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Stephen King - La Repubblica.it
Domenica
La
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010 / Numero 298
di
Repubblica
l’attualità
Quel cimitero chiamato Mediterraneo
ENRICO BELLAVIA
cultura
L’altra faccia di Robert Doisneau
MICHELE SMARGIASSI e AMBRA SOMASCHINI
STEPHEN
KING
la
fabbrica
dell’orrore
VITTORIO ZUCCONI
L
STEPHEN KING
WASHINGTON
a premiata fabbrica dell’orrore “King & Famiglia” cominciò con un investimento di venticinque centesimi.
Era il “quartino” con il quale Ruth King ricompensò il figlio per avere scritto a dieci anni una favoletta per bambini: Il coniglio magico. Come la moneta infilata in un juke-box sapeva scatenare suoni, voci, rimbombi, così la piccola ricompensa di
una mamma evocò dalla mente di un bambino chiamato Stephen
un sabba di terrori e di orrori, di incubi e di succubi, di adolescenti demoniache e alberghi satanici che dopo sessant’anni, quarantanove
libri e cinquecento milioni di copie tradotte in trenta lingue, hanno
fatto di questo miope, timido, ex alcolizzato ed ex cocainomane non
un candidato al Nobel per la letteratura, ma qualcosa di più. Un
“brand”, come le orecchie di Topolino o le corna del diavolo.
(segue nelle pagine successive)
S
tavoandando sulla mia Batmobile ed ero diretto in banca, quando all’improvviso ho sentito puzza di qualcosa.
Ho fermato la macchina e ho abbassato il finestrino
elettronico ed ecco che mi si avvicina un imbranato e mi
fa con cipiglio: «Ho sentito che ce l’hai con la maternità», dice, con
un sospiro. «Spari ai tuoi insegnanti di liceo e proibisci ai tuoi uccelli
di volare. Meglio che te ne vai da qui prima che te le suoni...»
Io gli ho detto: «Che cosa faresti se Jesse venisse in città?»
Ma proprio in quel momento arriva uno sbirro strabico e dice:
«Chi credi di essere? A me pare che somigli a John Wilkes Booth, e
faresti meglio a scendere da quella macchina». Comincia ad arrivare gente in crocchie e cricche e trecce e senza una parola cominciano a picchiarmi con gli hula hoop.
(segue nelle pagine successive)
Cominciò
con una favola innocente
FOTO CORBIS
è diventato lo scrittore
delle nostre paure
Ora un libro svela le sue
spettacoli
L’epopea senza fine di Star Wars
PINO CORRIAS e CLAUDIA MORGOGLIONE
le tendenze
Single men, matti per lo shopping
ILARIA ZAFFINO
l’incontro
Mario Botta, progetti in punta di matita
IRENE MARIA SCALISE
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Incubi
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
Vecchi appunti. Primi racconti. Le foto da bambino. Il giornalino
della scuola. Alla rinfusa, nella sua fabbrica-laboratorio,
lo scrittore che non vincerà mai il Nobel perché è già un brand,
conserva il segreto del suo successo: un padre fuggito di casa,
un’adolescenza da perdente, quella notte in un hotel del Colorado
A svelarlo ci pensa adesso un libro che archivia gli spettri di una vita
Nelle stanze buie
del King of Horror
VITTORIO ZUCCONI
(segue dalla copertina)
almente identificato con i suoi agghiaccianti personaggi, insieme adorato e detestato per le sue creature, è Stephen
King, che un’anziana signora «coi capelli arancioni», ricorda lui, incontrandolo
in un supermercato del Maine dove vive,
lo aggredì a borsettate accusandolo di averle impedito per anni di dormire. «Perché, se sei tanto bravo con
le parole, non scrivi una storia bella e commovente come The Shawshank Redemption (Le ali della libertà)
invece di quelle bruttezze?». «Ma... ma... l’ho scritta
io», tentò di difendersi King. «Bugiardo», tagliò corto
la signora incredula e indignata. Dalla sua fabbrica
dell’horror, che oggi possiamo visitare nei dettagli più
segreti, potrebbero un giorno uscire fiabe gentili e
cantici francescani. Ma per sempre la marca, o il marchio di fabbrica, sarà la paura.
Anche se la produzione letteraria e cinematografica di Stephen King è, per quantità e a volte per qualità,
più da stabilimento di automobili di serie che da raffinato carrozziere (scrive almeno dieci pagine ogni
giorno, e ha sfornato almeno un libro all’anno dal primo pubblicato nel 1973, Carrie) il mondo nel quale vive e lavora tra le abetaie e le coste rocciose del Maine
è in realtà, più che fabbrica, un laboratorio. Ora che un
autore americano, Bev Vincent, lo ha raccontato e ricostruito in un minuzioso studio illustrato (Tutto su
Stephen King, martedì in uscita in Italia per Sperling &
Kupfer) arricchito da copie di manoscritti, correzioni,
appunti sui tovagliolini di carta, foto di lui bambino, si
può entrare come mai prima nel mondo interiore di
questo dottor Frankenstein del brivido. È possibile
ora osservare il processo di concezione e di creazione
dei suoi cani mostruosi, dei suoi cimiteri di zombie,
delle fan dementi. Spiare come la vita di questo sessantatreenne — King è del 1947 — si attorcigli e si dipani nelle sue creature a volte troppo credibili, per
non essere davvero spaventose.
Poiché in ogni pagina di qualsiasi autore, in ogni fotogramma di regista o pennellata di pittore c’è sempre
la traccia di chi l’ha prodotta, la visita nella fabbrica laboratorio del “King of Horror” offre molte, ovvie sug-
T
gestioni. La prima, sulla quale lui preferisce sorvolare,
ci porta all’anno 1950 quando lui, bambino di neppure tre anni, diede il rituale bacino sulla guancia del padre che era uscito la sera «a comperare la sigarette» e
che, come nelle barzellette più tristi, non rientrò mai
più. Divenne un orfano bianco, senza neppure il relativo, ma definitivo, conforto della morte, abbandonato nella dissolvenza infinita di un rifiuto cosciente insieme alla madre, Ruth, e al fratello adottivo, il più
grande. Tre anni sono troppo pochi per ricordare, ma
abbastanza per avvertire il vuoto di un’assenza che si
fa concreta con il trascorrere del tempo. E otto anni sono abbastanza per capire che cosa era accaduto a un
compagno di scuola nell’Indiana, dove la madre aveva traslocato inseguendo lavori d’occasione per mantenere i due figli, che aveva giocato a rincorrere un treno merci e ne era stato maciullato.
Lui nega, rifiuta ogni associazione fra la scoperta
della crudeltà deliberata o casuale della vita e le sue
creature maligne, ma nella fabbrica ci sono sparsi a
terra troppi rottami, troppi utensili spezzati per potergli credere davvero. Stephen era un bambino, e soprattutto un teenager, parecchio bruttarello, afflitto
da una miopia che lo costringeva dietro occhiali montati in nero — i soli che la madre potesse permettersi
— e spessi come fondi di bicchiere, sopra un viso da
dork, come dicono crudelmente i ragazzi, da secchione, da perdente, tagliato da un folto sopracciglio nero
e continuo come la indimenticabile Mariangela, la figlia del ragionier Fantozzi. È dunque difficile non riconoscere in Carrie, la ragazzina rifiutata e umiliata
dai coetanei che si vendica ferocemente dei suoi tormentatori con i propri poteri soprannaturali, qualcosa di quell’adolescente infelice, ignorato dalle compagne in fiore, che aveva trovato nella scrittura e nel
foglio di carta — diresse il giornalino del liceo — la rivincita e il rifugio inattaccabile.
Carrie fu il suo primo romanzo pubblicato da Doubleday e amorevolmente curato da un redattore della
casa editrice, quel Ben Thompson che avrebbe poi
scoperto e imposto John Grisham, con un anticipo sui
diritti di duemilacinquecento dollari. Poca cosa anche nel 1973, abbastanza soltanto per acquistare un
orrida Pinto Ford usata che si affrettò a perdere per
strada la cinghia di trasmissione due giorni più tardi.
Quei duemilacinquecento dollari sarebbero divenuti, pochi mesi più tardi, i cinquecentomila dell’edizio-
ne economica in paperback e
poi gli ormai incalcolabili milioni che lui lascia in deposito
presso gli editori che glieli investono, ricevendo un assegno annuale, oggi, di cinquecentomila
dollari, per evitare le tasse e rimandarle alla vecchiaia con aliquote più basse. Ma se in Carrie c’è
il King ragazzino, anche in Shining,
nel personaggio del padre della famiglia Torrance che approda nell’hotel del Colorado chiuso per l’inverno e viene risucchiato dalla forza
diabolica del luogo, c’è lui, l’autore. La
figura del padre, che Kubrick affidò all’immenso Jack Nicholson per il film, è
nel film un alcolizzato, come lo era, per
sua ammissione, King in quel periodo
della vita. E proprio in un albergo prossimo alla chiusura, tra i monti del Colorado, aveva trascorso una notte la famiglia
King, cercando uno dei bambini che si era
perso nella vuota immensità di un palazzone dove loro erano gli unici ospiti. E, quasi a voler lasciare un altro indizio, nella parte del direttore dell’orchestra spettrale, c’è
proprio l’autore. Stephen King.
