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Marrone Istituzioni di diritto romano

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Marrone Istituzioni di diritto romano
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Manuale di Diritto Privato Romano
M. MARRONE
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Il diritto romano e la sua evoluzione
Il diritto romano è il diritto che ebbe vita in Roma antica dalla fondazione (754 o 753 a.C.) alla
morte di Giustiniano (565 d.C.). Ius per i Romani era il diritto sic et simplìciter, inteso, dunque, sia
come diritto soggettivo sia come diritto oggettivo. Tuttavia, occorre osservare che, fino al III sec.
a.C. lo ius non venne contrapposto al fas, cioè alla religione.
Nel diritto romano arcaico erano differentemente intesi i concetti di ius (che comprendeva le norme
di carattere religioso e consuetudinario) e di lex (che, invece, era la deliberazione proposta dal magistrato e votata dai comizi popolari. Quando la lex, nell’età imperiale, divenne l’unica fonte del diritto, ius e lex non furono più contrapposti, ma si posero nel rapporto di prodotto e di fonte. Lex era
la fonte e ius era il prodotto.
Ciascuna epoca del diritto romano ebbe proprie fonti. Durante il periodo arcaico le norme giuridiche erano prodotte dai mores maiorum, ossia da regole di condotta consuetudinarie tramandate da
padre in figlio, il cui fondamento era attribuito alla volontà divina. Da ciò derivava la certezza
dell’immutabilità del ius civile. Ciò nonostante i mores maiorum richiedevano di essere interpretati
e adattati ai singoli casi concreti attraverso l’interpretatio, prima dei pontefici e poi, a partire dal III
secolo a.C., dei giuristi laici (c.d. interpretatio prudentium). Essa aveva carattere innovativo ed
era pertanto attività creatrice di nuove norme. Tuttavia, i Romani ritenevano che essa avesse natura
chiarificatrice o integratrice dei mores, non riformatrice. La situazione mutò nell’età del principato,
quando i responsa prudentium furono ufficialmente inquadrati tra le fonti del diritto.
L’interpretatio pontificale era effettuata dal collegio dei pontefici, esponenti del patriziato, e pertanto si prestava alla volontà della classe dominante a scapito della plebe. L’esigenza di certezza del
diritto fu soddisfatta con la concessione da parte dei patrizi della prima legge scritta: le leggi delle
XII tavole, seguite da altre leges votate dai comizi patrizio – plebei o da plebiscita, approvati dalle
assemblee della plebe che furono equiparati alle leges dalla lex Hortensia del 287 a.C.
Le disposizioni dei mores maiorum e delle leggi comiziali, interpretate dalla giurisprudenza in modo tale da dar vita ad un sistema coerente ed unitario, rappresentarono il c.d. ius civile.
In seguito alla decadenza dei comizi popolari, che coincise con la crisi della Repubblica e con
l’avvento del Principato, si affermarono due nuove fonti del diritto: il senatusconsultum e la constitutio principis.
Il senatuconsultum era la deliberazione del Senato, ossia ciò che il Senato comandava e disponeva.
Mentre in origine il Senato si limitava ad esprimere pareri sulle leggi, in epoca classica i senatuconsùlta divennero fonte del diritto e furono dotati di forza pari alla legge. Nel periodo imperiale i senatuconsùlta venivano emessi su proposta dell’imperatore e si limitavano a recepire la volontà di
quest’ultimo.
La constitutio principis era ciò che veniva stabilito dall’imperatore. Ultima fonte del diritto a comparire, a partire dal II secolo d.C. divenne l’unica fonte attiva. Man mano che si affermavano i poteri imperiali, infatti, le altri fonti finirono con l’inaridirsi e il potere legislativo fu riconosciuto come
prerogativa esclusiva dell’imperatore.
Fonti del ius honorarium, invece, furono gli edicta. L’edictum era l’ordinanza emanata da un magistrato fornito di potestà di imperio e riguardante le materie di sua competenza. Gli editti più importanti erano quelli del pretore, che diedero origine per l’appunto allo ius honorarium.
La periodizzazione più nota ripartisce la storia di Roma in quattro fasi: periodo arcaico, preclassico, classico, postclassico.
Il periodo arcaico corrisponde a quello della civitas quiritaria e viene tradizionalmente compreso
dalla fondazione di Roma, fino al 367 a.C. anno delle c.d. leggi Licinie Sestie che permisero ai plebei l’accesso ad una delle due magistrature consolari.
La civitas quiritaria sorse dalla progressiva aggregazione delle tre tribù insediate sulle rive del Tevere, quella dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres. Queste tribù erano a loro volta il risultato
dell’unione di minori raggruppamenti politico – parentali (le gentes) che derivavano dalle familiae.
La civitas quiritaria fu, dunque, concepita come comunità di patres familiarum o di Quirities e trovò la sua massima espressione nell’assemblea dei patres, denominata in seguito senatus, che eleggeva un rex vitalizio, vero capo politico e religioso della civitas.
In questa prima fase, l’ordinamento giuridico della civitas si fondava su:
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 Foedera intervenuti tra i capi delle gentes all’atto dell’aggregazione;
 Leges proclamate davanti ai comitia;
 Mores maiorum, cioè consuetudini che regolavano la pacifica convivenza tra le familiae.
La violazione dei foedera, delle leges e dei mores maiorum era considerata nèfas, costituiva, cioè,
un illecito che comportava l’ira delle divinità e permetteva a qualsiasi membro della comunità di ristabilire l’ordine sociale, punendo o uccidendo impunemente lo stesso responsabile.
Col termine ius Quiritium furono inizialmente denominati solo i mores maiorum che, rispetto ai
foedera e alle leges, si caratterizzavano per la particolare autorevolezza, trattandosi di antichi usi.
La fine della civitas quiritaria fu causata dalla rivoluzione plebea, che terminò con l’emanazione
delle leges Liciniae Sextiae, le quali affidarono il comando dello Stato a due pretore – consules, uno
dei quali poteva provenire dalla plebe.
Con la rivoluzione plebea si affermò, a fianco del ius Quiritium, un nuovo sistema giuridico, cui in
dottrina si dà convenzionalmente il nome di ius legitimum vetus, il cui nucleo fu costituito dalle
leggi delle XII Tavole. Tra la fine del V e l’inizio del IV secolo a.C. emerse un’ulteriore fonte di
produzione, indiretta, di ius, costituita dall’attività interpretativa del diritto da parte del collegio sacerdotale dei pontefici (c.d. interpretatio pontificium). In questo modo, ius Quiritium e ius legitimum vetus, integrati con l’attività interpretativa pontificale, finirono con l’unificarsi, confluendo in
un sistema normativo unitario che venne definito ius civile Romanorum.
Il periodo che è compreso dal 367 a.C. al 27 a.C. è denominato preclassico o repubblicano, caratterizzato dalla nascita della Repubblica. Organismi fondamentali della Respublica romana furono:
 Le magistrature, uffici muniti di potere direttivo e, talvolta, anche civile e militare;
 Le assemblee popolari, che eleggevano i magistrati;
 Il Senato, che aveva funzione consultiva nei confronti dei magistrati ed i cui pareri erano
denominati senatuconsùlta.
Nel periodo preclassico, la spina dorsale dell’ordinamento giuridico romano fu costituita dal ius civile vetus. Le sue fonti erano gli antichi mores maiorum del ius Quiritium, le leges del ius legitimum vetus e l’interpretatio prudèntium, attività esercitata da giuristi laici che si dedicavano allo
studio del diritto.
Sul finire del’epoca classica venne attribuito valore vincolante al parere dei giureconsulti e si giunse
gradualmente a far coincidere il ius civile con la sola interpretazione giurisprudenziale.
A partire dalla seconda guerra punica ebbe inizio l’espansione romana nel Mediterraneo. Essa comportò la trasformazione della società romana da agricola a mercantile, a cui fece seguito un mutamento dello Stato, con l’affermazione di tendenze imperialistiche. Conseguenza di tale evoluzione
socio – economica fu la trasformazione dell’ordinamento giuridico romano cui contribuì l’attività
delle due nuove figure giurisdizionali del pretore urbano e del pretore peregrino.
Il pretore urbano, istituito intorno al 367 a.C., emanava ogni anno, all’atto della sua entrata in carica, un editto con il quale indicava i criteri cui si sarebbe attenuto nell’amministrazione della città. Il
pretore non poteva abrogare le norme del ius civile ma, in forza dell’imperium di cui era titolare,
poteva regolare il caso concreto in modo differente, qualora l’applicazione del ius civile avesse
condotto a risultati ritenuti iniqui.
Le nuove regole introdotte presero il nome di ius honorarium, il quale non giungeva mai sino al
punto di negare la validità dello ius civile ma, se in contrasto con esso, si limitava a sostituirlo
nell’applicazione pratica.
Intorno al 242 a.C. venne istituita la magistratura del pretore peregrino, con il compito di dirimere
le controversie tra Romani e stranieri o tra stranieri che si trovassero a Roma. Il magistrato risolveva le questioni di volta in volta attraverso una procedura molto rapida, creando la regola di giudizio
da adattare al caso concreto. Ciò perché nelle liti tra cittadini e peregrini o tra questi ultimi non era
applicabile il diritto romano. Il pretore peregrino risolveva le liti in base ai principi comuni a tutti i
popoli.
Il periodo classico corrisponde a quello del Principato che viene convenzionalmente fatto decorrere dal 27 a.C., anno del colpo di Stato di Augusto, al 284 d.C., anno in cui morì Diocleziano.
Accanto alle strutture repubblicane ordinarie (magistrature, comizi, senato), il principe si affermò
come supremo moderatore della cosa pubblica ed acquistò una posizione di preminenza costituzionale nel sistema politico romano, in forza di due poteri concessigli, almeno formalmente, dalle
assemblee repubblicane:
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 La tribunicia potestas, di cui erano titolari in origine i soli tribuni della plebe e che consisteva nel potere di intercessio contro tutti gli atti dei magistrati repubblicani;
 Il c.d. imperium proconsolare maius et infinitum, consistente nel supremo potere militare.
Si affermò anche una nuova fonte di diritto, non omogenea rispetto a quelle preesistenti, e per questo extra ordinem, e frutto dell’intervento diretto del principe nella vita giuridica. L’intervento si
manifestava attraverso constitutiones, che si distinguevano in:
 Edìcta, che enunciavano i criteri direttivi cui gli imperatori desideravano si attenessero i
magistrati delle province;
 Mandàta, che erano istruzioni impartite dal principe ai funzionari amministrativi da lui direttamente dipendenti;
 Rescrìpta, che erano i responsi del principe sulle questioni pratiche sottoposte alla sua cognizione. Questi atti potevano assumere la forma di epìstulare (se consistevano in lettere di
risposta indirizzate dal principe ai magistrati che a lui si erano rivolti per il parere) oppure la
forma di rescrpìta in senso stretto (i quali consistevano in un parere annotato in calce alla
richiesta (libellum) presentata da un privato;
 Decrèta, ossia sentenze emanate dal principe senza il rispetto delle forme di procedura ordinaria.
Per effetto di questi procedimenti si creò uno ius novum che sostituì sia quello civile sia quello honorarium. Ancor più importante delle constitutiones principum fu lo sviluppo della scienza del diritto e, quindi, dei giureconsulti.
L’opera principale della giurisprudenza classica fu quella di riordinare i due sistemi dello ius civile
e dello ius honorarium e di coordinarli con lo ius novum. Non mancò, tuttavia, una certa attività
creativa da parte dei giureconsulti. Tale attività fu incrementata grazie allo ius publice respondèndi, introdotto da Augusto e disciplinato da Tiberio.
Lo ius publice respondèndi consisteva in una sorte di patente di buon giurista concessa
dall’imperatore, per effetto della quale il parere espresso dal giurista che ne era fornito godeva di
particolare autorevolezza ed era comunemente accettato. Tuttavia, questo istituto decadde ben presto e già con Traiano può ritenersi scomparso.
In questa fase ebbe grande importanza la Constitutio Antoniniana emanata dall’imperatore Antonino Caracalla nel 212 d.C., con la quale fu concessa la cittadinanza romana a tutti gli abitanti
dell’impero. Per effetto di tale concessione il diritto romano divenne diritto di tutto l’impero. La
conseguenza fu che ben presto si crearono conflitti tra il diritto locale ed il diritto romano universale, che finì spesso con l’adeguarsi a quello locale.
Il periodo postclassico del diritto romano è caratterizzato dalla monarchia assoluta e cronologicamente si colloca tra la morte di Diocleziano (284 d.C.) e l’ascesa di Giustiniano (527 d.C.). In questo periodo lo Stato fu concepito come Stato patrimoniale, considerato come dominio assoluto
dell’imperatore.
La conseguenza di tale concezione fu il totale inaridimento delle fonti repubblicane (leges, senatuconsùlta, edicta magistràtuum) e la definitiva affermazione della volontà del principe come fonte
unica del diritto.
In epoca postclassica, accanto all’assolutismo del potere del principe, intervennero altri fattori che
contribuirono a stravolgere il diritto romano:
 La progressiva sostituzione del cristianesimo al paganesimo che portò alla radicale modificazione del sistema economico e di molti istituti giuridici;
 Il venir meno della classe senatoria;
 Il sovrapporsi, alla popolazione dell’impero e alla civiltà romana, di nuovi elementi non romani né romanizzati, i c.d. barbari;
 Il trasferimento in Oriente del centro dell’impero, con il lento ma continuo prevalere degli
influssi ellenistici;
 L’involuzione dello spirito giuridico, che portò alla graduale sostituzione dell’efficacia ed
immediatezza del pensiero classico con un approccio bizantinista che si perdeva in dotte, ma
sterili classificazioni prive di contenuto pratico.
Tra i numerosi elaborati della giurisprudenza postclassica, ricordiamo:
 I tituli ex corpore Ulpiani, opera postclassica, risalente al IV secolo, che costituisce una trattazione elementare e riassuntiva di brani gaiani e ulpianei.
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 Le Pauli Sententiae, antologia di scritti giuridici compilata durante il principato di Diocleziano, sulla base di opere di Paolo.
 L’Epitome Gai, redatta nelle scuole d’Occidente nel V sec. d. C. sulla base delle Institutiones di Gaio.
 I Fragmenta Vaticana sono circa 400 frammenti, raccolti in Occidente da un privato si pensa nel IV secolo. L’opera era suddivisa in titoli nei quali erano riportati brani di Paolo, Papiniano, Ulpiano e alcune costituzioni imperiali.
 La Collatio è un’opera che si prefiggeva di dimostrare che le leggi romane derivavano da
quelle mosaiche, perciò erano posti a confronto passi della legge mosaica e testi romani.
 Il Liber Syro – Romano è un’opera scritta in greco di cui si hanno traduzioni in siriaco e in
arabo. In questo testo è raccolto il solo ius civile aggiornato con le costituzioni emanate da
Costantino in poi.
Il notevole incremento delle costituzioni imperiali fece sorgere l’esigenza di raccogliere le varie leges in collezioni ordinate (i c.d. Codex) al fine di consentire la conoscenza di tutte le leggi applicabili. Inizialmente tale attività fu svolta dalla giurisprudenza e, pertanto, non si trattò di compilazioni
ufficiali. Nel periodo di transizione tra principato ed Impero furono redatte due raccolte di leggi
speciali, il Codice Gregoriano costituito da rescritti di Adriano e Diocleziano, e il Codice Ermogeniano che fu una sorta di ampliamento del Codice Gregoriano.
Nel 438 l’imperatore Teodosio II fece compilare un Codex, che prese il nome di Codice Teodosiano, il quale raccoglieva solo leges generales, ossia provvedimenti normativi generali ed integrò i
due codici precedenti, ai quali fu conferito riconoscimento ufficiale.
Menzione a parte meritano le c.d. leggi romano – barbariche. Tra esse vanno innanzitutto ricordate
il Codex Eurici e l’Edictum Theodorici. Il primo fu pubblicato dal re dei Visigoti Eurico e tale
codice si ritenne applicabile sia ai romani che ai Visigoti. Il secondo fu emanato da Teodorico II e
anch’esso si applicò sia alla popolazione romana sia a quella visigota. In questo modo Eurico e Teodorico dimostrarono di accettare, almeno formalmente, la supremazia dell’impero romano.
Altre raccolte di rilievo furono la Lex Romana Wisigothorum, pubblicata dal re visigoto Alarico
II e la Lex Romana Burgundionum emanata da Gundobado, re dei Burgundi. I re che le adottarono dimostrarono di rifiutare la supremazia romana e del diritto romano sui loro popoli, in quanto esse furono ai soli rapporti tra Romani.
L’Impero di Giustiniano (527 – 565) segnò l’ultimo bagliore della romanità. Giustiniano riuscì ad
attuare l’unità dell’Impero, riunendo sotto il suo dominio Oriente ed Occidente, ma riuscì anche a
far risplendere il senso di romanità mediante la definitiva sistemazione del diritto romano.
Anche Giustiniano, come gli imperatori che lo avevano preceduto, mirò alla raccolta di iura e leges
vigenti. Con il termine iura si fa rifermento a frammenti di operare di giuristi classici, per leges si
intendono, invece, le costituzioni imperiali.
L’insieme delle compilazioni giustinianee è stata denominata dai posteri Corpus iuris civilis.
L’opera di compilazione ebbe inizio nel 528, quando Giustiniano nominò una commissione di 10
membri con il compito di compilare un nuovo codice, che doveva contenere il materiale dei codici
Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano e le ultime costituzioni imperiali. L’opera, che prende il
nome di Codex Iustinianus, fu compiuta in brevissimo tempo e il codice fu pubblicato nell’aprile
del 529. Ben presto, di fronte all’imponenza della legislazione giustinianea, fu necessaria una seconda, più completa e aggiornata edizione del Codex Iustinianus, pubblicata nel 534.
Nel dicembre del 530 Giustiniano ordinò la realizzazione di una compilazione di iura: i Digesta. Si
trattava di raccogliere l’opera dei giureconsulti classici muniti di ius publicae respondendi, senza
l’obbligo di preferire il parere di un autore rispetto ad un altro. Il Digesto fu pubblicato nel dicembre del 533.
Mentre era ancora in corso il lavoro per il Digesto, Giustiniano ordinò a Triboniano, Teofilo e Doroteo di compilare un trattato elementare di diritto, destinato a sostituire le Istituzioni di Gaio. Le
Institutiones vennero pubblicate nel novembre del 533.
Giustiniano non limitò la sua opera alla compilazione, ma si dedicò anche alla pubblicazione di
nuove costituzioni, Novellae, delle quali alcune si segnalano per la vasta portata innovativa.
Il concetto di persona in diritto romano
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Il termine persona nella terminologia romanistica aveva il significato originario di maschera teatrale e, più frequentemente, di uomo. In epoca gaiana, persona era anche lo schiavo, anche se giuridicamente era considerato una cosa, oggetto e non soggetto di diritti. Gaio considerava lo schiavo una
persona in quanto anche i servi avevano la possibilità di acquistare la soggettività giuridica.
I romani non avevano termini tecnici idonei ad esprimere i concetti di soggetto di diritto e di persona giuridica. Essi facevano uso di diverse espressioni come, ad esempio del termine caput che designava l’essere umano in ogni sua possibile condizione.
Caput letteralmente significa “testa” e, quindi interpretandolo estensivamente, individuo il quale
poteva essere indifferentemente un servile caput o un liberum caput. Il termine in senso tecnico esprimeva l’appartenenza ad una categoria di persone e veniva usato solo nell’espressione capitis
deminutio, che nel diritto classico indicava la perdita della libertà (capitis deminutio maxima), la
perdita della cittadinanza (capitis deminutio media) o della posizione che occupava nella famiglia
(capitis deminutio minima).
Nella terminologia romanistica, più importante era la parola status che indicava la posizione
dell’individuo in relazione ad un determinato sistema di rapporti:
 Come uomo libero (status libertàtis);
 Come cittadino (status civitàtis);
 Come membro della famiglia (status familiae).
La persona fisica iniziava la vita con la nascita. Occorreva, però, essere nati vivi e anche un solo
breve istante di vita bastava perché la persona acquistasse diritti e li trasmettesse, immediatamente
dopo la morte, ai suoi successori.
Discusso era il modo di accertare se l’individuo fosse o meno nato vivo. Per la scuola proculiana
occorreva che il soggetto avesse emesso almeno un vagito; per la sabiniana (la cui tesi finì col prevalere) bastava un qualsiasi segno di vita, come la respirazione, il movimento e così via.
Tendenzialmente, i giuristi romani ritennero che il nascituro, non essendo in rerum natura (cioè non
essendo in vita quando si trova nel ventre materno) costituisse solamente una pòrtio muliéris (parte
della donna) e, pertanto, fosse privo di soggettività giuridica. Col tempo, tuttavia, gli fu riconosciuta
una limitata tutela giuridica, sotto due profili:
 Si punì il procurato aborto, considerato come lesione cagionata alla madre o al diritto del
padre;
 Dal punto di vista strettamente civilistico:
a) per il nascituro istituito erede o beneficiato di un legato, la legge prevedeva la nomina di un
curatore speciale con il compito di conservare i beni che sarebbero spettati al nascituro;
b) per il principio fàvor libertàtis, nasceva libero e non servo il figlio di chi era libero al momento del concepimento, ma aveva successivamente perso la libertà.
L’estinzione della persona fisica avveniva con la morte. Per il caso di commorienza, e cioè di morte nello stesso sinistro di più persone imparentate tra loro senza che ci fosse la possibilità di stabilire
chi fosse morto per prima, il diritto classico presumeva in modo assoluto (presunzione iuris et de
iure) che tutti fossero morti nello stesso momento. In diritto giustinianeo nel caso di morte del genitore e del figlio, prevalse il principio della maggiore o minore resistenza fisica: si consideravano,
pertanto, morti prima i più deboli.
Con la morte di un soggetto, le situazioni giuridiche che a lui facevano capo si trasferivano ai successori o si estinguevano. In alcuni casi, tuttavia, si fingeva che il morto fosse ancora titolare di situazioni giuridiche (ad es., in caso di eredità passiva, che comportava infamia, poteva esser fatta a
carico del debitore insolvente defunto, sul quale ricadeva l’infamia stessa).
Lo status libertàtis: i liberi e i servi
La fondamentale distinzione nell’ambito del diritto delle persone è che tutti gli uomini sono o liberi
o schiavi. A loro volta tra gli uomini liberi alcuni sono ingenui (nati liberi), altri liberti (liberati da
una schiavitù in modo conforme al diritto).
Tra i fatti estintivi della libertà, ricordiamo:
 condanne penali o provvedimenti normativi che riducevano in schiavitù un cittadino resosi
responsabile di gravi illeciti;
 la prigionia di guerra presso popoli stranieri;
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 la vendita da parte del pater familias, molto diffusa in epoca arcaica, ma caduta ben presto
in disuso.
In origine il fenomeno della schiavitù non ebbe grande rilevanza. A partire dal IV secolo a.C., a
causa delle numerose guerre vinte, il numero degli schiavi crebbe notevolmente.
Il dominus aveva sullo schiavo lo stesso potere che la legge attribuiva sulle cose al proprietario (ius
vitae ac necis, diritto di vita e di morte). La facoltà di disporre, che arrivava sino all’uccisione, fu
grandemente attenuata. La sensibilità dei giuristi romani ritenne perseguibile il dominus che ingiustificatamente avesse ucciso uno schiavo o gli avesse arrecato maltrattamenti ripugnanti per la collettività.
Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, la condizione degli schiavi era simile a quella dei filii
familias, in quanto la capacità patrimoniale spettava al solo pater familias. Quest’ultimo, però, soleva assegnare ai più meritevoli tra i suoi sottoposti un piccolo patrimonio (c.d. peculium) che di
fatto apparteneva al beneficiario.
Lo schiavo poteva compiere atti giuridici, i cui effetti ricadevano, però, nella sfera giuridica del
dominus.
Se lo schiavo commetteva un delitto privato, il dominus poteva pagare la pena pecuniaria o abbandonare il reo al danneggiato.
Il cittadino libero caduto nelle mani del nemico subiva la càpitis deminutio maxima e cadeva in
uno stato di sérvitus iniusta, ossia non conforme allo ius civile. Lo stato servile non si considerava
definitivo e cessava se il prigioniero riusciva a rientrare entro i confini dello Stato romano con
l’intenzione di restarvi.
Non mancavano, tuttavia, ipotesi nelle quali il cittadino cadeva in iusta sérvitus. Ciò si verificava:
 nel caso del debitore venduto dal creditore trans Tìberim (oltre il Tevere) per non aver pagato il debito;
 nel caso del cittadino che non avesse provveduto a farsi iscrivere nelle liste del censo, che
fosse stato venduto trans Tìberim e per colui che si fosse sottratto alla leva militare;
 nel caso del cittadino che, per aver violato lo ius gentium, era stato consegnato dal pater familias al popolo straniero offeso.
Il principale modo di acquisto della libertà dello schiavo fu la manumìssio, un atto irrevocabile che
faceva divenire il servo, libero e cittadino romano.
Lo schiavo manomesso si chiamava libértus; il soggetto che poneva in essere la manumìssio, patronus. Con la manumìssio lo schiavo non diventava in tutto uguale all’uomo nato libero, ma acquistava uno status particolare. Infatti:
 i liberti erano esclusi da alcune cariche pubbliche e venivano raggruppati in pochissime tribù, in modo che il loro voto avesse minore valore rispetto a quello degli ingenui;
 le liberte non potevano contrarre matrimonio con soggetti di rango senatorio;
 il liberto doveva al patrono obséquium, operae, bona.
In posizione senz’altro migliore rispetto agli altri era il c.d. libertus orcìnus, ossia lo schiavo manomesso per testamento. Essendo, infatti, la manomissione conseguente alla morte del padrone, il
libertus orcìnus non aveva alcun patronus.
Le forme solenni con le quali venivano affrancati gli schiavi furono tre:
 manumìssio vindìcta, che consisteva in un finto processo nel quale un cittadino, il c.d.
adsértor in libertàtem¸ in forma solenne dichiarava nei confronti del padrone lo stato di
libertà dello schiavo.
 manumìssio censu che veniva compiuta dal padrone e consisteva nell’iscrivere lo
schiavo che si voleva affrancare nelle liste dei cittadini;
 manumìssio testamento che era la dichiarazione, fatta dal padrone nel proprio testamento,
di voler affrancare il proprio schiavo e poteva aversi:
a) per directis verbis, cioè quando era ordinata direttamente dal testatore, con la conseguenza
che lo schiavo diventava libero al momento dell’accettazione dell’eredità da parte
dell’erede;
b) per fideicommìssum, quando il testatore imponeva all’erede, al legatario o al fedecommissario l’obbligo di liberare un servo determinato.
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Nel periodo repubblicano prevalsero forme meno solenni. Si diffuse, infatti, la manumìssio inter
amicos, che avveniva in forma orale davanti a testimoni. In epoca classica e postclassica dalla manunìssio inter amicos derivarono due autonome forme di affrancazione: la manumìssio per epistulam, consistente in uno scritto indirizzato ad una persona, in cui era espressa la volontà di liberare
lo schiavo, e la manumìssio per mensam, cioè quella fatta durante un banchetto alla presenza dei
convitati.
In epoca imperiale, sotto l’influsso del cristianesimo, venne introdotta una nuova forma di manomissione, la manumìssio in Ecclesia, consistente in una solenne dichiarazione di voler liberare lo
schiavo fatta dal padrone davanti all’autorità ecclesiastica.
Lo status civitatis
Per l’acquisto della piena capacità giuridica occorreva che il soggetto fosse nato libero, civis romanus e sui iuris.
Fino all’epoca classica, a causa della progressiva espansione territoriale di Roma, molte erano le
persone libere ma sprovviste del requisito della cittadinanza.
In età arcaica, cives erano solo gli abitanti dell’Urbe, quindi Roma e territori limitrofi. Quando Roma conquistò nuovi territori, lo Stato si allargò ma non fu abbandonata la vecchia concezione dello
Stato – città. Gran parte dei non cives era costituita dai peregrini i quali facevano parte di popolazioni viventi nell’orbita dello Stato romano e da questo soggiogate.
Latini erano i cittadini delle città latine facenti parte della federazione con le città del Lazio e costituivano una categoria intermedia tra cives e peregrini.
Le fonti distinguono i Latini in tre gruppi:
 Prisci, che erano gli antichi abitanti del Lazio e delle città latine federate con Roma. Ad essi
fu riconosciuto il ius commercii e il ius connubii, ma non la capacità di fare testamento e la
patria potestas.
 Coloniarii, che erano gli appartenenti alle colone latine formate da Latini e cittadini e avevano capacità identica a quella dei Latini Prisci.
 Iuniani, che erano i Latini creati dalla Lex Iunia Norbana del 19 d.C. (la quale disciplinò le
affrancazioni non solenni) e Aeliani, che erano i Latini creati dalla lex Aelia Sentia del 4
d.C. (ossia i servi manomessi in età inferiore ai trent’anni). Costoro si trovavano in una posizione inferiore rispetto agli altri gruppi di Latini. Infatti godevano del solo ius commercii.
Alla loro morte il loro patrimonio tornava al loro padrone, come se non fossero stati mai affrancati.
Peregrini erano gli stranieri, ossia costoro che non erano né Romani né Latini. Essi si distinguevano
in:
 Peregrini alicùius civitatis, ossia gli abitanti delle città straniere conquistate da Roma e non
distrutte. A costoro era prescritta l’osservanza dello ius gentium nei rapporti con i Romani
ed erano liberi di seguire i propri ordinamenti nelle rispettive comunità.
 Peregrini dediticii, ossia gli abitanti di città straniere distrutte dai Romani perché arresesi
dopo una resistenza ad oltranza. A costoro era prescritta esclusivamente l’osservanza dello
ius gentium.
Già verso la fine dell’età repubblicana, la distinzione tra cives, Latini e peregrini perse rilievo, poiché iniziarono ad essere emanate alcune lex che concessero la cittadinanza romana a determinati
gruppi. In seguito di volta in volta gli imperatori concessero la cittadinanza romana a intere comunità o singole persone, fin quando nel 212 d.C. la Constitutio Antoniniana, emanata da Antonino
Caracalla, estese la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero organizzati in comunità.
Lo status familiae
Lo status familiae indicava l’appartenenza di un soggetto liber e civis ad una determinata familia.
Lo status familiae, di per sé, non influiva sulla capacità giuridica. In ambito familiare, si distinguevano le persone sui iuris, che avevano piena capacità giuridica, dalle persone alieno iure subiectae.
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Era sui iuris l’individuo che non era soggetto ad alcun potere familiare, cioè che non aveva ascendenti maschi o che era stato emancipato. Questi, se di sesso maschile, si chiamava pater familias,
anche se privo di discendenti o sottoposti.
Persone alieni iuris erano tutte quelle sottoposte ad una qualsiasi potestà familiare e che quindi erano in potestate (figli legittimi e adottati), in manu (le donne entrate nella familia per matrimonio
con il pater o con le persone a lui sottoposte), in mancìpio (coloro che si trovavano nella familia in
quanto venduti dal loro pater familias).
Rispetto al diritto pubblico il filius aveva piena capacità, potendo accedere alle supreme magistrature. L’incapacità riguardava la sfera patrimoniale, quindi civilistica.
Cause minoratrici della capacità
Non sempre la capacità di agire coincideva con la capacità giuridica delle medesima persona. Le
cause che escludevano o diminuivano la capacità di agire erano molteplici.
Innanzitutto, l’età. Infatti i Romani ritenendo che lo sviluppo sessuale fosse accompagnato da un
analogo sviluppo intellettuale, ammisero che la piena capacità giuridica si acquistasse con il raggiungimento dell’età pubere. Mentre per i Sabiniani bisognava accertare lo stato di pubertà caso per
caso mediante ispezione corporale, per il Proculiani, l’età pubere era raggiunta senz’altro al compimento dei 14 anni per i maschi e dei 12 per le donne.
Altra causa minoratrice era l’infamia. Essa era connessa all’esercizio di determinati mestieri, che i
Romani consideravano turpi, come l’attività gladiatoria. Essa, inoltre, colpiva il responsabile di atti
socialmente riprovevoli. L’infamia privava il cittadino del diritto di voto e del diritto di rivestire cariche pubbliche.
Privati della capacità di agire erano gli addicti ed i nexi. Addicti erano i debitori inadempienti, i
quali venivano con la manus iniéctio asserviti al proprio creditore. Questi aveva la facoltà di tenerli
in catene nel suo carcere privato o venderli come schiavi o, addirittura, ucciderli.
Nexi, invece, erano i debitori consegnatisi volontariamente al creditore a garanzia del proprio debito, con la facoltà di riscattarsi prestando a suo favore servizi.
Condizione particolare era quella degli auctoràti e dei redémpti ad hòstibus. I primi erano coloro i
quali avevano locato i loro servigi al c.d. lanìsta, ossia ad un impresario di ludi gladiatorii. I secondi erano i cittadini riscattati, da un altro soggetto, dalla loro prigionia. Entrambi restavano formalmente liberi, ma di fatto erano subordinati gli uni al lanìsta e gli altri al redémptor, a cui vantaggio
dovevano prestare determinati servigi.
Fino al V secolo a.C. i plebei furono privi del connubium nei confronti dei patrizi. La lex Canuleia
del 445 a.C. abolì questa limitazione, concedendo la possibilità di contrarre liberamente le nozze tra
patrizi e plebei.
Oltre ai mestieri turpi (quali lanista, becchino, gladiatore, ecc.) va ricordato che per altri, come
quello di fabbro, pompiere, minatore, vigeva in epoca postclassica il principio dell’appartenenza
coattiva, nel senso che chi svolgeva tale attività non poteva intraprenderne un’altra, e la stessa si
trasmetteva ai discendenti.
Nell’ordinamento patriarcale romano, in cui aveva una notevole importanza la potestas del pater
familias, le donne si trovavano in stato di netta inferiorità rispetto agli uomini.
Nell’epoca pagana il credo religioso non influiva sullo stato delle persone, dal momento che tutti i
culti erano tollerati. Al contrario, la religione cristiana trovò a Roma ostilità per il rifiuto, opposto
dai fedeli, di onorare l’imperatore come se fosse una divinità. Tale atteggiamento rientrava tra i
crimina pubblica ed era punibile con la pena capitale. Dopo l’Editto di Costantino del 313 d.C.,
con cui veniva sancito il riconoscimento ufficiale del Cristianesimo, vennero meno le dette sanzioni.
Alcune infermità fisiche, se permanenti, davano luogo ad incapacità. Gli impotenti e gli evirati non
potevano contrarre matrimonio, in quanto non potevano procreare. Il sordomuto, il sordo e il muto
non potevano compiere il testamento orale. In generale i sordomuti erano incapaci di compiere
qualsiasi atto solenne del ius civile dal momento che non potevano porre in essere tutte quelle formalità e quelle dichiarazioni orali necessarie all’esistenza dell’atto.
Quanto alle infermità mentali, i Romani non sancirono regole generali, ma disciplinarono solo alcune ipotesi:
 il furiosus (pazzo) era del tutto incapace di agire ed era sostituito nella sua attività da un curator furiosi. Poiché l’infermità di mente non si riteneva desse luogo ad uno stato di incapa9
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cità permanente, l’atto del furiosus era ritenuto valido se compiuto durante un lucido intervallo;
 il mente càptus, cioè il soggetto che si fosse fatto per debolezza condizionare in ordine al testamento, era equiparato al furiosus;
 il pròdigus (soggetto affetto da prodigalità) era equiparato al furiosus, perdeva il ius commercii ed era sottoposto a curatela;
 erano incapaci e sottoposti a curatela i débiles, cioè coloro che per una qualsiasi ragione non
potevano bene occuparsi del proprio patrimonio.
La persona giuridica
I romani non conoscevano il concetto di persona giuridica. Tuttavia, una certa soggettività giuridica
fu riconosciuta ad alcuni enti associativi.
Il populus romanus Quiritium inteso come ente astratto si distingueva dai singoli cittadini e dalle
comunità assoggettate, in virtù della sua sovranità. Il populus romanus Quiritium disponeva di un
proprio patrimonio, distinto da quello dei singoli cittadini.
Anche il fisco era considerato una res prìncipis, infatti era identificato nella cassa imperiale ed apparteneva all’imperatore, ma si distingueva dal patrimonio imperiale in quanto, alla morte
dell’imperatore, non si trasmetteva ai suoi eredi, ma passava al nuovo principe.
I municìpia erano comunità alle quali era stata concessa la civitas Romana cum suffragio o sine suffragio; le colòniae, invece, erano caratterizzate dal fatto che i loro membri erano Romani (c.d. colòniae cìvium Romanorum) o parificati ai Latini (c.d. colòniae Latinae).
In origine, tali enti erano privi della capacità di ricevere per testamento, pur se col tempo si ammise
che potessero essere destinatari di legati e fedecommessi.
Altri enti associativi cui fu riconosciuta una certa soggettività furono i collégia, che avevano in prevalenza scopo di culto, e le sodalitàtes, che avevano scopi ricreativi e di mutua assistenza.
Generalmente si nega che i Romani abbiano riconosciuto le c.d. fondazioni, ossia i patrimoni destinati a beneficio di una categoria di persone o comunque destinati alla realizzazione di un determinato scopo. Tuttavia, ad esse, sono riconducibili i casi delle piae cause e dell’heréditas iàcens, cui, in
periodo classico, venne negata soggettività giuridica.
Le piae cause consistevano in un insieme di beni lasciati, per scopi di culto o beneficenza, ad un
ente o ad un ufficio (ad es. ad una chiesa). Tali beni andavano a confluire nel generale patrimonio
della chiesa stessa, la quale era obbligata alla realizzazione degli scopi fissati dal testatore.
