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RELAZIONE DOTT. POSITANO ( 157 Kb)

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RELAZIONE DOTT. POSITANO ( 157 Kb)
LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
L. 18 giugno 2009, n.69 (G.U. 19/06/2009 N.140)
Casarano, 02 ottobre 2009
Ore 15,30 Teatro Fondazione Filograna
ORDINE DEGLI AVVOCATI DI LECCE
LA RIFORMA DEL PROCESSO CIVILE
Introduce e modera
Avv. Luigi Rella
Presidente Ordine Avvocati
Relatori
Dott. Gabriele POSITANO
Prof. Avv. Francesco PORCARI
Prof. Avv. Giuseppe MICCOLIS
Prof.ssa Avv. Carmela PERAGO
Relatore: dott. Gabriele Positano (Giudice presso il Tribunale di Lecce)
Prima lettura della legge del 18.6.2009 n. 69: il procedimento di cognizione ordinaria
La legge di riforma del processo civile è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 140 ed è entrata
in vigore il 4 luglio 2009. Per le cause pendenti la riforma avrà una incidenza immediata sotto tre
aspetti: la forma e il contenuto della sentenza che conterrà la concisa esposizione delle ragioni di
fatto e di diritto della decisione; le parti non potranno presentare nuovi documenti in appello; e è
cancellata la norma in base alla quale l'opposizione all'esecuzione è decisa con sentenza non
impugnabile.
La riforma, come di consueto, crea dei riti intermedi: il vecchio rito ordinario di cognizione
sopravvivere alle cause pendenti, il nuovo rito, al quale si applicheranno tutte le modifiche
apportate dalla riforma, avrà efficacia per le cause instaurate dopo il 4 luglio 2009. Il nuovo rito
sommario di cognizione, invece, riguarderà solo le cause che erano fino ad oggi di competenza del
giudice monocratico. Per blocchi di materia vi sono delle discipline particolari. Così in tema di
responsabilità da circolazione stradale, si ritorna all'antico: le nuove controversie per danni per
morte o lesioni conseguente ad incidente stradale non seguiranno più il rito del lavoro, mentre
quelle in corso proseguono con le vecchie regole. Il rito societario è stato eliminato.
In sintesi, la riforma si caratterizza per un generale dimezzamento di numerosi termini processuali
previsti in favore delle parte ed in particolare per quelli funzionali all’attivazione del processo
interrotto o sospeso o all’introduzione di un nuovo grado di giudizio. È prevista una generale
semplificazione delle questioni sulla giurisdizione, sulla competenza, sulla connessione e
1
litispendenza e un ampliamento della competenza del Giudice di Pace1, c’è un inasprimento delle
sanzioni per il soccombente e una semplificazione delle tecniche di redazione dei provvedimenti.
Vengono semplificate le attività istruttorie, in particolare con riferimento alla consulenza tecnica ed
alla prova testimoniale.
La legge contiene anche una delega al Governo per la riduzione e semplificazione dei procedimenti
civili e una ulteriore delega in materia di mediazione e conciliazione per le controversie civili e
commerciali. Vengono abrogati alcuni riti, come quello del lavoro già citato, in tema di
risarcimento del sinistro stradale con lesioni alle persone e, ancora più importante, il famigerato rito
societario, perché ritenuti inadeguati rispetto ad una spedita celebrazione di determinati processi.
La delega al Governo autorizza l'Esecutivo a riordinare i procedimenti ed a ridurre i riti a non più di
tre: quelli in cui sono prevalenti caratteri di concentrazione processuale ovvero di ufficiosità
dell'attività istruttorie; quelli in cui prevalgono i caratteri della semplificazione della trattazione
(eventualmente in camera di consiglio) e tutti gli altri caratterizzati dalla trattazione ordinaria.
Sono state immediatamente evidenziate alcune incongruenze, come quella di favorire la riduzione
dei riti, però, contemporaneamente di demandare al Giudice di Pace le controversie in tema di
interessi o accessori da ritardato pagamento di prestazioni previdenziali, che non saranno più trattate
dal giudice del lavoro, ma dal Giudice di Pace e senza il rito del lavoro2. È stata segnalata come
un’occasione perduta, quella di riformulare l'articolo 188 c.p.c. e tipizzare la conciliazione
all'interno del procedimento rendendola, magari obbligatoria, così come avviene in alcuni tribunali
virtuosi, come quello di Milano dove si è avviata la prassi di concedere alle parti un rinvio con
contestuale invito a tentare la bonaria definizione della controversia davanti alla Camera arbitrale.
Quanto al dimezzamento dei termini processuali si tratta, più che altro, di un effetto formale, perché
si costringeranno le parti (e gli avvocati delle parti) ad appellare entro un termine ridotto (ad
esempio sei mesi e non un anno) facendo poi recuperare quel tempo al momento della decisione,
come già avviene in appello, dove il rinvio medio adottato dai giudici di secondo grado sul territorio
nazionale per le cause iscritte nel 2009 è già al 2015-2016. E ovvio che ogni riforma processuale
non risolve il problema del cosiddetto collo di bottiglia se non si adottano anche altre significative
modifiche che consentano di ridurre l'impegno del giudicante per le attività diverse dalle statuizioni
definitive o interlocutorie.
In dottrina la riforma è stata valutata differentemente: per taluni autori le norme introdotte dal
legislatore del 2009 regalano una nuova dimensione sistemologica alla riforma, che va ben al di là
della sola dimensione processuale. Per altri, invece, il processo civile è uno strano animale si fa
beffe delle intenzioni dei legislatori e le sue disfunzioni si accrescono sempre più, mentre i suoi
pochi progressi arrivano in maniera imprevista (rispettivamente, Consolo e Sassani).
Disciplina transitoria
La disciplina transitoria prevede che le disposizioni della legge che modificano il codice di
procedura civile si applicano ai giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore. Invece a quelli
dipendenti in primo grado si applicano gli articoli 132, 345 e 616 del codice di procedura civile e
l'articolo 118 delle disposizioni di attuazione. Infine, le disposizioni del comma quinto e sesto
dell'articolo 155 codice procedura civile si applica anche ai procedimenti pendenti alla data del 1
1
Art. 7 – COMPETENZA DEL GIUDICE DI PACE:
Al Giudice di Pace sono affidate le cause di valore fino a 5 mila euro e quelle per i sinistri fino a 20 mila euro. Viene
inoltre aggiunta la competenza per materia per le cause relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento di
prestazioni previdenziali o assistenziali (articolo 7, terzo comma, numero 3 bis).
2
Art. 442 – Controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie:
Per le controversie relative agli interessi o accessori da ritardato pagamento
di prestazioni previdenziali o assistenziali, non si segue il rito lavoro (neanche in appello).
2
marzo 2006. In sostanza, le nuove norme si applicano solo ai processi che iniziano dopo l'entrata in
vigore della legge, ma vi sono alcune eccezioni. Così si applicano ai processi già pendenti quelle
sulla semplificazione della motivazione della sentenza (appunto, l’articolo 132 del codice di rito e
118 delle disposizioni di attuazione) per cui le sentenze di primo grado non ancora pronunziate
dovranno essere redatte in forma semplificata. In appello i documenti rientrano tra i nuovi mezzi di
prova per i quali vige un divieto ai sensi dell'articolo 345 codice di rito. Quindi le parti che hanno
una controversia pendente in primo grado devono sapere che in sede di appello non potranno
produrre nuovi documenti. Infine, vi è la modifica riguarda la sentenza sulla opposizione
all'esecuzione o sulla opposizione di terzo, per cui le opposizioni pendenti in primo piano saranno
decise con una sentenza impugnabile con l'appello. Il riferimento all'articolo 155 codice procedura
civile, infine, riguarda il computo dei termini, ma risale alla legge n. 263 del 28 dicembre 2005.
Declaratoria di difetto di giurisdizione
Originario sistema del codice di rito non consentiva la sanatoria del difetto di giurisdizione.
Era prevista e lo è ancora, la sanatoria del difetto di competenza, mediante le norme sulla traslatio
iudicii, per cui una volta dichiarata l'incompetenza da parte del giudice adito, il processo può
continuare di fronte a quello indicato come competente con la salvezza degli effetti sostanziali e
processuali dal momento della domanda. Nell'ipotesi di difetto di giurisdizione non era previsto un
meccanismo analogo, sia nel caso in cui ciò fosse collegato ai limiti nei confronti della pubblica
amministrazione, sia nel caso di limiti nei confronti di giudici speciali o da limiti che riguardano la
giurisdizione italiana nei confronti del convenuto, attesa l’operatività di giurisdizione straniera.
