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Ti ho inconTraTa in un sogno

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Ti ho inconTraTa in un sogno
Ti ho incontrata
in un sogno
THIERRY COHEN
Ti ho incontrata
in un sogno
Traduzione di
Marina Karam
Titolo originale: Longtemps, j’ai rêvé d’elle
© Flammarion, 2011
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia
con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Conedit Libri Srl - Cormano (MI)
ISBN 978-88-566-2500-4
I Edizione 2013
© 2013 - Edizioni Piemme Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2013-2014-2015   -   Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)
Prefazione di
Monsieur Hillel Edimberg,
libraio
Mi chiamo Hillel Edimberg e faccio il libraio.
Quelli che mi conoscono bene – pochissimi – diranno
che sono anche un combina-matrimoni.
Negli shtetl, quei villaggi ai confini dell’Europa dell’Est
e della mia memoria, i combina-matrimoni, i chadkhan,
erano investiti di un enorme potere: sapevano trovare
l’anima gemella di ogni individuo di cui si prendevano carico. Incontravano una ragazza, un ragazzo, gli leggevano
l’anima e poi se ne andavano per le vie, i paesi e le contrade
a cercare colui o colei che erano nati dalla stessa scintilla.
Certo, sono anch’io un combina-matrimoni, ma di un
genere completamente diverso.
Non vivo in uno shtetl ma nel cuore di Parigi.
Officio in una libreria.
Sono lo chadkhan dei libri.
Sposo gli esseri umani e i libri.
Il mio negozio è un luogo d’incontri: un’agenzia matrimoniale, in un certo senso.
Se è vero che quasi tutti gli esseri umani cercano l’anima
gemella, sono convinto che essi siano anche alla ricerca del
romanzo del loro destino, in grado di rivelare una verità
senza la quale non potranno mai capire il significato del
loro cammino attraverso gli anni. L’opera della loro vita, il
loro romanzo luce.
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Ah, forse mi prenderete in giro leggendo queste parole
o, ben che vada, vi lascerete sfuggire un piccolo sorriso
sulle labbra. Lo stesso sorriso con cui si gratificano le persone originali, i pazzi e i bambini, quelli che pensano in
modo diverso ma con garbo, senza minacciare la tranquillità concessa dalle certezze. Del resto, tanto vale dirvelo
subito, se fate parte di quegli uomini e donne con i piedi
sempre ben piantati a terra, con riflessioni basate sulle sole
verità scientifiche, con gli sguardi volti soltanto ai limiti
della luce del sole, allora evitate questo romanzo. Non è
stato scritto per voi. Mi trovate brutale? Faccio solo il mio
mestiere e voglio risparmiarvi un incontro infelice. Come
libraio, sono tenuto ad avvisarvi, per non farvi smarrire su
una strada che non potrebbe portarvi da nessuna parte.
Sappiate pertanto che questo è il romanzo di un amore.
Ne sono già state raccontate tante, di storie d’amore,
penserete scettici. Davide e Betsabea, Tristano e Isotta,
Paolo e Virginia, Candido e Cunegonda, Solal e Ariane...
Si assomigliano tutte e sono tutte diverse. Le analogie vanno ricercate nella bellezza dei sentimenti, la loro particolarità nel dramma attorno al quale si svolge ciascuna di queste storie. Il lettore vi scopre sempre l’eco della sua vita,
delle sue speranze e delle sue paure.
È anche un romanzo sull’amore per i libri, quell’amore
che talvolta provano gli autori e i lettori attraverso le parole e i pensieri che si scambiano.
Una precisazione importante: non l’ho scritto io. Il mio
intervento si limita a queste poche pagine destinate a presentarvelo. Un’enorme responsabilità che, in un primo
tempo, mi aveva spinto a rifiutare questa missione. Poi mi
sono lasciato convincere. Per necessità. Fors’anche per vanità.
Jonas e Lior sono gli autori. Lasciate che ve li presenti.
Innanzitutto Jonas.
Probabilmente, influenzati dalle regole della buona
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educazione, vi stupirete di vedermi cominciare da lui. Risponderò che la letteratura non deve per nulla caricarsi di
costrizioni superflue. La sua preoccupazione sta altrove:
nella ricerca della struttura, della frase, dello stile, della
parola che saprà offrire ai lettori la bellezza di una storia,
lo slancio di una convinzione, la ricchezza di una lingua.