Solo nell’età giustinianea fu riconosciuta la personalità ai patrimoni autonomi. È il caso dell’eredità
giacente, cioè del patrimonio ereditario di un soggetto defunto, che resta privo di titolarità fino a
quando il soggetto istituito erede non esprime la volontà di accettare l’eredità.
La famiglia e il matrimonio
In diritto romano, il termine familia ricomprendeva il capofamiglia (c.d. pater familias) e tutte le
persone libere a lui sottoposte, quali la moglie, i figli con le loro famiglie e così via.
La concezione romana della famiglia era patriarcale: al pater familias erano sottoposti la moglie,
verso cui aveva la c.d. manus maritali, i figli, attraverso l’esercizio della patria potestas, e tutti i
beni della comunità (schiavi e cose), su cui esercitava la c.d. domìnicia potestas.
Quando il pater familias moriva o perdeva la propria capacità giuridica, la famiglia si scioglieva e si
andavano a formare tante nuove famiglie ed indipendenti quanti erano i soggetti liberi a lui legati.
Il rapporto che legava tra di loro i vari componenti della familia era l’agnàtio, cioè la discendenza
da un comune capostipite maschio, attraverso altri maschi. Il vincolo d’agnazione era computato a
gradi, considerando le varie generazioni disposte su scale, a capo delle quali vi era il capostipite.
Nei rapporti tra ascendenti e discendenti (es. padre figlio, nonno nipote) il grado era dato dal numero delle generazioni (così, padre figlio erano di primo grado, nonno nipote di secondo). Nei rapporti
tra collaterali (es. fratelli, zio nipote), il grado era dato risalendo al capostipite comune e poi discendendo da esso fino all’altro agnato, escludendo il capostipite (così, tra fratelli l’agnazione di secondo grado, tra zio e nipote di terzo).
L’agnatio aveva rilievo ed efficacia fino al settimo grado. Da essa occorre distinguere la adfìnitas,
ossia il vincolo tra un coniuge e i parenti dell’altro.
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In età postclassica l’istituto familiare subì notevoli mutamenti. In particolare, con riferimento
all’esercizio della patria potestà, fu abolito il c.d. ius vitae ac necis (diritto di vita e di morte) del
padre sui figli e si affermò, in via generale, la capacità patrimoniale dei figli.
Il matrimonium
Nel diritto romano, il matrimonio era il fondamento della familia propria: esso fu definito da Modestino come coniùctio màris et fèminae et consòrtium òmnis vitae, divìni et humàni iuris communicàtio.
Il matrimonio, subì varie modifiche nel corso delle varie epoche storiche, ma alcuni principi rimasero sempre validi. In particolare:
 il principio della monogamia: in nessuna epoca del diritto romano fu consentito ad un uomo
avere due o più mogli legittime e la bigamia era colpita da infamia;
 il principio della con sensualità: nel diritto romano, non fu mai l’atto formale a far sorgere il
vincolo coniugale, ma il consenso (c.d. afféctio maritàlis);
 il principio esogamico, per il quale il matrimonio era concepibile solo tra soggetti appartenenti a gruppi familiari differenti.
La forma più antica di matrimonio era costituita dal c.d. matrimonium cum manu. La donna che
lo contraeva usciva dalla famiglia d’origine ed entrava in una famiglia nuova, in condizione di sottoposta.
Il maritus (o il pater di lui) acquistava sulla moglie una particolare potestà, che prendeva il nome di
manus maritàlis. La donna perdeva ogni rapporto di agnazione con i suoi familiari di origine e
quindi ogni aspettativa sulla loro eredità. Nel contempo, entrava a far parte della famiglia del marito, in loco filiae rispetto al maritus o loco neptis rispetto al pater di lui.
La perdita di ogni relazione con la famiglia d’origine era determinata dalla conventio in manu Se la
donna era sui iuris, ella apportava al maritus sui iuris tutto il suo patrimonio.
Fatti costitutivi della manus maritàlis erano:
 confarreàtio: si trattava di una cerimonia religiosa compiuta alla presenza del flàmen Diàlis
e di dieci testimoni. Gli sposi spezzavano insieme un pezzo di focaccia di farro, manifestando così la volontà di unirsi in matrimonio;
 coèmptio: si trattava di un’applicazione della mancipatio e consisteva nella mancipatio della
mulier al maritus da parte del pater di lei. Il maritus pagava il prezzo simbolico di una moneta e dichiarava di assumerla come moglie;
 usus: si trattava di un’applicazione del principio dell’usucapione. Per evitare che eventuali
vizi della coèmptio impedissero il verificarsi degli effetti, il marito acquistava la manus sulla
donna grazie all’usus prolungato derivante dalla coabitazione di almeno un anno.
Come già detto, la conventio in manu comportava, per la donna, la perdita di ogni legame con la
famiglia di provenienza, compresi i diritti successori. Allo scopo di evitare che l’agnàtus pròximus
potesse impedire le nozze, fu previsto un nuovo tipo di unione matrimoniale, caratterizzato dal fatto
che la convivenza non comportava la soggezione della moglie alla manus maritàlis.
A tal fine fu utilizzata una disposizione contenuta nella legge delle XII Tavole, che prevedeva
l’interruzione dell’usus sulla moglie, nel caso in cui la donna si fosse allontanata dalla cosa coniugale per tre notti. In questo modo conservava lo status familiae originario. Tale tipo di unione venne
soprannominata matrimonium sine manu. Negli ultimi secoli della Repubblica tale figura fu così
prevalente, da poter essere considerata come il matrimonio tipico del diritto romano.
In epoca classica, le forme della celebrazione del matrimonium cum manu divennero desueti.
In epoca postclassica, a seguito dell’influsso del cristianesimo, il matrimonio si andò configurando
come negozio giuridico. Per il sorgere del vincolo non occorreva più l’usus o il permanere
dell’affectio, ma bastava il consenso iniziale dei nubendi.
Giustiniano introdusse il principio per il quale la prova dell’esistenza o della mancanza di affectio
maritàlis poteva essere data dal fatto che i coniugi si fossero, o meno, presentati alla benedizione
religiosa del sacerdote.
I requisiti del matrimonio
Requisiti essenziali per un matrimonio valido erano il connùbium, la capacità di unione sessuale
dei coniugi e una causa giusta.
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Per contrarre iustae nuptiae occorreva che entrambi i nubendi fossero cittadini romani, o comunque
avessero la capacità di unirsi in matrimonio con cittadini romani (c.d. connùbium).
La Constitutio Antoniniana del 212 d.C. ridusse l’importanza del connùbium, poiché estese la cittadinanza a quasi tutti i cittadini dell’Impero, ad eccezione degli schiavi che, quindi, non potevano
contrarre matrimonio.
Per aversi valido matrimonio, i coniugi dovevano essere capaci di unirsi in matrimonio ed aver raggiunto l’età pubere.
Vari provvedimenti vietarono unioni ingiuste. Era iniustum:
 il matrimonio tra la moglie colpevole di adulterio e il suo complice;
 quello tra il tutore e la pupilla, fino a che il primo non avesse presentato il rendiconto della
gestione dei beni della seconda;
 quello tra il funzionario di governo in provincia e una donna ivi domiciliata, fino alla cessazione della carica;
 quello tra senatores e donne di condizione libertina o umile;
 quello tra rapitore e rapita, tra padrino e figlioccia e tra persone che avessero pronunciato il
voto di castità o preso gli ordini ecclesiastici maggiori;
 quello tra cristiani ed ebrei.
I matrimoni posti in essere in contrasto con prescritti divieti erano nulli. Le seconde nozze erano
ammesse, sempre che non fosse violato il tempus lugendi, ossia il periodo di dieci mesi di lutto imposto dal costume sociale alla vedova per evitare l’eventuale commistio sanguinis.
Effetti del matrimonio
Dalle iustae nuptiae derivavano i seguenti effetti:
 i figli nati da tale unione erano legittimi ed erano cittadini romani, anche se la madre era
straniera, purché avesse il connùbium;
 i figli erano sottoposti alla patria potestas del genitore o, se questi era a sua volta filius familias, del di lui pater familias;
 tra i coniugi, nonché tra ciascuno di essi ed i parenti dell’altro, si creavo il vincolo di adfinitas;
 trovavano applicazione quelle norme particolari che presupponevano il rapporto di coniugio
(es. divieto di donazioni tra coniugi, divieto di azioni infamanti da parte di un coniuge contro l’altro, applicabilità delle norme sull’adulterio, e così via). Proprio a riguardo le norme
sull’adulterio, la donna aveva l’obbligo della fedeltà. Se l’obbligo era violato, poteva reagire
lo stesso pater familias. A seguito della lex Iulia de adulteriis l’infedeltà della donna fu considerata reato. Poiché l’obbligo della fedeltà non era reciproco, l’adulterio del marito non era
punito, ma poteva giustificare quello della moglie.
 A seguito delle iustae nuptiae era ammessa la praesùmptio Muciàna, la quale comportava
che tutti gli acquisti patrimoniali fatti dalla moglie si presumevano fatti in favore e per conto
del marito, salva la possibilità di offrire prova contraria.
Legislazione matrimoniale in epoca imperiale
Da Augusto in poi, gli imperatori intervennero a favorire o a limitare determinati tipi di matrimonio.
In particolare, la lex Iulia et Papia sancì l’obbligo per gli uomini tra i 25 e i 60 anni e per le donne
tra i 20 e i 50 anni di contrarre matrimonio con persone nei rispettivi limiti di età. Tale disposizione
valeva anche per le persone vedove o divorziate, col solo limite per le donne di rispettare il tempus
lugendi, fissato in 10 mesi dalla morte del marito.
Alle donne che avevano partorito tre volte (quattro se liberte) veniva concesso lo ius liberorum,
cioè l’esenzione dalla tutela dell’agnatus e la piena capacità di disporre dei propri beni con testamento.
La lex Iulia et Papia fu notevolmente attenuata da Costantino, che eliminò le incapacità successorie,
e fu definitivamente abrogata da Giustiniano.
Sponsalia erano le promesse reciproche di futuro matrimonio. Probabilmente, in epoca antica, tali
obbligazioni erano produttive di effetti giuridici. In epoca classica, invece, esse non creavano veri e
propri obblighi e non richiedevano neppure forma solenne. In diritto postclassico, l’istituto subì notevoli modifiche: la promessa di matrimonio, infatti, non solo comportava il sorgere di obblighi tra
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il futuro marito ed il pater familias della sposa, ma creava un vero e proprio rapporto tra gli stessi
fidanzati, i quali a seguito della promessa finivano con l’esser soggetti a buona parte delle norme
che regolavano la vita coniugale.
Cessazione e scioglimento del matrimonio
Il matrimonio si scioglieva per morte di uno dei coniugi, per il venir meno di uno dei requisiti essenziali e per divorzio.
Il divorzio era conseguenza della concezione classica del matrimonio, secondo cui lo stesso cessava
non appena veniva meno l’affectio maritàlis, cioè la volontà dei coniugi di convivere.
Mentre in origine solo il marito aveva la facoltà del ripudio, successivamente anche la donna, a seguito della decadenza dell’istituto della conventio in manu, ne poté usufruire. L’unica limitazione
era costituita per la liberta, la quale, se divorziata per sua iniziativa dal patrono, non poteva risposarsi.
Fino all’epoca repubblicana, qualunque causa poteva costituire motivo di divorzio. Augusto, con la
lex Iulia de adulteriis coercéndis punì con una sanzione pecuniaria il coniuge che avesse dato origine, col suo comportamento, ad una giusta causa di divorzio.
Con l’influenza del cristianesimo, si diffuse l’avversione al divorzio. Costantino, in linea con lo spirito antidivorzista del cristianesimo, ritenne rilevanti, per ciascuno dei coniugi, ai fini del divorzio
unilaterale, le seguenti giuste cause:
 Per la moglie, quando il marito fosse riconosciuto omicida, violatore di sepolcri o avvelenatore;
 Per il marito, quando la moglie fosse accusata di essere adultera, mezzana o avvelenatrice.
Giustiniano ampliò le iustae causae di divorzio unilaterale, reputando valido il ripudio, nel caso in
cui la donna fosse andata a banchettare o a fare bagni con estranei o avesse frequentato spettacoli
senza il consenso del marito, o nel caso in cui il marito avesse indotto a prostituirsi la moglie o
l’avesse accusata falsamente di adulterio, oppure avesse mantenuto una concubina. Era iusta causa
per entrambi i coniugi l’aver teso insidia alla vita dell’altro o l’aver congiurato contro l’imperatore.
Il concubinato ed il contubernio
Si aveva concubinato qualora nell’unione tra un uomo ed una donna fossero presenti tutti i presupposti del matrimonio, ma mancasse la causa o la volontà. In quest’ultimo caso, la convivenza era
dovuta ad una affectio meno intensa di quella coniugale. Il concubinato acquistò grande rilievo giuridico solamente con la lex Iulia et Papia augustea a seguito dell’introduzione dei divieti matrimoniali. La legge aveva vietato e punito come crimini alcuni tipi di unioni extramatrimoniali, quali
l’adulterio, l’incesto e lo stupro. Invece, il concubinato era ammesso con donne di basse condizioni
con le quali non si commetteva stupro.
L’istituto fu visto come un surrogato del matrimonio, al quale si ricorreva per evitare le secondo
nozze o per aggirare il principio monogamico ed evitare la bigamia. In età postclassica i figli dei
concubini furono considerati liberi naturales di entrambi i concubini e potevano essere riconosciuti
dal pater per mezzo dell’istituto della legittimazione.
Fino all’epoca classica, un certo rilievo ebbe anche il conturnium, ossia l’unione permanente tra
schiavi o tra dominus e schiava. Anche in questo caso intervenne la legislazione imperiale, con alcune norme, che cercarono di evitare, in caso di divisione o di alienazione di schiavi, lo smembramento delle famiglie servili.
La dote: concetti generali
Principio fondamentale del matrimonio romano era che gli ònera matrimònii dovevano essere
sopportati dal marito o dal suo pater familias. Questa regola, formatasi in relazione al matrimonium
cum manu, trovò applicazione anche nel matrimonium sine manu.
Dote era qualsiasi complesso di beni patrimoniali dati o promessi, in vista del matrimonio, al marito
dalla stessa donna, da un suo parente o da un estraneo, allo scopo di contribuire alle spese della famiglia.
La dote poteva esser data o promessa. Si distingueva in questo modo tra:
 Dotis datio, caratterizzata dalla trasmissione reale dei beni;
 Dotis promìssio o dotis dictio, con cui si assumeva l’obbligo di costituire la dote.
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Secondo il soggetto che costituiva o prometteva di costituire la dote, si distingueva tra:
 Dos profectìcia, se costituita dal pater familias della donna;
 Dos adventìcia, se costituita da qualsiasi persona diversa dal pater familias della donna.
La dote durante il matrimonio
Durante il matrimonio l’amministrazione dei beni costituiti in dote spettava al marito. Con varie
norme si cercò di evitare che il marito dissipasse i beni dotali:
 Augusto, con la lex Iulia de adultèriis, vietò al marito di alienare i fondi dotali esistenti in Italia o di costituirvi iura in re aliena, senza il consenso della moglie.
 In epoca postclassica, venuta meno la distinzione tra fundi in italico solo e fundi provinciales, la regola fu estesa anche a questi ultimi.
 Giustiniano dichiarò nulla l’alienazione dei fondi dotali.
Restituzione della dote
All’atto dello scioglimento del matrimonio, il marito doveva restituire la dote della moglie o al suo
agnatus proximus o al terzo.
La restituzione doveva essere immediata per le cose infungibili non stimate, mentre andava fatta in
tre rate annuali se si trattava di denaro o di altre cose fungibili o di dos aestimata. Inoltre andavano
restituiti tutti gli incrementi dei beni dotali, tranne i frutti.
Tuttavia, il marito era autorizzato a trattenere determinate quote:
 Se vi erano figli;
 Per punire il malcostume della moglie, se ciò era stato causa dello scioglimento del matrimonio;
 Per le eventuali donazioni fattele in violazione del divieto di donazione tra coniugi;
 Per le spese sostenute con il consenso della moglie;
 Per le cose indebitamente sottrattegli dalla moglie.
Al fine di garantire la moglie, Giustiniano riconobbe l’ipoteca legale sui beni del marito, prevalente
sulle altre ipoteche anche precedenti al matrimonio.
La donatio propter nuptias
Il divieto di donazioni tra coniugi non si applicava alle donazioni fatte prima del matrimonio. Fin
dalle epoche più antiche, era uso a Roma fare donazioni alla propria fidanzata, donatio ante nuptias,
che la donna costituiva, poi, in dote. In età postclassica si diffuse la donatio propter nuptias, consistente nell’usanza di origine orientale in base alla quale il fidanzato donava alla donna, prima del
matrimonio, un patrimonio che ella aveva il diritto di conservare sia se lo sposo non rispettava il suo
impegno, sia in caso di morte del marito o per divorzio causato da colpa di questi.
I beni parafernali
Beni parafernali erano i beni propri della moglie, e cioè quelli che, non essendo costituiti in dote in
un matrimonium sine manu, restavano di sua esclusiva proprietà.
Nei primi secoli dell’Impero, soprattutto in Egitto e nelle province orientali, era uso che tali beni,
normalmente gioielli e denaro, fossero consegnati in amministrazione e custodia, previo inventario,
al marito, il quale a sua volta passava alla moglie una modesta somma periodica per le proprie spese.
Giustiniano regolò l’intera materia, sancendo che:
 La donna era proprietaria dei beni;
 L’amministrazione dei beni parafernali spettava al marito, che poteva esercitare tutte le azioni a loro tutela anche senza il consenso della moglie;
 I frutti di tali beni dovevano essere destinati alla famiglia o all’uso cui li aveva destinati la
moglie;
 Allo scioglimento del matrimonio il marito doveva restituirli integralmente. A tal fine la
donna godeva di ipoteca legale sui beni del marito e poteva agire contro di lui con la rei vindicatio.
La filiazione in diritto romano
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Pater era il genitore, ma anche l’ascendente: si distingueva il pater naturàlis, e cioè il genitore in
senso stretto, dal pater familias, ossia colui che era titolare della patria potestas sul soggetto e che
poteva essere anche un ascendente diverso dal genitore.
Filii erano i discendenti di qualunque grado. In particolare, tra essi, in diritto romano si distinguevano:
 I legitimi o iusti, concepiti da persone unite da iustae nuptiae.
 Gli spùrii, che erano coloro nati da un’unione illegittima.
 I liberi naturales, i quali erano i figli nati dall’unione di un uomo libero con una concubina.
La filiazione naturale incominciò ad avere un certo riconoscimento giuridico per influsso del cristianesimo. Il figlio naturale acquistò il diritto agli alimenti e ad una quota nella successione legittima del genitore, a meno che fosse nato da unione incestuosa o proibita.
I liberi naturales potevano diventare legittimi attraverso la legittimazione poiché il pater mediante
l’adozione poteva immettere nella familia anche estranei con parità di condizione giuridica rispetto
ai figli.
La patria potestas: generalità e modi di acquisto
La patria potestas è l’istituto fondamentale del diritto familiare romano. Il pater familias aveva potestas sugli appartenenti al nucleo familiare che si manifestava in tre poteri distinti:
 Patria potestas sui discendenti.
 Manus sulle donne entrate a far parte del nucleo familiare per effetto del matrimonio.
 Domìnicia potestas sui servi.
Fatti costitutivi della patria potestas erano:
 La nascita da giuste nozze dei figli e discendenti.
 La conventio in manu.
 L’adrogatio, atto con cui un pater familias si sottoponeva alla potestas di un altro pater familias.
 L’adoptio, atto di acquisto della potestas su un filius altrui.
Con l’adrogatio un pater familias si assoggettava alla patria potestas di un altro pater familias, diventando filius familias di quest’ultimo.
Originariamente, l’istituto serviva ai patres familiarum privi di propri discendenti per crearsi, artificialmente, un erede.
Fino all’epoca imperiale, l’adrogatio aveva luogo al cospetto dei comitia curiata presieduti dal pòntifex maximus il quale, dopo aver sentito l’adrogator e l’adrogatus, rivolgeva al popolo la proposta,
che il secondo divenisse figlio legittimo del primo.
In epoca imperiale, probabilmente con Diocleziano, ma sicuramente con Costantino, si ammise
l’adrogatio per rescriptum principis, ossia un rescritto imperiale, che divenne l’unica forma di adrogatio.
L’adoptio era un modo di acquisto della patria potestas su una persona alieni iuris. In particolare
consentiva il trasferimento della potestas su un filius familias, da un pater ad un altro.
In età classica adoptio ed adrogatio furono molto riavvicinate, in considerazione della loro affinità.
La giurisprudenza finì con l’individuare una categoria generale di adoptio, nel cui ambito si distinguevano:
 Adoptio populi auctoritàte, corrispondente all’adrogatio e relativa a persone sui iuris.
 Adoptio imperio magistratus, la vera e propria adozione, relativa a persone alieni iure subiectae.
L’adottato usciva dalla famiglia originaria, perdendo ogni rapporto di parentela ed ogni diritto o dovere nei suoi confronti. Diritti e doveri che acquistava, invece, nella famiglia dell’adottante.
Nello stesso periodo la procedura divenne complessa e l’adozione perse il suo carattere unitario. Il
procedimento si svolgeva in due fasi. Nella prima, il soggetto che doveva essere adottato veniva
sottratto alla patria potestas del pater da cui dipendeva mediante tre successiva vendite (emancipatio). In un secondo momento, il filius veniva rivendicato dall’adottante mediante l’esercizio di
un’actio in rem. Colui che lo aveva in mancipio non si opponeva, operando così una in iure cessio
ed il giudice assegnava l’adottato all’adottante, dichiarando il primo figlio legittimo del secondo.
Poteri del pater familias e contenuto della patria potestas: il peculium
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Il pater familias era titolare, rispetto ai sottoposti, di una serie di diritti:
 Ius vitae ac necis. Tale diritto fu notevolmente ridimensionato fin dall’inizio dell’epoca imperiale. Traiano sancì l’obbligo, per il pater che maltrattava il filius, di emanciparlo. Adriano previde la condanna alla deportazione per il pater che uccideva il figlio per motivi futili.
Lo ius vitae ac necis fu superato in epoca cristiana. Costantino punì con la poena cullei,
propria del parricidio, l’uccisione del figlio.
 Il ius exponendi (diritto di esporre i figli neonati) era la facoltà del pater familias di esporre
in luogo pubblico i figli neonati, abbandonandoli alla loro sorte.
 Il ius vendendi era il diritto di vendere il figlio mediante mancipatio ad un terzo.
 Ius noxae dandi, per il quale, se un membro della famiglia si fosse reso autore di un delitto,
il padre poteva esonerarsi da ogni responsabilità, consegnando alla vittima l’autore del fatto.
Quanto al contenuto patrimoniale, il pater familias accentrava in sé tutti i beni e diritti della familia.
Soltanto in un secondo momento, grazie all’intervento della giurisprudenza pretoria, furono attenuate le conseguenze dell’incapacità patrimoniale dei sottoposti.
A seguito dell’espansione di Roma al di fuori del suolo italico e del conseguente aumento dei traffici commerciali, il pater familias incominciò ad affidare ai propri sottoposti la gestione diretta di affari, dotandoli quindi di una certa autonomia contrattuale.
In origine si diffuse il c.d. peculium profecticium che consisteva in un complesso di beni e denaro
assegnato dal pater al filius per provvedere alle sue necessità e per svolgere attività commerciali ed
industriali. Di questo peculium il filius aveva la libera amministrazione, nei limiti fissati dal pater.
Oltre a questa forma originaria di peculium, occorre ricordare:
 Il c.d. peculium castrense, che si diffuse in età adrianea e comprendeva gli acquisti fatti dal
figlio durante la vita militare. Di esso il figlio poteva godere e disporre per testamento.
 Il c.d. peculium adventìcium o bona adventìcia. L’imperatore Costantino dispose che
l’eredità della madre fosse acquistata solo formalmente dal pater, il quale non aveva il diritto di disporne. Il diritto del pater rispetto a tali beni, dunque, si ridusse ad usufrutto.
Modi di estinzione della patria potestas ed emancipatio
La patria potestas cessava:
 Per morte del pater familias o del filius. Alla morte erano equiparate le ipotesi di càpitis deminutio.
 Adrogatio del pater familias ad altro pater.
 Per emancipatio del filius.
 Per adoptio del filius da parte di un terzo, che acquistava a sua volta la potestà sull’adottato.
 Se il sottoposto entrava a far parte del collegio dei flamini o delle vestali.
 In epoca giustinianea, a titolo di pena, a seguito di determinati abusi, come l’incesto o la
prostituzione dei figli.
L’emancipatio consisteva nella rinuncia volontaria alla patria potestas su uno dei sottoposti, compiuta dal pater familias e comportava l’uscita del filius dalla familia d’origine. Per attuare
l’emancipazione si faceva ricorso in epoca classica allo stesso espediente escogitato per l’adozione.
Il pater compiva per tre volte di seguito la mancipatio del filius ad un terzo, il quale per due volte lo
remancipava al pater. Dopo la terza mancipatio il filius si considerava manomesso.
La domìnica potestas sui servi e la potestas sulle personae in causa mancìpii
La potestà del dominus sul servo, c.d. domìnica potestas, era simile al potere che egli esercitava
sulle cose inanimate. Egli poteva, infatti, disporre del servo come meglio credeva fino addirittura ad
ucciderlo.
A questo regime dell’epoca arcaica furono, nelle epoche successive, apportati numerosi temperamenti. In particolare:
 Una lex Petronia vietò al padrone di esporre gli schiavi alle belve senza l’autorizzazione del
magistrato.
 Domiziano punì con pene pecuniarie il padrone che castrava gli schiavi.
 Adriano vietò l’uccisione di schiavi avvenuta senza l’autorizzazione del magistrato.
 Antonino Pio punì l’uccisione senza motivo di un proprio schiavo, parificandola, quanto al
trattamento sanzionatorio, all’uccisione di uno schiavo altrui.
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La causa mancìpii era la posizione di asservimento in cui veniva a trovarsi una persona libera rispetto ad un pater familias, di cui non era discendente. Le personae in causa mancìpii divenivano
tali allorquando il pater esercitava:
 Il suo ius vendendi.
 La noxae datio, per liberarsi della responsabilità per il delitto commesso dal figlio.
 Il nexum, per garantire un debito.
 Tutti i casi di vendita fittizia attraverso i quali si esercitava l’emancipatio.
La persona in causa mancìpii non perdeva né la sua libertà, né la cittadinanza. In sostanza, essa si
trovava, rispetto al pater familias, nella stessa posizione di un filius familias, con la differenza che,
mentre quest’ultimo per cause naturali (morte del pater) o giuridiche (emancipatio), sicuramente un
giorno si sarebbe sottratto alla sua posizione di soggezione, la causa mancìpii se non era transitoria,
poteva protrarsi per tutta la vita non solo dell’avente potestà, ma anche dei suoi discendenti.
Capacità di agire – Tutela – Curatela
La capacità di agire nel diritto romano
In diritto romano titolari della capacità di agire, ossia capaci di esercitare validamente i diritti, erano
soltanto le persone sui iuris. Per l’acquisto di essa, occorrevano una serie di requisiti: il soggetto
doveva essere di età pubere, di sesso maschile e privo di gravi menomazioni fisiche o psichiche.
A seconda dell’età, in diritto romano si distingueva tra:
 Infàntes, ossia coloro che non sapevano ancora parlare ed erano considerati del tutto incapaci di agire. I giuristi classici ritenevano che si dovesse valutare caso per caso se un soggetto fosse infans. Giustiniano stabilì che fossero considerati infantes tutti i soggetti di età non
superiore a 7 anni.
 Puberes, ossia coloro che avevano acquistato la capacità di generare. Impuberi erano coloro
che non avevano tale capacità. Secondo i Sabiniani, il raggiungimento della pubertà doveva
essere accertato mediante ispezione corporale. Secondo i Proculiani, la cui tesi divenne dominante, la pubertà si raggiungeva col compimento del quattordicesimo anno per i maschi e
del dodicesimo per le femmine.
A 18 anni si conseguiva la piena pubertas. I puberi avevano capacità matrimoniale, gli impuberi sui
iuris erano detti pupilli.
Col compimento del venticinquesimo anno di età si acquistava la maggiore età e la piena capacità di
agire.
La donna fu sempre considerata alieni iuris del pater prima, del marito poi. Solo in epoca imperiale,
si cercò di equiparare, nel campo patrimoniale, la donna all’uomo.
La tutela: generalità
La capacità d’agire apparteneva ai soggetti sui iuris, di sesso maschile, di età maggiore di venticinque anni, nonché sani di mente.
Per i soggetti sui iuris, di sesso femminile oppure minori di 25 anni, si ricorreva alla tutela, per
consentir loro di compiere gli atti giuridici necessari alla salvaguardia del patrimonio di cui erano
titolari.
Quando, invece, un soggetto era sui iuris, maschio e maggiorenne, ma non era psichicamente normale, si ricorreva alla cura.
In epoca classica vi erano due figure di tutela, la tutela impuberis, per l’infante e l’impubere, e la
tutela mulierum, per la donna sui iuris.
Alla tutela impùberem, già regolata dall’antico costume e dalle XII Tavole, erano soggetti gli impuberi il cui pater fosse morto o divenuto càpite deminùtus.
La tutela impùberem poteva essere:
 Legittima, se trovava il suo fondamento nella legge. Tutore legittimo era necessariamente
l’agnatus proximus, chiamato ad esercitare la tutela al fine di salvaguardare il patrimonio
familiare.
 Testamentaria, se trovava il suo fondamento in un testamento. Il tutore era designato dal de
cuius.
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Nel sec. III a.C. una lex Atilia impose al pretore di nominare un tutore, tutor datìvus, a coloro che
ne fossero sprovvisti.
Occorre sottolineare che alla tutela legittima si ricorreva solo in assenza di una designazione testamentaria. Mentre la tutela dativa trovava luogo in caso di impossibilità di ricorrere alle prime due.
Al tutore spettava l’amministrazione del patrimonio dell’impubere. I suoi poteri si concretavano
nella gestio (gestione degli affari dell’impubere) e nell’auctoritàtis interposìtio (integrazione della
capacità del pupillo, attraverso la c.d. auctoritas, ossia un’autorizzazione a compiere un atto).
Il tutore, al termine del periodo di tutela, era tenuto al rendimento dei conti di gestione. Se aveva
commesso malversazioni in danno del minore, poteva essere convenuto in giudizio con un’actio rationibus distrahendis, infamante.
Verso la fine dell’età repubblicana fu poi introdotta un’azione generale, l’actio tutelae, che poteva
essere esperita ogni qualvolta il tutore si fosse sottratto ai doveri collegati al suo officium.
Tra le cause di estinzione della tutela impùberem, ricordiamo la capitis deminutio maxima o media
del tutore, la rimozione del tutore sospetto, la sopravvenuta pazzia del tutore, la capitis deminutio
maxima, media o minima del pupillo, il raggiungimento della pubertà da parte del pupillo,
l’abdicatio tutelae da parte del tutore testamentario e la in iure cessio tutelae operata dal tutore
legittimo.
La donna era soggetta a tutela per tutta la durata della sua vita. Mentre le donne impuberi erano
soggette alla comune tutela impùberum, le donne puberi erano sottoposte alla tutela mulierum in
perpetuo.
La mulier poteva amministrata da sola il suo patrimonio. Per alcuni atti era, però, richiesta
l’autorizzazione del tutore.
Il tutore legittimo era, per la donna ingenua, l’agnatus proximus, subordinatamente un gentilis; per
la liberta, il patronus. L’esercizio della tutela legittima poteva essere trasferito ad altri mediante in
iure cessio tutelae.
In seguito Augusto, con la lex Iulia et Papia stabilì che la donna che aveva generato tre figli se ingenua, quattro se liberta, cessava di essere soggetta alla tutela.
La curatela era una forma di assistenza prevista a favore delle persone limitatamente incapaci di
agire. Poteva concretizzarsi in una generale gestione del patrimonio dell’incapace da parte del curatore, oppure in forme di assistenza continuative meno intense. Le curatele più antiche, disciplinate
dalla legge delle XII Tavole, furono quelle del furiosus e del prodigus. La durata della cura era
strettamente collegata all’estensione ed alla durata della anormalità cui essa mirava ad ovviare.
Cura furiosi
Qualora il furiosus, il malato di mente, non avesse avuto un pater familias o un tutore, l’agnato
prossimo e in subordine i gentiles, acquistavano un potere su di lui e sul suo patrimonio (c.d. cura
legittima).
Nel diritto giustinianeo scomparve la cura legittima. Furono, pertanto, ammesse solo la cura dativa
e quella testamentaria.
Il patrimonio dell’infermo di mente veniva amministrato dal curatore, che provvedeva anche alla
cura e al sostentamento dell’incapace. Cessata la curatela, il curatore era tenuto al rendiconto della
gestione. Egli esercitava, inoltre, le potestà familiari del furiosus.
Cura prodigi
I soggetti affetti da prodigalità, nei confronti dei quali era pronunciata l’interdictio, erano sottoposti
alla cura. Curatore era l’agnato prossimo e in mancanza la persona nominata dal magistrato. Al curatore era riservata la sorveglianza sull’amministrazione del patrimonio pervenuto all’incapace per
successione ab intestato.
In base alle XII Tavole, il prodigus assoggettato a cura non era un dilapidatore di beni qualsiasi, ma
solo chi, avendo ereditato ab intestato i bona paterna avitaque, li amministrasse rovinosamente.
Cura minorum
La cura minorum era un istituto relativamente recente che si affermò successivamente
all’emanazione della lex Plaetoria, la quale consentiva al pretore di accordare, per i negozi conclusi
dai minori di 25 anni, la restitutio in integrum. Tale legge aveva introdotto sanzioni a carico di coloro che, nell’intrattenere rapporti commerciali con minori di 25 anni, avessero tratto vantaggio dalla
minore esperienza di questi ultimi, senza, tuttavia, aver tenuto un comportamento doloso.
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Per evitare la restitutio, nella prassi, i terzi che negoziavano con il minore spesso richiedevano
l’intervento di un’altra persona durante la contrattazione, la quale garantiva la validità e la correttezza delle operazioni.
Il processo per legis actiones
La forma più antica del processo romano è quella delle legis actiones che, in vigore all’epoca della
legge delle XII Tavole, fu abolita nel 17 a.C. dalla lex Iulia iudiciorum privatorum.
Le legis actiones erano così definite sia perché furono introdotte per legge, sia perché utilizzavano
esclusivamente formule contenute nelle leggi, che i privati ripetevano davanti al magistrato senza
poterle modificare.
Le parti esponevano le loro pretese dinanzi ad un magistrato. La decisione finale della controversia
non spettava, però, al magistrato, ma era rimessa ad un iudex, scelto dallo stesso giusdicente in una
lista di notabili. Il processo, pertanto, era diviso in due fasi:
 La prima fase, detta in iure, davanti al magistrato.
 La seconda, detta apud iudicem, davanti al giudice privato.
La fase in iure aveva lo scopo di fissare con certezza e precisione i termini della controversia e richiedeva la necessaria presenza di entrambe le parti. Spettava all’attore condurre dinanzi al magistrato la controparte, anche con la forza.
Il convenuto doveva difendersi, negando almeno implicitamente ciò che l’attore affermava. Nel caso in cui il convenuto non collaborasse, intervenivano misure esecutive: l’actio in rem, con la quel
egli perdeva il possesso della cosa in favore dell’avversario e l’actio in personam che consisteva
nell’immediata esecuzione personale.
L’attività difensiva del convenuto si concretizzava nella sua partecipazione alla litis contestatio,
consistente nello scambio tra le parti di dichiarazioni solenni, incompatibili tra loro.
La funzione della litis contestatio, che avveniva alla presenza di testimoni, era duplice. Infatti, determinava l’oggetto del processo e impegnava le parti alla soluzione della lite mediante la sentenza.
Se il convenuto non contrastava la pretesa dell’avversario, si attuava la confessio in iure e il processo aveva termine.
Le singole legis actiones
Le principali legis actiones furono la legis actio sacramenti, la legis actio sacramenti in rem e la
legis actio sacramenti in personam.
La legis actio sacramenti aveva origine antiche e tutelava qualsiasi diritto. Fissati i termini della
controversia, ciascuna delle parti giurava solennemente di pagare in favore dell’erario una determinata somma in caso di soccombenza. Toccava, poi, ad un iudex, nominato dal magistrato dinanzi a
cui si svolgeva la fase in iure, stabilire quale delle parti avesse ragione. Si distinguevano una legis
actio sacramenti in rem, con la quale si faceva valere un diritto reale su una cosa, ed una legis actio
sacramenti in personam, nella quale oggetto del contendere era l’esistenza o meno, a carico del
convenuto, di un’obbligazione.
Nella legis actio sacramenti in rem, attore e convenuto comparivano davanti al magistrato portando
la cosa controversa o una parte simbolica di essa. L’attore, tenendo in mano una verga, toccava la
cosa e pronunciava la formula solenne, operando la vindicatio. A questo punto potevano verificarsi
due ipotesi. Se il convenuto non si opponeva, la cosa restava definitivamente di proprietà
dell’attore. Se, invece, compiva la stessa dichiarazione solenne ed eseguiva gli stessi atti dell’attore,
operando la vindicatio contraria, sorgeva la controversia vera e propria. In questo caso, il magistrato intimava ad entrambe le parti di abbandonare la cosa contesa. A ciò seguiva la reciproca scommessa di una somma di denaro (c.d. sacramentum). Successivamente, nominato il iudex, si passava
alla fase apud iudicem, nella quale ciascuna parte produceva le prove a fondamento delle proprie
pretese e il giudice, dopo averle valutate, emetteva la sua sentenza, con cui stabiliva quale dei sacramenta fosse iustum e quale iniustum.