Nel cimitero degli animali zombie di Pet Sematary, una storpiatura dell’ortografia corretta, «Cemetery», scritta da un bambino sopra un autentico cimitero per «pets», per animali domestici, era stato sepolto pochi giorni
prima di scrivere il romanzo, il gattino di famiglia, misteriosamente morto tra la disperazione
dei bambini. Per scrivere uno dei suoi romanzi
più belli, Il miglio verde, l’ultimo tratto di strada
che il condannato a morte percorre, pretese di sedersi su un’autentica sedia elettrica, di essere incappucciato come lo sono le vittime, per nascondere ai testimoni lo spettacolo della testa che fuma
e prende fuoco sotto l’effetto della scariche. «Se
avessi potuto farmi investire dalla corrente senza
morire, lo avrei fatto», disse. In Misery, la storia dello
scrittore salvato e poi torturato da una fan che lo vuole possedere nella sua desolata solitudine, le allusioni
sono persino troppo ovvie. È il tuo lettore, il tuo tifoso,
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
LE FOTO
I DOCUMENTI
A sinistra, Stephen King
al telefono nel suo studio
nel 1980; in fondo
alla pagina, lo scrittore
sul set dello spot
per l’American Express
girato nel 1985
Nell’altra pagina, riviste
studentesche
in cui comparvero scritti
del giovane King;
sotto, l’originale
de Il quarantatreesimo
sogno che pubblichiamo
IL LIBRO
Uscirà il 26 novembre
Tutto su Stephen King
Alla scoperta di un genio:
scritti autografi, lettere,
fotografie, disegni inediti
e memorabilia
di Bev Vincent
(Sperling & Kupfer,
192 pagine, 40 euro)
I documenti di queste pagine
e il racconto di King
sono tratti dal volume
Il 23 novembre, per la stessa
casa editrice, uscirà
anche Notte buia,
niente stelle (480 pagine,
20,90 euro), quattro romanzi
brevi tradotti per la prima
volta da Wu Ming 1
L’inedito, 1966
Bottiglie di scotch
e manici di scopa
STEPHEN KING
(segue dalla copertina)
o scappo dietro l’angolo ed entro in un bar e il barista è Jack lo
Squartatore e ha un bel po’ di cicatrici da manico di scopa.
«Ho bisogno di bere qualcosa», dico, «mi sento parecchio male». Lui
versa ma vuole sapere dov’è il mio
manico di scopa. «Non ne ho uno e
perché avrei dovuto?» gli faccio io e lui
mi tira addosso una bottiglia di scotch, ma la sua mira non è molto buona.
Corro nel retro dove i ragazzi stanno
giocando a carte, il mazziere è cieco,
grasso che è una montagna di lardo. Gli
rubo tutti i soldi ma lui mi colpisce con
il suo bastone, io gli lascio delle matite e
vado giù per lo scarico della cucina.
È molto buio e l’odore non è buono,
prendo la prima a destra e mi ritrovo alla Lisbon High, come mi aveva detto un
topo gentile. Mi pettino i capelli e filo al
mio corso preferito, quello di intrecciatura capitalista, che è sempre stato una
goduria.
La sorvegliante era Barbra Streisand,
l’insegnante Capitan Uncino; gli ho detto che ero il redattore di un ricettario della Strunk & White. Proprio in quel momento suona la campana e noi lanciamo
tutte le nostre palle da bowling, l’insegnante mi prende in testa e mi manda in
detenzione.
«Sto diventando matta!» si mette a gridare una ragazza. Ha le calze rosse e il
trucco verdeblu cielo.
«Non venirmi a raccontare i tuoi problemi», le dico io battendomela, quando
finisco addosso a un tizio in uniforme.
Credo che sia Capitan Bligh.
«Adesso ti appendiamo a un pennone», dice con un’aria un po’ tetra. «Volevamo Ponzio Pilato, ma tu ci somigli abbastanza».
«La supplico, signor Bligh», dico io,
«mi dia solo un’altra occasione...» È lì che
arriva questa gnocca, Brigitte Bardot dalla Francia.
Ma giusto in quel momento mi sono
svegliato, e stavo giusto pensando, non è
che direi di no a un altro sogno, ma non
proprio come quello.
Traduzione di Tullio Dobner
il tuo spettatore che ti nutre, ti salva dalla miseria degli inizi, quando la moglie,
Tabitha, recuperava dalla spazzature le
pagine che lui buttava dopo il rifiuto degli
editori, ma ti avvinghia e alla fine ti consuma. Lo dice la dedica del libro, fatta a tre sconosciuti dai nomi generici che «sanno perché
lo dedico a loro, ahi come lo sanno».
Non è una fabbrica luminosa, un atelier da
pittore bohémien il luogo dove ci porta la visita,
come non c’è molta luce, se non per qualche forzato
happy endingappiccicato alla fine dei romanzi, per far
contento il pubblico e l’editore. Non c’è la luce della fede religiosa, che King confessa di non possedere anche
se un tempo pronunciava sermoni domenicali per
una chiesetta metodista. «Rispetto chi crede, ma il potere della religione sulle menti più deboli, la sua capacità di corruzione mentale mi spaventa», osa dire. «I
fondamentalisti di ogni fede sono squilibrati, spesso
convinti di possedere o di avere testimoniato fenomeni paranormali, miracoli, eventi psichici». Non riesce
a vedere una razionalità, una coerenza negli eventi
umani «forse perché siamo troppo vicini alle cose» e
proprio lui, angoscioso cantori di morti che tornano, non crede nell’altro modo e certamente non nei
ritorni. La madre, quella che aveva fatto partire il
juke box dell’horror con i 25 cents, morì pochi giorni prima della pubblicazione del suo primo libro,
Carrie. «Una sera in un albergo di Londra chiesi al
concierge di trovarmi un angolo tranquillo dove
lavorare e lui mi portò in un studiolo dove c’era
una vecchia scrivania. Ci lavorai freneticamente per tutta notte e al mattino mi disse con un
sorrisetto: era la scrivania sulla quale Rudyard
Kipling morì di emorragia cerebrale, lavorando tutta la notte».
Su uno dei suoi tavoli da lavoro c’è soltanto una traccia, un segno che dietro questo industriale della paura c’è quel bambino aggrappato al solo amore vero che abbia conosciuto, quello per Tabitha, la moglie incontrata all’università del Maine, quarantatré anni or
sono. «La morte non mi interessa — scrive — sbatti le
palpebre e te ne vai. Quello che mi interessa è sapere
come possa l’amore sopravvivere alla morte, come so
che il mio per te, Tabitha, sopravviverebbe». Anche
nella fabbrica più cupa, c’è un angolo luminoso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
(The Stephen King Illustrated
Companion © 2009 Bev Vincent
Published by arrangement with
becker&mayer!, LCC Bellevue,
Washington © 2010
Sperling & Kupfer Editori Spa)
FOTO THE STEPHEN KING ILLUSTRATED COMPANION © 2009 BEV VINCENT PUBLISHED BY ARRANGEMENT WITH BECKER&MAYER!, LCC BELLEVUE, WASHINGTON. © 2010 SPERLING & KUPFER EDITORI SPA
I
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’attualità
Testimoni
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
Un giorno Gabriele Del Grande comincia a raccogliere le storie
di chi cerca invano di raggiungere l’Europa: annegati in mare, dispersi
nel deserto, asfissiati nei Tir, assiderati nelle stive degli aerei, torturati
in carcere. Presto diventa l’unica fonte attendibile sulle reali cifre
del dramma: 15.059 vittime dal 1988, un genocidio
Il ragazzo che conta i clandestini
ENRICO BELLAVIA
I
FIRENZE
l ragazzo che conta i clandestini
odia che lo si chiami ragazzo e
non usa mai la parola clandestini. Gabriele Del Grande ha ventotto anni, ha trascorso buona parte degli ultimi quattro nel Nordafrica. Ha raccolto le storie di chi è partito per mare alla volta dell’Italia, della Spagna o della
Francia e non è più tornato e di chi è finito in centri di permanenza che sono
galere, tra torture e violenze di ogni tipo.
Ha sbugiardato così la fredda logica dei
respingimenti, raccontando di come si
muoia per una barca che si spezza o in
cella da innocenti. Ha descritto come
sono le prigioni libiche finanziate dall’Italia e a che prezzo siano crollati gli arri-
vi dal mare. Ha rilanciato gli appelli di
chi è finito nel girone infernale delle prigioni tunisine diventando un desaparecido. Ha messo in fila le cifre e ne ha ricavato quella che chiama la «scoperta»:
15.059 vittime dal 1988. Due morti al
giorno per ventidue anni. Un genocidio.
È nata da qui, da questo numero, l’idea di abbandonare il lavoro all’agenzia
Redattore sociale per mettersi a cercare
le facce e le vite dei coetanei ingoiati dal
mare e dei padri, delle madri e dei fratelli, rimasti ad aspettare e a sperare l’impossibile. «Avevo i numeri ma non avevo le storie. Non sapevo nulla di quella
gente. Volevo capire, andare a fondo,
conoscere». I primi contatti con le comunità che vivono in Italia, poi il viaggio
alla scoperta del perché, a ondate, quelle persone sfidano il mare su legni sfasciati per arrivare in Paesi che ne hanno
un disperato bisogno ma dicono di non
volerli. E mascherano con mille sinonimi l’idea di una frontiera sbarrata.
«La prima conclusione è che dietro la
retorica della disperazione c’è l’ansia e
la voglia di generazioni di africani di
mettersi in discussione, di provare a fare meglio, di comprarsi una casa, spo-
“I parenti e gli amici
dei desaparecidos
mi chiamano
dalla Libia
o dalla Tunisia
per avere notizie”
sarsi, mandare i figli a studiare. Dietro la
retorica della disperazione c’è solo una
tensione al riscatto da una condizione
frustrante. Poi ci sono gli esuli, i perseguitati, quelli che avrebbero diritto all’asilo che nei loro Paesi conoscono la
tortura e qui vengono trattati come criminali». Ecco perché in mezzo alle mille storie di chi è partito, la costante è l’ansia di far presto, di guadagnare tempo e
opportunità.
C’è Merouane che lavorava nello studio grafico di famiglia ad Annata, nell’Algeria dove un tempo emigravano gli
italiani, e voleva andare in Francia dalla
Sardegna e Redouane che il padre inco-
raggiò a partire perché non finisse i suoi
giorni a raggranellare spiccioli in una
baracca di Sidi Salem riparando cellulari. C’è chi aveva già pronto un piano per
arrivare in aereo con un visto turistico e
che una notte, senza dire nulla, ha smesso di attendere che la burocrazia corrotta truccasse le carte e si è messo in viaggio rimanendo da qualche parte in fondo al mare. «Sono ragazzi come me che
non se la sentono di trascorrere un’esistenza dai confini già tracciati, che hanno il desiderio di crescere e migliorarsi
come chiunque altro. È semplice ma è
così».
Gabriele ne ha incontrati tanti pronti
a partire. Li ha visti consumarsi nella
noia dell’attesa tra i tavolini dei bar,
spezzarsi la schiena di fatica per racimolare quanto basta a farsi staccare un
biglietto di sola andata in direzione Europa. «Le frontiere in realtà sono già
aperte, la stragrande maggioranza di chi
arriva qui viaggia in aereo. Solo chi non
ha abbastanza soldi o non ha voglia di
aspettare, provando e riprovando, sceglie il mare».