Di questi tre casi (pubblica amministrazione, giudici speciali, convenuto e giudice sraniero),
nell'ipotesi di difetto assoluto di giurisdizione era inevitabile escludere un meccanismo di sanatoria;
nell'ipotesi di difetto di giurisdizione nei confronti del convenuto, per operatività della giurisdizione
straniera, era ragionevole escluderla, mentre appariva irragionevole nei rapporti tra giudice
ordinario e giudici speciali, soprattutto nell'ipotesi di presenza di termini di decadenza per la
proposizione della domanda. Il caso classico è quello del rapporto tra giudice ordinario e giudice
amministrativo.
Già la Corte Costituzionale con la sentenza del 12 marzo 2007 n. 77 aveva dichiarato
incostituzionale l’articolo 30 della legge TAR nella parte in cui non prevedeva che gli effetti
sostanziali e processuali prodotti dalla domanda proposta davanti al giudice “sbagliato” (quello
privo di giurisdizione) si conservassero di fronte a quello munito di giurisdizione, sostanzialmente
poiché la pluralità delle giurisdizioni non poteva riverberarsi in danno del cittadino. La sentenza
della Corte Costituzionale ha creato una lacuna che avrebbe dovuto essere superata soltanto dal
legislatore. Prima di quel momento la questione aveva posto una serie di problemi, almeno sotto
quattro aspetti:
1. Innanzitutto, una questione riguardava la forma dell'atto con il quale il giudizio viene
trasferito al giudice indicato come fornito di giurisdizione, discutendosi tra un vero e proprio
atto di riassunzione ed un atto con il quale si instaura un nuovo giudizio autonomo.
2. Un secondo aspetto riguardava l'individuazione del termine entro il quale effettuare l'atto di
sanatoria, sia esso un atto di riassunzione che una domanda nuova. In sostanza, si poneva il
problema di un'applicazione analogica dell'articolo 50 del codice di rito oppure di
distinguere le ipotesi di pronunzia del giudice di merito (articolo 50) o quelle della
pronunzia della Cassazione (articolo 367).
3. Una terza questione riguardava il valore della pronunzia adottata dal giudice a quo e la sua
vincolatività rispetto alla posizione del giudice ad quem. Anche in questo caso l'esistenza di
una pronunzia di un giudice di merito ovvero della Corte di Cassazione poteva condurre a
differenti soluzioni.
4. Infine vi è il delicato problema dell'ampiezza degli effetti della sanatoria, poiché si discuteva
se tali effetti dovessero riguardare anche l'ipotesi di domanda proposta davanti al giudice
3
privo di giurisdizione, ma dopo che la decadenza era già intervenuta oppure no. Era il caso
classico dell'attore che, dovendo agire entro un termine perentorio di fronte al giudice
amministrativo, abbia, invece, promosso la propria azione davanti al giudice ordinario.
Art. 59. – Decisione delle questioni di giurisdizione.
1. Il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile, tributaria o di giudici
speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione indica altresì, se esistente, il giudice
nazionale che ritiene munito di giurisdizione. La pronuncia sulla giurisdizione resa dalle
sezioni unite della Corte di cassazione è vincolante per ogni giudice e per le parti anche in
altro processo.
2. Se, entro il termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronuncia
di cui al comma 1, la domanda è riproposta al giudice ivi indicato, nel successivo processo
le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli effetti sostanziali e
processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la
giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le
preclusioni e le decadenze intervenute. Ai fini del presente comma la domanda si
ripropone con le modalità e secondo le forme previste per il giudizio davanti al giudice
adito in relazione al rito applicabile.
3. Se sulla questione di giurisdizione non si sono già pronunciate, nel processo, le sezioni
unite della Corte di cassazione, il giudice davanti al quale la causa è riassunta può sollevare
d'ufficio, con ordinanza, tale questione davanti alle medesime sezioni unite della Corte di
cassazione, fino alla prima udienza fissata per la trattazione del merito. Restano ferme le
disposizioni sul regolamento preventivo di giurisdizione.
La nuova disciplina prevede che il giudice che, in materia civile, amministrativa, contabile,
tributaria o di giudici speciali, dichiara il proprio difetto di giurisdizione, indica altresì, se esiste, il
giudice nazionale che ritiene munito di giurisdizione.
In secondo luogo è previsto che la pronunzia sulla giurisdizione resa dalle Sezioni Unite della
Cassazione è vincolante per ogni giudice. Al secondo comma è previsto che, se entro il termine
perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della pronunzia la domanda è riproposta al giudice
indicato, nel successivo processo le parti restano vincolate a tale indicazione e sono fatti salvi gli
effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto, se il giudice di cui è stata
dichiarata la giurisdizione fosse stato adito sin dalla instaurazione del giudizio, ferme restando le
preclusioni e decadenze intervenute.
Qui in sostanza si prevede un termine perentorio e, nel caso di osservanza di tale termine,
l’indicazione del giudice diventa vincolante per le parti (ma non anche per il giudice) con effetto
sanante, sia dei profili processuali, che sostanziali che però non si estendono fino all'ipotesi di
decadenza già maturata.
Infine, quanto alla forma dell'atto, la norma dispone che la domanda si ripropone con le modalità e
le forme previste per il giudizio davanti al giudice adito in relazione alla rito applicabile.
Poiché il giudice ad quem non è vincolato, questi può sollevare di ufficio, con ordinanza, la
questione di giurisdizione davanti alle Sezioni Unite della Cassazione, ma ciò soltanto fino
all'udienza fissata per la trattazione del merito.
Infine è previsto che l’inosservanza dei termini è dichiarata anche di ufficio alla prima udienza e
impedisce la conservazione degli effetti processuali e sostanziali della domanda.
L'esame del dato letterale consente di escludere che la norma possa applicarsi al caso di difetto
assoluto di giurisdizione e all'ipotesi di difetto di giurisdizione, fondato su limiti della giurisdizione
italiana nei confronti del convenuto. Quindi, non si applica nel caso in cui nessun giudice abbia la
giurisdizione e nel caso in cui la giurisdizione spetti ad un magistrato straniero.
In quest'ultimo caso il processo italiano di chiude semplicemente la causa per carenza di
giurisdizione.
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Quanto all'efficacia sanante, è prevista una sanatoria sempre ex tunc e quindi retroagisce al
momento della domanda proposta di fronte al giudice sbagliato, sanando gli effetti sia sostanziali
che processuali. Tutto ciò, però, è subordinato ad una condizione: cioè al compimento, entro il
termine perentorio di tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza, di un atto di
“trasmigrazione”, che non è propriamente un atto di riassunzione, ma è la proposizione di una
nuova domanda di fronte al giudice correttamente individuato.
Il legislatore ha adottato la soluzione più ragionevole.
Pertanto il processo erroneamente instaurato si chiude, ma è fatta salva la possibilità di instaurare un
nuovo giudizio privo delle difetto di giurisdizione. L'unica differenza è che gli effetti sostanziali e
processuali retroagiscono al momento dell'inizio del giudizio errato.
Sulla base di queste premesse, ci si deve chiedere che fine fanno le prove raccolte davanti al giudice
sfornito di giurisdizione.
Deve ritenersi che ai sensi dell'articolo 310 del codice procedura civile dettato in materia di
processo estinto, quelle prove valgono come argomenti di prova ai sensi dell'articolo 116, secondo
comma, di fronte al giudice fornito di giurisdizione. Se è questo il meccanismo, non si comprende
perché la norma novellata preveda che “restano ferme le preclusioni e decadenze intervenute nel
processo” chiusosi con la pronuncia di difetto di giurisdizione. Appare irrazionale immaginare che
in un processo successivamente instaurato, abbiano efficacia le preclusioni e decadenze maturate
nel precedente processo già chiuso; d'altra parte sarebbe irragionevole immaginare che una parte,
nel processo successivamente instaurato, non possa ottemperare al proprio onere probatorio se, pur
avendo prodotto le proprie prove nel primo processo (quello “sbagliato”) si trovi, invece,
impossibilitato a farlo nel secondo processo (perché sono le stesse prove già espletate). In questo
caso le prove assunte dal giudice privo di giurisdizione varrebbero solo come argomenti di prova ex
art. 116 II c. di fronte al secondo giudice che dovrà, invece, rendere la decisione di merito. Tutto ciò
appare irragionevole poiché quelle prove, nel secondo giudizio, valgono solo come argomenti di
prova e non possono fondare da sole la decisione. La dottrina ha ritenuto, pertanto, che in questo
caso il riferimento alle decadenze e preclusioni non dovrebbe essere prese in considerazione.
