARTE DI GUERRA Uno dei grandi murales visibili dal cimitero che ricorda gli scontri tra cattolici e protestanti FOTO REUTERS ITALIA SPA LAPIDI SENZA PACE Una veduta aerea del cimitero Nell’immagine grande, un particolare delle tombe di Milltown FOTO CHIARA MEATTELLI R Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 Quando incontrò Kerouac, Ginsberg e Burroughs il poeta di origine italiana entrò di diritto nel club che avrebbe sconvolto la letteratura americana. Ora tutta la sua produzione, compresi versi, diari e disegni inediti, viene pubblicata in Italia Corso Gregory Le pagine orfane e segrete del quarto moschettiere Beat e passeggiando per Roma vi capita di visitare il Cimitero degli Inglesi, fate caso che vicino alla tomba del loro grande poeta, Percy Shelley, c’è una lapide con un epitaffio in versi: «Spirito è Vita/ scorre attraverso/ la morte di me/ senza fine/ come un fiume/ che non teme/ di diventare il mare». Lì sotto sono conservate le ceneri di Nunzio Gregorio Corso, meglio conosciuto come Gregory Corso, poeta italoamericano, nato nel 1930 a New York, morto nel 2001 in un sobborgo di Minneapolis. Tra quelle due date si racchiude una forsennata esistenza di vagabondaggi sulle due sponde dell’Atlantico e di letteratura che ha segnato un’epoca. Con Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William Burroughs, Corso fu il quarto membro del canone della “Beat Generation”: i beatniks, i nuovi scrittori maledetti, i ribelli di una controcultura che prese il romanzo e la poesia, li mise in un frullatore riempito di alcol, tabacco, droga, sesso, risse, viaggi coast to coast in autostop, rifiuto del lavoro e delle norme, amore per la vita, trasformandoli al punto da renderli irriconoscibili. Se Kerouac, Ginsberg e Burroughs erano i “tre moschettieri” di quel movimento, Corso ne è sta- S La biblioteca del carcere fu la sua salvezza. Lesse tutto Dostoevskij, Hugo, Stendhal oltre ai dizionari che divorava come romanzi FOTO BRUCE DAVIDSON / MAGNUM PHOTOS ENRICO FRANCESCHINI IL LIBRO Si intitola Poesie. Mindfield - Campo mentale il libro pubblicato da Newton Compton (288 pagine, 6 euro) che uscirà questa settimana e che raccoglie gli scritti (in parte inediti) di Gregory Corso, poeta-simbolo della Beat Generation Il volume contiene, oltre a un’antologia di poesie famose, il diario esistenziale del poeta ricostruito attraverso gli epistolari dell’autore e le testimonianze inedite di William S. Burroughs e Allen Ginsberg. L’opera è curata da Massimo Bacigalupo, docente di letteratura americane all’Università di Genova to il D’Artagnan: una specie di partner minore, accettato e apprezzato, ma senza ritrovarsi su un piano di assoluta parità con gli altri. Non perché valesse o fosse considerato di meno, ma perché — come il D’Artagnan di Dumas — non aveva fatto parte del gruppo fin dall’inizio, ossia fin dall’alleanza fra intellettuali di sinistra stile Columbia University e balordi creativi genere Times Square, sebbene le sue credenziali fossero abbastanza buone da ottenergli immediata ammissione nel club, non appena vi si imbattè. Suo padre, Fortunato Corso, e sua madre, la sedicenne Michelina Colonni, lo misero al mondo in una casa di Bleecker Street, il celebre quartiere del Greenwich Village al tempo in cui il “Village” era davvero un villaggio di artisti, e non un quartiere alla moda per turisti; ma poco dopo i suoi primi vagiti, si separarono. Gregory cominciò una vita da orfano, visse praticamente per strada, la sua scuola furono il riformatorio e la prigione, che diventò però anche la sua salvezza, facendogli conoscere, nella biblioteca del carcere, Delitto e castigo e I miserabili, I fratelli Karamazov e Il rosso e il nero, oltre ai dizionari, che divorava come un romanzo, dall’inizio alla fine, senza saltare una parola o una riga. Quindi venne l’incontro casuale con Ginsberg in un bar, e il resto è una lunga, pazza, indimenticabile pagina di letteratura americana. Kerouac lo tratteggia nei panni del rivale che gli soffia la donna, nel romanzo I sotterranei. Burroughs rimane stupefatto dalla sua certezza in un puro talento lirico. Ginsberg lo esalta come «artigiano della poesia». Scegliamo qualche data a caso, dalla sua corrispondenza e biografia. 1952, Los Angeles: «M’imbarco come cuoco su una petroliera diretta in Venezuela». 1955, al Village: s’innamora di una ragazzina di nome Hope Savage, «lei recita tutto Shelley a memoria, ha deciso di uccidersi a vent’anni, piange e non parla con nessuno, tranne me». 1957, New York: «Ho pranzato con Salvador Dalì e sua moglie, gli ho spedito una lettera con un kleenex usato e un fiammifero bruciato, chissà se capirà l’intento surrealista». Stesso anno, Parigi: conosce Jean Genet, Jacques Prévert, James Baldwin. Stesso anno, Barcellona: pranza con Mirò. Nizza: abborda Picasso, «sono un bellissimo poeta», gli dice, «lei non si sente impacciato con tutta questa gente che la guarda?», poi ritorna a Parigi in autostop, punta la pistola sugli avventori del caffè “Duex Magots” a St. Germain de Près, s’innamora di una bella diciassettenne bionda piena di soldi sui Champs- Elisées, «mangio bene e ho una nuova macchina da scrivere e ho pagato l’affitto e ho tutto quel che voglio (credo)». 1958: sbarca in treno a Roma alle cinque del mattino con un’amica che gli ha pagato il viaggio, corre al Colosseo, vede la via Appia, il Foro, la casa di Nerone, folleggia nei caffè di lusso, grida «salvate Roma antica». E poi a Milano da Fernanda Pivano, poi Atene, Tangeri, di nuovo Parigi, Londra, New York, San Francisco. Gassman legge la sua poesia Bomba nel film di Luigi Zampa Contestazione generale, Corso diventa famoso, diventa un tossico, muore: lasciando cinque figli da tre mogli diverse, sette nipoti e una sterminata produzione poetica. Compresa Spirito, l’epitaffio che, per suo volere, è stato messo sulla sua tomba, al Cimitero degli Inglesi. «Gregory Corso», scrisse un critico tanti anni fa, «ha rappresentato quasi teatralmente, e più a lungo di altri, il personaggio che tutto il mondo, a torto o a ragione, ha ritenuto tipico della Beat Generation: la trasandatezza, i lunghi viaggi, le letture in pubblico, l’affrancamento dal lavoro, il desiderio di stupire, il culto della libertà individuale e soprattutto una poesia fatta di slanci, di malinconia, di rabbie». Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 CUORE DEL VILLAGE FOTO FRANCIS MILLER//TIME LIFE PICTURES/GETTY IMAGES Nella foto grande, Gregory Corso nel 1959; nell’altra pagina in basso, il poeta insieme a Jack Kerouac e Allen Ginsberg al Village nel ’57 I disegni di queste pagine, inediti in Italia, sono tratti dal libro Gregory Corso, Poesie. Mindfield-Campo mentale, Newton Compton Salve Come può esserci un dio quando gli asini preferiscono la paglia all’oro e persone meglio informate preferiscono l’oro e quando scappano con l’oro gli sparano nel dorso Quando le galline mangiano uova sode e di certo non può esserci un dio quando i Gregory sono chiamati Corso Lamento di un letto Una volta tanto tempo fa Tenevo una coppia regale Ero tutto d’un pezzo ero forte E ogni giorno le donne erano felici di pulirmi E ora Ora me ne sto in una stanza soffocante gambe molli e schiena curva E su di me giorno e notte Un drogato tutto pelle e ossa sogna e piscia - Il dubbio della menzogna Fu l’umanità a dirmi che prima o poi dovevo morire Non mi fido dell’umanità Fanno male gli uni agli altri E sono piuttosto inaffidabili Dunque come potrei credere che prima o poi devo morire? Del sole nemmeno mi fido può scoppiare da un momento all’altro E come posso fidarmi di quelli che inquinano il cielo con Paradisi gli abissi con Inferni Rapporto di campo La notte muore nell’alba come un gigantesco sbadiglio Sono fuori sul campo a fare rapporto A chi faccio rapporto, volete saperlo? Gli uccelli non sono spie? Fanno rapporto agli alberi; gli alberi fanno rapporto al vento e il vento fa rapporto a tutti Ma è sempre lo stesso messaggio... Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Affinità elettive DOMENICA 15 LUGLIO 2007 La Schwarzenbach fu scrittrice, archeologa e fotografa. Morì misteriosamente a 34 anni dopo una vita autodistruttiva. Negli anni Trenta per sfuggire al nazismo attraversò l’Asia e lasciò una serie di racconti orientali. Dopo mezzo secolo e senza saperlo una scrittrice italiana fece lo stesso viaggio inseguendo gli stessi sogni. Alla fine si incontrarono nell’altro luogo che avevano in comune: la letteratura Io e Annemarie, vite allo specchio Nelle pagine dei suoi amici scrittori, che per primi parlarono di lei, si staglia come una visione di fascino abbagliante nel cuore dell’Europa e poi sulle strade MELANIA G. MAZZUCCO L ANDROGINA E FEMMINILE In questa pagina Annemarie Schwarzenbach in Spagna nel ’33; nell’altra pagina due foto della scrittrice in Persia nel ’34. Nella foto grande Annemarie posa per uno scatto dell’Afghanistan alla guida di una Ford IL LIBRO Si intitola La gabbia dei falconi. Tredici racconti orientali (Rizzoli, 236 pagine, 8,80 euro, traduzione e cura di Melania G. Mazzucco) il libro di Annemarie Schwarzenbach da cui è tratto il brano di queste pagine. In libreria in questi giorni FOTO ARCHIVIO GIOVANNETTI/EFFIGIE a pubblicazione della Gabbia dei Falconi, raccolta di racconti orientali scritti da Annemarie Schwarzenbach fra il 1934 e il 1935, rappresenta il terzo appuntamento della mia lunga consuetudine con una scrittrice che fino a pochi anni fa era sconosciuta ai lettori, e oggi è oggetto di un vero e proprio culto. Svizzera di Zurigo, figlia altoborghese di un industriale della seta, scrittrice, archeologa, giornalista, fotografa, Annemarie Schwarzenbach morì misteriosamente a 34 anni. Nelle pagine dei suoi amici scrittori, che per primi parlarono di lei, si staglia come una visione di fascino abbagliante nel cuore dell’Europa degli anni Trenta, e poi sulle strade dell’Afghanistan alla guida di una Ford, armata solo di una macchina da scrivere. L’inquieta e autodistruttiva ragazza-efebo appariva dolorosamente dominata dalla ricerca dell’assoluto e dalla passione per la scrittura. Quando ho cominciato a ricostruire la trama complessa della sua breve esistenza — aveva avuto il tempo di vivere a Parigi, Berlino e Teheran, di viaggiare per la Spagna della guerra civile e la Russia di Stalin, gli Stati Uniti della Depressione e l’Europa di Hitler, i deserti dell’Asia e la foresta tropicale del Congo — scoprii che a vent’anni avevamo fatto lo stesso viaggio. Era stato un appuntamento mancato, non ci eravamo incontrate: io ero partita 53 anni dopo e ignorando perfino il suo nome. Eppure, sebbene separate da un’incolmabile distanza temporale, da diverse visioni della vita e perfino della scrittura, abbiamo percorso le stesse strade e cercato le stesse cose. Al secondo appuntamento mi sono presentata io sola. Dopo anni di ricerche, nel 2000 ho scritto un romanzo su Annemarie, Lei così amata. Non era una biografia né un’agiografia — ma un viaggio, appunto, nella vita di un’altra. Ho sempre pensato che tutti avrebbero potuto riconoscersi nella storia di una giovane donna che insegue il sogno di diventare una scrittrice, per vivere a modo suo, ma che viene a sua volta inseguita dai suoi fantasmi: talvolta reali, come la madre, il nazismo, la guerra, gli obblighi sociali del lavoro o del matrimonio; talvolta immaginari o imprendibili, come la droga, la depressione, il tradimento, la follia. In quel libro, io parlo, ma lei tace. Così, fin da allora, ho fissato il nostro terzo appuntamento. Tradurre La Gabbia dei Falconi (che nella postfazione ho definito un frammento del romanzo impossibile di Annemarie Schwarzenbach) significava restituirle la sua voce e dialogare nell’unico luogo in cui gli scrittori (e i lettori) possono davvero incontrarsi: la letteratura. Si tratta di racconti ambientati in Siria, Libano e Persia. Nonostante l’apprezzamento di autorevoli personaggi, come Thomas Mann, Annemarie non riuscì a pubblicarli: sono apparsi postumi nel 1989. Sono ispirati a persone che incontrò nel corso dei suoi tre soggiorni in Asia: archeologi, soldati, esuli, diplomatici, spie, avventuriere. Leggerli significa incamminarsi sulle strade che Annemarie Schwarzenbach ha percorso, scoprire i paesaggi aspri e desolati che ha attraversato. In una parola: incontrarla. Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Affidarsi al cielo di Persia e diventare pezzi di deserto ANNEMARIE SCHWARZENBACH l salone era già pieno di gente. Gli ospiti erano sparpagliati in giro, alcuni andarono nel fumoir, che in realtà era la stanza da lavoro del Ministro, e si misero a sedere nelle profonde, confortevoli poltrone “Bombay”. Il boy greco correva con le sigarette da un gruppo all’altro. Aveva tredici anni e si chiamava George, Madame lo aveva portato con sé da Costantinopoli. Era stato un suo capriccio, un attacco di maternità o semplicemente il desiderio di parlare greco col ragazzino. Poiché il greco era la sua madrelingua. Era una piccola, tenera signora di Costantinopoli, aveva ricciolini increspati sulla fronte e gli occhi alti, grandi, rotondi e perplessi dei mosaici bizantini, che evidentemente raffiguravano i suoi antenati. Oggi dava la sua prima cena in terra straniera. Era una grande cena, si erano dovute piazzare più di venti persone nell’angusta sala da pranzo dell’ambasciata. Per tutto il giorno, Madame non aveva osato andare nella sala da pranzo o in cucina, dove due cuochi, di cui non conosceva i nomi, facevano i preparativi per la cena. Madame non conosceva ancora gli spazi dietro la sua casa. Veniva tiranneggiata dalla sua governante, una grossa e corpulenta armena, che era all’ambasciata da dieci anni e sapeva riferirsi già a una sfilza di gente che l’aveva preceduta, che avrebbe fatto in modo tutto diverso da come avrebbe voluto farlo Madame. Anna scuoteva un granello di polvere dalla spalla di Madame, quando le parlava, e parlava sempre ad alta voce, e come se fosse soffocata dall’indignazione. Madame impiccoliva davanti a lei, e cedeva, in tutto. C’era soltanto George che la ascoltava ancora. Un ragazzo di strada di Stambul – sapeva che gli altri impiegati lo chiamavano così. Ma gli altri impiegati – gli Alì, i Mahmut, gli Hadschi baba – le erano indifferenti. Anna avrebbe dovuto arrabbiarsi con loro! Anna che la sapeva sempre tanto lunga! Adesso, intorno alle nove di sera – tutti gli ospiti erano già arrivati, eccetto sua Altezza, il capo del protocollo – Madame si azzardò fino alla porta della sua sala da pranzo e guardò dentro. Vide la lunga tavola, non tutta, ma vide i fiori, una decorazione di viole del pensiero cui erano state tolte le foglie – naturalmente, le sue viole del pensiero, gli unici fiori del giardino che amava! – molti bicchieri, candele, coppette da burro e toast accanto a ogni coperto. Sembrava tutto in ordine. Sentì la voce di Anna attraverso l’anta aperta della credenza e silenziosamente tornò indietro. Rapida, coi suoi piccoli passi, attraversò la sala e a occhi bassi passò accanto ai gruppi dei suoi ospiti. Venne proprio vicino a me. «Ah, eccola» disse. Mi prese la mano con solerzia. «Sono arrivati due americani» proseguì. «Un signore e una signora. Non sono sposati. Lui è archeologo. La signora è – credo – una pittrice. Oppure è semplicemente ricca. Non so cosa devo fare con loro. Pensavo, potrebbe forse aiutarmi un po’?» Trovai gli americani nel fumoir. Osservavano le antiche stoffe di seta, una pila di piccoli brandelli sul cornicione del camino. «Buonasera Gordon, vecchio ragazzo» dissi. Si voltò, raggiante. «Già qui anche tu?» chiese. «Mrs. Batten, posso presentarle: questa è la ragazza che ha lavorato fuori città con noi la scorsa stagione». Lei allungò la sua mano verso di me come da lontano. Era alta e aveva luccicanti occhi bruni. «Quando sei arrivato?» chiesi a Gordon. «Perché per tutto l’inverno non hai trovato il tempo di farti tagliare la barba?» «Davvero,» disse lui, «non ho avuto assolutamente tempo. Quattro mesi sono passati come niente». Mrs. Batten ci osservava alta e attenta. «Lei è in Persia per la seconda volta?» mi chiese. «E lei?» chiesi io. «È venuta per piacere?» «Questo ancora non lo so». «Mrs. Batten dipinge» disse Gordon. «Questa è una questione di secondaria importanza, Gordon. Le ho già detto che non deve parlarne. Questo paese ha colori.» Si voltò verso di me: «Lei avrebbe il coraggio di dipingere qui?» «No,» dissi, «perché non so dipingere. Faccio fotografie...» Rimase tutta dolce. «Ma Gordon mi ha detto che lei scrive». «A volte, è cosa di secondaria importanza». I «Vorrei parlare con lei della Persia» disse. «Gordon, ci lasci sole». Gordon se ne andò. Ci sedemmo in due seggiole di cuoio rivestite di chintz. Mrs. Batten si sedette in modo da potermi guardare in viso. «Lei è così giovane» disse. «Non riesco a capire come abbia avuto il coraggio di tornare in Persia. Dopo che l’ha conosciuta una volta». «Qui ci sono tante cose che mi interessano». «L’archeologia?» «Per esempio». «Posso ammettere che ci si appassioni a questo. È un istinto da cercatore di tesori». «Lei dimentica la curiosità scientifica». «No,» disse, «ci ho pensato. Mio marito è ricercatore, medico, là negli Stati Uniti. È ricercatore sul cancro». Io scossi la testa. «Non dovrebbe fare paragoni, ciò che fa lui non viene utile alla scienza, ma agli uomini». «Ma lui non si sente così. Non si sente un benefattore, ma un ricercatore». «Mentre questa qui somiglia