Le storie che Gabriele Del Grande ha
messo insieme sono pubblicate in tre li-
bri che un combattivo editore, Infinito
edizioni, gli ha pubblicato e che hanno
spopolato in un mercato che c’è e non si
vede e che ha regalato a questo toscano
vagabondo dall’aria scanzonata, premi,
riconoscimenti e un’autorevolezza fatta di citazioni perfino sul New York Times. Gli si riconosce di avere scoperto
quello che era sotto gli occhi tutti: le dimensioni di una catastrofe immane. E di
non essersi fermato alle cifre ma di essere partito per andare a raccontare le lacrime, il sudore, il sangue che c’è dietro
la maschera di un numero.
«Non mi piace che mi sia dia del ragazzo, in questo Paese sembra più una
condanna che un merito essere giovane
e aver voglia di fare. Anche quella dell’età finisce per essere una specie di categoria che non ti fa essere una persona
ma un’etichetta come quella di immigrato o migrante o clandestino». L’ultimo libro di Del Grande si intitola Il mare di mezzo. È il Mediterraneo ma anche
lo spazio che divide chi tra le due sponde ha sogni e speranze identiche. «Mi
sono reso conto che non c’era molta differenza tra me che viaggiavo e loro che
partivano. Solo quel mare». Il primo re-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
I CASI
SUL CAMPO MINATO
STRAGE DI NATALE
CANALE DI OTRANTO
VOLO KILLER
DENTRO I CAMION
NEL SAHARA
Il 15 maggio 1989
una barca con venti
migranti naufraga
al largo di Ceuta:
è una delle prime
tragedie
del Mediterraneo
Nel ’94 quattro
uomini sul confine
turco-greco
muoiono dilaniati
dalle mine: uno
dei casi segnalati
in questi anni
Così è chiamata
la tragedia
avvenuta
il 25 dicembre 1996
nel canale di Sicilia:
affogano in mare
283 migranti
Il 28 marzo 1997
una motovedetta
della Finanza
sperona la Kater I
Rades: annegano
108 albanesi, molte
le donne e i bambini
A Gatwick, 1999,
volo British Aiways:
uno dei tanti casi
di migranti trovati
morti assiderati
nelle stive
di un aereo
Nel 2002
a Caserta, dentro
un Tir, vengono
rinvenuti i cadaveri
di nove migranti
morti asfissiati
Non è l’unico caso
Solo dal 2000
al 2005 sono
almeno duemila
e cinquecento
i migranti morti
attraversando
il deserto del Sahara
ILLUSTRAZIONE DI GIPI
CEUTA, IL CONFINE
portage di Del Grande in terra d’Africa è
in Mamadou va a morire che lo ha fatto
conoscere in giro per il mondo. In poche
settimane ha messo insieme cento presentazioni in circoli e istituzioni culturali in Italia e in Nordeuropa.
Ma il suo lavoro, quello che ogni giorno serve a tenere il conto e la memoria di
chi si è perso nel mare di mezzo, è Fortress Europe: la fortezza Europa, il blog,
tra i più cliccati da chi si occupa di immigrazione. Un punto di riferimento
anche per i giornalisti che attingono a
piene mani al lavoro di Del Grande che
giornalista non è: «Non ho la tessera e
francamente non credo che mi serva: lavoro, scrivo e racconto. La considerazione di cui godo è data dalla serietà e
dall’impegno che ci metto. Poi, aver
scritto giornalista sui documenti per la
mia attività non credo aiuti». Muoversi
per la riva opposta a squarciare il velo
che copre le storie dei morti, gli ha attirato più di una grana. Non lo amano in
Tunisia dove gli hanno fatto pagare una
serie di documentati racconti sulla sanguinosa repressione di polizia della protesta dei sindacalisti nel distretto minerario di Redeyef nel 2008. Tornando a in-
dagare, l’anno dopo, sulla fine dei dispersi algerini forse finiti nelle prigioni
tunisine, si trovò nella black list.
L’idea di uno che prende rischi senza
calcolarli è lontanissima dal modo di
procedere di Gabriele Del Grande. Sa di
muoversi su un terreno minato: i suoi
contatti sono spesso dissidenti dei Paesi in cui si trova, oppositori dei governi,
gente che rischia, quella sì la pelle, per
una parola di troppo: «Il problema è più
per loro che per me. So di mettere a repentaglio la loro vita e la loro libertà e per
questo ho l’obbligo di essere cauto». Di
poliziotti e barbe finte al seguito durante i suoi giri ne ha avuti parecchi e seminarli non è semplice. Cercavano i suoi
taccuini per carpirgli i contatti. Quella
volta della protesta di Redeyef dovette
mettere tutto su un file, dribblare i segugi che già erano a un passo dalla sua camera d’albergo e mettere in salvo i materiali nel posto più sicuro che conosca:
la Rete. La protesta di Redeyef lo ha messo sulla pista della fine che fanno gli esuli e delle torture riferite da chi aveva assaggiato la polizia tunisina. Che non ha
gradito tanto zelo.
«Dai centri di permanenza, dalle pri-
IL BLOG E IL LIBRO
Il blog di Gabriele Del Grande
si chiama Fortresse Europe
(fortresseurope.blogspot.com)
ed è l’osservatorio
più autorevole sulle vittime
dell’emigrazione. L’ultimo libro
di Del Grande si intitola
Il mare di mezzo
(Infinito edizioni, 222 pagine,
15 euro), un reportage
sulle due sponde
del Mediterraneo attraverso
le rotte dei clandestini
gioni che ho visitato, tengo i contatti con
chi è dentro. Spesso le persone arrestate utilizzano un telefono cellulare e il
mio numero ormai gira parecchio. Ricevo richieste di aiuto, segnalazioni, denunce su ciò che accade. Per chi viene
arrestato prima di espatriare, in Nordafrica non ci sono certezze. A bordo di camion, spesso anche dei container, come
quelli utilizzati in Libia, somali, eritrei,
sudanesi finiscono per mesi, se non per
anni, in strutture speciali lontane da tutto e creduti morti dai parenti. Ormai ho
la mia rete di contatti e finisco sempre
per avere in tempo reale un bollettino di
uno sbarco, tentato o riuscito. Ho informazioni di prima mano che sottopongo
a verifica. Con i telefoni cellulari mi arrivano anche riscontri fotografici alle torture e alle violenze denunciate».
La prima volta in Africa fu un viaggio
in Tanzania imbottito di vaccini, adesso prende il primo volo utile e va, annotando con scrupolo quel che la straordinaria accoglienza culinaria dall’altra
parte del mare gli riserva. Messa in un
cassetto la laurea in Storia orientale che
gli valse una borsa di studio con la quale sono iniziati i reportage, oggi Del
Grande lavora per partire ancora e raccontare altre storie e altri spaccati di un
mondo che da qui si fatica a vedere. Un
tempo non lontano faceva il cameriere
in una trattoria di Testaccio a Roma per
mettere insieme i soldi, oggi, tra libri,
conferenze e seminari all’università,
riesce a vivere della sua stessa voglia di
raccontare. «Lavoro su Internet, posso
farlo da qualsiasi posto. Ho abitato a
Roma e Milano, ho vissuto due anni in
Sicilia, adesso sto in Toscana dai miei,
ma riparto tra non molto e poi chissà,
forse metto su casa ancora a Roma». Ha
la consapevolezza di fare qualcosa di
grande e di utile. Ma se la cava facile con
una battuta: «I miei meriti? Forse i demeriti degli altri. Di chi è pagato, e anche bene, per raccontare quel che racconto io e non lo fa».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
CULTURA*
Lo chiamavano “il Prévert della fotografia”, il suo “Bacio”
è diventato la cartolina più venduta. Di lui si crede di avere
visto tutto. Invece dagli archivi di famiglia spuntano scatti
inediti che raccontano il lavoro dietro ogni immagine di bistrot, trottoir e cocotte:
la costruzione maniacale di atmosfere che non esistono nella realtà ma solo nel mito
Rive
gauche
MICHELE SMARGIASSI
acciamo che era Parigi. Facciamo che un pittore dilettante spennellava sul Pont des Arts e un signore si
girava a guardarlo (il cane no). Facciamo che un colpo di vento rubava i cappelli davanti alla Madeleine e
tutti ridevano, o che due ragazzi si baciavano di fronte all’Hotel de Ville incuranti di tutto. Gli album parigini di Robert Doisneau parlano all’imperfetto: che è il tempo dei
giochi dei bambini, sospeso fra immaginario e realtà, tra crederci e non crederci. Gliel’aveva spiegato l’amico Jacques Prévert: «È
sempre all’imperfetto dell’obiettivo che tu coniughi il verbo fotografare». Ecco, ci siamo: dici Doisneau e credi di sapere già tutto. Il Prévert della fotografia, il narratore giocoso della Parigi pittoresca, tenero, romantico, “facile”, sorridente. E anche questo
libro-monumento con centinaia di scatti, benché pieno di sorprese e di inediti, pare già di averlo sfogliato tutto, ciottoli bagna-
F
L’arte di inventare la Parigi perfetta
Doisneau
ti, insegne dipinte a mano, calze con la riga, cani al guinzaglio,
bambini, barboni, cocotte, innamorati sul lungosenna e foglie
morte e tutto il resto, Paris en rose, Parigi buona e umana e provinciale e semplice e dolce come una crêpe au sucre.
E proprio questo invece è il capolavoro di Doisneau: farci credere all’esistenza reale di una Parigi fatta proprio così, che invece lui aveva costruita passo dopo passo sui trottoir, anno dopo anno, senza fretta, perché «Parigi è un teatro il cui biglietto d’ingresso si paga col tempo perduto». Illudendoci che il suo compito fosse invece solo di raccoglierla e incollarla sull’album, come
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
‘‘
I PESCATORI
E LE MOSCHE
Doisneau aveva
intitolato così
i due montaggi di foto
scattate nel 1972
tratte dalla sezione
“Parigi sulla Senna”
Passerotti sul canale
In uno di questi giorni felici trovo
questo pescatore sul canale Saint-Martin
Il pescatore e i passerotti di Parigi
sono una fonte di facile colore locale
per i fotografi...