Il quarto comma dell’art. 59 della legge di riforma in tema di difetto di giurisdizione prevede che la
inosservanza dei termini (tre mesi) comporta l'estinzione del processo e impedisce la conservazione
degli effetti sostanziali processuali. Anche qui vi è una contraddizione perché il termine di tre mesi
è fissato ad altri fini e costituisce il presupposto per l'efficacia sanante retroattiva del secondo
giudizio. In sostanza, la riassunzione viene effettuata soltanto per due ragioni: per rendere
vincolante la statuizione sul giudice fornito di giurisdizione nei confronti delle parti e per far
retroagire gli effetti sananti. Appare irragionevole attribuire alla riassunzione tardiva un effetto
ulteriore, che sarebbe quello di determinare un’estinzione del secondo processo. Questo non ha
senso, perché il processo si è già chiuso con una pronunzia di difetto di giurisdizione.
In sostanza, il secondo giudizio dovrebbe operare come un giudizio autonomo e nuovo, rispetto al
quale sono in irrilevanti le vicende del precedente giudizio, se non per i due effetti sopra indicati:
efficacia sanante ex tunc e vincolatività per le parti.
Quanto all'efficacia vincolante al di fuori del processo, il legislatore ha separato le ipotesi: quando
la pronunzia è emessa dalla Corte di Cassazione a Sezioni Unite è vincolante. Quando invece la
pronunzia è adottato dal giudice di merito è vincolante solo per le parti, ma non anche per il giudice
e sempre nell'ipotesi di spostamento del processo entro il termine perentorio. Le parti, in quel
giudizio, potranno contrastare la pronunzia sulla giurisdizione, ma lo devono fare attraverso i mezzi
di impugnazione. Una volta passata in giudicato la sentenza che ha chiuso in rito il primo processo
per difetto di giurisdizione, l’interessato può vincolare a questa pronunzia la controparte, solo si
instaura la causa di fronte al giudice correttamente individuato entro il termine di tre mesi. Al
contrario, il giudice può comunque disattendere quelle indicazione, ma è obbligato, in questo caso,
ad adottare il meccanismo previsto dall'articolo 45 del codice di rito e sollevare, con ordinanza,
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conflitto di fronte alle Sezioni Unite della Cassazione, ma questo soltanto entro la prima udienza per
la trattazione di merito.
La dottrina ha puntualizzato due aspetti.
1. Innanzitutto la nuova disciplina prevede che restano "ferme le disposizioni sulla
regolamento preventivo di giurisdizione". Tale normativa è inserita però nel comma che
disciplina il processo instaurato davanti al secondo giudice, cioè quello fornito di
giurisdizione. In realtà, il secondo il giudice può sollevare il conflitto davanti alle Sezioni
Unite della Cassazione, mentre le parti hanno perso ogni potere, sia di proporre il
regolamento di giurisdizione sia, addirittura, di sollevare la relativa questione che è ormai
vincolante per le stesse. Di conseguenza quel riferimento può riguardare soltanto il giudice
adito per primo, in quanto lo strumento previsto all'articolo 41 del codice procedura civile
opera solo nell'ambito del processo di fronte al giudice erroneamente adito.
2. Un altro problema riguarda i rapporti tra arbitro irrituale e il giudice. Il nuovo testo
dell'articolo 817 codice procedura civile qualifica la deduzione con la quale si fa valere, di
fronte all'arbitro, la carenza di un valido patto commissorio, come eccezione di
incompetenza. Negli stessi termini il successivo articolo 819-ter c.p.c. in tema di patto
commissorio fa riferimento ad una eccezione di incompetenza, sebbene poi tale norma non
consenta di utilizzare la disciplina in materia di competenza, escludendo l'applicabilità di
alcuni articoli (44,45,48 e 50 codice procedura civile). La dottrina ha rilevato che tali
eccezioni, in realtà, dovrebbero essere inquadrate più nell'ambito del difetto di giurisdizione
e non in termini di competenza. Pertanto, la pronunzia con la quale il giudice si spoglia della
causa in favore di un arbitro dovrebbe essere una pronunzia di difetto di giurisdizione, come
pure quella con cui è l'arbitro a spogliarsi della decisione nel merito, ritenendo inesistente un
valido patto commissorio. In questi casi non è ragionevole ipotizzare una traslatio judicii,
però, nel caso di pronunzia passata in giudicato, dovrebbe ritenersi che l’indicazione del
nuovo giudice, come quello fornito di giurisdizione, debba essere vincolante per le parti, se
la domanda è proposta entro il termine perentorio di tre mesi.
La competenza
Il progetto iniziale di riforma prevedeva un intervento di notevole spessore in materia di
competenza, consistente in una generale attenuazione del peso delle questioni che avrebbero dovuto
essere eccepite immediatamente e decise nella fase iniziale della causa, con modifiche agli articoli
38,39,40,44 e 45 del codice di procedura civile e abrogazione degli articoli 42,43 e 46 e sostituzione
del terzo comma dell'articolo 187 del codice di rito. Era previsto anche un ridimensionamento del
regolamento di competenza, con eliminazione di quello ad istanza di parte, quale mezzo di
impugnazione e mantenimento di quello d'ufficio in caso, soltanto, di conflitto negativo di
competenza. Le decisioni su quest'ultimo conflitto sarebbero state adottate con ordinanza,
impugnabile con reclamo.
Tali ambiziose intenzioni sono state modificate radicalmente dai lavori parlamentari.
Tanto che in una risoluzione del Consiglio Superiore è stato censurato il fatto di avere introdotto
nuovamente regolamento di competenza, come mezzo di impugnazione che, oggi, continua ad
essere usato spesso a scopo meramente dilatorio.
Il legislatore ha equiparato oggi tutti i criteri di competenza ai fini della eccezione di parte.
Il nuovo comma dell'articolo 38 del codice di procedura civile stabilisce, infatti, che l’incompetenza
per materia, quella per valore e quella per territorio, vanno tutte eccepite, a pena di decadenza, con
la comparsa di costituzione e che questa deve essere depositato tempestivamente entro il termine
previsto dall'articolo 166. L’aggiunta dei termini "tempestivamente depositata", costituisce
6
importante innovazione che fa chiarezza sul punto, perché la precedente giurisprudenza non era
concorde nel valutare gli effetti di una costituzione tardiva.
In giurisprudenza erano riscontrabili due orientamenti recenti.
1. Un primo riteneva l'eccezione di incompetenza formulabile in qualunque momento
processuale, purché nella comparsa di costituzione e cioè con la prima difesa, anche se
tardiva (Cassazione 3586 del 22 febbraio 2005 e altre).
2. Un secondo l'orientamento affermava la tesi opposta ed ha trovato l’avallo nell’interveto del
legislatore del 2006 il quale, con la modifica dell'articolo 167, secondo comma, ha previsto
che il convenuto, a pena di decadenza, deve inserire nella comparsa di costituzione tre
richieste: la domanda riconvenzionale, la chiamata di terzo e le eccezioni processuali e di
merito non rilevabili d'ufficio. Tra queste eccezioni processuali rientra certamente la
competenza territoriale derogabile.
Conseguentemente dopo la riforma del 2005 l'orientamento della Cassazione avrebbe dovuto,
verosimilmente, mutare.
In sintesi, oggi il convenuto deve spiegare domanda riconvenzionale, formulare richiesta di
chiamata del terzo e slittamento dell'udienza e eccepire l’incompetenza con il primo atto depositato
tempestivamente. Tanto che le decadenze previste dall'articolo 38 sono adesso menzionate
nell'articolo 163 che è stato modificato, con emendamento in commissione referente al Senato. Per
cui i contenuti obbligatori dell'atto di citazione prevedono anche le decadenze di cui agli articoli
167 e 38 del codice di rito.
Il convenuto che intende contestare la competenza deve costituirsi tempestivamente e formularlo
nella comparsa di costituzione. Successivamente, potrà solo sperare in un rilievo d'ufficio, ma non
nei casi di competenza per territorio derogabile, ma il giudice, a sua volta, ha tempo soltanto fino
alla prima udienza di comparizione.