Nella legis actio sacramenti in personam il creditore e il debitore si recavano in iure. Davanti al
magistrato il creditore, rivolgendosi al debitore, affermava il proprio diritto di credito. Se il convenuto taceva, risultava definitivamente accertato il suo debito. Se, invece, contestava il diritto azionato, il creditore lo sfidava al sacramentum.
L’esecuzione
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Nel caso di esperimento della legis actio sacramenti in rem, la parte vittoriosa aveva il diritto di trattenere la res oggetto della lite oppure, se la cosa era stata affidata temporaneamente all’avversario,
poteva ottenerne la consegna. In quest’ultimo caso, in presenza di una sentenza che aveva riconosciuto il suo diritto, il creditore poteva prendere con la forza la cosa alla controparte che rifiutasse di
consegnargliela.
Se invece era stata esperita una delle altre legis actiones a tutela di un credito, il creditore poteva iniziare, nel caso di persistente inadempimento, l’esecuzione personale. Due furono le legis actiones
esecutive: la legis actio per manus iniectionem e la legis actio per pignoris capionem.
La legis actio per manus iniectionem costituì il primo esempio di azione esecutiva generale. Suo
presupposto era il mancato pagamento da parte del convenuto di una somma di denaro, quando
l’esistenza del debito fosse certe e indiscutibile. Il creditore, trascorsi 30 giorni dalla sentenza, conduceva, anche con la forza, in ius il debitore e dinanzi al magistrato pronunciava la frase solenne,
operando la manus iniéctio. Il condannato non poteva respingere la manus iniéctio, ma poteva richiedere l’intervento di un terzo, detto vindex, che contestava le ragioni del creditore. Se, però, il
vindex risultava sconfitto, il debitore era condannato al pagamento del doppio. La mancata presenza
del vindex autorizzava il magistrato a confermare la dichiarazione del creditore mediante la consegna del debitore. Il creditore aveva diritto di condurre il debitore a casa sua e di tenerlo in catene per
60 giorni, durante i quali doveva presentarlo in pubblico in tre mercati consecutivi, dicendo del debito e del suo ammontare. Trascorsi i 60 giorni, il debitore poteva essere il debitore poteva essere
ucciso o venduto fuori dal territorio romano.
La legis actio per pignoris capionem era una forma di esecuzione sui beni del debitore, eseguita
senza bisogno di un precedente giudizio e fu utilizzata solamente per crediti di carattere pubblicistico.
Il processo per formulas
Col tempo, le legis actiones caddero in disuso, in quanto il loro eccessivo rigore formale le rese inadeguate a soddisfare le mutate esigenze della res pubblica. Le procedure per formulas sorsero in
epoca preclassica e convissero a lungo con il sistema delle legis actiones. Secondo l’opinione prevalente, si affermarono nell’ambito della giurisdizione del pretore peregrino, cioè nel processo organizzato per approntare una difesa giudiziaria agli stranieri che si trovavano a Roma. Successivamente le procedure per formulas furono utilizzate dal pretore urbano nelle controversie tra Romani relative agli istituti del ius civile novum.
Anche il processo per formulas era diviso in due fasi, una in iure che si svolgeva davanti al magistrato e l’altra in iudicio o apud iudicem che si svolgeva davanti al giudice nominato, ma non richiedeva l’utilizzo di schemi prestabiliti e di riti solenni.
La fase in iure non aveva più una funzione solo preparatoria del successivo giudizio. Il magistrato
non si limitava a controllare soltanto la regolarità formale degli atti compiuti dalle parti, ma aveva
un compito ben più importante, in quanto doveva valutare il contenuto ed il fondamento della domanda e, quindi, concedere o negare l’actio richiesta.
Se in questa prima fase a seguito di confessione del convenuto si accertava la fondatezza della pretesa dell’attore, non si faceva ricorso alla seconda fase. Se, invece, il pretore riteneva di accordare
l’azione, egli stesso determinava le reciproche pretese fissandole nella formula che concedeva loro.
La formula era, quindi, una specie di riassunto scritto della posizione di fatto e di diritto delle parti,
fatta dal magistrato e trasmessa al giudice affinché quest’ultimo l’accertasse in concreto. In particolare, conteneva l’affermazione del principio di diritto, che il iudex doveva poi adattare al caso concreto.
La fase in iudicio si svolgeva seguendo le indicazioni fissate nella formula stessa e si concludeva
con una sentenza, che poteva essere o di condanna del convenuto al pagamento di una somma di
denaro a favore dell’attore, o di assoluzione.
L’atto iniziale del processo era la in ius vocàtio. Accanto ad essa, tuttavia, si andò lentamente affermando una nuova figura di introduzione del processo, il vadimònium che consisteva in un invito
solenne a comparire in tribunale, in giorno ed ora stabiliti, fatto dall’attore al convenuto.
Quest’ultimo a sua volta prometteva la dazione di una penale per il caso di mancata comparizione.
Conosciuta la richiesta dell’attore, il convenuto poteva:
 Riconoscere la sua fondatezza (confessio in iure), per cui il processo terminava e risultava
definitivamente accertato il diritto vantato dall’attore.
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 Limitarsi ad un atteggiamento meramente passivo, senza cioè né contestare né riconoscere la
fondatezza dell’azione. In questo caso il magistrato ugualmente riteneva accertato il diritto
dell’attore.
 Contestare la domanda, chiedendo che fosse negata l’azione o opponendo ad essa elementi
di fatto o di diritto che la paralizzassero. Nel primo caso, egli chiedeva che il magistrato denegasse l’azione e nel secondo che, oltre all’azione, concedesse anche una exceptio a suo
favore.
La litis contestatio nel processo formulare, pur conservando la vecchia terminologia, fu del tutto
nuova. Si trattava di un accorda tra attore e convenuto sull’adozione di una determinata formula.
Dopo che il magistrato aveva effettuato la iudicis datio, l’attore indicava i termini definitivi della
questione da portare dinanzi al iudex privatus ed il convenuto dava il suo assenso.
Dalla litis contestatio scaturiva la res iudicanda, cioè la fissazione definitiva e non più suscettibile
di modifiche del tema oggetto della controversia, a seguito della quale, le parti erano obbligate a subire le conseguenze della sentenza del iudex.
Di solito, contestualmente alla litis contestatio, il magistrato rivolgeva al giudice privato il iussum
iudicandi (ordine di giudicare) con il quale lo investiva della potestà di decidere la lite. La litis contestatio poteva mancare se vi erano una confessio in iure oppure un giuramento decisorio.
Terminata la fase in iure, il magistrato rilasciava la formula con un apposito provvedimento. Le parti più frequenti delle formule erano:
 La demostratio, che si innestava nel giudizio chiarendo la questione di fatto oggetto della
controversia.
 L’intentio, con la quale l’attore riassumeva la sua pretesa.
 L’adiudicatio, con la quale si permetteva al giudice di assegnare l’oggetto della controversia ad una delle parti.
 La condemnatio, con la quale si dava al iudex privatus il potere di condannare o assolvere.
Nella formula potevano essere introdotti vari elementi accessori. I principali erano l’exceptio e la
praescriptio.
L’exceptio costituiva un mezzo di difesa del convenuto, il quale poteva difendersi non solo negando semplicemente i fatti esposti dall’attore, ma anche contestandoli mediante altri fatti o situazioni
di diritto che, se veri, potevano escludere la sua condanna. In tal caso il convenuto chiedeva al magistrato che nella formula fosse inserita una riserva che prendeva appunto il nome di exceptio, che
se accertata portava all’assoluzione.
Le eccezioni si distinguevano in peremptoriae, basate su una circostanza che poteva essere opposta
all’azione in qualunque tempo, oppure dilatoriae, che invece potevano essere opposto solo in un
determinato periodo di tempo.
La c.d. praescriptio fu introdotta quasi ad esclusivo vantaggio dell’attore. Poteva avvenire che in
forza della stessa obbligazione si dovesse dare una cosa subito ed un’altra in un momento successivo. Se, pertanto, si agiva in giudizio per ottenere solo le prestazioni già scadute, la formula avrebbe
dovuto fare riferimento solo a queste. Se, invece, si agiva senza alcuna restrizione, chiedendo una
somma indeterminata, la pretesa era espressa dalla formula con riferimento a tutto ciò che il convenuto doveva dare all’attore, ma la domanda non poteva essere accolta, perché aveva ad oggetto anche prestazioni non ancora scadute. A ciò rimediava la praescriptio in forza della quale l’oggetto
dell’azione, e conseguentemente l’effetto preclusivo della litis contestatio, venivano limitati a quanto l’attore volesse o potesse perseguire.
Vari tipi di azioni e formule
Le azioni e le formule potevano essere di vari tipi. Innanzitutto si distingueva, in base a ciò che
l’attore chiedeva, tra actiones in rem e actiones in personam.
Altra distinzione importante era quella tra le actiones stricti iuris o iudicia stricta, che erano actiones in personam in cui il giudice doveva limitarsi a decidere sulle sole questioni di fatto e di diritto
esposte nella formula, e le actiones bonae fidei, che erano esclusivamente actiones civilies in personam in cui la formula dava al giudice il compito di determinare le prestazioni dovute dal convenuto secondo un criterio di buona fede.
Ulteriore distinzione era quella tra le actiones poenales e le actiones reipersecutoriae. La caratteristica delle actiones poenales, che erano esperibili nei confronti dei c.d. delitti privati, era la nos21
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salità: il pater rispondeva per il delitto commesso dal filius o dallo schiavo, ma se non voleva pagare la pena pecuniaria si liberava consegnando il colpevole all’offeso. Tale facoltà, noxae deditio,
poteva essere esercitata sia prima del processo sia dopo la condanna.
Reipersecutoriae erano le altre azioni che potevano essere in rem o in personam. Con queste azioni
si chiedeva il risarcimento del danno o si perseguiva un indebito arricchimento del convenuto.
Formulae iuris civilis erano quelle concesse a tutela di un rapporto regolato dallo ius civile. Formulae iuris honararii erano quelle concesse dal pretore per tutelare rapporti non contemplati dallo
ius civile. A tale categoria appartenevano le:
 Actiones utiles, che erano azioni iuris civilis adattate dal pretore ed applicate a casi non tutelati dallo ius civile;
 Actiones ficticiae, caratterizzate dal fatto che si dava per esistente una situazione in realtà
inesistente;
 Actiones in factum conceptae, le quali avevano una intentio che non descriveva il diritto
dell’attore, ma esponeva una situazione di fatto, della quale l’attore affermava l’esistenza;
 Actiones adiectìciae qualitatis, o con mutamento di soggetti, che presentavano una formula
particolare. Infatti, mentre l’intentio menzionava un rapporto che faceva capo a due persone
determinate, nella condemnatio una delle due persone era sostituita e, al suo posto, compariva un altro soggetto.
La fase in iudicio del processo formulare era molto semplice. Ciascuna parte presentava, a sostegno
della propria tesi, tutte le prove che riteneva opportune, senza alcuna limitazione. Raccolte le prove,
spettava al giudice valutarle e formare il proprio convincimento: in ciò egli era libero. L’unico vincolo a cui doveva attenersi era quello di giudicare sulla base delle allegazioni e delle prove adottate
dalle parti, non potendo il giudice svolgere indagini.
Valutate le prove e formatosi il convincimento, il giudice pronunciava la sentenza che poteva essere
solo di condanna o di assoluzione del convenuto.
L’esecuzione della sentenza
Trascorsi 30 giorni dalla condanna, se il soccombente non aveva ottemperato alla sentenza, questa
poteva essere portata ad esecuzione con un’apposita azione, l’actio iudicati. Il convenuto, in questo
caso, o riconosceva che i fatti esposti dall’attore erano veri, oppure negava quanto affermato dalla
controparte. Se negava, si apriva un nuovo processo. Qualora l’attore fosse risultato ancora vittorioso, il convenuto sarebbe stato condannato al pagamento di una somma di denaro doppia rispetto a
quella stabilita nella prima sentenza.
La bonorum venditio era un procedimento di esecuzione sul patrimonio del debitore irreversibilmente insolvente. L’esecuzione aveva per oggetto tutti i beni del debitore soccombente. Essa iniziava con la richiesta, rivolta dal creditore al magistrato, di immissione nei beni del debitore (missio in
bona). Della missio in bona era dato un pubblico annuncio. Durante i primi 30 giorni, i creditori si
immettevano nel possesso a scopo di garanzia ed era nominato un curator bonorum, con poteri di
amministrazione e di limitata disposizione. Trascorsi 30 giorni, i creditori si preparavano alla vendita, nominando tra loro un magister che aveva il compito di pubblicare il bando di vendita e di vendere i beni. I beni erano aggiudicati al miglior offerente. Il compratore, bonorum emptor, era posto
nella posizione di un successore universale del debitore e poteva essere convenuto dai creditori di
quest’ultimo per la quota dei crediti che si era impegnato a pagare.
Mezzi complementari alla procedura formulare
Accanto alla procedura formulare si andarono affermando varie forme di rapida ed efficacia tutela,
attuate direttamente dal magistrato con proprio decreto, per la tutela di determinate situazioni di fatto o di diritto. Se, nonostante il decreto, l’effetto non veniva conseguito, si dava inizio ad un regolare processo. Tali mezzi complementari furono:
 Gli interdicta, che erano sostanzialmente provvedimenti di urgenza, emanati a seguito di
cognizione molto sommaria ed approssimativa della fondatezza del diritto vantato
dall’istante. Si distinguevano, a seconda dell’oggetto, interdicta prohibitoria, restitutoria ed
exhibitoria. In relazione ai destinatari, si avevano interdicta simplicia o duplicia .
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 La restitutio in integrum era un provvedimento giurisdizionale, con il quale il magistrato,
dopo un attento esame, rescindeva una situazione giuridica esistente e richiamava in vita una
situazione anteriore.
 Le stipulationes praetoriae erano rimedi cautelari consistenti in promesse solenni prestate
per ordine del magistrato, al fine di garantire una precedente obbligazione oppure per crearne una nuova allo scopo di tutelare un interesse altrimenti non protetto.
 La missio in possessionem costituiva una misura provvisoria con la quale il pretore immetteva un determinato soggetto nella detenzione di un complesso di beni, con poteri di controllo, di amministrazione e di disposizione, al fine di costringere il proprietario dei beni stessi a
mantenere un determinato comportamento, oppure per scopi cautelativi, in attesa che fosse
definita una data situazione.
Il processo extra ordinem
La cognitio extra ordinem si affermò e si sviluppò sin dalla fine del periodo repubblicano. In epoca classica essa sostanzialmente affiancò la procedura per formulas, fino a trionfare in epoca postclassica, quando si arrivò all’ufficiale abolizione di quest’ultima.
Originariamente questo procedimento era adottato per dirimere controversie di diritto pubblico. Con
Augusto esso venne esteso anche ai rapporti di natura privata.
Il processo extra ordinem aveva i seguenti caratteri:
 unità del procedimento, scomparvero le fasi in iure e apud iudicem, in quanto tutta
l’attività processuale, sia di istruzione della causa sia di giudizio, si svolgeva davanti allo
stesso funzionario statale;
 ampia discrezionalità del giudicante. Il funzionario – giudice aveva ampi poteri per accertare il fatto;
 procedibilità contumaciale, la presenza del convenuto non era più essenziale allo svolgimento del giudizio, essendo necessario e sufficiente che egli fosse stato avvertito dell’inizio
del procedimento;
 impugnabilità della sentenza. Il soccombente, ritenendo ingiusta la sentenza, poteva ricorrere al funzionario di grado superiore e, quindi, al principe;
 specificità della condanna. La condanna non consisteva più nel pagamento di una somma
di denaro, ma anche in un comportamento specifico;
 esecutività manu militari. L’esecuzione delle sentenze veniva demandata ad appositi organi
statali, gli apparitores.
Nella cognitio extra ordinem, la chiamata in giudizio del convenuto non avveniva con la in ius vocatio, ma con una citazione che aveva rilievo ufficiale. Il convenuto era invitato a presentarsi a una
data udienza in tribunale a mezzo di intimazione (evocatio) della autorità giudiziaria, sollecitata
dall’attore. Chi risultava irreperibile, era convocato mediante editto.
La costituzione in giudizio concretava la litis contestatio, la quale aveva perso la sua precedente
connotazione e non produceva più l’effetto di consumare l’azione. Nel processo extra ordinem, infatti, la litis contestatio indicava la trattazione della causa dinanzi al giudice e si concretizzava in
uno scontro tra la narratio dell’attore e la contradictio del convenuto.
Nell’età giustinianea si utilizzò la diversa forma della citazione per libellos. L’attore presentava al
giudice lo scritto (libellus conventionis) e chiedeva che il convenuto fosse chiamato in giudizio. Il
giudice esaminava la richiesta e se non la riteneva infondata si pronunciava per l’accoglimento. Il
libello, poi, era notificato al convenuto da un dipendente del giudice. Il convenuto aveva a disposizione un breve tempo di comparizione entro il quale doveva redigere e notificare il suo libellus contradictionis. Nel giorno fissato le parti, o i loro procuratori, comparivano davanti al giudice. Quindi
o aveva luogo la confessio in iure del convenuto, che determinava la cessazione della materia del
contendere, o iniziava il giudizio vero e proprio, con la narratio delle pretese dell’attore e la contradictio del convenuto.
Dalla contrapposizione tra narratio e contradictio sorgeva la litis contestatio che determinava la litispendenza. Subito dopo le parti presentavano il iusiurandum de calumnia, giuravano, cioè, di agire
e di resistere nell’assoluto convincimento del loro buon diritto e non per litigiosità, puntiglio o dispetto.
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Seguiva la postulatio simplex, ossia l’atto con cui l’avvocato dell’attore esponeva le ragioni del suo
cliente, cui l’avvocato del convenuto rispondeva con la contradictio. Sentite le parti, il giudice le
invitava a fornire le prove delle loro rispettive asserzioni.
La fase dell’istruzione non era più affidata alla libera iniziativa delle parti, ma a quella del funzionario – giudice, il quale non era più libero di valutare le prove a suo arbitrio, poiché vi era una vera e
propria graduatoria di importanza. Così:
 notevole rilievo assunsero le praesumptiones, che potevano essere iuris et de iure, se non
ammettevano la prova contraria, e iuris tantum, se l’ammettevano.
 gli acta e i documenta, redatti da pubblici funzionari nell’esercizio delle loro funzioni, facevano piena prova per quanto riguarda i fatti in essi attestati.
 i tabelliones, ossia gli atti redatti dai notai, se confortati dal giuramento di questi ultimi, facevano piena prova dei fatti attestati.
 i chirografa, cioè gli atti redatti dai privati, avevano lo stesso valore dei tabelliones, se erano sottoscritti da tre testimoni.
 la testimonianza poteva esser presa in considerazione solo se proveniva da almeno due testi.
 la confessio della parte era prova decisiva, in quanto vincolava del tutto il magistrato.
Raccolte le prove e formatosi il convincimento, il giudice emanava la sentenza (di condanna o di
assoluzione), che doveva essere redatta per iscritto e letta ad alta voce in pubblica udienza. In epoca
giustinianea si stabilì che la sentenza dovesse contenere anche la condanna del soccombente alle
spese di giudizio.
La sentenza era appellabile. La parte che voleva proporre appello doveva dichiararlo subito dopo la
lettura della sentenza e doveva far pervenire entro brevissimo tempo (10 giorni durante l’impero di
Giustiniano) al giudice di primo grado il libellus appellatorius, contenente i motivi di appello. Il
giudice di primo grado trasmetteva il libellus al giudice di appello, e davanti a quest’ultimo si procedeva, ex novo, potendo raccogliere nuove prove. Se l’appellante soccombeva, poteva essere condannato ad una pena pecuniaria e la sentenza poteva essere modificata in senso peggiorativo nei
suoi confronti.
Le sentenze pronunciate in grado di appello e quelle di primo grado non appellate nei termini stabiliti, erano definitive e dovevano essere eseguite dal soccombente. Se questi non vi provvedeva si
passava all’esecuzione coattiva mediante:
 la consegna coattiva della cosa a mezzo degli apparitores;
 il sequestro di beni del soccombente per ottenere il pagamento della somma;
 la missio in bona e la distractio bonorum se erano numerosi i creditori.
Le procedure speciali
In epoca postclassica si affermarono alcune procedure speciali, di cui le più importanti erano la procedura per rescriptum principis, la summaria cognitio e l’episcopalis audientia.
Fin dall’epoca classica le parti, o lo stesso magistrato, potevano richiedere con una supplicatio o
una epistula, la decisione direttamente all’imperatore. Se l’imperatore aderiva alla richiesta, esaminava la controversia nel suo gabinetto imperiale e la decideva direttamente, con un proprio rescriptum, oppure la rimetteva al magistrato dandogli, però, la soluzione della questione di diritto.
La summaria cognitio ricomprendeva quei processi in deroga alla procedura ordinaria, come ad
esempio l’abbreviazione dei termini, l’esclusione dei mezzi di prova più laboriosi e così via. In pratica, essa si risolveva in una più rapida decisione, spesso emessa sulla base di una sommaria deliberazione degli atti e delle prove.
Come episcopalis audientia veniva designata la giurisdizione civile e penale attribuita al vescovo.
Impostasi alla fine del III secolo d.C., l’imperatore Costantino nel 318 consentì a ciascuna delle parti di un processo di abbandonare la causa pendente davanti al magistrato laico per adire il vescovo.
Il formalismo negoziale in Roma
Il diritto romano arcaico era improntato al formalismo più rigoroso. Infatti gli effetti giuridici erano
spesso ricollegati alla pronuncia di certa e sollemnia verba, ossia al meticoloso rispetto di determinate forme. Si aveva negozio con forma solenne quando il diritto prescriveva la forma che doveva
avere la dichiarazione di volontà. A tale scopo, era sufficiente che fosse voluto l’atto. Generalmente
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il negozio formale era anche astratto, in quanto la forma poteva rivestire qualsiasi contenuto lecito
per raggiungere le più svariate finalità.
I negozi giuridici, nel diritto romano, erano classificati nelle tre categorie dei gesta per aes et libram, della in iure cessio e della sponsio.
Negli atti librali un soggetto otteneva un vantaggio dando, come contropartita una quantità di
bronzo che doveva essere pesata su una bilancia dal libripens. Al riguardo si potevano distinguere
diverse figure di gesta per aes et libram:
 mancipatio, atto di acquisto delle res mancipi, per l’acquisto della manus sulla donna, per la
costituzione di servitù rustiche. Ne erano protagonisti un venditore, un compratore, un libripens e cinque cittadini testimoni dell’intera procedura. Il venditore poneva su uno dei due
piatti della bilancia la cosa o un suo simbolo, il compratore poneva sull’altro piatto la somma necessaria all’acquisto e pronunciava la formula solenne ed inderogabile con cui dichiarava che la cosa era sua secondo il diritto dei Quiriti per averla acquistata con il bronzo e la
bilancia. Nel rituale della mancipatio alle parole solenni si accompagnavano gesti determinati, come l’apprensione fisica della cosa, la pesatura, il toccare con un bastoncino la bilancia.
 nexum, che serviva a costituire un vincolo obbligatorio in cambio del prestito del bronzo
pesato sulla bilancia;
 solutio per aes et libram, che serviva ad estinguere il vincolo costituito col nexum.
Con la in iure cessio, invece, attraverso un finto processo, si trasferiva la proprietà su un determinato bene. Spesso era usata anche per costituire un usufrutto, una servitù o per trasmettere la posizione
di erede o di tutore. La in iure cessio si compiva in iure, dinanzi a un magistrato con iuris dictio. A
partire dal 367 a.C., solitamente si svolgeva dinanzi al pretore. Le parti erano il cedente e il cessionario. Quando l’atto aveva ad oggetto uno schiavo sul quale il cedente intendeva trasferire al cessionario la proprietà, presenti sia il cedente sia lo schiavo, il cessionario, tenendo lo schiavo, pronunciava la formula vindicatoria. Il pretore interrogava il cedente se volesse contravindicare e, di
fronte al suo diniego o silenzio, pronunciava l’addictio del servo in favore del cessionario.
Altro negozio formale fu la stipulatio, un negozio bilaterale, più precisamente un contratto, con effetti obbligatori. Le parti erano lo stipulante e il promittente. Si compiva in forza di
un’interrogazione e di una congrua risposta. Interrogazione con cui lo stipulante chiedeva al promittente se intendesse assumere l’impegno a tenere un dato comportamento. Risposta congrua del promittente il quale si limitava a pronunciare in prima persona, nello stesso tempo e modo, il verbo già
impiegato in seconda persona dallo stipulante.
Elementi del negozio giuridico. Gli elementi essenziali
Per quanto riguarda gli elementi del negozio giuridico, nel diritto romano si distingueva tra:
 essentialia negotii, ossia elementi la cui mancanza impediva del tutto il sorgere di un negozio giuridico, nonché la produzione di effetti giuridici. Si pensi ad un contratto di compravendita in cui mancasse il prezzo;
 naturalia negotii, ossia elementi previsti dall’ordinamento pur se le parti potevano disporre
diversamente. Si pensi a particolari modalità sul pagamento del prezzo (es. rateizzazione),
che non necessariamente dovevano essere adottate dalle parti;
 accidentalia negotii, elementi liberamente apponibili dalle parti. Tra essi, il giurista Paolo
includeva dies, condicio, modus (termine, condizione e modo).
Gli elementi essenziali erano la volontà dell’autore, la forma (o manifestazione di volontà che
rende il negozio conoscibile ai terzi) e la causa, ossia la funzione che l’atto è obiettivamente in grado di realizzare.
La manifestazione di volontà, in diritto romano, richiedeva l’uso di forme solenni e, pertanto, era
per lo più espressa.
I Romani ponevano una iusta causa, da intendere come ragione obiettiva sufficiente a giustificare
un negozio in relazione ai fini che le parti si proponevano. La causa doveva sempre essere lecita. A
tal proposito, si distinguevano varie forme di illiceità:
 l’illiceità era piena, ed implicava l’invalidità del negozio, quando il negozio era iniustus, e
cioè contrario ai principi fondamentali dello ius civile, oppure contra bonos mores, cioè con25
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trario alla morale tradizione, oppure contra leges perfectas, ossia contro leggi imperative
che comminavano la nullità degli atti compiuti in loro violazione;
 l’illiceità era semipiena quando il negozio era contrario a leges minus quam perfectae, che
cioè comminavano solo una sanzione a carico del trasgressore e non la nullità del negozio;
 l’illiceità era generica se il negozio era contrario a leges imperfectae, cioè a quelle leggi che
non comminavano alcun tipo di sanzione per la loro violazione.
Elementi accidentali
Gli accindetalia negotii erano suddivisi in due categorie, a seconda che influissero (es. condizione e
termine) o meno (es. modo) sull’efficacia del negozio giuridico.
La condizione è un evento futuro ed incerto al cui verificarsi è subordinata l’efficacia o la risoluzione di un negozio giuridico. Nel primo caso la condizione viene definita sospensiva, perché gli
effetti del negozio non si producono fino al verificarsi dell’evento previsto; nel secondo caso si parla di condizione risolutiva, perché, qualora l’evento si verifichi, vengono meno gli effetti già prodotti dal negozio.
Il termine (dies) è un evento futuro e certo dal cui verificarsi i soggetti o fanno iniziare gli effetti di
un dato negozio giuridico (termine iniziale o dies a quo) o fanno cessare tali effetti (termine finale
o dies ad quem). L’onere o modus è quella clausola accidentale che si appone ad un negozio a titolo gratuito al fine di imporre al destinatario della liberalità un certo comportamento. Il modus, dunque, si pone come limite alla liberalità. Anche il diritto romano conobbe tale clausola accessoria. Il
problema del negozio modale era quello di assicurare in qualche modo che il destinatario della liberalità ottemperasse all’onere impostogli, in quanto di regola tale negozio, a differenza di quello
condizionato o a termine, era e restava efficace anche se l’onerato non ottemperava al modus.
La rappresentanza
La rappresentanza è quella forma di sostituzione nell’altrui attività negoziale per cui un determinato
soggetto, detto rappresentante, compie il negozio giuridico nel nome e per conto di un altro soggetto, detto rappresentato.
L’istituto della rappresentanza non era conosciuto dallo ius civile, il quale ammetteva per i negozi
non formali solo la figura del nuncius (ossia colui che trasmetteva la volontà di altri). In diritto romano vigeva, infatti, il principio fondamentale dell’esclusivismo nell’agire negoziale: l’attività negoziale doveva quindi essere esplicata direttamente ed esclusivamente dal soggetto giuridico che vi
aveva interesse, a meno che non vi fossero speciali ragioni di necessità.
Invalidità del negozio giuridico
I giuristi romani non raggiunsero mai una concezione chiara del negozio giuridico e nemmeno dei
concetti di validità ed efficacia. Il criterio da essi richiamato fu quello dell’utilità giuridica
dell’atto. Se il negozio giuridico serviva effettivamente a produrre effetti giuridici, era efficace, pur
se invalido, e veniva qualificato utile. Al contrario, se era inefficace, veniva qualificato inutile. Tre
furono principalmente le cause di invalidità dei negozio giuridici:
 la violazione di regole dettate dal diritto quiritario, da leges publicae, senatuconsùlta o constitutiones principum;
 la richiesta alla magistratura, da parte di chi aveva interesse, di un provvedimento che sancisse l’inutilizzabilità giuridica del negozio;
 l’accertamento in giudizio della mancanza degli elementi necessari a rendere il negozio giuridico utile ai fini della produzione di effetti giuridici.
L’invalidità poteva operare ipso iure, cioè di diritto, oppure ope exceptionis o ope magistratus, cioè
su eccezione di parte o su rilievo del magistrato.
Mancanza di volontà
La volontà di concludere un negozio giuridico manca del tutto nei casi di dichiarazione fatta ioci
causa o docendi causa, nonché per effetto di vis absoluta (violenza fisica). Nel caso di dichiarazione fatta ioci causa, un soggetto esprime una volontà per scherzo, oppure nel corso di una rappresentazione teatrale. Nel caso di dichiarazione docendi causa, la manifestazione di volontà avviene al
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solo scopo di fare un esempio. Infine, nel caso di vis absoluta, un soggetto è costretto con la forza
ad una manifestazione di volontà negoziale che in realtà non gli appartiene.
In tutti questi casi, i Romani ritenevano che il negozio apparente fosse inesistente e non producesse
alcun effetto giuridico.
Divergenza tra volontà interna e volontà manifestata
Vi era divergenza tra interno volere e volontà manifestata in quattro ipotesi, ossia errore ostativo,
dissenso, riserva mentale e simulazione.
Si ha errore ostativo quando, per ignoranza o altro, si manifesta una volontà diversa da quella interna (si pensi al soggetto che dice di voler donare a Tizio, mentre in realtà vuol donare a Caio). Si ha
dissenso quando il destinatario di una dichiarazione presta il suo consenso equivocando il vero contenuto di essa. Si ha riserva mentale quando un soggetto manifesta, con la sua dichiarazione, una
volontà che egli, nel suo interno, non ha. Si ha, infine, simulazione quando le parti, d’accordo, dichiarano deliberatamente di concludere un negozio, mentre in realtà non vogliono concluderne nessuno (c.d. simulazione assoluta) oppure ne vogliono concludere uno diverso (c.d. simulazione relativa).
Anomalie nella formazione della volontà
Nel diritto contemporaneo la volontà è viziata quando nel suo iter formativo si è inserito un elemento perturbatore. Ciò avviene in presenza di errore, violenza morale e dolo. Il diritto romano non
conobbe la categoria generale dei vizi della volontà. Tuttavia, lo ius honorarium e la giurisprudenza
classica diedero rilievo ad alcuni casi in cui fosse certo che l’autore di un negozio non avrebbe espresso una data volontà se non fosse intervenuto un elemento esterno a turbarla. In particolare, tre
furono i vizi cui fu dato rilievo: error facti, metus e dolus malus.
L’errore per la giurisprudenza classica rappresentava la falsa conoscenza di una circostanza, che
avesse avuto funzione determinante nel processo di formazione della volontà. Il negozio viziato da
errore fu considerato inutile se l’errore fosse essenziale alla conclusione del negozio, riconoscibile
dalla controparte e scusabile, tale da poter essere commesso da una persona di normale diligenza ed
intelligenza. Si ritenne, invece, inescusabile l’errore di diritto, che aveva ad oggetto norme giuridiche. Questo principio trovava deroghe per quelle persone ritenute impossibilitate a conoscere adeguatamente le norme vigenti. Tra le varie tipologie di errore, ricordiamo, principalmente:
 l’error in persona, che cadeva sull’identità di una persona, a favore della quale si compiva
l’atto.
 l’error in negotio, ossia quello che si verificava se un soggetto riteneva di compiere un atto
e sottoscriveva un atto differente.
La violenza morale, consiste in una minaccia di un male ingiusto e notevole alla persona che ne è
vittima, ai suoi familiari, ai suoi beni per indurla a concludere un negozio. In diritto romano, a differenza del diritto moderno, era considerata irrilevante la minaccia ai beni del soggetto. In particolare,
si distingueva tra:
 vis, che è la minaccia morale in sé e quindi la coartazione dell’altrui volontà attraverso minacce;
 metus, che è il timore, il senso passivo di spavento prodotto dalla vis.
Il dolo rilevante quale vizio della volontà era il c.d. dolus malus, ossia il comportamento inescusabile malizioso, fatto di raggiri e artifizi, di un soggetto, c.d. deceptor, nei riguardi di un altro soggetto, c.d. deceptus, con cui fosse in trattative o in rapporti giuridici, esercitato allo scopo e con gli effetti di indurlo ad un’azione pregiudizievole dei propri interessi.
L’elaborazione del dolo quale vizio della volontà negoziale è frutto della giurisprudenza, che distinse tra:
 dolo determinante che comportava la nullità del negozio, in quanto determinava nel contraente una falsa rappresentazione della realtà che lo induceva alla conclusione di un contratto
altrimenti non voluto;
 dolo incidente che provocava solo condizioni contrattuali peggiori per controparte, mentre il
negozio era realmente voluto.
Sanatoria e conversione del negozio invalido
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Nei moderni ordinamenti giuridici il negozio, nel rispetto della volontà delle parti, va mantenuto in
vita il più possibile e va posto nel nulla solo se non si possa salvare in alcun modo (c.d. principio di
conservazione).
Nel diritto romano, secondo lo ius civile, un negozio nullo non poteva diventare efficace.
Nell’ambito dei negozi viziati e per i quali era possibile l’intervento del pretore, si ammetteva la
convalida:
 per decorso del tempo: l’actio doli e l’actio quod metus causa si potevano esercitare entro
l’anno;
 per ratifica o conferma. Se il negozio era viziato, il soggetto legittimato a rilevare tale vizio
poteva rinunciare ad avvalersi di quei mezzi che il pretore accordava per annullare l’atto;
 per morte della parte;
 per rimozione della causa di nullità. Questa possibilità era ristretta a casi tipici. Ad esempio
il pegno di cosa altrui si convalidava se il costituente acquistava successivamente la proprietà della cosa.
I Romani conobbero, anche, la figura della conversione del negozio. Il negozio nullo si considerava
alla stregua non del tipo avuto presente dalle parti al momento della sua conclusione, ma di un altro
negozio idoneo a perseguire l’intento voluto dalle parti con il negozio invalido. Occorreva che:
 il negozio invalido avesse gli elementi di un altro negozio;
 il nuovo negozio, anche se non voluto espressamente, fosse idoneo a soddisfare lo scopo
pratico avuto di mira dalle parti;
 la conversione risultasse opportuna.
Cose, beni e diritti reali
Nozioni fondamentali
Bene è, nel linguaggio giuridico, ogni cosa che ha l’attitudine a soddisfare un interesse umano.
L’art. 810 c.c. definisci come beni le cose che possono formare oggetto di diritti. Il concetto romanistico di res era meno ampio. La giurisprudenza non concepiva come res alcune entità immateriali,
come i servizi, le prestazioni personali e le opere dell’ingegno, finché non si fossero tradotte in
qualcosa di materiale. Il concetto di oggetto del diritto, vale a dire di ciò che serve al soddisfacimento dei bisogni umani e su cui insiste il diritto di un individuo, era più ampio. Le persone libere,
pur non essendo considerate come le res, potevano formare oggetto di diritti soggettivi.
Originariamente cose e persone erano soggette al potere del pater familias: esisteva un’identità di
disciplina tra le une e le altre per quanto riguardava i modi di acquisto, il possesso e la tutela processuale. Successivamente si delineò un concetto di res quale oggetto di rapporti di natura patrimoniale, in antitesi all’uomo libero. Lo schiavo era considerato anch’esso res.
Le res extra commercium
Per l’ordinamento romano il termine commercium definiva la sfera giuridica patrimoniale, quindi
extra commercium erano le cose che non potevano formare oggetto di rapporti patrimoniali. Le res
extra commercium erano soggetto ad un regime giuridico speciale: potevano costituire oggetto unicamente di rapporti giuridici non aventi natura patrimoniale. I Romani distinguevano le res extra
commercium in due grandi categorie: res humani iuris e res divini iuris.
Appartenevano alla categoria delle res humani iuris:
 le res communes omnium, dette anche res privatae, che non erano suscettibili di apprensione individuale, ma di cui ciascuno poteva usufruire e acquistare la proprietà. Appartenevano a tale categoria l’aria, l’acqua piovana, il mare e il lido del mare;
 le res publicae, esse erano le res populi. Potevano rientrarvi sia res appartenenti a privati,
ma uscite dalla loro disponibilità mediante publicatio, sia res acquistate direttamente dallo
Stato come bottino di guerra. Esse ricomprendevano fiumi, porti, strade, piazze, fori, teatri,
terme e stadi;
 le res universitatis, cioè quelle appartenenti ai municipia e alle coloniae.
