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Dallo sballo all`empatia

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Dallo sballo all`empatia
pag. 1
Dallo sballo all'empatia
Diagnostica e terapia della tossicodipendenza
don Isidoro Meschi
pag. 2
“Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici”.
(Giovanni 15, 13)
pag. 3
Don Isidoro Meschi
Nato a Merate il 7 giugno 1945.
Battezzato a Merate il 10 giugno 1945.
Comunicato a Merate il 24 aprile 1954.
Cresimato a Merate il 21 ottobre 1955.
Ordinato Presbitero a Milano il 28 giugno 1969.
Nominato Vicerettore nel Seminario Liceale di Venegono il 1 settembre 1969.
Nominato Coadiutore a San Giovanni Battista in Busto Arsizio il 1 luglio 1972 e Canonico Teologo della
Basilica di San Giovanni.
Nominato Coadiutore a San Giuseppe di Busto Arsizio il 1 febbraio 1990.
Chiamato alla Pasqua eterna il 14 febbraio 1991.
pag. 4
INDICE
Presentazione
Prefazione
pag. 5
pag. 6
I. DIAGNOSTICA:
ASPETTI FONDAMENTALI DEL FENOMENO E CRITERI DI INTERPRETAZIONE
La cultura dello sballo
pag. 8
La persona del tossicodipendente
pag. 10
L'amore dei genitori
pag. 12
Una parola sulla scuola
pag. 13
II. TERAPIA:
TAPPE EDUCATIVE E METODI DI INTERVENTO
La decisione di smettere
Il cammino educativo
Autoconoscenza
- Il carattere
- Le capacità
- La maturità
Comunicazione
- Metodo
Progettazione
Operatori di comunità
- La decisione volontaria
- Il raggiungimento dell'empatia
Ergoterapia
- Scopi
- Metodo
- Modalità operative
Logoterapia
- Articolazioni
- Modalità
Crescita delle conoscenze e programmi personalizzati
- Fasi dell'apprendimento
- Il motivo più profondo del conoscere
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pag. 5
Presentazione
Quest'opera postuma di Don Isidoro è postuma per modo di dire. Infatti egli non è più con noi ma lo è
ancora, in modo forse più incisivo. Se prima era vivo, ora è un vivo di prima classe e soprattutto è viva la
comunità creatasi attorno a lui: la comunita dei validi collaboratori e degli accolti per un cammino
ascensionale dallo sballo all'empatia, come dice il titolo dell'opera.
Nel testamento spirituale di Don Isidoro si trovano le ragioni della comunità Marco Riva: “In Lui (Gesù),
con Lui e per Lui scoprite quanto è bella la vita, in tutte le sue espressioni autentiche”.
Questo prete, che nell'esercizio del suo ministero, specialmente tra i giovani, si accorge che molti di essi
sono diventati schiavi di una inautenticità di vita quale lo sballo (cioè la ricerca del piacere a qualsiasi costo,
anche a costo di tirarsi fuori dalla realtà e vivere in un mondo apparentemente e inizialmente attraente, ma in
realtà infelice e non autentico), scopre una nuova vocazione all'interno della sua vocazione di innamorato
della vita perchè innamorato di Cristo.
Molti affrontano il problema droga con estrema superficialità: o con giudizi sommari di condanna, o con un
approccio pressapochista senza basi scientifiche o con quel volontarismo bonaccione che fa più male che
bene. Alla Marco Riva invece Don Isidoro, oltre al suo impegno generoso e alla sua testimonianza fulgida di
carità, ha impresso l'impronta della dignità culturale e del rigore scientifico, circondandosi di collaboratori
competenti ed onesti. Forse il cammino sarà lungo e difficile, ma non sarà impossibile ricreare nelle persone
cadute nel vortice dello sballo, la voglia di rigenerarsi ad una nuova autenticità di vita, la capacità di
superare i velleitarismi e di comunicare col dialogo, col lavoro, con la vita, con la famiglia, con la società da
cui erano fuggiti.
Questo scritto che Don Isidoro mi omaggiò a Natale, dicendomi quasi furtivamente: Stiamo pensando di
pubblicarlo, è ben degno di pubblicazione, anche se non è di facile lettura. E' per tutti un invito a non
occuparsi del massiccio e grave fenomeno della droga in maniera superficiale. E' per gli stretti collaboratori
di Don Isidoro una specie di carta costituzionale dello stile di lavoro e di ricerca. E' per i giovani accolti
nella comunità Marco Riva, la garanzia di ricevere l'aiuto giusto al momento giusto.
E' per la città di Busto Arsizio una consegna morale, come ancora recita il testamento di Don Isidoro:
“Davanti a qualsiasi fratello abbiate il coraggio di non chiudere né mente né cuore: Gesù ce ne rende
capaci e ci fa avere il suo centuplo”.
Mons. Claudio Livetti - Prevosto di Busto Arsizio
pag. 6
Prefazione
La Comunità “Marco Riva” di Busto Arsizio con la presente pubblicazione intende rivolgersi a tutte quelle
persone che desiderano cogliere quali siano gli aspetti davvero essenziali del diffuso e assai discusso
problema droga.
Il testo è di proposito sintetico e, in qualche parte, di genere volutamente esemplificativo; suppone però una
relativa completezza: quella di proporre all'itinerario fondamentale e imprescindibile per combattere
fruttuosamente la “sirena dello sballo”.
Dalle seguenti pagine sono ricavabili anche quei criteri che, non solo in sede diagnostica e terapeutica ma
pure nell'ambito di una considerazione globale, non debbano venire smarriti al fine di superare il rischio di
percorrere riflessioni, in sé legittime e valide, ma fuorvianti la preoccupazione di restare a quanto si rivela
veramente il nocciolo della questione e la radice principale del problema.
Le tesi presentate sono serene convinzioni, esito soprattutto di un'esperienza diretta condotta dal 1982 nella
città di Busto Arsizio.
L'ex “Manchester italiana” raccorda le situazioni dell'Alto Milanese e del Basso Varesotto e offre così un
quadro significativo e rappresentativo della Lombardia operosa e ricca, perciò essa risulta emblematica di
parecchie peculiarità del cammino storico ed etico degli ultimi decenni.
Un augurio vivissimo desidera venire espresso dagli estensori: quello che gli ultimi anni del XX secolo
vedano una decisiva inversione di marcia dell'escalation tossicomanica che ha deviato e distrutto un
incommensurabile capitale di energie, di valori, di vite da trent'anni ad oggi.
Busto Arsizio, Capodanno 1991
pag. 7
DIAGNOSTICA
Aspetti fondamentali del fenomeno
e criteri di interpretazione
pag. 8
La cultura dello sballo
Il discorso può venir fatto partire da un principio indispensabile e meraviglioso della vita: il principio del
piacere.
Tale principio da un lato ci porta a quanto ci appare attraente, dall'altro ci allontana da quanto ci appare
doloroso; pienezza del piacere è l'estasi, che si attua quando ciò che attrae occupa totalmente la persona
nelle sue facoltà percettive.
Per spiegare la centralità, nel comportamento umano, di questo principio, possiamo ripensare a Lorenzo
Valla, che nel “De voluptate ac de vero bono” mostra che il piacere è il vero bene, che l'azione umana, anche
quella che sembra più pura e disinteressata, è determinata dal piacere. Non amiamo la virtù per se stessa, ma
per il piacere che ci procura; per fare un esempio, Catone non si è tolta la vita per amore della virtù, ma
perchè non tollerava il giogo di Cesare.
La “voluptas” di cui parla Lorenzo Valla non è libertinaggio, abbandono agli istinti, ma quel piacere che non
è in contrasto con l'onesto.
Il piacere che dà spazio allo “sballo” assomiglia invece a quanto esaltato da alcuni autori greci come Sesto
Empirico, Diogene Laerzio, Ateneo, Eliano, per i quali il piacere è bene, il dolore è male; i piaceri del corpo
sono preferibili a quelli dello spirito; è inutile cercare di raggiungere la felicità piena, “perchè fine è il
piacere particolare, mentre felicità è il sistema dei piaceri particolari, cui si sommano anche i passati ed i
futuri. Il piacere particolare è per se stesso desiderabile, mentre la felicità non lo è per se stessa, bensì per i
piaceri particolari”.
Possiamo rendere in linguaggio più semplice questo pensiero di Diogene Laerzio affermando che, secondo
questo autore, la felicità in sé è un'astrazione; ciò che si desidera e ciò che rallegra la vita sono i singoli
piaceri, in particolare se corporalmente sperimentabili. Vero piacere è quello goduto attimo per attimo:
“l'aver goduto o l'essere per godere nulla stimava in se stesso, l'uno perchè non più, l'altro perchè non è
ancora” (Ateneo); “solo il presente è nostro e non il momento precedente” (Eliano).
La massima di Eliano può essere vista come l'invito a considerare unico vero bene solo l'attimo piacevole
fuggente; il “tutto adesso” esprime l'aspirazione e la regola di vita.
Virtù, cioè traguardo a cui tendere incessantemente, diventa quindi la capacità di godere e ciò che mette gli
uomini in condizioni di godere il più intensamente possibile.
Se i piaceri vengono suggeriti sempre meno dall'impellenza del necessario e sempre più dal richiamo del
superfluo, gli spazi dei richiami del piacere tendono a diventare infiniti; in particolare tendono ad escludere
l'avvertenza critica sulla validità antropologica di certi piaceri e sulla conciliabilità tra il proprio piacere e la
libertà propria e altrui.
Simili considerazioni sono pertinenti con lo sballo del drogato?
Una risposta serena, obiettivamente, non può che essere affermativa: lo sballo infatti è definibile come il
piacere e l'estasi ad ogni costo, nel culto dell'immediato, nel rifiuto dell'attesa, dell'impegno e del sacrificio.
Lo sballo è l'immersione immediata, totale, facile in quanto, non importa se artificiale e gravato da infauste
conseguenze, fa sentire abbacinati di piacere.
Lo sballo non è semplicemente un estasi artificiale, ma uno stile di vita che si costruisce con il sistematico
rifiuto di misurarsi con la realtà personale, relazionale, spazio-temporale, storica.
Questa peculiarità dello sballo appare in modo immediato quando, ad esempio, il tossicodipendente riferisce
le proprie esperienze di vita in termini che s'avvicinano al delirio di onnipotenza (“smetto come e quando
voglio”; “i soldi non sono un problema”), oppure al delirio di annientamento (“non sono che uno schifo”;
“chi se ne frega se prendo l'AIDS”; “ per un mondo così è inutile impegnarsi”).
Per chi vive lo sballo anche le relazioni affettive sono del tutto dipendenti da un'immagine della realtà
generata dalle spinte più utilitaristiche, perchè l'opportunismo è l'unico aggancio alla realtà, così che è solo
partendo dal bisogno primario del trovarsi accudito (la comunità come una nuova casa) che si possono
inserire rapporti umani in prospettiva terapeutica.
Lo sballo, per certi aspetti, è conseguenza di una pedagogia che proponga alla persona il diritto al proprio
pag. 9
piacere senza correlarlo con il dovere della verifica del piacere stesso e della responsabilità del vivere tra le
esigenze altrui.
La trasgressione, infine, ancorchè valichi le barriere del rispetto, appare come una diversificazione, con il
procedere delle esperienze impellente e necessaria, del piacere.
Parlare dello sballo significa anche impegnarsi in una revisione della mentalità e delle proposte con le quali
quotidianamente tutti noi ci incontriamo.
Le coordinate del piacere e della celerità caratterizzano e impostano la vita economica ma anche quella
sociale e psicologica, delle attuali società industrializzate.
Le coordinate del piacere e della celerità caratterizzano e impostano la vita economica ma anche quella
sociale e psicologica, delle attuali società industrializzate.
La droga, infatti (tra gli altri lo sostiene Regoliosi nei suoi studi sulla prevenzione della tossicodipendenza
pubblicati nel Bollettino curato dal Ministero della Sanità), si è venuta innestando in un contesto culturale
già predisposto “alla dipendenza da consumi”.
Di fatto oggi un ragazzo cresce con davanti a sé l'esempio di adulti che fumano tabacco, fanno uso di
alcolici e psicofarmaci, riversando su tali sostanze aspettative e vissuti emotivi che le trascendono.