In materia di rilievo di ufficio è rimasta la regola precedente, con una limitazione ai casi di
competenza inderogabile adesso il limite temporale quello previsto dall'articolo 183.
Per e le ipotesi di competenza territoriale inderogabile, invece, è rimasta la regola secondo la quale
essa rimane ferma se le parti costituite aderiscono a tale indicazione la causa viene riassunta entro
tre mesi. Per favorire l'accordo sulla competenza territoriale inderogabile la vecchia disciplina
prevedeva la necessità di specificare l’indicazione del giudice che la parte riteneva competente, con
ciò recependo il tradizionale orientamento della Cassazione (che riteneva valida l’eccezione di
incompetenza territoriale, solo con la individuazione del giudice competente e la contestazione di
tutti i fori alternativi).
La nuova disciplina ha adottato una formula letterale analoga, unificando, però, sotto questo aspetto
tutte le questioni di competenza territoriale senza considerare che oggi l'accordo rileva soltanto nei
casi di competenza territoriale derogabile e non in quelli previsti dall'articolo 28 del codice di rito.
In sostanza, vi è una evidente incongruenza, perché un accordo all'interno del processo non è
immaginabile nei casi previsti all'articolo 28 per cui non ha alcun senso che il convenuto debba,
anche in questi casi, indicare qual è il giudice che ha ritenuto competente. La ratio dell'accordo, in
questi casi non esiste, poiché non è rimesso alle parti di stabilire il giudice competente.
È evidente che si tratta di una svista.
Allora si può ritenere che la ragione della norma non è più quella di favorire l'accordo, ma quella di
facilitare l'indagine sul foro competente.
Tutte le questioni sulla competenza oggi sono decise con la forma della ordinanza che ha sostituito
la sentenza, per cui sono stati modificati gli articoli in materia (articoli 42,43,44,45,47,49,50 e 279
c.p.c.).
In sintesi: la decisione in tema di competenza ha sempre la forma dell’ordinanza, sia nel caso in cui
il giudice istruttore ritenga fondata l’eccezione e decida sulla questione, sia nel caso in cui, al
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contrario, il giudizio si sia svolta sino alla decisione della causa nel merito, avendo il giudice
istruttore erroneamente ritenuto infondata la questione.
Spariranno, quindi, le sentenze declinatorie della competenza e questo anche se il provvedimento
viene messo dopo la precisazione delle conclusioni.
Al contrario, il provvedimento affermativo della competenza potrà essere adottato sia con la forma
dell’ordinanza che con sentenza, a seconda che la pronunzia avvenga prima di istruire la causa
oppure in sede di decisione di merito, poiché in questo caso la forma della decisione del merito
prevale sulla forma del provvedimento reso sulla competenza.
Quanto alla impugnazione, l'ordinanza sulla competenza è impugnabile con regolamento necessario
di competenza, che viene deciso alla Corte di Cassazione con ordinanza ai sensi del nuovo articolo
49 c.p.c. La sentenza, che invece abbia confermato la competenza è impugnabile con i mezzi
ordinari per cui se si impugna anche il merito, con appello e ,con il regolamento di competenza, se
si impugna soltanto il profilo della competenza.
In tema di competenza residuano due problemi:
1. Uno riguarda il procedimento davanti al Giudice di Pace. L'articolo 46 che prevede che gli
articoli 42 e 43 non trovano applicazione davanti al Giudice di Pace, è rimasto inalterato e la
Cassazione anche di recente (Cassazione 14.185 del 29 maggio 2008) ha stabilito che la
decisione con la quale Giudice di Pace statuisca sulla propria competenza non è impugnabile
con il regolamento di competenza, ma soltanto con l'appello, con ciò confermando la
operatività di tale disposizione. Il problema che si pone è se oggi il Giudice di Pace deve
pronunziarsi sulla competenza ancora con sentenza, impugnabile con i mezzi ordinari o
ordinanza.
2. Un secondo problema riguarda il rapporto tra il giudice statale e l'arbitro. Anche qui la legge
di riforma non richiama, in quest’ambito, l'articolo 819-ter del codice di rito, che disciplina
l’eccezione di incompetenza del giudice statale per l’esistenza di una convenzione di
arbitrato. Su questa eccezione, quindi, il giudice statale dovrà continuare a decidere con
sentenza o con ordinanza? In dottrina si sono avvicendate due impostazioni. Gli indizi
normativi non sono univoci, però il fatto che la pronunzia sia impugnabile con regolamento
di competenza, dovrebbe far ritenere che la decisione deve essere assunta con ordinanza.
Secondo altre impostazioni, però, si rileva che l'articolo 819-ter che disciplina l'eccezione
proposta davanti al giudice ordinario in favore dell'arbitro, non è stato modificato e parla
espressamente di sentenza, con la quale il giudice afferma o nega la competenza. D'altra
parte il precedente disegno di legge Mastella aveva proceduto al necessario coordinamento
prevedendo che il giudice afferma o nega la competenza con ordinanza, mentre l'attuale
testo prevede ancora la forma della sentenza; probabilmente si è trattato di una svista, ma la
norma è chiara nello stabilire che il giudice si pronunzia con “sentenza”.
Astensione e ricusazione del giudice
Sono state ampliate le ipotesi di astensione perché l'articolo 51 al terzo comma prevede che
"l'autorizzazione è richiesta anche dal giudice che è chiamato nuovamente a conoscere in sede di
reclamo o di opposizione o in altra sede di un provvedimento, anche relativo ai procedimenti
esecutivi e concorsuali.
L'autorizzazione è negata solo se non è possibile designare un giudice diverso".
La norma intende ovviare al rischio che, all'imparzialità del giudice, deriva dalla forza della
prevenzione, conseguente al fatto di essersi già pronunziato. La prima disposizione comporterà
verosimilmente delle modifiche alle tabelle delle sezioni commerciali e fallimentari degli uffici
giudiziari, mentre la seconda parte, quella che consente di negare l'autorizzazione se non è possibile
8
designare un giudice diverso, determina una curiosa commistione tra profili giuridici e
organizzativi.
L'obbligo per il giudice di astenersi quando ha conosciuto della causa come magistrato e un altro
grado del processo è collegato all'articolo 111 della costituzione, ma la disposizione già presente
nell’art. 51 prima della riforma, non consentiva di arginare le ipotesi nelle quali la legge prevede
rimedi oppositori che non instaurano un vero e proprio "altro grado del processo”, come avviene per
esempio nell’opposizione agli atti esecutivi ed in materia di fallimenti.
La riforma, comunque, non prevede un obbligo di astensione, ma una facoltà per il giudice ed una
decisione discrezionale da parte del dirigente dell'ufficio, al quale è anche consentito di rigettare la
richiesta per motivi di organizzazione e cioè, se non è possibile designare un giudice diverso (come
potrebbe avvenire nei piccoli tribunali o in quelli promiscui).
Un'altra sottigliezza è contenuta della modifica dell'articolo 54 c.p.c. che prevede che, in caso di
inammissibilità o di rigetto della istanza di ricusazione, il Tribunale non debba necessariamente, ma
possa condannare la parte che l’ha proposta ad una pena pecuniaria, questa volta, però,
notevolmente più consistente: non superiore ad € 250, in luogo dei precedenti € 10.
In realtà, il profilo della non obbligatorietà costituiva già un principio vivente a seguito della
pronunzia della Corte Costituzionale del 21 marzo 2002, n. 78 in tema di obbligatorietà delle spese.
Capacità processuale
Le modalità con le quali viene rilasciata la procura speciale sono state modificate aggiungendo, al
terzo comma dell'articolo 83 c.pc., che essa la procura possa essere apposta in calce o a margine
anche della memoria di nomina del nuovo difensore, in aggiunta o sostituzione di quello
originariamente designato.
Sotto altro aspetto, riprendendo il precedente disegno di legge Mastella, è stato modificato anche
l'articolo 182 prevedendo che nel caso di vizi che determinano da nullità della procura del difensore
per problemi di rappresentanza, assistenza o autorizzazione il giudice assegna le parti un termine
perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l'assistenza o
comunque il rilascio delle autorizzazioni. L’osservanza di tale termine sana, anche qui, con effetto
retroattivo il vizio. Ciò costituisce una novità rispetto alla sanatoria, con efficacia ex nunc,
precedentemente prevista.
Alla fine, l'unico profilo in cui residua una sanatoria ex nunc è quello della nullità che riguarda la
edictio actionis ai sensi dell'articolo 164, quinto comma.
