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PARI per SFIDE IMPARI

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PARI per SFIDE IMPARI
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A
ll’Ispettore della Polizia di Stato
Filippo Raciti visceralmente innamorato
del suo lavoro e del proprio Reparto,
che due anni prima di cadere in servizio
aveva vissuto molto da vicino la tragica
fine di un collega sperimentando sulla
propria pelle ciò che si può provare in
certi momenti dell’esistenza.
Perché la sua sofferta esperienza
in quella triste vicenda come vittima
secondaria di un incidente critico di
servizio non venga smarrita dalla
nostra memoria e sia di insegnamento
per i comandanti e per tutti coloro che
hanno a cuore la vita e il benessere dei
poliziotti.
PARI PER SFIDE IMPARI
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PREFAZIONE
Perché scrivere un “quaderno” sul “PARI per SFIDE IMPARI”, argomento
quasi sconosciuto (almeno in Italia)? La formula del quaderno risulta agile sia
per chi scrive, che per chi legge. Si pone l’obiettivo di aprire la strada per una
conoscenza nuova e di iniziarne la trasmissione culturale, oltre che la concreta
fruizione da parte di coloro che sono più vicini, per il ruolo che svolgono,
all’oggetto di essa.
Il titolo un po’ bizzarro serve a stimolare la naturale curiosità umana, molla
primaria di ogni percorso di conoscenza.
L’argomento sostanzialmente nuovo, per il panorama italiano, riguarda il
tema dell’aiuto agli Operatori delle Forze di Polizia coinvolti in gravi incidenti
di servizio (incidenti critici professionali), fornito non dagli esperti della salute
mentale (psicologi, psichiatri, assistenti sociali, ecc.), o meglio, non solo da essi,
ma anche e soprattutto, almeno in una fase iniziale, da colleghi, i “pari”, che
sulla base di caratteristiche personali, storia professionale e di una motivazione
autenticamente pro-sociale si dispongono e si formano per svolgere tale arduo
compito. Ecco allora il perché del titolo: “Pari per sfide impari”. Le sfide a cui
facciamo riferimento sono impari perché ci si confronta con gli effetti devastanti
di eventi di servizio che hanno comportato la morte o la prospettiva assolutamente
concreta della morte violenta di qualcuno (se stessi, colleghi, criminali o terzi).
Questi eventi sono pertanto, almeno potenzialmente, sempre psicotraumatici,
in grado cioè di generare effetti gravemente disfunzionali nell’individuo, nella
sua famiglia, nell’ambiente di lavoro ed infine nel più ampio contesto sociale.
Confrontarsi il più efficacemente possibile con tali eventi è quindi non solo
compito personale di chi ha la (mala) sorte di viverli direttamente, ma anche
dovere morale e giuridico dell’istituzione a cui i soggetti appartengono,
attraverso l’attivazione di risorse ordinarie e straordinarie. Queste risorse sono
essenzialmente risorse umane e prevedono il corale coinvolgimento di vari
Attori istituzionali o che lavorano per l’istituzione, i principali dei quali sono
rappresentati da: Comandanti di vario livello gerarchico, Colleghi, Professionisti
della Salute Mentale, Ministri del culto, Personale Sanitario, “pari”.
Questo quaderno vuole focalizzarsi sul perchè questa figura, il “pari”, risulta
indispensabile nella gestione del trauma psichico degli Operatori di Polizia,
sulla sua presentazione attraverso l’esperienza concreta della formazione e
dell’attività svolta sul campo, oltre che sulle prospettive di una sua maggiore
diffusione e più largo impiego.
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PARI PER SFIDE IMPARI
Tutto ciò affonderà le sue radici e trarrà il suo nutrimento dall’esperienza
personale che gli autori, a vario titolo, hanno svolto nell’ambito della Polizia di
Stato, istituzione a cui hanno l’onore di appartenere e che, prima fra le forze di
polizia in Italia, nel 2003 ha varato il progetto dei “pari”. Tale risultato è stato
preparato e si è maturato negli anni precedenti attraverso un lavoro di riflessione
“di testa e di pancia” stimolato dalla stretta vicinanza con gli operatori di polizia,
ed in particolare dalle dolorose vicende di molti di essi, e ha potuto realizzarsi
grazie alla generosa, gratuita disponibilità e straordinaria competenza nel campo
della psicotraumatologia di un grande amico, il Professor Roger Solomon, a cui
dobbiamo e dedichiamo con sincero affetto questo modesto, ma ci auguriamo
concreto, contribuito editoriale.
RINGRAZIAMENTI, SALUTI E BUONI PROPOSITI
Il nostro sincero ringraziamento va all’amico Nicodemo Maggiulli, editore
nel vero senso della parola e non, come avviene spesso oggi, mero “stampatore”,
per due importanti motivi:
• lo stimolo fornitoci a realizzare in tempi brevissimi questo piccolo contributo
per un tema così grande ed importante;
• la disponibilità a produrre a titolo gratuito un discreto numero di copie di
questo quaderno destinato, nelle intenzioni degli autori, a sensibilizzare
sull’argomento il ricchissimo e variegato contesto istituzionale ed umano che
ruota intorno alle Forze di Polizia.
Detto questo non possiamo non impegnarci in un buon proposito: quello
di arrivare ad estendere un vero e proprio testo (nel senso di testimonianza) di
psico-traumatologia centrato sulla figura, ruolo ed esperienza operativa dei pari
nelle Forze di Polizia. Per giungere a ciò è necessario ed onesto accumulare e
confrontarsi con ulteriori esperienze che ci auguriamo giungano presto anche da
parte di altre Forze di Polizia a competenza nazionale e locale. Un affettuoso e
doveroso saluto va a tutti i nostri colleghi del Centro di Neurologia e Psicologia
Medica della Polizia di Stato con cui abbiamo condiviso in questi anni, le gioie
ed i dolori di un non facile percorso culturale ed operativo.
Ad una carissima collega ed amica del Centro, impegnata oggi in una
durissima battaglia personale, ma fino a poco tempo fa, straordinaria interprete
sul campo di questo sforzo, va il nostro sincero “GRAZIE!” con i migliori
auguri insieme alla nostra vicinanza di “pari” per sempre.
Gli Autori
PARI PER SFIDE IMPARI
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SOMMARIO
Prefazione..............................................................................................................pag. 2
Capitolo I :
Gli incidenti critici di servizio nelle forze di polizia................pag. 5
Capitolo II:
Un incidente critico di servizio narrato con le parole di chi lo
ha vissuto sulla propria pelle....................................................pag. 10
Capitolo III:
Le fasi della risposta del corpo e della mente ad
un incidente critico di servizio................................................pag. 16
Capitolo IV:
Quando non si supera l’incidente: i principali indicatori di
allarme.......................................................................................pag. 28
Capitolo V:
Il “Pari”: chi, quando, come, dove e perché ..........................pag. 30
Capitolo VI:
Comunicare alla “pari” ............................................................pag. 35
Capitolo VII: Come si forma un “Pari”: spunti di esperienze......................pag. 47
Capitolo VIII: I vissuti di un “Pari” durante il corso di formazione............pag. 51
Capitolo IX:
Il “Pari” in azione: cronaca e non solo di un intervento.......pag. 55
Capitolo X:
Il futuro del “Pari” e della cultura della “parità” nelle
Forze di Polizia..........................................................................pag. 61
Postfazione...........................................................................................................pag. 62
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PARI PER SFIDE IMPARI
CAPITOLO I
GLI INCIDENTI CRITICI DI SERVIZIO
NELLE FORZE DI POLIZIA
Sappiamo veramente che cosa significa il termine stress?
“Tutti soffrono di stress, tutti ne parlano, ma pochi si prendono il disturbo di
sapere cosa sia veramente”
Hans Selye
Se pochi si prendono il disturbo di sapere cosa sia veramente lo stress nella
sua accezione generale, pochissimi raccolgono la sfida di capire cosa è davvero
e cosa può causare lo stress acuto indotto da un incidente critico.
Per adesso, evitiamo di illuderci di comprenderne il significato attraverso
una astratta definizione ma proviamo a rimandarne l’esperienza mediata grazie
al racconto contenuto nel prossimo secondo capitolo.
Ciò che troveremo narrato attiene alla minaccia primigenia, modello per
eccellenza di tutte le risposte di stress, nella quale l’individuo percepisce vicina,
incombente, la prospettiva della morte relativamente a sé e/o ad altri.
DEFINIZIONE DI INCIDENTE CRITICO
Gli eventi che possono innescare una risposta di stress acuto/acutissimo
vengono tecnicamente chiamati in psicotraumatologia incidenti critici.
Possiamo definirli come quelle situazioni traumatiche in grado di sconvolgere
le capacità di adattamento di un individuo con conseguente percezione di
vulnerabilità e perdita di controllo:
- disastri naturali o provocati dall’uomo;
- gravi incidenti automobilistici;
- aggressioni personali violente;
- suicidio di terzi significativi;
- essere presi in ostaggio o rapiti;
- diagnosi di malattie minacciose per la vita a carico del soggetto o stretti
familiari.
PARI PER SFIDE IMPARI
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CARATTERISTICHE DEGLI INCIDENTI CRITICI
- sono improvvisi ed inaspettati;
- travolgono la nostra sensazione di controllo della realtà;
- comportano la percezione di una minaccia potenzialmente mortale;
- possono causare perdite fisiche e/o emotive;
- violano i presupposti su come pensiamo funzioni il mondo:
• “Questa cosa non doveva accadere”
• “Le cose brutte non capitano a me”
• “Il mondo è prevedibile, giusto e controllabile, ed io ne ho il controllo”
• “Alle brave persone non capitano brutte cose”
• “Non doveva capitarmi ancora questo, dopo tutto quello che ho già
passato”
INCIDENTI CRITICI PROFESSIONALI (O DI SERVIZIO)
Vengono definiti così quelli a cui sono esposti più tipicamente gli appartenenti
a particolari categorie lavorative a ragione della loro specifica attività.
L’incidente può causare una traumatizzazione psichica sia se:
a) il fatto è vissuto direttamente, e in questo caso gli individui colpiti sono
considerati vittime primarie;
b) la situazione comporta un intervento a caldo sulla scena, e in questo caso
le persone esposte vengono considerate vittime secondarie;
c) l’evento viene “sentito” per confronto emotivo e in questo caso i soggetti
convolti vengono considerati vittime terziarie.
Per coloro che svolgono il loro servizio nell’ambito dei comparti sicurezza/
giustizia (che da questo momento in poi chiameremo per semplicità operatori)
si possono delineare gli scenari più diversi ed imprevedibili, di cui i successivi
rappresentano solo alcune esemplificazioni.
Esempi di eventi vissuti direttamente
- Conflitti a fuoco in cui uno o più operatori, o altri soggetti (criminali o terzi)
siano rimasti feriti o uccisi.
- Aggressione violenta subita in ordine pubblico, nel corso di un intervento per
una lite, di una rivolta, di un tentativo di evasione.
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PARI PER SFIDE IMPARI
- Attentati in qualità di vittima generica o specifica per l’attività istituzionale
svolta.
- Essere presi in ostaggio durante una rapina, un’azione terroristica, una rivolta,
un tentativo di evasione.
- Gravi incidenti in quanto equipaggio di un mezzo di servizio.
- Ricevere gravissime minacce personali a motivo del proprio ruolo di tutore
della Legge.
- Incarceramento conseguente a fatti di servizio.
Esempi di eventi vissuti a causa di un intervento di servizio
- In caso di gravi incidenti stradali.
- In qualità di soccorritori in occasione di disastri naturali o provocati
dall’uomo.
- In caso di suicidio o tentato suicidio messo in atto da un collega o da criminali
in custodia.
- In caso di gravi incidenti o lesioni subite da colleghi per cui si sia prestata
assistenza diretta.
- In caso di intervento su scenari in cui uno o più operatori o altri soggetti
(criminali o terzi siano rimasti feriti o uccisi).
Esempi di eventi vissuti per confronto emotivo
- Venire a conoscenza della morte violenta per servizio o per gesto suicidiario di
colleghi a cui si era legati da rapporti di amicizia
- Venire a conoscenza di gravi minacce rivolte a membri della propria famiglia o
di aggressioni personali violente subite dagli stessi per l’attività istituzionale
svolta dal congiunto.
- Venire a conoscenza di gravi abusi subiti da minori nel corso di indagini che
includono il contatto con le vittime.
- Comunicare alle persone care la morte di un collega avvenuta in servizio.
PARI PER SFIDE IMPARI
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FATTORI CHE DETERMINANO L’ENTITÀ DELLA RISPOSTA
EMOTIVA AGLI INCIDENTI CRITICI
Vicinanza
- Fisica: più si è vicini, maggiore sarà l’impatto;
- Psicologica: i collegamenti emotivi ai vissuti personali “avvicinano” alla
scena
Presenza di altri importanti stressori, del relativo livello di tensione nella
propria vita ed il modo di affrontarla
Natura e grado del sostegno sociale:
- Sostegno offerto subito dopo l’evento e disponibilità dell’individuo a ricevere
aiuto
- Sostegno da parte della direzione, dei superiori e dei colleghi
- Sostegno da parte dei familiari dell’individuo e disponibilità di quest’ultimo
a comunicare con loro
Tipologia dell’evento
- Livello di coinvolgimento personale
- Livello di controllo della situazione
- Livello di minaccia o di perdita percepita
- Livello di assurdità rispetto al normale corso delle cose
- Stravolgimento delle aspettative comunemente attese
- Origine naturale o umana dell’evento
Livello di preavviso: tempo per la risposta
Forza dell’Io e modalità con cui la circostanza è stata affrontata.
Esperienze precedentemente gestite positivamente o meno.
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PARI PER SFIDE IMPARI
COSA AVVIENE NELLA MENTE DI UN INDIVIDUO CHE VIVE
ESPERIENZE COSÌ TRAUMATICHE?
Nelle situazioni più favorevoli il soggetto attraversa più o meno rapidamente
le seguenti fasi:
1) shock, in cui l’individuo è stordito, distratto, confuso. Può durare da qualche
minuto a qualche giorno (generalmente uno o due);
2) impatto emotivo: è il momento in cui la persona inizia a sperimentare la
consapevolezza di quanto vissuto (generalmente entro le 72 ore);
3) coping: è il periodo in cui il soggetto affronta, si confronta, comprende e
rielabora l’impatto emotivo dell’incidente;
4) accettazione: è il momento in cui viene raggiunto uno stato di accettazione
ed integrazione di ciò che si è vissuto;
5) convivenza: è la fase della consapevolezza di dover convivere con il proprio
senso di vulnerabilità e dll’impossibilità di tornare indietro; la propria visione
del mondo non sarà più quella precedente.
Questo processo non sempre evolve favorevolmente:
• A causa della gravità dell’evento
• A causa del sommarsi di precedenti esperienze traumatiche
• Per la presenza contemporanea di altri graci stressori
• Per l’assenza o l’insufficienza dl sostegno sociale
Si può pertanto sviluppare e cronicizzare una sintomatologia più o meno
grave da stress post-traumatico: la vita della persona non riesce più a riprendere
un percorso adattivo ma rimane dolorosamente intrappolata nella ragnatela
dell’evento.
I sintomi che si sperimentano, oltre il disagio individuale che può risultare
grave e invalidante, comportano riflessi fortemente negativi per la vita di
coppia, familiare e lavorativa che possono evolvere in separazioni coniugali,
conflittualità con i figli, problemi disciplinari e penali, abuso di alcool o altre
sostanze, aumentato rischio di incidenti, suicidio.