Due figlie
alla ricerca dell’aura
AMBRA SOMASCHINI
catti selezionati con cura, infilati nelle scatole tematiche di legno tutte uguali. Didascalie scritte a
mano chiuse nelle stesse buste di plastica trasparente. Un lavoro meticoloso, da chirurgo. Parigi, i giardini, la Senna, i bistrot, i cabaret, i music-hall e le facce
dei passanti, il trucco pesante, i solchi delle rughe, le
smorfie, i sorrisi. E quel bacio in mezzo alla strada strappato al tempo (Il bacio dell’Hotel de Ville) diventato poster, carta da regalo e cartolina. Robert Doisneau aveva
schedato in modo quasi ossessivo seicentomila negativi. Francine e Annette, le figlie, li hanno studiati uno per
uno e sistemati in due libri. Il primo, pubblicato in Francia da Gallimard, sbarca da noi venerdì prossimo 29 ottobre: Paris Doisneau (Ippocampo, 400 pagine, 39,90
euro), un collage di immagini (perlopiù inedite) e riflessioni. Il secondo uscirà tra due anni.
Foto e frasi per catturare emozioni. Scriveva Doisneau nel 1951: «Si chiama aura quella specie di tubo al
neon che si accende intorno a certe persone, isolandole
per un breve momento. Bisogna sbrigarsi a registrarla
perché non regge il movimento». Suggeriva a mademoiselle Anita, abito scollato e filo di perle: «La prego,
ferma così, non si muova, poi le spiego». È l’attimo dell’aura, la circonferenza di luce di un istante che le figlie
hanno voluto fissare e impaginare: «Sono frammenti
che abbiamo trovato nell’atelier di papà — raccontano
Francine e Annette — abbiamo impiegato più di due anni per individuarli e sistemarli. Abbiamo assemblato foto, appunti e documenti che erano nel suo archivio personale, altri elementi li abbiamo spulciati tra i vecchi testi esauriti sul mercato editoriale. Un percorso fatto senza mai dimenticare i suoi desideri, quella successione di
momenti magici che sanno dare soltanto le foto d’autore». Paris par hasard, Galanterie urbaine, Paris des parisiens, Paris béton... Le sorelle hanno seguito il suo ritmo,
hanno rispettato la scansione omogenea nello stesso filone, quello del bianco e nero, quello del grigio urbano
del giorno e degli scintillii della notte: «Gli scatti raccontavano il suo mondo. Li aveva suddivisi e assemblati secondo temi e sequenze, li trattava come cortometraggi,
sì, come piccoli film. Non sarebbero potuti sopravvivere se non fossero stati legati da una storia per immagini».
Annette e Francine hanno selezionato e incollato aiutate da Jean Yves Quierry che ha creato il logo de l’Atelier
Doisneau: «Abbiamo fatto una scelta radicale. I negativi erano troppi. Abbiamo voluto raffigurare quello che
lui chiamava mon petit théâtre. Alla fine abbiamo escluso la sezione spettacoli, cinema, opera, danza e teatro...
La utilizzeremo per il prossimo libro».
S
l’entomologo con le farfalle. Ma quella Parigi non esisteva prima
di Doisneau e dei suoi amici Izis, Boubat, Ronis, i fotografi dell’umanità ritrovata, i «corrispondenti di pace» (come il solito Prévert
disse in realtà del solo Boubat, per l’invidia malcelata di Doisneau). Ragazzi poco più che trentenni nel dopoguerra, quando
c’era sete di libertà e bisogno di dimenticare in fretta l’onta dell’occupazione nazista, la vergogna di Vichy e tutte quelle «immagini che sudano sangue».
Erano, in tutto il mondo, gli anni d’oro della fotografia umanista: l’ideologia della fraternità planetaria venuta dagli Usa con la
supermostra The Family of Man, in Francia prese una piega più
nazionale e popolare, incarnata da fotografi quasi tutti orientati
a sinistra. Bistrot, negozietti, episodi di strada: la nazione francese umiliata nella sua grandeur ritrovava la semplicità del piccolo
comunitarismo di vicinato, il calore dell’angolo di strada, il piacere degli orizzonti stretti. Quello di Doisneau non andava molto oltre le cimase di Gentilly, Val-de-Marne, gli piaceva far credere (non era vero, vedremo) di non aver mai attraversato la Loira,
di certo era «turbato dai lunghi viaggi», e per sé aveva coniato la
metafora del tappo di vino: che resta bagnato e sano finché la bottiglia sta coricata a riposo, mentre se la metti in piedi si secca e si
guasta. Era la sua maschera di umiltà: «Un fotografo intelligente
è spacciato», si faceva beffe di Barthes con i suoi studium e i suoi
punctume di tutti i semiologi, «seminaristi chiacchieroni che vogliono solo fregare i miei giocattoli». Rivendicava la sua pesca miracolosa in mezzo al «gregge dei pedoni», da «etnologo involontario» che «compone col provvisorio».
Piccole sapienti bugie. Doisneau era tutto tranne che un ingenuo collezionista di belle conchiglie sulla spiaggia. Aveva fatto la
scuola d’arte e studiato litografia, conosceva i maestri dell’immagine. Era «un iconolatra» colto, un consapevole fabbricante di
immagini, padronissimo dei propri mezzi espressivi. C’è la prova. Quando accettò viaggi lontani (sì, anche oltre la Loira: negli
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Usa, perfino in Siberia), il suo stile si adeguò prodigiosamente. In
questi giorni al centro Forma di Milano si può godere il ritrovamento del suo reportage (a colori!) su Palm Springs, città-giardino californiana del golf e dell’America affluent: un servizio che gli
chiese nel 1960 il grande Walker Evans, allora photo-editor di Fortune. Ebbene, l’occhio che si posa sull’opulenza delle ville con piscina e dei party è freddo, sarcastico, quasi cinico, molto “americano”.
Insomma Doisneau sapeva maneggiare alla perfezione la retorica delle forme, e se ne servì per fabbricare e regalare alla sua
Parigi un’atmosfera, un marchio di fabbrica, una nuova collocazione nell’immaginario da mettere al posto della Ville lumièreottocentesca e degli années folles prebellici, miti ormai inservibili.
Questa nuova Parigi “all’imperfetto”, che sembra aneddotica e
vernacolare, è in realtà una città deliberatamente mitologica: la
città del bonheur in cui tutti vorrebbero vivere. Del resto, di non
essere un testimone nostalgico lo ammise lui stesso: «Lasciare alle future generazioni una testimonianza della Parigi dell’epoca in
cui ho tentato di vivere è stata l’ultima delle mie preoccupazioni». Non un archeologo: un regista. «Ci sono messinscena nelle
sue foto?» «Certo che sì!». La più famosa è proprio il romantico
Baiser de l’Hotel de Ville, la cartolina più venduta al mondo, messa in posa con la collaborazione di due giovani aspiranti attori; ma
anche il pittore del Pont des Arts è «completamente montato», e
gli sposi nel bistrot assieme al carbonaio non erano neppure fidanzati. Ebbene? È il mestiere del creatore di miti premeditati. Le
immagini fintamente ingenue di Doisneau, ha ben visto Régis
Debray, «sovracodificano la pariginità eterna» ad uso e consumo
di un mondo che la crederà vera e la verrà a cercare negli anni del
turismo di massa. E, a sorpresa, la troverà davvero, impacchettata come un souvenir a scala urbana: esempio strepitoso di come
le fotografie spesso non riproducono la realtà, ma la creano.
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DA L 17 0 7
Aste a Vienna, 22 – 26 novembre
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Design, Jugendstil, Argenti,
Gioielli, Orologi
Esposizione di una selezione di opere:
Roma 26 e 27 ottobre, Milano 3 – 7 novembre
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Gino Severini, Natura morta con cupola di
San Pietro (part.), 1941/43, olio su tavola, 81 x 80 cm,
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40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
Era il 1977 quando usciva il primo episodio dell’epopea
creata da George Lucas. Oggi, dopo due sequel
e tre prequel, il regista annuncia un nuovo progetto:
i film nelle sale in 3D. Ma milioni di fan non sono d’accordo, come rivela
un documentario in programma al Festival del cinema di Roma
E ancora una volta veniamo trasportati nella “galassia lontana lontana”
SPETTACOLI
LUKE SKYWALKER
PADMÉ AMYDALA
Skywalker
Tutto incomincia con Anakin
Skywalker, prima iniziato come
cavaliere Jedi e poi sedotto
dal lato oscuro della Forza
e divenuto Darth Vader. Sposa
Padmé e nascono due gemelli,
Luke e Leia che riporteranno
l’equilibrio nell’universo
YODA
Jedi
Cavalieri a guardia
della Repubblica galattica
Le loro armi sono le spade
di luce, ma soprattutto
la grande conoscenza
che hanno della Forza,
l’energia che scorre
in tutto l’universo
LEIA ORGANA
OBI-WAN KENOBI
HAN SOLO
Avventurieri
MACE WINDU
QUI-GON JINN
CHEWBACCA
Han, Chewie e Lando,
contrabbandieri e pirati
dello spazio, si uniranno
alla causa dei ribelli
contro l’Impero galattico
CLAUDIA MORGOGLIONE
T
anto tempo fa (gennaio 1977), nella galassia lontana lontana della New Hollywood, il trentatreenne George Lucas mostrò a un gruppetto di amici — tra cui Martin Scorsese e Brian De
Palma — la prima versione del suo nuovo film, una storia di fantascienza intitolata Star Wars.
Quelle battaglie spaziali di ribelli e buffi robot, condite da una sorta di filosofia sul lato oscuro
della Forza, sembrarono agli ospiti prive di senso. Destinate a un umiliante fallimento al botteghino. Perfino la moglie del regista, Marcia, scoppiò in lacrime. Solo Steven Spielberg si mostrò ottimista: «Sono sicuro che guadagnerà cento milioni di dollari».
La previsione fu smentita. In positivo, però: la pellicola di milioni ne incassò subito — in
quella calda estate di trentatré anni fa — oltre 460. Dando il via alla saga cinematografica più
longeva e redditizia: sei pellicole uscite tra allora e il 2005, ripartite in due trilogie (la seconda,
in ordine di realizzazione, è un prequel della prima). Capaci di generare un cosiddetto universo espanso (l’insieme di avventure extrafilmiche legate alla serie) di enormi dimensioni:
videogame, fumetti, libri, cartoni animati. Per non parlare del merchandising. Ma Guerre stellari è soprattutto un fenomeno di costume intergenerazionale, un mondo adorato da schiere di fan appassionati e ipercritici. Per questo sembra destinato a non morire mai. Anche là dove è nato: sul grande schermo. I primi tre capitoli sono già tornati nelle sale a partire dal 1997,
in un’edizione speciale leggermente rimaneggiata. E adesso, altro giro: Lucas ha annunciato
la riedizione di tutti i film in 3D. Il primo a sbarcare nei cinema, nel 2012, sarà Episodio I — La
minaccia fantasma.