La cd “decisione della terza via”
Riprendendo quanto già previsto nel disegno di legge Mastella il legislatore ha aggiunto un comma
all'articolo 101 del codice di rito che prevede, adesso, che se il giudice ritiene di porre fondamento
della decisione una questione rilevata d'ufficio deve riservare la decisione ed assegnare alle parti, a
pena di nullità, un termine non inferiore a 20 giorni e non superiore a 40 giorni dalla
comunicazione, per il deposito in cancelleria di memorie sulla questione.
Allo stesso fine era già dettato il quarto comma dell'articolo 183 c.p.c. in base al quale il giudice
alla prima udienza deve indicare alle parti le questioni rilevabili d'ufficio delle quali ritiene
opportuna la trattazione ed analogo principio opera in Cassazione con l'articolo 384 c.p.c.3 Va
chiarito che queste norme non disciplinano l’eccezione rilevabile d'ufficio, per cui vi possono essere
3
[III comma]. Se ritiene di porre a fondamento della sua decisione una questione rilevata d'ufficio, la Corte riserva la
decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle parti un termine non inferiore a venti e non superiore a
sessanta giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla medesima questione.
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questioni rilevabili d'ufficio, per le quali vige il termine di preclusione della prima udienza, ma
riguarda anche altre questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo. In particolare, la
norma pare riferirsi solo all'ipotesi della questione rilevata d'ufficio in fase di decisione.
Immagino che questo possa intervenire non solo dopo la precisazione delle conclusioni, ma anche
prima in tutti i casi in cui il giudice, “sciogliendo la riserva” si rende conto che la causa è matura
per la decisione per una questione decisiva rilevata d’ufficio e che, sino a ieri, non avrebbe
esplicitato in ordinanza. Si pensi, ad esempio, ad una controversia di opposizione a decreto
ingiuntivo, in cui in sede di valutazione delle prove il giudice rilevi che in assenza di prova scritta
ad substantiam del rapporto tra creditore professionista e P.A. le altre richieste risultino irrilevanti.
La questione, magari, non è stata evidenziata dall’amministrazione opposta.
1. Se invece, il problema si pone in sede di decisione finale bisogna distinguere: se la questione
determina la necessità di una nuova trattazione, comprendente anche attività di allegazione e
di formulazione di nuovi mezzi di prova è il giudice dovrà darvi corso. In questo caso si
riapre l’istruttoria ed alle parti è consentito reagire, allegare e provare tutti profili
evidenziati.
2. L'altra ipotesi è quella in cui la causa vada in decisione e allora il giudice dopo aver
assegnato i termini di giorni 60 più 20 ai sensi dell'articolo 190 c.p.c., nel rimettere la causa
sul ruolo dovrebbe assegnare il nuovo termine previsto dall'articolo 101 c.p.c..
Deve escludersi, infine, che tale norma imponga la assegnazione di questo termine quando il
giudice, in sede di decisione finale con sentenza, prevede di condannare la parte per la nuova ipotesi
di lite temeraria ai sensi del novellato disposto dell'articolo 96 del codice di rito. Si tratta, invero, di
una facoltà attribuita al giudice anche d'ufficio, ma non riguarda il problema della decisione fondata
su questioni rilevate d'ufficio.
Il principio di non contestazione
Sulla base di quanto già previsto nel disegno di legge Mastella, il legislatore ha aggiunto un inciso
al primo comma dell'articolo 115 c.p.c. prevedendo che il giudice deve porre fondamento della sua
decisione oltre alle prove, anche i fatti ammessi o non contestati. Questo significa inserire in
maniera chiara ed esplicita il principio dell'onere di contestazione in virtù del quale, tra i fatti di
causa, il giudice può non considerare quelli che non sono contestati, nel senso che tali fatti si
intendono approvati. La novità riguarda soprattutto le ipotesi in cui la non contestazione non deriva
da una ammissione implicita, ma dalla semplice inerzia alla quale la legge collega l'effetto che tali
fatti si intendono provati con la conseguenza che, sulla controparte, non grava più l'onere di fornire
la dimostrazione. Va ricordato che la non contestazione può derivare o da una ammissione esplicita
oppure da inerzia. L'ipotesi di ammissione può essere collegata a deduzioni specifiche o generiche.
È noto che i profili più problematici del principio di non contestazione riguardavano la
contestazione generica e la non contestazione implicita, derivante dalla inerzia.
Una prima considerazione da fare è quella della contraddizione oggi esistente tra il principio di
tutela del contumace, che recentemente ha trovato l'avallo della Corte Costituzionale nella vicenda
relativa all'articolo 13 del decreto legislativo tre del 2003, che aveva cercato di responsabilizzare il
comportamento del contumace e, dall'altro parte, la codificazione del principio di non contestazione
che penalizza fortemente il convenuto (ma anche l'attore, nell'ipotesi di riconvenzionale) nell'ipotesi
di contestazione generica o di non contestazione derivante da inerzia.
Appare opportuno aprire una parentesi.
Prima della riforma il problema si poneva era se la mancata contestazione dei fatti rilevanti
costituisse comunque prova ai fini della decisione del giudice4.
4
In questa sede non viene esaminato il differente approdo giurisprudenziale in materia di processo del lavoro, per il
quale si rinvia, per una disamina cronologica ed organica, al nostro Francesco Buffa: in Cassazione civile , 15 Maggio
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L'orientamento che equiparava la mancata contestazione alla prova si fondava su due aspetti
principali: un dato letterale, contenuto nell'articolo 167 secondo cui la parte ha l'onere di prendere
tempestivamente posizione sui fatti, con la conseguenza che se la parte non prende posizione, non
potendo dare in seguito la prova di senso opposto, avrà tacitamente confermato i fatti di controparte.
Sotto altro profilo esiste un principio generale secondo cui il processo civile che è ispirato alle
deduzioni processuali e le parti lasciando al giudice un limitato controllo, per cui la mancata
contestazione nell'ambito di un processo che è fondamentalmente di parte, consente di attribuire
rilievo anche al silenzio sui fatti allegati da controparte.
La tesi opposta si fondava invece sul fatto che, quando il legislatore ha inteso considerare la
mancata contestazione come prova, lo ha fatto espressamente, come nell'articolo 215 c.p.c. in tema
di riconoscimento tacito della scrittura privata o 232 in tema di mancata risposta all'interrogatorio.
Inoltre, il fatto non provato attiene ad un comportamento umano, a prescindere del tutto dal reale
accadimento fattuale. In sostanza, nel processo le parti dovrebbero provare la verità storica, ma
questa non può ritenersi accertata sulla base di un’omissione di contestazione. Ovviamente tale
impostazione valorizza la tesi (peraltro minoritaria) secondo cui il processo civile tende
all'accertamento della realtà effettiva, come quello penale, e non della realtà processuale.
Il nuovo testo dell'articolo 115 afferma chiaramente il principio di non contestazione nel processo
civile rendendo superflue le prove sul punto.
Il principio però opera in alcune condizioni: l'equiparazione tra mancata contestazione e prova
riguarda soltanto i casi in cui le parti siano costituite, perché la norma parla di “parti costituite”.
In secondo luogo, riguarda sia la mancata contestazione del convenuto, che dell'attore poiché si
parla genericamente di parti (recependo anche la giurisprudenza in materia lavoro, successiva alle
Sezioni Unite del 2002).
In terzo luogo, la contestazione deve essere specifica, per cui residua il problema se la genericità
della contestazione, equivalga a mancata contestazione e cioè prova del fatto contrario5.
Inoltre, la contestazione deve essere riferita ai fatti, per cui la mancata contestazione giuridica non
rileva ai fini dell'articolo 115.
Infine la contestazione deve riguardare tutti i fatti e cioè sia quelli principali che secondari in
maniera specifica, poiché la norma non distingue tra fatti principali e fatti secondari.
Sulla questione però va menzionato l'orientamento della giurisprudenza, anche recente (Cassazione,
27 febbraio 2008 5191) che prevedeva che il difetto di contestazione implica l’ammissione in
giudizio soltanto dei fatti principali, cioè quelli costitutivi del diritto azionato, mentre per i fatti
secondari, cioè quelli dedotti solo con funzione probatoria, non equivale a non contestazione, ma a
qualcosa di meno e cioè ad argomento di prova ai sensi dell'articolo 116 s comma.