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CAPITOLO II
UN INCIDENTE CRITICO DI SERVIZIO NARRATO
CON LE PAROLE DI CHI LO HA VISSUTO SULLA
PROPRIA PELLE
Ore 18.25 del 5 febbraio 2000. Io e Daniele siamo di pattuglia nella zona
delle biglietterie della stazione ferroviaria centrale quando, ad un certo punto,
decidiamo di svolgere alcuni controlli su persone sospette che notiamo nella
piazza antistante.
Vi è un gruppo di tre persone che bivacca davanti ad un chiosco, ci avviciniamo
e chiediamo loro i documenti. Nel frattempo giunge un altro individuo ed anche
lui viene sottoposto al controllo. Mentre Daniele si occupa di tre di loro, due
uomini e una donna, osservando i loro atteggiamenti senza farli muovere più di
tanto, io mi concentro su colui che immagino essere il più “interessante”: l’ultimo
arrivato. Si chiama C.A., e dopo aver accertato tramite la Sala Operativa che ha
un passato da pluriomicida (sette omicidi), che a suo carico ha numerosissimi
altri precedenti penali e che gode del regime di semilibertà, approfondisco il
controllo sottoponendolo alla perquisizione personale sul posto.
Il C.A. si mostra molto nervoso ed insofferente, manifestando più volte
l’intenzione di girarsi dando le spalle a noi operatori di polizia. Ciò non gli
viene permesso spiegandogli con modi garbati, ma fermi, che poiché sottoposto
ad un controllo di polizia deve rispettare le regole che gli vengono imposte.
Dopo aver controllato nelle varie tasche dei pantaloni e del giubbotto, sotto
la maglia, e nei calzini che indossa se vi celi qualcosa di illecito, gli domando
perché, nonostante il freddo, continui a sudare. Egli risponde che non ha nulla
da nasconderci e quindi al mio invito inizia ad aprire le tasche del marsupio che
porta al seguito.
Nella prima tasca non vi è niente, nella seconda un pacchetto di gomme
da masticare aperto, la terza tasca non vuole aprirla mostrando un attimo di
esitazione.
Torno a ripetergli la richiesta mentre nel frattempo gli altri tre individui
osservano la scena senza muoversi come se già conoscessero il contenuto del
marsupio ed un loro gesto potrebbe compromettere “qualcosa” (oggi, direi che
sembravano i clienti di una banca che viene assalita dai rapinatori).
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PARI PER SFIDE IMPARI
A questo punto il C.A. si decide ad aprire la tasca, fa scorrere la zip e vi
infila la mano dentro: improvvisamente la estrae dal marsupio impugnando una
pistola e contemporaneamente urla: “ho questa”, puntandomela in faccia.
Io che pensavo a tutto, tranne al fatto che quell’individuo potesse essere
armato di pistola devo realizzare in un attimo, cancellando dalla mia mente tutte
le ipotesi fatte circa il contenuto del marsupio e in che modo quindi procedere,
come trovare una soluzione rapida per salvare la “pelle”. Avevo infatti presunto,
come spesso succede, che lì dentro vi fosse della droga, un coltello, dei gioielli
in similoro ma comunque nulla di così pericoloso.
Vistomi alle strette decido di afferrare la mano armata dell’uomo cercando
di non farmi colpire al viso; nel frattempo egli, estremamente robusto, alto circa
un 1metro e novantacinque, e molto forte fisicamente, riesce con l’altra mano
a “scarrellare” per mettere un colpo in canna e nel frattempo noto che un altro
colpo salta fuori dalla pistola finendo a terra.
Preso dallo spavento e consapevole dell’imminente pericolo di vita cerco
di reagire a tutti i costi, utilizzando una forza che non avevo mai pensato di
possedere: riesco così ad abbassare la mano armata dell’uomo dopo di che odo
un’esplosione e mi rendo conto di essere stato colpito all’emitorace sinistro. A
causa del forte dolore lascio la mano dell’aggressore indietreggiando di un passo:
Daniele che mi vede in difficoltà si china in avanti preparandosi ad un balzo sul
corpo del malvivente. In questo frangente gli altri tre individui raccolgono da
terra i loro documenti e quelli del C.A., documenti che avevo lasciato cadere per
prepararmi a reagire con le mani libere, per poi dileguarsi tra le vie cittadine.
Il C.A: notando Daniele posizionato a reagire in mio soccorso gli punta la
pistola esplodendogli quasi a bruciapelo un colpo che lo raggiunge all’altezza
del torace, ferendolo gravemente. Mentre Daniele cade a terra mi urla di essere
stato colpito al cuore. Io mi faccio forza e affronto di nuovo il malvivente
afferrandolo al collo con l’intento di atterrarlo. Tale operazione però non va a
buon fine, in quanto, il criminale con l’altra mano mi agguanta per il giubbotto
della divisa e mi trascina a terra sopra di lui. Cadendo, urto con violenza il viso
sul pavimento di porfido della piazza provocandomi delle ferite alla testa, al
naso ed alla bocca, con la conseguente rottura degli occhiali.
A causa del colpo mi disoriento al punto di non capire più cosa mi sta
accadendo; quindi il C.A: ha la possibilità di rotolarsi su di me, appoggiarmi la
canna della pistola al petto ed esplodere un altro colpo di pistola che mi trapassa
per poi fuoriuscire dietro la schiena.
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Mi rendo conto del fatto che la vita mi sta abbandonando, ma non voglio
accettare una fine simile: non si può smontare dal servizio dentro una bara! Così
ormai allo stremo delle forze grido il criminale di non ammazzarmi urlandogli
contro di farla finita ad accanirsi contro di noi. Egli invece si mette in ginocchio
sopra di me, prende la mira e mentre io cerco di muovermi il più possibile per
non farmi colpire nuovamente esplode a mo’ di esecuzione mafiosa un altro
colpo che mi perfora nuovamente l’emitorace sinistro.
Il tempo sembra essersi fermato al punto che ho l’impressione di vivere
quella terribile esperienza al rallentatore e quasi da spettatore. Comincio a
vedere delle immagini dentro di me raffiguranti le cose belle della mia vita,
le persone a me care, le situazioni di gioia che avevo condiviso con chi mi
aveva dato un pizzico di felicità, i paesaggi a me cari, ripetendomi fra me e me:
“Perché tutto questo, che ho fatto di male, la mia vita non può finire così”.
Ad un tratto ritorno nella realtà e noto le scarpe del criminale, marroni tipo
Timberland con il carro-armato: è in piedi vicino alla mia testa, si è girato verso
la zona opposta della piazza e con passo veloce si sta allontanando. Trascorsi
alcuni secondi esplode verso di noi un altro colpo e ricomincia la fuga per poi
barricarsi in un hotel con tre ostaggi.
Dopo che il delinquente si è allontanato odo degli attimi di estremo silenzio
che mi sono utili per rendermi conto dell’evento che abbiamo appena finito di
vivere, dopo di che la mia attenzione va subito verso Daniele che giace a terra
a circa due metri da me. Tra me e lui vi è la radio portatile che prima portavo
appesa alla spalla e che nella colluttazione mi si è sganciata finendo a terra.
Cerco di raggiungere Daniele però non riesco ad alzarmi: quindi con la forza
delle braccia mi trascino verso di lui raccogliendo intanto la ricetrasmittente.
Dopo averlo raggiunto noto che è cosciente ma ferito gravemente al petto:
quindi con la forza della disperazione riesco a mettermi in piedi e con la radio
chiamo i soccorsi. Appena fatto ciò mi inginocchio vicino a lui cercando di
tranquillizzarlo visto che è molto agitato perché non riesce a respirare.
Poco dopo giungono i colleghi della nostra squadra che vedendoci ridotti
in quelle condizioni hanno un attimo di smarrimento: non sanno più cosa fare,
due della loro “famiglia” sono stati feriti gravemente, è la prima volta che tutti
noi ci troviamo a vivere una situazione del genere, da “protagonisti”, la prima
volta che ci troviamo irrimediabilmente sconfitti. Fino ad ora siamo riusciti a
fronteggiare qualsiasi tipo di intervento (rissa, rapina, aggressione, scippo ed
altro) uscendone vincitori al fine di riportare l’ordine in città, dando ognuno di
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PARI PER SFIDE IMPARI
noi il massimo e lavorando in gruppo. La nostra forza è sempre consistita nel
lavoro di gruppo, collaborando con il collega-fratello, coordinandoci a vicenda
senza sbagliare di una virgola, perché i nostri interventi di routine consistevano
in altro, non era mai accaduta una simile disgrazia… il poliziotto soccorritore
che si trova in difficoltà rimanendo ferito e necessita lui di essere soccorso.
Sono stati colpiti due della squadra, tutti abbiamo toccato con mano il vero
pericolo di questo mestiere che di solito capita di leggere sui giornali, vederlo in
televisione nei film, pensando che non può mai succedere a uno di noi, perché
ci sentiamo quasi al di sopra di certi pericoli, in grado di fronteggiare qualsiasi
tipo di problema.
Il momento che mi è rimasto più impresso è stato quando il nostro capo turno
Enrico è giunto con gli altri colleghi in piazza e, vedendoci entrambi a terra
feriti, mi si è avvicinato, mi ha stretto la mano e mi ha bagnato la divisa con le
lacrime. Non è riuscito a parlare ma con gli occhi e il cuore mi ha detto cose che
con le parole non sarebbe mai riuscito a trasmettermi nessuno.
In questi attimi di concitazione osservo tutti i miei colleghi presenti: alcuni
hanno l’istinto di correre in direzione del fuggitivo per vendicarci, altri cercano
di far allontanare la folla per facilitare l’arrivo delle autoambulanze, altri con
sguardo smarrito cercano qualcosa da fare per rendersi utili, ma continuano a
giraci intorno come sotto ipnosi, quasi imbambolati.
Dopo essere giunti in ospedale tanti colleghi del nostro ufficio sono rimasti
con noi fino a tardi per confortarci, aiutarci a superare il trauma subito temendo
che se ci avessero lasciati soli avremmo sofferto ulteriormente: quindi ognuno
si è reso utile anche con la sola presenza fisica, sono stati con noi, hanno
condiviso il nostro dolore, probabilmente anch’essi desiderosi di rimanere in
gruppo perché isolandosi avrebbero sofferto molto di più.
Di questo spiacevole evento ho tatuati nella mia mente alcuni inconfondibili
ricordi: l’odore della polvere da sparo; il rosso della fiammata dell’esplosione
dei colpi di pistola; il rantolo che emetteva il C.A. mentre tentava di eliminarmi;
l’odore della sua pelle; i suoi occhi senza alcuna espressione sembrava quasi
che fosse in trance; i particolari del suo marsupio; le guanciole della pistola
che impugnava; il rumore delle sue scarpe che strusciavano sul pavimento; il
sudicio che albergava sotto le sue unghia; il cappellino di lana che calzava sulla
testa; i suoi occhiali da vista stile anni ’70.
Oltre ciò non dimenticherò mai la scena presentatasi ai miei occhi qualche
istante dopo quella tragedia: eravamo entrambi feriti senza la possibilità di
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reagire a qualsiasi tentativo di sciacallaggio, non vi era nessun poliziotto
nelle vicinanze; ma solo avanzi di galera, barboni, tossici e balordi di ogni
genere. Avevamo bisogno di aiuto, ci serviva la mano di qualcuno che non
volesse approfittare della nostra fragilità e proprio in quel frangente notavamo
avvicinarsi loro, i disadattati di ogni genere che avevamo arrestato e denunciato
quando avevano commesso dei reati, ed aiutato quando erano affamati,
infreddoliti o desiderosi di sfogare i loro problemi personali con una figura
amica.
In piazza non vi erano i soliti passanti curiosi che a costo di “godersi lo
spettacolo” diventano un intralcio per gli addetti ai lavori fregandosene se un
operatore di polizia cerca di allontanarli, perché non si è al cinema e non è bello
divertirsi con i problemi altrui. Quella gente lì non c’era, era fuggita perché
udire l’esplosione dei colpi d’arma da fuoco aveva fatto loro dimenticare di
essere schiavi della curiosità.
Eravamo soli e vedevamo quei ragazzi disadattati che si avvicinavano non
per approfittare della nostra fragilità ma per darci soccorso. Un travestito si
è seduto a terra, ha preso la testa di Daniele e se l’è appoggiata sulle gambe,
carezzandogli i capelli cercava di diminuirgli il dolore che stava sentendo;
un marocchino già da noi precedentemente arrestato per borseggio si è
inginocchiato su di lui, gli ha slacciato il cinturone e me lo ha affidato, dopo di
che è tornato da Daniele e sporcandosi con il sangue di lui poliziotto ha cercato
di tamponargli la ferita al petto con la mano; una ragazza tossicodipendente
piangendo cercava di attirare l’attenzione degli altri disadattati che stavano
arrivando alla spicciolata con frasi del tipo: “aiutateci, correte, hanno sparato
ad occhialino e suo fratello”. Udite queste frasi i ragazzi ci hanno raggiunto, si
sono messi in cerchio intorno a noi e si sono spostati solo quando sono arrivate
le pattuglie della nostra squadra perché temevano per la nostra incolumità.
Mentre ero nella mia camera d’ospedale sono stato informato dai colleghi
che ci assistevano h24 che un gruppo di quindici, venti “tossici” era giunto al
reparto di chirurgia con l’intento di farci visita, ma ciò non gli era stato permesso
per ovvi motivi.
L’esperienza vissuta con Daniele mi ha fatto rendere conto del fatto che il
nostro lavoro, quando subentra la routine, ci porta a sottovalutare il pericolo,
che a volte ci convinciamo quasi di essere onnipotenti, che nulla ci può nuocere
al punto di toglierci la vita, ma che basta un attimo per vedere in frantumi ciò
che si è costruito con enorme sacrificio.
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PARI PER SFIDE IMPARI
Passato questo triste momento mi sono accorto sempre di più di essere
attaccato alla vita, di sentire il profumo dei fiori a cui fino ad allora non avevo dato
importanza, di riuscire a godere ed essere appagato delle piccole soddisfazioni
che la vita giornalmente ci propone, del vero significato della parola amore,
della voglia di costruire e, soprattutto, di essere rinato con una marcia in più.
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CAPITOLO III
LE FASI DELLA RISPOSTA DEL CORPO E DELLA
MENTE AD UN INCIDENTE CRITICO DI SERVIZIO
1) LA SITUAZIONE SI AGGRAVA O ESPLODE IMPROVVISAMENTE
Reazione di allarme: attivazione fisica
Il corpo si mobilita per una azione fisica (lotta o fuga). Al livello dei vari
organi avvengono le seguenti reazioni fisiologiche:
• l’ipotalamo innesca il sistema di allarme
• la tiroide produce ormoni che accelerano la produzione di energia
• le ghiandole surrenali secernono adrenalina e cortisolo nel sistema sanguigno
• la bocca diviene asciutta
• i muscoli facciali si contraggono
• le pupille, le narici e la gola si dilatano
• i polmoni vanno incontro ad una respirazione più difficile e più veloce
• aumenta la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna
• si alzano i livelli di zucchero nel sangue
• i grassi vengono riversati nel sangue dal tessuto adiposo per fornire energia
• i muscoli sono tesi e pronti all’azione
• lo stomaco, l’intestino e la vescica si rilassano
• la digestione rallenta
• i vasi sanguigni si restringono alle estremità (le mani e i piedi diventano freddi
o formicolano)
• aumenta la sudorazione
Attivazione Mentale
Aumentano le capacità di elaborare e collegare le informazioni in arrivo e/o
quelle già possedute (TAB. III.I).