Inoltre, Jonas è l’istigatore di questo romanzo. Tutto parte
da lui e a lui torna l’essenziale. Capirete più tardi cosa voglio dire.
Jonas è il figlio che avrei voluto avere. Del resto, lo considero tale. Perché dovrei privarmene? Dopotutto, se la
sua strada ha incrociato la mia, se la vita mi ha consentito
di condividere momenti così belli con lui e se oggi mi ritrovo a fare da traghettatore in questo intrigo sentimentale, è
perché le nostre anime sono legate. Chiamatelo destino,
caso, o affidate alla fede religiosa la spiegazione del motivo
per cui alcuni esseri umani s’incontrano, si piacciono e
compiono un pezzo di strada assieme, non ha importanza.
Le anime non cadono una vicina all’altra senza che questo
abbia un senso. Un senso da indovinare, da scoprire, da
costruire.
Ma ecco che sono partito nelle mie elucubrazioni mistiche! Dimenticate ciò che vi ho detto, oppure mettetelo in
un cassetto della memoria e fate conoscenza con il mio
Jonas attraverso ciò che scrisse alla sua bella alla fine della
loro storia. Una confessione scritta per disperazione.
E adesso, Lior.
Lior... Mi basta scrivere il suo nome, che un sospiro tradisce i miei sentimenti per lei. Non fraintendete! Non si
tratta di sentimenti amorosi, sono vecchio e non ho più
queste pretese. Solo la bellezza dei libri ha ancora il potere
di accendermi lo sguardo con la fiamma del desiderio. Per
quanto riguarda Lior, mi riferisco alla particolare tenerezza che talvolta hanno gli uomini della mia età per quelle
donne che, attraverso la grazia della giovinezza, lo sguar9
do, il sorriso o non so quale altra espressione di nobiltà
d’animo, aprono loro una porta sul tempo e sanno portarli al di là degli anni, all’epoca della prima felicità. Lior è
una di queste. E ne ha ben donde! La prima volta che mi è
apparsa, ho creduto di vedere in lei la sola donna che io
abbia mai amato. Le assomiglia tanto! Diciamo piuttosto
che assomiglia alla donna che sarebbe diventata se i barbari non me l’avessero portata via. Che sia lei? A volte mi
piace pensarlo. Potrebbe magari essere la sua anima, tornata sulla terra per terminare quel percorso bruscamente
interrotto. Sui testi sacri sta scritto che un’anima, al momento della reincarnazione, chiede sempre di tornare vicino a chi ha amato.
Sì, lo so, comincio a perdermi sulla strada limacciosa
della mistica. Non posso farci nulla. Per me, la vita può
avere un senso solo se ha origine da logiche diverse da
quelle che hanno portato l’uomo a commettere tante atrocità in questo mondo.
Ma lasciamo stare, non è questo il punto. Si tratta
dell’avventura dentro la quale mi sono ritrovato.
In primo luogo, Lior e Jonas si presenteranno. Vi diranno da dove vengono, vi racconteranno la loro infanzia, la
loro adolescenza e le loro ferite. Le ferite sono importanti
per capire un individuo. Ciascuna di esse incide l’anima
fino a modellarla, a darle una forma propria. Basta sfiorarne le cicatrici per capire tutto di lei.
In seguito, si parlerà di morte.
Perché la morte, comparsa nella vita di Jonas e Lior, ha
agito come rivelatrice di un disegno.
Talvolta è il caso: il dramma opera sugli esseri umani
come l’uragano su una città. Prima del suo arrivo, tutto è
rumore, furia, movimento e confusione. Niente permette
più di distinguere il bello dal brutto, il superficiale dall’essenziale, il vero dal falso. Quando poi si scatena, la sua
forza è senza appello. Siamo ridotti ad aspettare, sperare,
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subire e pregare. Quando infine se ne va, restiamo stupefatti, con gli occhi spalancati su noi stessi e sugli altri, alla
ricerca di ciò che il dramma dell’uragano ha infranto o risparmiato, all’ascolto di ciò che il nostro cuore ci mormora.
Recuperiamo la lucidità e, solo allora, possiamo capire chi
siamo veramente.
In tutto questo, la morte di una persona cara è spesso
l’occasione di una nuova partenza.
Quando non ha devastato tutto.