Un vero problema è quello di verificare cosa avviene se convenuto narra alcuni fatti che sono
logicamente incompatibili con quelli sostenute dall'attore, ma non contesta in maniera specifica i
fatti. La questione è complessa, ma probabilmente la soluzione più ragionevole è quella di ritenere
che la narrazione di fatti incompatibili con quanto sostenuto dalla parte avversaria, purché riferibile
in modo specifico, anche se non espresso, costituisce contestazione specifica. Questo perché il dato
2007, n. 11108 sez. Lavoro - La «non contestazione» nel processo del lavoro, tra principio dispositivo e principio di
economia processuale - Giust. civ. 2008, 12, 2958
5
Il nuovo testo (dal 2006) dell’art. 167 ha consentito di avvicinare i principi in tema di rito del lavoro e rito ordinario.
“Il convenuto a norma dell'art. 416 c.p.c., nel rito del lavoro (e, non diversamente, a norma dell'art. 167 c.p.c., nella
nuova formulazione, nel rito ordinario), nella memoria di costituzione in primo grado «deve prendere posizione, in
maniera precisa e non limitata a una generica contestazione, circa i fatti affermati dall'attore a fondamento della
domanda, proponendo tutte le sue difese in fatto e in diritto ...»; nel caso in cui il convenuto nulla abbia eccepito in
relazione a tali fatti, gli stessi devono considerarsi come pacifici sicché l'attore è esonerato da qualsiasi prova al
riguardo” (Cassazione civile , sez. III, 03 luglio 2008, n. 18202).
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letterale prevede che la contestazione debba essere specifica, ma non anche “espressa” e tale ultima
soluzione in linea con la ratio della novella della 2009.
Che cosa avviene, invece, se vi è una non contestazione specifica, ma la parte richiede comunque di
dimostrare con testimoni quanto affermato. Il giudice potrebbe non ammettere la propria perché
irrilevante, ma una volta ammessa il problema che si pone è quello di una dichiarazione
testimoniale di che, invece, contrasti con l'assunto dell'attore.
Quale dei due profili deve prevalere: quello della mancata contestazione o quella delle risultanze
della prova testimoniale?
Appare preferibile l'opinione secondo cui il principio di non contestazione configura una tecnica
esplicativa della regola dell'economia processuale, con la conseguenza che un fatto dedotto da una
parte e non contestato (o ammesso) dall'avversario deve presumersi conforme a verità, anche se la
presunzione non può essere spinta sino al punto di prevalere su elementi probatori comunque
acquisiti in giudizio, che cospirino a favore di un accertamento contrastante con la presunzione
stessa.
Sono evidenti gli inconvenienti ricollegabili ad una tesi volta alla definitività degli effetti della non
contestazione, ritenuta capace di far rimanere fermi fatti anche nei casi in cui questi siano smentiti
da documenti prodotti sin dall'inizio. Per aggirare l’ostacolo, si è tentato - al fine di consentire
maggiori spazi operativi al giudice nell'accertamento della verità materiale - di sottrarre i predetti
effetti, dal versante della delimitazione del thema decidendum per assegnarli a quello probatorio.
Deve, quindi, ritenersi che quando il fatto narrato, e non contestato, non trovi riscontro nell'attività
istruttoria espletata con una testimonianza, viene a cadere il presupposto stesso della mancata
contestazione e cioè il fatto. In sostanza, se cade il fatto a monte, perché smentito dalla prova
testimoniale, dovrebbe cadere anche la necessità della contestazione.
La consulenza tecnica
Il nuovo testo dell'articolo 191 c.p.c. prevede che il giudice istruttore, con l'ordinanza con la quale
nomina il consulente, deve formulare già i quesiti con ciò assecondando una prassi virtuosa, peraltro
spesso già inserita nei protocolli dell'udienza civile di molti uffici. Assume rilievo anche (ma tutto
interno al meccanismo di organizzazione l'ufficio) la modifica dell'articolo 23 delle disposizioni di
attuazione che prevede un tetto massimo per il conferimento degli incarichi ad un solo
professionista, prevedendo il limite del 10% del totale degli incarichi conferiti dal Tribunale.
Questo porrà dei problemi per la verifica in concreto di tale dato, poiché il Presidente del tribunale
dovrebbe poter conoscere il numero totale degli incarichi affidati al consulente e quindi bloccare le
eventuali nomine oltre quel tetto. Evidentemente tale meccanismo potrà operare solo in via
posticipata, con riferimento ai 12 mesi successivi e non si risolverà in una interferenza nell'attività
giurisdizionale dei colleghi, ma soltanto in una segnalazione al giudice del superamento del tetto
previsto dalla legge. Nel caso di ulteriore inottemperanza, questo potrebbe determinare profili
disciplinari.
Il nuovo testo dell'articolo 195 prevede una modifica nel termine di deposito della relazione
recependo, anche qui, la prassi già utilizzata da alcuni magistrati, anche di questo tribunale.
In particolare, il legislatore ha recepito le indicazioni contenute in un parere dell'Associazione
nazionale magistrati che riteneva opportuno anticipare il momento del contraddittorio dei consulenti
di parte e porlo all'interno delle operazioni peritali. Si immaginava di prevedere che le osservazioni
alla consulenza potessero essere fatte prima del deposito definitivo della relazione. In questo caso al
consulente d'ufficio, al termine delle operazioni svolte in contraddittorio con i consulenti di parte,
dovrà predisporre una relazione provvisoria da inviare ai consulenti di parte concedendo termine
per il deposito di memorie e osservazioni. Scaduto il termine il consulente redigerà la relazione
finale definitiva in cui risponderà anche alle osservazioni delle parti. Tale meccanismo, suggerito
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dall’ANM, è stato inserito nel nuovo testo dell'articolo 195 c.p.c. che prevede, sostanzialmente
questa sequenza:
il giudice deve indicare al consulente d'ufficio un primo termine entro il quale questi deve inviare (o
depositare?) alle parti una relazione provvisoria per il loro esame;
un secondo termine per far pervenire al consulente d'ufficio le eventuali memorie critiche dei
consulenti di parte;
un terzo termine, con scadenza anticipata rispetto all'udienza di rinvio, in modo che le parti ed il
giudice possano prenderne visione per tempo;
un termine entro il quale il consulente deve depositare in cancelleria la relazione conclusiva.
La testimonianza scritta
Il legislatore ha recepito le istanze dell'avvocatura ed ha previsto che il giudice possa disporre la
testimonianza scritta su accordo delle parti; richiedendo il preventivo consenso ciò consentirebbe di
non violare il principio del contraddittorio cui è ispirato il processo.
La possibilità di assumere testimonianza scritta era già prevista nel disegno di legge Mastella
all'articolo 203 del codice di rito, ma in termini più limitati, perché era prevista soltanto come
alternativa alla prova delegata dal assumere fuori dalla circoscrizione del Tribunale, era consentita
solo sull'istanza congiunta delle parti ed era possibile solo se la lite aveva ad oggetto diritti
disponibili.
Il legislatore del 2009, invece, è intervenuto differentemente perché non ha più modificato l'articolo
203, ma ha aggiunto l’art. 257 bis che prevede che il giudice, sentite le parti, e tenuto conto di ogni
circostanza, può disporre, avuto particolare riguardo all'oggetto della causa, di assumere la
deposizione chiedendo al testimone di fornire per iscritto o nel termine fissato, le risposte ai quesiti
sui quali deve essere interrogato. Con lo stesso provvedimento, il giudice dispone che la parte che
ha chiesto l'assunzione della prova predisponga il modello di testimonianza, in conformità agli
articoli ammessi e la faccia notificare al testimone. Questi rende la deposizione compilando il
modello di testimonianza in ogni parte, con risposte separate per ciascuno dei quesiti e precisa quali
sono quelli sui quali non è in grado di rispondere. Il testimone deve completare la deposizione con
la firma autenticata su tutte le facciate del foglio e lo spedisce in busta chiusa con lettera
raccomandata o la consegna alla cancelleria del giudice. In caso di mancata ottemperanza può
essere condannato al pagamento della pena pecuniaria prevista all'articolo 255 c.p.c..
Il giudice, esaminate le risposte, può però sempre disporre che il testimone sia chiamato a deporre
davanti a lui ho o davanti un giudice delegato.
Un primo elemento di assoluta incertezza è quello relativo alla generica dizione dei presupposti
discrezionali, cioè degli elementi attinenti all'oggetto della causa che dovrebbero indurre il giudice
utilizzare la testimonianza scritta invece di quella tradizionale.