a una fuga...» «Ecco!» disse lei contenta, «adesso veniamo più vicino alla cosa». «No. Non ha senso parlare di questo». «È spiacevole per lei? Ma perché allora è tornata? Se sente tutto questo? Il pericolo, perché il paese è troppo grande, e perché la natura uccide?» «Non ho parlato di pericolo». «E va bene,» disse, «allora glielo dirò io. La natura qui è così forte che uccide. Si dovrebbe smettere di essere un essere umano, vincolato alla condizione umana. Si dovrebbe poter diventare un pezzo di deserto e un pezzo di montagna, e una striscia di cielo di sera. Ci si dovrebbe affidare a questo paese e disfarsi in esso. Vivere contro è una tale impresa che si muore di angoscia». «Si smette di vivere contro da sé, se si è qui da un po’». «Questo è pericoloso» disse. Mi fissò coi suoi occhi scintillanti. «Si deve fare qualcosa» dissi. «L’attività aiuta molto a venirne fuori». «Come vuole credere a ciò che fa» disse. «Come vuole credere al senso di qualcosa in questo paese tremendo?» «Si deve». «La gente che è nata qui non fa niente. È commovente guardarli sedere sulla riva di un ruscello o sotto un albero, su un tappeto, col samovar accanto – tutto come nelle vecchie miniature, ma spenti». «Dimentica che la gente fuma oppio». «Anche in Cina si fuma l’oppio». Mi guardò di nuovo. «Ma là è qualcosa di diverso. Là gli uomini hanno fatto il paese, padroneggiano l’arte del dolore, per questo la povertà e la sofferenza sono meno terribili che qui. Mio marito mi ha permesso di restare in Persia. Per imparare, per dipingere, per viaggiare. Volevo vedere i colori di questo paese, e anche le sue città e i suoi giardini. Ma adesso so che non posso restare. Oh, me ne guarderò bene. Tenterò in Cina. Qui è senza speranza». «Eppure questo è un paese bello e magnifico». Si chinò in avanti, con gli occhi scintillanti, e mi posò la mano sulle spalle. «Non ci si deve indurre in tentazione», disse, «non troppo, e non quando si è giovani». In quel momento tornò il mio amico Gordon con la Ministra. «Parlano sicuramente della bellezza della Persia» disse. La piccola Ministra fece un gesto disperato. «Sempre la bellezza della Persia, sempre i suoi meriti!» disse e, quasi spaventata, aggiunse, scusandosi: «Mrs. Batten, lei è qui soltanto in visita. È tutta un’altra cosa». Mrs. Batten sorrise cortesemente. «Non siamo abituati a tanta magnificenza» disse. La Ministra sospirò profondamente. «Tre anni in una città come Teheran – o ancora di più – ci si sente così perduti!» Ci alzammo per andare in sala da pranzo. Erano le dieci. Davanti alla porta a due ante aperta, il ragazzo di strada di Stambul era in piedi nella sua uniforme nuova. Madame andò avanti con Gordon. Mrs. Batten seguiva accanto a me, camminava alta, bella e sicura attraverso il salone. «Così, giovane amica», disse, «si riguardi. Non intraprenda battaglia contro i mulini a vento di questi altipiani. Mantenga il suo coraggio». Io tacevo. Mi diceva ciò che io sapevo da molto tempo. Anche Gordon lo sapeva. Mrs. Batten proseguì: «In questo ambiente naturalmente non si ha idea di niente, il vero paese, il segreto, resta loro nascosto». Io guardai la Ministra scivolare attraverso la porta a due ante, sorrise passando vicino a George, sembrava afflitta, e lui le ricambiò il saluto col suo pallido, insolente viso di ragazzo. «Forse ci sbagliamo», dissi a Mrs. Batten, «quel che conta è quasi lo stesso dolore». Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 Nell’agosto del 1958 l’inventore Pietro Granelli presentò un apparecchio “che funziona come un juke box ma esibisce anche la visione dell’orchestra e del cantante”. Era un oggetto basato sull’idea formidabile di sposare musica e immagine, apparentemente destinato a rivoluzionare l’intrattenimento. La concorrenza francese, i costi di produzione troppo alti, le disavventure sul mercato americano gli impedirono però di sfondare. Un libro e una mostra fanno rivivere adesso quell’antenato del moderno consumo del pop Storia del Cinebox la strana macchina “cinemusicale” EDMONDO BERSELLI iamo nell’agosto del 1958 quando l’occhialuto pubblicista Pietro Granelli, «di professione inventore», illustra il suo ordigno, il progenitore del videoclip, al dottor Paolo Emilio Nistri, amministratore delegato di un’azienda importante, la Omi (Ottico Meccanica Italiana): «Ho brevettato un apparecchio che funziona come un juke box, ma che esibisce anche la visione dell’orchestra e del cantante. Soltanto la sua azienda può realizzarlo: costruitelo e gestirete la bomba cinemusicale del secolo». Proprio così, la bomba cinemusicale del secolo. In ogni caso un prodotto che anticipa i tempi e sembra destinato a rivoluzionare l’intrattenimento unendo le due passioni del tempo: la passione antica per le canzoni e quella nuova per la televisione. Nemmeno un anno dopo, nel numero di aprile-maggio 1959, il giornale aziendale della Omi, Ore libere, annuncia l’evento: «Così è nato il Cinebox», spiegando nel sommario che il prodigio si era compiuto in «pochi mesi di intenso lavoro in perfetta intesa fra tecnici di studio e d’officina». Queste notizie si devono al puntiglio d’archivista di Michele Bovi, uno dei grandi esploratori dell’immaginario musicale italiano, e sono raccolte nel volume Da Carosone a Cosa nostra. Gli antenati del videoclip. Sono il frutto di quella passione meticolosa che ha consentito all’autore di riportare alla luce uno dei prodotti più geniali e meno fortunati realizzati dalla creatività tecnica italiana. Un colpo di talento di cui oggi non è rimasta quasi memoria ma di cui è possibile ripercorrere la storia, come in una visita archeologica. Per capire l’importanza almeno potenziale dell’invenzione del Cinebox occorre mettere a fuoco un passaggio d’epoca. In quella fine degli anni Cinquanta, infatti, la musica era esplosa come consumo di massa. Modugno aveva spopolato a Sanremo con Volare, il rock si stava diffondendo come un virus, gli urlatori come Mina e Celentano furoreggiavano imponendo il loro stil nuovo, Il Musichiere condotto da Mario Riva accendeva ogni settimana l’entusiasmo delle famiglie. E in ogni bar era apparsa la magica scatola della musica, il juke box. Quindi l’idea di sposare musica e immagine appariva formidabile. L’apparecchio fu presentato a Roma, al Circolo della stampa, l’11 aprile 1959, con una specie di cerimonia religiosa officiata da un padre cappuccino, mentre la “Regina della canzone italiana”, Nilla Pizzi, si inginocchiava adorante davanti all’ultima meraviglia della tecnica. Pochi giorni dopo, racconta Bovi, il Cinebox della Omi «figurò come at- S IL LANCIO Qui accanto, un esemplare di Cinebox con locandine e foto relative al suo lancio alla fine degli anni ’50 Nelle due foto, dall’alto, Gianni Morandi con un’impiegata della società produttrice e Vittorio De Sica in visita alla Fiera di Roma del 1959 Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 IL LIBRO Si intitola Da Carosone a Cosa Nostra. Gli antenati del videoclip il libro di Michele Bovi appena pubblicato dalla Coniglio Editore (con la prefazione di Giorgio Assumma e i ricordi di Pasquale Panella, 184 pagine, euro 29,50) Il volume, che funge anche da catalogo alla mostra di cui riferisce in questa pagina l’articolo di Gianni Valentino, è una miniera di documenti e immagini tratti dal ricchissimo archivio privato di Bovi, un vero viaggio nella musica italiana degli anni ‘50 e ‘60 I FILMATI Immagini tratte da filmati prodotti per il Cinebox Da sinistra: Domenico Modugno (Vecchio frac); Edoardo Vianello (Guarda come dondolo); Gigliola Cinquetti (Grazie amore); Little Tony (Quando vedrai la mia ragazza); Mina (Pesci rossi); Claudio Baglioni (Gira che ti rigira amore bello) trazione principale alla Fiera di Milano». I primi artisti accolti nel repertorio del Cinebox erano il non plus ultra del momento. La giunonica Nilla Pizzi, con i suoi successi L’edera e Giuro d’amarti così. Poi “l’americano” Renato Carosone e la sua orchestra, con tre brani fra cui il celebre Torero, il confidenzial-sentimentale Don Marino Barreto jr, il “piccoletto” Renato Rascel, l’elettrico Peppino Di Capri, il reuccio degli acuti Claudio Villa; e a seguire la semidimenticata Wera Nepy, la «caramellaia di Novi Ligure» Tonina Torrielli, la provocante Marisa Del Frate e la quotatissima coppia composta da Carla Boni e Gino Latilla. Quindici filmati in tutto che dovevano aprire una fase nuova per l’intrattenimento non soltanto italiano. Il programma di mercato prevedeva di piazzare 4 mila apparecchi nel giro di due anni, al prezzo di un milione e mezzo l’uno, e si appoggiava su una serie di accordi con le maggiori case discografiche italiana, dalla Rca alla Ricordi, dalle Messaggerie Musicali alla Curci, che si assumevano