16
PARI PER SFIDE IMPARI
TAB.III.I - ALTERAZIONI PERCETTIVE FREQUENTEMENTE SPERIMENTATE DA
OPERATORI DI POLIZIA DURANTE L’INCIDENTE CRITICO
Alterazione temporale +++
Rallentamento
++
Accelerazione
+
Alterazione uditiva
++
Attenuazione dei suoni
++
Intensificazione dei suoni
+
Alterazione visiva
++
Visione a tunnel
++
Aumento dei dettagli +
2) SHOCK/DISORIENTAMENTO MENTALE
L’Operatore di Polizia può essere inizialmente stordito, distratto, confuso
per un periodo da qualche minuto a qualche giorno.
Reazione immediata da stress
• tremori/sensazioni di freddo e brividi/confusione/pianto
• sensazione di testa vuota/iperventilazione/nausea
• tachicardia/sudorazione
Queste sono reazioni fisiologiche all’evento, non segni di debolezza o di
vigliaccheria
Negazione
• sensazione di incredulità
• ottundimento con momenti di affioramento dell’ansia
Dissociazione
• agire come un robot
• difficoltà a ricordare particolari dell’evento
• difficoltà a comprendere il significato di quanto vissuto
Attivazione/iperattivazione emotiva
• turbamento, emotività
• rabbia/tristezza/paura
• possibile sensazione di esaltazione per essere sopravvissuto all’“enormità”
del fatto
• agitazione, irritabilità, iperattività motoria
Sensazione di isolamento
• “nessuno si preoccupa di me o capisce veramente quello che mi è successo”
Ipersensibilità alle reazioni altrui
• offerte di aiuto
PARI PER SFIDE IMPARI
17
• osservazioni
• commenti
• consigli
Preoccupazione sull’evento
• “non riesco a pensare ad altro”
• “anche se ce la metto tutta non ce la faccio a staccare da quello che mi è
capitato”
Altri sintomi fisici di stress
(Comuni alle varie forme di stress: nelle reazioni ad eventi traumatici compaiono
subito dopo quelli della reazione immediata)
• disturbi del sonno
• ansia
• difficoltà di concentrazione
• irritabilità
• stanchezza
• dolori di stomaco
• dolori muscolari
• cefalea
• disturbi digestivi
• diarrea
• stitichezza
• cambiamenti nella vita sessuale (generalmente nel senso della diminuzione del
desiderio, raramente in direzione opposta)
• stordimento
• aumento della pressione arteriosa
3) IMPATTO EMOTIVO
Definizione: è la fase in cui il soggetto inizia a sperimentare le profonde
emozioni scatenate dall’evento vissuto.
Colpisce generalmente entro 48-72 ore e può durare parecchie settimane o
più a lungo a seconda dell’evento vissuto, delle capacità individuali di reazione,
18
PARI PER SFIDE IMPARI
della presenza e qualità del sostegno ricevuto.
Si manifesta con le modalità sotto-elencate in ordine decrescente di frequenza:
tali reazioni devono essere considerate reazioni normali ad eventi anormali
ed eccezionali.
L’intensità delle stesse tende ad aumentare durante le prime settimane ed a
decrescere gradualmente in seguito.
Reazioni normali a situazioni anormali
• aumento della sensazione di pericolo
• rabbia/biasimo
• disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi, risvegli frequenti, risvegli
precoci, ecc.)
• flashback/pensieri intrusivi
• isolamento/evitamento
• ottundimento emotivo
• depressione
• paura/ansia/estraneazione
• colpa/tristezza/rimorso
• incubi
• problemi con il “sistema” (l’Istituzione a cui si appartiene, la Legge, ecc., con
le loro regole scritte e non)
• marchio di Caino (sentire erroneamente che tutti sanno ciò che abbiamo fatto
e che viviamo con colpa o vergogna)
• problemi coniugali e familiari
• sensazione di pazzia/perdita di controllo
• problemi sessuali
• abuso di droghe/alcool/nicotina/caffè
4) COPING
È la fase in cui si è chiamati ad affrontare, comprendere, dare un senso,
rielaborare, gestire l’impatto emotivo dell’evento.
Il soggetto è generalmente ripiegato su se stesso, assorbito in una fase
introspettiva, e rimugina domande del tipo:
• cosa sarebbe successo se…?
PARI PER SFIDE IMPARI
19
• e se soltanto…?
• se invece…?
• perché proprio io?
• perché è toccato a me…?
• che cosa ho fatto per meritarmi questo?
• forse sto pagando adesso colpe che ho commesso in passato?
• e la prossima volta?
• potrebbe accadere la stessa cosa, o una ancora peggiore…?
• sarei in grado di affrontarla di nuovo?
• riuscirei a reagire o rimarrei impietrito dalla paura?
• come ho fatto a comportarmi in modo così stupido?
• un bravo poliziotto si sarebbe comportato così?
• perché non ho pensato a quello che tante volte ho sentito raccontare dai miei
colleghi?
• come racconterò ai miei familiari quello che è successo?
Strategie di coping
Le seguenti strategie di coping si rivelano nella gran parte dei casi come le
più utili:
A) Parlarne!
• ciò che non si riesce a comunicare rovina la vita.
• parlare delle mie emozioni mi aiuta a sfogarle.
• parlare riduce l’intensità delle mie emozioni.
• parlare mi aiuta a definire e chiarire ciò che sto provando, anche quando la
persona con cui parlo non fa altro che ascoltare.
• man mano che parlo sentirò di avere un controllo sempre maggiore sulle mie
emozioni.
• una volta che riuscirò a tirar fuori ed ad esprimere le mie sensazioni, acquisirò
un maggiore potere su di esse.
B) Reagire!
• Il modo con il quale affronto l’evento è più importante di ciò che mi è
capitato!
• Non è l’evento in sé a farmi sentire ciò che sento… È soprattutto come lo
“vedo”!
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PARI PER SFIDE IMPARI
• Ciò che non mi distrugge mi rafforzerà!
• Una volta accettata la mia vulnerabilità, non rimane molto di peggio da
superare nella vita!
• Qualunque cosa io cerchi di evitare, non posso sperare che svanirà da sola.
• Fino a quando non l’affronterò mi farà stare male.
• Le mie emozioni sono reazioni che tutti avrebbero avuto se avessero vissuto
una situazione anormale come la mia.
• È normale provare quello che sto provando.
C) Fare i conti con la rabbia
• il primo passo: sono arrabbiato!
• il secondo: arrabbiato con chi…? con che cosa…? come mai…?
• il terzo: cosa c’è dietro la mia rabbia? paura… debolezza…?
• il quarto: cosa sto facendo della mia rabbia? che cosa essa fa a me e per
me…?
• il quinto: che cosa faccio di positivo per me stesso con la mia rabbia?
D) Non farsi schiacciare dal macigno della responsabilità o della colpa
• tutti vogliamo credere di avere il controllo delle situazioni che ci si presentano.
Perciò, se qualcosa va storto, automaticamente pensiamo:“deve essere colpa
mia…”. L’assumersi eccessive responsabilità per quanto è avvenuto, può
essere un modo per evitare di affrontare la vulnerabilità che si accompagna
alla consapevolezza che gli eventi erano al di fuori del nostro controllo.
• non è sempre possibile controllare quello che accade, ma posso controllare la
mia risposta.
• devo prendere atto della realtà di quello che si poteva e non si poteva controllare
in quel momento; non posso incolparmi per eventi che erano al di fuori delle
mie possibilità di controllo.
E) Sfuggire alle trappole mentali
- Punto di vista n° 1: prendere atto delle percezioni che hanno portato alle
azioni, prima e durante l’evento. Quali informazioni possedevo quando ho
dovuto agire?
- Punto di vista n° 2: lo stato d’animo provato una volta che la situazione è
passata, e si conoscono tutti i fatti e le conseguenze precedentemente ignorati.
Cosa avrei potuto e/o dovuto fare?
PARI PER SFIDE IMPARI
21
Riflessioni: non giudicarsi dal punto di vista n° 2 perché è una trappola mentale.
Con il punto di vista n° 2, si guarda indietro al proprio comportamento e si fa
“lo zapping” di esso e di se stessi, senza tenere conto del punto di vista n° 1.
Dobbiamo allora rientrare in contatto con lo Stato d’Animo n° 1, ripercorrendo
l’evento un’immagine alla volta.
Riprendere consapevolezza di che cosa passava per la nostra mente da un
punto di vista informativo ed emotivo in quel momento, sarà utile per:
a. comprendere perché si è agito in quel modo;
b. separare ciò di cui si aveva il controllo da ciò che era al di fuori delle nostre
possibilità, e separare ciò che allora si sapeva da ciò che non era possibile
sapere (e che invece sappiamo adesso);
c. renderci conto di aver agito nel modo giusto e/o nel modo migliore tenendo
conto di ciò che siamo stati in grado di percepire sull’incidente, delle
informazioni possedute in quel momento, del nostro livello di esperienza e
preparazione, dell’equipaggiamento a disposizione, ecc…
Si sente di aver comunque commesso un errore…?
• Prendere atto di quanto è stata rilevante la pressione del tempo sul proprio
comportamento. Che altro potevamo fare nel secondo, nei 5 secondi o nei
pochi secondi che abbiamo avuto a disposizione?
• Vi sono 100 modi corretti di agire,100 modi sbagliati di agire, e infinite
possibilità tra i due estremi. Le situazioni sono sfumature di grigio, non
bianche o nere.
• Bisogna riconoscere a se stessi quanto di positivo si è fatto!
• Forse le nostre percezioni della situazione erano per motivi oggettivi imprecise
o incomplete.
• Le nostre capacità percettive vengono modificate dalle situazioni che viviamo
ed è possibile man mano apprendere con l’esperienza come ampliare le
nostre percezioni e renderle più esatte e complete. Invece di “spidocchiare”
il passato e rimuginarci sopra bisogna puntare su quanto potremo fare di
diverso nel futuro.
22
PARI PER SFIDE IMPARI
Quando si ritorna con la mente alla situazione, le conclusioni possibili
sono solo tre:
1) ho agito correttamente: “Bene! non mi posso rimproverare nulla.”
2) ho agito in modo sbagliato: “Ho imparato la lezione, se ci sarà una
prossima volta saprò come comportarmi.”
3) ho fatto del mio meglio: “Che cosa posso chiedere di più a me
stesso?”
F) Confrontarsi con la paura e la vulnerabilità
Si può aver sperimentato (o stare ancora provando) una paura terribile ed aver
dovuto affrontare la propria sensazione di vulnerabilità. Dobbiamo prendere
atto che la paura è una risposta automatica alla percezione di un pericolo, e
non è un segno di debolezza o di vigliaccheria. La paura può essere molto utile
quando usata per agire con cautela, aumentare lo stato di allerta, e mobilitare le
grandi forze della sopravvivenza.
Gli incidenti critici hanno il potere di mobilitare le enormi energie dell’istinto
di autoconservazione. In circostanze avverse, la nostra risposta può derivare da
uno stato d’animo di forza, di controllo su questa forza, di chiarezza di obiettivi
e di aumento dello stato d’allerta che rappresentano le nostre risorse per la
sopravvivenza
Se ci concentriamo esclusivamente sulla fonte del pericolo, tendiamo a
sentirci paralizzati, vulnerabili e senza controllo. Quando ci concentriamo
invece sulla nostra abilità e capacità di rispondere alla situazione, ci sentiamo più
equilibrati e controllati. Ecco perché è fondamentale non limitarci a focalizzare
esclusivamente il pericolo, ma concentrarci sulla nostra capacità di risposta.
La sequenza di risposte attivate dalla paura può essere riassunta nella
tabella III.II.
PARI PER SFIDE IMPARI
23
TAB. III.II - SEQUENZA DI RISPOSTE ATTIVATE DALLA PAURA
Arrivano i guai (pericolo). La situazione si aggrava o esplode
improvvisamente
“Oh Cavolo!” (allerta). Il momento della consapevolezza della nostra
vulnerabilità… ci si può sentire tremendamente impauriti, deboli,
vulnerabili, o senza controllo.
Devo fare qualcosa” (consapevolezza). Scatta l’istinto di autoconservazione.
Si realizza che è necessario agire per sopravvivere o per prendere il controllo
della situazione. Si prende atto della realtà del pericolo. Avviene un
passaggio da una focalizzazione interna, relativa alla propria vulnerabilità,
ad una esterna, orientata a confrontarsi con il pericolo.
“Inizio a reagire” (concentrazione). Concentrazione massima sul pericolo
nei termini della propria capacità di rispondere ad esso. Viene elaborato
un piano a livello cosciente o istintivo. Si comincia mentalmente a reagire.
Ci si sente più equilibrati e si sente di riprendere un certo controllo sulla
situazione.
“Mettiamocela tutta” (determinazione). Il momento dell’impegno,
con la determinazione ad agire, sia istintiva che programmata: vengono
mobilitate forze enormi, prima sconosciute. L’atteggiamento è di assoluta
concentrazione, caratterizzato da forza, controllo su questa forza, chiarezza
di intenti ed aumento della consapevolezza di quanto sta accadendo.
“Sto rispondendo” (risposta). Si agisce, la risposta è alimentata dalle
risorse per la sopravvivenza attivate nella fase precedente.
24
PARI PER SFIDE IMPARI
Dopo un evento critico è naturale ripensare continuamente ai momenti di
“Oh Cavolo!” ma c’è il rischio di restare bloccati in questa situazione.
Sebbene sia importante prendere atto ed affrontare le sensazioni estremamente
dolorose di vulnerabilità, è necessario riconoscere a se stessi quanto è stato
fatto per rispondere. La presa di coscienza di quanto abbiamo fatto nelle fasi
“concentrazione, determinazione e risposta” compensa i vissuti di vulnerabilità:
non siamo stati passivi ed impotenti!
G) Attrezzarsi per il futuro
• Dobbiamo imparare bene le tecniche di risposta necessarie, acquisire la
formazione appropriata e potenziare le nostre capacità di risposta.
• Dobbiamo comprendere gli effetti psicologici e fisici della paura.
• Dobbiamo prendere atto della realtà, di quanto di imprevedibile ci può accadere
ora!, perché non tutto è controllabile.
• Dobbiamo rafforzare la nostra volontà di sopravvivenza.
• Dobbiamo mantenere un ricordo vivo degli ostacoli superati efficacemente.
• Dobbiamo utilizzare positivamente la paura per diventare più forti, consapevoli
che come “sapere di non sapere” è segno di conoscenza, così la coscienza
acquisita di essere vulnerabili, appresa con l’incidente critico, è il presupposto
della nostra forza.
Le prove “mentali” di situazioni di incidenti critici sono utili per imparare le
tecniche di risposta; farle proprie fino a che non diventino istintive, automatiche,
una nostra seconda pelle, la “scorza” che ci prepara agli ostacoli futuri.
Siamo vulnerabili e non possiamo avere il controllo di ogni situazione, ma
non siamo impotenti. Possiamo controllare la nostra reazione ad una situazione
difficile, con le nostre capacità di risposta rafforzate dalle esperienze passate.
H) “Perché è capitato a me?” “che cosa ho fatto per meritare tutto ciò?”
• Probabilmente niente, è successo a causa del nostro ruolo, del posto che
occupavamo sulla “scacchiera”, non a causa di chi siamo.
• Una domanda migliore di “perché è capitato a me?” è “come è capitato a
me?”
• Non siamo sempre in grado di rispondere al perché, possiamo però provare a
darci delle risposte sul come.
PARI PER SFIDE IMPARI
25
I) Cercare di mantenere un sano senso di ironia ed autoironia
L) Elaborare attivamente l’evento esercitandosi ed apprendendo tecniche di
rilassamento profondo per alleviare lo stress
Se si manifestano disturbi del sonno, alternare periodi di esercizio fisico a
rilassamento profondo.
M) Igiene di vita
• Mangiare cibi sani
• Evitare di assumere alcolici: bere acqua o succhi di frutta naturali
• Controllare gli stimolanti (caffè, thè, farmaci, ambienti particolari, ecc…)
N) Cercare gli altri per ricevere l’aiuto necessario
• È normale “essere giù di corda” per un po’ e far sapere agli altri che ci si sente
giù.