Una storia infinita. E controversa. Perché questa nuova iniziativa è stata bocciata senza appello, sui forum internettiani, dallo zoccolo duro dei fan. Gli irriducibili, custodi della purezza della vecchia trilogia: quaranta-cinquantenni
fulminati a fine anni Settanta dal primo film, nerd o comunque navigatori
web della prima ora (Star Wars ha anche un’enciclopedia online tutta sua,
wookiepedia), adoratori mistici della galassia lontana lontana. Un culto
con centinaia di migliaia di adepti: americani, giapponesi, europei. Legati
al regista di Guerre stellari da un rapporto di passione e insieme di avversione che non ha paragoni, nella cultura pop. Come dimostra un docufilm
già cult di scena il primo novembre, fuori concorso, al Festival del cinema di Roma: si chiama People vs. Gorge Lucas, è diretto da Alexandre
O. Philippe, è stata definita la migliore geek-opera mai apparsa sugli
schermi, e fa parte del ricco pacchetto della sezione Extra, curata da
Mario Sesti.
Guardare questo film è come entrare in un universo parallelo. In
cui regnano passione, fanatismo, feticismo. Con testimonianze illustri: ad esempio lo scrittore Neil Gaiman, che racconta come quell’eGLI EWOK
state del ’77 cambiò la vita di tutti. O Francis Ford Coppola, che sottolinea la potenza industriale del fenomeno. O ancora Anthony
Waie, produttore esecutivo di 007, che conserva ancora il biglietto di ingresso di
trentatré anni fa. Il risultato di questo attaccamento morboso è duplice. Da un lato
genera il proliferare di fake movies, amorevoli omaggi o parodie girate dai fan, visibili online e realizzate con ogni mezzo: personaggi di plastilina, costruiti con le bottiglie di
whisky, con le uova sode. C’è perfino un sexy-horror: Don’t go in the Endor Woods. Ma esiste anche il rovescio della medaglia. Perché l’adorazione è accompagnata da tanta rabbia: «Io
amo e odio Gorge Lucas», dice senza mezzi termini un fan, nella parte iniziale del documentario. Nel mirino, la decisione dell’autore di cambiare leggermente la trilogia classica in occasione dell’edizione speciale del 1997, l’unica tuttora reperibile in dvd. Piccoli ritocchi. Come
nella scena della Cantina, in cui — nella versione originale — Han Solo (Harrison Ford) fa fuori senza preavviso un alieno chiamato Creedo. Vent’anni dopo, la sequenza cambia: è l’avversario a cacciare la pistola per primo, il protagonista colpisce per legittima difesa. «Tradimento», gridano ancora oggi gli irriducibili, che hanno creato su Facebook il gruppo “Han Solo Shot First”. Altrettanto critici i giudizi sul tris di pellicole più recenti, considerate non all’altezza delle prime tre. Bocciati soprattutto alcuni nuovi personaggi, come il molliccio e querulo Jar Jar Binks: per paradosso, il più odiato dai veterani, ma anche tra i più amati dai ragazzini di adesso. Cioè dai fan di ultima generazione, molto meno ideologici, che non vedono
alcuna differenza tra vecchie e nuove avventure. Sono loro che – a migliaia, travestiti da Cavalieri Jedi - sfileranno a Lucca Comics and Games, la più importante manifestazione italiana
del settore, in programma dal 29 ottobre al primo novembre. Una kermesse in cui i padri cercheranno memorabilia della prima trilogia, mentre i figli adolescenti parteciperanno ai giochi di ruolo con le spade laser. È per questo che Star Wars non muore mai.
LANDO CALRISSIAN
R2-D2
Droidi & Co.
L’astrodroide e il droide
da protocollo sono
determinanti in ogni
episodio, come lo sono,
nel bene e nel male, altri
personaggi minori, abitanti
di mondi di foreste
o sottomarini
C-3PO
JAR JAR BINKS
La saga in
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DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
a infinita
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
DARTH MAUL
PALPATINE/L’IMPERATORE
Sith
CONTE DOOKU
Sono i signori del lato oscuro
della Forza. Il loro padrone
è Cos Palpatine, senatore
che ha tradito la Repubblica
ed è divenuto imperatore
Al suo fianco c’è sempre
un apprendista. Il più potente
diventerà Darth Vader
JABBA THE HUTT
Gangster & Co.
Sul pianeta Tatooine
regna il bandito
Jabba the Hutt
Watto era il padrone
di Anakin
WATTO
JANGO FETT
GENERALE GRIEVOUS
Bounty killer
BOBA FETT
Il dna del primo, Jango
Fett, darà vita
all’esercito dei cloni
che darà scacco
alla Repubblica. Il figlio
Boba catturerà Han
Solo e lo consegnerà
a Jabba the Hutt
I cavalieri, le armi, gli amori
l’eterna epica contro il nulla
PINO CORRIAS
a seun hamburger di elastica carne transgenica con patatine congelate due anni fa, più una spruzzata di pomodoro ricolorato e acido equivale a un buon pranzo, perché mai la saga di Star Wars
non dovrebbe essere nutriente quanto una mediocre cine o fanta religione? La persistenza dei
suoi eroi in viaggio da quarant’anni tra i meandri galattici del male verso il bene più che raccontarci la loro esplicita ricchezza di emozioni digitali, ci rivela l’implicita miseria della nostre vite, imprigionate ormai
dentro a notti senza più stelle, ma ricche di sogni artificiali e di popcorn. Pensato da George Lucas come
un giocattolo di immagini da infilare tra gli ingranaggi luminosi di Hollywood, le sei avventure di
Skywalker, le principesse, i cavalieri, le armi, gli amori e le peripezie che ne conseguono, hanno intrapreso a loro volta un viaggio clamoroso non al centro della Terra, ma dei terrestri. Per la straordinaria ragione che il messaggio di quei mondi così lontani e di quei personaggi così vicini — che è poi il cristallo più
fragile e più resistente di ogni narrazione — ha raggiunto con successo almeno due stazioni psicoattive
dei nostri recettori più profondi.
Nella prima, l’apparentemente complesso si è semplificato nell’euforia aritmetica dei dollari generata dal successo. I concetti filosofici dello jedi Obi Wan Kenobi hanno trovato il loro riassunto più efficace
nel merchandising delle spade laser. Darth Vader, che è poi il nero abissale della vendetta e del potere, è
diventato una maschera per i ragazzini che intendono modernizzare il loro Halloween. La Forza si è oggettivata nel suo viatico: «Che la Forza sia con te» disponibile in molte versioni colorate su T-shirt. Ma anche nel training di un numero infinito di palestre dove si insegnano spiccioli di yoga, a canone mensile,
dalle verande luminose di Beverly Hills, ai seminterrati di Testaccio.
Nella seconda stazione, queste formidabili oggettivazioni della nostra meraviglia di spettatori, hanno
fatto il miracolo di trasformarci in folle di adepti, moltiplicando la loro natura identitaria in una offerta
speciale di miti e di mitologie. Addirittura in una svendita per altari casalinghi, collezionismo generazionale, mimesi teatrali e infine playstation. Mitologie che cominciano naturalmente dalla caverna di Platone per approdare alle odissee di Ulisse, passando per la tavola rotonda dei cavalieri di Re Artù, per gli anelli dei Nibelunghi, per le Terre di Mezzo di Tolkien. Con un sovrappiù ironico rintracciabile nelle disavventure del Don Chisciotte e dei suoi mulini a vento. Ma pure con un eccesso qua e là di misticismo. Laddove gli sguardi dei devoti hanno intravisto — nel viaggio iniziatico dell’Eroe attraverso il Lato Oscuro della Forza verso la Maturità, la Giustizia e l’Amore — un po’ Buddha con le sue illuminazioni trascendentali e un po’ Gesù Cristo, quando fronteggia in solitudine le tentazioni, sopporta i sacrifici, persegue la
salvezza degli umani promettendo altri mondi, altre vite.
Ma come i fast food anche le saghe portatili e postmoderne andrebbero considerate con una certa indulgenza. È vero che offrono cibo plastificato. Ma anche qualcosa di un po’ più prezioso e persistente: un
piccolo riparo contro il nulla, per esempio. Il che spiega il passaparola generazionale che tiene accese le
luci della Saga. La quale si rinnova (come certe mistiche o i buoni romanzi) attraverso gli occhi sempre
nuovi di chi guarda, o legge, o sogna, seduto al centro della propria galassia lontana lontana.
M
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I FILM
Una nuova
speranza
(1977);
L’impero
colpisce
ancora (1980);
Il ritorno
dello Jedi
(1983)
La minaccia
fantasma
(1999);
L’attacco
dei cloni
(2002);
La vendetta
dei Sith
(2005)
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42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Di stagione
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
Dai tempi della Bibbia abita immaginario laico e tradizioni religiose
La medicina ne celebra da sempre le virtù antiossidanti. E la gastronomia
nel corso dei secoli ne ha utilizzato le proprietà per esaltare selvaggina,
salse ed insalate. Femminile il frutto, maschile l’albero, ha attraversato
ogni epoca della storia. Ma vive in un solo periodo dell’anno: l’autunno
Orchidee farcite
Agnello sambucano
Cracker di dentice
Marbré di lepre
Carlo Cracco — “Cracco”, Milano — ha ideato
una composizione di lenticchie, castagne
e frutto della passione, ad accompagnare
orchidee al vapore ripiene di melograno
Enrico Crippa — “Piazza Duomo”, Alba —
serve la carne a cottura rosata con cagliata
di latte di capra, che ne esalta il gusto
Camomilla e melograno sgrassano il piatto
Ciccio Sultano — “Il Duomo”, Ibla, Ragusa —
offre uno sfizioso, croccante cracker farcito
con polpa di dentice, foie gras e fave di cacao
torrefatte, profumato con mosto di melograno
Gualtiero Marchesi — “L’Albereta”, Erbusco,
Brescia — cuoce il controfiletto intero
nel burro chiarificato e lo serve affettato
accanto a un’insalata di lattuga e melograno
MELOGRANO
LICIA GRANELLO
Pianta
La punica
granatum, originaria
di un’area
compresa tra Iran
e India himalayana,
è una pianta dai fiori
rosso intenso
I frutti, giallorossastri, arrivano
a maturazione
in autunno
Varietà
Due tipologie:
a seme duro
o soffice. Le prime
utilizzate per uso
industriale (succhi,
marmellate),
le seconde — Dente
di Cavallo, Ragana,
Selinunte... —
si consumano
fresche
ecero sul lembo del manto melagrane di
porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Fecero sonagli d’oro puro e collocarono i sonagli in mezzo
alle melagrane, intorno all’orlo del manto: un sonaglio e una melagrana, un sonaglio e una melagrana lungo tutto il giro del lembo del manto, per l’esercizio del ministero, come il Signore aveva ordinato a Mosè».