l’onere della realizzazione dei filmati. Ancora adesso le immagini tratte da quei videoclip primordiali sono un repertorio unico per descrivere l’atmosfera del tempo: girati a un costo fra le 600 mila lire e il milione, offrono un’immagine in parte inedita dei primi anni Sessanta. Si può vedere una giovanissima Mina a colori, che canta una delle sue canzoni “fenomenologiche”, Pesci rossi, in una specie di acquario virtuale, circondata per l’appunto da numerose sagome di pesci. È la Mina materiale e strampalata che impazza con la tintarella di luna, la zebra a pois, la folle banderuola: e accanto all’urlatrice si può selezionare il filmato in cui Domenico Modugno, con uno dei suoi smoking così teatrali, canta Don Fifì. A quel punto sembra che stia per nascere una vera industria nuova, perché il Cinebox richiama professionisti e operatori dello spettacolo, direttori della fotografia, registi, intrattenitrici come Gloria Paul: proprio quest’ultima accompagna con le sue movenze inevitabilmente “feline” uno dei grandi successi di Gino Paoli, La gatta. Delle circa 250 produzioni realizzate dalla società Sipec di Milano, si possono contemplare nelle pagine del libro di Bovi suggestive pubblicità in bianco e nero, presentate nel Notiziario del Cinebox con lo strillo «Le novità da gettonare nei bar Cinebox»: in cui si trova perfino un improbabile Maurizio Arena che interpreta una sua composizione dal poetico titolo Vetro opaco. Ma sono imperdibili anche il “Complesso Gastone Parigi” impegnato nell’esecuzione di Napoleon e il “Complesso Marino Marini” in Ho la testa come un pallon(ma ci sono anche scoperte o riscoperte tutt’altro che ovvie, come l’orchestra di Ennio Morricone, nientemeno, che Come un baule di memorie GIANNI VALENTINO S SAN LEUCIO (CASERTA) i chiama Canzoni con vista — gli antenati del videoclip la mostra allestita in anteprima italiana al Belvedere di San Leucio (fino al 2 agosto, e poi dall’1 al 30 settembre, ingresso gratuito) e che a Natale viaggerà verso Las Vegas. In esposizione documenti inediti, foto e quattro esemplari originali di Cinebox e di Scopitone che dal 1959 al 1969 duellarono per vendere al mondo intero le icone della musica leggera: Renato Carosone, Los Marcellos Ferial, Edoardo Vianello, Luigi Tenco, Petula Clark, Gianni Morandi, i Brutos (a loro fu affidato il brano promozionale La canzone del Cinebox), Mina, Domenico Modugno, Vic Damone, Johnny Dorelli, Don Marino Barreto, Sergio Bruni, Lucio Battisti e Debbie Reynolds. Canzoni con vista non è un cimitero della musica anni Cinquanta-Sessanta quanto un affascinante baule aperto di memorie ritmiche senza le quali oggi forse non ci sarebbe tanta foga nell’attesa dei videoclip di Madonna e degli U2. Ideatore e curatore dell’allestimento è Michele Bovi, caporedattore del Tg2 che ha studiato a lungo il fenomeno e ora ha deciso di rievocarlo sulla pubblica piazza. «Sfido i migliori esperti della musica pop italiana a rivelare i retroscena della nascita del Cinebox», racconta Bovi, «la gente pensa che i videoclip siano nati grazie all’industria di Hollywood. Invece è un’invenzione made in Italy. Pietro Granelli e Paolo Emilio Nastri pensarono al juke box ad immagini, per il quale fu concepito l’utilizzo di filmati a colori di quasi tre minuti e che nel tempo poi è stato definito videoclip. Ovviamente anche all’epoca c’era concorrenza e nel 1960, un anno dopo la produzione del Cinebox (sorta di armadio sonoro di 150 chili), in Francia si commercializzò lo Scopitone, un apparecchio analogo. Un plagio, diciamola tutta». «Gli imprenditori d’oltralpe, per vincere la sfida italiana», prosegue Bovi, «affidarono la regia dei clip a registi come Claude Lelouch o Robert Altman; mentre in Italia ci si “accontentava” di Enzo Trapani e Vito Molinari. Poi la storia della musica leggera passò per le mani di Cosa Nostra: i produttori dello Scopitone si accordarono con le famiglie mafiose di Lucky Luciano e Vito Genovese per venderne meglio i diritti in Usa. Ecco perché il libro-catalogo che raccoglie storie e fotografie del Cinebox e di centinaia di personaggi si intitola Da Carosone a Cosa nostra». Dopo Las Vegas la mostra andrà ad Atlantic City e a New York. «Mi sembra di rivivere la mia adolescenza», aggiunge Bovi, «abitavo a Roma nel quartiere San Giovanni e nel bar sotto casa mi incontravo con gli amici per vedere Neil Sedaka cantare I tuoi capricci. Il filmato costava cento lire. Chissà quanto costerà il suo cachet e quello di Paul Anka per il concerto che stiamo organizzando per settembre a San Leucio. Canteranno i sopravvissuti del Cinebox». accompagna Edoardo Vianello nel twist programmatico di Guarda come dondolo). E poi praticamente tutti gli altri. Peppino Di Capri, Sergio Endrigo, Nico Fidenco, Enzo Jannacci che esegue L’ombrello di mio fratello, Nicola Arigliano, Fred Buongusto, Giorgio Gaber rigorosamente in giacca e cravatta, e ancora il ludico Vianello con le pinne, il fucile e gli occhiali, affiancato in spiaggia dalla esuberante comparsa Loredana Berté. In poco tempo tuttavia la storia dell’antenato del videoclip cominciò a complicarsi. Il gemello francese del Cinebox, lo Scopitone, cominciò ad avvalersi di cantanti come Jacques Brel, Charles Aznavour, Gilbert Bécaud, Serge Gainsbourg, Johnny Halliday, Sylvie Vartan. Oltre che sulla comicità (specialmente con le performance dei Brutos capitanati da Aldo Maccione), la formula francese puntava molto esplicitamente sul lato sexy: quando nel 1963 Claude Lelouch girò Tous les garçons et les filles, l’“inno” amoroso e generazionale di Françoise Hardy, «ambientò la canzone in un luna park, con due ragazze sulla ruota gigante alle quali il vento sollevava di continuo le sottane mostrando slip e altri scampoli di lingerie». Il Cinebox doveva arenarsi in America, dove una ricerca aveva indicato una quota di mercato di non meno di 150 mila apparecchi (a duemila dollari l’esemplare). Non solo perché i francesi dello Scopitone finirono nelle braccia della mafia italo-americana, che cercava di diversificare il business delle slot machine, sicché gli italiani si trovarono di fronte uno scalone concorrenziale troppo elevato. Il fatto è che la produzione italiana, pure arricchitasi con i nuovi idoli Gianni Morandi e Bobby Solo, e sulla scorta di star internazionali come Paul Anka e Neil Sedaka, era in fondo troppo locale per affrontare la grande concorrenza negli Stati Uniti. Ma per la verità il colpo di grazia al Cinebox lo diedero le case discografiche, quando si accorsero che i costi di produzione e gestione rendevano non economica la nuova arte: si calcolò che solo per ammortizzare l’investimento iniziale un singolo filmato dovesse essere gettonato almeno 160 volte (va anche detto che le pellicole si spezzavano con frequenza esasperante). Così l’affare del Cinebox si concluse piuttosto tristemente negli anni Settanta, dopo che gli apparecchi all’estero erano stati sfruttati per riprodurre spot pubblicitari; e in Danimarca vennero anche usati come proiettori di filmati pornografici. Una fine deludente per quella che doveva essere «la bomba cinemusicale del secolo»: anche se oggi i circa seimila apparecchi italiani e francesi costruiti sono autentica merce da collezione e possono valere dai tremila ai diecimila euro. Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 i sapori Lo consideriamo giustamente il principe della dieta d’estate Grazie a un enzima brucia i grassi, previene le infiammazioni e aiuta a digerire. Mette d’accordo tutti: salutisti, golosi e ora anche i fan del commercio equo e solidale. Ma pochi sanno che nel corso dei secoli questo regalo del Nuovo mondo fece impazzire i sovrani di tutta Europa e ne sconvolse l’economia Frutti esotici 5 Kg il peso massimo 8 gradi la temperatura per conservarlo LE TIPOLOGIE Queen 50 kcal Sono piccoli (un chilo al massimo), gli ananas della famiglia Regina Ma anche gustosi, aromatici, zuccherini, dalla polpa di un bel giallo intenso. Data la bassa acidità, vengono utilizzati soprattutto in pasticceria nelle ricette dolci per 100 grammi 1493 l’anno in cui Colombo lo scopre Cayenne A questa famiglia appartiene la tipologia più diffusa ed esportata, battezzata Cayenne liscia Dimensioni medio-grandi, polpa succosa, chiara, consistente, dolce, è l’ananas perfetto per le preparazioni sciroppate e per la conservazione Ananas Il dolce che supera la prova costume LICIA GRANELLO Abacaxi Tra le oltre cento singole varietà di ananas, quelle riconducibili alla famiglia Abacaxi sono le meno conosciute. Polpa zuccherina e buccia sottile, sono coltivate quasi solo per il consumo e vendute nei mercati dell’America latina Spanish La Spagnola più pregiata (Red Spanish) ha forma panciuta, ciuffo chiaro, buccia