• Mantenere i contatti sociali e con il proprio sistema di supporto (se è presente)
O) Darsi tempo a sufficienza per superare l’impatto dell’incidente
È normale che siano necessarie alcune settimane, od anche più, per sentirsi di
nuovo se stessi, soprattutto se l’evento è stato particolarmente grave o strano.
P) Riequilibrare i bisogni di lavoro/affetto/svago/ spirituali/sociali.
Una rivalutazione dei nostri veri bisogni e le scelte conseguenti può essere
di grande aiuto.
5) ACCETTAZIONE/RISOLUZIONE
• L’evento è accaduto, ne ho fatto parte, questa è la realtà, non posso cambiarla
o far finta che tutto sia come prima.
• Sono vulnerabile, e questo è nella natura umana, ma non sono impotente, in
balia del destino.
• Non posso avere il controllo su tutto, ma posso controllare le mie reazioni ad
un evento come quello che ho vissuto.
• Ho fatto del mio meglio in quel momento.
26
PARI PER SFIDE IMPARI
• La paura è una reazione normale di fronte al pericolo e posso usarla in modo
positivo per me e per gli altri.
• Affrontando e maturando le mie reazioni emotive diventerò più forte.
Posso rivedere i miei valori, i miei obiettivi e le priorità della mia vita:
• Ora mi rendo conto delle cose veramente importanti della vita.
• Posso fermarmi ad ammirare la bellezza della natura che mi circonda.
• Posso stare di più con le persone che amo.
• Le cose che mi disturbavano e preoccupavano non sono più così importanti.
• Affrontare la mia vulnerabilità è il vero coraggio.
• Fare ciò mi permetterà di riuscire rafforzato dall’evento ed in grado di usare
questa forza per affrontare le altre sfide della vita.
• Infatti non posso illudermi che questa sia l’ultima.
6) IMPARARE A CONVIVERE CON L’INCIDENTE
Vivere un evento critico è come saltare un fosso e perdere la nostra ingenuità
sulla vita, senza alcuna possibilità di tornare indietro alla precedente visione
del mondo.
Pensare positivamente: “Non sono unico, diverso dagli altri”; “Sono
normale; unico e particolare è l’evento, non chi come me lo ha vissuto”
• Eventi futuri simili potranno far riemergere le reazioni emotive provate in
questo momento.
• La comunicazione di esperienze simili provate da altri possono far riaffiorare
ricordi personali relativi al mio incidente.
• Posso usare questi ricordi e la mia esperienza personale per aiutare le persone
coinvolte in altri incidenti.
• Il ripresentarsi di reazioni emotive all’anniversario dell’evento è una cosa
comune, non devo esserne spaventato.
La risoluzione emotiva dell’evento può considersarsi raggiunta
quando siamo in grado di sentire che:
1) siamo vulnerabili!
2) dobbiamo accettarlo e imparare a conviverci
3) possiamo usare questa consapevolezza della nostra vulnerabilità in modo
positivo, significativo e utile per noi stessi e per gli altri.
PARI PER SFIDE IMPARI
27
CAPITOLO IV
QUANDO NON SI SUPERA L’INCIDENTE:
I PRINCIPALI INDICATORI DI ALLARME
Alcuni, in particolare quelli che evitano di consapevolizzare ed affrontare le
loro reazioni emotive, possono trovarsi a rivivere il loro trauma con intensità
sempre maggiore, fino a credere che niente si risolva durante le prime settimane
dopo l’incidente, ma che anzi le cose si aggravino sempre di più.
Un Operatore di Polizia che ha vissuto un incidente critico dovrebbe
cercare un aiuto professionale se le reazioni seguenti perdurano per più
di un mese ad un livello che peggiora significativamente il proprio grado di
funzionamento precedente l’evento:
1) immagini intrusive: ricordi e pensieri disturbanti, incubi, flashback
2) disturbi marcati in caso di esposizione ad eventi che somigliano o
simboleggiano l’incidente vissuto (es. per un soggetto vittima di aggressione
di gruppo vedere persone assembrate)
3) evitamento di pensieri ed emozioni relative all’evento, o di attività o situazioni
che sollecitano ricordi del trauma (es. non riuscire ad andare più alla Posta o
in Banca se l’evento è avvenuto in uno di quei luoghi)
4) ottundimento o gamma ristretta di risposte emotive (che vengono vissuti
come un’amputazione del proprio sé)
5) reazioni eccessive di stress
6) ipervigilanza
7) reazioni scarse o eccessive, propensione al rischio (in ambito lavorativo,
sportivo, sessuale, ecc.)
8) aumento dell’irritabilità, della rabbia o dell’ira (“nessuno si sforza di
capirmi, tutti si fanno i fatti loro”, “come fa a vivere così stupidamente questa
massa di imbecilli?”)
9) ossessioni relative all’incidente, facile innesco di pensieri sull’evento, il
soggetto sembra bloccato nel passato ed ha difficoltà a considerare il futuro
(come se il tempo si fosse fermato)
10) l’evento attuale innesca sensazioni associate ad eventi passati
28
PARI PER SFIDE IMPARI
11) l’impatto emotivo accumulato di vecchie e nuove situazioni, appare così
sconvolgente che la capacità di gestire efficacemente qualsiasi evento sembra
assente o gravemente menomata
12) dubbi su sé stessi, senso di colpa, congetture negative su sé stessi. Sensazioni
di inadeguatezza. Rimuginamento su errori percepiti
13) senso crescente di isolamento: “nessuno capisce quello che provo… mi
sento perduto, abbandonato e diverso dagli altri”
14) sensazioni intense o continue di depressione, dolore, perdita di controllo
15) confusione mentale: facilità a distrarsi, difficoltà di concentrazione o di
prendere decisioni, scarsa capacità di giudizio
16) aumento della diffidenza e della sospettosità nei rapporti con gli altri
17) problemi di relazioni interpersonali, allontanamento dagli altri, problemi
coniugali e familiari, aumento delle difficoltà nei rapporti con colleghi/
superiori/familiari
o se manifesta
18) marcata e ingravescente riduzione del rendimento sul lavoro, cronico aumento
dell’assenteismo, burn-out (sentirsi bruciati, fusi, esauriti ed ostili nei confronti
dei cittadini), diminuzione della produttività e della qualità del lavoro
19) comportamento autodistruttivo: abuso di sostanze, fumo, caffè, alcool;
incidenti, scarsa capacità di giudizio e decisioni inadeguate
20) pensieri suicidi che possono presentarsi sulla base di sentimenti di
depressione, colpa, disperazione e rabbia nei confronti di sé stessi (ricordarsi
che in casi eccezionali vi può essere il passaggio a gesti autolesivi).
Un poliziotto potrebbe evidenziare poche o lievi reazioni iniziali
all’incidente, ma esse vengono innescate alcuni mesi più tardi, quando per
esempio rientra nell’ambiente lavorativo dopo un periodo di malattia per
le sequele fisiche riportate.
Quando un poliziotto prova una reazione da stress traumatico, il
suo comportamento attuale può cambiare radicalmente rispetto al
comportamento precedente. Se egli continua a mostrare segni di stress posttraumatico, è necessaria la consulenza di un professionista della salute
mentale per aiutarlo a rielaborare le risposte emotive all’incidente.
PARI PER SFIDE IMPARI
29
CAPITOLO V
IL “PARI”: CHI, QUANDO, COME, DOVE E PERCHÉ
Il “pari” è un operatore con molti anni di esperienza di servizio
alle spalle che:
• ha vissuto personalmente uno o più incidenti critici di servizio
• ha superato gli stessi adeguatamente sotto il profilo emotivo
• ha sviluppato una autentica motivazione a prestare aiuto a colleghi in difficoltà
in quanto coinvolti in incidenti critici di servizio
• si propone volontariamente per la selezione e la specifica formazione
• possiede caratteristiche personali di base tali da rappresentare una risorsa per
colleghi che, già notevolmente diffidenti per tutto ciò che inizia con le lettere
p s i, stanno affrontando un momento durissimo
Le caratteristiche del pari possono essere così sintetizzate:
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
30
capacità d’intrattenere positivi rapporti con i colleghi
buona capacità di ascolto
sensibilità ai problemi altrui
comprensione degli aspetti etici del programma di supporto psicologico per
operatori delle ff.pp. coinvolti in incidenti critici di servizio (soprattutto della
confidenzialità)
disponibilità di dedicare il proprio tempo all’addestramento ed ai doveri
derivanti da questa nuova posizione
disponibilità a seguire le linee guida del programma e ad accettarne i relativi
limiti
disponibilità a confrontarsi con i professionisti della salute mentale e ad
indirizzare alle specifiche strutture professionali i colleghi che ne avessero
bisogno
possibilità di non essere oberati da rilevanti problemi personali
disponibilità ad accettare l’incarico a tempo determinato
neutralità ideologica: avere come unico obiettivo il benessere dei colleghi
senza condizionamenti da parte di presupposti di ordine politico, culturale,
religioso, sindacale o comunque ideologico
PARI PER SFIDE IMPARI
Perché “pari”?
• perchè non ci sono e non si fanno differenze, per esempio di impiego, tra
uomini e donne
• perché appartengono alla stessa istituzione dei soggetti coinvolti nell’incidente
critico
• perchè, si riconoscono nello stesso tipo di servizio dei colleghi coinvolti
nell’incidente critico
• perché hanno vissuto esperienze traumatiche simili
• perché, all’interno del gruppo di supporto psicologico che interviene, hanno
pari dignità nei confronti dei professionisti della salute mentale, pur nel pieno
rispetto dei ruoli svolti da ciascuno
• perché sono fra loro pari, qualunque qualifica rivestano all’interno
dell’istituzione a cui appartengono
Perché il “pari”?
• In molte organizzazioni, specialmente in quelle che fanno capo al “law
enforcement” l’acronimo “psi” viene immediatamente “tradotto” in “spy”;
• gli operatori delle forze di polizia hanno la credenza che solo un collega può
veramente capire i loro vissuti;
• il “pari” è il vero garante del patto di confidenzialità;
• il “pari” conferma che l’interesse dei professionisti della salute mentale è
solo quello di aiutare;
• il “pari” rinforza il messaggio che l’istituzione è autenticamente interessata
al benessere dei propri appartenenti;
• il “pari” è essenziale per far comprendere pienamente ai professionisti della
salute mentale, anche quando interni all’istituzione, la “visione del mondo”
degli operatori di polizia;
Le funzioni del “pari”:
• diffusione “dal basso” della cultura del supporto psicologico all’operatore di
polizia, in particolare se coinvolto in incidenti critici di servizio;
• partecipazione all’attività formativa nei corsi di formazione per “pari”;
• acquisizione di informazioni relative ad incidenti critici occorsi nel proprio
ambito di competenza necessarie alla pianificazione degli interventi di
PARI PER SFIDE IMPARI
31
supporto psicologico;
• ruolo di collaborazione nell’ambito del CISM (Critical Incident Stress
Management):
- incontri individuali
- defusing
- debriefing
• conduzione in prima persona di interventi sul campo:
- smobilitazione
- defusing
• contributo a mantenere una rete fra tutti i “pari” dell’istituzione presenti sul
territorio.
Il patto di confidenzialità è:
Un accordo sulla riservatezza di quanto può emergere nell’incontro tra
pari, professionisti della salute mentale ed operatori di polizia coinvolti in un
incidente critico di servizio.
Le sue regole sono:
• nessuno può prendere appunti o effettuare qualsiasi tipo di registrazione
dell’incontro;
• nessuno può rivelare all’esterno quanto emerso durante l’incontro, ad
eccezione dei casi in cui vi siano rischi concreti per l’incolumità di qualcuno
dei partecipanti o di terzi;
• i partecipanti devono astenersi dal rivelare informazioni che possano
compromettere un’indagine o che costituiscano ammissione di attività
criminali;
• ognuno deve parlare per sé, cioè per il ruolo svolto nell’evento ed astenersi
dal commentare le reazioni altrui, concentrandosi invece sulle proprie;
• tutti devono dimenticarsi temporaneamente del loro grado o del loro status
sociale, limitandosi a considerarsi persone colpite da una tragedia;
• nessun partecipante è obbligato a parlare; il solo ascolto può essergli utile e
la propria presenza può essere utile agli altri;
• l’incontro non riguarda gli aspetti tecnici dell’attività svolta e non rappresenta
una forma di psicoterapia.
32
PARI PER SFIDE IMPARI
Uno dei compiti più delicati che un “pari” può trovarsi a dover affrontare
è quello di comunicare la morte di un collega alle persone care.
I seguenti suggerimenti risultano quelli minimi ed indispensabili per farsi
carico di un impegno che può rilevarsi estremamente stressante:
• evitare di individuare i “messaggeri” tra i colleghi coinvolti nello specifico
evento letale o legati da vincoli di amicizia con il deceduto;
• è consigliabile scegliere operatori “anziani” che abbiano già sperimentato
lutti familiari;
• i messaggeri devono informarsi sulle circostanze e dettagli della morte, ed
in particolare sul luogo dove in quel momento giace la salma, o dove sta per
essere trasportata;
• i messaggeri devono informarsi preliminarmente delle persone a cui
trasmettere la notizia e dare la prima comunicazione a quella più “vicina”
alla vittima;
• evitare ritardi nella comunicazione, perché se questa viene effettuata prima
da terzi, ciò può essere vissuto molto male dai superstiti;
• comunicare personalmente la notizia, in modo e luoghi riservati;
• evitare di dare la comunicazione in presenza di minori, sarà l’adulto che la
riceve a decidere quando e come dargliela!;
• nel primo contatto evitare di portare con sé o consegnare effetti personali del
defunto;
• evitare inutili preamboli o di tergiversare arrivando lentamente all’annuncio
drammatico;
• evitare l’utilizzo di eufemismi o circonlocuzioni per descrivere la morte,
come per esempio: “Non c’è più”, “Ci ha lasciato”, “Ce lo hanno tolto”,
“È andato in cielo”;
• essere compassionevolmente diretti, evitando ambiguità nella comunicazione,
è la cosa migliore. Per esempio, dopo essersi brevemente presentati: “sono
l’ispettore x del reparto y”, dichiarare il motivo della visita: “siamo venuti
a portarle una notizia terribile; suo marito (moglie, figlio/a, nipote, ecc.) è
morto durante una rapina (in un incidente stradale, mentre prestava soccorso,
ecc.); ci dispiace moltissimo (siamo profondamente addolorati...);
• essere almeno in due permette ad uno di osservare meglio le reazioni dei
PARI PER SFIDE IMPARI
33
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
34
familiari alla notizia comunicata dall’altro collega ed eventualmente
d’intervenire se si scatena una emotività talmente forte da portare qualcuno
di essi a comportamenti lesivi o autolesivi;
in presenza di anzidetti comportamenti o di malori, far intervenire il 118
immediatamente dopo l’intervento d’urgenza prestato direttamente;
accettare tutte le altre reazioni che possono spaziare dalla negazione: “Che
scherzo è mai questo”, allo stoicismo: “Sapevo che scegliendo di fare il
poliziotto sarebbe andata a finire così”, all’emotività estrema: “Dio mio
non ho più nessun motivo per vivere, è meglio che muoia anch’io”, con
atteggiamento empatico (cercando di mettersi emotivamente al posto di chi
sta ricevendo la notizia) e senza giudicare;
specialmente se la persona è sola può essere più importante un contatto fisico
(abbracciarla, prenderle la mano, ecc.) piuttosto che commenti verbali del
tipo :“Capisco”, “Reagirei nello stesso modo se fossi al posto suo”;
parlando del collega scomparso è necessario nominarlo con il suo nome di
battesimo, evitando di chiamarlo “il sovrintendente”, “L’amico”, “La vittima”
o “Il migliore di noi”;
ascoltare attentamente e con sincera partecipazione emotiva ciò che i familiari
dicono, cercando di rispondere a tutte le domande. raccoglierne le richieste,
tentando di soddisfare quelle immediatamente affrontabili;
rendersi disponibili se essi chiedono di poter visitare la salma. in assenza di
fattori ostativi provvedere in tal senso, e nel tragitto prepararli gradualmente
alla scena che si troveranno davanti;
negli altri casi, prima di accomiatarsi, procurare che persone disponibili(amici,
vicini di casa, altri parenti, ecc.) si trattengano con loro e, andando via,offrire
la propria disponibilità per ciò che sarà necessario, lasciando recapiti telefonici
d’ufficio e personali;
se viene richiesto, contattare le altre persone coinvolte nella perdita con lo
stesso tipo di approccio adottato per le prime;
i messaggeri riferiranno al loro capo ufficio quanto osservato e le eventuali
richieste fatte dai familiari;
se essi stessi ricevessero un forte impatto psicologico dall’incontro con i
familiari della vittima, la cosa migliore è parlarne con persone emotivamente
significative (pari, familiari, amici, colleghi) per “ventilare” le emozioni che
si sono scatenate dentro di loro.