Era già famoso ai tempi della Bibbia, il melograno. O melagrana, se si considera solo il frutto e non la pianta nel suo insieme: un’altalenanza tra maschile e femminile che addiziona fascino a fascino. Forse solo l’ulivo, tra gli alberi “da mangiare”
«F
Su carni e pesci
il seme della vita
vanta la stessa allure millenaria, a partire dal tronco ruvido, fitto di rami spinosi e contorti, passando per i fiori, di uno sfacciato rosso vermiglio, fino alle bacche carnose, dalla spessa
buccia giallo-rossastra, pienissime di semi rossi, che a contarli passano quota cinquecento.
Briciole sparse di un alimento leggendario. Fertilità, amore,
giustizia, ricchezza, coraggio: il melograno con le sue meravigliose attribuzioni attraversa lo spazio e il tempo, abita l’immaginario laico e la tradizione religiosa, è protagonista di pagine struggenti e racconti mitologici. Così, i babilonesi masticavano i semi prima di andare in battaglia per diventare invincibili e le spose romane intrecciavano tra i capelli rami di me-
lograno, sacro a Venere e Giunone, mentre Shakespeare sceglie l’ombra del melograno per la serenata di Romeo a Giulietta. In Vietnam aprire il frutto «fa arrivare cento bambini», e in
Turchia si getta la melagrana a terra dopo la cerimonia nuziale, per contare il numero dei figli, pari ai chicchi usciti dalla
spaccatura. Tradizioni che trovano il loro miglior compimento a tavola, dove le ricette rifinite con succo o semi sono considerate bene auguranti e golose.
Il risvolto scientifico è sorprendente. La medicina d’un tempo utilizzava i semi come vermifughi e astringenti, ma oggi
sappiamo che non esiste alimento di pari potere antiossidante. Un concentrato di giovinezza&salute talmente straordinario da far impallidire arance e mirtilli, che pure vantano la loro
bella quota di flavonoidi. A scorrere l’elenco delle malattie su
cui agisce beneficamente, viene voglia di prenotare un bicchiere quotidiano di succo per i prossimi cent’anni: cancro, artrosi, arteriosclerosi, ipertensione, Alzheimer…
Se la scienza moderna ha battezzato la melagrana come
frutto-simbolo della nuova medicina preventiva, la gastronomia ha cominciato ad amarla parecchi secoli fa, elevando lo
scricchiolio acidulo dei semi tra lingua e palato a insostituibile bilanciatore di freschezza per selvaggina e carni salsate. I
cuochi di nuova generazione hanno spostato l’abbinamento
dalle lunghe cotture ai pesci crudi, dalle salse alle insalate, dalla macedonia ai formaggi, in una successione di gusti lievi, diversi, stimolanti.
Questo è il suo momento. Generosa ma poco incline alle
lunghe conservazioni, la melagrana accende le ricette d’autunno, regalando due mesi di splendore assoluto alla dolce selvaticità dell’agnello o alla setosa carnalità della ricciola. Fate
finta che sia Parmigiano grattugiato e spargete i semi su un risotto bianco o di pesce: con un solo gesto, profumerete il piatto e abbasserete il colesterolo.
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Granatina
Lo sciroppo
di melograno parte
dai chicchi,
rossi e maturi,
schiacciati
Riduzione in pentola
a fuoco basso
con zucchero
o miele. A fuoco
spento, si aggiunge
il succo di limone
Succo
Lo straordinario
contenuto
di antiossidanti
e potassio ne fanno
un toccasana
a largo raggio,
dalla prevenzione
delle malattie
degenerative
al supporto di acido
folico in gravidanza
Repubblica Nazionale
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Avellino
itinerari
Il vicentino
Andrea Rigoni
gestisce
con i fratelli
una storica
azienda biologica
di mieli
e trasformazione
della frutta
Sana e golosa
la marmellata
di melograno
Oristano
Lecce
Nelle campagne che circondano il capoluogo
dell’Irpinia, il melograno è diffuso da secoli
Una coltura agricola che si traduce in ricette
tradizionali, come succhi, gelati e marmellate
Disegnato, ricamato, inciso, il melograno
fa bella mostra di sé negli oggetti
dell’artigianato locale, ed è parte integrante
del ricettario tradizionale, fresco o trasformato
Il clima caldo e asciutto del Salento riesce
particolarmente felice per il melograno,
la cui coltivazione si sta espandendo nella piana
leccese accanto a quella di viti e ulivi
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LA MAGNOLIA B&B
Contrada Bosco San Raffaele
Tel. 0825-1910668
Camera doppia da 40 euro, colazione inclusa
HOTEL MISTRAL 2
Via XX Settembre 34
Tel. 0783-210389
Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
ALVINO SUITES
Via Roberto di Biccari 6
Tel. 0832-240972
Camera doppia da 100 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
LA MASCHERA
Rampa San Modestino 1
Tel. 0825-37603
Chiuso dom. sera e lunedì, menù da 30 euro
IL CAMINETTO
Via Firenze 9. Località Cabras
Tel. 0783-391139
Chiuso lunedì, menù da 30 euro
OSTERIA DEGLI SPIRITI
Via Cesare Battisti 4
Tel. 0832-246274
Chiuso domenica sera, menù da 25 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
GIOVOMEL AZIENDA AGRICOLA
Contrada Greci 11
Località Aiello del Sabato
Tel. 0825-667410
PASTICCERIA CREAM ROSE
Via Cagliari 422
Tel. 0783-74186
PASTICCERIA FRANCHINI
Via San Lazzaro 36
Tel. 0832-343882
Il Medioevo nel piatto
un inno alla fertilità
MASSIMO MONTANARI
iòche fa di un “pomo” un “pomo granato” sono i “grani”, i semi. La
melagrana è un frutto costituito dai suoi semi, situazione inusuale, al limite del paradosso. Non poteva che derivarne una simbologia costruita attorno al tema della fertilità, che poi ritroviamo in ambito
cristiano, nell’immaginario e nell’iconografia medievale.
Questa potente (prepotente) carica simbolica non ha impedito alla melagrana di occupare un posto significativo nelle pratiche di cucina. Il gusto che potremmo definire “premoderno”, dominante dal Medioevo fino al XVII secolo, pareva fatto apposta per prediligere questo frutto, il suo
sapore complesso, al tempo stesso delicato e forte, agro e dolce, con una
punta di amaro astringente. Un sapore come
quello della melagrana rispondeva ai canoni
scientifici (dietetici) e gustativi (culinari) del tempo. Quei canoni esigevano sapori del genere che,
unendo insieme varie qualità sensoriali, parevaTempo di melograno
no utili alla conservazione della salute, identifinel calendario
cata primariamente con il “temperamento” bidi sagre e feste,
lanciato degli opposti. Al punto che, se i sapori
a partire dal 10 novembre,
erano troppo semplici, era compito del cuoco
quando a Masullas, Oristano,
renderli più complessi, più ricchi. Le salse agroterra di melograni,
dolci-piccanti della cucina medievale erano
verranno proposti
espressione di questa convinzione, di queste prepiatti, dolci, succhi e liquori
messe teoriche elaborate in ambito scientifico.
monodedicati
In queste salse la melagrana entrava spesso e
Nella settimana che precede
volentieri, a definire i sapori (“sapore” era il nome
il Natale, invece,
medievale della salsa) che si aggiungevano alle viil “San Gallo” di Firenze
vande. Nel più antico ricettario italiano, compicelebra
lato nel XIV secolo alla corte di Napoli, il succo di
la festa del melograno,
melagrana serve per stemperare le spezie (in quefrutto-simbolo
sto caso, cannella e noce moscata) che si aggiundella comunità iraniana
gono a rosso d’uovo, sale e mollica abbrustolita
per comporre la salsa «pro avibus», suggerita per
accompagnare ogni sorta di volatili. Ancora il
succo di melagrana («agra e dolce», si specifica) è
protagonista di una ricetta detta “romania”, di origine probabilmente
araba, che prevede di stemperare in questo liquido del pollo soffritto con
cipolla e lardo (in ambito islamico si trattava ovviamente di olio) arricchito con mandorle tritate. Né mancano liquidi a base di melagrana consigliati «ad confortandum stomachum».
I dietologi del nostro tempo ci spiegano che la melagrana è un toccasana per la salute. Ce lo dimostrano con raffinate analisi chimiche, isolando e mettendo in valore le molteplici componenti nutrizionali del magico frutto ripieno di grani. I dietologi di qualche secolo fa, meno provvisti
di strumentazioni analitiche, arrivavano a conclusioni non troppo diverse, basandosi semplicemente sul sapore del frutto. Il sillogismo era elementare: se il seme è l’origine della vita, e la melagrana è piena di semi,
non può non conseguirne che la melagrana fa bene alla vita.