spessa, di colore arancio. Grazie alla sua polpa turgida, acidula, leggermente fibrosa, si presta sia al consumo sia come ingrediente nella cucina agrodolce n corsa per le vacanze: agili, scattanti, flessuosi. Ovviamente magri. È così che nelle settimane pre-vacanziere l’acquisto di ananas cresce a doppia cifra percentuale. L’assioma ananas uguale snello negli anni non perde autorevolezza: succhi e tisane supportano un consumo battente, coscienzioso, senza se e senza ma. Come se mettere in discussione il potere dimagrante dell’ananasso di fascista memoria fosse una bestemmia al cospetto del dio della bellezza. Tutto merito di un enzima. La pianta madre che produce i piccoli frutti tra loro saldati nella pigna (falso frutto) dell’ananas sativus infatti appartiene alla famiglia delle bromeliacee, caratterizzate dalla forte presenza di bromelina. Una fama meritata, se è vero che si tratta di un enzima sulfidrilico con un’incredibile spettro di azione. Capace di inibire i fenomeni infiammatori — dagli edemi alla cellulite — coadiuvante della diuresi e della digestione, grazie alla sua azione proteolitica. Non a caso, grazie alla sua azione rompi-proteine viene spesso combinato con le carni e consigliato nei dopo pasto, al contrario di altri frutti che tendono a fermentare. In più, è ricco di potassio — contro i crampi da sudorazione — di acido citrico (quasi quanto arance e limoni), di vitamine A e C. Così ecumenicamente benefico, da farsi valere sia in erboristeria — dove, associato con altri principi fitoterapici come l’iperico e il fucus, esplica un’azione antidepressiva e anoressizzante — sia nei laboratori di ricerca oncologica: il Queensland Institute of Medical Research (Australia) ha recentemente annunciato di aver isolato dalla polpa due molecole con effetti stimolanti sulle cellule del sistema immunitario. In quanto alla cosmesi, via libera a gel anti-cellulite, creme rigeneranti e maschere esfolianti (grazie agli alfa-idrossiacidi). Abbiamo imparato a prepararlo a crudo con modalità diverse, passando dalle classiche fette col buco in mezzo ai quarti di frutto appoggiati sulla buccia e segnati dal coltello per gustarlo in piccoli tocchi. In un caso come nell’altro, si elimina il cuore legnoso, dalla consistenza fibrosa, che in Oriente viene utilizzato per la fabbricazione di stoffe e cordami. Nelle Filippine in particolare, la fibra ottenuta riesce lunga, sottilissima, tenace, lucida come seta, materia prima pregiata per realizzare tessuti leggeri quanto una batista di lino. Invece di scartarlo, faremmo comunque bene a mangiarlo, il cuore duro dell’ananas. Perfino prima di tutta la polpa zuccherina che lo circonda. Perché è proprio lì che si annida la maggior quota di bromelina. E siccome detesta invecchiare, come tutte le sostanze naturali, la bromelina andrebbe salvaguardata mangiando ananas il più possibile freschi e a crudo. Perché l’altro grande spauracchio è il calore: le lavorazioni che prevedono la pastorizzazione sono altamente distruttive del meglio della pigna. Dettaglio da non trascurare quando si scelgono succhi, marmellate, conserve (sciroppato, in scatola). Ma anche l’ananas fresco ha i suoi bei comandamenti. Al momento di comprarlo, occhio alla scorza, che deve essere di colore brillante e profumata, uniforme e soda, priva di tagli e macchie, più intensa dall’alto verso il basso. Tra le placchette, il verde-grigio testimonia l’immaturità, mentre il marrone è sintomo di frutto troppo maturo. La freschezza si evince anche dal verde intenso del ciuffo superiore. Se poi siete sensibili ai comandamenti del “buono pulito&giusto”, scegliete quelli etichettati Transfair — marchio del commercio equo e solidale — in arrivo soprattutto da Ghana e Costarica (Paese leader nell’esportazione). La bromelina eticamente corretta vi farà diventare ancora più magri. I Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Cristian Magri Mimmo Vicinanza Il bresciano Cristian Magri è uno dei nuovi talenti della cucina italiana. Allievo del superchef londinese Marc Pierre White, ha lavorato con Aimo & Nadia e Carlo Cracco. Gestisce con la moglie Emanuela “Il Vicolo” di Corsico, alle porte di Milano Supportato da una giovanissima “sous chef”, Teresa Di Napoli, Mimmo Vicinanza dirige la cucina de “Il Papavero” di Eboli, il ristorante di Maurizo Somma che coniuga la miglior tradizione culinaria campana e le tecniche più avanzate TORTINA DI ANANAS E MANDORLA, GRANITA ALLA ROSA INSALATA DI ANANAS CON CARPACCIO DI BUFALO 100 gr pasta di mandorle 150 gr burro morbido 90 gr zucchero semolato 230 gr farina 1 uovo 1 fetta d’ananas 100 gr farina di mandorle • Impastare 130 gr. di farina, 20 di zucchero, 80 di burro con la pasta di mandorle • Un’ora di riposo, poi stendere, rivestendo 4 stampini • Riempirli con un composto ottenuto montando 70 gr. di burro con altrettanto zucchero, un uovo, 100 gr. di farina bianca, 100 di farina di mandorle e una fetta d’ananas tagliata a tocchetti e spadellata. Infornare a 180° per 20 minuti • Servire con una granita composta facendo bollire 70 gr. di petali di rosa con 500 gr. d’acqua per 2 minuti. Lasciare in infusione 6 ore. Filtrare, aggiungere uno sciroppo di acqua e zucchero di pari peso (portato a 10°) e mettere in freezer rimestando con la frusta di tanto in tanto • Decorare con scaglie di cioccolato amaro 5 fette di ananas 360 gr. girello di bufalo 20 gr. pinoli 10 gr. uvetta • Eliminare buccia e cuore dell’ananas • Tagliarne quattro fette spesse un centimetro e ridurle a cubetti • Dalla quinta estrarre il succo • Condire con olio, sale zenzero grattugiato, menta e succo, lasciando riposare un quarto d’ora in frigo coperto • Affettare la carne il più sottile possibile • Disporla nei piatti con poco sale e il succo dell’insalata • Aggiungere all’ananas uvetta e pinoli • Distribuire l’insalata sopra i veli di bufalo Frutto sacro caduto nel piatto da dessert STEFANO MALATESTA n amico siciliano, frequente avventore a Palermo di una di quelle bettole dove servono tremendi piatti locali, dice che il proprietario si presenta sempre, alla fine del pasto con la proposta di una “raffineria”. Un ananas tagliato in strisce decò, a zig zag, come veniva presentato negli anni Trenta al Winter Palace di Luxor, che ora prende posto tra gli avanzi dello sfincione e i resti della milza fritta. E anche tutte le pizzerie dell’area servono ogni sera centinaia di piatti del frutto congelato, molto richiesto dai ragazzi, per rinfrescare la bocca infuocata da pezzi di aglio e peperoncino. In tempi di consumi di massa non c’è “raffineria” che si mantenga veramente tale, se mai lo è stata, di fronte alle moltitudini che pretendono quello che piaceva a pochi, visti come modelli da imitare. Così anche il più tropicale tra i frutti tropicali, il più dolce e il più stravagante, il più ricercato, il più costoso e il più superfluo — citato dagli economisti inglesi del Settecento come uno spreco utile, perché deviava somme non indifferenti nei piaceri della tavola, facendole ricadere a pioggia sulle classi più umili, che senza gli ananas, sarebbero andate ad accrescere i capitali dei consumatori, tutti aristocratici, rendendoli ancora più ricchi e quindi più potenti — è sceso al livello della sambuca con le mosche o del nocino, “di quello bono”, distribuito come un nettare nelle mense aziendali. Tra gli innumerevoli regali che l’America ha fatto ai suoi scopritori e conquistatori non c’è più la sifilide, che numerosi storici avevano visto come una tardiva vendetta degli indios prima di essere sterminati dalle malattie portati dagli Europei. Qualcuno ha scoperto che era presente in Cina già mille anni prima e probabilmente anche in Europa, anche se nessuno la sapeva riconoscere. Rimangono la cioccolata e il tabacco offerti da Montezuma nel famoso pranzo dato nelle sale del suo palazzo a Tenochtitlan a Cortez e ai suoi uomini, come è raccontato nel meravigliosa cronaca della conquista, La verdadera Historiadi Bernal Diaz del Castillo e una quantità di piante allora sconosciute, al cui vertice troneggiava sempre quella stravagante forma, di cui non esisteva l’equivalente nel Vecchio mondo. L’ananas era stato scoperto quasi trent’anni prima della spedizione di Cortez dai marinai di Colombo durante una sosta nell’isola di Guadalupe. In un villaggio di indios accanto ad un idolo di pietra erano state trovate pile di carne umana e decine di questi frutti sconosciuti che si presentavano coloratissimi e dolcissimi, consumati con gusto dagli indios. Ma ogni tentativo di modificare la caratteriste della pianta per poterla coltivare in Europa fu un fallimento. Per tre secoli l’ananas, che in lingua dei caribe significava eccellente, venne trasportato dalle navi