PARI PER SFIDE IMPARI
CAPITOLO VI
COMUNICARE ALLA “PARI”
OBIETTIVI
Lo scopo principale di questo capitolo è quello di fornire delle linee guida
per una acritica e sintonica comunicazione da “pari” e alla pari. Un modesto
contributo di suggerimenti pratici ed efficaci, prontamente applicabili nella
comunicazione di chiunque si appresti a svolgere la delicata “missione”
dell’operatore “pari”. Proprio per questo motivo abbiamo voluto, tra l’altro,
omettere qualsiasi riferimento ed approfondimento teorico sulla materia
comunicazione.
Prima di cominciare...
L’atteggiamento mentale sbagliato
Molti commettono l’errore di avvicinarsi allo studio della comunicazione
con l’idea di dover apprendere nient’altro che artifici tecnici, estranei alla natura
umana e finalizzati ad ottenere dagli altri ciò che si vuole, anche contro la loro
volontà. Se si studiano le tecniche di comunicazione con simili convincimenti
di base, è inevitabile incontrare grosse difficoltà nel metterle in pratica. Le
tecniche vanno apprese e messe in pratica fino a quando esse non si integrano
completamente nella nostra spontaneità comunicativa, trasformandosi in abilità.
Se invece si utilizzano le tecniche soltanto quando servono, esse renderanno la
comunicazione “fredda” e artefatta, e resteranno quello che sono: soltanto
tecniche, qualcosa di posticcio applicato alla spontaneità comunicativa.
L’importanza della condivisione di significati
Qual’è l’abilità principale che deve avere un operatore con mansione di
“pari” (denominato solitamente in breve il “pari”) per svolgere efficacemente la
propria funzione di supporto psicologico ai suoi pari? L’abilità di Comunicare
sintonicamente. L’abilità cioè di saper mettere in comune con gli altri: emozioni,
sentimenti, stati d’animo, pensieri ed esperienze. Più precisamente, intendiamo
riferirci all’abilità di saper comunicare nel modo più appropriato ad ogni persona
e ad ogni situazione, spontaneamente!
Attenzione però, perché per “Comunicazione” noi intendiamo semplicemente:
la capacità di influenzare gli altri attraverso le proprie parole, la propria voce ed
il proprio comportamento (gesti, espressioni del viso, cambi di colorito, movimenti
del corpo, ecc.).
PARI PER SFIDE IMPARI
35
Ricordiamoci che le parole “comunicazione” e “comune” hanno la stessa
origine: implicano ambedue un senso di uguaglianza, di condivisione reciproca.
Sebbene crediamo di mettere in comune solo quello che ognuno dice, è
importante che ci rendiamo conto che, in realtà, condividiamo molto di più.
Condividiamo, ad esempio, anche le emozioni trasmesse dalle variazioni della
nostra voce, dalle nostre espressioni del viso, dalle nostre posture, dai nostri
gesti. C’è anche un detto emblematico al riguardo: “Il tuo modo di fare parla
così forte che non riesco ad ascoltare quello che dici”.
Mettere in comune quello che si ricorda, che si pensa, che si prova, implica
però, innanzitutto, la conoscenza e l’accettazione acritica della “mappa” del
mondo e della realtà che ognuno di noi si è fatto nella propria mente. Ma questa
è l’inclinazione tendenziale della maggior parte delle persone?
Se vogliamo comunicare nel rispetto della “mappa” dell’altro, dobbiamo
innanzitutto interessarci a come la pensa il nostro interlocutore, solo allora lui
inizierà ad interessarsi veramente a come la pensiamo noi. Dobbiamo cioè:
• prima cercare di capirlo
• poi verificare di aver capito bene
• ed infine, cercare di farci capire.
Indubbiamente convincere è più impegnativo e difficile di costringere, forse
anche per la mancanza di abitudine, ma certamente è l’unica strada da percorrere
per instaurare la sintonia con l’interlocutore. E questo è di fondamentale
importanza per il “pari” che deve riuscire a a conquistarsi la fiducia degli altri
per poi “convincerli” a fare quanto necessario per un rapido e fisiologico ritorno
alla normalità.
Come “pari” dovrai saper parlare con gli altri, più che parlare agli altri.
Per “sintonica”, intendiamo riferirci ad una particolare modalità di comunicazione
finalizzata alla sintonia relazionale ed emozionale con gli altri.
LA COMUNICAZIONE SINTONICA
La sintonia nella comunicazione ha come presupposto principale quello
dell’entrare in sintonia con gli altri partendo dall’accettazione acritica delle
altrui idee, certezze, convinzioni, emozioni e stati d’animo in genere, per poi
condividere il proprio punto di vista senza mai avversare direttamente gli
interlocutori. Essa è ottenibile principalmente attraverso queste modalità:
A) “Sintonizzandosi” a livello verbale, cioè riutilizzando gli stessi vocaboli
utilizzati dall’interlocutore per descrivere i propri stati d’animo, emozioni
e sensazioni, anziché tradurre con parole proprie quello che gli altri dicono
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PARI PER SFIDE IMPARI
di sapere, credere o provare. Ognuno di noi associa a determinate parole
determinati significati emotivi e stati d’animo. Le nostre parole di
“traduzione” potrebbero avere per il nostro interlocutore significati emotivi
sgradevoli, inappropriati o rievocare sensazioni o sentimenti molto negativi.
B) Evitando di esprimere il proprio disaccordo o di dare torto, ciò significa che
dobbiamo soltanto astenerci dal dire che dissentiamo da quello che gli altri
dicono e che dobbiamo evitare di dar loro torto, a prescindere se ce l’abbiano
o meno. Come “pari” il nostro compito è soltanto quello di aiutare i nostri
pari, non quello di giudicarli. Difficilmente troveremo persone a cui piace
sapere dell’altrui disaccordo o a cui piace che qualcuno gli dia torto. Quando
uno vuole sapere il nostro parere, di solito, ce lo chiede esplicitamente, fosse
anche solo per sapere se siamo d’accordo o se pensiamo che abbia torto.
Attenzione però: nessuno sta dicendo di dover fingere di essere d’accordo o
che dobbiamo dare sempre ragione a tutti!
C) Esprimendosi, all’inizio, in modo “abilmente vago”, cioè utilizzando,
soprattutto quando si parla per primi, termini che possano essere liberamente
interpretati dall’interlocutore nel modo che più gli si adatta. Ad esempio,
parlare di “particolare stato d’animo che stai provando”, anziché di “la
tristezza, lo sconforto, il senso di impotenza che stai provando”. Le persone
infatti sono tutte diverse tra loro e, già solo per questo semplice motivo,
possono provare sensazioni o sentimenti diversi da quelli che proviamo noi
o altri in una stessa situazione. O più semplicemente, possono usare parole
diverse dalle nostre per descrivere determinate emozioni, stati d’animo e
sentimenti.
D)“Sintonizzandosi” a livello vocale, ovvero adeguando la nostra velocità
del parlato, il volume e la tonalità della nostra voce a quelli del nostro
interlocutore. La voce influenza lo stato d’animo delle persone molto di più
delle parole. Se vogliamo far calmare qualcuno dovremo necessariamente
parlare con voce calma. Se vogliamo incoraggiare qualcuno, dovremo usare
parole incoraggianti e pronunciarle con tono incoraggiante. Vi è mai capitato
che mentre stavate litigando o discutendo con qualcuno, sia intervenuto
un terzo dicendovi bruscamente: “Adesso calmatevi!”? Vi sei calmati? E
l’altro? Probabilmente no, perché le parole vi invitavano a calmarvi, mentre
il tono della voce e il modo di fare vi “ordinavano” di “calmarvi”. Insomma,
reagiamo principalmente al modo di fare e di parlare degli altri, convinti
invece di reagire soltanto alle loro parole. Questo è anche il motivo per il
quale, in alcuni casi, le reazioni dei nostri interlocutori possono sembrarci
PARI PER SFIDE IMPARI
37
fuori luogo o inspiegabili. Ci sembrano tali perché ci basiamo soltanto sulle
parole che abbiamo pronunciato, senza avere alcuna consapevolezza del
“come” abbiamo parlato.
E) “Sintonizzandosi” a livello corporeo, cioè assumendo, discretamente, e con
un po’ di ritardo, la postura corporea e la gestualità del nostro interlocutore,
senza mai però scimmiottare o ripetere esattamente tutti i gesti e le posture di
quest’ultimo.
I principali ostacoli alla comunicazione
“Esistono molti modi sbagliati per fare le cose giuste,
ma non esiste alcun modo giusto per fare le cose sbagliate.”
Anonimo
1)Le supposizioni
Bene ora dovrebbe essere chiaro quali significati attribuiamo noi alle parole
“comunicazione” e “sintonica”; da adesso in poi, ogni volta che leggeremo tali
vocaboli sapremo esattamente a cosa ci riferiamo. Ma se ci fossimo limitati a
citarvi i suddetti termini, quali significati avreste dato loro? Quello che avremmo
avuto in mente noi, oppure quello che sarebbe venuto in mente a voi? La risposta
è abbastanza ovvia, ma mette in evidenza un errore di comunicazione molto
frequente: quello di supporre che gli altri diano alle parole lo stesso significato
che gli attribuiamo noi! Supporre è l’errore principale che commettiamo
d’abitudine nell’interagire con le altre persone. Abbiamo la tendenza a
supporre su tutto. Supponiamo ciò che gli altri hanno intenzione di fare, di dirci,
di farci capire, quello che provano e quello che pensano. Poco male, se non
fosse per il fatto che abbiamo anche la forte propensione a considerare vere le
nostre supposizioni. Possiamo arrivare addirittura a comportarci di conseguenza,
prescindendo da ciò che realmente gli altri ci comunicano attraverso le parole,
la voce ed il comportamento. Pur di difendere le nostre supposizioni, spesso
diventiamo insensibili alle informazioni che arrivano ai nostri cinque sensi ed
iniziamo ad attingere soltanto dalle nostre interpretazioni. Saltiamo subito alle
conclusioni anziché continuare ad interessarci agli altri.
Le nostre supposizioni nascono principalmente dalle nostre interpretazioni. Anzi
noi le chiameremmo “traduzioni”, perché, in un certo senso, è come se traducessimo
quello che gli altri dicono e fanno in quello che significa secondo noi.
Un ottimo antidoto alle supposizioni nostre o degli altri? Una semplice
domanda: Come facciamo a sapere che…? Attenzione, se la risposta che date
38
PARI PER SFIDE IMPARI
o quella che ottenete a questa domanda inizia con “Perché…”, ovviamente,
è sbagliata, ma spesso è l’unica scappatoia che rimane a chi fa supposizioni.
Infatti, l’utilità principale della suddetta domanda, sta proprio nel rendere
consapevoli le persone del fatto che:
a) stanno supponendo;
b) ciò che stanno supponendo è privo di riscontri oggettivi percepibili, in quel
dato momento, da qualsiasi persona attraverso i propri sensi: sono soltanto
ipotesi!
Come “pari” è importante essere molto più sensibili agli altri che
alle proprie supposizioni, altrimenti l’interazione con le persone a cui
dare supporto psicologico risulterà spesso difficoltosa o, addirittura,
inappropriata.
Suggerimento pratico: limitiamoci alle informazioni percepibili attraverso i
cinque sensi e resistiamo alla tentazione di fare collegamenti astratti ed arbitrari
tra ciò che è percepibile e ciò che pensiamo noi. Eviteremo così di costringere
la comunicazione dei nostri interlocutori attraverso i filtri deformanti degli
stereotipi, delle idee preconcette, delle tipologie, della casistica, ecc.. In pratica,
dovremo essere più attenti al nostre interlocutore che alle nostre “fantasie” su
quello che ci sta comunicando. Evita le supposizioni e siamo più attenti a quello
che le persone dicono e fanno!
2) Le convinzioni personali
Molto spesso noi ci relazioniamo con gli altri, partendo dalla convinzione
di avere ragione e, di conseguenza, supponiamo che l’altro abbia torto. Se solo
ci venisse in mente di domandarci: “Come faccio a saperlo?”, capiremmo
subito l’assurdità dell’anzidetto convincimento. Basterebbe farsi tale domanda
per divenire immediatamente consapevoli del fatto che, al limite, sappiamo a
malapena il “perché” riteniamo di sapere che l’altro abbia torto.
In realtà, quando noi diciamo di sapere che qualcosa è vero o falso, spesso,
anziché basarci sulle informazioni che arrivano ai nostri cinque sensi dalla realtà
oggettiva, dal mondo esterno alla nostra mente, il più delle volte, ci basiamo
sulla peggiore convinzione: che l’uomo sappia, in assoluto, tutto ciò che è vero,
ciò che è falso, ciò che è possibile, cioè che è impossibile, ecc.
Ognuno di noi vive le proprie credenze, più comunemente dette convinzioni,
con un forte senso di certezza che ci fa ritenere (arbitrariamente) che ciò che
è vero, o importante, o possibile per noi, lo sia automaticamente per tutti gli
PARI PER SFIDE IMPARI
39
altri.
Basiamo, sostanzialmente, quello che pensiamo di ognuno, sulle nostre
elaborazioni mentali (pregiudizi, giudizi, interpretazioni, ecc.) che sono
inevitabilmente influenzate dalle nostre credenze e dalle nostre esperienze
passate.
Attenzione, quando siamo convinti che le nostre “verità” sono assolute, la
sola forza di volontà sarà insufficiente a farci acquisire la mentalità sintonica. E
anche se scegliamo con cura le parole migliori, di solito veniamo traditi da tutto
il resto della nostra comunicazione: da tutto ciò che, purtroppo, è in prevalenza
fuori dal nostro controllo consapevole e razionale, come il nostro modo di
parlare e di agire mentre comunichiamo.
Le convinzioni personali possono renderci insensibili alle persone ed alle
situazioni e, allo stesso tempo, posso ipersensibilizzarci soltanto agli elementi
che possono confermare i nostri convincimenti ed i punti di coincidenza tra le
nostre convinzioni e quello che le persone dicono e fanno. Insomma finiamo col
rivolgere agli altri una attenzione, per lo più, parziale ed interessata.
Come “pari” è invece essenziale avere un’attenzione costante, acritica
e sincera nei confronti delle persone alle quali prestare supporto
psicologico.
Suggerimento pratico! esercitiamoci a mettere in discussione le nostre
convinzioni attraverso le seguenti domande e scopriremo che “sopravvivranno”
soltanto le convinzioni basate su fatti ed elementi davvero oggettivi:
1) Come facciamo a saperlo?