Nel mio caso, portando con sé i miei genitori, i miei
parenti e la ragazza che amavo, aveva spazzato via tutta la
mia umanità. Ed è stato necessario tanto tempo e, più tardi, tutta la bellezza dei libri per ritrovarla.
Ma sono troppo chiacchierone, questo romanzo non riguarda la mia storia. Poco o niente. E in un modo strano.
Vi ho fatto venire voglia di leggerlo? Forse. Ma se così
non fosse, non dovete esserne dispiaciuti. Ci sono tantissimi libri da leggere e troppo pochi anni da vivere per rimpiangere le proprie intuizioni.
E c’è un romanzo luce che vi aspetta da qualche parte.
Possa questo essere il vostro.
E, se non lo fosse, possa almeno portarvi alla scoperta di
quello che, un giorno, vi appagherà.
Hillel Edimberg
Libraio e combina-matrimoni
Parigi, 20 dicembre 2010
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1
L’AMORE È UN SOGNO
Jonas
Primo sogno
Ero dentro a una storia strana e incoerente, come sanno
produrne i sonni di coloro che, durante il giorno, negano
l’essenziale della loro realtà. Cullato da un languore che
nulla doveva alla stanchezza, affondavo nelle profondità
della mia notte.
Fu come un bagliore nell’oscurità. Mi apparve il suo viso, squarciando le tenebre vaporose del mio sonno.
Un po’ come quando un’interferenza viene a imporvi,
per qualche secondo, un programma diverso da quello davanti al quale stavate sonnecchiando. Alcune immagini fugaci, sfocate, imprecise, ma la cui forza vi sorprende e
rompe il vostro torpore.
I suoi capelli... castani o neri. I suoi occhi... chiari, credo.
E tristi. Assomigliava alla modella di un quadro, ma la
sua bellezza rispecchiava i canoni di un’altra età. L’atteggiamento fragile, lo sguardo smarrito, sembrava correre
dietro a un ricordo che sapeva di non poter più raggiungere.
In realtà non sono sicuro di niente, non so descrivervela.
La notte mi ha rubato la sua immagine.
Poi mi ha visto o, perlomeno, si è accorta della mia presenza e un sorriso le si è disegnato sulle labbra. Ha artico15
lato una parola che non ho sentito ma che credo di aver
indovinato: «L’amore».
Ho cercato di avvicinarmi a lei, tendere l’orecchio, ma
la sua immagine è svanita nella mia notte.
Il sogno risale a cinque anni prima dell’inizio di quel
che sto per raccontarvi. Avrei potuto tacere questo episodio e i successivi e cominciare dal mio primo incontro con
colei per la quale ho deciso di scrivere questo racconto. La
mia storia avrebbe guadagnato in verosimiglianza, ammesso che una simile vicenda possa penetrare il mondo chiuso
di una realtà che serve da teatro ai nostri fantasmi. Ma io
appartengo alla schiera di coloro che pensano che essere
credibili sia innanzitutto una questione di sincerità. Ricorrere alla bugia, non foss’altro che per omissione, per dare
ai fatti il colore della verità, è un’anomalia cui mi sono a
lungo rifiutato di cedere. E quando mi è capitato di tradire
questa convinzione, per quelle che credevo essere ragioni
pure e nobili, le conseguenze me lo hanno fatto rimpiangere amaramente.
Ecco perché devo dirvi tutto.
Perché anche se questo sogno fu solo un bagliore effimero e sfavillante nel mezzo della mia notte, sconvolse comunque la mia vita. Capii subito che quella ragazza avrebbe ormai occupato la maggior parte dei miei pensieri, che
io e lei eravamo intimamente legati.
Potreste pensare che si tratti di un delirio d’autore a
corto d’ispirazione. Il mito della musa rivisitato da un cervello arido e indispettito. Oppure immaginare che non
l’abbia realmente vissuto come tale, ma che mi sia accontentato di ricostruire la storia alla luce di una visione romantica, per imbrogliarvi meglio e trascinarvi nei meandri
di questo intrigo sentimentale.
Non ho niente da opporre a questi ragionamenti se non
la lealtà e l’integrità con cui ho sempre cercato di esprime16
re i miei sentimenti. Ma non mi conoscete e quindi potete
non credermi, non leggermi o abbandonarmi strada facendo.
È proprio ciò che lei ha fatto.
Ed è per questo che scrivo.