Appartenevano, invece, alla categoria delle res divini iuris:
 le res sacrae, destinate al culto degli dei, quali templi e arredi sacri;
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 le res religiosae, destinate al culto dei defunti, quali sepolcri e gli oggetti destinati
all’ornamento del cadavere;
 le res sanctae, ossia quelle cose non appartenenti alle divinità, ma poste sotto la loro protezione.
Le distinzioni tra le res in commercio
Tra le res in commercio si distingueva tra:
 res corporales, ossia le cose che possono esser toccate;
 res incorporales, ossia le cose che non possono essere toccate. Si tratta di situazioni che attribuiscono un diritto diverso dal dominium come l’eredità, l’usufrutto, le obbligazioni.
Si distinguevano, inoltre:
 le res mancipi, ossia quelle che costituivano oggetto di mancipium ed erano collegate alla
vita della familia, della quale costituivano necessaria pertinenza. L’elenco delle res mancipi
era tassativo e comprendeva i fondi situati in solo italico, le servitù prediali rustiche, più antiche (come le servitù di passaggio e d’acquedotto), gli schiavi e gli animali da tiro e da soma;
 le res nec mancipi, non collegate alla vita della familia, ma costituenti mera fonte di ricchezza.
La differenza tra res mancipi e res nec mancipi consisteva nel fatto che le prime si trasferivano con
la mancipatio o con la in iure cessio, ad esclusione delle servitù rustiche, mentre le seconde si trasferivano con la semplice traditio. Tale distinzione perse rilievo in quanto, in diritto pretorio, si
ammise che anche le res mancipi potessero essere trasferite per traditio.
Il giurista Pomponio distinse le cose, dal punto di vista della loro aggregazione o meno, in tre categorie. La prima categoria comprendeva le cose che costituiscono un’unità organica indipendente,
come una statua, uno schiavo. Oggi sono definite semplici. La seconda categoria di cose, definite
oggi composte, comprendeva le res che risultavano dall’unione di più cose, in modo da formare un
complesso unitario, senza che le singole cose componenti perdessero la loro individualità. La terza
categoria comprendeva le res che oggi definiamo omogenee. Le singole res, pur conservando la
propria autonomia, per la funzione socio – economica che tutte insieme svolgevano, diventavano
oggetto di un’unica denominazione.
Infine, si distinguevano:
 le cose divisibili ed indivisibili;
 le cose fruttifere, ossia le cose capaci di dare periodicamente prodotti materiali, pur rimanendo intatte e conservando la loro destinazione, e le cose infruttifere, ossia tutte le altre
cose, incapaci di produrre frutti;
 le cose consumabili, quindi quelle che, usate secondo la loro normale destinazione, erano
suscettibili di una sola utilizzazione e le cose inconsumabili, ossia le cose suscettibili di uso
ripetuto finché non si distruggevano;
 le cose fungibili, ossia quelle che appartengono alla stessa categoria, con la conseguenza
che una cosa può essere sostituita da un’altra e le cose infungibili che hanno una propria individualità particolare, per cui una cosa non può essere surrogata da un’altra;
 le cose mobili ed immobili. Nel diritto arcaico e classico si distinguevano le res soli, ossia il
suolo con ciò che vi insiste e le cose mobili. Tale classificazione era rilevante soprattutto
nell’ambito dell’istituto dell’usucapione e della tutela del possesso. Nel diritto postclassico
la distinzione tra cose mobili e immobili assunse valore generale. Si intesero cose mobili
quelle suscettibili di essere trasportate da un luogo ad un altro senza che ne restasse alterata
la struttura, mentre immobili erano tutte le altre cose.
La proprietà e la comunione
Il concetto di proprietà accolto nel diritto romano trae i propri contenuti dallo sviluppo storico che
ha caratterizzato l’istituto. Nel periodo anteriore alla legge delle XII Tavole, la proprietà non era
concepita come autonomo diritto della singola persona sulle cose, in quanto il pater familias era titolare di una signoria indifferenziata sulle persone, libere e schiave, e sulle cose sottoposte al suo
potere.
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Il solo rapporto assoluto intercorrente tra il pater familias e tutti gli altri cittadini era denominato
mancipium e aveva per oggetto la familia nella quale facevano parte i filii, i servi e la domus.
Quando, nella fase etrusco – latina, l’economia segnò un passaggio dallo sfruttamento pastorale dei
fondi a quello agricolo – pastorale, dando luogo alla produzione di una notevole ricchezza mobiliare, dovuta anche agli scambi commerciali, i Quiriti intesero garantire tali ricchezze costituite dalle
res non familiares con un regime giuridico analogo a quello del mancipium.
La denominazione unitaria dell’istituto come dominium ex iure Quiritium emerse verso la fine del
II secolo a.C..
Il dominium ex iure Quiritium fu l’istituto centrale nei rapporti dominicali e paradominicali ed ebbe
natura composta, poiché derivava dalla fusione e dall’evoluzione degli istituti del mancipium, relativo alle res familiares, e della possessio, riguardante le res non familiares.
Per indicare l’ampiezza dei poteri spettanti al proprietario della cosa, in età postclassica, si definì il
dominium quale ius utendi fruendi et abutendi, ossia diritto comprendente le facoltà di alienare la
cosa, di abbandonarla e di distruggerla.
Per ciò che concerne la proprietà immobiliare, il diritto del dominus ex iure Quiritium si estendeva
usque ad coelum et usque ad inferos, ossia il proprietario del suolo aveva anche la proprietà dello
spazio atmosferico sovrastante, nonché di tutto il materiale sottostante, suscettibile di sfruttamento
economico.
Lo ius civile, per esigenze di ordine collettivo, impose le limitazioni costituite dal limes, ossia lo
spazio di cinque piedi che, all’atto delle assegnazioni di terre, si lasciava libero intorno a ciascun
appezzamento, e l’ambitus, ossia lo spazio di cinque piedi da lasciare libero tra edifici.
Quanto alla limitazione costituita dal divieto di immissioni nell’altrui proprietà, la giurisprudenza
classica ammise che il proprietario non potesse liberarsi delle acque correnti nel suo fondo riversandole sul fondo sottostante e che non avesse il diritto di riversare il fumo della sua officina nel fondo
contiguo. Inoltre era consentito che il dominus usasse della cosa senza trarne utilità, al solo scopo di
recar danno ad altri (oggi ciò è vietato dal codice civile, c.d. divieto di atti emulativi).
Fino all’età classica non si ammetteva che il dominus ex iure Quiritium venisse espropriato del suo
diritto, seppure previa corresponsione di un indennizzo. Nell’età postclassica, invece, poiché il diritto di proprietà perse l’originaria impostazione individualistica e si adeguò ad esigenze di carattere
collettivo, al cui soddisfacimento sovrintendeva il potere imperiale, fu considerata possibile
l’espropriazione per pubblica utilità.
Nel diritto romano classico si distinguevano tre diversi tipi di situazioni giuridiche:
 la proprietà civile o quiritaria;
 la possessio vel usufructus dei fondi provinciali;
 la proprietà pretoria o bonitaria.
Nel corso dell’età postclassica si ebbe una fusione di questi tre tipologie di proprietà privata, in un
unico tipo: il dominium unificato.
POSSESSIO VEL USUFRUCTUS
La possessio vel usufructus degli agri provinciales costituiva un rapporto affine al dominium ex
iure Quiritium, tutelato in origine dagli edicta provincialia. La possessio vel usufructus aveva ad
oggetto le terre conquistate al di fuori della penisola italica, che proprio in virtù di ciò non potevano
essere oggetto di dominium. Tali fondi erano in proprietà dello Stato, ma veniva assegnati in godimento ai privati dietro il pagamento di un tributo. La concessione era revocabile se il tributo non
fosse stato corrisposto.
PROPRIETA’ PRETORIA (C.D. IN BONIS HABERE)
L’acquisto del dominium ex iure Quiritium era subordinato per le res mancipi al compimento di un
atto solenne che consentiva all’acquirente di diventare dominus. Al fine di garantire l’esigenza di
certezza nei traffici commerciali, il pretore, sin dalla fine del periodo postclassico, iniziò a tutelare
l’acquirente sia contro i terzi sia contro lo stesso proprietario – alienante, come se il vizio di forma,
derivante dalla mancanza dell’atto solenne, non si fosse verificato.
Da tale tutela processuale accordata all’acquirente derivò l’in bonis habere. L’in bonis habere è, in
un certo senso, affine all’odierno possesso, e può essere definito come situazione attiva di un rapporto assoluto reale in senso proprio, a carattere sostitutivo del dominium ex iure Quiritium.
L’in bonis habere determinava una situazione provvisoria, poiché era destinata a mutarsi in proprietà con il decorso del tempo necessario all’usucapione.
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Caduta la distinzione tra res mancipi e res nec mancipi ed abolita la mancipatio, Giustiniano elevò
ad ipotesi di proprietà tutte quelle in cui i classici avevano riconosciuto l’in bonis habere, favorendo
la riduzione ad unità del concetto di proprietà.
Il dominium unificato
Sin dalla fine dell’età classica, i tre tipi di rapporti assoluti in senso proprio subirono reciproche influenze. In età postclassica il fenomeno divenne sempre più rilevante, con la conseguenza che si costituì una proprietà unitaria, denominata genericamente dominium, i cui caratteri furono, prevalentemente, quelli del dominium ex iure Quiritium, pur con influenze derivanti dalla proprietà provinciale e da quelle pretoria.
Per quanto riguarda i modi di acquisto della proprietà, il diritto romano conosceva la distinzione,
riportata anche da Gaio, tra modi di acquisto iuris gentium, ispirati ad una ratio naturalis e dunque
accessibili sia agli stranieri sia ai Romani, e modi di acquisto iuris civilis, propri cioè dei Romani.
La distinzione cadde in disuso, come la stessa distinzione tra iuris gentium e iuris civile, quando,
nel 212 d.C. fu concessa la cittadinanza a tutti i sudditi dell’Impero.
Il metodo per classificare i modi di acquisto della proprietà è quello che distingue i modi di acquisto a titolo originario e i modi di acquisto a titolo derivativo.
Nell’ambito dei modi di acquisto a titolo originario, occorre ricordare:
 L’occupazione, che si aveva in tutti i casi in cui l’acquisto del dominium avveniva attraverso la volontaria presa di possesso di una res nullius, cioè senza un attuale proprietario.
 L’inventio (la scoperta), che era un modo di acquisto del tesoro, ossia di una quantità di cose mobili di valore, nascoste da tempo immemorabile e delle quali non si possa più trovare il
legittimo proprietario.
 L’accessione, che si ha se una cosa altrui o una res nullius si unisce ad un’altra, in modo da
formare con questa un tutto. Un primo gruppo di casi di accessione riguardava l’accessione
di cose mobili a cose immobili. In questo caso, si produceva l’acquisto di tutto ciò che era
sopra o sotto il suolo in favore del proprietario del suolo. Poteva poi aversi l’accessione di
una cosa mobile ad una cosa mobile, in presenza della quale si aveva, generalmente,
l’acquisto della cosa altrui da parte del proprietario della cosa economicamente di valore superiore.
 Gli incrementi fluviali, tra i quali si distingueva tra l’alluvio, ossia l’incremento che aveva
luogo lentamente, attraverso il deposito di detriti sul fondo rivierasco, l’avulsio, ossia
l’incremento che aveva luogo qualora l’impeto della corrente avesse staccato da un fondo
una crosta di terreno e l’avesse spinta in un altro fondo, l’alveo derelitto, cioè l’incremento
che spettava ai proprietari rivieraschi qualora il fiume avesse cambiato letto o si fosse prosciugato, l’isola nata nel fiume, ipotesi che si aveva quando la corrente, depositando detriti
in mezzo al fiume, avesse formato un’isoletta o nel caso di prosciugamento della parte centrale dell’alveo.
 La specificazione che si ha quando una cosa, a seguito di lavorazione, perde la sua struttura
iniziale trasformandosi in una res con funzione diversa e nuova rispetto alla precedente.
 La confusione, che consiste nella mescolanza di più corpi solidi o liquidi, in modo tale che
non possa verificarsi accessione né specificazione.
 La fruttificazione, per cui i frutti appartenevano di regola al proprietario della res che li
produceva. La litis aestimatio, ossia un’attribuzione indiretta del dominium ex iure Quiritium, a seguito della sentenza del giudice per la facoltà riconosciuta al convenuto in sede
processuale di preferire, in caso di soccombenza, una condanna pecuniaria, anziché la restituzione della cosa all’avente diritto.
 L’adiudicatio, che aveva luogo nei giudizi divisori e consisteva in una pronuncia del giudice avente efficacia costitutiva del diritto di proprietà.
 L’adsignatio, che era un atto della pubblica autorità che riguardava in particolar modo lo ius
publicum. Tuttavia aveva un certo rilievo anche nel diritto privato, dal momento che costituiva l’atto statale di attribuzione in proprietà privata di porzioni dell’ager publicus.
 L’usucapio, che era un modo di acquisto della proprietà, fondato sul possesso di una res
protratto per un certo periodo di tempo e con le condizioni volute dallo ius civile, attraverso
il quale il possessore diventava dominus ex iure Quiritium. Il termine fissato dalle XII Tavole fu di due anni per i fondi e di un anno per tutte le altre cose. Poteva esservi usucapione so31
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lo a favore di un cittadino romano e relativamente a cose che potevano essere oggetto di
dominium ex iure Quiritium. In età classica furono necessari due requisiti fondamentali, ossia la giusta causa e la buona fede. Dal momento che l’elemento comune a tutti i casi di
usucapio era la convinzione del possessore di non ledere l’altrui diritto, l’usus che comportava l’acquisto della proprietà fu definito possessio bonae fidei. L’usucapione non poteva
verificarsi in ordine alle cose rubate.
Ai fondi provinciali che non potevano essere oggetto di dominium e, quindi, non era applicabile
l’usucapio, fu applicato l’istituto della praescriptio longi temporis. Tale istituto non faceva acquistare il dominium sul fondo provinciale, ma difendeva il possessore contro l’azione del proprietario.
Il tempo necessario per l’applicazione della praescriptio longi temporis era di 10 anni se proposta
contro un proprietario residente nella stessa città e di 20 se proposta contro il proprietario residente
in altra città.
Nel diritto giustinianeo aumentarono i requisiti fondamentali dell’usucapione. Infatti per aversi usucapione:
a) la cosa doveva rientrare tra quelle idonee ad essere usucapite (res habilis);
b) occorreva la sussistenza di una situazione giuridica oggettiva, di un titolo astrattamente
idoneo a produrre il trasferimento del diritto (titulus);
c) si richiedeva che il possessore fosse consapevole di non ledere l’altrui diritto (bona fides);
d) l’usucapiente doveva avere nella sua disponibilità di fatto la cosa e tenerla presso di sé
come propria (possessio);
e) il possesso doveva durare 3 anni per i beni mobili e per gli immobili 10 anni inter praesentes o 20 anni inter absentes.
Nel periodo postclassico, infine, sorse un nuovo istituto, la praescriptio longissimi temporis, che
produceva l’acquisto del dominium di ogni res, in presenza della sola bona fides iniziale e del possesso ininterrotto per 30 anni, 40 per i beni dello Stato, della chiesa e di comunità minori.
Mentre nel diritto moderno è accolto il principio in base al quale nella compravendita la proprietà è
trasferita con il semplice consenso delle parti, il diritto romano non ammetteva che i contratti avessero efficacia traslativa. Il contratto era fonte di obbligazione per il venditore ed il compratore, ma
non trasmetteva il diritto di proprietà. Affinché il compratore acquistasse il dominium ex iure Quiritium, il venditore doveva compiere un negozio apposito (in iure cessio, mancipatio, traditio) oppure
doveva intervenire l’usucapione della cosa a favore del compratore – possessore.
La in iure cessio costituiva un modo di acquisto della proprietà applicabile sia alle res mancipi sia
alle res nec mancipi. Consisteva in un’applicazione dei principi e delle forme del processo di proprietà. In particolare l’acquirente e l’alienante fingevano di voler instaurare una lite sulla proprietà
della cosa mediante la legis actio sacramenti in rem, comparendo davanti al magistrato con la cosa o
con una parte di essa che la rappresentasse. L’acquirente pronunciava la formula e toccava la cosa
con la festuca, simbolo del dominium. L’alienante, che in un effettivo giudizio di rei vindicatio doveva pronunciare la stessa formula, taceva, dando vita ad una confessio in iure. Il magistrato dava
causa vinta al rivendicante, che in tal modo acquistava la proprietà della cosa. La in iure cessio era
suscettibile di molteplici applicazione, tante quante furono le actiones in rem. Nel diritto postclassico l’istituto scomparve, sia per l’introduzione di nuove figure processuali che fecero cadere in disuso le legis actiones, sia perché la traditio era divenuta idonea a trasferire qualsiasi cosa corporale.
La mancipatio era il più antico negozio traslativo della proprietà. Si trattava di un atto librale risalente all’epoca in cui non esistevano le monete e per gli scambi si usava bronzo non coniato da pesarsi volta per volta. Si trattava di un c.d. actus legitimus, che non tollerava l’apposizione degli elementi accidentali della condizione e del termine.
Originariamente la mancipatio consisteva in una compravendita reale, che si concretizzava nello
scambio immediato della cosa contro il prezzo. La cosa doveva avere comunque la natura di res
mancipi. La forma della mancipatio aveva carattere solenne. Il venditore (mancipio dans) ed il
compratore (mancipio accipèiens) comparivano, portando con sé la cosa o un suo simbolo, davanti
a cinque testimoni, tutti cittadini romani e puberi, e un libripens, cioè la persona munita della bilancia. L’acquirente, toccando la cosa, pronunciava una formula solenne e gettava sulla bilancia il
bronzo che occorreva al pagamento. In seguito la sostanza dell’istituto mutò. Da un lato l’attività
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del libripens, con l’introduzione della moneta coniata, divenne simbolica, dall’altro le esigenze del
commercio fecero diffondere il contratto consensuale di emptio – venditio.
La mancipatio, in tal modo, divenne un negozio astratto di trasferimento del dominium sulle res
mancipi, acquistando il carattere di imaginaria venditio.
La traditio era la forma più semplice di trasferimento della proprietà, in quanto consisteva nella
materiale consegna della cosa. Era il modo di trasmissione delle res nec mancipi, e non si applicava
alle res mancipi. Nel periodo classico, per il trasferimento della proprietà, occorrevano tre condizioni:
 che la cosa fosse di proprietà del tradente;
 che il tradente avesse la volontà di trasmettere la cosa e l’accipiente quella di acquistare;
 che vi fosse una iusta causa traditionis, cioè si doveva conseguire un intento che il diritto riteneva valido per la trasmissione della cosa. Si aveva così la iusta causa credendi, se si
consegnava una somma in adempimento di un mutuo, la iusta causa solvendi, se il debitore
pagava il suo debito e la iusta causa donationis, se vi era la volontà di donare.
Per quanto riguarda la consegna della cosa, il diritto antico richiedeva che essa fosse materiale. Il
diritto classico ammise altri modi per trasmettere all’accipiente il potere sulla cosa:
 la traditio symbolica, consistente nella consegna di un qualcosa che rappresentasse il tutto;
 la traditio longa manu, consistente nel mostrare la cosa da lontano;
 la traditio brevi manu, che importava una modificazione dell’animus, per cui colui che fino
ad allora aveva posseduto la cosa ad altro titolo (ad esempio, a titolo di pegno) cominciava a
possederla come proprietario;
 il constitutum possessorium, che configurava l’ipotesi inversa alla precedente, per cui colui
che possedeva la cosa come proprietario, alienando la cosa, ne conservava il possesso, ma
ad altro titolo.
Le azioni a difesa della proprietà
Nel diritto romano i mezzi a difesa della proprietà possono essere distinti in più gruppi, a seconda
della natura della pretesa alla quale la difesa si contrappone. Il primo gruppo riguarda le ipotesi in
cui un soggetto estraneo si comporti come proprietario di una res senza esserlo. Il secondo gruppo
riguarda le ipotesi in cui, pur restando il proprietario nel possesso della cosa, un altro soggetto avesse svolto un’attività tale da intaccare l’esclusività del godimento spettante al proprietario. Il terzo
gruppo riguarda i casi in cui il godimento della cosa rendeva necessaria un’espansione della proprietà fondiaria nell’altrui proprietà.
La rei vindicatio era l’azione esperibile dal proprietario di una cosa, contro chiunque avesse posseduto illegittimamente la stessa, al fine di ottenerne la restituzione.
Il processo che si instaurava si svolgeva in forme differenti, a seconda delle diverse epoche storiche.
Nel diritto arcaico, il processo a tutela della proprietà si svolgeva nella forma della legis actio sacramenti in rem. In essa sia l’attore, che agiva per la restituzione di una res, sia il convenuto, che
difendeva il suo attuale possesso, affermavano la proprietà della cosa, recitando la formula solenne.
Conseguentemente ciascuna delle parti prometteva di versare alla cassa pubblica una somma (c.d.
sacramentum) in caso di soccombenza. Il giudice decideva quale prestazione fosse giusta, risolvendo implicitamente la questione di proprietà. Tuttavia, a causa della complessità delle legis actiones,
le parti, ancor prima dell’affermazione del processo formulare, incominciarono a risolvere la controversia con la procedura per sponsionem. Colui che affermava di essere dominus ex iure Quiritium provocava il convenuto a promettere, in forma di sponsio, una somma di denaro per il caso in
cui egli fosse risultato proprietario della cosa controversa. Ottenuta la promessa, egli citava la controparte in ius con la legis actio per iudicis postulationes. In tal modo si evitava di pagare la dispendiosa summa sacramenti.
Nel sistema formulare ebbe maggiore diffusione il procedimento della formula petitoria. Senza che
vi fosse bisogno di una preventiva sponsio del convenuto, l’attore direttamente affermava di essere
proprietario della cosa e ne chiedeva la restituzione. Convenuto era il possessore, attore era chi
non possedeva e si affermava proprietario, con la conseguenza che l’onere della prova incombeva su questi.
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Il convenuto era libero di non accettare il giudizio. Per costringerlo indirettamente a defendere rem,
il pretore accordava all’attore l’interdictum quem fundum, se la cosa controversa era un immobile, con la conseguente sua immissione in possesso. Se la cosa controversa era una cosa mobile,
l’attore poteva esercitare un’actio in personam per chiedere la consegna della res o la condanna
dell’indifesus al controvalore.
Per garantire la restituzione della cosa a seguito della sentenza, il convenuto doveva effettuare una
cautio. Se si rifiutava, il possesso della cosa passava all’attore disposto a prestare la stessa cauzione, con la conseguenza che sul convenuto, invertendosi le parti, incombeva l’onere della prova.
Il convenuto soccombente doveva restituire la cosa cum sua causa: doveva pertanto restituire tutti i
frutti che la cosa aveva prodotto durante lo svolgimento della lite. In particolare, il possessore in
buona fede era tenuto alla restituzione dei frutti percepiti dopo la litis contestatio, mentre il possesso
in mala fede doveva restituire tutti i frutti fin dal momento in cui si era immesso nel possesso. Per il
diritto giustinianeo, il possesso di mala fede doveva restituire non solo i frutti percepiti, ma anche
quelli percipiendi, ossia quelli che avrebbe potuto percepire sfruttando razionalmente la cosa.
Originariamente l’actio finium regundorum aveva come oggetto l’accertamento del rispetto o meno del confine (limes) di cinque piedi che doveva intercorrere tra due fondi limitrofi. Nell’epoca
classica caddero in desuetudine le controversie relative al limes e tale actio fu ammessa allo scopo
di accertare se una data zona appartenesse all’uno o all’altro dei fondi confinanti.
L’actio negatoria si esercitava quando un terzo, non contestando il dominium, ne contrastasse solo
la pienezza, pretendendo di avere sulla cosa un diritto reale. L’azione tendeva a far accertare
l’inesistenza del diritto reale vantato dal convenuto. L’attore doveva solo provare di essere proprietario, mentre il convenuto doveva provare l’esistenza del suo diritto. Il convenuto soccombente, a
seconda dei casi, era condannato a restituire la cosa o ripristinare lo status quo ante. Inoltre, l’attore
poteva ottenere la prestazione di una cautio de amplius non turbando, con la quale il convenuto
prometteva di non molestare ulteriormente il pieno godimento della proprietà.
Qualora un soggetto avesse realizzato sul proprio fondo delle opere per effetto delle quali si era
prodotto un afflusso, o un maggior afflusso, di acque piovane sul fondo del proprio vicino,
quest’ultimo poteva convenire in giudizio il primo con l’actio aquae pluviae arcendae, la quale
mirava sia a ripristinare la situazione anteriore, sia al risarcimento del danno.
La cautio damni infecti era una garanzia pretoria con la quale il proprietario di un edificio pericolante prometteva solennemente, mediante una stipulatio, di risarcire il danno derivante al vicino
dall’eventuale crollo dell’edificio o della costruzione in corso. Per ottenere la promessa, il proprietario del fondo vicino si rivolgeva la pretore il quale, riconosciuta la fondatezza della richiesta, ordinava la prestazione della cautio. Qualora, invece, il proprietario del fondo da cui proveniva il pericolo rifiutasse di prestare la cautio, si verificava in favore dell’interessato una missio in possessionem, con la quale egli iniziava a detenere l’immobile assieme al proprietario. Se poi, passato un
anno, il proprietario del fondo da cui derivava il pericolo continuava a rifiutare la prestazione della
cautio, il pretore concedeva all’altro proprietario una nuova missio in possessionem ex secundo
decreto, la quale costituiva una iusta causa usucapionis.
L’operis novi nunciatio era una solenne intimazione stragiudiziale, destinata a vietare di proseguire un’opera iniziata. L’intimazione aveva effetto inibitorio ed era accompagnata da uno iactus lapilli, lancio di pietra. L’autore della diffida si limitava ad identificare l’opus novum e ad asserire di essere titolare di uno ius prohibendi, e cioè del diritto di impedire la realizzazione della nuova opera.
Il costruttore nunciatus, se non intendeva interrompere l’opus novum, poteva chiedeva al pretore un
decreto di remissio, con cui si autorizzava la prosecuzione dell’opera. Se invece non teneva conto
del divieto e continuava senz’altro l’opera iniziata, questi subiva l’emanazione di un interdictum
demolitorium, che il pretore emanava su richiesta del nuncians.
Mentre l’operis novi nunciatio regolava le ipotesi in cui il nunciatus eseguiva le opere sul suo fondo, l’interdictum quod vi aut clam era concesso contro chi avesse già compiuto opere illecite di
nascosto oppure senza tener conto di una precedente prohibitio sul fondo altrui. L’interdictum poteva essere richiesto da chiunque vi avesse interesse e non solo dal dominus.
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I rapporti di buon vicinato furono regolamentati dal diritto pretorio mediante la concessione
dell’interdictum de arbori bus caedendis e dell’interdictum de glande legenda. Il primo era
concesso a favore del proprietario di un fondo qualora gli alberi del fondo vicino sporgessero sul
suo ad un’altezza inferiore ai 15 piedi. Se il proprietario dell’albero non recideva i rami bassi, il vicino aveva facoltà di recidere personalmente i rami di altezza inferiore a quella consentita.
Il secondo era emanato a favore del proprietario di un albero che protendeva rami fruttiferi su un
fondo vicino. Il pretore, con l’interdictum, lo autorizzava ad entrare nel fondo sul quale i rami sporgevano per raccogliere i frutti tertio quoque die, ossia ogni tre giorni.
La comunione
Fin dall’epoca arcaica, l’ordinamento romano si pose il problema della contitolarità di diritti. Il termine adottato per definire tale situazione fu quello di communio, che fu riferito sia alla contitolarità
di un intero patrimonio, sia alla contitolarità di diritti reali e al fenomeno del compossesso.
La forma più antica di contitolarità delle situazione soggettive era costituita, nell’epoca precittadina,
dalla comunanza domestica.
Costituitasi la civitas e consolidatosi l’istituto del mancipium, le res familiares divennero sottoposte
al potere di un solo soggetto, il pater familias. Quanto alle terre indivise, non assegnate in possesso
ai patres, venne a delinearsi una forma di comunanza gentilizia, nel senso che le familiae appartenenti alle singole gentes esercitavano una piena comunanza di godimento.
Nell’esperienza giuridica romana il passaggio dalla comunione indifferenziata a quella organizzata
fu mediato dall’istituto del consortium ercto non cito, ossia una sorta di applicazione del tipo della
comunione solidaristica. Esso si inquadra nell’ambito della successione ereditaria. Alla morte del
pater familias, gli heredes sui restavano uniti in un consortium ercto non cito, societas indivisibile
che sorgeva necessariamente per effetto della successione nello stesso asse.
La concezione romana relativa ai poteri dei consortes comportava che il diritto di ciascuno avesse
ad oggetto il tutto: nei confronti degli estranei, non rilevava il diritto del singolo su una quota del
tutto, ma la contitolarità solidale del patrimonio.
Decaduto nell’età repubblicana l’istituto del consortium, si affermò in età classica una nuova regolamentazione del condominio. I giuristi elaborano l’idea di pars, intesa come quota ideale del tutto,
per cui su ogni particella della cosa gravava il diritto di ciascuno. Ciascun condomino poteva agire
in giudizio per difendere la sola quota dagli attacchi dei terzi, con una rei vindicatio partiaria, alla
quale gli altri condomini potevano non associarsi.
Alcune azioni comportavano, invece, la difesa del diritto di tutti i condomini. Ad esempio, nei processi relativi alle servitù, intentati sia per il suo riconoscimento che per il suo disconoscimento,
l’azione, sia pure intentata da un solo condomino, riguardava l’intera servitù ed era quindi in solidum.
Ciascun condomino poteva apportare le innovazioni sulla cosa comune, salva l’opposizione eventuale degli altri, attraverso l’esercizio dello ius prohibendi col quale questi ultimi potevano opporre il
veto all’innovazione, per ottenere o l’interruzione dell’opera o la distruzione di quanto già fatto.
Allo ius prohibendi nella pratica si sostituì il consenso preventivo. I condomini usavano regolare
convenzionalmente la vita in comune, evitando preventivamente le possibilità di conflitti. Soltanto
nel diritto giustinianeo si affermò esplicitamente la regola della necessità del consenso preventivo.
Per quanto riguarda gli atti ordinari di godimento, ciascun condomino aveva la piena libertà di intraprenderli, salvo l’obbligo di dividere con gli altri i vantaggi e l’obbligo degli altri di dividere con
lui le spese.
Quanto ai rapporti interni tra i condomini, il diritto classico accordava alcune azioni al consorte che
avesse avuto pretese nei confronti degli altri. In particolare:
 l’actio pro socio, qualora la comunione fosse sorta in virtù di un contratto di società;
 l’actio negotiorum gestorum, qualora uno dei condomini avesse sostenuto spese a vantaggio
di tutti;
 l’actio communi dividundo utilis, qualora uno dei condomini, dopo aver sostenuto spese o
percepito frutti dalla cosa comune, avesse alienato la sua quota senza regolare previamente i
conti.
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I condomini potevano chiedere in qualsiasi momento la divisione della cosa comune. Si distinguevano la divisione di comune accordo, detta anche volontaria, e la divisione giudiziale.
La prima era impedita dal dissenso di anche uno solo dei comunisti. Per realizzare materialmente la
divisione, oltre all’accordo delle parti, occorreva che fossero posti in essere i negozio giuridici attuativi dell’accordo. La difficile attuazione della divisione volontaria fece sì che fosse particolarmente diffusa la forma giudiziale, che aveva luogo attraverso la c.d. actio communi dividundo. Il
giudice procedeva all’adiudicatio: se la cosa comune era divisibile, ciascuno poteva averne una
porzione materiale, corrispondente al valore della quota. Se, invece, la cosa era indivisibile,
l’adiudicatio era formulata in favore di uno solo e l’aggiudicatario era condannato a pagare agli altri
somme di conguaglio.
La superficie
Il diritto di superficie ha subito un progressivo processo di trasformazione. Nel periodo postclassico
trovava incontrastata applicazione il principio omne quod inaedificatur solo cedit (tutto ciò che è
costruito sul fondo è accessione del fondo). Il proprietario di un fondo era considerato anche proprietario di tutte le opere da chiunque realizzate nel suo fondo. L’opportunità di superare tale principio si fece sentire fin dall’età repubblicana. Era sorto, infatti, l’uso, da parte dei magistrati, di concedere ai privati, mediante corrispettivo, la possibilità di costruire sul foro o sulle strade. Pur in presenza della concessione, il suolo restava pubblico, ma il costruttore aveva la piena disponibilità
dell’opera costruita, che poteva anche alienare o distruggere.
Il superficiario, inoltre, ebbe riconosciuta dal pretore la possibilità di chiedere un interdictum de
superficie bus, il quale fece sì che il conductor, a differenza di ogni altro locatario, venisse considerato e protetto come possessore della superficie. A tal riguardo si parlo di quasi possessio.
A seguito della contaminazione con istituti giuridici delle province ellenistiche, si iniziò a configurare la superficies come diritto reale. Il diritto ellenistico non conosceva il principio superficies solo
cedit ed ammetteva, pertanto, che la proprietà fosse divisa per piani orizzontali.
Il diritto del superficiario fu considerato come appartenente alla categoria degli iura in re aliena e
non un’autonoma forma di proprietà, dal momento che Giustiniano volle mantenere, almeno formalmente, la validità del principio superficies solo cedit. In epoca giustinianea il diritto di superficie
assunse le caratteristiche di rapporto giuridico assoluto in senso improprio, tutelato da un’actio in
rem superficiaria.
L’enfiteusi
Nel diritto romano classico non esisteva un istituto che definisse l’enfiteusi. Scopi affini erano perseguiti mediante varie concessioni di terre da parte della città o di altri soggetti pubblici come il caso del c.d. ius in agro vectigali.
L’ager vectigali era il terreno appartenente alla Repubblica, ad un municipio o ad una colonia, che
veniva concesso a privati per lo sfruttamento, dietro il corrispettivo di un canone annuo, definito
vectigal. Scopo della concessione era di permettere lo sfruttamento della terra, pur mancando in capo al privato l’obbligo giuridico di coltivare o migliorare il fondo.
Finché il canone era pagato, il concessionario non poteva essere spossessato e poteva trasmettere il
suo diritto. Essendo considerato possessore, gli competeva la normale tutela interdittale.
Nelle terre provinciali, dall’età di Costantino in poi, le più importanti famiglie cominciarono ad occupare per lungo tempo o in perpetuo vaste zone di terreno, assicurando allo Stato un provento globale, ripartendo poi le zone tra vari contadini subaffittuari.
In tal modo nel IV secolo d.C. si affermarono due diversi tipi di concessione: lo ius perpetuum,
che aveva ad oggetto i fondi del fisco ed il cui canone non era modificabile, e lo ius emphyteuticarum, che aveva ad oggetto i fundi patrimoniales, vale a dire quelli della dinastia imperiale ed il cui
canone era modificabile dalla dialettica tra concedente e concessionario per mantenere l’equilibrio
economico tra le parti.
Nel diritto giustinianeo l’enfiteusi costituiva un rapporto assoluto reale in senso improprio, essendo
ormai indubbia la sua natura di ius in re aliena. Fu modificata la disciplina dell’istituto. Venne imposto all’enfiteuta l’obbligo di comunicare al proprietario ogni trasferimento del suo diritto e fu accordato al proprietario un diritto di prelazione grazie al quale, a pari condizioni, doveva essere preferito, nel riscatto del fondo enfiteuticario, al terzo che intendesse acquistare il diritto di enfiteusi.
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Se il proprietario non esercitava tale diritto, gli spettava il c.d. laudemium, cioè una sorta di indennità pari al due per cento del prezzo pagato dal nuovo enfiteuta.
Il concedente poteva risolvere, con la c.d. devoluzione, il rapporto qualora l’enfiteuta per tre anni
consecutivi non avesse pagato il canone o le imposte gravanti sul fondo, non avesse fatto la comunicazione dell’alienazione o non avesse pagato il laudemium, oppure avesse gravemente deteriorato
il fondo.
L’usufrutto ed i rapporti affini
L’usufrutto è il diritto reale che consente al titolare di utilizzare una cosa altrui e di percepirne i
frutti o i redditi facendo salva la destinazione e la natura della cosa stessa. Da esso nasce un rapporto assoluto reale in senso improprio avente ad oggetto una res fruttifera e inconsumabile.
In diritto romano all’usufruttuario veniva attribuito il diritto di utilizzare la res, senza distruggerla e
senza mutarne la destinazione economica, e di percepirne i frutti. A differenza di quanto accade nel
diritto vigente l’usufruttuario era considerato semplice detentore della res e non possessore e non
poteva, quindi, diventarne proprietario per usucapione.
L’origine dell’usufrutto risale al III sec. a.C., in quanto il matrimonium sine manu provocò il problema di provvedere al mantenimento della vedova che, non facendo parte della familia, non poteva
succedere ab intestato al marito. Poiché sembrava eccessivo destinare in legato il dominium, in
quanto ciò avrebbe comportata il depauperamento del patrimonio familiare, il testatore, mediante un
legatum sinendi modo, imponeva all’erede di lasciar percepire periodicamente i frutti di una cosa
fruttifera alla vedova beneficiaria. I tre caratteri fondamentali della figura sono la correlazione con
la destinazione economica della res, la connessione inscindibile con la persona e la temporalità.