C
l’appuntamento
63
l’apporto calorico
per 100 grammi
600
il numero medio
dei semi in un frutto
1487
Botticelli dipinge
la Madonna della melagrana
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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
le tendenze
In amore cuori solitari o battitori liberi, sul lavoro spesso in carriera
Che siano separati, scapoli o ex bamboccioni i tre milioni di maschi
Scelte
italiani che vivono soli hanno soprattutto una cosa in comune:
spendono (il sessanta per cento in più di una famiglia media)
Maniaci di fitness, design e hi-tech inseguono un loro stile
E i brand fanno di tutto per accontentarli
POLSO D’ACCIAIO
Un’icona del marchio
Breil: l’orologio Manta
con cronografo
È in acciaio con ghiera
verde smeraldo
Single
Man
ELEMENTARE
Camicia a manica lunga in puro
cotone con taschino
Come un foglio a quadretti
bianco, rosso e nero. Di Sonrisa
TECNOLOGICO
BlackBerry di ultima generazione
con schermo luminoso ad alta
risoluzione e lettore multimediale
Pesa 122 grammi, senza batteria
SPORTIVO
Caldo pull in lana
grigio perla
di Fred Perry
Un classico
dal mondo
del tennis
al guardaroba
maschile
Quando la solitudine
diventa un lusso
CASUAL CHIC
Ama il bianco
& nero
l’uomo
Emporio
Armani:
giacca scura
abbinata
al pantalone
candido,
guanti bicolor,
scarpe
da tempo
libero
ILARIA ZAFFINO
eri erano bohémien stravaganti,
geni incompresi e sregolati, oggi
sono uomini in carriera, narcisi,
spendaccioni quando possono,
comunque sempre attenti alle
mode e all’apparenza. Sono i single d’Italia: battitori liberi, cuori solitari
per necessità o convinzione, per scelta
propria o più spesso di qualcun altro,
quasi dei Bridget Jones in pantaloni.
Scapoloni incalliti o di ritorno. Perché
esistono due tipologie di maschi single:
da una parte c’è il trentenne appena
I
uscito da casa di mamma e di papà,
stanco di essere un eterno bamboccione, dall’altra un esercito di quarantenni
e cinquantenni appena usciti da matrimoni sbagliati che, magari, si ritrovano
a vivere da soli per la prima volta. Sono
loro che hanno più soldi da spendere,
sono loro a cui le case di moda e di design guardano come nuovo target di riferimento. Una categoria sociale e sociologica che fino a qualche anno fa nemmeno esisteva. Oggi, invece, i single (tra
uomini e donne) superano i sette milioni e mezzo, in pratica il 26,4 per cento
degli italiani, con una crescita esponenziale ogni anno che fa riflettere (negli
Stati Uniti, lo scorso agosto, il Census
Bureau ne ha stimati novantasei milioni). E anche se più della metà continuano a essere di sesso femminile, i maschi
hanno raggiunto quasi i tre milioni.
Spesso vivono situazioni transitorie:
perché si è conclusa una storia, hanno
cambiato lavoro e città, stanno attraversando un periodo difficile.
Ma come vive chi ha scelto la solitudine come compagna? Partiamo dalla
spesa: chi è solo spende il sessanta per
cento in più di una famiglia media, secondo l’Istat ben 312 euro ogni mese.
Che se ne vanno tra vaschette monoporzione da rosticceria, surgelati, cibi
precotti, sughi pronti all’uso, frutta e
verdura confezionata e per questo assai
più cara. Senza considerare gli sprechi,
con cartoni di latte che restano aperti
per giorni, yogurt scaduti, tortelloni
iniziati e dimenticati in fondo al frigo.
Perché il single non ha tempo, né tantomeno voglia, di cucinare solo per se
stesso. Al contrario, per coccolarsi e
confortarsi segue la moda, sceglie abiti
e scarpe di tendenza, compra una lampada in più per il salotto. Tanto che per
vestire — ci dice l’Eurispes — arriva a
spendere anche novanta euro al mese.
Le sue sono scelte spesso fatte in serie,
trova un marchio che lo soddisfa e se ne
riempie il guardaroba. Un pantalone gli
calza a pennello? Allora via con tutti i
colori possibili dello stesso modello. E
poi chi è solo non può farsi mancare
nulla, vuole muoversi, viaggiare. Altrimenti a cosa serve la tanto decantata libertà?
Tra le grandi passioni dei maschi single ci sono i gadget tecnologici: dal superstereo all’iPad, al cellulare all’ultimo grido. E poi la casa. Per tanti la soluzione più ovvia è il monolocale, più facile da gestire, da pulire, e naturalmente più economico. Ma ben attrezzato e
studiato con soluzioni su misura. Arredare la propria “tana” diventa l’ennesima sfida: crearsi un ambiente confortevole dove vivere e coccolarsi è ancora
più importante per chi è solo. Così il single dedicherà più attenzione a un impianto hi-fi di ultima generazione se la
sua passione è la musica, al contrario
allestirà una piccola palestra se ha l’ossessione per i muscoli. E se per le donne prioritaria è la camera da letto, per
l’uomo l’attenzione si sposta sull’area
giorno e di intrattenimento, che può essere anche una cucina allargata dove il
single mangia, dorme, incontra gli amici, ascolta la musica. Vive, insomma,
secondo il suo stile.
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DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
DECISO
Giacca peacoat di Herno:
traspirante e impermeabile
con pettorina staccabile
Mantiene la temperatura
del corpo costante
FUTURISTA
Ha una struttura futuristica, che alterna
pieni e vuoti: Genesy, lampada da terra
di Zaha Hadid per Artemide
In nero lucido o bianco opaco
WILD
Sembra uno dei borsoni
che si vedono nei film western
In tessuto scozzese con manici
in pelle da Ferragamo
Rodolfo Dordoni di Minotti
“Per lui pochi colori
e molta sobrietà”
iù che affezionarsi a un marchio si
affeziona a un gusto: è meno versatile di una donna che cambia con
più frequenza l’arredo di casa, meno incline
perciò a eccessi ed esuberanze. E soprattutto,
quando vive da solo, l’uomo privilegia aspetti della casa che interessano poco le donne:
per esempio, l’aspetto tecnologico, domotico, quindi il computer, la tv, la musica». Rodolfo Dordoni, architetto e designer milanese, è il direttore artistico di Minotti, le sue collezioni — lampade, divani, poltrone — sobrie, essenziali, incontrano spesso il gusto
maschile.
«L’uomo è meno attento della donna alle
mode, comunque meno preparato. È più facile allora che riconosca delle icone, storiche
o contemporanee poco importa. Lui va per riferimenti: la poltrona da lettura, per esempio,
o il divano di Le Corbusier. Sono delle sicurezze. Perché è più pigro, anche nella scelta
dei materiali. Le donne sono portate a ragionare su colori, tessuti. L’uomo invece ha una
cartella più limitata, persino la paletta di colori è più limitata. I materiali che privilegia sono legni, pelli, laddove le donne cercano laccature e tessuti colorati. Lui è più sobrio e tende a scegliere i colori del proprio guardaroba: i
grigi, i marroni, per definizione toni maschili».
L’uomo single è una
categoria sociologica
ormai emersa, è anche
un nuovo target per i designer?
«Naturalmente ci sono
oggetti che vengono pensati, ragionati in funzione di un
target. Per esempio, in un
progetto di interior considerare che la casa sia per una donna
single, un uomo solo o una coppia
fa la differenza. Ci sono uomini single che hanno l’abitudine alla palestra, al fitness. La donna privilegia il benessere, la vasca da bagno. La stessa attenzione al corpo si manifesta in modo diverso. E quel che conta sono i dettagli: anche solo una tenda, accessorio per definizione più
femminile, può condizionare un progetto».
Come arrederebbe la casa di un single?
«Cominciamo dalle differenze: una donna
ha bisogno di riservatezza, di privacy, in camera da letto, in bagno. L’uomo al contrario
ha meno problemi a esibire questi spazi riservati. Ecco allora che l’open space si addice
bene alla casa di un uomo single. Proprio l’ultima casa che ho progettato per un single era
un loft, ovviamente open space».
Gli oggetti che lei progetta sono geometrici, angoli retti, linee secche: in una parola,
pratici, essenziali, funzionali. Proprio come
piacciono agli uomini.
«È vero, il mio gusto è più legato al mondo
maschile, uso poco i colori vivaci. E anche la
mia rappresentazione dei prodotti, prendiamo un divano, è indubbiamente più maschile. Quando penso a una casa per single sono
più portato a immaginare una casa per uomini. Le donne preferiscono lo stile di Patricia
Urquiola, o quello etnico di Paola Navone.
Con loro mi capita più spesso di lavorare sul
progetto di guardaroba, di cabina armadio,
che poi è sempre una stanza vera e propria.
L’attenzione femminile, infatti, è rivolta alla
luce, agli specchi, alla dimensione del guardaroba, da usare come fitting room. Al contrario, per l’uomo conta il numero di pezzi, mi
servono tanti pantaloni, tante camicie. In
questo, lui è più ordinato quando si parla di
guardaroba. Ma non vuol dire poi che ordinata sia la sua casa».
(i. za.)
«P
IL DISEGNO
L’illustrazione è tratta dal Fantasy
Lookbook Fall Winter 2010 di Prada
Il progetto grafico è stato
realizzato da OMA di Rem Koolhaas
ESSENZIALE
Un tavolo discreto, sottile
e leggero, che sembra galleggiare
sui sostegni scultura:
è Palio di Ludovica + Roberto
Palomba per Poltrona Frau
RILASSATO
Poltrona e panchetto
per soddisfare
il desiderio di completo
abbandono: informale
e rassicurante, Parker
di Minotti è disegnata
da Dordoni
CLASSICO
Rigorosamente neri i mocassini
con tomaia alta e fascetta frontale:
lusso e stile classico
È la proposta di Dior Homme
VIAGGIATORE
Giacca
di velluto,
dolcevita,
pantalone
vita bassa,
mocassino
e borsa
da viaggio
per l’uomo
Gucci
Colore
dominante
il marrone
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46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 24 OTTOBRE 2010
l’incontro
Tante chiese e altrettanti musei
Da cinquant’anni questo
“svizzero molto mediterraneo”
disegna (rigorosamente a matita)
e progetta luoghi
in cui spera di “poter
finalmente conciliare
l’estetica con l’etica”
Non ama gli eccessi
della globalizzazione
e la mondanità in stile
archistar. Perché non vuole correre
il rischio “di diventare un clown”
Preferisce insegnare il suo mestiere
Architetti
Mario Botta
apelli bianchi, disordinati, sguardo vispo e occhialini sulla punta del naso.