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Lior
Sono stata una bambina che sognava di essere una principessa, un’adolescente che aveva fretta di vedersi invecchiare,
una ragazza romantica che s’immaginava donna, una seduttrice invaghita del suo potere.
Sono stata tutte queste donne e non ne ho amata nessuna.
Solo le donne possono capire cosa questo significhi.
Perché ogni donna le comprende tutte quante: la principessa, la ragazza, l’avventuriera, la compagna, la madre;
quelle che siamo state o che avremmo potuto essere; quelle
che pensiamo di diventare un giorno; quelle che non saremo
mai.
Le identità s’incontrano, si mescolano, negoziano i loro
contorni con le nostre storie, i nostri valori, e compongono
una personalità fatta di ombre e di luci, di verità e di artifici,
di colori e di sfumature.
Spesso pensiamo di essere solo una dualità: una bambina nascosta in un corpo di donna, una principessa avvilita
dal suo ruolo di sposa dominata, una donna che cerca la
sua anima nel corpo degli uomini, una madre che esiste
soltanto per i propri figli eppure tesa verso l’amore di suo
marito.
Ma siamo molto più complesse. Siamo tutte queste donne
assieme.
Esiste un linguaggio femminile, universale, iscritto nei
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recessi di ognuna delle nostre anime. Ci unisce e ci permette
di capirci, di immaginarci, di conoscere la nostra speranza
d’amore e la nostra solitudine. L’amore e la solitudine. Le
due parole davvero importanti del nostro linguaggio. Come
una scelta. Come due porte aperte su due mondi opposti.
Eppure, tutte noi sappiamo che queste due parole sono legate tra di loro, si contengono. Perché la scelta non ci appartiene, o solo in minima parte.
Questa sera la mia solitudine mi riassume e dice il mio
fallimento. Non ho scelto di piangere, non ho scelto di essere
abbandonata. So che non sarò più donna, più madre, più
amante e piango sulle mie illusioni passate.
Mi appoggio a quel poco di dignità che mi resta e faccio un
giuramento: non voglio mai più credermi una principessa,
mai più immaginarmi donna e madre. Giuro che la solitudine, ormai, sarà una scelta.
Ho scelto di cominciare il mio racconto con questo brano del mio diario poiché è la chiave essenziale per capire la
storia che seguirà.
Le donne scrivono molto. Sulla carta, sullo schermo, nel
silenzio del loro cuore. Cose sincere, futili, forti, poetiche.
Sono rare quelle che lo confesseranno. Per quanto mi riguarda, scrivo quando le parole superano la mia mente e la
lettura non basta più a placare i miei tormenti. Leggendo,
diluisco la mia storia in quelle degli autori, semino le mie
angosce nell’emozione degli intrighi. Mi smarrisco, scordo
me stessa. Scrivendo ritorno in me, circoscrivo le parole
che sconvolgono la mia esistenza, fermo la loro folle corsa
e offro loro una via d’uscita. Ma amo così poco il mio modo di essere che quest’esercizio è doloroso.
Ho scritto questo testo quando l’ultimo uomo della mia
vita mi ha lasciato. Quando, nel cuore di una notte senza
fine, stanca di piangere e di graffiare i miei ricordi, la scrittura mi è sembrata la sola possibilità di urlare. Parole lan19
ciate all’assalto del mio dolore, per chiudere questo episodio della mia vita, per finirla con gli uomini e decidere di
non amare mai più.
Per far credere a me stessa di essere una donna libera.
Libera di scegliere la solitudine.
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2
L’AMORE È UN PERCORSO
Jonas
Dirvi chi sono stato, chi sono diventato.
Sono stato scrittore e non lo sono più.
Quando ci si può spacciare per scrittore? Non appena
la passione della scrittura ci cattura? Alla fine di un primo
testo la cui forza ha saputo strapparci dalla futilità? Non
appena un editore ci accorda la sua fiducia?
Quando cessiamo di esserlo? Quando la voglia di scrivere si affievolisce? Quando la passione non alimenta più
il fuoco della creazione? Quando i lettori, se si ha avuto la
fortuna di averne, ci hanno dimenticato?
Quanto a me, fin dall’infanzia riempivo quaderni di note, di poesie, di piccoli racconti, ma non mi pensavo scrittore, non credevo di diventarlo un giorno. Scrivevo per
evitare di parlare. Perché le parole, nella mia bocca, non
trovavano mai l’ordine nel quale dovevano disporsi, né il
senso che avrei desiderato dare loro. Le mie esitazioni, i
miei balbettamenti suscitavano lo scherno dei miei coetanei e mi spingevano al silenzio o, perlomeno, a limitarmi a
risposte brevi, espressioni lapidarie, espulse in un soffio.