L’usufruttuario non poteva mutare la destinazione del bene e tanto meno poteva compiere su esso
atti di disposizione. Neppure poteva apportare miglioramenti. L’usufruttuario doveva trattare e godere della cosa con la diligenza del bonus pater familias. Per essere immesso nell’esercizio del diritto, l’usufruttuario doveva prestare una stipulatio pretoria, chiamata cautio usufructuaria, a garanzia della conservazione e della restituzione della cosa.
L’usufrutto era connesso con la persona dell’usufruttuario. Il diritto si estingueva oltre che per morte, anche in caso di capitis deminutio. In epoca classica, la regola si applicava in tutti i casi di mutamento dello status familiae (capitis deminutio minima). Giustiniano, però, restrinse la regola ai soli casi di capitis deminutio maxima (perdita della libertà) e media (perdita della cittadinanza).
Il diritto, inoltre, era considerato inalienabile e intrasmissibile.
Il diritto di usufrutto doveva essere costituito a termine e comunque si estingueva con la morte
dell’usufruttuario.
Modi di costituzione del diritto erano la in iure cessio ususfructus, la deductio, la adiudicatio e,
molto diffuso, il legatum per vindicationem.
Un modo di costituzione introdotto dalla compilazione giustinianea fu la patientia, cioè la dichiarazione di volontà, riportata in un documento, per cui si consentiva che altri esercitasse l’usufrutto: al
riguardo si parlò di quasi traditio. Fino al periodo classico, si ritenne che l’usufrutto non poteva essere usucapito. Solo in epoca giustinianea si ammise che potesse ad esso applicarsi la longi temporis
praescriptio.
Tra i modi di estinzione dell’usufrutto rientrano, oltre alla morte dell’usufruttuario ed alla sua capitis deminutio, la consolidatio, ossia la riunione nella stessa persona delle situazioni di proprietario
ed usufruttuario, la remissio, cioè la rinuncia e il non usus.
Se l’usufrutto era disposto in favore di più persone, si aveva la figura dell’usufrutto congiuntivo. In
tal caso, se uno degli usufruttuari moriva, la sua posizione si accresceva negli altri anziché consolidarsi con la proprietà.
A tutela dell’usufrutto, l’usufruttuario poteva agire mediante la c.d. vindicatio usufructus che poteva essere esperita nei confronti del proprietario e, in diritto classico, nei confronti di qualsiasi possessore.
I rapporti affini all’usufrutto furono:
 il quasi usufrutto. Oggetto di usufrutto, in epoca repubblicana, potevano essere solo cose
inconsumabili, ossia quelle suscettibili di uso ripetuto e restituibili al nudo proprietario. Tuttavia si diffuse l’abitudine di attribuire per testamento l’usufrutto di tutto il patrimonio, senza operare alcuna distinzione tra cose consumabili e cose inconsumabili. L’imperatore Tiberio stabilì che tale disposizione testamentaria dovesse essere considerata valida, imponendo
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al beneficiario il versamento di una cautio, che garantiva all’erede la restituzione di cose
dello stesso genere e qualità di quelle ricevute che, essendo consumabili, non potevano essere usate e restituite. In diritto giustinianeo, l’istituto fu denominato quasi usufrutto;
 l’usus sine fructu. L’usus di una cosa fruttifera o anche infruttifera era riconosciuta sin
dall’epoca classica e consisteva nell’usare una cosa altrui entro i limiti dei propri bisogni o i
bisogni della propria famiglia, senza percepirne i frutti;
 l’habitatio che era il diritto reale che attribuiva al suo titolare la facoltà di abitare una casa
altrui e di darla in locazione a terzi.
 le operae servorum, ossia le prestazioni lavorative degli schiavi, mediante apposito legato,
potevano essere attribuite ad una persona diversa dal proprietario.
La servitù
Le servitù sono i più antichi diritti reali di godimento su cosa altrui del diritto romano. Il termine
sérvitus predii indicò, letteralmente, la situazione di subordinazione di un immobile, c.d. fondo servente, rispetto ad un immobile vicino, c.d. fondo dominante, al quale era destinato ad assicurare una
particolare utilitas.
L’istituto era regolato dai seguenti principi:
 Utilitas: il contenuto della servitù doveva rispondere ad un’esigenza o ad un’utilità che fosse
in relazione alle caratteristiche dei fondi e non in relazione alle esigenze personali del proprietario del fondo dominante.
 Perpetuità: non era ammissibile una servitù temporanea.
 Propinquitas: il fondo servente ed il fondo dominante doveva essere vicini, affinché la servitù costituita su uno torni a vantaggio dell’altro.
 Nemini res sua servit: in quanto la servitù era un ius in re aliena il fondo dominante e quello servente dovevano appartenere a diversi proprietari.
 Sérvitus in faciendo consistere equità: per la sua natura di diritto reale, la servitù poteva
consistere in un non facere o in un pati.
 La servitù era inalienabile, in quanto si trasmetteva necessariamente con il trasferimento del
fondo e non poteva alienarsi separatamente da esso.
 La servitù era indivisibile, in quanto non poteva sorgere o estinguersi che per intero.
Le servitù più antiche, e cioè quelle di passaggio e di acquedotto, essendo sorte in un’epoca in cui il
mancipium era l’istituto cardine del sistemo giuridico, si costituivano tramite mancipatio. Le servitutes nec mancipi furono quelle create in epoca successiva, attraverso il procedimento della in iure
cessio.
Principali figure di servitù prediali
Le più antiche servitù prediali erano:
 La via che attribuiva al proprietario del fondo dominante il diritto di passare attraverso il
fondo servente avvalendosi di una vera e propria strada.
 L’iter che comportava la facoltà di passare a piedi o a cavallo.
 L’actus che attribuiva la facoltà di condurre il bestiame attraverso il fondo servente.
 L’aquaeductus che comportava la facoltà di costruire le strutture per portare l’acqua al fondo dominante attraverso il fondo altrui.
Oltre queste quattro figure originarie, vanno ricordare, tra le servitù urbane:
 Sérvitus altius non tollendi: il proprietario del fondo servente non poteva costruire oltre
una certa altezza, per assicurare luci e vedute al fondo dominante.
 Sérvitus oneris ferendi: il proprietario del fondo servente doveva sopportare che il proprietario del fondo dominante appoggiasse la sua costruzione al muro o alle colonne di proprietà
del primo.
 Sérvitus stillicidii e sérvitus luminis, dirette entrambe a convogliare l’acqua piovana nel
fondo servente.
 Sérvitus proiciendi, che dava la facoltà di far sporgere balconi o grondaie al di sopra del
fondo servente.
Tra le servitù rustiche, vanno ricordate:
 Sérvitus aquae haustus, che dava diritto di attingere acqua nel fondo servente.
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 Sérvitus pecoris ad aquam appellandi, che dava diritto di condurre le pecore ad abbeverarsi nel fondo servente.
 Sérvitus calcis coquendae, che dava diritto di cuocere la calce sul fondo servente.
 Sérvitus harenae fondiendae, che dava diritto di scavare sabbia sul fondo servente.
Per la valida costituzione di una servitù occorreva che:
 I fondi in relazione fossero siti in solo italico;
 I proprietari dei fondi fossero domini ex iure Quiritium, cioè cives romani;
 Fosse posto in essere un modo di costituzione della servitù riconosciuto dallo ius civile.
In particolare, l’acquisto delle servitù poteva avvenire per:
 Mancipatio, per le servitù rustiche che erano classificate come res mancipi.
 In iure cessio servitutis, riservato alle servitutes nec mancipi, e consistente in una finta vindicatio servitutis, con cessio in iure dell’alienante.
 Deductio servitutis, valida per la servitutes mancipi e nec mancipi, che si verificava quando
un soggetto vendeva il fondo e contestualmente alla vendita si riservava, con la deductio,
una servitù a favore di un altro suo fondo.
 Adiudicatio della servitù da parte del giudice a seguito di un’actio communi dividundo, qualora la costituzione fosse stata necessaria a seguito della pronunciata divisione.
 Legatum per vindicationem, che presupponeva che il legatario fosse proprietario di un
fondo e che l’altro fondo destinato a diventare servente fosse del testatore e che dal testatore
si trasmettesse agli eredi o ad altro legatario per vindicationem.
A tali modi di acquisto, tipici dell’età classica, si aggiunsero in età postclassica e giustinianea:
 Pactio e stipulatio, consistenti in accordi tra i due proprietari volti alla costituzione di servitù.
 Traditio servitutis, detta anche quasi traditio o patientia, in quanto consisteva nella tolleranza del proprietario del fondo servente a che il proprietario di un altro fondo si comportasse come se fosse titolare di una servitù.
 Destinazione del padre di famiglia, che fu propria del diritto giustinianeo. Tale destinazione si verificava quando il proprietario di due fondi, dopo aver costituito opere permanenti
per la loro migliore utilizzazione, li trasferiva a due diversi soggetti. A seguito di tale trasferimento, automaticamente sorgeva una servitù a vantaggio e a carico dei due fondi, ormai
appartenenti a diversi proprietari.
La servitù si estinguevano per confusione, rinunzia, non usus. Si aveva confusio, quando lo stesso
soggetto diventava proprietario del fondo dominante e del fondo servente. Il mancato esercizio della
servitù prolungato per due anni ne determinava l’estinzione. Nessun problema si pose al riguardo
per le servitù rustiche, che erano servitù positive. Le servitù urbane, invece, erano negative, comportando un non facere da parte del dominus del fondo servente e non richiedendosi, per il loro esercizio, alcun comportamento positivo da parte del dominus del fondo dominante, fu posto il problema di come stabilire se v’era stato un non usus. La soluzione fu semplice: il termine biennale si
fece decorrere dal momento in cui il proprietario del fondo servente avesse tenuto un comportamento incompatibile con l’esistenza della servitù.
Con Giustiniano non si parla più di non usus ma di longi temporis praescriptio, e il termine si stabilì in 10 anni inter praesentes e 20 inter absentes.
I mezzi processuali a tutela della servitù, in un primo momento, si limitarono a regolare i rapporti
tra il proprietario del fondo dominante e il proprietario del fondo servente, mentre in seguito furono
esperibili erga omnes. Le azioni furono la vindicatio servitutis, principale strumento a favore del
proprietario del fondo dominante, l’actio negatoria servitutis, strumento con il quale il proprietario
di un fondo poteva respingere la pretesa di chiunque vantasse l’esistenza di una servitù a proprio
vantaggio su quel fondo e la cautio damni infecti, prevista in favore del dominus del fondo servente per tutelarsi contro i danni che potevano derivargli dall’esercizio della servitù da parte del proprietario del fondo dominante.
I diritti reali di garanzia: pegno ed ipoteca
In diritto romano si distingueva tra pignus datum, corrispondente all’odierno pegno, e il pignus
conventum, corrispondente all’odierna ipoteca. Gli istituti, caratterizzati da un regime quasi identico, si differenziavano per il diverso modo di costituzione. In particolare, mentre il pignus datum
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consisteva nella consegna di una cosa a scopo di garanzia, il pignus conventum o hypotheca, era
una convenzione in virtù della quale pur senza il trasferimento del possesso del bene, una cosa era
posta a garanzia di un’obbligazione.
In età preclassica e classica la più antica forma di garanzia delle obbligazione era la fiducia cum
creditore. Il soggetto che voleva contrarre un debito trasferiva al creditore un bene di sua proprietà
stipulando un patto, factum fiduciae, col quale il creditore si obbligava a ritrasferirgli la proprietà
della cosa qualora il debito fosse stato pagato.
Vera e propria garanzia era, invece, il pignus, che trasferiva non la proprietà, ma la sola disponibilità della cosa. Oggetto del pegno poteva essere qualsiasi cosa in commercio, suscettibile di possesso
e di alienazione. In relazione ai modi di costituzione del pegno, si distingueva tra:
 Pegno volontario, che si costituiva per accordo tra le parti o per testamento.
 Pegno legale, che era originato da disposizioni di legge, che intendevano tutelare particolari
categorie di creditori.
 Pegno giudiziale costituito dal magistrato. Questa forma di pegno, avente lo scopo di consentire l’esecuzione di sentenze emanate extra ordinem dal magistrato, era materialmente
posta in essere dai c.d. apparitores, che si impossessavano di cose appartenenti al debitore
condannato.
Il pegno non poteva esser costituito a favore di più creditori. Al creditore pignoratizio era riconosciuto lo ius possidendi, ossia il diritto di possedere la cosa immediatamente. Il possesso del creditore, tuttavia, non aveva valore ai fini dell’usucapione, mancando la iusta causa e la bona fidei, né
dava diritto all’uso della cosa. Era invece consentita l’eventuale percezione dei frutti della cosa come interessi del credito, se ciò era pattuito. Le parti solevano aggiungere alla costituzione del pegno
un patto, lex commissoria, con cui si stabiliva che, qualora l’obbligazione alla scadenza non fosse
stata adempiuta, il creditore diventava senz’altro proprietario della res oggetto del pegno. Il patto
commissorio fu vietato da Costantino in quanto ritenuto troppo oneroso.
Al creditore era inoltre riconosciuto lo ius distrahendi, ossia la facoltà, in caso di inadempimento,
di vendere la cosa data in pegno e soddisfarsi sul ricavato, salvo l’obbligo di restituire al debitore
l’eventuale residuo.
Il precedente romano della hypotheca o pignus conventum era dato dalla convenzione di garanzia
che soleva intervenire nella locazione dei fondi. Tra il locatore e il locatario interveniva un patto per
cui le cose da questi immesse nel fondo, complessivamente chiamate invecta et illata, servivano
come garanzia per il pagamento del canone.
Il conduttore di un fondo urbano non poteva asportare dal fondo gli invecta et illata oggetto del patto, ma contro l’opposizione del locatore doveva chiedere al pretore un interdictum de migrando.
Poiché l’interdetto era concesso solo se i canoni erano stati pagati, il locatore, in caso di inadempimento, tratteneva gli invecta et illata. La possibilità di costituire una garanzia con la sola conventio,
cioè senza il bisogno della materiale consegna, fu estesa a tutte le obbligazioni. Sorse così una nuova figura di diritto reale di garanzia, chiamata con nome greco hypotheca, con terminologia romana
pignus conventum. Se sulla stessa cosa gravavano, a garanzia di diversi crediti, più ipoteche, si applicava il principio prior tempore potior iure, prevalevano cioè le ipoteche costituite per prime. Al
creditore in cui favore era stata costituita un’ipoteca di grado successivo, era concesso il c.d. ius offerendi. Egli poteva subentrare nella posizione di un creditore che lo precedeva, se soddisfaceva le
sue pretese giudiziarie.
In epoca postclassica, le ipoteche costituite con documento pubblico o sottoscritte da almeno tre testimoni erano preferite ad altre eventualmente costituite per prime.
Il pegno e l’ipoteca si estinguevano per estinzione dell’obbligazione garantita, per perimento
della cosa oggetto di pegno o ipoteca, per confusione, ossia quando il creditore pignoratizio o ipotecario diventava, per qualsiasi causa, proprietario della cosa, per rinuncia del titolare del diritto di
credito, per acquisto del dominium sulla res pignorata da parte di un terzo che, in buona fede,
ignorasse l’esistenza del diritto reale di garanzia, come conseguenza della lex commissoria, fino a
che Costantino non vietò il patto commissorio.
Il possesso
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Il possesso può definirsi come il potere di fatto sulla cosa, che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio del diritto di proprietà o di un altro diritto reale. Tra gli elementi del
possesso si distinguono:
 Il corpus (elemento materiale), consistente nella materiale detenzione del bene da parte del
soggetto possessore;
 L’animus (elemento soggettivo), consistente nell’intenzione da parte del possessore di esercitare sulla cosa i poteri del proprietario o del titolare di altro diritto reale.
Tale ultimo elemento differenzia il possesso dalla detenzione che rileva quando il soggetto esercita
il potere di fatto sulle cose, non con l’intenzione di possedere (animo possidendi), bensì animo detiendi, cioè senza l’intenzione di esercitare un potere corrispondente alla proprietà.
La possessio era caratterizzata dalla materiale disponibilità di una res, cui si accompagnava la volontà di tenerla presso di sé come se fosse propria. In particolare, presentava l’elemento oggettivo
(corpus), quindi la materiale disponibilità della res e l’elemento soggettivo (animus rem sibi habendi), ossia l’intenzione di tenere per sé la res a titolo esclusivo.
Poiché questa situazione era tutelata dal pretore attraverso interdicta, si parlava anche di possessio
ad interdicta.
Inoltre si distinguono:
 Possessio naturalis o corpore, corrispondente all’odierna detenzione, che spettava al soggetto che aveva ricevuto il possesso su una res dal proprietario, obbligandosi alla restituzione di essa. Il detentore, pertanto, riconosceva la signoria giuridica del proprietario sulla res.
 Possessio civilis. Si trattava della possessio fondata su una iusta causa, vale a dire su un rapporto riconosciuto come idoneo dallo ius civilis a trasferire il dominium. Poiché, col decorso
del tempo, la possessio civilis comportò l’acquisto della cosa per usucapione, si parlò anche
di possessio ad usucapionem.
Si distingueva, altresì, la possessio iusta, che si aveva se era stata acquistata nec vi, nec clam, nec
precario, ossia senza violenza, né clandestinamente né per concessione precaria, dalla possessio iniusta o vitiosa, che era affetta da uno dei suddetti vizi e non comportava alcuna tutela.
La difesa del possesso fu opera del pretore. Nell’editto pretorio erano proposti due tipi di interdicta:
quelli retinendae possessionis e quelli recuperandae possessionis.
Gli interdicta retinendae possessionis avevano lo scopo di proteggere il possessore contro qualsiasi molestia arrecata alla sua facoltà di esercitare la propria signoria di fatto sulla cosa. Si distinguevano:
 L’interdictum uti possidetis, concesso in un primo momento a tutela del possesso di case e
successivamente di qualsiasi immobile. Tale interdictum mirava a proteggere il possesso attuale del bene;
 L’interdictum utrubi, concesso a tutela del possesso di uno schiavo prima e di qualsiasi cosa mobile poi. Era accordato a chi avesse posseduto nec vi, nec clam, nec precario
nell’ultimo anno per un maggiore periodo di tempo rispetto all’avversario.
Gli interdicta recuperandae possessionis avevano lo scopo di reintegrare nel possesso colui che
con violenza avesse subito lo spoglio di un bene immobile. Si distinguevano:
 L’interdictum de vi, il quale presupponeva lo spoglio violento avvenuto senza l’uso di armi. Esso era accordato se richiesto entro un anno dallo spoglio, per ottenere la reintegrazione nel possesso a chi possedeva nec vi, nec clam, nec precario;
 L’interdictum de vi armata, il quale supponeva una violenza grave ed era accordato senza
limiti di tempo a qualsiasi possessore, anche se iniustus.
Tra i modi di acquisto del possesso, va ricordata la traditio, cioè il materiale trasferimento della res
da un soggetto all’altro. Si riteneva inconcepibile l’acquisto del possesso da parte di un soggetto incapace di intendere e di volere, difettandogli necessariamente il requisito dell’animus. Il minore di
età poteva acquistare il possesso con l’autorizzazione del tutore.
Il possesso si estingueva, oltre che per il venir meno dei requisiti del corpus o dell’animus, anche
per la morte del possessore sprovvisto di eredi che potessero subentrare a lui nel possesso.
Le obbligazioni
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L’obligatio in epoca antica era estranea all’ordinamento, poiché i bisogni della collettività primordiale erano soddisfatti dalla terra e dalla pastorizia ed i rapporti tra i soggetti erano ben limitati.
Gli impegni che un pater familias assumeva verso un altro non avevano originariamente fondamento giuridico, ma si fondavano sulla fides e sulla possibilità concessa al creditore, in caso di inadempimento, di reagire personalmente verso l’inadempiente. Il sistema arcaico dello ius Quiritium non
conobbe il fenomeno del credito, ma si modellò sull’istituto del mancipium.
Prima della formazione della civitas, se si voleva assicurare l’adempimento di una prestazione, occorreva creare una situazione di fatto per influire sulla volontà del debitore, inducendolo ad adempierei volontariamente. Allo scopo, si soleva consegnare al creditore pegni od ostaggi, che rimanevano presso di lui fino a prestazione adempiuta. Quando sorse la civitas, l’antica consegna di pegni
od ostaggi si trasformò nell’istituto del nexum, consistente in una mancipatio, in virtù della quale lo
stesso debitore sottoponeva totalmente se stesso al potere del creditore, finché la prestazione non
fosse stata eseguita. Solo allora il debitore otteneva il suo riscatto. Il nexum si concretizzava in un
vincolo del debitore nella sua entità corporea. Ne conseguiva che il creditore aveva un diritto anche
sul cadavere del debitore. Il nexum venne abolito dalla lex Poetelia Papiria de nexis del 326 a.C.
La decadenza del nexum fu dovuta anche alla diffusione della sponsio, che in luogo
dell’asservimento di una persona, creava un vincolo (obligatio). La sponsio fu il più importante dei
contratti verbali e consisteva in uno scambio contestuale di domanda e risposta tra futuro creditore e
futuro debitore in base al quale il debitore non perdeva la libertà, ma diventava schiavo del creditore
solo in caso di inadempimento. La sponsio, per il suo carattere astratto, rispondeva ad ogni esigenza, dal momento che bastava pronunciare la formula solenne verbale composta dall’offerta e
dall’accettazione.
La lex Poetelia Papiria, oltre ad abolire il nexum, introdusse il principio della responsabilità patrimoniale del debitore, con conseguente possibilità di soddisfazione dei crediti mediante esecuzione solo sul suo patrimonio e non più sulla sua persona.
La definizione tradizionale è tratta dalle Istituzioni di Giustiniano: obligatio est iuris vinculum quo
necessitate adstringimur alicuius solvendae rei secundum nostrae civitatis iura, l’obbligazione è
un vincolo giuridico in base al quale siamo costretti per necessità ad adempiere nell’interesse
di taluno secondo il nostro ordinamento.
Categorie delle obligationes
Fonti delle obbligazioni erano i fatti giuridici cui la legge attribuiva l’effetto di produrre la nascita
di un’obbligazione. Gaio distinse tre categorie di obbligazioni:
 Obbligazioni ex contractu: si fondavano su un accordo, e a loro volta si distinguevano in
quattro sotto categorie:
- re contracte, se si costituivano mediante datio rei;
- verbis contractae, se si costituivano mediante formalità verbali;
- litteris contractae, se si costituivano mediante formalità scritte;
- consensu contractae, se si costituivano mediante lo scambio dei consensi.
 Obbligazioni ex delicto: derivavano dalla commissione di un fatto illecito, per il quale il reo
doveva corrispondere una pena pecuniaria alla parte lesa.
 Obbligazioni ex variis causarum figuris: era una categoria residuale in cui rientravano
quelle obbligazioni caratterizzate da un particolare regime che le differenziava dalle due
precedenti figure.
Le obbligazioni naturali
La nozione di obligationes naturales fu enucleata dalla giurisprudenza classica per i debiti vincolanti solo dalla comune coscienza sociale, e come tali sfornite di tutela giuridica. L’obligatio naturalis, pur avendo la struttura dell’obbligazione, e carattere patrimoniale, era sfornita di azione e di
mezzi per costringere il debitore all’adempimento. Essa produceva soltanto effetti giuridici limitati.
Se il debitore, pur non essendo vincolo giuridicamente, adempiva ugualmente, il creditor naturalis
godeva della soluti retentio, ossia del diritto di trattenere il pagamento che gli fosse stato fatto spontaneamente, respingendo la condictio indebiti eventualmente proposta per ottenere la restituzione di
quanto indebitamente pagato in adempimento dell’obbligazione naturale.
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Principali tipi di obbligazioni
Oltre che tra un singolo creditore ed un singolo debitore, l’obbligazione può sorgere anche tra più
creditore e più debitori. In relazione ai soggetti, quindi, si ha, accanto all’obbligazione soggettivamente semplice, l’obbligazione con pluralità di soggetti. Essa può essere parziaria o solidale. È
parziaria l’obbligazione con più soggetti, ciascuno dei quali è portatore di un diritto o obbligo parziale, proporzionato alla sua partecipazione al vincolo ed indipendente da quello degli altri. In particolare, se vi sono più creditori, ognuno di essi ha il diritto di esigere dal debitore soltanto la sua parte; se vi sono più debitori, ciascuno di essi è obbligato solo per la sua parte.
È solidale, invece, l’obbligazione con più soggetti, dal lato attivo o passivo, ma con un unico debitum, nella quale ogni creditore ha diritto di pretendere la prestazione per intero, oppure ogni debitore ha l’obbligo di eseguire l’intera prestazione.
Nei casi di delictum privato commesso da più persone, tutti i partecipi dovevano pagare la pena stabilita dalla legge e chiesta dal danneggiato con l’actio poenalis.
Mentre nelle obbligazioni solidali nascenti da delitto, l’unico creditore poteva rivolgersi a ciascun
debitore, anche in tempi successivi, ed ottenere da ciascuno l’intero (obbligazione solidale cumulativa), poiché la prestazione aveva il carattere di pena, nelle obbligazioni solidali da atto lecito il
pagamento eseguito da uno dei debitori o dall’unico debitore in favore di uno qualsiasi dei creditori
produceva l’estinzione dell’intera obbligazione, dal momento che scopo della solidarietà era proprio
quello di garantire l’adempimento dell’obbligazione.
Essendo l’obbligazione solidale composta da una sola obligatio, si poneva il problema del regresso
o della rivalsa da parte di chi avesse pagato per tutti gli altri condebitori e avesse voluto ottenere il
rimborso di quanto dovutogli dagli altri. Il regresso era possibile solo in base ai rapporti intercorrenti tra i vari debitori o creditori solidali.
Nel diritto romano l’obbligazione era indivisibile se la prestazione era indivisibile, quindi non suscettibile di adempimento parziale. La questione della divisibilità dell’obbligazione aveva scarsa
importanza se vi erano un solo debitore ed un solo creditore, poiché il creditore aveva diritto di pretendere per intero la prestazione senza alcun frazionamento. La distinzione assumeva importanza in
presenza della pluralità di debitori o creditori. Se l’obbligazione era divisibile, ciascuno dei creditori
poteva chiedere la prestazione solo per la sua quota e ciascuno dei debitori doveva adempiere la
prestazione solo pera la sua quota. Se l’obbligazione era indivisibile ciascuno dei debitori doveva
eseguirla per intero e ciascun creditore poteva esigerla per intero.
Un’obbligazione veniva definitiva alternativa nel caso in cui erano dedotte come oggetto
dell’obbligazione due o più prestazioni, ma il debitore doveva eseguirne una sola. Successivamente
l’obbligazione si concentrava su uno degli oggetti dovuti, per cui da alternativa si trasformava in
semplice. Il diritto di scegliere quale prestazione effettuare (ius eligendi) spettava normalmente al
debitore, a meno che il titolo costitutivo dell’obbligazione non l’attribuisse espressamente al creditore. Secondo lo ius civile, pertanto, prima dell’esecuzione era possibile mutare la scelta (ius variandi).
Erano generiche le obbligazioni aventi per oggetto una categoria più o meno vasta di cose. La scelta delle cose da prestare spettava, in via generale, al debitore. Nel diritto classico il debitore, poiché
formalmente tutte le cose comprese nel genus erano considerate uguali, poteva consegnare qualsiasi
cosa appartenente al genus, purché non fosse la peggiore esistente. Nel diritto giustinianeo il debitore doveva prestare una res mediae aestimationis, cioè di media qualità.
Le obbligazioni generiche avevano una particolare disciplina riguardo alla impossibilità sopravvenuta. Poiché il genus non perisce mai, il debitore non poteva liberarsi per impossibilità sopravvenuta della prestazione.
Modi di estinzione delle obbligazioni
In relazione ai modi di estinzione delle obbligazioni, il diritto romano distingueva tra modi di estinzione ipso iure e modi di estinzione ope exceptionis.
In particolare, secondo lo ius civile, l’obligatio si estingueva mediante la solutio che era un atto uguale e contrario a quello che costituiva la fonte dell’obbligazione. La solutio comportava
l’estinzione ipso iure del debito, al pari delle figure della acceptilatio e della litis contestatio.
Altri modi di estinzione furono riconosciuti dal pretore, il quale, non potendo modificare lo ius civile, non poteva dichiarare estinta una obligatio esistente secondo lo ius civile. Questi, pertanto, accordava una exceptio al debitore nei casi in cui riteneva estinta l’obligatio per fatti non contemplati
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dallo ius civile e faceva in modo che l’azione del creditore, pur esistendo civilisticamente
l’obligatio, fosse paralizzata dall’exceptio.
In conseguenza di ciò sorse la distinzione tra estinzione ipso iure ed estinzione ope exceptionis., che
costituiva il riflesso di quella tra ius civile e ius honorarium.
Le più antiche forme di liberazione ipso iure del debitore furono la solutio per aes et libram e
l’acceptilatio, cui si aggiunsero altre forme.
La solutio per aes et libram era l’atto contrario della nexi dato. In origine, si compiva nella stessa
forma della mancipatio e il creditore acconsentiva al fatto che il debitore, dopo aver pagato, pronunciasse una formula solenne di rivendicazione della propria libertà. Nel corso del tempo la solutio
perse la propria importanza, fino a scomparire del tutto in diritto giustinianeo.
L’acceptilatio era l’atto con cui il creditore dichiarava di avere ricevuto la prestazione. Essa poteva
aver luogo in due forme:
 Acceptilatio litteris, cioè letterale, che riguardava un’obligatio nascente dai nomina transcripticia, ossia i libri contabili che il pater familias soleva tenere per annotarvi le somme ricevute o versate nei rapporti con le persone con le quali era in affari. In tal caso
l’acceptilatio consisteva nel riportare per iscritto, tra le somme ricevute, la somma pagata
dal debitore.
 Acceptilatio verbis o verbale, che consisteva in un’interrogazione orale che il debitore rivolgeva al creditore, chiedendogli se avesse ricevuto quanto dovutogli, alla quale il creditore, sempre oralmente, rispondeva affermativamente.
Il pagamento doveva essere eseguito dal debitore al creditore o a colui che era legalmente autorizzato a riceverla. La prestazione doveva essere esattamente eseguita. Non si poteva, quindi, dare un
apud pro alio, cioè una prestazione diversa. Si ammetteva, tuttavia, che il creditore acconsentisse a
ricevere una prestazione diversa, liberando egualmente il debitore (c.d. datio in solutum).
L’obbligazione si estingueva per il c.d. concorsus causarum quando il creditore otteneva successivamente, in base ad altro titolo, la prestazione dovutagli. In tal caso il debitore non poteva più trasferire la proprietà della cosa oggetto della prestazione a chi ne fosse già diventato proprietario.
Si aveva confusio quando si riunivano nella stessa persona le qualità di creditore e di debitore. Suo
fondamento era l’impossibilità che, rispetto al medesimo rapporto, la stessa persona sia soggetto attivo sia passivo. La confusio frequentemente si verificava in seguito a successione ereditaria, ad esempio quando l’erede era creditore del de cuius.
La morte di uno dei soggetti del rapporto obbligatorio era causa di estinzione dell’obbligazione solo se si era in presenza di un rapporto intrasmissibile. La capitis deminutio media e maxima del debitore (in diritto classico anche la minima), estingueva il rapporto obbligatorio, ad esclusione delle
obbligazioni derivanti da delitto.
La litis contestatio era l’atto con cui si chiudeva la fase in iure del processo. Se il giudizio era legitimum, la litis contestatio produceva ipso iure l’estinzione dell’obbligo dedotto in giudizio. Al suo
posto sorgeva una situazione di soggezione all’eventuale condanna. L’effetto estintivo della litis
contestatio venne meno con la scomparsa del processo formulare.
La compensazione era il più importante modo di estinzione ope exceptionis ed operava nel caso in
cui tra le medesime persone intercorrevano rapporti reciproci di debito e di credito, che si estinguevano nella misura in cui concorrevano.
Il factum de non petendo era un accordo privo di forme prestabilite con cui il creditore conveniva
col debitore di non far valere il suo diritto di credito. In base all’editto pretorio de pactis, il debitore
poteva opporre al creditore con cui aveva stipulato un factum de non petendo la relativa exceptio
pacti, nonché chiedere la ripetizione del pagamento effettuato per errore malgrado l’esistenza del
patto.
Nel diritto romano classico la transazione non era un contratto tipico, bensì un fine che poteva essere posto alla base di una stipulatio oppure di un patto privo di forma prestabilita. In questo secondo caso, il pretore riconobbe che le reciproche rinunce delle parti in ordine alle rispettive pretese
davano luogo ad una exceptio pacti. In pratica, l’eccezione comportava l’estinzione
dell’obbligazione oggetto dell’atto transattivo. In epoca giustinianea la transactio fu considerato un
atto autonomo e tipico e venne inquadrato tra i contratti innominati.
L’istituto della praescriptio longi temporis, in base ad una costituzione di Teodosio II, acquistò
valore estintivo delle actiones in personam al verificarsi del trentesimo anno dal momento in cui il
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credito diveniva esigibile. La prescrizione si considerava interrotta dal pagamento parziale e
dall’esercizio dell’azione, mentre era sospesa se la titolarità del credito passava ad un incapace o in
tempo di guerra.
I fatti estintivo – modificativi delle obbligazioni erano la novatio e la delegatio. La novatio era la
sostituzione, ad una precedente obbligazione, che si estingueva, di una nuova obbligazione. La novatio aveva luogo mediante la costituzione di una stipulatio novatoria, che conteneva un espresso
riferimento all’obbligazione precedente, la quale poteva essere civile, pretoria o solo naturale.
Si distingueva tra novazione oggettiva, la quale comportava un mutamento nel contenuto del rapporto obbligatorio e novazione soggettiva, la quale comportava il mutamento di uno dei soggetto
del rapporto obbligatorio.
La delegatio, invece, consisteva nella designazione unilaterale, espressa o tacita, di un sostituto (c.d.
delegatus) nella posizione di creditore, di debitore, di accipiente, di solvente. A seconda di tali casi,
si distingueva, rispettivamente, tra: delegazione di credito, delegazione di debito, delegazione di
pagamento attiva e di pagamento passiva.
L’istituto era caratterizzato dall’esistenza di un ordine, rivolto da un soggetto delegante ad uno delegato. Il terzo delegatario, in caso di delegazione di pagamento, era tenuto ad adempiere al delegato o ricevere l’adempimento del delegato; in caso di delegazione di credito o di debito, egli poteva decidere se accettare o meno la nuova controparte.
Tra i fatti modificativi delle obbligazioni rientravano, oltre alla cessio crediti ed alla cessio debiti,
anche l’inadempimento imputabile al debitore e la morte e la capitis deminutio dei soggetti
dell’obbligazione, in presenza di rapporti trasmissibili.
Per lo ius civile l’obligatio era intrasmissibile, perché comportava il vincolo di una persona a favore
di un’altra. Quando fu introdotto il sistema dell’esecuzione patrimoniale si ammise, in linea di massima, che una situazione giuridica potesse trasmettersi sia dal lato attivo sia da quello passivo.
Lo ius civile non ammetteva che, oltre i casi di successio dell’erede, un diritto di credito potesse trasmettersi ad altri. Per questo, i giuristi utilizzarono istituti già vigenti per raggiungere gli effetti della cessione. Attraverso l’uso della novazione soggettiva, si ammise che chi voleva cedere un credito
ad un terzo potesse delegare il proprio debitore a promettere la stessa prestazione al terzo stesso, disposto ad accettare. In questo modo, l’obbligazione preesistente si estingueva per novazione e ad
essa subentrava una nuova obbligazione in cui il terzo figurava come nuovo creditore.
Per rendere più agevolmente possibile la cessione dei crediti, si consentì, col tempo, al creditore di
nominare la persona, cui voleva cedere il credito, come procuratore in giudizio. Il creditore cedente
dava mandato al cessionario di agire contro il debitore e di riscuotere il credito esonerandolo
dall’obbligo di restituirgli quanto riscosso. L’azione, alla quale ricorreva tale procuratore, era esercitata attraverso una formula a trasposizione di soggetti. Nell’intentio il cedente risultava indicato
come attore, mentre nella condemnatio era indicato come attore il procurator.
Il trasferimento del debito non poteva avvenire se non a seguito di successione ereditaria. La cessione del debito non era riconosciuta. Lo stesso risultato pratico della cessio debiti, tuttavia, poteva
essere raggiunto mediante:
 Novazione, quando con le stesse forme il debito di una persona era assunto da un’altra (expromissio), con la conseguenza che il terzo si obbligava verso il medesimo creditore ad eseguire la medesima prestazione dovuta dall’originario debitore;
 Designazione del terzo quale rappresentante processuale, il quale era autorizzato a stare in
giudizio verso il creditore che agisse per ottenere l’adempimento del creditore. In tal caso il
creditore non era obbligato ad operare la litis contestatio col terzo, ma se a ciò consentiva, la
condanna e l’esecuzione avveniva nei confronti del terzo, detto cognitor. Inoltre, il cognitor
non poteva essere costretto a contestare la lite col creditore, dal momento che era impegnato
solo nei confronti del debitore.
Le obbligazioni ex contractu ed i contratti in diritto romano
Tra le obbligazioni si distinguevano le obligationes ex contractu, le obligationes quasi ex contractu, le obligationes ex delicto e, infine, le obligationes quasi ex delicto.
Tra le prime, si distinguevano ulteriormente:
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 Obligationes re contractae, scaturenti dalla consegna di una res, cui corrispondevano i c.d.
contratti reali;
 Obligationes verbis contractae, scaturenti dalla pronuncia di determinate parole solenni,
cui corrispondevano i c.d. contratti verbali;
 Obligationes litteris contractae, caratterizzate da una determinata forma scritta, cui corrispondevano i c.d. contratti letterali;
 Obligationes consensu contractae, originate dallo scambio di consensi tra le parti, cui corrispondevano i contratti consensuali.