Egli stesso, poi, fin da bambino, si abitua a fruire di giocattoli, dolciumi, televisione, quali comodi surrogati
di una relazione affettiva e ludica con genitori ed educatori troppo spesso carente”.
Tale “filosofia” di vita trova i propri atteggiamenti caratterizzanti (cfr quanto spiegato nel capitolo sulla
logoterapia):
-nella provvisorietà della condotta di vita;
-nel fatalismo,
-nella mentalità formata con processi di massificazione,
-nel fanatismo come assenza di considerazione per i diritti e le idee dell'altro.
E' un quadro dove emergono i tratti di una completa mancanza di riferimenti ideali, di un'assenza di veri
progetti di vita personali e sociali, di una marcata indifferenza o, anche, di un forte fastidio per gli altri.
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La persona del tossicodipendente
In un dibattito tenuto in una scuola media superiore nel 1977 ci capitò di registrare affermazioni dal
seguente tono: molti giovani si drogano perchè hanno paura di vivere, perchè sono stufi di questa società
perbenista, bella al di fuori ma all'interno in stato di decomposizione. La loro scelta può essere condannata,
ma prima perchè non facciamo un esame di coscienza dentro di noi? Siamo stati noi a spingerli in un vicolo
cieco, noi che nulla abbiamo fatto per capire i loro problemi e cercare di aiutarli e in molti casi poteva
bastare solo una parola.
Il 1° settembre 1979 “La Repubblica” pubblicò una lettera della quale riportiamo qualche passo saliente:
“Siamo drogati e i drogati non trovano lavoro, nessuno si fida, ci avete spinto ai margini della società senza
speranza. Voi, persone normali, siete disposte ad accettare il drogato, certo, solo però se vuol smettere di
bucarsi, solo se si vuole reintegrare ma alle vostre condizioni. Ebbene, io non voglio vivere la vostra società
e non ho più l'illusione vana di poterla cambiare come quando ero giovane (l'autrice della lettera ha
vent'anni, n.d.r.). Allora davo tutta me stessa alla lotta politica, pensavo di contribuire con un cambiamento
reale, fattibile della società. Ma poi ho capito, ho creduto di capire: impossibile fermare questa macchina,
l'inferno di questa vita. Ormai non spero più di riuscire a vivere come vorrei e allora, per lo meno, voglio
morire come mi pare”.
A più di dieci anni emerge invece con chiarezza che il tossicodipendente si caratterizza non per la delusione
di un ideale di protesta sociale, ma per l'immersione passiva in “una cultura debole, floscia, priva di valori e
di stimoli coraggiosi e nobili” (C.M. Martini, 1989). I tossicodipendenti, in questi ultimi anni, si mostrano
come gli esiti della spinta a vivere e a godere la vita attraverso la soddisfazione e il più pronta possibile, di
tutti i desideri.
D'altro canto qualche “drogato” anche allora riusciva ad anticipare questa diagnosi, come l'Augusto che il 24
settembre 1979 così scrisse a “Panorama”.
“Se hai i soldi e se qualcuno piazza bustine, corri a bucarti. Puoi aver fatto cinque anni di filosofia come me
e sopportare a stento di leggere Topolino.
La donna di un drogato potrà farsi in quattro, lavorare d'intelligenza e d'amore, ma non avrà mai niente in
cambio. Sto con te, ma non contarci, perchè l'eroina è più forte di te e sarà sempre un mare di bugie”.
La possibilità di provare (“se hai i soldi e qualcuno piazza”) diventa la voglia di provare, la “decisione” di
provare.
Il rifiuto di pensare (“puoi aver fatto cinque anni di filosofia come me e sopportare a stento di leggere
Topolino”) diviene stato di vita non solo per la persona senza status socio-culturale, o addirittura
emarginata, ma pure per chi è intelligente e colto.
La forza dello sballo finisce a prevalere su tutto “l'eroina è più forte di te”.
La fuga dalla verifica, in qualsiasi campo e ambito di vita, in special modo nel cercare il motivo, la genesi,
la storia della propria tossicodipendenza, è costante: “sarà sempre un mare di bugie”.
In una specie di scheda diagnostica della tossicodipendenza possiamo così precisare i due atteggiamenti
caratterizzanti i soggetti che assumono droga o che continuano ad essere a rischio:
1. Ricerca ed esperienza esasperata del piacere, voluto ad ogni costo.
Da questo atteggiamento derivano precise conseguenze sul piano comportamentale, soprattutto:
- il rifiuto di una vera terapia, con la mistificazione continua del vero motivo della dipendenza dalla droga;
- l'incapacità di rapporti autentici con le persone non è possibile, infatti, nessun tipo di relazione paritetica di
amicizia, di affetto e di vicendevole aiuto tra persone che operano secondo i criteri generati dalla scelta del
piacere quale costantemente supremo valore di vita;
- l'incapacità a perseguire e, pertanto, alla lunga, a ideare, autonomamente un programma di vita proprio
perchè questo esige il contrario del “tutto e subito” al quale il tossicodipendente è legato.
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2. Paura e fuga dall'incontro con la realtà.
Le conseguenze comportamentali risultano, in particolare:
- l'incapacità di giudizio realistico (soprattutto nell'autovalutazione);
- la non veridicità oggettiva delle comunicazioni, pure nei casi di sincerità soggettiva;
- l'impossibilità di programmare il futuro, con il rifiuto del valore e della necessità del tempo.
La situazione interiore della persona tossicodipendente è quella di un soggetto anestetizzato dall'esperienza
e/o dal miraggio del piacere artificiale e facile, veramente confuso nella conoscenza di sé; in lui non c'è la
minima preoccupazione di un'autoanalisi né a proposito del proprio carattere, né a riguardo delle proprie
doti.
Il parlare di maturità diventa del tutto impossibile, non essendoci motivazioni autonome e, come evidente,
mancando del tutto una vera ricezione della propria personalità.
Il soggetto tossicodipendente non può porre comunicazioni personali vere e proprie con gli altri, non
riuscendo ad essere interlocutore neppure con se stesso; se poi consideriamo che da tempo le sue relazioni
sono con le persone del giro, o con le persone in qualche modo viste come ricattabili, non ci si meraviglia
che il risultato sia un narcisismo esibizionista che però in realtà esibisce quanto è stato prodotto dalla droga.
Alla persona tossicodipendente risultano preclusi programmi e progettazioni che non abbiano come motore e
destinazione il piacere immediato e quindi vi è la mancanza di realismo in qualsiasi discorso diverso, sia per
quanto riguarda i traguardi sia per quello che attiene alle vie e alle modalità per raggiungerli.
L'esito conclusivo dell'uso di droga, quindi, in termini di danno psicologico, è l'amputazione della volontà,
confusa con la velleità o, più spesso, il semplice desiderio.
Sviluppando le precedenti indicazioni, si pone in risalto il fatto che la fuga dalla realtà può assumere i
connotati dell'apatia o dell'autoemarginazione (quindi più spesso conseguenza che non causa della
tossicodipendenza).
L'aggressività, sia verso se stessi (derivazione della thanatos freudiana), sia verso gli altri con l'esplosione in
varie forme di violenza è una risultante collaterale dell'esasperazione narcisistica.
Il vitalismo e lo spontaneismo anarcoide con il rifiuto dei limiti razionali, delle leggi civili, delle regole di
convivenza sociale diviene come una bandiera di riconoscimento, indipendentemente dal contesto storico e
dai movimenti ideologici e non (pensiamo agli ultras delle tifoserie) tra i quali spesso il tossicodipendente si
inserisce.
Gli atteggiamenti che finiscono per prevalere sono il senso di fatalità e di rassegnazione passiva: la
situazione di vita diventa quella della incomunicabilità e della disperazione.
Poiché, come abbiamo visto, il tossicodipendente assume il metodo della soddisfazione qualunquistica dei
desideri secondo la logica irresponsabile e asociale del “tutto e subito”, di lui può diventare immagine la
Sara, protagonista di “Ammazzare il tempo” della Ravera, che vive i suoi ventisei anni “come fossero
quaranta. Metifica e cadaverica mi aggiro vivissima in un vivissimo pianeta di morti”.
Fissati i criteri diagnostici della tossicodipendenza, rivediamo criticamente qualche argomento,
apparentemente assodato, inerente al problema droga.
pag. 12
L'amore dei genitori
Un luogo comune, ancora di notevole vitalità, è quello che vede nella mancanza di amore dei genitori una
ragione fortissimo della vicenda tossicomanica di tanti giovani.
Si tratta di un'affermazione che necessita di un esame critico molto attento.
Che cosa significa, infatti, “genitori senza amore”?
Se per amore si ritiene l'occuparsi e il preoccuparsi perchè i figli “abbiano tutto”, notiamo che in realtà
molto spesso i tossicodipendenti sono figli di coppie che “hanno dato tutto”.
Anzi, una generosità senza riserve sul versante del fornire beni e dell'offrire esperienze ai figli è elemento
indubbiamente favorevole alla “cultura dello sballo”.
Notato per inciso che il fallimento di un'educazione non è sempre imputabile all'educatore (pensiamo vada
bene per tutti, cristiani e non, l'esperienza di Gesù di Nazareth con Giuda Iscariota), riteniamo importante
indicare quale sia l'amore che aiuta la maturazione di personalità sane, e non a rischio di tossicodipendenza
sotto vere e mentite spoglie, capaci di smascherare le seduzioni dello sballo, di resistervi senza compromessi
e di ricercare al loro posto l'autentica felicità personale.
Si tratta di un amore che, riconoscendo concretamente e non solo in linea di principio il figlio quale persona
da scoprire e da incontrare oltre che da accudire, educhi progressivamente alla consapevolezza della propria
identità e alla gestione della propria libertà.
Si deve quindi essere esigenti su questi obiettivi primari di educazione e mostrare coerentemente, e senza
veli, le conseguenze reali dei diversi comportamenti.
La carenza vera dei genitori perciò non sta nel rifiuto di dare ma nella paura, nella rinuncia a chiedere, nella
genericità del dialogare e, ancor più nell'età adolescenziale, nell'incertezza e nell'imprecisione a proposito di
forti testimonianze sui significati e sui valori della vita.
Quando i genitori esauriscono il meglio delle proprie energie psicologiche nelle molteplici attività non
strettamente finalizzate al rapporto personale diretto con i figli, non possono far altro che diventare
iperprotettivi e/o iperconcessivi, con la tendenza a dare molte cose quale inconscia riparazione del “non
dare” se stessi.
Le famiglie diventano così la catena di trasmissione ideale della logica consumistica e, quando manca una
capacità critica di scelta dei consumi, qualsiasi consumo può diventare prassi di vita.
Una persona, cresciuta soltanto con la pretesa di essere soddisfatta - o almeno sistematicamente compensata
- e con le amplificazioni senza limiti del superfluo, si rivela non pronta per nessun piano preciso di vita.
I genitori dei tossicodipendenti perciò sono colore che amaramente si trovano a capire quanto sia stato
pericoloso non insegnare ai propri figli concetti di gratuità e di necessità.
Attraverso regali sempre più costosi, magari finalizzati a incentivare promozioni scolastiche o successi
agonistici, i loro figli non hanno mai sperimentato la ricerca e la conquista di autentiche soddisfazioni
interiori e sono infine giunti ad essere dipendenti dal piacere aggiuntivo e inutile, materiale, totalizzante.
Forse spiegano meglio le parole di un ragazzo incontrato tra i drogati : “Mi spaventa terribilmente questa
casa DOVE NON RIESCO A PARLARE con i miei genitori che vedo tante volte ; dove ci si comporta
secondo schemi diventati abitudine senza accorgersene; dove stiamo SOLI CON TANTE NOSTRE COSE
senza pensare che si possono condividere con gli altri le nostre gioie e i nostri dolori. E' triste; ci si arrende;
si corre verso lo sballo”.
Nella famiglie si dovrebbe compiere la scoperta di cui parlò tanto Enzo Paci: ogni uomo è un'isola che
affiora alla vita da un continente sommerso; vediamo altere isole e il mare ci sembra una barriera
insuperabile, ma sotto il mare c'è una sola terra continua che ci lega l'uno all'altro.