2) Chi lo dice? Non è forse vero che si tratta soltanto di un opinione, priva di
riscontri oggettivi, materiali ed osservabili?
3) Come facciamo a concludere che “A” causa “B”?
4) Come facciamo a dire che “A” e “B” sono la stessa cosa?
5) E’ vero sempre che …?
6) Cosa intendiamo affermare più precisamente? (Esortiamoci ad essere il più
specifici possibile).
3) Le definizioni
La nostra naturale tendenza è quella di pensare che con le parole si possa
arrivare a rappresentare inequivocabilmente la realtà oggettiva o parte di essa.
Ma se qualcuno pronuncia la parola “arancia”, pur potendo capire che sta
parlando di un frutto, in assenza di specifiche, sarà per noi impossibile sapere
quale sia esattamente il tipo di frutto a cui fa riferimento il nostro interlocutore.
40
PARI PER SFIDE IMPARI
Potremmo ipotizzare che sta parlando di un’arancia rossa e poi scoprire che in
realtà si riferiva ad un’arancia gialla o acerba. Possiamo quindi dire che molto
spesso condividiamo soltanto la definizione. Quando parliamo di “tranquillità”,
siamo sicuri che l’altro abbia capito a quale senso di tranquillità ci riferiamo?
E quando gli altri ci parlano di “tranquillità”, come facciamo a sapere a che tipo
di tranquillità si stanno riferendo specificamente? Potremmo semplicemente
chiederglielo. Ci avete mai pensato? Basterebbe chiedere, sintonicamente:
«Scusami, ho bisogno di capire meglio, cosa intendi esattamente per
“tranquillità”?» La Libertà, la felicità, l’amore, l’amicizia, ecc., sono presenti
soltanto dentro la nostra mente e nel nostro corpo: sono emozioni e stati
d’animo. Nella realtà è impossibile percepirle attraverso i cinque sensi, perché
esse si manifestano nella nostra mente e nel nostro corpo. Potremmo dire che le
anzidette definizioni rappresentano, più semplicemente, i modi in cui guardiamo
e viviamo il nostro rapporto con noi stessi, con gli altri e con il mondo.
La consapevolezza che le persone hanno la tendenza ad attribuire alle
definizioni il proprio significato, può esserci utile quando vogliamo iniziare ad
instaurare un feeling con loro. È abbastanza semplice: iniziamo riutilizzando nel
dialogo le definizioni già utilizzate dall’altro, senza aggiungervi alcune specifica.
Poi, una volta che abbiamo raccolto più informazioni (ascoltando attivamente ed
osservando attentamente), passiamo alla condivisione dei significati, chiedendo
all’altro i suoi e dichiarando i nostri, senza mai contrapporli a quelli del nostro
interlocutore. In fondo, la diversità di significati testimonia anche che ci sono
diversi modi di intendere una stessa cosa!
Suggerimento pratico: quando vogliamo instaurare la sintonia, specialmente
se non sappiamo nulla del nostro interlocutore, limitiamoci a riutilizzare nel
dialogo le parole più usate dal nostro interlocutore. L’altro, molto probabilmente,
supporrà che tu diamo alle sue parole lo stesso significato che gli da lui e questo
lo farà sentire particolarmente compreso da noi.
Quando vogliamo evitare fraintesi:
1) Dichiariamo le nostre intenzioni e il significato delle nostre parole;
2) Facciamo all’altro la domanda: «Scusami, ho bisogno di capire meglio, cosa
intendi esattamente con…?»;
3) Evitiamo però di esagerare con l’esplicitazione dei nostri significati e con le
domande di approfondimento degli altrui significati!
4) Il nostro dialogo mentale
Sappiamo qual è la nostra abituale tendenza nella comunicazione? Incredibile
PARI PER SFIDE IMPARI
41
ma vero, prima di ogni altra cosa, quella di farci capire! Nella maggior parte
dei casi, invece di ascoltare con l’intenzione di capire l’altro, ascoltiamo con
l’intenzione di rispondere. O parliamo o ci prepariamo a parlare. Filtriamo
qualsiasi cosa attraverso i nostri giudizi, leggiamo nelle parole degli altri i nostri
significati, nella vita degli altri le nostre esperienze. «So bene come ti senti,
ho provato anch’io la stessa sensazione!» . «Io ho vissuto la stessa situazione.
Adesso te la racconto».
Continuamente traduciamo le esperienze degli altri in quelle che abbiamo
vissuto noi e poi diamo consigli.
Molto spesso guardiamo nella nostra mente e pensiamo di vedere il mondo
e gli altri.
Siamo pieni delle nostre ragioni personali e dimentichiamo che ognuno ha
le proprie ragioni per fare o per non fare, per dire o per tacere. Quando
un’altro parla, di solito “ascoltiamo” ad uno dei seguenti livelli:
a) ascolto simulato: «Già. Ah, ah. Giusto». Pratichiamo l’ascolto selettivo
ascoltando cioè solo certe parti della conversazione. Spesso lo facciamo
quando ascoltiamo il chiacchiericcio continuo di un bambino;
b) ascolto mirato: prestando attenzione prevalentemente alle parole che vengono
dette. Questo tipo di ascolto si basa su una tecnica, è avulso dal carattere
personale e dalle relazioni, e spesso insulta coloro che vengono “ascoltati”
in questo modo. Se pratichiamo queste tecniche stiamo ascoltando soltanto
per cercare punti di coincidenza con la nostra esperienza. Ascoltiamo non
con capacità riflessive, ma ascoltiamo con l’intenzione di rispondere, di
controllare, di manipolare.
Solo pochissimi di noi praticano, almeno qualche volta, il vero ascolto
attivo: l’ascolto sintonico. Cioè ascoltare con l’intento di capire l’altro, anziché
soltanto quello che dice o che vuole dire. Cercare innanzitutto di capire l’altro,
di capirlo davvero: da quello che dice, da come parla e da quello che fa mentre
parla.
L’essenza dell’ascolto sintonico è che permette pienamente,
profondamente, di capite l’altro, sia dal punto di vista emotivo che da
quello intellettuale. È qualcosa di molto diverso dal dichiararsi d’accordo con
qualcuno. L’ascolto sintonico implica molto di più del registrare, ponderare o
anche capire le parole che sono dette. L’ascolto sintonico è così potente perché
ci fornisce dati precisi su cui lavorare. Invece di fare le nostre ipotesi e di
presumere pensieri, sentimenti, motivi o la loro interpretazione, ci troviamo
42
PARI PER SFIDE IMPARI
a che fare con la realtà mentale di un nostro simile. Ascoltiamo per capirlo
davvero!
Come “pari” è importante ascoltare davvero sintonicamente gli
interlocutori. Solo così potremo capirli davvero e potremo farglielo capire.
Capiranno che li capiamo, anche perché quello che gli diremo dimostrerà, in
maniera molto convincente, che mentre tacevamo e loro parlavano, li stavamo
ascoltando davvero, in modo acritico, costante e disponibile. Li stavamo
ascoltando con tutto noi stessi!
Suggerimento pratico: proviamo a far caso ai dialoghi mentali che facciamo
con noi stessi mentre leggiamo, guardiamo o ascoltiamo e ci renderemo conto
di quanto sia intermittente la nostra attenzione verso l’esterno.
Quando vogliamo ascoltare davvero qualcuno o qualcosa di specifico,
dobbiamo zittire il nostro dialogo interiore. Ci sono diversi modi per farlo.
Ognuno ha il proprio. Ad esempio, potremo provare ad immaginare di avere
una manopola del volume della nostra voce mentale e di azzerarla per poi
verificare cosa succede. Oppure potremo semplicemente dire alla nostra voce di
commento mentale di stare zitta! Facciamo delle prove e cerchiamo di scoprire
qual è il sistema che funziona con il nostro dialogo mentale.
5) L’effetto boomerang del “non”
Linguisticamente siamo abituati ad usare la negazione, il “non” per
anticipare e negare le possibili obiezioni dell’altro, spesso con l’intento soltanto
di tranquillizzarlo. Cosa succede in realtà nella testa dell’altro? Proviamo per
capire. Prepariamoci ad opporci con tutta la nostra volontà fisica e mentale a
questo messaggio: “Non immaginare una fetta di limone, con il sapore pungente
ed acido del suo succo che si spande sulla tua lingua. Ti suggerisco anche di non
immaginare come lo spandersi del succo di limone farà salivare la tua bocca.
Permettimi anche di suggerirti di non immaginare come il succo di limone ha
un effetto sulla tua salivazione, in questo momento.” Intanto che notiamo una
tendenza alla salivazione, possiamo anche chiederci cosa ci è successo? È
successo quello che può succedere nella testa di chiunque quando gli diciamo
qualsiasi cosa preceduta dalla negazione “non”!
Il “non” conferisce a quello che diciamo un potente effetto suggestivo perché
viene accettato come messaggio tranquillizzante per la mente conscia delle
persone (quella razionale, quella che fa il vaglio critico delle informazioni) e
raggiunge la mente inconscia che ha la tendenza a considerare invece le parole
PARI PER SFIDE IMPARI
43
come comandi da eseguire alla lettera.
Il guaio è infatti che il modo in cui usiamo abitualmente il “non” è quello per
dare suggestioni negative del tipo: “Non preoccuparti”. L’altro, anziché sentirsi
tranquillo, inizierà proprio a pensare alla possibilità di preoccuparsi.
Quando diciamo a qualcuno “Non voglio dire che ti sbagli”, dovremmo
essere consapevoli del paradosso: stiamo dicendo di non voler dire, proprio
quello che stiamo dicendo)! Consideriamo anche che il nostro interlocutore
magari aveva pensato altro, ma dal momento che gli abbiamo dato il nostro
(involontario) suggerimento, molto probabilmente, inizierà a pensare proprio a
quello che volevamo evitare che pensasse.
Come “pari” dobbiamo assolutamente evitare di dare “involontari”
suggerimenti negativi con il “non”, perché rischiamo di indurre l’altro
(in modo particolarmente efficace ed irresistibile) a stare peggio, anziché
dargli sollievo con il nostro aiuto.
Suggerimento pratico: l’uso vantaggioso (per le persone a cui dare supporto
psicologico) del “non” sta nel farlo seguire da messaggi positivi che, comunque,
possano far pensare all’altro quello che vogliamo che pensi o che provi in quel
dato momento. Tale uso del “non”, inoltre, rende le nostre affermazioni più
eleganti ed accettabili per gli altri. È molto meglio che diciamo: “Certo, non
vogliamo che tu inizi a rilassarti ora…”, anziché dire: “Non ti agitare troppo
…” (che invece è un messaggio negativo).
SUGGERIMENTI DI AUTO - ISTRUZIONE
• Evitiamo la tentazione di voler applicare i suddetti suggerimenti tutti
insieme e soltanto quando ci serviranno: è il modo più efficace per
fallire, per perdere la propria spontaneità e per convincersi che tali
accorgimenti non funzionano!
• A giorni alterni, facciamo caso soltanto a quello che dici, o a quello che
facciamo o a come parliamo.
• Registriamo e riascoltiamo la nostra voce per scoprire eventuali
incongruenze tra quello che diciamo e il come lo diciamo. Ad esempio,
se parliamo di calma, dobbiamo avere una voce calma.
• Esercitiamoci in contesti di tempo libero ed in cui il contenuto delle
nostre interazioni è di scarsa importanza.
• Esercitiamoci accettando la possibilità di fallire ai primi tentativi, il
nostro processo di apprendimento sarà più facile e veloce.
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PARI PER SFIDE IMPARI
• Scegliamo il primo suggerimento pratico fra quelli sopraelencati sul
quale vogliamo esercitarci, partendo da quella che può essere l’area
più debole della nostra comunicazione.
• Esercitiamoci con una tecnica alla volta, e passiamo alla successiva
soltanto quando scopriamo di saper applicare spontaneamente quella
precedente.
• Verifichiamo il risultato dei nostri esercizi anche registrando e
riascoltando le nostre conversazioni con amici e conoscenti.
SUGGERIMENTI ESSENZIALI PER ESSERE DI AIUTO COME
“PARI”
• Acquisire informazioni sui traumi da incidenti critici e prendere atto
che gli individui rispondono in modo diverso a queste situazioni
estreme.
• Essere disponibili, assumersi la responsabilità di iniziare contatti, ma
evitare di essere invadenti.
• Accettare la risposta ricevuta dall’altro, non giudicare i suoi sentimenti,
mostrare interesse per la persona e non solo per la situazione,
dimostrare empatia e sostegno.
• Ascoltare quanto viene detto; l’ascolto attivo consiste nel far sapere
all’altro che si è compreso quello che ha detto, ripetendo le sue
affermazioni e sensazioni con altre parole, senza giudicare né
criticare. Questo conferma al soggetto l’esistenza di un vero interesse
per lui/lei.
• Evitare domande basate su pregiudizi o che rispecchiano propri
interessi oppure la propria curiosità, spostando il soggetto dalla sua
esperienza. Ricordare quanto detto precedentemente sul “marchio di
Caino” e la sensazione di non poter essere compresi.
• Sforzarsi di essere una risorsa: ascoltare e convalidare le reazioni
emotive degli altri è molto utile. Condividere le proprie sensazioni
ed esperienze può far sentire loro che le reazioni sperimentate sono
comuni quando si vivono situazioni estreme.
• Evitare però di “soffocare” il soggetto sommergendolo con le proprie
esperienze e dirgli come reagirà o come dovrebbe reagire a quello che
gli è successo.
• Ci si sente di dare consigli? Può essere importante suggerire quanto
PARI PER SFIDE IMPARI
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si ritiene utile o condividere quanto è stato utile per se stessi e per le
altre persone conosciute. Evitare la condiscendenza e non recitate il
ruolo di chi vuole insegnare agli altri come affrontare la situazione.
• Essere sensibili ai cambiamenti nel comportamento e nell’umore
che indicano che il collega non risponde bene all’avvenimento.
Fargli notare in modo morbido l’inefficacia dell’atteggiamento o del
comportamento assunto senza recitare un ruolo “pedagogico”
• Ricordare che non si è responsabili per il modo con il quale il collega
reagisce all’incidente critico: questo è e rimane compito suo. Si è lì
per offrire sostegno, incoraggiamento e per convalidare le emozioni,
senza mai pensare di sostituirsi ai terapeuti
• Essere consapevoli dei propri limiti. Indirizzare il soggetto ad un aiuto
professionale se si nota mancanza di risoluzione, comportamento
disadattativo, deterioramento delle condizioni emotive ed in genere
le altre reazioni inserite fra i venti indicatori di blocco, che segnalano
la necessità di un supporto tecnico. Ricordarsi di essere colleghi, non
professionisti della salute mentale.
• Qualora ci si renda conto della gravità delle risposte emotive o
comportamentali del collega, non esitare a parlarne con il Sanitario
del Reparto.
• Se egli non fosse immediatamente disponibile, o in caso di assoluta
urgenza attivare il Superiore presente in servizio.
• Comportarsi così non danneggerà il collega, ma anzi si sarà per lui
una straordinaria risorsa.
• Ricordarsi che la vera solidarietà fra colleghi si vede nei momenti
di difficoltà, ed aver vissuto un incidente critico di servizio è un
momento di stress massimale.
• Sfatare il mito del poliziotto emotivamente impermeabile a qualunque
esperienza professionale, anche la più dura ed imprevedibile.
• Riconsiderare la falsa credenza che vedrebbe il poliziotto per
sempre stigmatizzato se il suo disagio divenisse visibile ai colleghi
e/o ai superiori o se, ancor di più, conducesse ad un temporaneo
allontanamento dal servizio per motivi di salute.