Le obligationes re contractae
Le obbligazioni reali erano quelle originate dalla consegna di una res ed implicavano l’obbligo di
restituzione. Ad esse, Gaio ricondusse, nelle sue Istituzioni, due figure: il mutuum e la solutio indebiti (vedi dopo). Successivamente alla figura dell’obligatio re contracta furono ricondotti anche i
contratti di deposito, comodato e pegno.
Il mutuo era un contratto reale, che si concludeva mediante il trasferimento della proprietà di una
somma di denaro o di un quantità di altre cose fungibili da un soggetto (mutuante) ad altro soggetto
(mutuatario), che si obbligava a restituire al mutuante una quantità uguale di cose dello stesso genere e qualità. Il mutuo si perfezionava con la datio rei, traslativa della proprietà.
Il mutuo poteva avere per oggetto solo cose fungibili. Il mutuatario assumeva, con la consegna,
l’obbligo di restituire non le stesse cose ricevute, ma una quantità uguale di cose dello stesso genere
e qualità (c.d. tandundem) al mutuante, che, a tutela, poteva esercitare l’actio certae creditae pecuniae (se il mutuo aveva per oggetto una somma di denaro) e la condictio certae rei (se oggetto
del mutuo era ogni altra cosa fungibile).
Inoltre, il mutuo era un contratto unilaterale, in quanto a seguito della consegna nascevano obbligazioni a carico del solo mutuatario. Infine, era essenzialmente gratuito. La gratuità non investiva
il rapporto intercorrente tra le due parti, bensì la struttura del mutuo, in cui aveva rilevanza decisiva
la portata della datio rei. Il mutuatario poteva essere tenuto a pagare gli interessi nel caso in cui era
posta in essere un’apposita stipulatio (stipulatio usurarum), formalmente autonoma e distinta dal
mutuo.
La fiducia consisteva in un atto solenne di alienazione di una res mancipi, effettuato per una causa
fiduciaria (fiduciae causa), attraverso una mancipatio o una in iure cessio (atti accessibili ai soli cives).
I contratti fiduciari producevano il trasferimento del dominium ex iure Quiritium sulla res, dal fiduciante al fiduciario, con l’obbligo da parte di quest’ultimo di restituire la cosa al fiduciante.
A seconda del fine a cui tendeva la trasmissione, si distinguevano la fiducia cum creditore e la fiducia cum amico. La fiducia cum creditore aveva luogo quando la proprietà di una cosa era trasmessa a garanzia di un credito. Originariamente il patto che accompagnava il trasferimento della
proprietà non ebbe autonoma esistenza, restando affidando alla semplice correttezza del compratore
l’obbligo di remancipare la cosa in caso di adempimento. Successivamente, il pactum fiduciae si intese collegato all’atto traslativo: per far valere tale patto, fu concessa l’actio fiduciae, nella quale il
fiduciante invitava il giudice a verificare se il convenuto si fosse comportato correttamente.
In epoca classica la fiducia cum creditore fu sostituita dalle figure del pegno e dell’ipoteca, e in diritto giustinianeo scomparve del tutto. In diritto classico la fiducia cum amico fu sostituita dal deposito e dal comodato, e scomparve in diritto postclassico.
Il deposito consisteva nella consegna di una cosa mobile da parte di uno dei due contraenti (depositante) all’altro (depositario) che, a sua volta, si impegnava a custodirla gratuitamente e a restituirla a
richiesta del depositante. La consegna era traslativa della mera detenzione della cosa (possessio naturalis). La cosa doveva essere mobile ed infungibile. Se era fungibile, doveva essere sistemata in
modo da permetterne l’identificazione. Il deposito era un contratto essenzialmente gratuito, in quanto il depositario non riceveva alcun compenso per la custodia. Se le parti pattuivano un compenso si
aveva locazione e non deposito.
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Il depositario, a seguito della consegna, assumeva l’obbligo di custodire la cosa affidatagli, adottando gli accorgimenti che risultavano indispensabili per la conservazione della cosa, e l’obbligo di
restituire la cosa depositata, direttamente fatta al depositante.
Al depositario era accordata un’actio contraria, con la quale poteva far valere contro il depositante
le pretese all’indennizzo delle spese, non della custodia, ma della manutenzione della cosa.
Nelle fonti erano contemplate due particolari figure di deposito: il deposito necessario o miserabile e il sequestro.
L’editto del pretore, che in generale accordava un’actio in factum al depositante, stabiliva che
l’actio fosse in duplum se il deposito fosse avvenuto a causa di tumulto, incendio, disastro o naufragio. Il deposito, in tali casi, veniva detto necessario o miserabile. Poiché si considerava che in presenza di tali circostanze il deposito fosse fatto in condizioni di urgente pericolo, tali da rendere non
libera la scelta del depositario, era considerata più grave la responsabilità di quest’ultimo nel caso di
rifiuto di restituzione. Si aveva depositum in sequestrem, o sequestro, se più persone davano una
cosa in deposito a qualcuno, con l’obbligo di custodirla e di restituirla a colui che, in seguito, si sarebbe trovato in una certa situazione. Mentre il depositario era un semplice detentore, il sequestratario era considerato possessore della cosa, potendo esercitare gli interdicta a tutela della possessio.
Inoltre il sequestratario non doveva restituire la cosa a richiesta, bensì solamente qualora si fosse
verificata la circostanza prevista
Il comodato era un contratto reale che si perfezionava con la consegna di una cosa da un soggetto
(comodante) ad un altro (comodatario), affinché quest’ultimo la usasse per poi restituirla al comodante.
La consegna della cosa importava il trasferimento della semplice detenzione. La cosa doveva essere
corporale ed inconsumabile. Una cosa consumabile poteva essere oggetto di comodato solo quando
era data per un uso diverso da quello normale, che non ne comportasse la consumazione, come le
monete date ad ostentationem, cioè al fine di permettere al comodatario di farne mostra con taluno.
Il comodato era un contratto essenzialmente gratuito, dal momento che se era previsto un compenso
il contratto doveva essere qualificato come locazione. Il comodatario poteva usare la cosa nei limiti
impostigli dal comodante. Dal comodato derivava a carico del comodatario l’obbligo di restituire la
cosa dopo l’uso e nel tempo convenuto.
Il comodato era un contratto unilaterale, poiché nessuna obbligazione nasceva a carico del comodante, il quale poteva revocare a proprio arbitrio la concessione dell’uso al comodatario.
Il contratto reale di pegno (datio pignoris) era uno strumento volto a raggiungere le finalità della
fiducia cum creditore, senza però trasferire la proprietà delle res oggetto del pignoramento al creditore e consisteva, in particolare, nel trasferimento del possesso di una cosa dal debitore al creditore,
affinché questi la tenesse presso di sé, per garanzia dell’adempimento di un suo credito, con
l’obbligo di restituirla in caso di esecuzione della prestazione. Se il debitore era inadempiente egli
poteva venderla, soddisfacendosi sul ricavato.
Le obligationes verbis contractae ed i contratti verbali
Le obbligazioni verbis contractae traevano origine dai c.d. contratti verbali caratterizzati tutti dalla
solennità e da un rigido formalismo.
La stipulatio era un contratto verbale, concluso attraverso uno scambio formale di domanda e risposta in virtù della quale un soggetto (promissor) si impegnava, nei confronti di un altro soggetto
(stipulans) che lo interrogava, a compiere una prestazione avente qualsivoglia contenuto.
In età classica i requisiti propri della stipulatio erano l’oralità, la presenza delle parti e la contestualità e la congruenza della domanda e della risposta.
La stipulatio era conclusa in forma orale e con la pronuncia di parole solenni. Pertanto non potevano concludere stipulatio il muto o il sordo. In età classica si affermò la prassi di effettuare la documentazione scritta dell’avvenuta stipulatio. Nell’età postclassica, una costituzione dell’imperatore
Leone stabilì che la stipulatio potesse essere contratta con qualunque tipo di parole. Tale regola implicò il riconoscimento esplicito della sufficienza del consenso, in qualsivoglia maniera manifestato.
Poiché la domanda e la risposta dovevano essere contestuali, era necessaria la presenza delle parti.
La risposta del promittente doveva contenere la stessa parola della domanda.
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La causa della stipulatio, per lo ius civile, era irrilevante. Tuttavia, già in età classica, il pretore concesse l’exceptio doli contro chi agiva in giudizio in mala fede, facendo valere una stipulatio priva di
causa.
La stipulatio poteva produrre effetti tra le sole parti contraenti. In diritto classico, si ritenne nulla
quella riferita ad un tempo posteriore alla morte dello stipulante o del promittente.
La tutela giudiziaria della stipulatio, se questa aveva ad oggetto una cosa determinata o una somma
di denaro o altre cose fungibili, nella procedura formulare era affidata alla actio certae pecuniae o
certae rei, detta anche condictio triticaria dai giustinianei.
La sponsio era la figura tipica di contratto verbale riconosciuta dallo ius civile, e senz’altro la più
antica forma di obbligazione di garanzia. Essa era assunta dallo sponsor rispondendo spondeo alla
domanda idem dari spondes?, ove l’idem si riferiva al contenuto dell’obbligazione principale. In
ogni caso il garante non poteva assumere un’obbligazione più grave (nell’ammontare, nelle modalità, ecc.) di quella garantita.
La sponsio poteva accedere solo ad obbligazioni derivanti da stipulatio. Era valida anche se era nulla l’obbligazione principale, poiché l’obbligazione assunta dallo sponsor era autonoma rispetto a
quella garantita. Era, infine, accessibile esclusivamente ai cives romani, durava solo un biennio e
non era trasmissibile agli eredi.
La fideipromissio aveva la stessa natura e gli stessi caratteri della sponsio, salvo la formula, che era
diversa. Si distingueva da essa essenzialmente in quanto era accessibile anche ai peregrini. Durava,
come la sponsio, solo un biennio ed il relativo obbligo non era trasmissibile agli eredi.
La figura della fideiussio nacque verso la fine dell’età repubblicana, con un regime diverso rispetto
alla sponsio e alla fideipromissio. A differenza di sponsio e fideipromissio, era riferibile a qualunque tipo di obligatio e non più solo a quelle originate da stipulatio. Inoltre, l’obbligo di garanzia non
si estingueva con la morte del soggetto, ma era trasmissibile agli eredi.
Non era, inoltre, previsto per la fideiussio il limite temporale biennale tipico della sponsio e della
fideipromissio.
In epoca classica, il creditore poteva rivolgersi, indifferentemente, al debitore principale o al fideiussore. Se il fideiussore pagava non aveva diritto di rivalsa verso eventualmente altri cofideiussori,
né aveva un’apposita azione contro il garantito, ma doveva agire con l’actio mandati o con l’actio
negotiorum gestorum.
In epoca giustinianea, la fideiussio assorbì le figure della sponsio e della fideipromissio, diventando
l’unica obbligazione di garanzia.
Lo sviluppo dell’istituto portò a ritenere l’obbligazione del fideiussore sussidiaria rispetto a quella
del debitore garantito. Ciò avveniva per effetto del beneficium excussionis che attribuiva la facoltà
di esigere che il creditore dirigesse la sua pretesa prima contro il debitore principale, e solo se questi
era insolvente, contro il fideiussore.
La dotis dictio era un atto tipico di costituzione della dote. Si trattava di un atto unilaterale che si
compiva mediante la pronuncia di determinate parole da parte del solo costituente. La dotis dictio
poteva essere compiuta dal pater familias o dal debitore di una donna per ordine di questa e produceva solo effetti obbligatori. La dotis dictio faceva sorgere un diritto di credito esclusivamente a favore del marito. Mentre per gli atti trasmissivi di dominium o costitutivi di iure in re aliena, le parole solenni erano pronunciate dall’acquirente, nella dotis dictio le parole erano pronunciate da chi si
sobbarcava l’erogazione.
La promissio iurata liberti era la solenne promessa fatta dallo schiavo liberato al suo patronus,
con la quale il primo si impegnava a prestare certi servigi a favore del secondo. Quasi certamente, al
patronus era riservata un’azione nei confronti del libertus inadempiente. Per tutelare il liberto contro
il patronus, nel caso di promessa di prestazioni che non consistessero in giornate di lavoro e nel caso di promessa troppo onerosa, il pretore intervenne con la denegatio dell’azione intentata dal patronus.
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Con la vadiatura un soggetto (vas) si assicurava che il convenuto sarebbe comparso in giudizio.
Con la praediatura più soggetti (praedes) o assicuravano che la parte, alla quale era stato assegnato
in via provvisoria il possesso della cosa durante il processo, la restituisse in caso di condanna, oppure, nella procedura dell’actio sacramenti, garantiva il pagamento del sacramentum.
Le obligationes literris contractae ed i contratti letterali
Le obbligazioni literris contractae traevano origine dai contratti letterali. Si trattava di obbligazioni
originate da particolari scritture provenienti dal creditore e dal debitore, o da uno soltanto di essi.
Per la loro costituzione era necessario il solo compimento della formalità della scrittura. Non era invece richiesta ab substantiam l’indicazione della causa del rapporto.
I nomina transscripticia avevano sempre ad oggetto una somma di denaro già dovuta in base ad
un’obbligazione preesistente e si fondavano sulle risultanze del codex accepti et expensi, ossia di un
libro contabile che il pater familias teneva per annotarvi le somme ricevute o versate a seguito di
rapporti di credito. Le somme ricevute erano riportate nella rubrica dell’acceptum e le versate in
quella dell’expensum.
La transscriptio poteva essere di due specie:
 Transscriptio a re in personam, utilizzata a fini di novazione oggettiva, se il creditore
scriveva nella rubrica dell’acceptum la somma dovuta, come se fosse stata ricevuta, e contemporaneamente inseriva nella rubrica dello expensum la stessa somma in riferimento alla
stessa persona, come se fosse stato costituito un mutuo. In tal modo il precedente debito si
estingueva e ne sorgeva uno nuovo litteris. Pertanto si verificava una novatio di
un’obbligazione non letterale in un’obligatio litteris.
 Transscriptio a persona in personam, se il creditore scriveva nella rubrica dell’acceptum
la somma dovuta dal debitore e nell’expensum la stessa somma in riferimento ad un’altra
persona, come se questa avesse contratto un mutuo. In tal caso si estingueva l’obbligazione
del precedente debitore e sorgeva un’obligatio litteris del nuovo debitore. Si surrogava, così,
un debitore già obbligato litteris, con uno nuovo.
I nomina arcaria, invece, facevano riferimento a registrazioni di esborsi realmente effettuati, a carico della cassaforte (arca) del creditore. Per questo motivo, si riteneva che le obbligazioni nascessero da un mutuum e non dalla registrazione, che aveva solo funzione probatoria.
Chirographa e syngraphae erano due istituti in uso presso i Greci e successivamente recepiti dal
diritto romano.
Il chirographum era un documento redatto in un solo originale e affidato al creditore contenente
l’attestazione di ciò che era effettivamente avvenuto tra le parti. Esso aveva mera efficacia probatoria.
Le singraphae erano, invece, redatte in doppio originale e contenevano dichiarazioni che potevano
anche contrastare con la realtà. La dichiarazione scritta produceva effetti giuridici e aveva carattere
costitutivo di obligatio litteris.
Le obligationes consensu contractae ed i contratti consensuali
Le obligationes consensu contractae o ex contractu derivavano dai quattro contractus riconosciuti in
Roma dallo ius honorarium e, quindi, da emptio – venditio, da locatio – conductio, da societas e da
mandatum.
I caratteri dei quattro contratti consensuali erano la consensualità, la libertà delle forme, la mera
obbligatorietà, la bilateralità e l’azionabilità ex fide bona, dal momento che contro
l’inadempimento poteva essere esperito un iudicium bonae fidei con cui il giudice, dotato di ampi
poteri, valutava la controversia.
L’emptio - venditio era un contratto consensuale attraverso il quale un contraente (venditor) si obbligava a consegnare una res all’altro (emptor), in cambio di una somma di denaro. I caratteri della
emptio – venditio erano la bilateralità e l’efficacia obbligatoria, in quanto da essa non derivava
alcun diritto reale a favore dell’acquirente, ma sorgevano solo obbligazioni reciproche tra i contraenti. Il compratore non acquistava il dominium sulla cosa, ma solo il diritto ad averla esercitando
l’actio empti, in quanto il trasferimento effettivo della res si aveva col compimento dell’apposito at49
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to traslativo, considerato quale negozio di adempimento degli obblighi assunti con la compravendita, generalmente contestuale alla conclusione della stessa.
L’empito – venditio, affermatasi nei rapporti commerciali tra peregrini e Romani, fece il suo ingresso nello ius privatorum romano attraverso lo ius honorarium. In sostanza l’istituto servì a colmare
una lacuna del sistema dello ius civile, che era quella di attuare una vendita ad effetto traslativo differito, indispensabile nella comune pratica commerciale.
In età postclassica, l’istituto acquistò efficacia traslativa immediata per l’influenza di vari fattori,
quali la progressiva decadenza della mancipatio e della in iure cessio, la valorizzazione degli atti
consensuali come costitutivi di rapporti giuridici assoluti e la forte influenza ellenistica.
Dopo la conclusione del contratto, si determinava il passaggio al compratore del periculum rei
venditae, ossia del rischio connesso al perimento della merce per caso fortuito o forza maggiore.
Da quel momento il compratore era sempre tenuto al pagamento del pretium, anche se la cosa non
ancora consegnatagli fosse andata distrutta.
La compravendita non era un contratto formale, pertanto il consenso poteva essere manifestato liberamente. Si usò, per esigenze probatorie, redigere per iscritto documenti che attestassero l’accordo
concluso. Il loro valore sino a tutta l’età classica fu soltanto quello di prova, della quale il giudice
avrebbe potuto apprezzare liberamente l’attendibilità. In età postclassica, per le compravendite di
immobili o di cose di rilevante importo, l’uso di tali documenti (instrumenta) si diffuse al punto che
l’impiego di essi fu ritenuto necessario.
La giurisprudenza ammise la validità di una vendita di cosa futura a condizione che la cosa venisse
ad esistenza, nonché di una vendita aleatoria di cosa futura indipendentemente dal fatto che la cosa
venisse o meno ad esistenza.
Era nulla la vendita di cosa di proprietà del compratore, a meno che con l’atto non si mirasse a far
acquistare il possesso della cosa al proprietario non possessore.
Era nulla la vendita di res extra commercium, a meno che il compratore, in buona fede, ne ignorasse
l’incommerciabilità. In tal caso era accordata un’actio doli contro il venditore.
Il prezzo doveva essere certo e determinato. Se era simulato, il contratto concluso andava qualificato non come emptio – venditio ma come donatio.
Nel diritto classico era dubbio se il prezzo potesse essere determinato da un terzo. La questione fu
risolta in senso affermativo nel diritto giustinianeo.
Mentre nel diritto classico la determinazione del prezzo era lasciata alla piena libertà delle parti,
salvo il ricorso all’exceptio doli, il diritto giustinianeo ritenne che il prezzo doveva essere iustum,
cioè proporzionato. Si ammise che colui che avesse venduto la cosa per un prezzo inferiore alla metà del suo valore poteva ottenere la rescissione della vendita, salva la possibilità del compratore di
pagare la differenza.
Discussa è la questione del momento del passaggio della proprietà, a causa delle contraddizioni presenti nelle fonti. Mentre Gaio affermava che avvenuta la traditio la proprietà passava subito
all’acquirente, altri giuristi ritenevano che il dominium passasse pretio soluto, ossia pagato il prezzo, oppure solo quando il compratore avesse fornito sufficienti garanzie.
Per il venditore nasceva l’obbligo di garantire il possesso e il pacifico godimento della cosa al compratore, non di trasferirne la proprietà. Se era previsto anche tale obbligo, in cambio del prezzo, si
aveva un’ipotesi di c.d. contratto innominato.
Il venditore, inoltre, doveva prestare la garanzia per l’evizione e per i vizi occulti della cosa. Quanto
alla responsabilità per l’evizione della cosa, originariamente, l’alienante ne rispondeva qualora la
vendita fosse stata attuata mediante mancipatio, nel caso in cui il compratore fosse stato chiamato in
giudizio da un terzo rivendicante. Il mancipio dans assumeva l’obbligo di garanzia in base ad apposita nuncupatio.
Circa i vizi della cosa venduta, originariamente poteva sorgere una responsabilità in seguito a dichiarazioni solenni pronunciate all’atto della mancipatio. Successivamente, si introdusse la prassi di
garantire con apposita stipulatio la presenza delle qualità e l’assenza dei vizi della cosa.
L’evoluzione dell’istituto portò la giurisprudenza ad affermare che il venditore era ritenuto responsabile verso il compratore, anche nel caso di dichiarazioni circa l’esistenza di determinate qualità
della res, inesistenti, o nel caso in cui avesse taciuto dolosamente l’esistenza di vizi. In tal caso il
venditore era obbligato a risarcire i danni subiti dal compratore.
L’obbligazione tipica dell’emptor era di solvere pretium. Inoltre, il compratore era tenuto anche al
pagamento degli interessi ed a cooperare col venditore alla prestazione.
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Col termine locatio – conductio era indicato quel contratto consensuale col quale una parte (locatore) si obbligava a mettere nella materiale disposizione dell’altra (conduttore) una cosa, che
quest’ultimo era tenuto a restituire dopo averla goduta per un certo tempo, o dopo averla lavora,
manipolata, trasformata nel modo pattuito.
Vendita e locazione nel diritto romano non erano nettamente distinte, poiché entrambe potevano essere costitutive di sole obbligazioni. Ciò che faceva distinguere i contratti non era la perpetuità del
rapporto, potendo esservi locazione perpetua, ma la funzione del contratto. Mentre la vendita attribuiva al compratore un potere assoluto e definitivo, la locazione attribuiva solo il godimento della
cosa.
In diritto classico, nell’ambito della locatio conductio, si distinse tra locatio rei, locatio operis, locatio operarum.
Qualunque cosa poteva formare oggetto di locatio rei, purché inconsumabile. La locatio poteva avere come oggetto anche uno schiavo e poteva importare la facoltà di avvalersi delle operae di lui.
La merces era il corrispettivo per il godimento della cosa ed era costituito generalmente da denaro.
Tuttavia, poteva essere costituita anche dai frutti della cosa locata.
Gli obblighi del locatore erano:
 Lasciare il conduttore nel godimento della cosa per tutta la durata del contratto, anche se le
spese di manutenzione incombevano sul locatore. Se questi non riparava porte e finestre, il
conduttore aveva il diritto ad un riduzione della mercede e se faceva le riparazione a proprie
spese aveva diritto al rimborso.
 Consegnare la cosa in buono stato e mantenerla in tale stato per la durata del contratto, onde
garantirne il godimento al locatario.
Gli obblighi del locatario erano:
 Pagare la mercede alle scadenze pattuite.
 Custodire la cosa.
 Restituire la cosa al termine della locazione in quanto il conduttore rispondeva anche per la
custodia, la quale importava responsabilità anche per il furto della cosa locata.
La locatio operarum, derivando dalla locazione dello schiavo, poteva avere come oggetto non
qualsiasi lavoro umano, ma soltanto quello prevalentemente manuale, che di solito era prestato proprio dagli schiavi. La locatio operarum cessava per morte del locator, essendo impossibile che le
operae fossero prestate da persone diverse.
Nella locatio operis il locatore doveva fornire al conduttore la materia prima da lavorare o la cosa
oggetto della prestazione di un servizio. Il conductor aveva il compito di trasformarla, lavorandola e
di riconsegnarla al locator, in cambio del pagamento di una merces.
Il conduttore era obbligato ad eseguire il lavoro o il servizio affidatogli sia personalmente sia, eventualmente, utilizzando l’opera dei propri schiavi, sia sublocando l’opera ad un altro conductor.
L’opera doveva essere eseguita nel tempo stabilito e, nel silenzio delle parti, entro il periodo di
tempo considerato necessario per condurla a termine.
La societas era un contratto consensuale, in virtù del quale due o più soggetti si obbligavano reciprocamente a mettere in comune beni oppure attività di lavoro per il conseguimento di un risultato
lecito utile a tutti.
La società poteva essere di due tipi:
 Societas omnium bonorum, caratterizzata dall’impegno dei soci di tenere a disposizione
comune la totalità dei loro beni per impiegarli in operazioni da svolgere di comune accordo.
 Societas unius rei, la quale poteva essere contratta per il compimento di una o più operazioni, di un certo tipo di attività economica.
Obblighi del socio erano apportare in società quanto promesso e rendere comuni gli acquisti
fatti per la società. Salvo diverso accordo delle parti, la ripartizione degli utili doveva essere effettuata in proporzione identica a quella delle parti e l’accordo tra i soci non poteva escludere la partecipazione agli utili di un socio che partecipava, sia pure parzialmente, alle perdite (societas leonina).
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Le obbligazioni reciproche derivanti dal contratto di società erano tutelate dall’actio pro socio, che
era un’azione civile e di buona fede. Essa poteva essere esperita come azione generale di rendiconto
finale della società, ma poteva anche essere intentata quando ancora il rapporto di società perdurava.
La società si estingueva:
 Ex personis, quindi per morte o capitis deminutio di uno dei soci.
 Ex rebus, ossia per il raggiungimento del fine sociale o per la sopravvenuta impossibilità di
raggiungerlo.
 Ex voluntate, ossia per volontà dei soci, per scadenza del termine fissato o per rinuncia.
 Ex actione, a seguito dell’azione di divisione.
In epoca giustinianea fu considerata causa di scioglimento della società anche il fallimento di uno
dei soci.
Il mandatum era un contratto consensuale, in virtù del quale un soggetto (mandatario) si obbligava
a titolo gratuito verso un altro soggetto (mandante) a compiere uno o più atti, per l’utile di questi o
di terzi o anche parzialmente per un utile proprio del mandator, salvo aver diritto al rimborso da
parte del mandante delle spese e dei danni subiti nella esecuzione dell’incarico.
Il mandato fu riconosciuto come contratto consensuale intorno al II secolo a.C., quando le esigenze
del commercio comportarono che un operatore economico (romano o straniero) fosse costretto a far
capo ad un suo corrispondente lontano per provvedere al compimento di un affare che non poteva
curare personalmente.
Il mandato era essenzialmente gratuito, poiché si basava sull’amicizia. Se era pattuito un compenso,
il contratto doveva essere qualificato come locatio conductio.
Dal mandato derivavano obbligazioni reciproche, che si facevano valere per mezzo dell’actio mandati, che era di buona fede ed esperibile dal mandante (actio mandati directa) e dal mandatario (actio mandati contraria).
Il mandatario aveva l’obbligo di compiere, in base alle istruzioni ricevute, l’atto o gli atti voluti dal
mandante e di condurre a termine l’incarico. Se il mandatario eccedeva i limiti dell’incarico ricevuto (ultra mandatum), il mandante poteva agire contro di lui per far valere il suo interesse ad un corretto adempimento dell’incarico datogli.
Il mandatario, inoltre, aveva l’obbligo di riversare le conseguenze della sua attività nella sfera giuridica del mandante e cioè trasferire il dominio delle cose acquistate, versare quanto dovuto, etc.
Il mandante era obbligato ad indennizzare il mandatario di tutte le spese, nonché dei danni subiti in
esecuzione del mandato.
Il mandato si estingueva per esecuzione dell’incarico o sopravvenuta impossibilità di eseguirlo, per
la scadenza del termine stabilito e per il venir meno del consensus perseverans. Inoltre, avveniva
anche per il recesso di una delle parti (revocatio del mandante e renuntiatio del mandatario).
Poiché il fondamento del mandato consisteva nella fiducia reciproca, esso cessava per morte di una
delle parti. Tuttavia, se le obbligazioni erano già sorte in conseguenza dell’esecuzione dell’incarico,
gli eredi erano vincolati all’adempimento.
Era affetto da nullità il mandatum post mortem che aveva per oggetto attività da compiere dopo la
morte del mandante o del mandatario. Si ritenne, inoltre, inammissibile una renuntiatio del mandatario che risultasse pregiudizievole per il mandante.
Il mandatum pecuniae credendae (mandato di credito) consisteva nell’incarico che un soggetto
dava ad un altro di prestare denaro ad un terzo. L’istituto venvia usato a scopo di garanzia personale
delle obbligazioni. Il mandatum pecuniae credendae era un contratto a forma libera, da cui nasceva
un’obligatio verbis contracta.
Il procurator era una figura tipica del mondo romano e colui che era considerato come l’alter ego
di qualcuno, avendo la libera amministrazione dei beni del dominus, poteva alienare cose o schiavi,
costituire pegni, e così via.
In origine, la procura era un istituto vincolante più dal punto di vista sociale che giuridico e assolveva la stessa funzione svolta successivamente dal mandato. Si trattava di un atto unilaterale che
conferiva un potere negoziale al procurator. Quando fu elaborato l’istituto del mandato, si cercò di
unificare le due figure, pur riconoscendosi la possibilità di una procura senza mandato. Nell’epoca
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postclassica la procura fu assorbita del tutto dal mandato. Si qualificò, pertanto, verus il procuratore
con mandato e falsus il procuratore senza mandato.
Contratti pretori e contratti innominati
Accanto alle obbligazioni nascenti dalle quattro figure di contractus costituite dalla vendita, dalla
locazione, dalla società e dal mandato, si possono collocare le obligationes ex pacto e le obligationes derivanti da convenzioni sine nomine. Queste obbligazioni trovavano il loro fondamento in base
ad accordi di volontà. In dottrina, per distinguerle dalle altre categorie, vengono dette obligationes
non contractae.
Le obligationes ex pacto acquistarono rilievo con l’intervento del pretore, il quale nell’editto introdusse una clausola pacta conventa servabo (rispetterò i patti).
Le obligationes da convenzioni sine nomine, ossia quelle nascenti dai contratti innominati, trovarono una compiuta disciplina solo nell’età postclassica.
Per pactum si intendeva un mero accordo o convenzione, tra due o più soggetti, al fine di regolare
una situazione di comune interesse. Lo ius civile considerava irrilevanti i patti, i quali potevano solo
produrre conseguenze determinate dal costume sociale.
In via di eccezione, lo ius civile considerò rilevante il pactum se si trattava di:
 Pactum adiectum, ossia di una clausola accessoria apposta a qualche negozio;
 Pactum legitimum, ossia di un patto riconosciuto produttivo di conseguenze giuridiche in
base ad una lex.
A seguito dell’intervento del pretore, oltre ai pacta legitima (produttivi di obligationes iure civili), si
distinguevano i nuda pacta, privi di valore giuridico e i pacta praetoria, che originavano azioni o
eccezioni pretorie e quindi obligationes honorariae. In età postclassica il concetto di pactum tese ad
identificarsi col concetto di conventio, il quale a sua volta diventò sinonimo di contractus. Pertanto,
fu elaborata l’unica figura dei pacta.
Il pretore accordò un’azione, chiamata de constituta pecunia, contro colui che prometteva di pagare in un determinato giorno o in determinato luogo una prestazione di denaro dovuta da un terzo
(constitutum debiti alieni). L’istituto era fondato sulla fides ed aveva scopo di garanzia, poiché il
creditore veniva ad avere un altro debitore. La figura finì con l’essere assorbita nella categoria generale del contratto e della fideiussione.
Nel diritto romano il recipere (vale a dire la consegna di una res) comportava assunzione di responsabilità. Il recptum argentarii consisteva nell’impegno di eseguire una prestazione pecuniaria verso un terzo da parte di un banchiere (argentarius) per ordine di un suo cliente. Esso presupponeva
un accordo tra cliente e banchiere ed è paragonabile alla moderna figura dell’assegno.
Il receptum arbitrii era l’accettazione, da parte di un arbitro scelto in base ad un compromissum da
due soggetti in lite, dell’incarico di procedere ad un arbitrato, emettendo una sententia per risolvere
la controversia sottoposta al suo giudizio. Le parti si impegnavano mediante reciproche stipulationes al pagamento di una penale se una di esse ometteva di attenersi alla decisione dell’arbitro.
Il receptum nautarum, cauponum et stabuliorum era un patto di assunzione di responsabilità,
per l’ipotesi di perdita degli oggetti del cliente, da parte di armatori di una nave (nautae), di albergatori (caupones) e di esercenti di una stalla (stabularii).
Il pretore accordò un’azione contro di essi, che rispondevano della sottrazione o del danneggiato
delle cose a loro affidate, a meno che non fosse intervenuta una vis maior (incendio, naufragio).
L’intervento del pretore intese aggravare la normale responsabilità di tali persone allo scopo di reprimere la loro disonestà.
Nel diritto giustinianeo il pactum donationis era il patto tra donante e donatario, in virtù del quale il
donante si impegnava a compiere un atto di liberalità, ossia un’attribuzione patrimoniale senza corrispettivo, a favore del donatario.
OBLIGATIONES DA CONVENZIONI SINE NOMINE
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Tra le obligationes non contractae, ossia non rientranti tra le figure riconosciute dallo ius civile, nel
diritto giustinianeo furono classificate quelle aventi per oggetto una prestazione correlata ad un’altra
prestazione. Le convenzioni sine nomine che davano luogo a tali obbligazioni vengono definite come contratti innominati. Le infinite ipotesi di contratti innominati furono inquadrate dai compilatori giustinianei in quattro categorie, tenendo presente il diverso contenuto della prestazione e della
controprestazione:
 Do ut des, se si effettuava la datio di una cosa per avere la datio di un’altra.
 Do ut facias, se una parte dava una cosa in cambio di una prestazione di facere.
 Facio ut des, se una parte effettuava una prestazione di facere per avere una cosa.
 Facio ut facias, se una parte eseguiva una prestazione di facere per avere un’altra prestazione di facere.
Alcune figure di contratti innominati, col tempo, iniziarono ad essere considerate come contratti tipici. Tra esse occorre ricordare la permutatio, l’aestimatum e il precarium.
Si aveva permutatio quando una parte trasferiva all’altra il dominium su una res, ricevendone, in
cambio, il dominium su un’altra res. Si trattava, pertanto, di una convenzione del tipo do ut des. Nel
diritto giustinianeo la permuta rientrò tra i contratti del tipo do ut des e fu tutelata da un’actio praescriptis verbis. L’evoluzione postclassica estese alla paermuta la garanzia per evizione e per vizi,
nonché quella relativa alla sopportazione del rischio, gravante sulle parti prima della consegna della
res.
Si aveva aestimatum quando un contraente consegnava all’altro (accipiens) una cosa stimata, allo
scopo di venderla, con l’obbligo da parte dell’accipiens di restituirla in caso di mancata vendita o di
pagarne la stima prefissata.
Il precarium era un istituto molto antico, per il quale il precario dans concedeva gratuitamente ad
altri (precarista) un bene affinché ne godesse a suo piacimento. Se il precarista non restituiva la cosa, il concedente, oltre ad agire con la rei vindicatio, poteva chiedere un apposito interdetto restitutorio, detto interdictum precario.
Le obbligazioni da atto lecito (quasi ex contractu)
Tutte le fonti di produzione di obligationes che prescindevano da un accordo di due o più volontà
erano definite dai compilatori giustinianei obbligazioni quasi ex contractu. Appartenevano alla categoria il legatum per damnationem e quello sinendi modo, la negotiorum gestio, la solutio indebiti,
la pollicitatio, il votum e la communio incidens.
La negotiorum gestio (gestione di affari altrui) costituisce l’assunzione spontanea della rappresentanza indiretta un soggetto verso un dominus negotii assente o impossibilitato ad attendere ad un
determinato affare. La gestione doveva essere intrapresa spontaneamente, senza alcuna sollecitazione da parte del dominus negotii interessato.
Per aversi negotiorum gestio occorrevano i seguenti requisiti:
 Compimento di un atto che importasse gestione di affari altrui. Poteva trattarsi di un atto
materiale (es. piantagione di semi) o giuridico (es. conclusione di un contratto).
 Assenza di un mandato, sia tacito, sia espresso. Infatti non doveva sussistere in alcun modo, a momento dell’attività posta in essere dal gestore, il conferimento di un apposito incarico.
 Volontà di gestire un negozio altrui. La negotiorum gestio era esclusa se la gestione veniva intrapresa nell’interesse proprio.
 Utilità della gestione intrapresa. Ai fini della valutazione dell’utilità della gestione, occorreva tener conto del momento in cui la gestione era stata intrapresa, e non del suo esito finale.
A tutela del dominus, era accordata un’actio negotiorum gestorum directa, mentre, a tutela del gestor, era accordata un’actio negotiorum gestorum contraria. Si trattava di azioni di buona fede. Presupponevano che avesse avuto luogo gestione di affari altrui, e che il gestore li avesse intrapresi con
la convinzione che fossero effettivamente altrui. Si richiedeva, inoltre, che la gestione fosse almeno
iniziata utilmente, non rilevando se poi l’esito fosse stato non utile per il gerito (dominus negotii).
Tuttavia l’azione fu negata al gestore nei confronti del dominus negotii che lo avesse diffidato a
condurre la gestione (c.d. prohibitio domini).
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Altra possibile fonte di obbligazione era rappresentata dai legati: in particolare dai legati per damnationem e sinendi modo. Si trattava di disposizioni testamentarie che davano luogo a un vincolo
obbligatorio tra erede e legatario: debitore il primo, creditore il secondo. L’obbligazione sorgeva
per volontà del testatore e pertanto indipendentemente da ogni accordo tra le parti. L’obbligazione a
carico dell’erede debitore e in favore del legatario creditore nasceva solo dopo che, morto il testatore, il testamento acquistava efficacia. Grande applicazione ebbe il legato per damnationem. Era una
disposizione di ultima volontà con cui il testatore, mediante l’uso di certa verba, onerava l’erede di
compiere una prestazione determinata. La prestazione poteva essere tra le più varie ed eterogenee,
purché rientranti nell’idea del dare o del facere. Con il legato sinendi modo, che pure doveva essere
disposto con certa verba, il testatore poneva a carico dell’erede un obbligo di non facere tale da
consentire al legatario di appropriarsi di qualcosa, che poteva essere o ereditaria o personale
dell’erede.