E' una scoperta frutto di tanta fatica ma salva dalla paura, dalla noia e dalle ingannevoli sirene.
pag. 13
Una parola sulla scuola
Il discorso della scuola come luogo dell'insegnamento e, in alternativa o in integrazione, della scuola come
ambito profondamente educativo deve sempre mettersi a confronto con la frammentazione in svariatissimi
canali del sapere e con gli interrogativi, spesso irrisolti, sui valori umani e sulla natura e sul senso della
libertà.
Un adolescente, oltre alla famiglia, incontra altre “scuole”, spesso efficacissime nel plasmare atteggiamenti
e mentalità di fronte alla vita. Queste scuole sono individuabili nei mass-media, in particolare in “mammatelevisione”; nei luoghi di ritrovo: il bar, la piazza, la discoteca.
Il problema della scuola diventa perciò anche quello di correlarsi con le esperienze di vita degli alunni,
suscitate ed ispirate da un notevole numero di ambienti e da differenti indicazioni sui valori della vita.
Quale spunto per una riflessione di carattere generale, notiamo che, se la scuola non riesce a trasmettere
motivazioni per l'apprendere e per il crescere, e se in essa si riflettono diversi meccanismi alienanti e le
prospettive di n futuro affidato all'abilità di arrangiarsi o condannato alla passività di una, più o meno,
acquietante rassegnazione, paradossalmente, ma non del tutto, essa può diventare tentazione per cedere alla
“cultura dello sballo”.
Per non lasciar mancare risposte a questi dati obiettivi una strada è quella di porre in relazione la didattica,
scienza dell'insegnamento, con la psicologia, scienza dell'animo umano nel suo vario, concreto, situato
evolversi.
Storicamente i rapporti tra psicologi e didattica sono molto antichi: li possiamo vedere abbozzati (ed è
Piaget stesso a notarlo) nella stessa maieutica socratica.
Tuttavia altri autori come Comenio, Rousseau, Pestalozzi, ebbero al riguardo intuizioni significative e
basilari: infatti, non dobbiamo scordare il rischio di dimenticare che la didattica ha degli aspetti specifici
derivanti dai diversi tipi di sapere che si vogliono comunicare. A controprova si è sperimentato che
l'attivismo, cioè l'insegnamento basato sul rendere attiva la psiche dell'allievo senza verificare in modo più
preciso l'effettivo apprendimento (questo è tipico, per esempio, nell'impostazione di Claparède), ha portato a
una riduzione della didattica alla psicologia, con nessun vantaggio né per la psicologia né per la didattica.
Occorre però riconoscere che tale forma di riduzionismo è riuscita a far guadagnare un punto fermo al
discorso pedagogico (e non solo a quello): il fatto che esso deve rispettare regole di una corretta attività
interdisciplinare nell'ambito della quale ogni scienza ha un suo specifico compito da svolgere in termini
esclusivi, e in nessun modo alternativi a quella di altre scienze.
Così il ridurre la didattica a psicologia significava il non aver chiaro che la didattica ha, ad esempio, i suoi
legami anche con l'antropologia, con la teleologia che dettano ad esempio, quali sono i fini dell'educazione:
ambito questo che non spetta alla psicologia.
Non è quini possibile esaminare a fondo i rapporti tra filosofia, psicologia e scienze umane (cioè tutte le
discipline che, con metodo sperimentale, studiano le leggi della reattività e dell'apprendimento), ma basterà
accennare ai tentativi di mediazione compiuti da Allport e Maslow. Tali autori, affermando che la filosofia
della persona è inseparabile dalla psicologia della persona, ci pare possano fondare un atteggiamento
corretto da un punto di vista scientifico e un ricercare attento ed equilibrato da un punto di vista umano.
Insegnare è far apprendere, ma vari autori (per esempio Bruner) hanno rilevato come sarebbe sterile una
teoria dell'insegnamento che si rifacesse unicamente ai dettami di una teorica dell'apprendimento.
Risulta peraltro ormai acquisito sul piano di un discorso pedagogico come oggetto della didattica non è l'atto
dell'insegnare cui contrapporre l'atto dell'apprendere, ma piuttosto la totalità del rapporto docente-discente
nei diversi modi dati dall'età e dalla capacità in cui avviene.
Premesso quanto sopra, presentiamo una linea di proposte.
I. Presupposti:
- considerare gli alunni quali soggetti, ciascuno dotato di una personalità inconfondibile, aventi il dirittodovere di capire;
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- incontrare gli studenti, superando la contrapposizione docente-discente, per scoprire la funzione
dell'insegnare come un porre dei riferimenti, dei criteri, delle conoscenze, da insegnare in modo davvero
personale, passando attraverso una ricerca comune;
- chiarire il concetto dell'esercizio della libertà, così da rendersi conto, in particolare, del diritto e dello
spazio degli altri e da far proprie le responsabilità di attenzione e di intervento in favore di chi non riesce ad
usufruire dei diritti comuni;
- applicare una scelta culturale dove l'uomo sia davvero centrale rispetto agli interessi economici e agli
apriori ideologici.
II. Obiettivi:
- cercare sempre in qualsiasi situazione, su qualsiasi tematica, di condurre un esame serenamente ragionato;
occorre dare ragione di ciò che si insegna, di ciò che si comunica, di ciò che si apprende;
- proporre, e di fatto percorrere, itinerari che permettano un riconoscimento sempre più lucido di se stessi, in
particolare delle proprie capacità di intelligenza, della natura dei propri talenti personali, della forza reale
della propria volontà, della fiducia nella libertà e nella verifica della valorizzazione reale di questa libertà,
del proprio modo di impostare relazioni personali, di esprimere un pensiero davvero logico e documentato,
di partecipazione reale alle dinamiche comunitarie, di assunzione senza sconti delle proprie responsabilità.
III. Metodi:
- portare all'evidenza le motivazioni in ogni tipo di studio, di impegno di propota;
- formare progressivamente all'attitudine di interpretare, in maniera lucida e cosciente, i processi di
apprendimento;
- acquisire i linguaggi più appropriati e più espressivi per ogni tipo di comunicazione e di relazione;
- decodificare i vari linguaggi, in particolare quelli dei mass-media;
- discutere con realistico coraggio i programmi e rielaborarli in rapporto alle persone impegnate in quella
realtà scolastica, in quel particolare momento evolutivo e periodo storico, in quella specifica situazione
socio-geografico-culturale.
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TERAPIA
Tappe educative e metodi d'intervento
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La decisione di smettere
La presentazione diagnostica delle condizioni del tossicodipendente mostra che, di fatto, chi assume
abitualmente droga desidera evitarne le conseguenze dannose ma è assolutamente incapace di voler davvero
rinunciare alla droga stessa.
Come inserire allora l'avvio di un intervento terapeutico? Normalmente questo è possibile quando il
convergere di parecchie problematiche (come le difficoltà, anche drammatiche, di ordine economico; i
problemi, anche serissimi, di salute; la conflittualità piena di contorsioni e di violente spaccature con le
persone significative; guai giudiziari e sanzioni penali ...) rende il tossicodipendente disponibile ad affidarsi
ad una volontà che, diversamente dalla sua, è capace di una programmazione atta a diventare efficace
terapia.
Tutto questo comporta che i colloqui con chi è legato alla droga mirino non soltanto a puntualizzare e a
porre in evidenza tutti gli oggettivi danni del prolungare l'abitudine tossicomanica, ma anche, e soprattutto, a
suscitare il bisogno di una rapporto stretto e fiducioso con persone che assumano ruolo di guida e siano
capaci di accompagnare il tossicodipendente verso un sistema di vita veramente alternativo a quello al quale
l'aveva condotto la droga e davvero ricco di dignità.
In quest'ottica si può capire sia la grandissima utilità dell'esperienza comunitaria, proprio perchè
onnicomprensiva di tutte le occasioni per esprimere e verificare gli atteggiamenti basilari di una persona, sia
il fatto che in un primo tempo, più che processi veramente attivi, il tossicodipendente in terapia debba vivere
un distacco totale da tutte le vicende e i rapporti precedenti.
Parliamo di distacco totale perchè, per vincere una dipendenza che ha innervato ogni dimensione e ogni
rapporto della vita, occorre, in una prima fase terapeutica, un intervento che crei la possibilità di vedere in
un prossimo futuro e in un modo veramente nuovo l'esistenza; è una specie di ricorso al bisturi e
all'isolamento per permettere di liberarsi da una degenerazione che ha intaccato tutto.
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Il cammino educativo
Ricordando quanto detto in sede di diagnosi dal tossicodipendente quale persona incapace di autoanalisi in
ciascun aspetto importante della propria persona, della effettiva immaturità soprattutto per quanto attiene
rapporti e comunicazioni personali e della piena impotenza ad ogni piano per il proprio futuro, risulta
necessario impostare un percorso terapeutico che si relazioni in modo preciso alle indicazioni della diagnosi.
Per una presa di visione sintetica dell'iter terapeutico si osservi la tabella qui riportata.
ITER TERAPEUTICO
Esperienza di realtà:
- sul piano personale
- sul piano relazionale
- sul piano storico
AUTOCONOSCENZA
COMUNICAZIONE
PROGETTAZIONE
⇓
Superamento dell'egocentrismo mediante avvio e sviluppo
di rapporti umani significativi ed empatici.
Metodo:
- ergoterapia
- logoterapia
- crescita delle conoscenze e programmi personalizzati.
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Autoconoscenza
Conoscere se stessi è di certo anche la conoscenza del proprio carattere. Ogni persona è unica ed irripetibile,
per usare un paragone, come ogni volto è inconfondibile con quello degli altri; ma appunto come ogni viso
ha dei tratti presenti costantemente, così è per il temperamento.
Il primo impegno, almeno in ordine logico, a cui invitiamo i residenti in comunità è quello, mediante analisi
condotta anche attraverso precise domande diagnostiche (cfr. Tabella 3), di cogliere quale sia il carattere di
cui naturalmente è dotato.
Il carattere
Le componenti strutturali il carattere, che con il loro diverso rapportarsi danno la fisionomia caratterologica.
sono l'emotività, l'attività e la risonanza (Le Senne, 1951).
I. Emotività
Per emotività si intende quel tratto generale della nostra vita psichica per cui non possiamo subire un
avvenimento senza che esso provochi in noi una reazione organica o psicologica più o meno forte.
L'emotività si manifesta prevalentemente nella direzione degli interessi del singolo individuo; la diagnosi
precisa della emotività di ogni residente suppone che si conoscano precedentemente gli interessi del
soggetto considerato.
Il sintomo principale della presenza dell'emotività è la sproporzione tra l'importanza oggettiva di un
avvenimento e la scossa soggettiva con cui risponde l'individuo (per esempio sopravvalutazione di una
piccola cortesia o scortesia) e l'ininfluenza delle argomentazioni razionali nel determinare tale reazione.
Le manifestazioni dell'emotività possono cambiare da soggetto a soggetto, secondo le altre proprietà
costitutive del suo carattere e secondo l'educazione ricevuta.
L'emotività è per lo più un dato positivo in quanto favorisce un coinvolgimento intenso nelle vicende della
vita e in quanto aiuta ad essere sensibili alle persone, ai fatti della vita, alle manifestazioni del pensiero e
dell'arte.
Naturalmente, però, trattandosi di una dimensione della persona che anticipa la ragione e non è da essa
facilmente controllabile, può comportare diversi rischi.
Eccone alcuni:
- l'ira;
- l'esaltazione che illude o lo scoraggiamento che blocca;
- il consumo eccessivo di energie, soprattutto nervose e psichiche;
- giudizi affrettati sia sulle cose, sia soprattutto sulle persone;
- lo sbaglio di misura nell'affrontare le situazioni e gli impegni con la conseguenza o di sottovalutare gli
ostacoli , e poi trovarsi nell'incapacità di proseguire, o di sopravvalutarli rinunciando a proseguire verso
traguardi raggiungibili;
- l'incostanza sia nei lavori sia soprattutto nell'umore;
- la precipitosità nel parlare, con il rischio di seminare fraintendimenti e magari di offendere, anche senza
averne la minima intenzione;
- scelte poco lungimiranti e condizionate dagli stati d'animo nell'adempiere a responsabilità direttive e nei
rapporti umani.