Mi tenevo sempre in disparte dai bambini della mia età,
ad alcuni passi dai gruppi di gioco, dai bulletti e dalle belle ragazze. Mi sarei tirato indietro per sempre, anche dopo la scomparsa della mia balbuzie. Una leggera distanza
che mi aveva permesso di preservarmi, di non essere al
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centro dell’azione ma solo di diventarne un osservatore
attento.
Vedere il mondo dall’esterno vi svela tutta la sua ipocrisia, le false apparenze e i giochi di ruolo che costituiscono la trama delle bugie, delle relazioni superficiali ed
effimere. Mi sembrava che gli altri recitassero sempre. Si
giuravano fedeltà, si abbracciavano, s’innamoravano, si dichiaravano amici per la vita, si attribuivano qualifiche glorificatrici per futili motivi.
Osservavo, analizzavo, mi allontanavo.
Acquisii così un carattere complesso, fatto di intransigenza, di fermezza e di un’intolleranza mossa dall’integrità. Ero alla ricerca della verità, incapace di comporre, di
mascherare i miei sentimenti, di rivestire le mie idee. Quindi, piuttosto solitario.
Scrivere fu allora per me il mezzo per raccontare i mondi che mi abitavano, per esorcizzare le mie paure, per gridare la mia voglia di esistere.
Mio padre era un operaio specializzato in un’azienda
che fabbricava oggetti di ferro battuto. La mamma era
parrucchiera. Si amavano di un amore puro, profondo,
che un solo sguardo bastava a esprimere. Non so se si erano amati, nel senso romantico del termine, fin dal loro primo incontro. Penso piuttosto che avessero considerato la
loro unione come un dato di fatto. Perlomeno è quel che
ho sempre voluto credere. Ma sono certo che li univa un
amore vero. Un amore costruito, basato sul tempo, sulla
pazienza, sul dono di sé.
Vivevano l’uno per l’altra, l’uno attraverso l’altra ed entrambi per me.
Giustificarono la mia passione per la scrittura e per la
lettura, e la mia solitudine con una sedicente precocità che
la scuola non aveva saputo identificare. Dicevano con fierezza, a tutti quelli che volevano ascoltarli, che un giorno il
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loro figlio sarebbe diventato uno scrittore. Non li ho mai
smentiti.
Con il passare del tempo, la lettura ebbe la meglio sulla
scrittura. Scrivevo solo brevi novelle, per abitudine, oppure poesie che dedicavo, attraverso i sogni e lo spazio, a
colei che un giorno avrei amato.
Poiché, ne ero convinto, c’era una ragazza da qualche
parte, che mi era destinata e che avrei riconosciuto al primo
sguardo. Non pensate che mi compiacessi a lasciare che un
romanticismo sdolcinato cullasse i miei desideri. La ragione dominava le mie passioni. Consideravo l’amore come
una certezza, un sentimento che mi aspettava nel futuro:
sarebbe arrivato, avrebbe preso naturalmente posto nel mio
cuore e mi avrebbe proposto di educarmi. Sull’esempio
dell’amore che si davano i miei genitori avevo definito le
mie esigenze e costruito i principi che mi avrebbero condotto verso la donna cui avrei dedicato la mia vita: non mentire
mai a me stesso; non lasciare che l’orgoglio prendesse il controllo dei miei pensieri, delle mie azioni; fare della condivisione e della giustizia i fondamenti di una relazione ricca di
emozioni, di silenzi, di sguardi profondi e di parole sensate.
La mia vita affettiva fu quindi poco gloriosa. Fui attratto
e sedotto da alcune ragazze ma, in definitiva, nessuna contò sul serio.
O, piuttosto, contarono tutte; ed è in questa uguaglianza che si rivelava la banalità dei nostri rapporti. Avevo
amato la loro bellezza, la loro sensibilità, la ricchezza e la
complessità delle loro personalità, ma in maniera contemplativa. Le loro qualità mi colpivano i sensi, mi sfioravano
il cuore ma non vi s’insediavano mai. La passione dei primi
giorni si trasformava ben presto in una relazione più formale, dove avevo l’impressione che ognuno interpretasse
la sua parte. Quella dell’innamorato o dell’innamorata,
della coppietta, dei possibili fidanzati.