Buona Fortuna!
46
PARI PER SFIDE IMPARI
CAPITOLO VII
COME SI FORMA UN PARI: SPUNTI DI ESPERIENZE
Per formare dei “pari” il primo passo è realizzare una buona procedura
di reclutamento tra gli Operatori di Polizia interessati. La nostra esperienza
in una grande Istituzione è iniziata attraverso l’invio capillare di una lettera
circolare che sinteticamente delineava questa nuova figura sottolineandone due
caratteristiche fondamentali:
1) la motivazione volontaria a svolgere in collaborazione con altri attori
istituzionali, fra cui i professionisti della salute mentale, un compito di
supporto emotivo nei confronti dei colleghi coinvolti in incidenti critici di
servizio;
2) l’aver vissuto in prima persona uno o più di tali eventi nel corso della propria
vita professionale.
Le istanze degli aspiranti sono state raccolte dagli enti periferici e
poi indirizzate verso la struttura interna dell’istituzione dove operano i
professionisti della salute mentale incaricati della specifica formazione e della
realizzazione dei programmi di supporto psicologico rivolti agli operatori di
polizia. L’alto numero di domande pervenute ha reso necessario, a causa di
vincoli organizzativi ed economici, procedere a una preselezione dei candidati
attraverso un’intervista telefonica semi-strutturata condotta da un professionista
della citata struttura. La valutazione sull’opportunità di convocare a selezione i
candidati è stata effettuata collegialmente dal gruppo dei formatori, sulla base
degli elementi di approfondimento emersi dall’intervista relativamente ai punti
1) e 2) ed ai successivi:
3) essere liberi da rilevanti problemi personali;
4) avere disponibilità a condividere in gruppo durante la formazione il proprio
incidente critico;
5) essere disponibili ad assumere l’impegno della mansione di pari a
tempo determinato, a latere delle proprie attività ordinarie e senza alcuna
incentivazione economica.
Gli Operatori di Polizia, uomini e donne, ritenuti potenzialmente adatti a
svolgere le mansioni di “pari”, qualunque qualifica rivestissero, sono stati
convocati per un periodo di tre settimane in una struttura interna all’istituzione
a carattere residenziale presso cui è stata condotta la selezione e la formazione.
PARI PER SFIDE IMPARI
47
La prima settimana formalmente dedicata alla selezione aveva l’obiettivo di
confermare che i candidati:
1) avessero vissuto almeno un autentico incidente critico di servizio e lo avessero
superato emotivamente;
2) possedessero una sincera motivazione pro-sociale e non fossero portatori di
interessi meramente soggettivi: per esempio di tipo culturale, narcisistico,
rivendicativo, “curativo” (più o meno consapevole rispetto ad aspetti della
vita privata o professionale) ecc.;
3) disponessero delle indispensabili capacità comunicative Verbali, ed ancora
più Non Verbali, per il compito da affrontare;
4) fossero naturalmente inclini al lavoro di gruppo;
5) fossero dotati di una sufficiente flessibilità cognitiva, oltre a quello di creare
le condizioni perché si costituisse una calda atmosfera di gruppo improntata
alla parità fra i frequentatori, come già detto, di diverso status gerarchico.
Ulteriore obiettivo era quello di far comprendere che coloro che sarebbero
stati ritenuti non adatti non venivano per questo in alcun modo rifiutati, ma
lo scopo era quello di tutelarli dai rischi di danni psicologici connessi allo
svolgimento dell’attività di pari, derivanti dal non aver sufficientemente
superato il proprio incidente critico di servizio, oppure in quanto portatori di
caratteristiche personologiche di maggiore vulnerabilità agli effetti certamente
stressanti delle esperienze di supporto emotivo a caldo sul campo.
Gli strumenti attraverso cui è stata realizzata la valutazione non sono stati
quelli usualmente impiegati nell’ambito dei gruppi selettivi delle forze di polizia
ma si è optato essenzialmente per:
a) una sessione di autopresentazione in plenaria;
b) una intervista individuale focalizzata sui vissuti personali e professionali,
oltre che sullo o sugli eventi critici di servizio realizzati da due psicologi;
c) due diverse simulate condotte in piccoli gruppi con l’obiettivo di osservare
e valutare le dinamiche relazionali dei candidati ed il livello di capacità di
cooperazione in gruppo;
d) una restituzione individuale sia a coloro che fossero ritenuti non idonei
a passare alla successiva fase di formazione che nei confronti degli altri
candidati valutati favorevolmente;
e) una condivisione finale dell’esperienza della prima settimana con questi
ultimi e contestuale presentazione del programma delle due settimane
successive.
Nella settimana di selezione i candidati erano in abiti borghesi mentre per la
48
PARI PER SFIDE IMPARI
fase di formazione è stata prevista la frequenza in divisa.
Prima di descrivere succintamente l’organizzazione ed il programma
della fase di formazione riteniamo necessario accennare ad uno dei problemi
principali che abbiamo dovuto affrontare nella pianificazione e realizzazione
del progetto “Pari”.
La condivisione in plenaria dei propri incidenti critici di servizio è il
principale elemento di coinvolgimento emozionale e di strutturazione
dell’identità di pari.
Questo momento, vissuto all’interno del patto di confidenzialità, ed alla
presenza di formatori esperti, a causa del fortissimo coinvolgimento emotivo
che genera fra i partecipanti stimola la creazione di un potente legame affettivo
tra di loro. Esso è simbolicamente un legame di “sangue” tra individui che
hanno sperimentato con diverse modalità ed in varie situazioni la prospettiva
concreta della loro morte o di quella di loro colleghi. Questo momento ha
straordinari riflessi sulla fase di formazione e pertanto viene posto all’inizio della
prima settimana. Le esperienze iniziali in cui questa riunione plenaria veniva
effettuata nella fase di selezione comportava al termine l’effetto, estremamente
problematico da affrontare, dell’elaborazione del lutto della separazione da
parte di coloro per cui non si riteneva opportuno la prosecuzione del cammino
nella fase di formazione. Si rischiava pertanto di causare un vero e proprio
evento traumatico nonostante le migliori intenzioni. Questo è stato il motivo per
il quale si è successivamente optato per la posticipazione di questo momento.
Durante le due settimane di formazione vengono poste le basi per costruire il
sapere teorico (poco), il sapere pratico (molto) ed il saper interpretare il proprio
ruolo (moltissimo) di un pari. Gli spunti teorici consistono nell’approfondimento
di argomenti quali: stress, stress traumatico, il processo del lutto, l’incidente
critico, le reazioni emotive normali e patologiche allo stress post-traumatico, le
memorie traumatiche, la comunicazione nell’ambito di situazioni di emergenza,
i principi del CISM (Critical Incident Stress Management) e le sue procedure
tecnico-operative.
Per quanto attiene il sapere pratico l’obiettivo è stato realizzato attraverso
la simulazione di incontri individuali “one to one”, di incontri di defusing,
debriefing e la partecipazione in qualità di “paziente” e/o osservatore a sedute
di EMDR (Eyes Movement Desensitization and Reprocessing).
PARI PER SFIDE IMPARI
49
Il saper essere trova il suo motore propulsivo all’interno stesso della filosofia
del corso che prevede, come già detto, attraverso un fitto confronto emozionale, un
percorso di consapevolizzazione dei problemi e bisogni personali, propedeutico
all’assunzione del ruolo di supporto psicologico rivolto ai colleghi.
Il clima complessivo vissuto dai partecipanti durante questi corsi è difficilmente
comunicabile a parole, ma abbiamo chiesto ad un pari di provarci ugualmente e
questo è il risultato del suo sforzo riportato nel prossimo capitolo.
50
PARI PER SFIDE IMPARI
CAPITOLO VIII
I VISSUTI DI UN PARI DURANTE IL CORSO DI FORMAZIONE
Ricordo ancora la prima volta che sentii parlare del “Pari”. All’epoca prestavo
servizio in un Reparto Operativo della Polizia di Stato. Facevo il poliziotto su
strada. Fu allora che capii di aver già fatto, senza saperlo, il “pari”: mi ero
impegnato a convincere i miei colleghi a parlare del “trauma” che avevano
subito “vivendo” il tragico suicidio di un valoroso collega della nostra squadra.
Riuscii a convincerli a parlare di come si sentivano e di cosa provavano con gli
psicologi, rassicurandoli sul fatto che nessuna forma di controllo sarebbe stata
svolta nei loro confronti. Prima di me glielo avevano detto anche dirigenti e
funzionari, ma loro erano rimasti cautamente diffidenti. Si fidarono…Perché ero
io a dirglielo. Avevano la parola di un loro collega e amico che aveva condiviso
con loro (e con il defunto) molte esperienze di vita operativa, rischiando spesso
la pelle assieme. Si fidarono di un loro “pari”!
Appena ne ebbi la possibilità diedi la mia disponibilità per frequentare un
corso pari che nel frattempo l’Amministrazione aveva istituito formalmente.
Ricordo che appena arrivai in caserma, notai un gruppetto di persone sul
piazzale.
C’erano molti colleghi che non vedevo da tempo: mi sembrò di essere tornato
agli anni della mia più intensa e rischiosa operatività.
Iniziammo con “ti ricordi…”?
Rammentammo episodi divertenti che avevamo condiviso nel passato.
Mentre parlavo con loro, mi accorsi che mi stavo nuovamente esprimendo
in un gergo che credevo di aver dimenticato: il “poliziese”. Infatti da qualche
anno svolgevo servizio in un settore meno operativo del passato.
Altri colleghi presenti, che in un primo momento erano rimasti a distanza,
forse insospettiti dal mio abbigliamento “giacca e cravatta”, si avvicinarono e
cordialmente mi porsero la mano per presentarsi.
Era passata soltanto un’ora e sembrava che ci conoscessimo da anni.
Ci chiamavamo per nome. Poi scoprimmo che uno di noi era addirittura un
funzionario: le barriere gerarchiche erano cadute sul piazzale, quando entrammo
nell’aula ci sentivamo tutti colleghi, alla pari.
Il primo giorno erano le dieci del mattino quando iniziammo, fu veramente
duro: eravamo seduti con le sedie in cerchio e, a turno, ognuno di noi raccontava
PARI PER SFIDE IMPARI
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la propria esperienza personale rispetto ad un episodio particolarmente tragico
della propria vita operativa.
Le voci tremolanti, strozzate o rauche, gli occhi lucidi, le particolari
espressioni facciali e le fronti perlate di sudore dei colleghi che raccontavano,
probabilmente rivivendole, le loro traumatiche esperienze, mi suscitarono una
forte scossa emotiva.
I miei occhi si inumidirono spesso ed un primo pensiero mi venne in mente:
“Loro sì che possono capirmi davvero!”.
Io ero il penultimo del cerchio, il mio turno arrivò alle otto di sera: ero
esausto, ma desideroso di condividere la mia esperienza.
Sentivo di aver ancora bisogno di parlarne con qualcuno. Iniziai a raccontare
e dopo un po’ mi accorsi che anche la mia voce era diventata rauca, anche la mia
fronte era perlata di sudore e la mia gestualità era aumentata: mi comportavo
come se stessi rivivendo quello che stavo raccontando.
Mi muovevo molto sulla sedia mentre descrivevo cosa avevo fatto, ripetevo
gli stessi gesti e dialoghi di quell’esperienza. I miei occhi erano umidi di
lacrime. Avevo raccontato della tragica morte di un mio carissimo amico e
compagno di squadra: per la prima volta ricordavo quegli eventi emozionato sì,
ma senza alcun “se avessi…”, senza sensi di colpa, senza il senno di poi.
Mi sentivo tranquillo, perché finalmente sapevo di aver fatto allora tutto il
possibile, al meglio che potevo.
Mi guardai intorno e l’intenso sguardo e silenzio dei presenti fu per me più
forte di un abbraccio.
Nei giorni seguenti riparlammo ancora dei nostri “incidenti critici”, ma
finalmente riuscivamo a farlo più tranquillamente, anche se ancora un po’
emozionati.
Alcuni di noi non avevano mai raccontato ad altri quella loro esperienza.
Il corso ci fece davvero toccare con mano l’utilità del parlarne e dall’altra
parte di ascoltare davvero gli altri in difficoltà, anche con il “cuore”.
Ovviamente apprendemmo molto di più. Imparammo cosa fare e cosa evitare
per essere davvero di aiuto ai colleghi coinvolti in incidenti critici di servizio.
Facemmo molte esercitazioni per sperimentare praticamente quanto
appreso.
Dopo la prima settimana di corso, alcuni di noi furono esclusi perché non
avevano i requisiti per fare il “pari”: dovevano ancora risolvere il loro “rapporto”
52
PARI PER SFIDE IMPARI
con “l’incidente” o, semplicemente non avevano le attitudini necessarie.
Il distacco degli esclusi fu un po’ doloroso, molti occhi lacrimarono.
Ci abbracciamo tutti e ci salutammo con la consapevolezza che comunque la
nostra vita era cambiata in meglio, ne avevamo condiviso i momenti più intensi
con emozione sincera.
Alla fine del corso ci rendemmo perfettamente conto di aver vissuto
un’esperienza speciale, anche grazie ai giorni trascorsi con “l’americano”
(il professor Roger Solomon) che la nostra Amministrazione, di cui tanto ci
lamentiamo, ci aveva dato la straordinaria opportunità di fare.
CAPITOLO IX
IL PARI IN AZIONE: CRONACA E NON SOLO DI
PARI PER SFIDE IMPARI
53
UN INTERVENTO
Sto facendo dei lavori di manutenzione sulla mia moto quando ad un tratto la
stazione radio che ascolto trasmette la seguente notizia in breve: “Tre poliziotti
gravemente feriti in Questura dallo scoppio di un ordigno”.
Rimango bloccato con gli attrezzi in mano, incredulo dell’accaduto e mi trovo
virtualmente catapultato all’istante negli uffici della Questura dove ho lavorato
per anni immaginando cosa sia accaduto e chi possano essere i colleghi feriti.
Telefono subito ad una carissima collega, di servizio quel pomeriggio e con
la quale ho lavorato molti anni, che con voce provata mi dice: “Non ti rendi
conto, lo scoppio ha fatto saltare completamente le mani di … (collega-amico
con il quale ho svolto e concluso importanti operazioni di polizia premiate
con lodi) ed ha ferito in faccia ed agli occhi gli altri due, adesso sono in sala
operatoria ma la situazione è gravissima.”
L’unica mia risposta a quello che ascolto è: “Arrivo subito”, ed infatti mi
tolgo la tuta da lavoro, prendo la macchina e corro all’ospedale distante trenta
km.
Durante il tragitto non faccio altro che pensare all’accaduto ed al fatto che
l’evento si è verificato proprio dentro quegli uffici dove ho trascorso centinaia
di ore e non avrei mai pensato che una simile cosa potesse accadere proprio lì,
che consideravo uno dei posti più sicuri ed intoccabili.
Arrivato all’ospedale vedo la mia amica parlare con numerosi altri colleghi
nel corridoio, nei pressi delle sale operatorie, percependo immediatamente
tensione e preoccupazione; c’è un via vai agitato di medici ed infermieri ed ad
un tratto intravedo il medico della Polizia.
Intuisco subito dai suoi occhi grande preoccupazione, ed alla richiesta dei
colleghi presenti sulle condizioni dei feriti riferisce che non sono in pericolo
di vita, ma le ferite riportate sono gravissime, rientrando quasi subito in sala
operatoria.
Tutti rimangono in silenzio ed è in quel momento che sia la mia amica che
gli altri si accorgono di me, quindi mi faccio coraggio, ci salutiamo, e mentre
metto un braccio sulla spalla della collega chiedo come è successo.