In conclusione, chi è emotivo non deve inibire questa sua caratteristica, in sé ricca di potenzialità, deve però
esercitarsi molto per non permettere che l'eccessiva emotività lo porti in qualcuno o in parecchi degli
inconvenienti sopra descritti.
Evidentemente è opportuna qualche parola sulla persona definibile “non emotiva”: se si ha chiaro il concetto
di emotività non si fa fatica a capire che l'inemotivo puro non esiste, esistono soltanto persone poco emotive.
Spesso colui che appare non emotivo è un emotivo che si è trovato respinto. Bisogna inoltre distinguere gli
emotivi espansivi (socievoli, influenzabili, facilmente vanitosi) dagli emotivi inibiti, che bloccano le loro
reazioni con la stessa forza a cui esse ricorrono per manifestarsi.
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Questi emotivi mascherano la loro delicata sensibilità interiore con un eccesso di rigore e di apparente
freddezza.
Una volta su due un viso altero o compassato nasconde una sensibilità delicata e irritabile. Spesso queste
persone smentiscono l'apparenza del viso con vari movimenti corporei come un batter di piedi o di palpebre,
un gioco nervoso delle dita, un fremito della voce, qualche sobbalzo.
Questa inibizione ha spesso origine da repressioni, da cattivi trattamenti, da urti emotivi dell'infanzia, da un
tipo di educazione che crea un atteggiamento morale anormalmente rigoroso.
Questa inibizione tocca solo l'esteriorità del gesto, in qualche caso però può condurre all'apatia affettiva o
articolare una passionalità contorta che può esprimersi, aberrazione, con comportamenti crudeli (sadici o
masochisti).
Differentemente dall'emotivo inibito, l'inemotivo riesce a bloccare completamente le manifestazioni di
risposta a ogni eccitazione esterna o interna.
Come risultato si ha una impassibilità che può oscillare tra la padronanza di sé e l'apatia vera e propria.
Come l'emotivo partecipa subito con la mente e col cuore agli avvenimenti della vita, il non-emotivo si
amministra indipendentemente dal carattere drammatico o gioioso dei fatti e dalle situazioni commoventi
delle persone.
L'emotivo ha più slanci e in genere risulta più simpatico; il non-emotivo è più padrone di sé, ha vedute più
ampie ed è più costante.
Naturalmente l'inemotivo è più incline a diventare egoista, però la sua calma e le sue convinzioni, quando
sono davvero tali, lo portano a resistere alle suggestioni e alle intimidazioni.
Il non-emotivo riesce meglio nelle attività intellettuali, astratte o tecniche; l'emotivo riesce meglio dove
occorrono intuizione, creatività e senso artistico.
Quando il non-emotivo sceglie di essere aggressivo (normalmente però questa non è la sua “parte”), lo sa
fare se è intelligente in maniera freddamente raffinata, se è poco intelligente in maniera banalmente stupida.
Nel complesso rischia una povertà di vita affettiva, una chiusura alle “pascalliane ragioni del cuore” e una
tendenza al pragmatismo utilitarista.
II. Attività
L'attività, in senso caratteriologico, è di colui che agisce per effetto di un'innata disposizione all'azione;
talvolta, in soggetti che “manifestano” un'attività, dovuta soltanto a uno stimolo proveniente dall'esterno, è
facile sbagliare la diagnosi dell'attività; un emotivo, per esempio, può essere facilmente considerato attivo,
mentre, forse, si tratta solo di uno pseudo-attivo che agisce sotto l'influsso dell'emozione che in quel
momento lo invade.
E' attivo da considerare attivo, in pratica, colui che si sente stimolato all'azione dagli ostacoli che la rendono
ardua, mentre un inattivo si scoraggia davanti alle difficoltà.
La persona attiva è quella a cui si adatta la frase di Ribot ripresa da Malapert: “Bisogna che agisca!”. E'
indispensabile interpretare questo “bisogna”, nel senso che è un bisogno istintivo a spingere all'azione.
Gli avvenimenti esteriori non sono che dei pretesti, delle occasioni: se non ci fossero verrebbero provocati,
perchè vivere è agire.
Le persone attive godono indubbiamente dei vantaggi.
Trovano una grande forza contro le difficoltà del lavoro e della vita, sono prive di quegli stati di pigrizia e di
inerzia che spesso compromettono la riuscita dei compiti intrapresi; sono libere da stanchezze fisiche
generate da somatizzazioni per riluttanza alla fatica; riescono a produrre molto nei campi per i quali sono
dotate; non sono esposte a quelle parentesi e intervalli ingiustificati che compromettono il rendimento in
diverse attività.
Naturalmente le persone attive incontrano anche degli svantaggi. Non sempre il loro agire può essere
giudicato valido, appena si passi a una valutazione criticamente condotta; finiscono per disperdere energie in
molti rivoli secondari, senza farle confluire in quanto è davvero più prezioso; hanno poca attenzione alla vita
interiore; possono cedere in ritmi eccessivi per la propria salute; spesso non sono disponibili all'ascolto.
Portando il discorso sulle persone non attive, notiamo che pure esse usufruiscono di vantaggi: la loro attività
più facilmente ha delle motivazioni profondamente giustificate. Queste persone mostrano spesso spiccata
propensione a riflettere e a coltivare la vita interiore; sanno canalizzare meglio le proprie energie e si
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mostrano meglio disposte ad ascoltare con calma o con partecipazione.
Il rovescio della medaglia consiste nel fatto che questi soggetti sono facilmente scoraggiabili di fronte alle
difficoltà, anche a quelle razionalmente previste; tendono a procrastinare senza validi motivi, ma per
semplice resa alla propria pigrizia; finiscono per sottovalutare le proprie capacità; esigono di aver frequenti
incitamenti; possono lasciar incompiuti i propri lavori persino quando ben avviati e ben condotti; sono poco
portati ad allenare e a potenziare le proprie energie; in campo operativo sono più volte troppo dipendenti da
propri partners.
III. Risonanza
La terza proprietà costitutiva del carattere è la risonanza delle rappresentazioni.
Per risonanza in senso psicologico si intendono gli effetti sulla psiche di quanto, in un modo o nell'altro, è
stato oggetto di esperienza.
Quando gli effetti di un dato mentale attualmente presente alla coscienza rimuovono quelli dei dati passati,
la funzione primaria, o primarietà, prevale sulla funzione secondaria, o secondarietà, e il soggetto in cui si
verifica ordinariamente questa alternativa viene chiamato primario.
Se, invece, l'influsso persistente delle esperienze passate prevale su quello del presente, il soggetto in cui
avviene questo si definisce secondario.
Per i primari esperienza significa presenza viva del dato; per i secondari significa accumulazione di
impressioni ricevute.
Un esempio: si scrive facilmente sulla sabbia, ma si cancella anche facilmente (primari); si incide con
difficoltà sul marmo, ma quello che è stato inciso rimane (secondari).
Si parla di risonanza primaria quanto il soggetto tende a reagire in modo immediato, spesso molto intenso,
trovandosi però a distanza piuttosto breve con le reazioni moto attenuate.
Si parla di risonanza secondaria quando il soggetto tende a reagire con lentezza. a tendenzialmente restare
estraneo; però il trascorrere del tempo fa maturare le reazioni che possono non cancellarsi più e diventare
patrimonio consapevole della psiche.
Esaminando le persone primarie possiamo sottolineare quanto esse incontrino vantaggi.
Questi soggetti sono infatti pronti nel recepire gli stimoli; hanno facilità nello stabilire rapporti con persone
sconosciute; non vengono disorientati dagli imprevisti; in genere sono pronti di riflessi nell'interpretare le
situazioni e nel trovarvi felici orientamenti; sanno essere intuitivi nel cogliere gli stati d'animo; sono pronti
nel riparare gli errori, incontrano minori difficoltà nel guarire dalle ferite interiori causate dalle offese altrui.
A fianco esistono però palesi svantaggi.
Le persone primarie tendono a dimenticare esperienze costruttive e gioiose appena subentrano varianti
sgradevoli; sono tendenti alla volubilità; si mostrano precipitose e condizionate dall'impulsività; sono
facilmente suggestionabili di fronte a ciò che appare nuovo e attraente, con il rischio di entusiasmarsi per
qualcosa che in realtà non è effettivamente valido; nei momenti di sconforto corrono il pericolo di
abbandonare anche quanto sinceramente più si vuole o si ama.
Le persone secondarie hanno precisi punti di forza, in quanto esse tendono a riflessione costante e
sistematica; si trovano ad avere più propensione alla costanza ed alla continuità; sono facilmente puntuali e
nei loro impegni puntano ad essere metodiche; più facilmente sanno vagliare in modo opportunamente
critico le novità; valutano con ponderazione le proprie e le altrui storie personali; sono meno in difficoltà
quando occorre essere pazienti e ciò li mette al riparo dal cedimento alle tentazioni di rassegnazione scettica
o fatalista.
Nei soggetti secondari gli svantaggi più caratteristici risultano la propensione all'eccessiva abitudinarietà; la
lentezza nell'intuire cambiamenti e, soprattutto, nel trovarvi con prontezza risposte adeguate; il rischio di
misoneismo o almeno conservatorismo; il pericolo di vivere di ricordi o di programmazione per il futuro
senza valorizzare in modo opportuno il presente; difficoltà nello stabilire rapporti tempestivi con ambienti e
con persone nuove; tendenza a fermarsi su valutazioni magari ben ponderate ma ormai non più aggiornate.
Inoltre la tendenza a non recepire emozioni improvvise può portare i secondari alla pigrizia o all'inerzia di
fronte alla varianti dei problemi psicologici delle altre persone.
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Come quadro riassuntivo agli otto tipi caratteriologici derivanti dal diverso combinarsi di emotività (E) –
non emotività (nE), attività (A) – non attività (nA), primarietà (P), - soceondarietà (S), riportiamo - per la
sua utilità di primo, sinteticissimo approccio agli sviluppi offerti da questo metodo di analisi – il quadro
composto da N. Galli.
Tabella 1
TIPI CARATTERIOLOGICI
EAP
EAS
EnAP
EnAS
nEAP
nEAS
nEnAP
nEnAS
QUADRO DEI VALORI SPICCANTI
esuberanza giovanile
ottimismo fiducioso
potenza di lavoro
interessi spirituali
delicatezza
vivacità
sensibilità pronta
vita interiore
chiarezza
intuizione
perseveranza tenace
senso della legge
coraggio
obiettività
amore dei principi
regolarità
Tabella 2
TIPI CARATTERIOLOGICI
EAP
EAS
EnAP
EnAS
nEAP
nEAS
nEnAP
nEnAS
QUADRO DELLE DIFFICOLTA' SPICCANTI
estroversione incontrollata
attività precipitosa
impetuosità d'azione
autoritarismo
impulsività
volubilità
introversione
vulnerabilità
indifferenza
insensibilità
sistematizzazione logica
freddezza
esigenze organiche
freddezza
abitudine meccanica
impassibilità
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Tabella 3
DOMANDE DIAGNOSTICHE
Per vedere se si è prevalentemente EMOTIVI occorre chiedersi:
1. come controllo il sistema nervoso in una situazione difficile o improvvisa?
2. mi piace lasciarmi cullare dalle emozioni o preferisco portare tutto alla chiarezza razionale?
Per vedere se si è prevalentemente ATTIVI occorre chiedersi:
1. agisco d'istinto per bisogno di attività o perchè ho dei motivi precisi per applicarmi?
2. di fronte a un lavoro impegnativo o fastidioso preferisco intervenire subito o rimandare?
Per vedere se si ha RISONANZA primaria o secondaria occorre chiedersi:
1. le impressioni sia emotive sia intellettive suscitano subito delle reazioni o rimangono vive a lungo, magari
aumentando di peso con il passare del tempo?
2. mi dà noia l'essere ripetitivo, avere delle abitudini fisse oppure sono abitudinario e tendenzialmente
disorientato e infastidito di fronte alle novità?
In comunità, una volta giunti a stabilire con precisione a quale tipo caratteriologico un residente appartenga,
lo si invita e lo si guida a procedere per il potenziamento dei suoi lati positivi e la correzione dei suoi lati
svantaggiosi, soprattutto valutando e verificando quali siano le varianti del lavoro sul carattere suscitate
dalle diverse esperienze di ergoterapia.