Cinquant’anni di carriera
da festeggiare sono tanti, soprattutto se
di anni se ne hanno settantasette, ma
Mario Botta è un lavoratore prima ancora che un architetto. Autore di progetti come il Museo d’arte contemporanea di San Francisco, la sinagoga Cimbalista di Tel Aviv, il Jean Tinguely di Basilea, è uomo infaticabile, rigore svizzero e passione mediterranea. «È che riesco a trovare la serenità di un bambino
solo lavorando. La domenica aspetto
con impazienza che arrivi il lunedì per
rimettermi al tavolo, le vacanze le vedo
come una cosa inutile», racconta nello
studio di Mendrisio in cui si riflette la luce delle montagne. Nella piccola e ordinata cittadina svizzera, dove è nato,
Botta ha creato la sua Accademia di architettura che macina esami e progetti.
Con gli studenti non è tenero, ma forse
solo perché lui, da ragazzo, non ha perso tempo. «Tutto per me è cominciato
ad appena sedici anni, quando decisi di
non andare più a scuola. Ed è stata quella la mia fortuna», racconta senza esitazioni: «Ho chiuso con un’istituzione
che frequentavo malvolentieri sin dall’asilo e che mi trasmetteva solo noia.
Appena ho cominciato a lavorare, tutto
è diventato più facile». Oggi si ritiene un
uomo sereno: «Ho il privilegio di fare un
mestiere che amo e in cui, miracolosamente, anche la matematica diventa
bella e utile. Ogni mattina mi sveglia
una spinta irrazionale al fare, un bisogno di forma espressiva che, in modo
positivo, mi ha reso prigioniero del mio
lavoro. Anche gli ostacoli fanno parte
dell’innamoramento e, alla fine, c’è la
soddisfazione di fornire un servizio agli
altri e di sentirsi parte della storia».
Quando poco più che adolescente
troppo nella costruzione ecclesiale nell’ultimo secolo ha dato il peggio. Eppure è meraviglioso realizzare quello spazio finito, che fa parte dell’infinito, con
una sfida che unisce il silenzio, la gravità, la luce, la meditazione. L’uomo ha
la possibilità di costruire universi dove
la carica metaforica è fortissima e che si
ripetono da duemila anni». Sintetizza
in una frase una cascata di pensieri: «La
vera avventura è riuscire a realizzare
una chiesa dopo Picasso, conciliando
etica con estetica».
Altra passione di Botta, i musei. In
cinquant’anni ne ha realizzati parecchi, dalla Galleria d’arte di Tokyo, al
Museo d’arte contemporanea di San
Francisco, al Mart di Rovereto, al Museo Jean Tingueley di Basilea. Ma anche
qui torna il sacro. Per lui lo spazio espositivo di oggi ha un ruolo analogo a quello della cattedrale di ieri: «Il cittadino va
in un museo per confrontarsi con l’artista e nel realizzarli si raccontano i bisogni dello spirito di una società apparentemente secolarizzata. Tanto che a me
oggi piacerebbe disegnare un convento, un’istituzione totale dove chi entra
sceglie di amare e di morire tra quelle
mura. Il convento rappresenta una città
in miniatura dove ogni settore organiz-
Fossi nato nel deserto
avrei un’altra testa:
nel mio lavoro
i paesaggi e la luce
sono fondamentali
Guardi le case
in Germania:
ogni facciata
ha lo stesso colore
FOTO CONTRASTO
C
MENDRISIO (Svizzera)
Botta decide di lasciare la scuola, diventa apprendista in uno studio di Lugano. Capisce che il suo futuro è il disegno, prende la maturità da privatista e si
iscrive alla facoltà di architettura di Venezia. Il caso, misto all’incoscienza della gioventù, lo aiuta. «In quegli anni mi
capita la fortuna d’incrociare Le Corbusier che è a Venezia per costruire l’ospedale e, con una forza che oggi non avrei
più, mi presento dicendogli di voler lavorare con lui. La determinazione è vincente e m’inseriscono nel suo piccolo
studio veneziano. Le Corbusier era un
genio, grazie a lui la storia della vita diventava la storia dell’architettura, ma è
stato anche un uomo duro e smaliziato». Non è l’unico grande maestro di
Mario Botta. Si laurea infatti con Carlo
Scarpa: «Allora Scarpa era visto con sospetto perché troppo dannunziano e
aristocratico, ma tra noi nacque subito
un buon rapporto. Ancora oggi la sua è
una figura misteriosa e anomala, ricca
di una materialità artigianale che non
concepisce un approccio ideologico.
Scarpa aveva il grande pregio di trasformare in linguaggio contemporaneo i
materiali più poveri». E poi c’è stato Luis
Kahn: «Si presentava a Venezia come
un profeta e io avevo con lui lo stesso tipo di rapporto che ha il fedele nei confronti del Messia. Aveva il dono di cogliere il limite del progresso tecnologico e riproponeva il senso della gravità e
della memoria. Scomparso Kahn è arrivato il postmoderno». Un postmoderno che a Botta, evidentemente, non va
proprio giù: «No, perché rende la storia
una caricatura in cui si confondono gli
stili».
Per lui costruire è un atto sacro, un’azione che trasforma una condizione di
natura in cultura. «Mi sono avvicinato
al sacro in modo profano quando,
nell’86, una chiesa venne distrutta da
una valanga e mi chiamarono per ricostruirla. Il mio dilemma stava tutto dentro la sfida ancestrale tra uomo e natura. In altre parole mi domandavo come
riuscire a conciliare la perenne lotta tra
l’architettura sacra e i nuovi strumenti
che potessero rendere l’opera resistente. Perché disegnare uno spazio architettonico vuol dire predisporre le forme
ambientali affinché i sentimenti possano trovare una loro espressione». Le
chiese da quel momento diventano un
elemento ricorrente nel lavoro di Botta:
la cappella del monastero di Santa Maria a Bigorio, San Pietro e Paolo a Sartirana di Merate, Santa Maria degli Angeli a Monte Tamaro, la chiesa di Papa
Giovanni XXIII a Seriate, Santa Maria
Nuova a Terranuova. «L’architettura
offre strumenti straordinari ma pur-
zativo è misurato alla città ideale, una
riduzione in scala della grande vita collettiva che per l’architetto può essere il
massimo da rappresentare». Ma c’è di
più, nel sogno del convento: «La fascinazione verso quelle persone, e sono
sempre meno, che hanno la forza di una
scelta assoluta».
Botta s’interrompe per una veloce telefonata. Poi riparte vivace, per raccontare quanto conta nel suo lavoro il luogo in cui gli è capitato di nascere: «Cerco di guardare al mio passato con amore ma anche con occhio critico. L’attrazione verso il Mediterraneo è per me
molto forte, e condivido Dürrenmatt
che era molto sarcastico riguardo a
questo dna che ognuno di noi si porta
dalle montagne. Sicuramente se fossi
nato nel deserto avrei un’altra testa,
perché il carattere dominante dell’architetto è dato dal paesaggio e la luce dei
luoghi giocano un ruolo fondamentale
nella creatività. Guardi le case in Germania, ogni facciata ha lo stesso colore.
O prenda gli Emirati Arabi: nessuna
consistenza, non mi piacciono i luoghi
perfettamente orizzontali. Al contrario
amo lavorare in Cina, mi impressiona la
legge dei numeri, e quello è inevitabilmente un Paese che viaggia a una velocità stratosferica. Ora sto lavorando a
una biblioteca, a Pechino, dove vorrei
costruire anche un museo dell’arte occidentale». Un inno al mix della globalizzazione? Tutt’altro: «L’architetto di
oggi lavora soprattutto sul territorio
della memoria dimenticata proprio
dalla globalizzazione, perché la rapidità della trasformazione è proporzionale all’oblio. Noi esistiamo perché ricordiamo e quindi è fondamentale testimoniare il passato».
Nei confronti di un mondo troppo
globalizzato è molto severo: «Per godere a pieno del totale bisogna soprattutto assaporare il locale, solo così ognuno
può maturare i propri anticorpi. In una
società attraversata dalla globalizzazione l’identità non può che passare attraverso l’appartenenza al territorio, alla riconoscibilità di un paesaggio. Per
esempio: quando andiamo nei centri
storici ritroviamo una qualità di vita
straordinaria e spesso è un paradosso
perché quei posti sono espressione di
un popolo estinto, sono le città dei morti». Ed è proprio questa la grande forza
dell’Europa rispetto all’America o alla
Cina: «Le nostre sono città legate al passato da un’identità storica e culturale
unica, in cui è possibile sentirsi parte di
un’umanità che ci appartiene e verso
valori che stanno emergendo con sempre più forza». E allora forse non è un caso se nel lavoro Botta coltiva un’aperta
ostilità anche di fronte agli strumenti
più all’avanguardia (pur riconoscendone le virtù: ad esempio il dimezzamento dei tempi): «Continuo a disegnare a matita perché ha una forza progettuale che manca al computer. Gli
strumenti arcaici spesso portano una
speranza e io con lo schizzo non sono
mai sazio».
L’accademia di Mendrisio è gremita
di studenti. Nel sottofondo mattutino si
sentono i rumori di tanti passi veloci.
Prima dell’estate i “suoi” ragazzi hanno
realizzato un piano di ristrutturazione
di Varese che ha trasformato la città
lombarda in una perla colta e ecologica.
«I giovani sono meglio di come vengono descritti, quando arrivano a settembre quelli del primo anno hanno una
freschezza che, purtroppo, non ritroveranno più. Ma questa è comunque una
scuola di architettura umanistica con
tanta filosofia e tanta arte, una scuola
capace di sollevare problemi e non di
dare delle risposte. Insomma, soprattutto una scuola di pensiero che s’interroga sul significato della vita».
Già, la vita. Mario Botta è un uomo riservato. Tanti figli, una moglie, poche
mondanità. Quanto di più lontano dal
mondo degli archistar: «Il fatto che improvvisamente gli architetti siano diventati dei personaggi da un lato non
può che lusingare e contribuire allo
svecchiamento dell’architettura, ma
indubbiamente il pericolo “clown” è in
agguato. La mediatizzazione ci sta portando ad un’architettura distorta che
diventa autoreferenziale e dimentica
l’interesse collettivo, si spinge troppo
verso la spettacolarizzazione. Io ho rapporti sereni con tutti ma ritengo che
nessuno di noi possa avere la verità in
tasca, a me interessa quel che succede
nel mondo ma non ho la pretesa di avere grandi certezze. Insomma, l’importante è sapere di non poter cambiare il
mondo ma, invece, provare a cambiare
l’architettura».
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IRENE MARIA SCALISE
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