In dottrina si è scritto che in questo caso è stata sancita la fine dei principi della immediatezza della
oralità, sostanzialmente codificando delle prassi patologiche.
Qualche autore ha osservato che “anziché sostare vicino al termosifone del corridoio, tra avvocati e
testimoni senza il giudice, tanto vale procedere all'assunzione scritta. Non vi è dubbio che siamo di
fronte a una dichiarazione di resa!” In effetti la norma è molto generica, perché dice che il giudice
sentite le parti e tenuto conto di ogni circostanza e avuto riguardo all'oggetto della causa.
Sono tre presupposti estremamente generici che consentono di fare tutto ed il contrario di tutto.
Una prima valutazione consiglierebbe di limitare la prova testimoniale scritta alle prove che
riguardano le dichiarazioni dei periti che debbano confermare una consulenza, quelle dei
verbalizzanti nei sinistri stradali, quelle di chi debba confermare fatture o altra documentazione
contabile.
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La testimonianza scritta è resa su un modulo conforme a quello che sarà approvato con Decreto del
Ministro della Giustizia, si legge nell'articolo 103-bis delle disposizioni di attuazione, con
l'indicazione delle istruzioni per la compilazione e dovrebbe contenere anche l'ammonimento del
testimone ai sensi dell'articolo 251 c.p.c. e la formula del giuramento; anche qui in dottrina si è
evidenziato che " i testimoni risponderanno ai quesiti loro sottoposti nel buio e nella solitudine del
loro stanze o, più verosimilmente, nel buio e nella solitudine delle stanze degli avvocati che gli
hanno chiamati?” e, poi, che senso ha che il testimone si ammonisca da solo ai sensi dell'articolo
251 del codice di rito?.
Il meccanismo un po' farraginoso pone dei problemi:
la prima questione è l'indagine sui residui poteri di verifica del giudice. Se è vero che la parte
richiedente deve approntare il modello di testimonianza, la questione che si pone è se il giudice
possa approvarlo oppure no dopo che sia stato predisposto. Infatti, l'iter dovrebbe essere il seguente.
Viene formulata istanza di assunzione della prova testimoniale, il giudice accoglie o rigetta la
richiesta. Nel primo caso può disporre ai sensi dell'articolo 257bis c.p.c. per l'assunzione della
testimonianza per iscritto, indicando alla parte interessata la necessità di approntare il modello di
testimonianza che dovrà essere notificato a cura della parte al testimone. Tale modello potrebbe
però essere irrituale, perché per esempio, non sottoscritto in ogni suo foglio. Allora in questo caso il
giudice può preventivamente verificare la legittimità oppure no? La norma non lo prevede.
Che cosa avviene se invece l'errore riguarda l'attività del testimone? Per esempio il teste non
chiarisce se ha avuto una conoscenza diretta o indiretta dei fatti oppure omette di firmare ogni
risposta?
Allora nel caso in cui la testimonianza venga espletata sulla base di un modello irrituale, sarebbe
inutilizzabile? Oppure il giudice potrà disporre l'assunzione davanti a sè, ai sensi dell'ultimo comma
della norma introdotta dalla novella? La soluzione della inutilizzabilità pura e semplice appare
troppo radicale, mentre quella che prevede l'assunzione davanti al giudice non sembra rispondere
alla dato letterale che prevede tale opzione "esaminate le risposte”, a meno che “esaminate le
risposte” non significa anche, verificata la legittimità formale dell’atto che contiene le risposte.
Quali si preveda possano essere i casi ai quali si applicherà la nuova disciplina?
Probabilmente l'uso della testimonianza scritta riguarderà solo ipotesi eccezionali, soprattutto sarà
limitata alla conferma dei documenti di spesa che comunque le parti dovranno depositare entro i
termini di legge; occorre poi considerare che la autentica della firma costituisce comunque un
onere, seppure gratuito, a carico del testimone che, unitamente all'obbligo di inviare lettera
raccomandata contenente il plico, mal si concilia con il carattere gratuito della prova testimoniale.
Ulteriore modifica riguarda la testimonianza classica.
L'articolo 104 delle disposizioni di attuazione è stato modificato e prevede che la parte che senza
giusto motivo non fa chiamare i testimoni, è dichiarata, anche di ufficio, decaduta dalla prova, salvo
che l'altra parte dichiari l'interesse all'audizione. Qui viene chiarito che la decadenza è rilevabile
d'ufficio, facendo salva la possibilità che la controparte chieda di assumere comunque la prova.
Rimessione in termini
Il legislatore ha abrogato l'articolo 184 bis c.p.c. perché ha sostanzialmente inserito quelle
disposizioni nel nuovo testo dell'articolo 153 c.p.c. al quale è stato aggiunto un comma, che prevede
che la parte che dimostra di essere in corsa e nelle cadenze per causa ad essa non imputabile, può
chiedere il giudice di essere rimessa in termini. Il legislatore non ha utilizzato la terminologia già
presente nel disegno di legge Mastella, che prevedeva la riflessione anche per "errore scusabile”
limitando l'ipotesi soltanto alla fattispecie della "causa non imputabile”.
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Notificazioni
È semplificata la forma della notificazione della sentenza perché il nuovo testo del 285 c.p.c.
prevede semplicemente che la notificazione oggi si effettua ai sensi dell'articolo 170 c.p.c., alla
difensore. Inoltre se c'è un solo difensore e più parti basta la notificazione di una copia della
sentenza o di una copia dell'atto di appello e non è più necessario notificare tante copia della
sentenza quante sono le parti. L'onere passa sul difensore, che provvederà a fare le necessarie copie.
La disciplina delle spese
L'articolo 91 c.p.c. è stato modificato, poiché il primo comma prevede che il giudice, quando
accoglie la domanda in misura non superiore ad un eventuale proposta conciliativa, deve
condannare la parte che non ha accolto la proposta, al pagamento delle spese del processo maturate
dopo la formulazione dell'offerta, salvo che il rifiuto risulti in qualche modo giustificato e sempre
che non ritenga di applicare il principio della compensazione delle spese.
È una novità che tende a favorire trattative serie per la definizione conciliativa, prevedendo una vera
e propria sanzione processuale a carico della parte che abbia rifiutato ingiustamente una proposta di
conciliazione.
Oggi pertanto la parte destinataria di una domanda ha senz'altro interesse specifico a formulare una
proposta conciliativa e questo in osservanza del dovere di lealtà e probità di cui all'articolo 88 del
codice di rito. È previsto, comunque, il giudice possa regolare le spese in modo ordinario, quando il
rifiuto della conciliazione risulti, in qualche modo, giustificato.
L'articolo 91 rinvia all'articolo 92 per cui deve ritenersi che i motivi per non procedere alla
condanna della parte che ha rifiutato la conciliazione devono essere gravi ed eccezionali.
L'articolo 92 ha subito, come noto, una serie di modifiche. Prima della riforma della 2006 la norma
disponeva che il giudice potesse compensare le spese nel caso in cui ricorressero gravi motivi. La
lettera della legge, però secondo l'ufficio studi del Senato, non forniva alcun parametro che
consentisse di ricondurre ad unita e gravi motivi che giustificavano la deroga.
Con effetto dal 1 marzo 2006 l'articolo 92 è stato sostituito dalla legge 28 dicembre 2005, n. 263
che ha previsto l'obbligo per il giudice di indicare espressamente e "giusti motivi" per operare la
compensazione e ciò al fine di consentire un controllo sulla motivazione.
Il legislatore del 2009 ha ulteriormente modificato la norma limitando la possibilità di ricorrere alla
compensazione, perché ha reso necessario che motivi siano anche "gravi ed eccezionali".
In sostanza, l'istituto della compensazione oggi costituisce una deroga eccezionale al principio della
soccombenza.
La responsabilità aggravata
L'articolo 96 c.p.c. oggi dispone che, se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito con
mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna oltre che alle spese, al
risarcimento dei danni che liquida anche d'ufficio nella sentenza.
Al secondo comma prevede la condanna al risarcimento dei danni qualora vi sia una domanda in tal
senso ed il creditore abbia agito senza la normale prudenza, quando il giudice accerti l’inesistenza
del diritto.
La questione più rilevante riguarda la modifica introdotta al terzo comma dell'articolo 96 e oggi
prevede che, in ogni caso in cui il giudice si pronuncia sulle spese, può, anche d'ufficio, condannare
la parte soccombente al pagamento, di una somma determinata in via equitativa.