L'argomento è anche oggetto frequente di colloqui e diventa tema per le programmazioni del futuro postterapeutico, visto il carattere costitutivo dei tratti temperamentali.
Le capacità
Altro momento è l'indagine sulle proprie capacità e attitudini per giungere a una conoscenza abbastanza
precisa dei propri punti di forza e delle proprie debolezza; ci si deve impegnare in valutazioni progressive e
articolate del patrimonio fisico, psichico e intellettivo.
Questi esami delle proprie potenzialità fisiche e intellettive sono meno semplici di quanto può sembrare;
spesso, infatti, ci si limita ad alcune valutazioni di massima, che non permettono una conoscenza davvero
adeguata delle varie potenzialità sul piano operativo-esperienziale.
Come aiuto a non fraintedere che cosa si intenda per intelligenza riportiamo le seguenti note di Pier
Giovanni Grasso.
Nel senso più lato, una condotta intelligente è una condotta che permette un nuovo adattamento alla
situazione e risulta da un processo di acquisizione.
“Intelligente” s'oppone in tal senso a “istintivo” (non acquisito). In senso più stretto il termine “intelligente”
è usato per qualificare le condotte di adattamento nuovo, nelle quali l'adattamento risulta dalla percezione di
un rapporto di pertinenza intrinseca tra i vari elementi della situazione.
Nell'atto intelligente si coglie il carattere di riferimento o dipendenza di un elemento dall'altro: non è solo la
contiguità spaziale o temporale tra gli elementi (necessità intrinseca) che viene colta, ma il fatto che un
elemento “porta” all'altro per una specie di “necessità intrinseca”.
Vi sono casi in cui si coglie quell'appartenenza interna dei dati della situazione o dal problema utilizzando la
memoria, poiché i dati non sono offerti tutti inizialmente: bisogna ricercarli e richiamarli e quindi la propria
reazione è fatta più o meno a caso.
Ma vi sono altri casi in cui si arriva a cogliere la soluzione del problema per mezzo di un'attività di
percezione o di comprensione, poiché gli elementi sono dati integralmente nella situazione iniziale (es. un
labirinto visivo, in cui il soggetto può vedere tutti i “meandri”, un problema matematico, di cui sono dettati i
dati).
Veramente il cogliere la relazione di appartenenza intrinseca importa, sovente, oltre che una semplice
attività di percezione, anche un processo di rappresentazione (immaginazione), per fare apparire la relazione
in una situazione che già la conteneva ma solo implicitamente. E per quanto entra la rappresentazione,
interviene un'attività di “invenzione”.
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Perciò, la condotta intelligente è spesso considerata dipendente dall'attività “inventiva”, oltre che dal quella
“comprensiva”.
Si ha dunque una condotta intelligente quando si coglie un'appartenenza interna tra gli elementi di una
situazione, in maniera più o meno immediata, per la mediazione di un'attività di immaginazione e di
rappresentazione.
Si suole anche indicare intelligenza come capacità di risolvere problemi. Bisogna però notare che non ogni
soluzione di problemi è dovuta ad attività intelligente. Anche l'attività istintiva tende a risolvere situazioni
problematiche. Inoltre non sono soluzioni intelligenti quelle dovute al caso (cioè senza comprensione dei
dati del problema), quelle dovute all'apprendimento o all'esperienza passata (la comprensione è realizzata
anteriormente e ora si applica solo una soluzione bell'è fatta).
La maturità
Punto vertice del processo di autoconoscenza è la verifica sulla propria maturità.
A questo proposito è indispensabile ricordare che la maturità ha due componenti essenziali:
- l'autonomia delle motivazioni: le ragioni che si muovono devono essere diventate così mie da poterli
conservare, anche quando nessuno mi aiutasse e anche di fronte all'opposizione e alla derisione di altre
persone;
- l'autenticità personale, che consiste in una conoscenza obiettiva, serena, positiva, di me stesso così da
ricordare senza scoraggiamenti i miei difetti e da valorizzare con costanza e con realismo le mie qualità.
Di particolare interesse, visto che, non di rado, il tossicodipendente iniziò a “farsi” con un'iniziazione
intrapresa per una pressione del gruppo frequentato, è il riflettere sul rapporto tra pressione culturale e
autonomia personale.
Per cultura qui intendiamo la sua accezione antropologico-sociologica, per la quale essa deve intendersi
come l'insieme di schemi di comportamento, di idee, di valori, che sono partecipati da un certo gruppo
sociale, esprimentesi in un determinato ambiente.
La cultura, in quanto espressione interiorizzata dell'influsso ambientale-sociale, è un fattore che può anche
risultare determinante nella formazione di una persona.
Resta il problema di una possibile sudditanza del soggetto di fronte alla cultura predominante, fino a non
raggiungere la propria maturità personale, a restare privo di serena capacità critica, di vera autonomia
interiore.
Tale incompletezza può trascinare un individuo ad accettare il parere degli altri, anche contro la propria
personale certezza o addirittura contro l'evidenza.
Il fenomeno si spiega con tre tipi di “distorsione psichica” (A. Ronco 1967).
I. Distorsione della percezione stessa: sotto la spinta della pressione di gruppo alcuni soggetti finiscono per
vedere come gli altri. Il loro stesso “sistema percettivo” si adatta a quello della maggioranza, persino nel
caso di un'evidenza oggettiva contraria.
II. Distorsione del giudizio: un buon numero di soggetti, dopo un periodo di dissenso dalla maggioranza,
proprio per scarsa forza psichica, invece di perseverare nelle proprie fondate convinzioni, passa al giudizio
della maggioranza.
III. Distorsione dell'azione: parecchi soggetti non resistono a comportarsi in modo diverso dalla
maggioranza, anche se persuasi che la maggioranza abbia torto.
Il bisogno di non apparire diversi dagli altri, di non essere ritenuti “fuori moda”, li fa cedere alla pressione
sociale e li fa aderire al comportamento maggioritario.
Per evitare simili “schiavitù culturali”, occorre potenziare le capacità di interdipendenza.
La possibilità di indipendenza da pressanti influssi di gruppo è legata:
- alla comprensione approfondita del significato di una situazione;
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- alla fedeltà a valori etici, divenuti davvero personali, attraverso una loro convinta assimilazione;
- ad un'attenta, approfondita valutazione dell'indipendenza tra i ruoli specifici della persona in campo sociale
e le sue autentiche caratteristiche individuali.
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Comunicazione
Nel nostro progetto educativo l'autoconoscenza, tappa e dimensione perenne della terapia, è correlata e
completata con la comunicazione.
Se è vero quanto afferma Jaspers che “la verità comincia a due”, la comunicazione deve essere sempre
meglio scoperta come una delle esigenze fondamentali dell'uomo. Rifacendoci a un filosofo assai diverso da
Jaspers, al Feuerbach, si può sottoscrivere che: “le idee scaturiscono soltanto dalla comunicazione. Di quello
che io vedo da solo non posso far a meno di dubitare: è certo solo quello che anche l'altro vede”.
Il valore terapeutico della comunicazione ci appare chiaro se teniamo presente la tipologia del
tossicodipendente. Come abbiamo affermato, egli, consapevolmente o no, è teso a fuggire la realtà, e questo
atteggiamento si traduce:
1. nell'annullare la percezione del proprio io,
2. nell'anestetizzare la coscienza,
3. nel non riconoscere l'esistenza di “tu” significativi,
4. nel rendere puramente strumentali i rapporti con gli altri,
5. nel cristallizzare la vita interiore ad una sola funzione, quella della fruizione stereotipa del piacere,
6. nel negare di fatto ogni dinamismo psicologico e storico.
Il recupero dell'autoconoscenza (prima esperienza di realtà) è inevitabilmente accompagnato dal recupero di
connessioni e di comunicazioni con gli altri (seconda esperienza di realtà) e con i dinamismi della storia
personale e collettiva (terza esperienza di realtà).
Affermiamo quindi che, se ciascuno è un “io” da conoscere, tutti sono un “tu” da incontrare in una
progressione storica finalizzata secondo un progetto personale.
In chiave terapeutica il comunicare:
- permette un'autoconoscenza obiettiva,
- stabilisce un concreto aggancio tra realtà omologhe (“io” e “tu” personali),
- rende consapevoli della molteplicità di aspetti e della dinamicità della vita interiore,
- pone le basi per la comprensione del senso di divenire storico dell'esistenza,
- è un trampolino di lancio di un'autentica, valida progettazione personale.
Il problema tecnico-terapeutico consiste nel trovare un metodo coerente per una efficace comunicazione,
tenendo del resto conto che essa esige originalità, spontaneità e rinnovamento perenne senza costrizioni
schematiche.
Metodo
Secondo il nostro progetto educativo, il metodo coerente per una terapeutica comunicazione deve tener
presente questi tre criteri:
1. deve garantire la partecipazione attiva, protagonista di entrambe le parti;
2. deve essere applicabile pressochè universalmente, senza necessità di selezionare i soggetti in base all'età o
alle caratteristiche socio-culturali;
3. pur nell'estrema adattabilità ai singoli, deve promuovere la comprensione di messaggi educativi ben
precisi, razionalmente proposti a priori (per esempio, il rifiuto dell'uso di droghe).
Schematizzando, la scelta si deve orientare fra i seguenti mdelli.
A. Modello comportamentista: la comunicazione mira a far apprendere comportamenti moralmente e
socialmente accettabili.
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Adottando questo metodo:
- è possibile proporre un messaggio educativo, però di contenuto piuttosto statico, semplificato e formale;
- l'autonomia del soggetto, almeno inizialmente, deve essere coartata;
- la comunicazione avviene soprattutto in senso, da “docente” a “discepolo”;
- è possibile in una certa misura l'adattabilità al soggetto, ma non a molti soggetti nello stesso tempo.
B. Modello psicanalitico: la comunicazione verte sui contenuti conflittuali inconsci che emergono nel
libero esprimersi del soggetto.
Questo metodo, applicato alla tossicodipendenza, presenta alcuni svantaggi:
- il contenuto educativo di base della comunità terapeutica (cioè negare l'uso di droghe) di fatto impone una
consistente limitazione al libero esprimersi del soggetto;
- dall'altra parte, l'uso di droga nel corso della terapia distorcerebbe i contenuti, inconsci e non, della
comunicazione;
- non è estesamente applicabile, non solo perchè richiede specifiche e collaudate competenze da parte dei
terapeuti, ma anche perchè espone al rischio di una terapia di durata indeterminabile, se l'inconscio del
soggetto non emergesse;
- il flusso comunicativo avviene soprattutto in senso, da “paziente” a “terapeuta”.
C. Modello logoterapeutico: la comunicazione mira ad analizzare le problematiche di fondo di cui il
soggetto è razionalmente consapevole.
Questo metodo, di scuola post-freudiana, risponde a tutti i criteri guida espressi inizialmente e verrà
illustrato nel capitolo “Logoterapia”.
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Progettazione
“L'esserci dell'uomo, finchè è, è progettante”.
Pur se sul piano filosofico si può non concordare con Heidegger, non si può misconoscere che sul piano
educativo-terapeutico diventi assolutamente necessario scoprire possibilità effettive in ordine al futuro del
proprio esistere, del proprio divenire, del proprio crescere.
Perchè possa esserci un progetto, non bastano immediata percezione di un valore e neppure l'intenzione che
ponga in rapporto di profondo, vitale desiderio con il valore stesso.
Per un progetto effettivo è indispensabile organizzare e coordinare le condizioni empiriche, mediante le
quali giungere sempre meglio all'autoconoscenza del progetto medesimo.
La droga è totale antitesi al progettare, perchè:
- sostituisce il piacere al vivere, il desiderare al volere;
- estranea dal flusso comunicativo e storico;
- deforma e uniforma le impressioni;
- non consente di percepire ciò che realmente si è, e quindi impedisce di raggiungere ciò che si può essere,
privando la persona della libertà di modificare se stessa e l'ambiente che la circonda.
Esito ineluttabile della tossicodipendenza, quindi, come abbiamo visto, è la progressiva mutilazione della
volontà, minata dal principio del piacere.