senza sistemi di refrigerazione ed erano ben pochi quelli che non marcivano, subito venduti a prezzi che superavano quelli di qualsiasi genere alimentare. In Inghilterra ne andavano pazzi e Carlo II arrivò a farsi ritrarre con un ananas a portata di mano, come se fosse la cosa più preziosa da mostrare. La rarità e l’eleganza delle forme lo trasformarono nell’Ottocento in un simbolo del lusso e del superfluo, paragonabile a quelle divise multicolori e inzeppate di mostrine e di pennacchi, con cui si pavoneggiavano i militari, dopo che i borghesi avevano scelto l’anonimità seriosa del grigio e del nero. In un celebre film della fine degli anni Trenta, Le quattro piume di Korda, nella scena iniziale un vecchio e rincoglionito e vanitoso, ma simpatico generale ricostruisce su un tavolo di mogano la carica dei Seicento, l’apogeo dell’imbecillità della guerra elegante, servendosi della frutta come segnaposto per spiegare il piano di battaglia: «Qui c’erano le batterie dei cannoni russi, qui la Light Brigade si lanciò alla carica, qui Lord Raglan …» Poi afferra l’unico vistoso ananas che troneggiava accanto e lo sistema al centro della battaglia dicendo: «E qui stavo io». Soprattutto negli Stati Uniti del periodo coloniale, nessuna dama dell’aristocrazia repubblicana, molto più attenta ai distinguo di classe e di censo di quella monarchica europea, fingendo il contrario, organizzava una cena senza un’immensa tavola scenograficamente disposta come un presepio di cibarie, al cui centro si elevava l’ananas. Più grande il frutto, più alta s’innalzava la fama della padrona di casa. Con l’arrivo dei frigoriferi, negli Stati Uniti l’importazione degli ananas diventò un tale business che l’agricoltura di alcuni paesi tropicali venne ristretta alla monocultura per soddisfare la richiesta crescente. Già trent’anni fa Stravinskij, in quelle interviste in cui lasciava trapelare, come Nabokov, il suo intimo disprezzo per l’american way of life, raccontò che a Hononulu era rimasto stupefatto dal ruolo che aveva preso l’ananas anche nella migliore cucina. Ed era stato costretto a corrompere il cuoco perché non gli mettesse pezzi seccati del frutto dentro il ragù degli spaghetti. U 8 foglioline menta 80 ml. extravergine zenzero LA CONSERVAZIONE L’ananas è frutto caraibico e come tale odia il freddo. Occorre comprarlo giorno per giorno per evitargli lo shock del frigorifero, se non nell’ora che precede il momento di gustarlo Va raffreddato avvolto in carta stagnola o pellicola, anche per evitare che contamini altri alimenti con il suo profumo. Se acerbo, basta lasciarlo maturare un paio di giorni a temperatura ambiente LE PREPARAZIONI Sciroppato Sbucciato e affettato, l’ananas va coperto con acqua e zucchero Il giorno dopo si fa bollire lo sciroppo e si versa sulle fette. Quarantotto ore di riposo e nuova bollitura dello sciroppo, poi si aggiunge l’ananas Si cuoce un quarto d’ora Caramellato Se la caramellatura con zucchero richiede precisione per evitare che l’ananas diventi appiccicoso, lo si può sostituire con il succo d’arancia. Qualche cucchiaiata in una padella antiaderente, e fette cotte a fiamma allegra Gelatina Dalla polpa di ananas, grattugiata e setacciata, si ottiene il succo, a cui va aggiunto zucchero in quantità di un quinto inferiore. Va fatto restringere a fiamma dolce. Serve a rifinire le torte e a “lucidare” le crostate di frutta Disidratato Tagliare l’ananas sottile (meglio con l’affettatrice e molto freddo). Poi disporre sulla placca del forno, lasciandolo per una notte a 65° Una volta sfornato, conservare in un barattolo di vetro. Spolverare con zucchero a velo Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 le tendenze Ai piedi della moda Sandali ultrapiatti con strass, ciabattine e infradito in stile caprese si contrappongono adesso a scarpe dalle vertiginose altezze e a zeppe che assomigliano a trampoli. Dimenticate le mezze misure, gli stilisti propongono modelli capaci di sorprendere le donne E tra i saldi in vetrina trionfa l’eccesso... EFFETTO MACULATO TELA DEL RAGNO QUESTIONE DI RAZZA Per chi vuole stupire non solo con il tacco ma anche con i colori acidi... Zeppa di Iceberg dalla fantasia maculata tra il viola e il giallo con inserti in morbido camoscio all’interno Per le nostalgiche degli anni Sessanta il classico ragno che arriva direttamente da Positano. Questo, Safari club, è nero e con morbido cinturino dietro la caviglia Modello disponibile in più colori Sandalo Dior Galuchat (in pelle di razza) green con tacco alto e rigoroso. Una scarpa che ha la sobrietà del modello chiuso ma, a sorpresa, si apre sulla punta. Per serate speciali, anche in abito lungo uone notizie per le signore, di qualunque statura. L’estate 2007 è all’insegna dell’eccesso, almeno in fatto di tacchi. Unica regola: esagerare, in un senso o nell’altro. Per ogni donna c’è la scarpa adatta: ultrapiatta per le alte, anzi le altissime che gli invidiosi definiscono giraffe. Sopra gli otto-dieci centimetri per le “veneri tascabili”. I sandali, unica possibile via d’uscita nelle giornate da trentacinque gradi all’ombra, non conoscono vie di mezzo. Gli stilisti, spesso bizzarri, questa volta si sono rivelati impeccabili e hanno ideato sagome in grado di soddisfare ogni esigenza e capriccio. E per di più sono stati capaci di sorprendere conquistando la gratitudine del pubblico femminile, stanco d’insipide soluzioni. Cominciamo dal basso. Naturalmente inteso come tacco. Quale naturale evoluzione del boom delle ballerine, che in primavera hanno abituato al piacere di camminare senza rischi di distorsioni alla caviglia, sono arrivati i sandali e gli infradito ultrapiatti. Alcuni modelli sono semplicissimi, anche un po’ retrò. Spesso, infatti, a far tendenza sono i cosiddetti “ragni” o “capresi” come quelli che si comprano su misura nelle botteghe artigianali di Positano e dintorni. Miti come Grace Kelly e Audrey Hepburn li avevano resi cool già negli anni Sessanta. Quest’estate però la ciabattina minimal s’impreziosisce con brillanti, pietre preziose, cristalli e rifiniture in oro e argento. È il momento della rivincita per le aspiranti lady (di statura superiore alla media) costrette, in passato, ad abbinare a pregiati abiti da sera calzature tristemente sciatte. Si infrange quel tabù che, da sempre, voleva la calzatura elegante imprescindibilmente legata al tacco alto. Ma riprendiamo quota. Nel variegato universo femminile c’è anche chi vive vertiginosamente, ovvero con scarpe che si “elevano” di una decina di centimetri. Roba da capogiro. Nel caso delle donne più piccole è una scelta spesso dettata dalla necessità, ma ci sono signore che senza trampoli non concepiscono l’idea di uscire di casa. Per loro l’immagine del sandalo ultrapiatto è una menomazione della femminilità. Agili come gazzelle si muovono sui dissestati pavé cittadini che, per il resto dell’universo, sono impraticabili anche in scarpe da tennis. Il tacco per le maniache dell’altezza è una condizione mentale. Un elemento sostanziale del glamour. Per loro in tempo di saldi non c’è che l’imbarazzo della scelta. I couturier si sono espressi al meglio e le vetrine sono zeppe di chance: oltre all’intramontabile stiletto, ci sono zeppe, tacchi oblunghi e delle indefinibili costruzioni di design che trasformano le calzature in sculture. Sembrano oggetti da collezionismo puro. Ma una parola va detta in favore della zeppa. Al contrario di quel che si crede lo zatterone aiuta l’equilibrio. Il fatto che il rialzo non sia tutto concentrato sotto il tallone, ma sull’intera pianta del piede rende l’andatura più stabile. Stesso discorso per il tacco alto, ma largo oggi di gran voga. E per chi proprio si destreggia malamente con la “sopraelevazione” senza riuscire a superare l’andatura incerta? Niente paura. Il re di tutte le calzature, il venerato Manolo Blahnik rassicura: «Una donna che non è perfettamente in equilibrio sui tacchi è, se possibile, ancora più sexy». E poi c’è sempre l’opzione sandalo caprese. Resta una sola nota di rammarico: ciò che manca è proprio la sana via di mezzo. Quel tacco medio che consigliano tutti i chiropratici, quello che aiuta a camminare, quello che non stanca la colonna vertebrale, quello che non massacra il piede, quello che nessuno stilista vuole più vedere perché desueto. E pensare che negli Stati Uniti vanno per la maggiore le scarpe firmate Taryn Rose. Una stilista, con un passato da chirurgo ortopedico, che sta rivoluzionando il mercato delle calzature femminili. L’idea vincente è semplice, banalissima: proporre scarpe trendy ma “posturalmente corrette”. Il prossimo slogan in Italia potrebbe essere: “plantare è bello”. B alti bassi Tra e Tacchi, l’estate degli estremi SCHIAVA VERSIONE