Si aveva solutio indebiti quando un soggetto eseguiva una prestazione di dare non dovuta o perché
l’obbligazione era inesistente o perché esisteva, ma intercorreva tra soggetti diversi. In questo caso,
chi pagava poteva chiedere la restituzione di quanto indebitamente prestato, ricorrendo allo strumento della condictio indebiti. L’obligatio nasceva per il semplice fatto che si fosse data la cosa.
Tuttavia, poiché l’accipiente acquistava in seguito alla datio la proprietà della cosa, il solvente non
poteva esperire la rei vindicatio della cosa trasmessa, bensì la condictio per la restituzione del tantundem (ossia di una quantità di res dello stesso genere e della stessa specie).
Per poter esercitare la condictio occorreva:
 Una datio. L’acquisto della proprietà da parte dell’accipiente si verificava a seguito del trasferimento in proprietà di danaro o di altra cosa corporale.
 L’assenza di causa. Occorreva che mancasse una ragione ritenuta dal diritto sufficiente a
giustificare da parte dell’accipiente la conservazione del suo acquisto.
Inoltre, per l’esperibilità della condictio non dovevano mancare:
 L’error solventis, in quanto in assenza dell’errore si riteneva che il solvente volesse gratificare l’accipiente.
 L’error accipientis, in quanto, se l’accipiente riceveva scientemente un indebitum, si riteneva che si verificasse un furtum, con la possibilità dell’esperimento della condictio ex causa furtiva.
Qualora il patrimonio di una persona, per fatto proprio o altrui, fosse aumentato in danno di altre
persone senza causa giustificatrice o per una causa contraria alla legge, era concessa al soggetto
danneggiato e nei confronti dell’arricchito, una condictio, detta azione di arricchimento, allo scopo
di ristabilire il giusto equilibrio tra i patrimoni. In tema di arricchimento ingiustificato, esistevano
i seguenti rimedi giudiziali:
 Condictio ex causa furtiva, concessa in favore del dominus derubato, con cui era possibile
richiedere la restituzione di una res già in proprietà dell’attore.
 Condictio ob causam datorum, accordata al soggetto che avesse dato una cosa ad altri per
avere una futura controprestazione, qualora questa non fosse stata eseguita.
 Condictio ob turpem causam, esercitabile al fine di ottenere la restituzione di una cosa,
trasferita in esecuzione di un atto contrario alla morale.
 Condictio ob iniustam causam, che mirava alla ripetizione di ciò che si era dato per una
causa disapprovata dalla legge come, ad esempio, quando si pagava in base ad una stipulatio
estorta con la violenza.
 Condictio sine causa, accordata a chi avesse dato una cosa ad altri per raggiungere uno
scopo, poi venuto meno.
La pollicitatio era la promessa unilaterale non formale di un cittadino nei confronti della civitas,
avente ad oggetto il compimento di un opus di pubblica utilità oppure altre prestazioni. La polliticitatio soleva essere fatta da coloro che intendevano assumere una carica pubblica oppure l’avevano
già assunta. La promessa non aveva bisogno di accettazione della civitas ed era resa coercibile extra
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ordinem in via amministrativa. Il promittente, nel diritto giustinianeo, non si considerava vincolato
dalla semplice promessa, ma solo se aveva dato inizio all’esecuzione.
Il votum era una promessa sacrale effettuata ad una divinità. L’impegno era assunto nella sfera religiosa in ordine ad una certa prestazione propiziatoria o di ringraziamento. I sacerdoti della divinità
potevano chiedere l’adempimento della promessa mediante il ricorso alla procedura extra ordinem.
La communio incidens era la communio derivante da causa diversa da una conventio tra i comunisti. La relativa figura fu inserita nel novero dei quasi contratti dalle Istituzioni di Giustiniano. La
communio incidens era regolata in maniera simile alla società; era possibile chiedere lo scioglimento della communio, esercitando l’actio communi dividundo o l’actio familiae erciscundae, in caso
di coeredità.
L’obbligo di prestare gli alimenti, ossia i mezzi di sussistenza, era estraneo allo ius civile, per il
quale risultava inconcepibile imporre al filius (il quale non poteva avere patrimonio, poiché ogni
acquisto veniva fatto in nome del pater familias) l’obbligo di prestare gli alimenti al proprio pater.
L’obbligo alimentare fu introdotto all’epoca di Antonino Pio (138 – 161 d.C.) e di Marco Aurelio
(161 – 180) per singoli casi specifici. Successivamente acquistò una portata generale, quindi era valido erga omnes. In età postclassica, sotto l’influsso del Cristianesimo, si ritenne che l’istituto si basasse sulla caritas sanguinis (carità legata al vincolo di sangue).
Le obbligazioni ex delicto e quasi ex delicto
Nel diritto romano gli atti passibili di pena si distinguevano in:
 Crimina, ossia infrazioni all’ordine sociale che importavano la lesione di valori rilevanti per
l’intera civitas, punite inizialmente dai comizi e poi da giurie denominate quaestiones perpetuae. In tal caso, la poena era pubblica e poteva consistere nella morte, nella interdictio aquae et igni (allontanamento coatto e definitivo dal territorio romano) o in una multa da pagare all’erario;
 Delicta, cioè le infrazioni costituenti offese nei confronti dei singoli individui e legittimanti
una reazione individuale.
Nel diritto classico erano considerati delicta quattro illeciti civilistici (furtum, iniuria, damnum
iniuria datum e rapina). Da essi derivavano le c.d. obligationes ex delicto. Il pretore ampliò la sfera dei fatti perseguiti come illeciti, accordando per essi azioni in factum conceptae.
Nel diritto postclassico le figure di reati sviluppatesi determinavano la nascita di obligationes quasi
ex delicto.
Quanto alla reazione all’illecito costituente delictum, in epoca arcaica era rimessa all’arbitrio della
parte lesa e poteva risolversi in incontrollata vendetta. Col tempo, si ritenne che la reazione dovesse
essere proporzionale all’offesa (c.d. legge del taglione), finché la legge della XII tavole consentì alle parti avverse di definire la questione pattiziamente mediante risarcimento.
Fu così che la sanzione per il fatto illecito costituente delictum si ridusse ad una pena pecuniaria,
inflitta dal giudice in seguito ad un’azione intentata dall’offeso.
Le obbligazioni nascenti da delictum presentavano i seguenti caratteri:
 Intrasmissibilità. La giurisprudenza romana non ammise la trasmissibilità delle azioni penali né dal lato attivo, né dal lato passivo.
 Nossalità. La nossalità concedeva al pater o al dominus del responsabile dell’illecito di sottrarsi all’azione delle parte lesa consegnando a quest’ultima il responsabile, vivo o morto,
evitando così le eventuali conseguenze dell’illecito comportamento del filius o del servus.
 Cumulatività. Se il delictum era commesso da più soggetti, ciascuno era tenuto al pagamento dell’intera pena pecuniaria.
 Perpetuità delle azioni. Le azioni penali civili e pretorie concesse per il completamento o il
perfezionamento della repressione dei delicta previsti dallo ius civile erano perpetue, e non
erano soggette a decadenza.
Il furtum consisteva nella sottrazione non violenta di una cosa mobile o di un animale al suo detentore. Una prima disciplina del furtum fu data dalle XII Tavole. In epoca antica, consentito il ricorso
indiscriminato alla vendetta privata, si giungeva di frequente a reazioni spropositate. Il fur (ladro)
scoperto in flagrante poteva essere impunemente violentato fino ad essere ucciso dal dominus deru56
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bato. La ricerca del ladro non colto in flagranza, allo scopo di recuperare la refurtiva, dava luogo a
scontri violenti tra le familiae.
Le XII Tavole introdussero la distinzione tra furtum manifestum (quando il ladro era colto in flagranza) e furtum nec manifestum, in caso contrario. Nella prima ipotesi il derubato, se vi riusciva,
poteva senz’altro impossessarsi del latro ed assoggettarlo a manus iniéctio. In tal caso la pena da
pagare per il riscatto era pari al doppio del valore della cosa rubata. Se poi il ladro era colto in flagranza di notte o si difendeva a mano armata oppure era uno schiavo, poteva subito essere ucciso.
Se vi era, invece, furtum nec manifestum, il derubato poteva vocare in ius il presunto ladro mediante
la legis actio sacramenti in personam, per affermare l’obbligo del convenuto alla restituzione della
cosa derubata.
In epoca classica, ferma restando la possibilità di uccidere il ladro notturno o che si difendeva a mano armata, si poteva, inoltre, esercitare l’actio furti, la quale importava una condanna pecuniaria:
 In quadruplum per il furtum manifestum.
 In triplum per il furtum oblatum (ossia, con la refurtiva occultata presso un complice).
 In duplum per il furtum nec manifestum.
Gli elementi del furtum erano:
 La condotta (c.d. elemento oggettivo). Si commetteva furto sia impadronendosi di una cosa
altrui per portarla via (amotio), sia impadronendosi di una cosa altrui contro la volontà del
dominus (contrectatio). Si ammise, inoltre, che commetteva furto il depositario che usava
della cosa depositata (furtum usus) o il detentore che, rifiutandosi di restituire la cosa al dominus, incominciava a possederla per sé (furtum possessionis).
 Elemento soggettivo, dato dal dolus malus, ossia dalla coscienza di impossessarsi contro la
volontà del proprietario.
 Animus lucri faciendi (fine di lucro) ossia, l’intenzione di trarre vantaggio dalla cosa rubata.
 Esclusione della putatività del fatto, nel senso che all’intenzione di rubare doveva seguire
un vero e proprio furto e non un fatto ritenuto erroneamente furto (es. impossessamento di
res nullius o derelicta).
La rapina costituiva un caso aggravato di furto e consisteva nella sottrazione di una res altrui, mediante violenza sulle persone. Inizialmente era configurata come furto e come tale punita. Successivamente, nel 76 a.C., il pretore peregrino Lucullo nel suo editto accordò un’azione (c.d. actio de vi
bonorum raptorum) contro colui che con armi avesse recato danno o sottratto cose altrui, la pena
era del quadruplo se l’azione era esercitata entro l’anno e in simplum dopo l’anno.
La giurisprudenza classica estese la configurazione del delitto di rapina anche alle ipotesi in cui non
si fosse fatto ricorso a gente armata o a bande organizzate ma si fosse comunque impiegata violenza. Alla rapina era equiparato l’impossessamento di cose altrui approfittando di una calamità.
La legge delle XII Tavole disciplinò tre casi di iniuria:
 Il membrum ruptum, che consisteva nell’inutilizzazione o nell’amputazione di un arto o di
un organo. Per esso era comminato il taglione, se non si raggiungeva un accordo amichevole.
 L’os fractum, che consisteva nella rottura di un osso. Per essa era previsto il pagamento di
un somma di denaro, che era di 300 assi se offeso era un uomo libero, 150 se era uno schiavo.
 Le iniuriae pure e semplici, consistenti in qualsiasi altra lesione di minore portata, per le
quali era previsto il pagamento di 25 assi.
Il pretore unificò le tre figure e concesse un’actio iniuriarum, infamante ed aestimatoria, che consentiva al giudice di fissare l’ammontare della condanna secondo equità.
L’editto pretorio inizialmente conteneva un edictum generale sull’iniuria, che riguardava le lesioni
personali. Successivamente l’editto disciplinò il convicium (vociferazione oltraggiosa) e
l’adtemptata pudicitia (oltraggio al pudore di donne o di giovani), ed infine sanzionò ogni atto che
risultasse infamante per un’altra persona. La giurisprudenza classica ricomprese nell’iniuria ogni
ipotesi di lesione della personalità anche morale o sociale (c.d. contumelia).
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In concorrenza con la persecuzione privata, una lex Cornelia di Silla introdusse una parallela persecuzione pubblica delle iniuriae, nei casi di pulsatio (percosse), verberatio (fustigazione) e nel caso
di domum introire (violazione di domicilio).
Il damnum iniuria datum consisteva nel danneggiamento di una cosa o di uno schiavo altrui. La
prima disciplina fu introdotta da una lex Aquilia del 287 a.C., la quale in materia di danneggiamento impose due principi:
 L’uccisore di uno schiavo o di un animale doveva pagare al suo proprietario il più alto prezzo che lo schiavo o l’animale avesse raggiunto sul mercato nell’ultimo anno.
 L’autore di qualsiasi altro danneggiamento doveva pagare il prezzo più alto raggiunto dalla
cosa danneggiata nell’ultimo mese.
Se il responsabile in iure ammetteva di aver provocato il danno, il giudice accertava il quantum da
pagare. Se invece negava di essere autore del danno, compiendo l’infitiatio, nella fase apud iudicem
si accertava l’an, ossia se il fatto sussisteva. In tal caso la condanna era del duplum.
Per la responsabilità bastava che tra il fatto e l’evento vi fosse un nesso di causalità.
Requisiti del delitto di danneggiamento erano:
 Il damnum. Inizialmente era rilevante solo se materiale, vale a dire arrecato con la forza
muscolare sulla cosa considerata nella sua struttura fisica. Successivamente si ammise anche
l’ipotesi di danno non corpore illatum come ad esempio nel caso di chi avesse tenuto rinchiusi per lungo tempo animali senza nutrirli cagionandone la morte.
 L’iniuria, ossia l’ingiustizia del danno. In proposito è opportuno precisare che non poteva
essere considerato ingiusto il danno arrecato ad altri per legittima difesa oppure in stato di
necessità, o anche a seguito dell’esercizio di un proprio diritto.
 La culpa, ossia la responsabilità per aver causato il danno. Per aversi responsabilità era sufficiente la culpa levissima, ossia una semplice negligenza.
OBLIGATIONES QUASI EX DELICTO
Spesso il pretore considerò illeciti determinati comportamenti che cagionavano un danno ad altri,
colpendoli con actiones in factum conceptae. Nel diritto giustinianeo le relative figure furono considerate come quasi delitti, in contrapposizione ai delitti dello ius civile. Da esse scaturivano le c.d.
obligationes quasi ex delicto. Dettero luogo ad altrettante nuove figure di illecito:
 L’actio de effusis vel deiectis, concessa contro l’abitante di una casa dalla quale erano stati
lanciati oggetti solidi o liquidi che avevano procurato un danno.
 L’actio de posito vel suspenso, concessa contro l’abitante di una casa sul cui balcone o sul
cui tetto era appoggiata una cosa la cui caduta poteva cagionare danno ai passanti.
 L’actio adversus iudicem qui litem suam facit, concessa contro il giudice che emetteva in
mala fede una sentenza ingiusta.
 L’actio adversus mensorem qui falsum modum dixerit, concessa contro l’agrimensore
che, nominato arbitro di una controversia in cui occorreva determinare i confini tra due o più
proprietà, avesse dolosamente dato misure false.
 L’actio servi corrupti, concessa al padrone dello schiavo, nei confronti di chi lo istigasse a
commettere illeciti o gesti pericolosi che ne cagionavano la morte o il ferimento.
 L’actio sepulchri violati, concessa contro chi apriva l’altrui sepolcro e seppelliva un cadavere della sua famiglia o anche estranea.
 L’actio contra nautas, caupones, stabularios concessa contro il comandante di una nave,
l’albergatore e il titolare di una stalla per i danni derivanti da dolo o furto alle cose loro consegnate dai clienti.
 L’actio contra publicanum, ossia contro l’appaltatore delle imposte che si era appropriato
di cose dei contribuenti.
La responsabilità patrimoniale del debitore e le garanzie dell’obbligazione
Se il debitore non adempiva volutamente la prestazione, ne era responsabile. Se, invece, la prestazione diventava oggettivamente impossibile, bisognava accertare per quale causa ciò fosse accaduto. Il debitore rispondeva dell’inadempimento se l’impossibilità era a lui imputabile, se invece derivava da un fatto estraneo, l’obbligazione si estingueva.
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Il debitore rispondeva sempre per dolo. Si riteneva nullo, in quanto illecito, il pactum col quale si
esonerava il debitore della responsabilità contrattuale dolosa.
Tra i due estremi (dolo e caso fortuito), che importavano conseguenze opposte, si poneva
l’inadempimento da culpa. In tal caso la giurisprudenza romana, pur non elaborando principi e formulazioni generali, inizialmente ammise che, per le azioni infamanti, ci fosse responsabilità solo in
presenza di un comportamento doloso.
La tendenza ad ampliare il campo della responsabilità del debitore, già emersa in diritto classico,
portò, in diritto giustinianeo, ad una compiuta elaborazione dei gradi della colpa e si distinse in:
 Culpa lata (negligenza estrema);
 Culpa levis (negligenza del debitore che non osservava la diligenza del bonus pater familias).
La culpa lata era equiparata al dolo. Giustiniano stabilì che, se il rapporto contrattuale sorgeva
nell’interesse esclusivo del debitore o di entrambi, la responsabilità del debitore si estendeva fino
alla culpa levis, mentre se era costituito nell’interesse del creditore, la responsabilità del debitore era
limitata alla culpa lata.
Il debitore rispondeva anche per il fatto altrui, se si avvaleva per l’adempimento della prestazione
dell’opera di altri:
 Nei casi in cui la scelta del terzo era stata imprudente (culpa in eligendo);
 Se il terzo non era stato adeguatamente sorvegliato.
La categoria del caso fortuito comprendeva eventi naturali o fatti giuridici. Poteva consistere anche
nel fatto di un terzo, cui il debitore fosse rimasto estraneo.
Il debitore non era responsabile dell’inadempimento derivante da caso fortuito, a meno che non avesse assunto volontariamente il rischio. In relazione a determinati contratti che implicavano
l’obbligo di restituzione, il debitore doveva custodiam praestare, ossia era obbligato a custodire la
res oggetto del contratto, ed era responsabile in caso di furto.
Nei casi in cui il debitore rispondeva dell’inadempimento, l’obbligazione continuava a sussistere
(perpetuatio obligationis). Infatti, al posto della prestazione dovuta non più eseguibile, subentrava
l’obbligo di pagare una somma di denaro, il cui ammontare era determinato dal giudice con la condanna.
LA MORA DEL DEBITORE
La mora solvendi era il ritardo del debitore, a lui imputabile, nell’adempimento dell’obbligazione.
Ai fini della mora solvendi occorreva:
 Che il credito fosse valido.
 Che il credito fosse esigibile.
 Che il credito fosse certo.
 Che la mancata esecuzione della prestazione fosse imputabile al debitore.
In diritto giustinianeo fu introdotto un principio generale secondo cui il debitore doveva essere costituito in mora con l’interpellatio (ossia l’intimazione di pagare).
La mora produceva due effetti fondamentali: la perpetuatio obligationis, per cui anche quando
l’adempimento fosse divenuto impossibile per caso fortuito, l’obbligazione non si estingueva, e
l’obbligazione del pagamento degli interessi (usurae moratoriae), che la giurisprudenza classica
riteneva liquidabili solo nei c.d. iudicia bona fidei.
LA MORA DEL CREDITORE
Dalla mora del debitore, mora debendi, si distingueva la mora del creditore (mora accipiendi o
credendi), che si verificava quando il creditore si rifiutava di accettare l’adempimento del debitore.
La mora accipiendi presupponeva da parte del debitore un’offerta di eseguire la prestazione dovuta.
A seconda delle circostanze, si richiedeva un’offerta reale oppure meramente verbale. Veniva meno
quando il creditore si mostrava disposto ad accettare la prestazione. Gli effetti della mora credendi
erano i seguenti:
 Il rischio del deperimento o deterioramento della cosa passava a carico del creditore.
 Cessavano di decorrere eventuali interessi.
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 Il debitore poteva non effettuare l’adempimento, essendo protetto da un’exceptio doli, fin
quando il creditore non lo rimborsava dei danni e delle spese sopportati per il ritardo
dell’accettazione (ad esempio, per spese di deposito e manutenzione della cosa dovuta).
PURGAZIONE DELLA MORA (C.D. PURGATIO MORAE)
Gli effetti della mora, sia debitoria che creditoria, potevano essere posti nel nulla attraverso la c.d.
purgazione. In particolare:
 Il debitore poteva offrire il pagamento integrale dell’obbligazione, senza che il creditore potesse opporre un rifiuto, con l’obbligo, peraltro, di tenerlo indenne da tutti i danni subiti per
il ritardo.
 Il creditore poteva accettare il pagamento precedentemente rifiutato, tenendo indenne il debitore da tutti i danni subiti per il ritardo.
MODI DI REALIZZAZIONE DELLA RESPONSABILITA’ PATRIMONIALE
Nel diritto romano, il principio della responsabilità patrimoniale del debitore fu preceduto dal principio della responsabilità personale. In origine le obbligazioni consistevano in un vincolo non giuridico, bensì materiale o per meglio dire fisico, in quanto il debitore garantiva l’adempimento con la
propria persona. Con la lex Poetelia Papiria, l’arcaico istituto del nexum fu abolito e fu sostituito
dal principio della responsabilità patrimoniale. Il debitore per effetto del vinculum poteva subire
l’esecuzione solo sui suoi beni, e non sulla propria persona.
Il modo concreto di realizzare le ragioni del creditore sui beni del debitore fu rappresentato inizialmente dalla bonorum venditio (vendita in blocco dei beni del debitore), poi dalla bonorum distractio
mediante la quale i beni venivano venduti non in blocco, ma singolarmente fino alla somma dovuta
al creditore. Il debitore poteva evitare la bonorum distractio cedendo volontariamente i beni al creditori.
La bonorum distractio costituiva un’attenuazione della bonorum venditio. In essa la vendita, anziché in blocco, era fatta per singolo bene, finché non veniva raggiunta la somma necessaria al pagamento dei creditori. Inoltre, essa non comportava infamia. La bonorum distractio aveva luogo nel
caso in cui il debitore insolvente fosse un senatore o un pupillus.
RAFFORZAMENTO DEL CREDITO
Col termine garanzia vengono indicati tutti i rapporti che possono affiancarsi ad un’obbligazione al
fine di rafforzare il vincolo obbligatorio e di assicurare al creditore una più sicura soddisfazione del
suo credito. Il rafforzamento dell’obbligazione può avvenire o attribuendo al creditore un diritto
reale su un bene, oppure affiancando uno o più coobbligati al debitore. Nel primo caso la garanzia si
dice reale, nel secondo personale.
Tra le garanzie reali rientrano pegno, ipoteca e privilegi, mentre tra le garanzie personali rientrano
fideiussione e mandato di credito.
Nel diritto romano alcuni crediti erano privilegiati nel senso che, in considerazione della loro particolare natura o della persona del creditore, erano preferiti ad altri al momento della distribuzione del
prezzo ottenuto dalla vendita dei beni del debitore insolvente. I crediti non protetti da garanzia reale
erano detti crediti chirografari.
In epoca postclassica si definì l’ordine tra crediti concorrenti di diversa natura, per la soddisfazione
di ciascuno. Andavano onorati, nell’ordine:
 Dapprima i crediti assistiti da pignora publica (risultanti da atto pubblico), o quasi publica
(risultanti da scrittura privata redatta alla presenza di tre testimoni);
 Poi, i crediti assistiti da privilegium exigendi (pegno o ipoteca);
 Infine, i crediti chirografari.
Nel diritto arcaico costituivano figure di garanzia personale quelle offerte dai praedes, dai vades e
dal vindex. I praedes assumevano la garanzia per il pagamento dei debiti di privati appaltatori di
opere pubbliche o di pubblici funzionari verso la civitas, o per la restituzione della cosa e dei frutti o
per il pagamento della summa sacramenti nell’ambito della legis actio sacramenti.
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I vades garantivano, nel processo per legis actiones, la presenza del convenuto in iure. Mentre il
vindex garantiva per il convenuto, arrestando il procedimento della in ius vocatio o della manus iniectio.
RAFFORZAMENTO DELL’OBBLIGAZIONE: CAPARRA, CLAUSOLA PENALE E
GIURAMENTO
Nel diritto romano, fino all’epoca classica, l’arrha costituiva solo un mezzo di prova del contratto.
Nei contratti consensuali, infatti, e soprattutto nella vendita, era consuetudine che una parte consegnasse all’altra una somma di denaro allo scopo di provare la conclusione del contratto. L’arrha,
nella compravendita, prese il nome di arrha confirmatoria.
Nel diritto giustinianeo, relativamente alle vendite immobiliari, l’arrha acquistò una diversa natura.
Nel caso di un contratto di compravendita già concluso, ma da stipularsi per iscritto perché avente
ad oggetto un bene immobile, fu disposto che le parti potessero recedere dal precedente impegno
liberamente, a meno che non fosse stata data un’arrha. In tal caso il compratore perdeva quanto aveva dato mentre il venditore era tenuto a restituire il doppio di ciò che aveva ricevuto.
Le arrhe, pertanto, acquistarono funzione penitenziale, nel senso che furono considerate corrispettivo del diritto di recedere dal precedente impegno assunto (arrha poenitentialis).
La clausola penale era una clausola aggiunta ad un contratto o ad una disposizione testamentaria,
con la quale se il contraente o l’onerato fosse venuto meno all’impegno assunto doveva pagare una
determinata somma (poena).
Poiché, generalmente, la poena era più gravosa della prestazione, la clausola penale assolveva ad
una duplice funzione:
 Accertare preventivamente la somma dovuta a titolo di risarcimento danni nel caso di inadempimento.
 Rafforzare il vincolo, poiché induceva il debitore ad eseguire la prestazione per sottrarsi al
pagamento della penale.
La successio mortis causa: principi fondamentali
Nella concezione romana, la successio mortis causa comportava il subingresso di una o più persone nella stessa situazione giuridica del defunto. Nella Roma delle origini, basata sull’economia familiare, i beni ereditari venivano trasmessi all’interno della stessa famiglia, poiché alla morte del
pater, i filii rimanevano uniti in consortium.
Il diritto di succedere ad un soggetto defunto si acquistava per legge o in virtù di espressa designazione fatta dal de cuius in un negozio giuridico apposito (testamento).
Correlativamente a questa distinzione, vi erano due differenti forme di vocazione ereditaria:
 La vocatio ab intestato, cioè senza testamento.
 La vocatio ex testamento, che si diffuse sempre più fino a divenire prevalente.
L’erede subentrava nel complesso dei rapporti giuridici del defunto, ma non in tutti. Restavano esclusi i rapporti derivanti dal diritto pubblico, le situazioni essenzialmente personali e quelle che,
pur avendo carattere patrimoniale, avevano base personale.
Accanto al sistema riconosciuto dallo ius civile, il ius honorarium enucleò un nuovo sistema di successione mortis causa, che si contrappose al sistema civile, completandone le lacune oltre a soddisfare esigenze processuali.
Nel sistema processuale romano, in presenza della c.d. hereditatis petitio esercitata da un soggetto
che non era nel possesso delle res hereditariae, il pretore, a seguito di una cognizione sommaria, poteva assegnare il possesso di tali res ad una delle parti (c.d. bonorum possessio).
Il pretore non poteva in ogni caso nominare eredi e si limitava pertanto ad attribuire ai beneficiari
della bonorum possessio un potere di fatto. Il beneficiario non acquistava il dominium delle cose ereditarie, bensì l’in bonis habere.
Successivamente, il pretore equiparò la situazione del bonorum possessor a quella dell’heres, concedendo azioni in via utile nei casi in cui all’heres spettasse un’azione.
A seconda dei motivi che davano luogo alla concessione della bonorum possessio, si distingueva
tra:
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 Bonorum possessio secundum tabulas, qualora fosse accordata in base ad un testamento invalido per lo ius civile, ma valido per i principi fissati dal pretore;
 Bonorum possessio ab intestato, se l’attribuzione avesse luogo in mancanza di testamento,
secondo un ordine di successione prefissato dal pretore;
 Bonorum possessio contra tabulas, qualora fosse attribuita contro o indipendentemente dalla
volontà del testatore a favore delle persone designate dal pretore.
La successione testamentaria
Il testamento può essere definito come quell’atto unilaterale (orale o scritto), compiuto alla presenza
di testimoni, con cui il pater disponeva dei propri beni per quando avrebbe cessato di vivere.
Il testamento presentava le seguenti caratteristiche:
 Era iuris civilis, essendo accessibile solo ai cives;
 Era essenzialmente personale, nel senso che non era ammesso manifestare la volontà per
mezzo di qualsiasi intermediario;
 Era atto formale, richiedendo il rispetto di determinate forme;
 Era unilaterale, traendo efficacia solo dalla volontà del disponente;
 Era mortis causa, nel senso che acquistava rilievo giuridico solo alla morte del testatore;
 Era revocabile, poiché il testatore poteva sempre mutare la propria volontà.
La forma più antica di testamento era il testamento calatis comitiis, il quale consisteva
nell’adozione di un pater familias, compiuta alla presenza dei comizi curiati, convocati a questo
scopo dal pontefice massimo due volte all’anno. Accanto a tale forma di testamento, fin dall’età arcaica, fu conosciuto il testamentum in procinctu, compiuto dai soldati durante le campagne belliche.
Successivamente, per consentire l’attribuzione dei beni dopo la morte, si ricorse ad una particolare
forma di mancipatio: la mancipatio familiare. Il testatore alienava il suo patrimonio in blocco ad
una persona di fiducia (c.d. familiae emptor), con l’intesa che dopo la sua morte il familiae emptor
attribuisse ai destinatari ciascun bene, secondo la volontà del testatore.
Nel II sec. a.C., si diffuse ad opera della giurisprudenza ponteficia la forma tipica del testamento
romano: il testamentum per aes et libram. L’atto di nomina dell’erede veniva fatto senza le formalità dell’adrogatio e delle solennità comiziali in quanto inserito in un atto avente la struttura della
mancipatio familiae. In concreto, il familiae emptor, nel testamentum per aes et libram, interveniva
solo formalmente, non acquistando nulla e non ingerendosi nell’esecuzione delle disposizioni. Il testatore, mediante una sua dichiarazione consegnava il testamento al familiae emptor. La redazione
del testamento avveniva in presenza di cinque testimoni e del libripens, cui si aggiungeva un breve
processo verbale che attestava le avvenute formalità della mancipatio familiae. Le tavolette erano
poi sigillate dai sette soggetti intervenuti.
In epoca postclassica si affermò la distinzione tra testamentum civile, per il quale occorrevano cinque testimoni, e il testamentum praetorium, per il quale ne occorrevano sette. Per il primo non si
ritenne più necessaria la formalità della mancipatio familiae, ma si richiese che il testamento fosse
scritto di pugno dal testatore.
La legislazione imperiale prese atto di questa prassi e stabilì che il testatore e i testimoni dovessero
sottoscrivere l’atto. La figura che si affermò derivava dal diritto civile, da quello pretorio e da quello imperiale. Pertanto il testamentum fu definito tripertitum.
Nel diritto giustinianeo, tale testamento era redatto il più delle volte da un notaio (tabularius), il
quale dava forma giuridica alle dichiarazioni del testatore effettuate alla presenza dei testimoni.
Nessuna disposizione testamentaria poteva esser ritenuta valida se mancava l’heredis institutio o se
questa era nulla. Si trattava dell’inequivocabile, chiara e solenne designazione del successore che
determinava la successio in locum et ius defuncti dell’erede istituito. L’erede poteva essere istituito
sotto condizione sospensiva ma non sotto condizione risolutiva né a termine, in base al principio
semel heres, semper heres, erede una volta, erede sempre.
L’istituzione di erede poteva aversi anche a vantaggio di più persone, in quanto lo stesso de cuius
determinava le singole frazioni da assegnare a ciascuno. Se la somma delle frazioni risultava inferiore o superiore alla massa ereditaria, le quote assegnate erano proporzionalmente aumentate o diminuite fino a raggiungerla. L’erede poteva essere istituito:
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



In universum ius (rispetto a tutto il patrimonio del defunto).
Ex asse (rispetto ad una quota).
Ex certa re (solo rispetto ad una certa cosa).
Excepta re (esclusa una certa cosa).
L’istituzione di uno o più eredi poteva essere accompagnata da una disposizione, con la quale il testatore chiamava all’eredità, o ad una quota di essa, altre persone, nell’eventualità che l’erede vocatus per primo non accettasse. Tale fenomeno viene designato come sostituzione.
Il diritto classico conobbe diversi tipi di sostituzione:
 Sostituzione volgare. Si aveva quando il primo chiamato non poteva o non voleva accettare.
Essa era di solito accompagnata da un termine, imposto dal testatore al primo chiamato affinché compisse la cretio, ossia l’accettazione.
 Sostituzione pupillare. Si aveva quando il pater nominava un erede al suus impubere, per il
caso che questi morisse senza aver raggiunto la pubertà. Il padre non istituiva un erede a se
stesso, ma nominava un erede al figlio incapace di testare, in quanto impuber.
 Nel diritto giustinianeo fu ammessa la sostituzione quasi pupillare, per la quale si poteva
nominare un erede al discendente infermo di mente per il caso che morisse in tale stato.
 Sostituzione militare. Era concesso al pater, che prestasse servizio nell’esercito, di nominare un sostituto per il filius emancipato, in deroga al principio secondo il quale per compiere tale designazione era necessario esercitare la potestas sul filius. Se il filius per qualsiasi
ragione non raccoglieva i beni lasciatigli dal pater, il sostituto gli subentrava.
La testamenti factio attiva era la capacità di fare testamento e seguiva, generalmente, le regole dettate per la capacità giuridica e la capacità d’agire, con alcune particolarità. Potevano fare testamento:
 Le donne, previa autorizzazione del tutor legitimus;
 I filii familias, relativamente al c.d. peculium castrense e, in diritto postclassico, a quello
quasi castrense;
 I servi publici, limitatamente a metà del proprio peculio.
Non potevano, invece, fare testamento:
 Gli impuberi;
 I latini Iuniani;
 I sordi, i muti e i pazzi;
 Nel tardo diritto postclassico, gli apostati e gli eretici.
I peregrini potevano fare testamento secondo la propria legge nazionale.
La testamenti factio passiva era la capacità di ricevere per testamento, di essere quindi vocati ex
testamento all’eredità ed era attribuita a tutti i soggetti giuridici. La capacità di essere istituiti eredi
per testamento doveva sussistere in tria momenta, ossia:
 Nel momento in cui il testamento era redatto;
 Nel momento della morte del testatore;
 Nel momento dell’acquisizione successoria.
A partire dal diritto classico si ritenne che potessero esser nominati eredi per testamento anche soggetti non ancora venuti in vita (c.d. postumi). In particolare:
 I postumi sui (nascituri che sarebbero stati soggetti alla potestà del testatore);
 I postumi alieni (nascituri che sarebbero stati soggetti alla potestà di un soggetto diverso dal
testatore che potevano essere istituiti eredi, purché già concepiti al momento della morte del
testatore).
Non potevano ricevere per testamento:
 Le donne, nei confronti dei cittadini con un censo superiore ai 100 mila assi. Tale disposizione, introdotta da una lex Voconia, non vietava l’acquisizione di legati.
 Le persone incerte. L’eredità doveva essere certa, per cui fino a tutto il periodo preclassico si
ritenne che non potessero essere vocate le persone giuridiche e le persone fisiche non ancora
nate al momento della designazione, in quanto non identificabili.
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 I figli naturali. Costantino introdusse il divieto assoluto di istituire come eredi i figli non generati da giuste nozze. Successivamente ai liberi naturales fu riconosciuto il diritto di percepire una quota dell’eredità, più limitata rispetto a quella attribuita ai figli legittimi.
L’indegnità a succedere era una sanzione civile, consistente nella perdita di quanto acquistato a titolo ereditario che colpiva l’erede o il legatario che si fosse reso colpevole di determinati atti contro
il defunto, a prescindere dall’eventuali conseguenze penali. L’istituto sorse per ragioni morali ma,
poiché la quota dell’indegno era devoluta al fisco, fu talvolta utilizzato per soddisfare esigenze di
politica fiscale. L’indegnità si distingueva dalla mancanza di testamenti factio passiva, poiché comportava la possibilità del disponente di perdonare l’offesa e di ristabilire l’offensore.
Era indegno colui che aveva arrecato offese o compiuto fatti riprovevoli contro l’integrità fisica del
de cuius, o atti contro la volontà testamentaria. Si aveva, inoltre, indegnità in altri casi determinati
dalla legge come, ad esempio, l’erede che sottraeva cose ereditarie o che avesse venduto cose ereditarie, pur essendo ancora in vita l’ereditando.
Il testamento era un atto essenzialmente revocabile. Vigeva, infatti, il principio della libertà di testare usque ad extremum vitae exitum (fino al momento della morte). Da ciò discendevano:
 La revocabilità del testamento;
 Il divieto del testamento congiuntivo (si aveva quando più persone raccoglievano in un unico atto le loro disposizioni di ultima volontà) e i patti successori (ossia quei patti con cui si
prendevano impegni irrevocabili circa la futura sorte dei beni quando l’ereditando era ancora
in vita);
 Il principio per cui la perdita della testamenti factio rendeva nullo anche il precedente testamento altrimenti irrevocabile.
Per aversi revoca, nel diritto romano, non era sufficiente un negozio giuridico. Un testamento poteva essere revocato solo da un altro testamento. Il principio fu superato da una costituzione di Teodosio II e Valentiniano III, in base alla quale un secondo testamento, anche se invalido, aveva efficacia revocatoria del primo, se gli eredi legittimi esclusi dal primo e le disposizioni invalide fossero
confermate dal giuramento di cinque testimoni.