Questo danno si associa al quadro di deterioramento e impoverimento della vita affettiva che, sotto il
governo del principio del piacere, si riduce agli scambi per necessità materiali, riportando la persona alle
dinamiche affettive dell'infanzia, dove domina la logica attrattiva-richiamo in funzione del bisogno.
Nel tossicodipendente dunque, o nell'ex-tossicodipendente che sia semplicemente disassuefatto, in assenza:
- del ripristino di integre ed allenate facoltà volitive,
- di energie affettive da spendere in direzione allocentrica,
la progettazione è destinata o ad essere assente o a fallire, arenandosi contro gli ostacoli o ripiegando
sterilmente il soggetto su se stesso.
Un programma terapeutico della tossicodipendenza che non contempla la problematica della progettazione
personale non solo rischia di essere un programma monco, ma anche di non essere per nulla un programma.
Sia il terapeuta sia la persona afflitta dalla schiavitù della droga devono riscoprire, come afferma M.
Scheler, “la priorità del valore sul volere”, ma devono anche ricostruire una capacità efficace del volere. E'
essenziale cioè che la volontà si fondi su valori capaci di motivarla e che questi valori possano venir affidati
a una volontà forte e costante per renderli effettiva condotta e prassi di vita.
Per questo obiettivo diventano importantissime anche quelle esperienze di lavoro che, prima remotamente,
poi prossimamente, verifichino la consistenza della volontà nell'impatto con la fatica di organizzare,
coordinare, modificare le condizioni per non venir meno a traguardi insieme e concordemente decisi.
D'altro canto la realtà di un uomo non è adeguatamente compresa fermandosi a ciò che l'uomo è: bisogna
considerare ciò che quell'uomo può essere.
In ogni uomo – in questo chiunque può concordare con J. P. Sartre - il progetto come tensione in avanti, che
si struttura sulle scelte e implica il rischio, è parte costitutiva del soggetto umano.
Passando in concreto al nostro progetto educativo, la prima fase della progettazione personale è il
reinserimento nella società. Questa tappa va impostata e iniziata sempre durante il periodo di comunità.
Infatti, dopo un primo anno trascorso avendo come obiettivi primari l'autoconoscenza e un primo livello di
comunicazione, nel secondo e ultimo si lavora per giungere a una precisa, personalizzata progettazione.
A tal fine è indispensabile che alcune mete siano raggiunte.
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La prima di queste è la comprensione delle proprie potenzialità come risultato di una obiettiva conoscenza
dei propri tratti caratteriologici, delle possibilità di ordine fisico, delle capacità d'ordine intellettivo, delle
competenze sul piano operativo.
La seconda è quella della ricostruzione della volontà, verificata attraverso la piena indipendenza da supporti
artificiali e la risposta valida a compiti capaci di rilevare il progresso dell'autonomia e della
responsabilizzazione.
La terza è la concreta impostazione atta a risolvere problemi pratici più urgenti nel rientro, e quindi scelte
attuabili e attuate per l'abitazione e per la professione.
In più si deve essere in possesso di proposte continuative: a prosecuzione di una crescita umana insieme
cercata e raggiunta, si propongono all'ex-residente iniziative personalizzate che mantengano vivo il rapporto
costruito.
In particolare l'ex-residente può, in ben valutati casi, proseguire come operatore il cammino iniziato, con un
bagaglio di esperienze in più dei colleghi e in continuità di superamento logico-morale rispetto alla fase
precedente.
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Operatori di comunità
Il tossicodipendente in quanto tale, di fatto, non considera se stesso e gli altri come “persone”, cioè quali
soggetti unici e irripetibili degni di rispetto e mai da vedere come occasioni per opportunismi e
strumentalizzazioni. Vive chiuso nella sua ricerca della “roba” dalla quale dipende e questo circoscrive ogni
orizzonte a un ferreo egocentrismo edonistico.
Il tossicodipendente deve quindi essere gradualmente coinvolto in una convivenza nella quale si incontrino
davvero gli altri.
L'operatore di comunità per non fallire in simile obiettivo deve vivere determinate SCELTE
CARATTERIZZANTI.
Nell'ambito della testimonianza di valori, deve apparire completa l'esclusione dalla propria vita di qualsiasi
supporto artificiale.
Questo è di particolare attualità oggigiorno, vista la grande diffusione del ricorso a psicofarmaci, ad alcolici,
a quantità eccessive di tabacco.
L'operatore deve presentarsi come sincero e appassionato nel ricercare sempre la verità, in particolare senza
temere quella verità che è la conoscenza sempre più oggettiva di se stessi: è importantissimo che l'operatore
viva con coerenza il primato della verità sull'orgoglio. La fedeltà agli impegni, la disponibilità al sacrificio
finalizzato, l'efficace concretezza delle programmazioni, la coerenza delle scelte in campo personale
riveleranno ai residenti nella comunità come certi progetti di vita siano esperienze reali condotte
quotidianamente da persone direttamente conosciute.
A proposito dell'attenzione all'altro, gli operatori si presenteranno come davvero capaci di atteggiamento
pluralistico, sinceri nel riconoscere il valore di chi è diverso da sé.
Instancabile deve essere il confronto con ciascuno e concreto il porre in comune i valori di ogni persona.
L'impegno di condivisione attuato nell'incontrare e nell'accogliere con vera partecipazione personale il
vissuto altrui (ciò comporta anche, nei limiti del possibile, il lavorare. il vivere insieme e il venir coinvolti
nei momenti di verifica personale e comunitaria), è da considerare l'atteggiamento imprescindibile e
fondamentale di chi voglia porsi quale operazione per tossicodipendenti.
In coerenza con le scelte proprie, gli operatori di una comunità si devono sentire un corpo unico e non
devono confondere i procedimenti a sbalzi e le oscillazioni della condotta dei residenti come fallimento
delle proposte educative o come impermeabilità del residente alle testimonianze con le quali convive.
Nello specifico occorre che gli operatori si aiutino a decodificare i “messaggi” dei residenti, ricordando le
loro abituali non veridicità, l'estrema instabilità emotiva ala quale sono soggetti e la normale, in loro,
sostituzione della volontà con le emozioni velleitarie e non momentanee.
Questi particolari dell'essere e del comportarsi del tossicodipendente non devono venire considerati come
delle orrende, irreparabili deformità psicocomportamentali ma semplicemente come esisti e conseguenze
inevitabili in persone costrette a nascondere a se stesse natura ed effetti di sostanze assunte, di abitudini
contrarie, di costrizioni accolte e persino difese.
La saldezza su tutto ciò permette di offrire a ciascun residente un esempio di serenità, di equilibrio, di
convinzione, di coscienza di vita, tali da far sentire non solo inevitabili o utili ma anche belli e davvero
fecondi i periodi vissuti in comunità.
E' auspicabile che gli operatori di una comunità terapeutica offrano precise garanzie perchè la fase postcomunitaria non veda l'ex drogato solo di fronte a problemi, pratici ma fondamentali, quali quelli
dell'abitazione e del lavoro.
Volendo condensare in u traguardo, sintesi di altri traguardi, ciò a cui devono giungere i terapeuti dei
tossicodipendenti, si può legittimamente affermare che essi devono porsi come MAESTRI DELLA
DECISIONE VOLONTARIA.
E' la capacità di autentiche decisioni volontarie la vera vittoria sulle dipendenze psichiche, quali che siano le
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loro origini.
Insieme, e come condizione imprescindibile, gli operatori devono rivelarsi TESTIMONI DEL
RAGGIUNGIMENTO DELL'EMPATIA e come guide dei residenti perchè, anche per ciascuno di loro, sia
possibile simile taguardo.
La decisione volontaria
A. NATURA DELLA DECISIONE
Allo scopo di perseguire un rigore anche tecnico, ci aiuta a spiegare la decisione volontaria lo psicologo
tedesco H. Thome (Dinamica della decisione umana, 1964).
Secondo questo Autore la decisione è stata concepita ora come un atto sovrano della volontà o dell'Io, ora
come esito naturale di una lotta tra motivi più o meno forti.
L'esame dei protocolli (cioè delle schede costruite per seguire l'iter che porta una persona a una decisione),
sebbene non escluda l'intervento ultimo di un'istanza regolatrice generale (che si può denominare Io o
volontà), mentre tuttavia in luce che questa istanza è sottoposta all'influsso delle varie e conflittuali tendenze
e informazioni presenti nel soggetto stesso. Di fatto la persona che è chiamata a decidere non prova per nulla
l'esaltante sentimento di una sovrana libertà, ma soffre sotto il peso del conflitto tra varie idee e tendenze.
Non sembra neppure che la decisione sia l'esito di una lotta tra motivi, in cui vincerebbe “il più forte” o il
convergere del numero aritmeticamente maggiore di essi; questo suppone infatti che i singoli motivi
conservino un'intensità stabilita e fissa per tutta la vita, o almeno per lunghi periodi di essa, anche quando
non sono attualmente chiamati in causa dalla situazione.
I dati rilevano invece che l'intensità attuale di un determinato bisogno dipende in parte dalla situazione, che
minaccia privazioni specifiche o impone delle scelte, e, dall'altra, dalle opzioni o indirizzi fondamentali di
tipo esistenziale e/o morale propri di ogni persona, che danno significato alle singole soddisfazioni e le
gerarchizzano.
La decisione nasce così dall'incontro di un progetto generale, di uno scopo a lunga scadenza, con le
difficoltà o l'ambiguità della situazione presente, e si può descrivere come la ricerca che una determinata
persona conduce per chiarire a se stessa come attuarsi in un frangente in cui tale situazione fa nascere
conflitti o pare impossibile.
Perciò la decisione:
- è una reazione profonda, coinvolge cioè interessi e tendenze centrali del soggetto: non è quindi possibile in
una persona che non abbia precisa e critica autovalutazione; per questo essa si distingue da reazioni
superficiali, che dipendono piuttosto da fattori banali della situazione;
- è una reazione protesa al futuro e si distingue dalle reazioni impulsive che portano ad una soddisfazione
immediata e segmentale; quindi è l'asse portante per qualsiasi vero progetto di vita;
- è una reazione chiarificatrice di una situazione incerta e, come tale, si distingue dalla semplice
applicazione di una norma o di soluzioni preesistenti.
Tale chiarezza è frutto anche di un vero confronto e di un'approfondita comunicazione con altre persone più
o meno competenti e più o meno partecipi.
Si tratta insomma di una reazione in cui il soggetto crea se stesso, attuando e in parte ristrutturando scopi e
progetti generali preesistenti.
B. FENOMENOLOGIA DELLA DECISIONE
Si distinguono tre fasi nel processo della decisione:
1. la percezione della situazione, vissuta come impegnativa, tale cioè che coinvolge il senso della propria
esistenza, e come confusa, così che il soggetto prova un senso di “disorientamento esistenziale”;
2. processo di riorientamento con le seguenti componenti:
- “attività del potenziale di informazioni e di reazione”: il soggetto richiama tutte le informazioni rilevanti
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per la situazione e tutte le capacità di azione, per saggiare se e come sarà capace di chiarire la situazione;
- “centramento”: tutte le informazioni e previsioni sulle proprie reazioni sono continuamente riportate e
riferite al nucleo del problema (come realizzare me stesso, con le mie possibilità, in questa situazione?);
- “distanziamento”: il soggetto prova di tanto in tanto il bisogno di distaccarsi dalla situazione impegnativa,
per poter valutare più realisticamente i singoli fattori nella giusta prospettiva;
3. la soluzione, come riformulazione sia dei dati oggettivi, sia delle proprie possibilità, sia n particolare dal
progetto fondamentale preesistente.
Come si vede il progetto o indirizzo fondamentale dell'esistenza ha una doppia funzione:
- di fattore antecedente, in quanto è il nucleo motivazionale cui viene riferita ogni conoscenza e ogni
possibilità della situazione e del soggetto nella fase del centramento;
- di effetto o conseguenza, in quanto, in seguito al confronto con la realtà, la persona può percepire che un
certo progetto iniziale era impreciso, o esigeva addirittura delle modifiche di fondo.
Ogni decisione ha in sé qualcosa di definitivo: il soggetto tende a difendere la sua scelta da revisioni, ad
allontanare critiche provenienti dall'esterno o dall'interno (“irrigidimento”).