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Quelle ragazze desideravano momenti romantici, scene hollywoodiane, pegni d’amore da riferire alle amiche,
alla famiglia, promesse future da raccontare, atti eroici di
cui potersi vantare. Cliché presi dal cinema, dagli amici,
dai testi delle canzoni alla moda. Mi accontentavo di entrare nella loro vita, di sistemarmi su uno strapuntino.
Tuttavia, la tenerezza nei loro confronti non mi abbandonava mai. Ma la tenerezza è poca cosa, di fronte al desiderio di amore. E, su questo piano, avevo poco da dare e
poco da ricevere.
Quando, a volte, si azzardavano a sondarmi sul possibile evolversi della nostra relazione, mi chiedevano parole
d’amore, mi facevano domande su ciò che mi aspettavo da
loro, rispondevo con sincerità e, spesso, le ferivo.
La sincerità non si addice al romanticismo. Ne denuncia
la leggerezza, la tendenza a esagerare le situazioni, a mascherare i sentimenti, a truccare le parole.
Con alcune, la nostra storia finì in lacrime e quei drammi mi sembrarono eccessivi rispetto ai sentimenti che avevo investito. Mi dispiaceva vederle soffrire tanto ma sapevo che mi avrebbero presto dimenticato. E quando,
qualche settimana dopo, venivo a sapere che avevano trovato un altro innamorato, che dicevano di essere felici e
facevano progetti per il futuro, la triste realtà mi appariva
allora nella sua più chiara evidenza: non avevano amato
me, ma l’idea dell’amore. La prova di aver vissuto faceva
parte di quella commedia recitata al primo sguardo, al primo bacio, alle prime false speranze, e mi sgomentava il
pensiero che, se mi fossi lasciato sedurre dalla dolce musica dei loro sentimenti, se avessi dimenticato i miei principi, avrei potuto abbassare la guardia, lasciarmi compromettere, fidanzarmi, addirittura sposarmi e accettare una
vita in cui mi sarei perso. Ebbene, era un altro che si accingeva ormai a ricoprire quel ruolo.
Le mie convinzioni ne uscivano rafforzate.
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Una sola donna mi aspettava.
Una sola mi era destinata.
Una sola avrebbe saputo condividere la mia vita, diventare la madre dei miei figli, invecchiare al mio fianco.
Dovevo solo aspettarla.
M’iscrissi alla facoltà di Lettere. Avevo forse la segreta
speranza di avanzare lentamente, su questa via, verso la
scrittura di un romanzo? Non lo so. Talvolta il pudore copre alcuni ricordi quando li trova pretenziosi. Ma, dopo
essermi laureato, mi feci assumere come correttore di bozze in una rivista di moda. In quell’universo femminile, la
mia personalità si rivelò una carta vincente. Il mio fisico
piaceva, il mio carattere destabilizzava, la mia cultura letteraria affascinava, secondo il principio che nel regno dei
ciechi l’orbo è re. Altezza e muscolatura, ereditate da mio
padre, e fermezza dei lineamenti, frutto del mio lunghissimo periodo di asocialità, mi davano un’aria da duro. Il
candore e la tenerezza rivelavano la mia parte di femminilità, creando un personaggio che attirava le donne alla ricerca di una compagnia ma non troppo intraprendente. Il
contratto con questi esseri amanti della libertà, dedicati
alla conquista, sicuri del loro potere, era chiaro e mi conveniva: una notte, se non parecchie, momenti piacevoli,
qualche uscita, un po’ di umorismo, conversazioni appassionate, nessun sentimento superfluo.
Così ero quando feci quel sogno. Fu per questo che mi
sconvolse; o forse perché annunciava il dramma che fece
deragliare la mia vita?
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Lior
Mi sono sempre fatta fregare dagli uomini. Mi svelavo troppo, e conquistarmi diventava semplicissimo. Due parole
tenere, una promessa e mi credevo innamorata. In realtà,
ho sempre creduto che esistere significasse appartenere. A
una famiglia, a un uomo.
Forse perché ero alla ricerca del padre che non ho avuto
e della famiglia che non si era accorta di me? Psicologia da
principiante. Ma c’è spesso una parte di verità nelle analisi
semplicistiche.