CHIC Sandalo alla schiava in oro lucido e cinturino per Bally. La lavorazione intrecciata con la plastica bianca lo rende decisamente prezioso sul piede abbronzato. È adatto anche con una mise da gran sera IRENE MARIA SCALISE CLASSICO D’AUTORE Impeccabile Gucci: alto sandalo da sera in platform con tacco sottile in suede nero. Un classico d’autore la cui l’originalità è affidata alle placche metalliche sulla fascia e sul tallone COME CALZARI Rivisitazione allegra e spiritosa dei calzari romani per Marni Cuoio marrone, plastica lucida rossa e nera, cordino e tacco minimal. Ecco una scarpa decisamente originale L’OPERA D’ARTE Scarpa scultura per Louis Vuitton: zeppa forata in oro lucido, rivestimento interno con romantiche roselline e stringhe intrecciate. Quasi un’opera d’arte PASSI DA MASAI Ricorda, in versione lusso, le calzature dei Masai questo modello di Givenchy Altissimo, in tessuto e leggero camoscio, forato sul davanti Ha il tacco chiaro a contrasto Repubblica Nazionale DOMENICA 15 LUGLIO 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 NEL BLU PROFONDO CANDORE DA DIVA La ciabattina blu ultrapiatta, rivisitata da una striscia trasversale, è dei Fratelli Rossetti. Disponibile anche in verde Sembra disegnato per una diva, una donna con il fascino di Sharon Stone. Bianco candido, con tacco lavorato a mosaico: è una perla di Salvatore Ferragamo “Spilli” e “ballerine” alla guerra dell’eros MICHELE SERRA giudicare dal porno satellitare, navigando nel quale si possono prendere le misure della variopinta Pigalle mondialista, delle ballerine si può tranquillamente fare a meno, delle scarpe con i tacchi no. Signorine variamente nude e gementi possono togliersi tutto o quasi, ma guai a disalberare i piedi. Stiletti acuminati baluginano come lame sopra i corpi inermi del precariato erotico, tanto da suscitare nell’osservatore le stesse apprensioni delle mamme e delle vecchie zie: ma non si faranno male, tutte nude con quei tacchi puntuti? E quei travestitoni con i piedoni armati da scarpone con tacconi, ciclopiche parodie dell’eleganza spider di certe scarpe da sera, quanto male ai piedi avranno, poveracci, quando finisce il turno e se ne vanno a struccarsi? Cercatene una con le ballerine, di quelle volonterose baccanti notturne, e non la troverete. Questo farebbe pensare che la ballerina è casta, la scarpa con i tacchi sessuata. Ma attenzione: il misuratore del porno non è lo sguardo femminile, è lo sguardo maschile, e per giunta non a ranghi completi. Diciamo che è lo sguardo maschile di maggioranza o di massa, quello convinto che le fotografie di Helmut Newton siano la vetta “borghese” dell’eros, tutti nudi con le scarpe, con una frusta virtuale nello sguardo severissimo, il broncio sado-maso, l’epidermide lucente che allude (dico io) alle poltrone Frau, e tutto il corpo attrezzato alla lascivia in maniera così plateale che rischia di farci ridere, rovinando tutto prima ancora che cominci. (Si può praticare ogni genere di sesso. Ma il sesso ridicolo non è dato). La ballerina, non per caso, arriva al successo nel mezzo della rivoluzione sessuale, cioè, all’osso, della liberazione femminile. La ballerina è una diserzione del piede, è un piede scalzo appena appena inguainato, sceglie leggerezza e comodità, si associa volentieri a jeans e maglione, destruttura le forme femminili codificate dai gusti del cliente o dell’amante o del marito, comunque del maschio. Tutto l’eros della liberazione, per chi voglia o sappia coglierlo, è eros della nonchalance, o meglio del je m’en fous, me ne frego. È Brigitte Bardot con la ballerine a Parigi o a Roma, Françoise Hardy in jeans e con i capelli sciolti (nella versione riformista Audrey Hepburn elegantissima e sottile con i fuseaux, i capelli corti e ovviamente le ballerine), le t-shirt che spodestano la camicetta inamidata, il maglione esistenzialista che custodisce le forme senza ostentarle. Quasi tutta roba francese, tolta la Hepburn, e perdonate la francofilia ma non riesco a farne a meno, e peggiora con gli anni che passano. Poi naturalmente ci sono la deriva e la decadenza del genere, dall’informalità alla sciatteria il passo può essere brevissimo, lo zoccolone di legno bisex che furoreggiò nei Settanta studiava il modo di riarmare il piede trasformandolo in una specie di baita ambulante. Ma la ballerina no, era perfetta, graziosa, e centrava benissimo l’idea di un eros da corpo sciolto, libero, autonomo dal formalismo estenuato, dall’occhiuta sorveglianza dello sguardo degli uomini. Di tutte le petulanti e spesso futili questioni che si allestiscono attorno alla moda, alcune spiccano per contrasto perché sono congrue, perché dicono davvero qualcosa, e l’antagonismo ballerina-tacchi a spillo è effettivamente tra queste. Nel gran frullato post-modern nel quale flottiamo, tutto si tiene e tutto si mescola, ballerine e tacchi a spillo (piede disarmato e piede armato, pacifismo e aggressività) coesistono tranquillamente nelle scarpiere (anche se è molto più facile metterci le docili ballerine piuttosto che certi velieri in miniatura). Ma non tutto è uguale, fortunatamente, per i nostri gusti in cerca di criterio e di significato. Voto dunque, decisamente, per le ballerine, anche se assolvo i tacchi a spillo per le occasioni da parata. E pazienza se il mio voto è il voto di un maschio. Conto sul suffragio universale, e comunque ho la fortuna di frequentare donne che calzano quello che pare a loro. A PASSEGGIATE TRANQUILLE La ciabattina di Santoni è in rosso brillante ed è ravvivata da tanti cinturini. Praticamente “rasoterra”, è indicata per passeggiare al mare ma anche in città VIVA L’AUDACIA Spudorato, vistoso, da gran dama: ecco il modello in oro lucido proposto da Versace Tacco altissimo e bordi bianchi. È riservato alle più audaci PROPOSTA STRINGATA Chanel propone per l’estate il classico sandalo alla schiava nella versione alla caviglia e in quella, decisamente più impegnativa, al ginocchio LA TRASGRESSIVA È un Emilio Pucci trasgressivo che propone la scarpa con foro sulla zeppa e inserti in plastica L’altezza è da capogiro e il risultato finale conturbante SEMPLICEMENTE PREZIOSO Sandalo basso ma prezioso per Sigerson Morrison. Le pietre color ambra di dimensioni irregolari “compensano” la mancanza di tacco DOCCIA SOLARE Vernice color arancio e tacco “vuoto” per la scarpa-sandalo di Jill Sander con plateau Disponibile anche in camoscio, in verde prato e giallo canarino Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 15 LUGLIO 2007 l’incontro Èlo stilista più pagato, più eclettico, più cosmopolita, più erudito al mondo E anche molto altro: fotografo, imprenditore, furibondo collezionista d’arte e adesso pubblicitario Ha appena firmato la nuova campagna per lo champagne Dom Pérignon, glamour e lusso da manuale Tutto è studiato in lui, anche l’incognita sulla sua data di nascita e la definizione che dà di se stesso: “Un ninfomane della moda che non raggiunge mai l’orgasmo” Supercreativi Karl Lagerfeld N PARIGI on si rilassa neanche per un minuto, tutto preso a recitare se stesso. E che messinscena: sembra (volutamente) Nosferatu, il principe della notte. Un po’ Nosferatu e un po’ Dorian Gray: dicono i maligni che si abbigli sempre e invariabilmente in questa maniera per occultare gli insulti del tempo. La camicia bianca inamidata dal colletto altissimo, sotto la quale sembra ingessato, a nascondere le grinze sul collo. I mezzi guanti di pitone nero, con le borchie: non esce mai senza, dicono lo faccia per coprire le macchie dell’età. Gli occhi perennemente nascosti dietro gli occhiali scuri, anche di notte. È complicato parlare a lungo con una persona, di argomenti anche seri, senza mai, neppure un secondo, intercettare il suo sguardo. Sostiene che tiene sempre gli occhiali, notte e giorno, per vedere le cose in una tonalità più smorzata: «Se poi me li levo, le persone che ho intorno dimostrano di colpo dieci anni di più». E difatti non se li leva. Eccolo lo stilista più pagato, più eclettico, più cosmopolita, più erudito del mondo. Stilista? Non solo. Karl Lagerfeld è molto altro: è un fotografo (e sogna di essere il nuovo Helmut Newton), è un creativo pubblicitario, è un editore, è un imprenditore, è un furibondo collezionista d’arte, a tempo perso anche un attore. Da qualche tempo è pure proprietario di una libreria, 7L, specializzata in libri d’arte, moda, fotografia, nel cuore della rive gauche parigina, in rue de Lille, la strada dove abitava Lacan. Non che lo si trovi al banco, però la segue con attenzione. È qui che mi dà appuntamento, in un arioso retrobottega dove predominano i toni austeri del grigio e un rigoroso e geometrico ordine. Il pretesto è parlare della campagna pubblicitaria che