La decisione prende varie forme, che dipendono dalla situazione, dall'oggetto, dalla profondità degli
interessi toccati e dal temperamento del soggetto.
Tra le altre ricordiamo:
- le decisioni ardite: si hanno di fronte a pericoli imminenti; non si usano molte informazioni, ma ha una
funzione fondamentale l'esigenza di restare fedeli a se stessi.
Si trovano più facilmente in soggetti non ansiosi;
- le decisioni ritardate: si hanno di fronte a situazioni stazionarie.
La decisione viene presa piuttosto per sfuggire alla pena dello stato di indecisione, ed è caratterizzata da un
continuo riesame dei dati, per vedere se si possa sfuggire alla scelta.
Propria di persone ansiose, si può talora avvicinare a meccanismi di difesa;
- le decisioni calcolate; solo relativamente impegnative, lasciano la possibilità di calcolare più freddamente i
pro ed i contro;
- le decisioni crescenti; sono caratterizzate da un continuo processo di chiarificazione sia de proprio
generale sia della situazione e delle proprie possibilità.
Hanno di solito per oggetto gli indirizzi più generali dell'esistenza, da riprendere e riverificare nel corso di
tutta la propria storia presonale.
I terapeuti validi sono coloro che, indipendentemente dalla loro storia o dal loro status giuridico, sanno
inserirsi nei rapporti personali, resi impegno costante nella condivisione di un'esperienza comunitaria, per
portare a una sempre più lucida scoperta . teorica e soprattutto vissuta – delle scelte volontarie, atte a
migliorare la struttura della personalità, in particolare liberandola dai processi della dipendenza dalla droga.
Il raggiungimento dell'empatia
L'empatia è, per più aspetti, il contrario dello sballo.
Se questo è l'irresponsabile tuffarsi nel piacere prescindendo in tutto dagli altri, con i loro diritti, le loro
attese, le loro esigenze, l'empatia, invece, consiste nell'accoglienza sincera e completa, in una conoscenza
sempre più precisa e reciproca dell'altro, per imparare insieme a meglio comunicare e a meglio vivere.
L'empatia, suppone degli atteggiamenti ben precisi, quali:
- l'eliminazione di qualsiasi pregiudizio, non importa se sfavorevole o favorevole;
- il superamento costante di qualsiasi forma di invidia e di gelosia;
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- il non spaventarsi delle scoperte sgradite;
- l'acquistare un discernimento lucido e sereno sulle proprie e sulle altrui doti, come sui supporti e sugli
altrui difetti;
- la disponibilità a verificare e ad approfondire la conoscenza di se stessi;
- il perseverare nel chiedersi per quale motivo l'altra persona possa essere tanto dissimile da quello che noi
siamo o riteniamo di essere;
- la costante liberazione dai suggerimenti emotivi della simpatia o dell'antipatia;
- il coraggio di perdonare, il che non significa tutto tollerare ma tutto, con umiltà, cercare di ricostruire;
- il non amareggiarsi per in nostri errori di valutazione o per la non comprensione altrui;
- i saper ritrovare prospettive aperte e validi programmi concreti, rifondati su una migliore conoscenza e su
una più realistica valorizzazione di sé e degli altri, in particolare delle persone con le quali si convive.
E' possibile riflettere sull'empatia accostandola ai concetti di “symphaty” espressi da un pensatore inglese
del Settecento, lo Smith.
Ecco come il termine “simphaty” si puntualizza nell'opera dello Smith: “sebbene il termine “symphaty”
avesse originariamente lo stesso significato di pietà e di compassione, si può ora impiegarlo per esprimere la
facoltà di condividere le passioni degli altri quali esse siano” (Smith 1759):
La “symphaty” nella concezione smithiana è partecipazione non diretta, bensì mediata, di sentimenti, in
quanto è fondamentale l'elemento situazione: “siccome non abbiamo nessuna esperienza immediata di ciò
che sentono gli altri, non possiamo formarci nessuna idea di ciò che agli altri accade se non concependo ciò
che noi stessi avvertiremmo in una situazione simile”.
La morale della “symphaty” si risolve, quindi, in una valutazione: è l'atteggiamento dell'osservatore
imparziale, il quale è capace di uno sdoppiamento e di una transpersonalizzazione.
Piuttosto che una dottrina morale, quella dello Smith è una teoria generale della morale, uno studio del
processo con cui si formano i giudizi morali, e, pertanto, si risolve in una antropologia: ma la morale della
“symphaty” è anche un metodo, in quanto permette di capire le azioni degli altri e pertanto il mondo umano.
Con l'empatia si hanno modalità concrete di azione pedagogica. Il maggiore teorico di questo metodo
pedagogico è C. R. Rogers. Per esemplificarne i contenuti riportiamo la descrizione dell'atteggiamento
materno che dovrebbe dare al bambino il senso di essere accettato incondizionatamente: “Io posso capire
quanti ti piaccia picchiare il tuo fratellino (o liberare il tuo intestino quando e dove ti pare, o distruggere le
cose), ed io ti voglio bene e sono ben contenta che tu abbia questi sentimenti.
Ma anch'io desidero avere i miei sentimenti, e mi dispiace molto quando il tuo fratellino viene picchiato (o
divento triste e disgustata quando tu fai le latra cose), perciò non ti permetto di picchiarlo. I miei sentimenti
ed i tuoi sono ugualmente importanti ed ognuno di noi può avere liberamente i suoi” (Rogers, 1959).
Riportandoci all'analisi del superamento della dipendenza da droghe, possiamo ribadire che, quando si arriva
a una sufficiente, vera, costante empatia, siamo alla vittoria sulla tossicodipendenza perchè si sono superati
l'egocentrismo e la paura di crescere nell'accoglienza del reale e del vero.
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Ergoterapia
Nella storia della psichiatria con il termine ergoterapia si intendono trattamenti terapeutici ispirati alle tesi
dell'americano B. Rush, dell'inglese S. Tuke, del tedesco H. Simon.
Tenendo conto di queste moderne esperienze, ma cercando soprattutto di agire coerentemente con la
diagnosi del tossicodipendente quale persona che soffre:
- dell'involuzione della volontà costretta allo scontro con i desideri tipici di un atteggiamento esclusivamente
edonista;
- della sistematica non veridicità, conseguenza della logica di nascondimento di fronte a sé e agli altri,
propria della ricerca della droga,
intendiamo per ergoterapia un trattamento rieducativo nel quale l'agente terapeutico è l'impegno di lavoro
razionalmente ordinato e finalizzato a precisi obiettivi di allenamento della volontà e di scoperta delle
proprie possibilità operative in vari ambiti della realtà.
Entrando nel discorso più direttamente di metodo terapeutico, notiamo che anche l'esperienza conferma la
grande utilità della ergoterapia.
Scopi e motivazioni
Gli scopi della terapia del lavoro sono molto ampi e devono raggiungere un poco tutti gli aspetti principali di
una persona.
Impegnandosi con regolarità, fedeltà, rigore di programmazione, precisione di verifica, realistica creatività,
ciascuno acquista le capacità di impegno costante e competente, di costruttivo adattamento alle situazioni e
alle difficoltà, di intesa e di collaborazione con le altre persone con le quali si lavora e con le quali si
produce.
Quando il lavoro è il medesimo rispetto a quello praticato prima dell'esperienza di ergoterapia, uno scopo
indispensabile è il rivederlo in prospettiva nuova, non vincolandolo al puro obbligo di lavorare per un
guadagno necessario alla vita, ma alla possibilità di esprimersi e di rendersi utili, senza calcoli di immediato
tornaconto economico.
Quando il lavoro è diverso rispetto a tutte le esperienze precedenti, permette di apprendere qualcosa di
nuovo e comunque di verificare gli atteggiamenti di fronte a degli impegni scoperti come necessari, non
nell'ottica d un individuale profitto finanziario ma in quella di una verifica personale e di una sensibilità
comunitaria.
In sintesi si possono sottolineare come obiettivi i seguenti:
- espressione delle proprie potenzialità intellettive e manuali;
- esercizio comunicativo sistematico per la collaborazione e l'intesa nel gruppo di lavoro;
- sviluppo della capacità psicologica di adattamento alle situazioni;
- allenamento della volontà per fronteggiare momenti di crisi e di difficoltà.
Metodo
Il lavoro diventa ergoterapia quando allena a impegni tenaci ed è occasione, per tanti aspetti privilegiata, per
un confronto effettivo con noi stessi e con determinati settori della realtà nella quale, di fatto, dobbiamo
esprimerci.
Naturalmente questa perseveranza e questa verifica devono nascere e crescere in un confronto costruito su
comunicazioni franche e pertinenti.
Queste linee di principio richiedono un metodo preciso, che possiamo progressivamente descrivere come
segue:
1. si deve sempre rapportare ogni tipo di lavoro, con le sue regole, al temperamento delle persone che in
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esso sono impegnate;
2. tutti e tre gli ambiti del carattere (emotività, attività e risonanza), siano periodicamente verificati proprio
circa gli effetti conseguiti vivendo i rapporti richiesti dall'esperienza di ergoterapia;
3. l'aspetto da analizzare in modo sempre primario è l'effettivo coinvolgimento della persona in quella
determinata attività;
4. analizzando il coinvolgimento, si devono rilevare:
- le motivazioni, in particolare per stabilire se sono autonome o eteronome;
- le capacità di base nel settore, e le capacità di apprendimento con i ritmi relativi;
- gli esiti prevedibili, se quel tipo di attività divenisse prolungata;
5. è importante valutare comunitariamente l'utilità delle esigenze concrete della vita di gruppo;
6. salvo che nei casi di autentico imprevisto, il lavoro deve essere progettato in modo che ciascuno sappia
prima quanto lo impegnerà dopo.
Modalità operative
Le attività devono essere condotte in modo poi da venire eseguite con fedele perseveranza, nella rotazione
delle responsabilità, nel costante collaborare tra i vari protagonisti dell'esperienza, nella distribuzione
quotidiana dei programmi così che ciascuno partecipi a tutti i settori, verifichi il tipo di attitudine di cui è
dotato ed eserciti la volontà alla tenacia, al confronto, al realismo.
Nel concreto l'esperienza di lavoro si sviluppi secondo le scelte che qui di elencano.
1. Ogni operatore cerchi di rendersi conto di quanto richiedano, in doti ed in tempo, le diverse attività.
2. Gli operatori abbiano sempre una panoramica il meno incompleta possibile del procedere dell'ergoterapia.
3. Eventuali innovazioni mirino alla migliore coerenza con le rivelazioni di verifiche da condurre
frequentemente e comunitariamente.
4. Di fronte a rilievi o a lamentele se ne valutino le ragioni e, se queste risultano fondate, se ne prenda
spunto per un riesame comunitario della prassi ergoterapica in atto.
5. Si ricerchino comunque la puntualità nell'esecuzione, il rispetto delle programmazioni, l'agile adattabilità
agli imprevisti e a specifiche contingenze.
6. Vi sia una distribuzione delle responsabilità e dei carichi di lavoro a rotazione, attuata sempre on uno
spirito di sincera umiltà, di generosa condivisione, di prontezza all'aiuto reciproco.
7. Si tenda a una progressiva responsabilizzazione sia per gli aspetti operativi, sia per i programmi, sia per i
bilanci, sia per i possibili sviluppi di tipo amministrativo e di tipo commerciale.
8. Esista una ricerca, condotta insieme, dei miglioramenti, dei correttivi, delle proposte integrative, e,
quando fosse il caso, alternative.
9. Si conduca un costante, sereno e comunitario ripensamento del valore, dell'unità, delle motivazioni
concernenti quanto si compie e gli atteggiamenti di fatto vissuti durante gli impegni di lavoro.
10. Si tenga saldo e stabile il riferimento sereno e sincero a chi, in un determinato settore, è nominato
responsabile.
11. Quando i responsabili, i competenti, gli aiutanti non rispettano le tabelle di marcia concordate, se ne
scoprano i motivi in sereni colloqui, per eventuali, coraggiose reimpostazioni di programmi e/o di metodo.