Il progetto originario prevedeva la condanna al pagamento di una somma non inferiore alla metà e,
non superiore al doppio, dei massimi tariffari. Una primo emendamento approvato alla Camera
aveva sostituito questo criterio con un’indicazione numerica con una somma fra 1000 e € 20.000.
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Una terza fase, davanti al Senato, ha determinato un'ulteriore modifica per cui il giudice può, oggi
anche d'ufficio, condannare la parte soccombente al pagamento di una somma che non viene
individuata, ma che dovrà essere determinata in via equitativa.
Si tratta del principio delle sanzioni processuali che tende a rendere più rigido il dovere di lealtà e
probità delle parti. Il legislatore ha preso atto dell'articolo 96 nella pratica aveva avuto scarsa
applicazione, essenzialmente per il fatto che nell'attuale formulazione la pronuncia di condanna
riguardava la parte soccombente che ha reagito con dolo o colpa grave e presupponeva che la parte
avesse sofferto un danno specifico. La modifica introduce uno strumento sanzionatorio (in questo
senso, parte della dottrina) a carico del soccombente che, essendo in qualche modo automatico
(somma di denaro ulteriore rispetto le spese di lite) ed officioso, potrebbe avere maggiore successo
ed influenzare il comportamento delle parti.
Ma pone una serie di problemi.
Una prima questione è ovviamente verificare se tale potere sanzionatorio è collegato o meno alla
responsabilità aggravata disciplinata dai due commi precedenti oppure se il giudice emette una
sentenza di condanna supplementare, ogni volta che pronuncia sulle spese e basta.
La prima soluzione ha una giustificazione sistematica, poiché la norma è inserita nell'articolo 96 che
è denominato responsabilità aggravata.
La seconda, invece, si fonda sul dato letterale negativo, poiché il legislatore non parla mai di
responsabilità aggravata e non fa alcun riferimento ai commi precedenti.
Secondo problema: se tale condanna costituisce una sanzione ulteriore, anche rispetto al
risarcimento di cui i due commi precedenti, oppure si tratti di una liquidazione forfettaria ed
equitativa che esonera del tutto la parte dalla prova del danno.
Ipotesi, quest'ultima, che appare più ragionevole e che consente al giudice di liquidare di ufficio e in
via equitativa una somma a favore della parte vittoriosa. Se la parte però ritiene di avere subito un
danno maggiore può sempre richiedere la condanna al risarcimento integrale.
Un terzo problema appare di più facile soluzione. La questione riguardava il dubbio se il giudice
potendo condannare d'ufficio la parte soccombente, debba provvedere ai sensi del nuovo testo
dell'articolo 101 c.p.c., cioè assegnando alle parti un termine per discutere della questione. Ipotesi
che sembra debba essere esclusa, poiché non ricorre la fattispecie della decisione nella quale il
giudice pone a fondamento della sentenza una questione rilevata d'ufficio, ma si tratta di una
questione accessoria alle spese.
Una volta inserito il nuovo terzo comma dell'articolo 96 è stato necessario coordinare le altre norme
e in particolare abrogare il quarto comma dell'articolo 385 c.p.c. in tema di procedimento per
Cassazione in base al quale, quando pronuncia sulle spese, la Corte di Cassazione, anche d'ufficio
condanna la parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, non
superiore al doppio dei massimi tariffari, se ritiene che la parte abbia resistito anche solo con colpa
grave. Poiché la disposizione dell'articolo 96 ha una valenza generale determina la sostituzione del
parametro delle tabelle forensi, con quello della discrezionalità del giudice.
La sentenza
In tema di pubblicità della sentenza è stato modificato l'articolo 120 con la previsione che, nei casi
in cui la pubblicità della decisione di merito può contribuire a riparare il danno, il giudice su istanza
di parte, può ordinarla a cura del soccombente, mediante una inserzione per estratto della decisione
in una o più testate giornalistiche.
Quanto alla redazione della sentenza è stata semplificata la motivazione con la sostituzione del
punto quattro del secondo comma dell'articolo 132c.p.c., per cui oggi la sentenza deve contenere
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solo "la concisa esposizione delle ragioni di diritto e di fatto della decisione" e non anche a
svolgimento del processo. Questo determina un evidente snellimento delle decisioni inoltre
l'articolo 118 delle disposizioni di attuazione prevede che quando le domande sono ritenute
manifestamente infondate o fondate la sentenza, può addirittura limitarsi ad un “sintetico
riferimento in punto di fatto o di diritto ritenuto risolutivo, ovvero, se del caso, ad un precedente
conforme di una giurisdizione superiore".
Sospensione, interruzione ed estinzione.
Il legislatore ha sostituito l'articolo 296 in tema di sospensione concordata. Si trattava di una norma
sostanzialmente inapplicata che è stata modificata prevedendo che il giudice istruttore, sul
presupposto della istanza di tutte le parti e valutati giustificati motivi, può disporre, ma per una sola
volta, la sospensione del processo per non più di tre mesi. Rispetto alla disciplina precedente la
sospensione concordata deve essere supportata da giustificati motivi, può avere una durata massima
di tre mesi e non più di quattro mesi e può essere concessa una sola volta. Si pone il problema se
una sola volta, si riferisca tutto il processo o ad ogni grado del processo.
Probabilmente tale ultima impostazione appare quella più corretta.
Anche l'articolo successivo, l’art. 297, è stato modificato riducendo da sei mesi a tre mesi decorrenti
dalla cessazione della causa di sospensione necessaria, ex articolo 295, il termine perentorio entro il
quale le parti devono chiedere la fissazione dell'udienza di prosecuzione.
Analogo principio a caratterizzato l'articolo 305 c.p.c. dove il termine stato ridotto da sei mesi a tre
mesi per la riassunzione o prosecuzione processo interrotto.
In tema di estinzione, invece, oltre alla riduzione dei termini che da un anno di quiescenza dalla
cancellazione della causa dal ruolo è ridotto a tre mesi, è previsto che il termine massimo che il
giudice può concedere, ai sensi del terzo comma dell'articolo 307, è ridotto da sei mesi a tre mesi.
Nel caso di mancata comparizione delle parti a due udienza successiva, non si ha soltanto la
cancellazione la causa dal ruolo, con possibilità di riassumerla entro un termine, che prima era di un
anno e che oggi è di soli tre mesi, ma si determina oltre alla cancellazione della causa dal ruolo
anche l’immediata estinzione del processo.
Infine, è stato modificato anche il quarto comma dell'articolo 307 c.p.c. che prevede l'estinzione può
essere dichiarata d'ufficio e non è più necessaria la eccezione di parte.
Diversamente da quanto era previsto nel disegno di legge Mastella è rimasta la opzione tra
ordinanza del giudice istruttore e sentenza, nel caso in cui venga resa dal collegio.
I termini di impugnazione sono stati modificati e abbreviati.
In particolare l'articolo 327 prevede che il termine lungo per le impugnazioni è ridotto da un anno a
sei mesi e, ancora, è ridotto da sei mesi a tre mesi dalla notifica della sentenza il termine per la
riassunzione delle parti di fronte al giudice di primo grado, che sia stato erroneamente dichiarato
sfornito di giurisdizione.
La riduzione del termine lungo annuale per l'esercizio degli diritto di impugnazione e quindi il
passaggio in giudicato della sentenza, produce effetti pratici rilevanti per i difensori perché limita la
frequente proroga della sospensione feriale dei termini ed esclude del tutto che questa possa essere
applicata anche la seconda volta. In sostanza, è ancora possibile che i sei mesi cadano a cavallo
della sospensione feriale, ma non si potrà più verificare la doppia sospensione nel caso in cui il
termine di un anno e 45 giorni, poi cada nuovamente nel periodo dal 1º agosto al 15 settembre.
Calendario del processo
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Si trattava di un'idea già presente nella progetto Mastella che introduce l'articolo 81 bis delle
disposizioni di attuazione, che prescrive al giudice, sentite le parti e tenuto conto della natura,
dell'urgenza e della complessità della causa, di fissare un calendario del processo con la indicazione
delle udienze successive e degli incombenti che saranno espletati. Questo calendario viene
individuato nel momento in cui il giudice provvede sulle richieste istruttorie, quando dovrebbero
essere meno oscuri i possibili svolgimenti futuri del processo.
Anche in questo caso la norma ha fatto proprie alcune prassi virtuose presenti in alcuni uffici e
trasfuse, talvolta, nei protocolli delle udienze civili.
Gabriele Positano
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