ha appena firmato e fotografato per lo champagne Oenothèque di Dom Pérignon. Glamour e lusso da manuale. Ha rispolverato la sua conterranea Claudia Schiffer immortalandola in una sorta di fotoromanzo in bianco e nero dove lei incarna docilmente personaggi, tipologie, voluttuosi travestimenti accarezzati dalla fantasia maschile: la donna in carriera, la camerierina, la geisha, la cantante afro, una palpitante Maria Antonietta, multiforme e incline alla metamorfosi secondo i diversi accostamenti proprio come uno champagne di gran marca. E prepariamoci alla campagna dell’anno prossimo, sempre per Dom Pérignon. Lagerfeld ce l’ha già tutta in testa: «La protagonista sarà Gisele Bündchen, prototipo di donna forte, in una reinterpretazione delle Liaisons dangereuses. Il set naturalmente Versailles. Quando io ho un’idea non la discuto mai. È così e basta: prendere o lasciare. Questo c’è di bello alla mia età: che non devo lavorare per vivere». Anche oggi pomeriggio il look è quello di sempre, da damerino del Settecento rivisitato in chiave dark: capelli ormai bianchi, non c’è più bisogno di incipriarli come faceva da giovane, legati in un codino, cravatta di cuoio nero, al collo un filo di grosse perle grigio scuro, di perle anche la spilla che immobilizza la cravatta. Niente ventaglio oggi: quello lo sfoggia in genere durante le uscite mondane, gli piace molto, prima non sapeva come tenere occupate le mani. Ha cominciato a usarlo, racconta, nei ruggenti anni Settanta quando frequentava lo Studio 54 «dove faceva un gran caldo e non c’era l’aria condizionata». Tutto è studiato in Karl Lagerfeld e nel suo personaggio, ogni dettaglio, ogni mossa, ogni parola. Arriverà presto nelle sale un film su di lui e sulla sua vita speciale: «Una troupe mi ha seguito ovunque per due anni di fila, me li ritrovavo dappertutto, era strano. Mi sono rivisto e mi ha fatto una curiosa impressione. Non so se mi sono piaciuto. Sembravo piuttosto un personaggio dei cartoni animati!». Il film si intitola Lagerfeld Confidential e uscirà il 10 ottobre. Col suo codino e il suo colletto inamidato è così immediatamente riconoscibile, così famoso, da non riuscire neppure a camminare per la strada: «Non solo qui a Parigi, sa? In tutto il mondo. Neanche fossi una rockstar. Mi piacerebbe andarmene in giro indisturbato, ma non è possibile. Ho sempre bisogno di una bodyguard, sono gli inconvenienti della popolarità. È lusinghiero, mentirei se dicessi il contrario, ma avrei preferito mi fosse capitato quando ero giovane, non so, a 40 anni». Già. E adesso quanti ne ha? La sua data di nascita è nebulosa: lui accredita il 1938, ma secondo altre fonti sarebbe nato nel 1933. Una cosa è certa: da quando, qualche anno fa, è dimagrito fino in pratica a dimezzarsi (ha perso 43 chili in tredici mesi, e lo ha raccontato in un best seller) vive il mantenimento della sua ritrovata forma fisica come una sorta di religione il cui oggetto di culto è l’adorazione di se stesso. «È stato meraviglioso riscoprire le mie ossa. C’erano ancora, erano ancora lì! Da quando ho perso tutto quel peso la mia energia è decuplicata. Non sono mai stanco, lavoro ore e ore e mi sento sempre fresco, dormo bene, sono tranquillo, ho sempre tantissime idee». Come fa a resistere, come fa a non mangiare? «Non mangio mai, mai, nulla di ciò che non mi è consentito. Mai dolci, mai pane, mai burro, mai formaggio, quasi mai carne. Fortunatamente ho due cuochi francesi bravissimi che lavorano per me a turno 24 ore al giorno e mi preparano manicaretti meravigliosi, rigorosamente dietetici, ogni volta che ne ho voglia. Capisco che per la gente normale è più complicato». E come fa quando va a cena fuori? «A cena fuori? Io non vado mai a cena fuori. Non metto mai piede in un ristorante, se vado nelle case private non man- Sono un insoddisfatto un acrobata, un camaleonte, un raffinato voyeur La haute couture è felicità: non sopporto i colleghi che creano soffrendo. In fondo facciamo solo vestiti gio niente oppure faccio finta di mangiare. Ma non è stato difficile: basta usare la forza di volontà. Mi sono convinto, in una sorta di autoipnosi, che tutto quello che mi fa ingrassare fa schifo, anzi: è di plastica. Cioccolata? È plastica, non la voglio. Dolci? Plastica. Pasta? È di plastica. Guardi che funziona, basta crederci». Amando i paradossi annuncia ridendo: «Ammiro la gente che distrugge se stessa perché io sono capace soltanto di preservarmi!». Della moda sembra non avere particolare voglia di parlare. Di come riesca («Non mi costa nessunissimo sforzo») a disegnare per Chanel e poi per Fendi e poi magari per H&M cambiando completamente stile, ma restando se stesso. Di come abbia lanciato una sua griffe col suo nome senza mai aver raggiunto il successo sperato, ma di come abbia invece mietuto onori e sia diventato una sorta di Re Mida per conto terzi. Di come, oltre mezzo secolo fa, era il 1955, la sua strada si sia divisa da quella del collega e coetaneo Yves Saint Laurent. Cominciano insieme, a Parigi, vincendo ex aequo un concorso, giovanissimi; lui va disegnare da Balmain, Saint Laurent da Dior. Dior muore all’improvviso e Saint Laurent a 21 anni diventa una star, mentre Lagerfeld, prima di assurgere all’olimpo della fama, deve pazientare lunghi anni. Deve aspettare di essere scritturato — non senza riserve all’inizio, lo ritenevano troppo sulfureo — per rianimare il boccheggiante marchio Chanel, gioco di prestigio che gli riesce magnificamente. Se c’è una parola che lo irrita, lui che vive nel lusso e lo alimenta a livello planetario, è “esclusivo”: «Una parola atroce». E chi spende migliaia di euro per comprare un tailleur Chanel non compra una cosa esclusiva? «Assolutamente no. È un equivoco. Compra una cosa costosa, expensive. Non è la stessa cosa». Parla velocissimamente, saltabeccando nervosamente dal francese all’inglese con rapidissime incursioni nella sua lingua madre, il tedesco. Ripete volentieri quello che ha già detto varie volte: «Sono un ninfomane della moda che non raggiunge mai l’orgasmo, sono un eterno insoddisfatto». Ma dice anche che «la moda è felicità, non sopporto i colleghi che creano soffrendo, in fondo facciamo solo vestiti». E si definisce «un acrobata, un camaleonte, un raffinato voyeur». Ha un’idea molto chiara sulla bellezza femminile, lui che ha fotografato e frequentato le donne più ammirate del mondo: «Non esiste una bellezza omologata o omologabile, non può esserci una seconda Brigitte Bardot o un’altra Nicole Kidman o una nuova Kate Moss. Ognuna è bella e unica alla sua maniera. E comunque condivido quello che scrisse il poeta Marlowe: non c’è bellezza senza qualche cosa di strano nelle proporzioni». Parla di Gianfranco Ferré, che foto- grafò facendolo travestire da mamie di Via col Vento, a ciglio asciutto: «Ci divertimmo immensamente. Un servizio fotografico in cui ebbi l’idea di capovolgere i ruoli: i bianchi erano i servitori e i neri erano i padroni. Così ho fatto vestire John Galliano da cameriera, Manolo Blahnik da giardiniere, Ferré da nutrice negra. Quante risate! Ecco, mi piace ricordarlo così, Ferré, in mezzo a tutta quell’allegria». Chissà com’è quando si toglie gli occhiali. La sua sfera privata è sua e sua soltanto. Ha raccontato tante volte che a 11 anni chiese alla madre: che cos’è l’omosessualità? Lei minimizzò: niente di importante, come avere i capelli neri oppure averli biondi, tutto qui. Il grande amore di Karl Lagerfeld è morto nell’89, falciato dall’Aids: si chiamava Jacques de Bascher e aveva 38 anni. Fu chiuso nella bara abbracciato al suo orsacchiotto Mischka. Non meraviglia che dopo tanto tempo Lagerfeld sia ancora così inaccessibile anche a se stesso. Già da prima diceva: sono immune all’amore, non mi innamoro mai, sono innamorato soltanto del mio lavoro. L’intervista è finita, il tempo è scaduto. Kaiser Karl deve andare a prepararsi, a cambiarsi, a reinterpretarsi e ad ingabbiarsi in una delle sue mille tenute tutte uguali per la grande festa in onore di se stesso, delle sue foto patinate, di Claudia Schiffer versione secolo dei Lumi. Codice d’abbigliamento, c’è scritto nel lussuosissimo invito, «libertino». Lui è perfetto, quasi in maschera; gli altri ospiti tirano un po’ via. La festa è in una delle sue molte dimore di alta rappresentanza: un palazzo con scalone e stucchi e specchi, fughe di saloni, lusso sibaritico, un grande giardino, a due passi dalla sua libreria, in rue de l’Université. Lo champagne, è il caso di dirlo, scorre a fiumi. Anzi: da bere c’è solo quello, o al massimo acqua. Un’altra cena di lavoro; chissà se c’è mai un momento in cui Lagerfeld, l’acrobata, il camaleonte, il raffinato voyeur, tira il fiato e si rilassa. ‘‘ LAURA LAURENZI Repubblica Nazionale