Nel diritto giustinianeo si ammise che il testatore, passati dieci anni dalla redazione di un testamento, potesse revocarlo mediante un atto compiuto davanti ad un magistrato e a tre testimoni.
La distruzione del testamento o la sua cancellazione da parte del testatore non comportavano revoca
dell’atto considerato ancora valido ed efficace per lo ius civile.
Antonino Pio stabilì che, non presentandosi nessuno a richiedere la bonorum possessio ab intestato,
i beni del defunto fossero devoluti all’erario.
Il testamento diventava privo di efficacia, se risultava:
 Desertum. Ciò accadeva se nessuno dei vocati si presentava.
 Ruptum. Ciò accadeva se, dopo la redazione del testamento, nasceva un discendente che il
de cuius non aveva né nominato erede né diseredato, oppure nel caso in cui veniva redatto
un nuovo testamento.
 Iure non factum. Ciò accadeva se il testamento mancava di un requisito formale, oppure se
il testatore non aveva capacità testamentaria attiva o gli eredi non avevano capacità testamentaria passiva.
 Irritum. Ciò accadeva quando il testatore aveva la capacità testamentaria attiva al momento
della redazione del testamento, ma l’aveva successivamente persa per capitis deminutio.
Il cerimoniale di apertura del testamento si svolgeva a Roma davanti al pretore, nelle province davanti al governatore. L’apertura delle tavole testamentarie aveva luogo tra il terzo e il quinto giorno
dalla morte del testatore, presso l’ufficio delle imposte, alla presenza di testimoni, che avevano preso parte alla redazione del testamento e che dovevano riconoscere i propri sigilli. In assenza dei testimoni dovevano assistere persone rispettabili.
Nel diritto giustinianeo, alle formalità relative all’apertura del documento sigillato e al riconoscimento dei sigilli, si sostituì il riconoscimento delle disposizioni da parte dei testimoni e delle relative subscriptiones.
La successione ab intestato
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La successione ab intestato aveva luogo quando il defunto non avesse fatto testamento o, ancora,
quando il testamento redatto fosse diventato nullo, o quando nessuno dei soggetti istituiti come eredi fosse divenuto erede.
Per il diritto arcaico gli unici eredi erano i sui, vale a dire i figli rimasti in potestà del pater familias
fino alla sua morte, la moglie in manu, che era loco filiae (considerata come figlia), e tutti i discendenti di grado ulteriore, comprese le nuore e pronuore in manu, che per la premorienza o emancipazione degli ascendenti intermedi diventavano sui iuris alla morte del de cuius.
I sui heredes succedevano automaticamente, senza bisogno di accettazione e senza possibilità di rinuncia. Nei confronti degli heredes sui non c’era una vera e propria chiamata all’eredità, in quanto
essi avevano di per sé il titolo e la qualità di eredi. Se il pater avesse voluto privare i propri discendenti delle loro aspettative, sarebbe stata necessaria un’espressa exheredatio (diseredazione), e cioè
l’espressa menzione della volontà di non confermare il titolo di heres.
Tra i figli l’eredità si divideva pro capita. Si attribuiva una quota per ogni figlio. Se uno o più figli
maschi premoriva, lasciando dei discendenti, l’eredità veniva divisa per stirpi: si attribuiva una quota ad ogni filius, e la quota attribuita al filius premorto veniva, a sua volta, suddivisa tra i suoi discendenti. Oltre ai già nati, si teneva conto dei concepiti.
In genere, almeno fino all’emanazione della legge delle XII Tavole, gli eredi (quantomeno gli eredi
plebei) non si ripartivano i beni, ma restavano uniti in consortium. Solamente per i beni strettamente
individuali si procedeva alla divisione.
Se il defunto era privo di discendenti diretti o comunque acquisiti, secondo una disposizione introdotta dalla legge delle XII Tavole il patrimonio ereditario era assegnato all’agnatus proximus, ed in
mancanza, ai gentiles. Agnati erano i collaterali più vicini al sui iuris defunto (i fratelli o in mancanza i primi cugini). Anche la chiamata degli agnati si fondava sulla patria potestas. In mancanza
di discendenti diretti, l’eredità spettava esclusivamente all’agnatus proximus. Vigeva, infatti, il
principio che il più vicino di grado tra gli agnati escludeva quello di grado ulteriore. Se vi erano più
fratelli, tutti succedevano ugualmente ma, se intervenivano un fratello e i figli di un fratello premorto, succedeva per intero il fratello e non i nipoti.
Verso la fine dell’età repubblicana, il sistema dello ius civile diventò impopolare in quanto tra marito e moglie e tra madre e figli, se il matrimonio era sine manu, non vi era alcun diritto di successione. Inoltre, i figli emancipati erano esclusi dalla successione paterna, così come i parenti per linea femminile. Le correzioni al sistema dello ius civile furono apportate dal pretore, mediante il ricorso alla bonorum possessio sine tabulis.
La bonorum possessio sine tabulis era caratterizzata, a differenza della successio dello ius civile, da
una precisa successio ordinum et graduum. Il pretore infatti individuò quattro categorie di successibili cui affidare la bonorum possessio dei beni del defunto. Tali categorie corrispondevano ciascuno
ad un ordo, all’interno del quale si distingueva il gradus. La gerarchia era la seguente:
 Ordo unde liberi. Tra i liberi, cioè tra i discendenti del de cuius, erano ricompresi anche
quelli usciti dalla potestà del pater familias, purché al momento della sua morte non facessero parte di un’altra famiglia. Quindi rientrarono nella categoria anche gli emancipati e i figli
dati in adozione e poi emancipati dal padre adottivo. Ai liberi era attribuita la bonorum possessio cum re.
 Ordo unde legitimi. Comprendeva tutti gli heredes sui, che non avessero conseguito la bonorum possessio come i liberi, l’agnatus proximus (a costoro era riconosciuta la bonorum
possessio cum re) e i gentiles cui era affidata una bonorum possessio sine re.
 Ordo unde cognati. Comprendeva i collaterali. In questa classe il prossimo escludeva il remoto. Fra i cognati si ammetteva anche la successio graduum, che aveva luogo nel caso di
rinuncia di un cognato di grado superiore. È opportuno, inoltre, precisare che ai parenti in linea femminile fino al sesto grado veniva concessa la bonorum possessio sine tabulis. Tra i
parenti di settimo grado, era preso in considerazione il solo consobrinus, ossia il figlio del
cugino di sesto grado.
 Ordo unde vir et uxor. Comprendeva il coniuge superstite, se mancavano i cognati.
In questo sistema la successione tra la madre ed il figlio restava ridotta nei limiti della bonorum
possessio unde cognati. Ben presto fu fortemente sentita l’esigenza di assicurare la successione della madre al figlio. Un senatoconsulto di Tertulliano dell’età di Adriano chiamò alla successione le
madri fornite dello ius libero rum. La madre, pertanto, era preceduta dai liberi del figlio,
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dall’eventuale parens manumissor e dai fratelli, ma concorreva con la sorella e prevaleva sugli altri
agnati.
La successione dei figli alla madre fu, invece, regolata dal senatoconsulto Orfiziano, il quale attribuì
la preferenza al figlio su ogni altro successibile.
La successione contra testamentum
Si aveva vocatio contra testamentum quando, pur esistendo un testamento, l’ordinamento, per la
difesa degli interessi superiori della famiglia, ne impediva l’attuazione ritenendo che, nella successione, dovessero esser preferite persone diverse da quelle effettivamente istituite.
L’antico ius civile non conosceva l’istituto della legittima, né alcuna restrizione sostanziale alla facoltà di disporre per testamento. L’unico limite era imposto nel caso in cui i chiamati all’eredità erano heredes sui: il pater familias doveva necessariamente menzionarli nel testamento, anche se soltanto per diseredarli. Il principio generale era che gli heredes sui dovessero essere istituiti eredi, o
essere espressamente diseredati. Se il testatore non li avesse contemplati (praeteritio), il testamento
era nullo. La mancata diseredazione nominativa di un filius maschio importava la nullità del testamento, con la conseguente apertura della successio ab intestato, invece le filiae e i nipoti di ambo i
sessi potevano essere diseredati inter ceteros, ossia con un formula generica complessiva.
La praeteritio dei ceteri non rendeva nullo il testamento. I ceteri preteriti potevano infatti concorrere con gli altri heredes sui per una quota pari al numero delle stirpi, o per la metà del patrimonio,
qualora non vi fossero sui istituiti.
L’istituto della legittima non fu introdotto dall’ordinamento romano per legge, ma fu creato in via di
interpretazione per mezzo di espedienti elaborati caso per caso. Se il testatore, senza giustificato
motivo, non lasciava una parte del suo patrimonio a determinati soggetti il testamento veniva considerato inofficiosum, ossia non conforme al dovere di solidarietà familiare che il testatore stesso aveva verso i congiunti.
L’esercizio vittorioso della querela non attribuiva all’attore una quota, ma determinava solo il venir
meno del testamento, aprendosi la successione legittima. Si affermò, anche, l’improponibilità della
querela nel caso in cui il querelante avesse ricevuto a qualunque titolo un quarto della quota che gli
sarebbe spettata ab intestato.
Solo in diritto giustinianeo si delineò una vera e propria forma di successione necessaria materiale. La pars legittima, intesa non più come un limite al diritto di disporre, ma come oggetto di un
diritto del riservatario, spettava ai discendenti, agli ascendenti ed anche ai fratelli e sorelle. La misura, in origine fissata in un quarto, fu portata ad un terzo se i legittimari fossero quattro o meno di
quattro, alla metà se fossero cinque e più. Nella valutazione di quanto i legittimari avevano ottenuto
erano computati anche i legati, le donazioni mortis causa e quelle inter vivos.
L’acquisto dell’eredità non sempre esigeva l’accettazione da parte del chiamato. Infatti era diversa
la posizione in cui venivano a trovarsi gli heredes sui et necessarii rispetto ai c.d. heredes extranei o
voluntarii, in ordine all’acquisto dell’eredità. In particolare, si distinguevano diverse categorie di
eredi:
 Heredes sui et necessarii, tra i quali si distingueva:
a) Heredes sui et necessarii, ossia i discendenti in potestate del de cuius, al momento della sua
morte;
b) Heredes necessarii, ossia i propri servi affrancati per testamento, fatti ad un tempo liberi ed
eredi;
 Heredes extranei, o voluntarii, ossia tutti i soggetti che non appartenevano alla familia del
de cuius, e non erano quindi a lui giuridicamente sottoposti.
Diverso era il modo di acquisto dell’eredità per le varie categorie di eredi:
 Gli heredes sui et necessarii diventavano eredi ipso iure, senza accettazione indipendentemente dalla loro volontà;
 Gli heredes extranei potevano liberamente decidere se accettare o meno l’eredità.
Per gli eredi necessari l’acquisto avveniva ipso iure, ma poteva essere evitato se il padre,
nell’istituire il figlio, aggiungeva la condizione si volet (se vorrà). In tal modo l’erede necessario diventava volontario, per cui era richiesta la sua accettazione.
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In mancanza di tale clausola, l’erede non poteva sottrarsi all’acquisto. Il pretore, pertanto, concesse
agli heredes sui et necessarii un ius abstinendi, consistente nella dichiarazione di volersi astenere
da ogni atto che importava esercizio del diritto ereditario.
In epoca classica l’accettazione dell’eredità (aditio) assunse due forme:
 Cretio, atto solenne compiuto in presenza di sette testimoni e consistente in una dichiarazione orale;
 Pro herede gestio, che consisteva in un comportamento tale da far desumere chiaramente la
volontà di accettare dell’erede istituito.
La cretio poteva essere perfecta o imperfecta, a seconda che il de cuius avesse o meno provveduto
all’exheredatio dell’heres che non aveva accettato tempestivamente. Se vi era la clausola di diseredazione (cretio perfecta), l’istituito che voleva accettare l’eredità doveva effettuare la cretio. Se invece la cretio era imperfecta, l’istituito poteva acquistare l’eredità anche attraverso la pro herede gestio.
Nei casi in cui l’accettazione aveva luogo mediante pro herede gestio, a tutela dei terzi interessati il
pretore concesse l’actio interrogatoria: gli interessati potevano chiamare in iure il presunto erede e
interrogarlo an heres sit (se, cioè, intendeva essere erede).
L’acquisto dell’eredità determinava la confusione dei patrimoni. Di conseguenza l’erede era sempre
tenuto a rispondere ultra vires per gli obblighi assunti dal de cuius. Spesso la confusione dei patrimoni ereditari poteva risultare dannosa per i creditori del defunto. L’erede, il cui patrimonio fosse
gravato da debiti, poteva sfruttare l’eredità ricevuta, adoperandone i proventi per soddisfare i propri
debitori.
Le ragioni dei creditori del de cuius furono tutelate dal pretore attraverso la separatio bonorum.
Con questo sistema, le voci attive dell’eredità erano destinate unicamente al soddisfacimento dei
creditori che avessero chiesto la separazione, mentre ai creditori dell’erede veniva eventualmente
attribuito il residuo. L’erede pagava i creditori in ordine di presentazione.
Giustiniano consentì ad ogni erede di accettare l’eredità evitando la responsabilità ultra vires, mediante la concessione del beneficium inventarii. Il magistrato poteva concedere all’erede che ne
faceva richiesta di pagare i creditori del defunto nei limiti dell’attivo ereditario, se dell’attivo era
fatto inventario entro un breve termine.
Era possibile che tra il momento della chiamata dell’erede e l’accettazione intercorresse un periodo
più o meno lungo. In questo caso i rapporti che facevano capo al defunto non appartenevano a
quest’ultimo, in quanto con la sua morte ne veniva meno la soggettività giuridica, e neanche
all’erede, perché non aveva ancora accettato. Durante questo periodo i Romani affermavano che
hereditas iacet (l’eredità giace). Nell’epoca più antica l’eredità giacente era considerata res nullius
e, quindi, suscettibile di occupazione da parte di chiunque. In seguito essa venne considerata una
parentesi necessaria per la trasmissione dei beni dal de cuius all’erede, per cui si escluse che fosse
res nullius, tanto che colui che si impossessava di beni ereditari rispondeva di uno specifico reato, il
crimen expilatae herditatis.
In attesa dell’accettazione, l’eredità giacente era suscettibile sia di aumentare la propria consistenza
(per nascita di servi, di frutti, e così via), sia di diminuire (per morte di servi, distruzione di beni).
Nell’epoca più antica il patrimonio del soggetto morto senza heredes sui si considerava res nullius,
così come il patrimonio in attesa di accettazione da parte dell’erede. In tal caso chiunque poteva
impossessarsi dei beni e, col decorso del tempo, usucapirli (usucapio pro herede).
Con l’accrescersi delle categorie di successibili, la possibilità di prendere possesso delle cose ereditarie venne meno, soprattutto allorquando le XII Tavole autorizzarono l’agnatus proximus e in sua
mancanza i gentili ad appropriarsi dei beni.
Se l’agnatus proximus moriva, le cose ereditarie, che originariamente ricadevano nella condizione
di res nullius, erano offerte all’agnato di rango ulteriore, essendo ormai ammessa la successio graduum. Alla fine della Repubblica, l’usucapio pro herede si ridusse alla sola usucapibilità dei singoli
oggetti ricompresi nell’eredità, senza che potesse essere acquisito il titolo di heres.
Il titolo di heres per lo ius civile era inalienabile. Vigeva infatti il principio semel heres semper heres. Tuttavia, poiché gli agnati e i gentili diventavano titolari solo al momento dell’accettazione, si
ammise che essi, sempre che non vi fosse stata la pro herede gestio, potessero trasmettere ad altri la
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facoltà di accettare, mediante un finto processo di eredità. Il cessionario, attraverso finta rivendicazione poneva in essere la in iure cessio hereditatis.
Il diritto romano arcaico considerava la petitio hereditatis come vindicatio di una cosa collettiva.
L’hereditatis petitio aveva carattere universale, come era universale la successione ereditaria. Infatti
non era la somma di singole azioni, ma un’azione che tutelava colui che subentrava nel complesso
ereditario, allo scopo di garantirgli l’effettiva acquisizione dell’intero patrimonio. L’hereditatis petitio poteva essere esercitata contro qualsiasi persona che pregiudicasse i diritti che l’erede avesse acquistato mediante successio.
In età arcaica il processo si svolgeva con le forme della legis actio sacramenti in rem. A tale azione,
in seguito, si aggiunse un processo per sponsionem, fondato sulla promessa di una minima somma
fatta dal possessore al rivendicatore per il caso che questi dimostrasse di essere erede. La decisione
dei giudici formalmente aveva per oggetto la somma promessa dal possessore al rivendicatore, ma
in realtà riguardava l’eredità.
All’inizio dell’età imperiale si ammise che la petitio hereditatis potesse svolgersi mediante un processo per formulam, la cui formula era simile a quella della rei vindicatio.
All’hereditatis petitio si ricorreva quando altri possedeva le cose pro herede (comportandosi come
erede) o anche pro possessore (ossia chi possedeva col semplice animus sine habendi).
La hereditatis petitio produceva effetti analoghi rispetto a quelli della rei vindicatio. Mentre il possessore in buona fede rispondeva solo per quello che gli era pervenuto e, se aveva alienato cose ereditarie, rispondeva di ciò che aveva acquistato col prezzo, il possessore di mala fede rispondeva
per l’intero, ed era tenuto anche al risarcimento dei danni per le cose che mancavano.
Il possessore di buona fede, poiché era responsabile solo per l’arricchimento, rispondeva dei frutti
nei limiti in cui si era arricchito, mentre il possessore di mala fede doveva restituire tutti i frutti percepiti dal giorno del suo possesso nonché quelli percipiendi, ossia quelli che avrebbe potuto produrre e che non aveva prodotto per la sua incuria.
Tali norme, in diritto postclassico, furono estese anche alla normale petizione intentata dai privati:
in più si pose a fondamento della responsabilità del possessore il criterio dell’arricchimento. Su
queste basi il diritto bizantino configurò l’hereditatis petitio come azione mista (tanto in rem che in
personam). L’azione era concessa anche all’erede pro quota, naturalmente per ottenere soltanto la
quota ereditaria di sua spettanza.
Al bonorum possessor, al posto dell’hereditatis petitio, il pretore concesse un interdictum quorum
bonorum, esperibile contro chiunque possedesse beni ereditari, con una disciplina molto simile a
quella disposta per la hereditatis petitio.
La comunione che sorgeva dall’istituzione di più persone come eredi era chiamata communio incidens. I crediti e i debiti, fin dalla legge delle XII Tavole, erano ipso iure frazionati tra i coeredi in
proporzione alle loro quote, a meno che l’obbligazione fosse indivisibile. Per quanto riguarda le cose corporali, invece, si verificava uno stato di comunione, a cui ciascun coerede partecipava nella
misura della propria quota.
Lo stato di communio incidens poteva essere eliminato attraverso la divisione, che poteva essere
volontaria, giudiziale o testamentaria.
La divisione volontaria, che richiedeva l’unanimità dei consensi di tutti i coeredi, si effettuava o
con una serie di reciproche rinunzie o con permute o con alienazioni a terzi, e così via. Naturalmente, a seconda della forma usata, a ciascun erede era data azione per la tutela delle proprie ragioni. La
divisione giudiziale poteva aver luogo in due modi:
 Con l’azione di divisione utilizzabile per tutte le forme di comunione (c.d. actio communi
dividundo);
 Con l’apposita actio familiae erciscundae.
In entrambi i casi il giudizio si concludeva con l’adiudicatio, atto con cui il giudice trasferiva la
proprietà dei singoli beni ereditari ai coeredi.
L’actio familiae erciscundae aveva fondamento nella legge delle XII Tavole. Il giudice procedeva
alla distribuzione dei cespiti ereditari in più lotti, tanti quanti erano le quote ereditarie e, poi, mediante adiudicatio, li aggiudicava ai partecipanti alla divisione. Il compito del giudice era piuttosto
complesso, dovendo tener conto di molteplici circostanze, giuridicamente rilevanti e peculiari alla
coeredità. Tra l’altro, doveva tener conto del modus che il testatore aveva messo a carico di taluno
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degli eredi, dei prelievi spettanti ai singoli coeredi sull’asse ereditario indiviso, della certa res da
assegnare, per rispetto della volontà del testatore, all’erede istituito appunto ex certa re, e così via.
Lo stato di comunione incidentale poteva essere sciolto anche in virtù di disposizioni dettate dallo
stesso de cuius nel testamento. Secondo il diritto classico la disposizione testamentaria impegnava
gli eredi a dividere l’eredità in conformità ad essa, oppure il giudice ad uniformarsi ad essa.
La divisio inter liberos, invece, si aveva quando l’ascendente, ancora in vita, provvedeva e divideva preventivamente i beni tra i propri discendenti. L’atto di per sé non era considerato come testamento, mancandone la forma, né era traslativo, poiché poteva essere sempre revocato per volontà
dell’ascendente.
Il de cuius poteva, in vita, aver favorito, con attribuzioni patrimoniali ad personam, solo alcuni tra i
suoi discendenti. Onde evitare che per questa via fossero pregiudicate irreparabilmente le aspettative degli altri possibili successori, coloro i quali avevano beneficiato di quelle attribuzioni furono
obbligati dal pretore a conferire i beni ricevuti alla massa ereditaria, in modo da dividerli con gli altri soggetti vocati all’eredità. Questo istituto, di creazione pretoria, fu denominato collatio bonorum. In particolare, si distinguevano:
 La collatio emancipati, introdotta per ovviare alle iniquità che sarebbero derivate dalla bonorum possessio sine tabulis e contra tabulas accordata al figlio emancipato. Poiché
l’emancipato, fin dal momento dell’emancipazione, poteva acquistare iure civili un proprio
patrimonio, il pretore gli concesse la bonorum possessio, imponendogli di promettere, mediante stipulatio, di assegnare a ciascuno degli altri heredes sui quanto ricevuto.
 La collatio dotis, per la quale al filia che aveva ricevuto dal padre una dos profecticia doveva conferire agli altri heredes sui quanto ricevuto. La dos adventicia era assimilata a quella
profecticia, pertanto un rescritto di Gordiano obbligò la donna a conferire la dote profectitica, cioè proveniente dal pater, anche ai fratelli emancipati, mentre la dos adventicia doveva
essere conferita solo ai sui.
Il legato era una disposizione mortis causa a titolo particolare, con la quale il testatore attribuiva, a
carico del patrimonio ereditario (e quindi sempre all’erede, c.d. onerato), ed a vantaggio di altra
persona (legatario o onorato), singoli beni.
In materia di legati si applicavano i seguenti principi:
 Onerato poteva essere solo l’erede a favore del quale il testatore avesse disposto l’acquisto
di un’attività patrimoniale maggiore di quella che gli sarebbe spettata per legge.
 L’ammontare del legato non poteva superare l’ammontare dell’acquisto fatto dall’erede.
 Onorati potevano essere solo coloro che avevano la capacità testamentaria passiva verso il
disponente, nonché lo schiavo, purché se ne disponesse la manomissione nello stesso testamento.
 Il legato andava fatto in forma imperativa.
Il diritto romano conosceva quattro tipi di legato: legatum per vindicationem, legatum per damnationem, legatum sinendi modo, legatum per praeceptionem.
Il legato per vindicationem trasmetteva direttamente la proprietà, o il diritto che ne era oggetto, dal
testatore al legatario. Di conseguenza se il legatario non riceveva ciò che gli spettava, poteva esperire contro l’erede la rei vindicatio, o le azioni volte a tutela degli iura in re aliena.
Requisito essenziale di tale forma di legato era l’appartenenza della cosa oggetto del legato al testatore sia nel momento della redazione del testamento sia nel momento della morte. Solo se si trattava
di cose fungibili era sufficiente che esse facessero parte del patrimonio del testatore al momento
della sua morte.
Il legatum per damnationem aveva per effetto la creazione di un’obbligazione a carico dell’erede
ed a favore del legatario. Affinché il legatario acquistasse la proprietà sulla cosa legata, occorreva
che l’erede gliela trasferisse con apposita mancipatio, in iure cessio o traditio. Perché venisse liberato dal debito occorreva che l’erede compisse, ad esempio, una solutio per aes et libram. Se l’erede
era restio ad ottemperare, il legatario poteva agire contro di lui con l’actio ex testamento, che era
certi se oggetto del legato era una cosa determinata, incerti se era una cosa generica.
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Di struttura affine al legato per damnationem, il legatum sinendi modo consisteva in un ordine rivolto all’erede di sopportare che il legatario facesse alcunché. Da esso, quindi, nasceva un rapporto
obbligatorio tra erede e legatario, per effetto del quale il primo era tenuto ad un pati.
Analogo al legato per vindicationem era quello per praeceptionem, che consisteva
nell’attribuzione della proprietà di una cosa ad uno dei coeredi, al quale veniva inoltre conferita la
facoltà di prendere la cosa stessa prima di acquisire la sua quota dell’eredità.
Le differenze tra i vari tipi di legato si attenuarono progressivamente a partire dall’età classica, per
opera della legislazione e della giurisprudenza.
Un senatoconsulto proposto da Nerone stabilì che se oggetto del legato per vindicationem erano cose non appartenenti al testatore, il legato non era nullo ma doveva esser considerato come legatum
per damnationem, potendosi esercitare l’actio ex testamento. In età postclassica l’abolizione, ad opera di Costanzo, della necessità dell’uso di formule solenni comportò la scomparsa della pluralità
di tipi di legato. Il processo di avvicinamento tra i genera legatorum raggiunse il culmine in diritto
giustinianeo, quando si stabilì che i legati avevano tutti unam naturam, e i vari tipi si fusero insieme.
In relazione all’acquisto del legato, il diritto romano distingueva due momenti, quello in cui si acquistava il diritto al legato (dies cedens) e quello in cui si acquistava il legato vero e proprio (dies
veniens).
Il diritto sulla res legata si perfezionava con l’accettazione dell’eredità da parte dell’erede, se era
heres voluntarius. Fino a quel momento, il diritto al legato permaneva nel patrimonio del legatario
(più che un diritto, si trattava di un’aspettativa di diritto) e si trasmetteva ai suoi eredi se il legatario
moriva prima che l’heres voluntarius avesse accettato l’eredità. Non appariva, infatti, equo che i ritardi intervenuti nell’accettazione dell’eredità si risolvessero in pregiudizio del legatario medio
tempore deceduto.
Il c.d. dies veniens era il momento nel quale il diritto del legatario diventava esigibile, essendosi
verificata l’aditio da parte dell’heres voluntarius. Se il legato era a termine, il dies veniens si verificava al suo scadere. Una volta divenuto esigibile il diritto, la modalità con la quale avveniva
l’acquisto effettivo della cosa o del bene oggetto del legato dipendeva dal tipo di legato.
Un legato era nullo:
 Se il legatario non era dotato di testamenti factio passiva;
 Se la cosa legata era già di proprietà del legatario;
 Se il testamento era nullo o se era nulla la disposizione riguardante il legato. L’invalidità poteva essere anche sopravvenuta rispetto al momento della morte del de cuius, purché antecedente al dies cedens;
 Se l’erede rinunciava all’eredità.
Come qualsiasi altra disposizione di ultima volontà, anche il legato era sempre revocabile dal testatore.
Nell’epoca più antica, come confermato dalla legge delle XII Tavole, era possibile che il testatore
esaurisse tutto il suo patrimonio in legati, per cui all’erede non restava altro che il nudum nomen.
Per ovviare a tali inconvenienti furono introdotte, a partire dall’epoca repubblicana, varie limitazioni alla facoltà del testatore di disporre legati. Così:
 La lex Furia testamentaria, databile intorno al 200 a.C., vietò i legati superiori ai mille assi, ad eccezione di quelli disposti a favore del coniuge o dei parenti fino al sesto grado.
 La lex Voconia, del 169 a.C., dispose che al legatario non poteva essere attribuita una parte
maggiore di quella spettante al meno favorito tra gli eredi.
 Il rimedio più decisivo fu offerto dalla lex Falcidia, del 40 a.C., la quale abrogò le limitazioni dettate dalle leggi precedenti e stabilì che agli eredi testamentari dovesse in ogni caso
rimanere un quarto dell’attivo netto. Se l’ammontare dei legati eccedeva i 3/4 del patrimonio
netto, dovevano essere ridotti proporzionalmente.
Il fedecommesso (fideicommissum) era quella disposizione di ultima volontà con la quale il testatore, in forma non di comando ma di preghiera, si rivolgeva ad un soggetto che aveva istituito erede o
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che avrebbe conseguito mortis causa parte dei suoi beni, affinché compisse, dopo la sua morte, una
data attività a favore di un’altra persona.
Inizialmente il fedecommesso consisteva solo in una preghiera o raccomandazione, successivamente servì a raggiungere scopi che altrimenti non era possibile attuare. In particolare per conferire
qualche bene ad un incapace.
L’istituto si diffuse nei costumi e nella coscienza sociale: col tempo, si ritenne insufficiente il mero
obbligo morale che gravava sull’onerato, tanto che Augusto stabilì che, quando l’inadempimento
alla disposizione fedecommissaria fosse stato particolarmente riprovevole, il fedecommissario, ossia il beneficiario del fedecommesso, poteva agire extra ordinem. In tale ambito si inserì la creazione di uno speciale magistrato, il praetor fideicommissarius, cui venne affidato il compito di sovrintendere all’esecuzione dei fedecommessi, e prendere provvedimenti in caso di inadempimento.
Successivamente, l’imperatore Claudio concesse la possibilità di ricorrere alla cognitio extra ordinem in ogni ipotesi di fedecommesso. Per effetto di tale disposizione, questo istituto diventò, per la
sua assoluta libertà di forme e per la molteplicità dei fini che il testatore poteva perseguire, un sistema molto usato a fini successori, ed affiancò il sistema dei legati.
Il senatoconsulto Trebelliano stabilì che, trasmessa la proprietà delle cose corporali, il fedecommissario potesse esercitare tutte le azioni normalmente spettanti all’erede o contro di lui.
Poiché l’erede, non avendo un interesse proprio all’eredità, poteva decidere senza pregiudizio di
non accettare l’eredità stessa, un senatoconsulto Pegasiano stabilì che in ogni caso all’heres rogatus spettasse un quarto dell’asse ereditario.
Il senatoconsulto attribuì al fedecommissario la facoltà di agire dinanzi al pretore per costringere
l’erede all’aditio, togliendoli il diritto alla quarta in caso di sua resistenza. In virtù dell’emanazione
del senatoconsulto Pegasiano, il regime applicabile ai fedecommessi fu il seguente:
 Continuavano ad applicarsi le disposizioni del senatoconsulto Trebelliano ai fedecommessi
di valore superiore ai 3/4 dell’attivo ereditario e nei casi in cui l’erede avesse rinunciato alla
quota che gli spettava.
 Se, invece, il fedecommesso superava i 3/4 o l’erede avesse accettato la sua quarta, non era
più possibile per il fiduciario acquistare direttamente le azioni ereditarie utili, ma occorrevano allo scopo apposite stipulationes.
Per quanto riguarda le differenze tra legati e fedecommessi, occorre dire che:
1. I legati dovevano essere disposti nel testamento o in appositi codicilli, secondo forme tassativamente indicate, mentre i fedecommessi potevano esser disposti in qualsiasi forma.
2. I fedecommessi potevano essere disposti anche a favore di persone prive di testamenti factio
passiva, al contrario dei legati.
3. La tutela del legatario era affidata alla cognitio ordinaria, mentre quella del fedecommissario alla cognitio extra ordinem.
Va osservato, comunque, che i due istituti si andarono lentamente avvicinando, tanto che, in epoca
giustinianea, potevano dirsi equiparati, se non nella struttura, almeno negli effetti.
Il diritto classico conobbe la c.d. sostituzione fedecommissaria, che si aveva quando il testatore
gravava lo stesso fedecommissario dell’obbligo di restituire, integralmente o parzialmente, l’eredità,
alla sua morte o dopo un tempo determinato, ad un’altra persona. La figura più importante di sostituzione fedecommissaria fu quella del fedecommesso di famiglia, per il quale si ammise che taluno
potesse disporre in modo che non fosse alienata la casa paterna. In questo caso l’oggetto vincolato o
la quota vincolata doveva essere trasmesso intatto dall’uno all’altro membro della famiglia, secondo
indicazioni del testatore oppure in base alle scelte dei vari fiduciari pro tempore.
I codicilli erano disposizioni scritte, sorte in epoca augustea, non assoggettate all’osservanza di particolari forme, che potevano contenere qualsiasi disposizione mortis causa, tranne quelle riguardanti
la designazione dell’erede.
In genere, proprio coi codicilli erano disposti i fedecommessi, tanto che in dottrina si è sostenuto
che lo sviluppo storico dei due istituti fu simultaneo. I codicilli potevano essere testamentari o ab
intestato a seconda che, per volontà del loro autore, essi fossero destinati a valere in caso di successione testamentaria o ab intestato.
I codicilli testamentari, a loro volta, potevano essere confermati o meno, a seconda che ad essi fosse
fatto o meno rinvio nel testamento.
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I legati, se disposti attraverso codicilli confirmati, avevano piena validità, altrimenti avevano solo il
valore di fedecommessi.
Frequentemente il testatore inseriva nel proprio testamento una clausola, detta codicillare, la quale
disponeva che, in caso di invalidità del testamento, l’atto valesse come codicillus non confirmatus,
in modo che le singole disposizioni fossero considerato fedecommessi.
Per il diritto romano la donatio non era un negozio giuridico ma piuttosto uno scopo che poteva essere raggiunto nei modi più disparati. Così, si poteva compiere una donazione trasferendo la proprietà di un bene, rimettendo un debito, costituendo una cosa in dote. Perché un negozio potesse rientrare nella figura della donatio occorreva che:
 Producesse un aumento del patrimonio del donatario ed un correlativo impoverimento del
patrimonio del donante.
 Il donante non fosse tenuto all’attribuzione patrimoniale sulla base di un obbligo giuridico,
né fosse interessato alla prospettiva di un guadagno.
La donatio non aveva un’autonoma disciplina, ma si presentava unicamente come causa, cioè come
fine pratico, consistente nell’attribuzione di un’entità patrimoniale come corrispettivo.
Inizialmente la causa donationis non era considerata dalla legge come rilevante di per sé. Si richiedeva solamente che l’atto concretamente posto in essere avesse i suoi requisiti e fosse idoneo a produrre effetti. La causa donationis divenne normativamente rilevante quando la lex Cincia de donis
et muneribus del 204 a.C. proibì le donazioni eccedenti una data misura, forse i mille assi. Tuttavia
la lex Cincia era una lex imperfecta, cioè priva di sanzione per la sua inosservanza. Per tale motivo
le donazioni compiute in sua violazione erano comunque ritenute valide ed efficaci.
Dal regime negativo della lex Cincia, il pretore ricavò il sistema della revocabilità della donazione.
L’atto non era considerato proibito, ma essenzialmente revocabile, nel senso che si ammetteva che
il donante potesse rifiutarsi di eseguirlo se questo era stato inconsulto. La facoltà di revoca era limitata al donante e non passava agli eredi.
La giurisprudenza diede rilievo alla donazione anche quando, nei primi anni del Principato, fu introdotto per legge il divieto di donazioni tra coniugi. La donazione fatta in contrasto col divieto
era inesistente e quindi il donante poteva rivendicare la cosa mancipata o tradita e ripetere la somma
pagata. Inoltre, un senato consulto risalente all’età dei Severi dispose che le donazioni tra coniugi
già eseguite diventavano inattaccabili dopo la morte del donante.
L’imperatore Costantino diede all’istituto della donazione una nuova connotazione, abolendo la lex
Cincia e dettando per gli atti di liberalità un nuovo regime giuridico. In particolare, fu imposto un
particolare rigore formale, disponendo che le donazioni fra estranei non fossero valide senza la forma scritta e la insinuatio nei pubblici registri.
Nella legislazione successiva, caduta in disuso la traditio, l’ambito di applicazione della donazione
si allargò. Giustiniano ammise la donazione di un credito e la donazione promissoria. Nel diritto
giustinianeo, inoltre pur se fu mantenuto in vita il divieto delle donazioni tra coniugi, non esistevano più i limiti imposti dalla legge Cincia.
Nel diritto romano era conosciuta la figura della donatio sub modo, in cui il beneficiario aveva
l’onere di eseguire a sua volta una prestazione a favore dello stesso donante o di terzi. Il donante si
faceva promettere dal donatario la restituzione della cosa donata o il pagamento di una penale, nel
caso di inadempimento dell’onere. L’impegno poteva essere assunto attraverso un pactum fiduciae,
inserito nella mancipatio o attraverso una separata stipulatio.
In diritto preclassico e classico, donatio mortis causa era ogni negozio giuridico traslativo del dominium su una res, da un soggetto (donante) all’altro (donatario), nel quale risultassero fuse due distinte cause: la causa donationis e la causa mortis, ossia l’intento di arricchire immediatamente il
donatario, in vista di un imminente pericolo di vita del donante, e quindi della sua premorienza rispetto al donatario.
Occorre rilevare che il donante aveva il diritto di riacquistare il dominium sulle cose donate in due
casi:
 Se non si realizzava il pericolo di morte;
 Se il donatario premoriva al donante.
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Mortis causa capio fu ogni altro acquisto mortis causa, che non avvenisse a titolo di successio e
non avesse carattere di donatio mortis causa. Si pensi, ad esempio, alla somma di denaro versata ad
un terzo dal soggetto istituito erede sotto condizione di beneficiare il terzo stesso.
In diritto postclassico vi fu una totale assimilazione della donatio mortis causa ai legati, tanto che
entrambi furono ritenuti fonte di successione mortis causa a titolo particolare.
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