Avevo due anni quando mio padre se ne andò di casa
per inventarsi un’altra vita. Non gliene voglio. Per avercela
con un padre bisogna avergli voluto bene, aver conosciuto
un prima e un dopo. Non ho alcun ricordo di lui. Solamente qualche foto su cui uno sconosciuto dall’espressione dura sembra già annunciare la sua partenza. In compenso, ce l’ho con mia madre per aver lasciato un posto
così grande a quell’assente. Un posto carico di silenzi, di
lacrime, di lamenti ai quali mia sorella Amandine e io fuggivamo rifugiandoci nelle nostre camere. Lei per studiare,
io per leggere.
La scuola non mi ha insegnato niente di me. Non ero
particolarmente bella, nemmeno troppo interessante per i
miei compagni di classe. Gli sguardi scivolavano troppo
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rapidamente sul mio volto perché potessi leggervi un’emozione, un giudizio capace di dirmi chi fossi e quanto valessi.
Sono cresciuta immaginando di essere un’altra, altrove.
Non ero quella ragazza fragile, invisibile, imbarazzante.
Non ero nel presente. Ero in altri mondi, la maggior parte
del tempo nel futuro, laddove mi attendeva una bella storia. In un’altra casa, con un’altra madre, un’altra sorella.
Un padre, a volte. Ma il più delle volte ero con un principe
azzurro che mi amava e le cui parole sfioravano gli impulsi
della mia anima, le mani mi disegnavano i contorni del
corpo, le labbra studiavano i lineamenti del mio viso.
Della giovinezza non mi restano altro che i sogni e una
lunga serie di aneddoti.
Fin dove i ricordi mi vogliono accompagnare, mi rivedo
nella mia camera, campo trincerato al riparo dagli assalti
isterici di mia madre e dalle collere di mia sorella. Ho un
libro in mano. Una storia d’amore. Una ragazza sola, un
bel ragazzo, il colpo di fulmine... I miei occhi corrono sulle pagine e sorrido, fremo. Sono felice.
In altri termini, fin dalla più tenera età, mi sono immersa nelle onde tiepide di un romanticismo sciropposo che,
se mi permetteva di aprire parentesi di felicità chimerica,
intorpidiva la mia immaginazione e alterava il mio discernimento.
Ma la post-adolescenza mi offrì una rivincita. Il mio corpo si trasformò e divenni una ragazza attraente. Gli occhi
dei ragazzi cominciarono a indugiare su di me. Finalmente
esistevo. Credetti allora che la fiamma che illuminava le loro pupille fosse la prima espressione di un amore che erano
pronti a dichiararmi. Ma indicava solo il loro desiderio di
maschi in divenire. Mi considerarono quindi come un oggetto da conquistare. Una conquista facile, perché sempre
in attesa. La ragazza ingenua da sedurre e lasciare senza
rimpianti, senza precauzioni. Detestata dalle ragazze per
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essere così bella e così disponibile, non amata dagli uomini, tuttavia non ho rinunciato a credere che ogni sguardo
fosse interessato alla mia vera personalità.
Mi sono aggrappata a quest’idea come una disperata.
Non imparavo nulla dalle mie disillusioni. Quando un
ragazzo mi lasciava, incolpavo me stessa. Ero stupida, non
abbastanza divertente, non sufficientemente bella per trattenerlo. Forse esagero, beninteso. Alcuni dei miei ragazzi
sono stati più premurosi di altri. Li ho amati ancora di più.
Ma alla fine si sono tutti annoiati di me. Va detto che offrivo solo una pessima presenza. Una ragazza romantica, appiccicosa, soffocante, quando invece andava di moda il
distacco, la distanza, la disillusione. Che cosa dire a un uomo per interessarlo? Di cosa parlargli per divertirlo? Mi
accontentavo di correre tra le loro braccia, di sorridere alle loro battute, di dire sì ai loro desideri. Le braccia degli
uomini avevano il potere di farmi viaggiare, anche se sapevo che allo scalo successivo mi avrebbero scaricata.
Scelsi il mestiere di infermiera ed entrai nella scuola di
rue de Reuilly, nel xii arrondissement. Andai a vivere in
una residenza universitaria. Ho amato la vita da studentessa. Mi sentivo diventare donna, una donna libera, viva,
padrona della sua vita. Una camera di dodici metri quadrati può sembrare grande quando si apre alla vita.