12. A proposito della quantificazione nel lavoro, essa non ha senso, se significa una preoccupazione
produttivistica da azienda con l'obiettivo del profitto economico. Quantificare il lavoro è invece assai utile
quando diviene indicazione per una verifica oggettiva di almeno qualcuno dei seguenti aspetti:
- l'esame della propria volontà;
- il progresso nella perizia;
- l'allenamento a concordare con gli altri i traguardi e gli strumenti;
- il discutere sereno per rendere concreta, anche nel settore dell'ergoterapia, l'empatia;
- la scoperta di “misure” realistiche per le programmazioni.
Il quantificare il lavoro deve risultare un rendere più immediati e più continuativi i rapporti di condivisione,
favorendo pure una serena analisi di ciascuno, sia nella sua capacità di agire, sia nella sua capacità di
dialogare e di accordarsi.
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Logoterapia
Seguendo Frankl possiamo riassumere in quattro atteggiamenti le principali forme del vuoto esistenziale nel
quale è coinvolto il tossicodipendente.
1. La provvisorietà della condotta di vita, cioè l'abitudine di vivere alla giornata.
2. L'atteggiamento di vita fatalistico: incapacità di prendere in mano la propria vita, affidandosi al caso,
alle circostanze, ai condizionamenti sociali e psicologici.
3. La mentalità collettivistica, che consiste nell'annullamento della capacità di autodirezione, con delega
totale al gruppo.
4. Il fanatismo: rifiuto di considerare la personalità dell'altro diverso da sé.
Di fronte a simili situazioni si rivelano indispensabili, nel cammino terapeutico, la logoterapia e l'analisi
esistenziale.
Con questi due termini (Frankl, 1972) si intendono:
A. logoterapia: terapia che pone alla base lo “spirito”; nel termine il componente “logos” indica appunto il
fattore spirituale e il significato avvertito e accolto per una propria vita;
B. analisi esistenziale: in logica connessione con la logoterapia, essa è un metodo che aiuta a scoprire i
fattori significativi del proprio “esserci”, il Dasein di Heidegger, a rintracciare nel proprio vivere tutti i
possibili valori. L'analisi esistenziale è esplicazione dell'esistenza e interpretazione di essa nello sforzo di
estrinsecare le possibilità personali di attuare il significato della vita, via via scoperto e compreso.
In sintesi la logoterapia mobilita la capacità di autodistanziamento, necessaria per l'autoconoscenza; l'analisi
esistenziale stimola la libertà nella ricerca di significati da porre alla base della progettazione. Il tutto
attraverso una comunicazione espressa in incontri davvero personali e di vivo interesse esistenziale.
Articolazioni
L'impegno del comunicare, dell'analizzare la comunicazione per poter trovare indicazioni e strumenti di
terapia pone il tema dell'articolarsi concreto dei metodi sopra scritti.
Un'indagine essenziale, anche se difficile, è quella riguardante le comunicazioni affettive, tanto degli affetti
positivi quanto degli “affetti” negativi verso gli altri.
Prima ancora, sotto i profilo logico, è importante cogliere quale sia la reale valutazione che si ha di se stessi
e, spia efficacissima, è l'esaminare come si parla di se stessi soprattutto quando il linguaggio non avverte un
censore nel terapeuta.
Nello svolgersi di un'esperienza terapeutica fondamentali sono i momenti di colloquio per la revisione del
proprio comportamento, per l'indagine dei propri atteggiamenti, per l'analisi delle modalità di confronto con
le regole di vita e i programmi di azione.
Un campo privilegiato del comunicare, con tutte le conseguenti analisi e valutazioni indicative terapeutiche,
è costituito dalla ricerca delle strutture fondamentali del carattere, in particolare è opportuno fermarsi sulle
proprie caratteristiche psicologiche.
L'impegno di autoconoscenza si deve portare, come a traguardo più alto, sull'esame dei propri valori morali,
considerandone la consistenza, la profondità di convinzione, l'effettivo influsso sulla propria condotta.
Modalità
Circa le modalità concrete dei colloqui a scopo terapeutico, si possono indicare le seguenti distinzioni:
- colloqui individuali, con un operatore;
- colloqui comunitari, vere e proprie discussioni di gruppo, condotte da un operatore che è responsabile del
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loro svolgimento,
- colloqui di piccoli gruppi per problemi specifici o per programmare ciò di cui sono responsabili coloro che
appunto partecipano a questo momento.
Ricordando che, naturalmente, hanno sempre valore sia la conversazione spontanea, condotta in clima di
sincerità e cordialità, sia, d'altra parte, le discussioni a contenuto morale o sociale o culturale, si precisano le
sottoindicate distinzioni.
1. I colloqui individuali di natura loro siano, oltre che chiari, i più tempestivi possibile. Un atteggiamento di
tipo comunitario, però permetterà a tutti di sentire significativi quei momenti a prima vista solo individuali,
perchè ciò che è costruttivo per una persona è in realtà valido e prezioso per tutti.
2. Le conversazioni comunitarie sono come una vera e propria carta topografica per il cammino terapeutico.
In esse, infatti, gli operatori conducono le verifiche sia dei programmi sia dei comportamenti, le analisi dei
risultati e le ipotesi di nuovi impegni, lo studio delle situazioni dal punto di vista sia delle strutture sia degli
strumenti. Nell'eventualità sorgessero dei pareri difformi, si devono evitare contrapposizioni simili a quelle
di partiti rivali. Questo perchè in un'esperienza terapeutica ci possono essere differenze di opinioni ma non
esistono diversità di interessi, in quanto tutti tendono al miglioramento personale proprio e altrui, sotto il
profilo della maturazione psicologica e morale.
3. Nel caso di vita comunitaria ricca di mete, di problemi, di esperienze, si può richiedere anche il colloquio
per piccoli gruppi Questo per quelle precisazioni educative che riguardassero soltanto alcuni (ad esempio i
residenti nei primi, o negli ultimi tempi dell'iter terapeutico, per quel che riguarda questioni strettamente
tipiche della loro fase di esperienza) oppure per la verifica o l'impostazione di attività che, per accordo
unanime, siano state affidate all'esclusiva responsabilità di qualcuno.
Se è vero che la parola esprime, arricchisce imposta la vita, le modalità della logoterapiae e dell'analisi
esistenziale non possono essere completamente progettate a priori; le linee presentate sono una traccia che
normalmente costituisce una positiva regolamentazione perchè i colloqui siano di fatto coerenti con le loro
finalità.
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Crescita delle conoscenze e programmi personalizzati
Ciascuna persona ha bisogno, in modo non generico, di acquisire un patrimonio conoscitivo che gli permetta
di inserirsi nella vita sociale (parliamo, ad esempio, di conoscenze professionali e di conoscenze civiche).
Il tossicodipendente, censurando la propria vita interiore, i rapporti umani e la progettualità esistenziale,
ottiene conoscenze che risultano:
- totalmente prive di rapporto con il bagaglio conoscitivo pregresso per natura, contenuti e finalità, essendo
del tutto estranee dalla storia precedente l'assunzione di droga;
- inevitabilmente generanti devianza per intrinseca negazione di ogni aspetto comunitario, collettivo, a causa
della chiusura in uno stretto individualismo;
- necessariamente improduttive per una qualsiasi progettazione del futuro, a motivo della schiavitù nel “tutto
e subito”, unica logica di ricerca e di azione generata dalla dipendenza tossicomanica.
Perciò il vivere un iter terapeutico esige una crescita, oltre che un'autoconoscenza, nell'autodisciplina,
nell'autenticità del comunicare, nel realismo di progettare anche negli orizzonti culturali e nelle competenze
specifiche.
Le conoscenze da conseguire e da approfondire appartengono agli ambiti più diversi.
E' evidente che ogni insegnamento dovrà graduarsi secondo i criteri delle capacità di ciascuno e dovrà
impostarsi tenendo presente sia il cammino culturale pregresso, sia quanto si mostra più importante da
ottenere, man mano che i chiarisce a quale sbocco per il futuro orientare le singole persone.
Simile patrimonio conoscitivo sarà da raggiungere con momenti di vera e propria lezione, con conversazioni
insieme a persone competenti, con l'impegno – ed è il metodo normalmente più costruttivo – di eseguire con
serietà e costanza le attività inserite nell'ergoterapia.
Per rendere più preciso il discorso della crescita personalizzata delle conoscenze sono doverose delle brevi
note sull'apprendimento.
Fasi dell'apprendimento
L'apprendimento ha una fase informativa, una tendenziale e una operativa, e ha, di conseguenza, fattori
conoscitivi, fattori motivazionali e fattori di esercizio.
I. Ruolo dell'informazione
Nell'apprendimento strumentale è necessaria l'informazione sulle possibilità offerte dalla situazione per
soddisfare il bisogno è necessaria la rappresentazione dei successi e degli insuccessi passati per progredire
verso la soluzione e fissarla; allo stesso modo tale ricerca mostra l'importanza di conoscere i risultati, come
controllo delle “ipotesi” formulate (o almeno dell'efficienza delle azioni tentate); infine pare che si formino
delle strutture conoscitive legate alla soddisfazione apportata dall'apprendere.
Nell'apprendimento conoscitivo l'informazione è presupposta all'apprendimento, costituisce il materiale da
apprendere, il risultato dell'apprendimento e ne forma la ricompensa.
II. Importanza della motivazione
La motivazione che aiuta l'apprendimento deve avere un'intensità alta ma non esagerata; la motivazione
eccessiva disturba l'apprendimento, fissando troppo fortemente l'attenzione del soggetto sul fine, impedendo
così la formazione delle connessioni intermedie che sono necessarie a raggiungere efficacemente lo scopo.
La motivazione eccessiva poi non permette di percepire rettamente le possibilità che sono offerte, turbando
la fase informativa dell'apprendimento.
Nella situazione culturale d'oggi, in cui il soggetto ha bisogno di apprendere tante condotte o nozioni per le
quali, al momento dell'apprendere, per causa di inesperienza o di immaturità, può non sentire alcuna
attrattiva, è necessario suscitare una motivazione estrinseca. Tale motivazione non ha per oggetto la
condotta stessa da apprendere o i beni ad essa intrinsecamente, ma beni diversi, più immediati.
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III. Funzione dell'esercizio
Il fattore dell'esercizio entra come elemento essenziale sia nel condizionamento sia nell'apprendimento
strumentale.
La sua funzione è quella di fissare e consolidare le connessioni neurologiche e rappresentative in gioco
nell'apprendimento.
Oltre che a fissare tali connessioni, l'esercizio elimina i passi non necessari per raggiungere lo scopo
prefisso; si ha conseguentemente un miglioramento nella fluidità della condotta e nel suo rendimento.
IV. Teoria sull'apprendimento
Fra le diverse teorie sull'apprendimento quella conoscitiva, sostenuta da Tolman, Lewin, Krechewsky,
Harlow, Nuttin e altri, afferma che il principio che rende ragione dei fenomeni dell'apprendere è la
ristrutturazione dei campi conoscitivi del soggetto apprendente.
L'apprendimento fa in modo che uno stimolo diventi un segno di una certa ricompensa e di una certa
risposta per ottenerlo.
Krechewsky parla in questo caso di “ipotesi” di genere naturalmente conoscitivo, su diversi piani.
La teoria ha strette connessioni con lo strutturalismo in teoria della percezione, pur senza richiamarsi sempre
e necessariamente ad esso: l'apprendimento sarebbe una ristrutturazione delle forme percettive, che guidano
poi differentemente o selettivamente l'azione.
L'estinzione di quanto una volta appreso viene spiegata affermando che le “ipotesi” sono “docili”
all'esperienza: quando l'esperienza cessa di confermarle, le rispettive strutture conoscitive vengono
meno o vengono ristrutturate.
Sembra proprio che questa teoria renda ragione di tutti i fenomeni di apprendimento, se si escludono
quelli prevalentemente fisiologici di alcuni tipi di riflessi condizionati.
Il motivo più profondo del conoscere
Un poeta, l'Hebbel, ci presenta questa definizione: “la vita non è qualcosa, ma è un'opportunità
per qualcosa”.
Ebbene, siamo d'accordo.
Il guardare, lo studiare la vita come un compito da concepire e da condurre quotidianamente, come una
possibilità storica affidata all'impegno di ogni persona consente pure di scoprire il significato del tempo
dell'umana esistenza.
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