Tra i presenti vi è chi ha assistito al fatto, chi è giunto poco dopo, chi ha
prestato i primi soccorsi ai colleghi cercando con mezzi di fortuna di fermare
l’emorragia, ed ognuno mi racconta quello che ha visto, ma la cosa che mi
colpisce di più è che tutti descrivono il luogo dell’accaduto con pareti e
pavimenti completamente intrisi di sangue. È a questo punto che mi rendo conto
PARI PER SFIDE IMPARI
55
che il cosiddetto “incidente critico” non ha interessato solo i feriti, perché i
racconti che ascolto colpiscono e scatenano profonde emozioni anche in me che
non ho vissuto di persona l’evento, cominciando a riconoscere nei colleghi tutti
quei comportamenti descritti ed analizzati durante lo svolgimento del corso di
operatore con funzione di “pari”.
Finalmente i colleghi feriti escono dalla sala operatoria e riesco a scambiare
con loro brevi parole soprattutto per far loro coraggio, rendendomi conto
dell’effettiva gravità delle lesioni riportate; per tutti i colleghi presenti il fatto di
poter vedere anche solo per un attimo i feriti fortunatamente riesce ad attenuare
un po’ la tensione. Visto che la mia amica è fortemente provata da quello che
è successo, dopo aver salutato gli altri colleghi, decido di accompagnarla in
Questura per farle riprendere la sua autovettura. Arrivati lì voglio vedere dove
è successo il fatto mi trovo davanti ad un’immagine quasi surreale: sangue in
terra e sui muri, lembi di tessuto umani sulle pareti, luoghi transennati.
Vedere tutto quel sangue dentro quegli uffici dove in passato, anche con i
colleghi feriti, ho condiviso ore ed ore di lavoro, mi congela. Usciamo quindi
nel piazzale della Questura e la mia amica scoppia in lacrime: l’abbraccio
cercando di tranquillizzarla, anche perché mi rendo conto che come tutti i
colleghi in ospedale ha trattenuto le emozioni e soprattutto le lacrime. Continua
a ripetermi con voce disperata: “Hai visto? Non è possibile, non ci credo”
chiedendomi in continuazione il perché, scusandosi per quello sfogo che non ce
la faceva più a trattenere. Cerco piano piano di tranquillizzarla, spiegandole che
le cose purtroppo succedono anche a noi come agli altri ed è inutile massacrarsi
con i “perché” mentre è assolutamente normale provare certe sensazioni ed
avere reazioni come le sue, che sono reazioni normalissime di fronte ad eventi
anormali, “assurdi”. Dopo averla tranquillizzata, decido comunque di seguirla
con la mia macchina e accompagnandola a casa, in considerazione del suo stato
d’animo e della non poca distanza da percorrere.
Tornato a casa mia mi metto a letto, ma non riesco a prendere sonno
perché penso all’accaduto, a quello che ho visto e percepito, consapevole
che non sarà semplice fare il “pari”. Non mi nascondo di avere paura al
pensiero di dover affrontare i colleghi feriti, perché, ad un poliziotto che
non sa ancora se ha perso per sempre in parte o in tutto l’uso delle mani,
della vista o dell’udito, cosa gli dici?
La mattina seguente decido comunque di contattare gli Psicologi della Polizia
a Roma, ma vengo anticipato dal loro Direttore, il quale avendo avuto notizia
56
PARI PER SFIDE IMPARI
dell’accaduto mi telefona per informarsi della situazione. Così gli riferisco quello
che ho avuto modo di vedere, e capire, mettendolo al corrente dell’effettiva
gravità di quanto accaduto e che sto per andare nuovamente in ospedale per
stare vicino ai feriti. Conveniamo di aggiornarci a breve per valutare lo sviluppo
della situazione e le necessità che si andranno a configurare.
Mi reco nuovamente in ospedale e fortunatamente incontro nei corridoi del
reparto il nostro medico della Polizia, persona di grande umanità e professionalità,
che sapendo che ho appena terminato il corso “pari”, appena mi vede dice:
“Sono contento che sei qua, dobbiamo cercare di star loro vicino il più possibile,
perché oltre alla consapevolezza della gravità delle ferite riportate, ho paura
che si stanno auto-colpevolizzando per l’accaduto”.
Così, mi faccio coraggio, ed insieme a lui vado a trovare per primo il collega
ferito al volto ed agli occhi. Mi accorgo che non può vederci a causa delle bende
che gli coprono gli occhi, così entro nella stanza, lo saluto chiamandolo per nome
e gli domando come va. Dopo essermi assicurato che mi ha riconosciuto e senza
essere troppo invadente, inizio a parlare con lui in generale di cosa gli hanno
detto i medici e di quello che è successo. Ma è solo dopo avergli raccontato
quello che mi è accaduto durante il mio di incidente critico, che riusciamo a
condividere veramente gli stati d’animo e le paure che egli ha provato in quel
momento terribile.
Ci sono gli altri due colleghi feriti e non nego di essere preoccupato entrando
nella stanza del mio amico gravemente colpito alle mani: infatti so che i medici
hanno dovuto amputare una gran parte delle dita della destra. Conoscendo bene il
suo carattere, l’attaccamento e l’attenzione che per il lavoro, ho paura di trovarmi
davanti ad un muro di cemento armato. Invece anche lui si dimostra contento di
vedermi e, piano piano, riesce a raccontarmi quello che gli è accaduto e come
comincia ad immaginare la nuova realtà che dovrà affrontare. In ospedale ho
ancora la possibilità di incontrare e parlare nuovamente con i colleghi in visita ai
feriti, molti dei quali hanno assistito ed interagito materialmente con l’accaduto.
Allora cerco di spiegare che sono lì anche come collega “pari”.
Realizzo che vi sono molti di loro che non hanno dormito e che non riescono
ancora a farlo. Serpeggiano stati d’animo contrastanti: c’è chi non riesce ad
accettare l’accaduto, chi è fortemente preoccupato delle condizioni dei feriti e
del loro futuro, chi si rimprovera di qualcosa in più che avrebbe potuto fare.
Così provo a raccontare le sensazioni e le paure provate durante il mio
personale incidente critico, toccando con mano che effettivamente condividere
PARI PER SFIDE IMPARI
57
le proprie esperienze vissute spinge gli altri a rivelare le loro emozioni.
Così, quando tre giorni dopo l’evento arrivano da Roma gli psicologi Ugo e
Patrizia, da me conosciuti durante la frequenza del corso di operatore con funzione
di Pari e con i quali, subito dopo l’accaduto mi sono costantemente sentito al
telefono, mi rendo conto che tutto quello che ho fatto fino a quel momento,
con grande sforzo mentale e fisico, è stato fondamentale, perché adesso i feriti
hanno accettato la nostra visita senza problemi ed ognuno parla di ciò che sta
provando. La cosa che mi colpisce di più è l’assoluta spontaneità con cui Ugo,
mentre il collega ferito alle mani, durante i saluti gli presenta il “moncone” della
mano destra ma poi fa per ritirarlo subito, gli dice semplicemente: “Diamoci
‘sta mano” spezzando quel difficile attimo di tensione che si è generato.
Dopo l’incontro con i feriti in ospedale, nella giornata successiva rimaniamo
in Questura a disposizione di quei colleghi che, informati della possibilità,
decidano spontaneamente di incontrarci per parlare in gruppo dell’evento.
Rimango colpito dal fatto che si presentano all’incontro in molti, tanto da
dover organizzare un gruppo la mattina ed uno il pomeriggio. È difficile descrivere
gli stati d’animo e le emozioni che si sprigionano dal racconto dell’evento in
gruppo, perché si raggiunge una realtà “fotografica” inimmaginabile a priori:
quel botto tremendo esploso fra la faccia e le mani di tre colleghi ha fatto
veramente sentire loro la paura e la vulnerabilità che il “mestiere” ci porta a
negare. Un collega fortemente coinvolto e provato dall’evento si alza dalla
seggiola e decide di abbandonare il gruppo uscendo dalla stanza dove siamo
seduti in cerchio, prontamente seguito da uno degli psicologi.
L’incontro è appena iniziato e mentre il collega è fuori con lo psicologo, un
altro poliziotto, giunto in ritardo, chiede di poter partecipare. Viene invitato a
sedersi in cerchio insieme a noi e, senza saperlo, occupa il posto del collega
uscito. In un attimo realizzo che se quest’ultimo rientrando non trovasse la sedia
dove sedersi in gruppo con noi, si potrebbero creare sensazioni di esclusione
e di disinteresse da parte nostra. Quindi con molta tranquillità mi alzo e
prendo un’altra seggiola posizionandola vicino a quella adesso occupata dal
nuovo entrato. Poco dopo lo psicologo e il collega uscito rientrano sedendosi
nuovamente in mezzo a noi senza accorgersi di nulla, se non del fatto che si è
aggiunta una persona.
Al termine del secondo gruppo, uno dei partecipanti ci dice di non riuscire più
a dormire dal giorno dell’evento, rivivendone in continuazione le fasi più dure:
infatti è stato uno dei primi a soccorrere i feriti. Così Patrizia, con il consenso
58
PARI PER SFIDE IMPARI
dell’interessato, decide di praticargli una procedura speciale denominata
EMDR, ed è incredibile vedere come riesca a fargli rivivere, passo passo,
l’incidente critico, come se ne scorressero alla moviola i fotogrammi insieme
all’audio. L’impatto è tale che a me, che collaboro per la realizzazione tecnica
dell’intervento, sembra di vivere in prima persona le varie fasi dell’incidente:
avviene così, sotto i miei occhi, la normalizzazione dello stato emotivo del
collega.
Per concludere gli incontri con un momento di convivialità, grazie all’aiuto
dell’ufficio sanitario della Questura, faccio trovare ai partecipanti bibite
e pasticcini in modo da poter condividere un momento di serenità. Infatti
continuiamo a chiacchierare del più e del meno, per la prima volta senza tutta
quella tensione percepita nelle stesse persone nei giorni precedenti, potendo
effettivamente riscontrare che la possibilità di esternare e confrontare i propri
pensieri, ricordi ed emozioni con altri ha permesso di comprenderli, accettarli
e normalizzarli.
Al termine della giornata è indispensabile per me parlare con Ugo e Patrizia
così da poter tirare fuori le mie di emozioni, anche perché fino a quel momento
mi sono caricato di tutte le informazioni e gli stati d’animo degli altri, senza
poter invece scaricare i miei.
A distanza di alcune settimane dall’incidente, e precisamente dopo la
dimissione dei colleghi, gli psicologi Ugo e Patrizia tornano principalmente per
incontrare con me in gruppo i tre feriti, perché è importante poter parlare con
loro fuori dalle mura dell’ospedale ed aiutarli a attivare le strategie necessarie a
far fronte ai vari tipi di conseguenze che l’incidente ha provocato e comporterà
nel futuro.
Oggi posso dire che non è stata cosa semplice fare quello che ho fatto: le mie
emozioni sono state messe a dura prova, anche in considerazione del rapporto
di amicizia che avevo con alcune delle persone coinvolte. Nei mesi successivi,
ho sempre cercato di incontrare i colleghi senza essere invadente, organizzando
insieme qualche cena, in modo da contribuire a che le cose potessero tornare
piano piano alla normalità, ed a distanza di alcuni anni posso affermare che
questo è effettivamente accaduto.
PARI PER SFIDE IMPARI
59
CAPITOLO X
?
IL FUTURO DEL PARI E DELLA CULTURA DELLA
“PARITÀ” NELLE FORZE DELL’ORDINE
PARI PER SFIDE IMPARI
61
POSTFAZIONE: SCRIVERE SU UN QUADERNO
Il decimo capitolo è in bianco non per un errore della tipografia o per uno
stupido scherzo editoriale.
Il vuoto di stampa vuole recare il messaggio di un progetto appena agli
inizi, sul cui quaderno di viaggio ci auguriamo che molti altri vorranno scrivere
pagine intense di duro impegno sul campo.
Ciò che abbiamo materialmente esteso non è stato scritto da noi ma dai tanti
operatori di polizia che abbiamo avuto la fortuna di incontrare come colleghi di
lavoro, vittime di incidenti critici di servizio, di pari ed aspiranti tali.
Il nostro merito è stato solo quello, dopo averli ascoltati con la testa e con
il cuore, di aver avuto una “visione”: quella che fosse possibile anche nel
nostro Paese avviare un progetto in cui l’operatore di polizia potesse sentirsi
co-protagonista con l’Istituzione a cui appartiene di una sfida impari: quella di
restituire a tanti colleghi una prospettiva di vita degna di questo nome.
Infatti per molti di loro, dopo aver vissuto un incidente critico di servizio
vale ciò che recita questo saggio proverbio africano:
“Puoi lasciarti indietro ciò che ti insegue, ma non puoi lasciarti
indietro ciò che corre dentro di te”
Tutti coloro che sull’argomento del quaderno volessero fornire commenti,
proporre suggerimenti, condividere o riflettere esperienze personali possono scrivere
agli autori al seguente indirizzo di posta elettronica: [email protected]
L’invito non è rivolto soltanto agli operatori delle Forze di Polizia in servizio
o in quiescenza, ma anche ai loro familiari che spesso così dolorosamente
condividono con essi gli effetti dello stress post-traumatico conseguente agli
incidenti critici di servizio vissuti dai loro congiunti. Altre volte i familiari non
possono fare nemmeno questo perché il loro congiunto, come avvenuto per la
famiglia dell’Ispettore cui è dedicato questo quaderno, soccombe fisicamente
all’evento.
In quel momento durissimo l’Istituzione, attraverso le risorse umane a ciò
destinate, deve essere vicina, estremamente prossima a quel dolore.
Queste sono le parole con cui la vedova di un operatore di polizia deceduto
in uno scontro a fuoco esprime l’importanza di questa vicinanza ricordando quel
62
PARI PER SFIDE IMPARI
momento tragico in occasione del primo anniversario della morte del marito e
di un altro collega:
“Nella ricorrenza del primo anniversario della morte di mio marito… sento
la necessità di ringraziare la Polizia di Stato per la vicinanza e l’aiuto che ci
ha dato in quel momento terribile della nostra vita. In particolare, ricordando
anche il momento della morte di mio cognato… sento ancor più il bisogno di
esprimere la mia gratitudine agli psicologi della Polizia di Stato che subito dopo
la disgrazia mi sono stati particolarmente vicini con la loro grande umanità
e professionalità, aiutandomi anche nel penosissimo compito di dire alle mie
figlie che il papà era morto: senza questo aiuto per me sarebbe stata veramente
molto dura. In questi giorni ho rivissuto la mia tragedia seguendo le notizie
sulla morte di due giovani carabinieri, e pensando alle loro famiglie mi auguro
che possano aver ricevuto lo stesso aiuto psicologico che ha permesso a me
ed ai miei cari di continuare a vivere anche senza Davide. Spero che di questo
nuovo modo di stare vicino a chi è condannato a sopravvivere a tragedie così
immense possano beneficiare tutte le famiglie dei poliziotti e dei carabinieri
che, mi creda, ne hanno un assoluto bisogno, ancor prima di ricevere ogni altra
forma di vicinanze ed aiuto pratico, anch’essi essenziali. Spero ancora che
l’impegno di quelle persone a cui ho già espresso la mia gratitudine e con cui
sono ancora in stretto contatto, possa essere premiato ed incoraggiato…”. (La
lettera è stata indirizzata al Ministro dell’Interno ed al Capo della Polizia).
In quel duro frangente, nel gruppo di supporto inviato in loco vi era anche
un “pari” a condividere la sfida impari, ma la vedova non si è accorta della
differenza dei loro ruoli: per lei erano e restano gli “psicologi”, semplicemente
persone che l’hanno emotivamente aiutata nel momento più acuto della sua
battaglia esistenziale.
PARI PER SFIDE IMPARI
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