Fu in quella residenza che conobbi Elsa. Stava per ottenere il diploma di estetista. Biondina dal corpo tondo e
nervoso, Elsa era una ragazza un po’ folle, sorridente, a
volte eccessiva, sempre divertente. Trovava i suoi lineamenti troppo comuni, aveva un corpo troppo tozzo e cercava di mistificarsi con l’aiuto di abiti sexy e di un trucco
talvolta esagerato. La trovavo bella, affascinante, simpatica.
Ma gli uomini si fermavano a ciò che lei desiderava mostrare. Diceva di invidiarmi il corpo magro, gli occhi e il
sorriso, che secondo lei non erano ben valorizzati. Lascia30
vo che si occupasse di me, mi trasformasse il taglio di capelli, mi truccasse, mi vestisse, senza tuttavia arrivare ad
accettare i suoi eccessi.
Lo stesso desiderio di essere amate e le stesse disavventure finirono per rinsaldare la nostra amicizia e decidemmo di lasciare la residenza universitaria per condividere un
appartamentino.
All’inizio uscivamo spesso. Da provinciale che scopriva
la vita parigina, lei voleva conoscere tutto, vedere tutto, andare a tutte le feste, uscire con tutti gli uomini. Mentre viveva questa serie di avventure come un’ascesa verso il successo, come la prova del suo incredibile fascino e la promessa
di un avvenire felice, nel mio caso, ogni nuovo fallimento
colpiva la mia parte di sogno, indeboliva la mia passione.
Amandine se ne andò di casa qualche mese dopo di me.
Aveva incontrato un dirigente commerciale ed era andata
a vivere con lui dall’altra parte della Francia. Mi chiamava
tutti i sabati pomeriggio, a un’ora fissa, mi descriveva il
suo appartamento, il suo lavoro nell’amministrazione, il
suo desiderio di avere bambini. Poi, per godere ancora di
più del suo successo, affrontava la mia vita – come un poliziotto malvagio prende d’assalto un accampamento di
zingari – con ironia e disgusto. Le sue domande invadenti
riguardavano i difetti delle mie scelte: il mio futuro lavoro
incompatibile con una vita di famiglia, le mie amiche superficiali e cattive consigliere, i miei amori precari e avvilenti, la mia irresponsabilità. Facevo visita a mia madre
una volta al mese. La trovavo sempre più debole, più vecchia e più bassa. Ancora più disperata per aver perso le
figlie. E, quindi, più affettuosa quando ero presente. Era
stato necessario lasciarla per esistere finalmente.
Feci il mio stage di fine corso al pronto soccorso dell’ospedale Necker.
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Per me l’ospedale era – ed è – un universo singolare,
quasi magico, in cui lo spazio prende il sopravvento sul
tempo e la vita recupera la sua prima definizione, fatta di
valori e di priorità. Il ritmo è diverso, i gesti più lenti, i
passi felpati, i suoni soffocati. Ognuno è cosciente dell’intensità dei sentimenti che attraversano i luoghi, delle sfide
che si affrontano in ogni stanza. I drammi ridanno un senso alle esistenze, riuniscono le famiglie, rivelano gli amori
dimenticati. La paura spazza via le finzioni, i giochi di ruolo, e ognuno torna a essere quello che è: un essere umano
a confronto con la fragilità della vita, colto dalla possibile
fine. In quest’universo chiuso e tormentato, l’infermiera
diventa un angelo che vaga da un letto all’altro, cura, rassicura. Gli occhi la seguono, sperano in una sua parola, in
un sorriso che lasci scorgere la possibilità di un futuro.
Mi sentivo forte di questo potere. Per la prima volta nella mia esistenza avevo l’impressione di essere nel cuore
della vita vera, di avere un ruolo importante da svolgere, di
contare per gli altri. Mi piaceva rassicurare, confortare, come pure curare. Il lavoro mi appassionava. Spiavo gli scoppi di vita, i gesti d’amore di un figlio per sua madre e di un
marito per sua moglie, i sorrisi tranquillizzanti dei bambini
per i loro genitori tremanti.
Mi dedicavo al mio mestiere, completamente, con passione. E dimenticavo l’amore, terreno sul quale non ero
capace di perdermi. Non uscivo più, a scapito di Elsa, e
passavo il tempo libero a leggere.
Credetti di aver trovato la serenità e, forse, fu proprio
così per parecchi mesi. Fino alla mia avventura con Lucas.
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