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La contraffazione del marchio

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La contraffazione del marchio
Corso di Laurea magistrale (ordinamento
ex D.M. 270/2004)
in Marketing e Comunicazione
Tesi di Laurea
La contraffazione del marchio
Il caso Gucci contro Guess
Relatore
Ch. Prof. Alessandra Zanardo
Correlatore
Ch. Prof. Alberto Urbani
Laureando
Laura Ziliotto
Matricola 827439
Anno Accademico
2013 / 2014
A Nonno Giovanni
“Il giovane cammina più veloce dell'anziano,
ma l'anziano conosce la strada”
(Proverbio africano)
2
INDICE
TITOLO:
La contraffazione del marchio. Il caso Gucci contro Guess.
Introduzione
5
CAPITOLO I: IL MARCHIO
8
1. La nozione e la funzione del marchio
8
2. Le tipologie di marchio
13
3. I soggetti legittimati alla registrazione
14
4. I requisiti di validità della registrazione
4.1 Gli impedimenti assoluti alla registrazione
4.1.1 I segni non rappresentabili graficamente
4.1.2 Il principio di estraneità del marchio al prodotto
4.1.3 (segue) I marchi di forma
4.1.4 L’assenza di capacità distintiva
4.1.5 L’illiceità
4.2 Gli impedimenti relativi alla registrazione
4.2.1 La novità del marchio
17
18
18
21
21
23
27
29
29
5. La tutela del marchio
5.1 Il diritto di esclusiva
5.2 Uso di segno identico per prodotti o servizi identici
5.3 Il rischio di confusione
5.4 Il marchio che gode di rinomanza
32
32
34
36
40
6. Nullità e decadenza
6.1 L’estinzione del marchio
6.2 La nullità del marchio
6.3 La decadenza del marchio
6.3.1 La decadenza per non uso
43
43
43
45
45
CAPITOLO II: LA CONCORRENZA SLEALE
48
1. L’art. 2598 c.c. e le fattispecie di concorrenza sleale
48
2. La concorrenza per confondibilità
2.1 Uso di nomi o segni distintivi confusori
2.1.1 (segue) L’imitazione dell’altrui marchio registrato
2.2 Imitazione servile
2.2.1 Le forme tutelabili
52
53
54
56
57
3
2.3 Gli altri mezzi della concorrenza confusoria
59
3. L’appropriazione di pregi
3.1 (segue) L’agganciamento
60
62
4. Le fattispecie dell’art. 2598 n.3 c.c.
4.1 La concorrenza parassitaria
64
66
CAPITOLO III: LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO
70
1. La violazione del diritto di marchio
70
2. L’azione di contraffazione
2.1 (segue) La legittimazione attiva e passiva
73
74
3. Onere della prova
75
4. Le misure cautelari
4.1 L’inibitoria e il ritiro dal commercio
77
79
5.Il risarcimento del danno
5.1 Il danno emergente e il lucro cessante
5.1.1 L’art. 125, co. 3, c.p.i. e la retroversione degli utili
80
82
85
CAPITOLO IV: IL CASO GUCCI CONTRO GUESS
86
1. I fatti e le ipotesi di diritto richiamate
86
2. Le decisioni del Tribunale di Milano
2.1 Contraffazione di marchi
2.2 Imitazione servile
2.3 Concorrenza parassitaria
100
102
112
118
3. Conclusioni del Tribunale di Milano
119
4. Le decisioni della Corte d’Appello
119
Appendice
124
Bibliografia
125
Sitografia
127
Ringraziamenti
128
4
Introduzione
La contraffazione è da sempre considerata quale fenomeno che grava in
modo
consistente
sul
sistema
economico,
minacciando
il
buon
funzionamento del mercato.
La violazione dei diritti di proprietà industriale, quanto lo sfruttamento della
creatività, dell’innovazione e dell’originalità rappresentano, inoltre, una
minaccia al patrimonio aziendale altrui, in un territorio quale quello italiano,
caratterizzato da realtà aziendali denotate da un ricco know-how.
Il fenomeno contraffattivo ha una portata enorme: secondo i dati elaborati
dal Censis in collaborazione con il Ministero delle Sviluppo Economico,
infatti, il valore del mercato dei prodotti contraffatti nel nostro paese si
aggirerebbe sui 6,5 milioni di euro1. L’impatto, sia sull’economia nazionale
sia sulle imprese italiane è pesantissimo, tanto che le aziende sono
fortemente impegnate nella tutela del loro straordinario patrimonio
immateriale di segni distintivi mediante tutti gli strumenti a loro disposizione.
Per quel che riguarda il settore della moda, cui ci si riferisce in tale lavoro di
tesi, i fenomeni contraffattivi rilevanti sono quelli che hanno ad oggetto il
marchio, il prodotto o la commercializzazione dello stesso. Nella prima
ipotesi si verifica un’imitazione fedele o una riproduzione simile dell’altrui
marchio apposto su prodotti identici o affini a quelli del titolare dei diritti di
proprietà. La contraffazione può riguardare anche le linee stilistiche del
prodotto che, unitamente all’apposizione di un marchio simile a quello che
contraddistingue l’originale, possono indurre il consumatore all’acquisto del
prodotto contraffatto. La terza ipotesi riguarda la commercializzazione di un
prodotto contraddistinto da un marchio identico a quello di una casa di moda
senza l’effettiva produzione da parte di quest’ultima del prodotto in
questione.
Il presente elaborato si propone di analizzare la causa giudiziaria intercorsa
tra le case di moda Gucci e Guess, in virtù delle decisioni prese dal
Tribunale di Milano, successivamente, riformate dalla Corte d’Appello, in
quanto di particolare interesse posto che l’esito della controversia appare in
1
Dato reperibile in www.censis.it.
5
parziale contrasto con le decisioni prese della Southern District Court of
New York chiamata anch’essa a deliberare sullo stesso caso.
Nella prima parte del lavoro verranno esplicitate, in particolare, la
legislazione, la dottrina e la giurisprudenza vigenti nel nostro ordinamento
in tema di marchi, concorrenza sleale e contraffazione, necessarie ad
un’adeguata lettura del caso in specie.
Nella seconda parte, verrà analizzata la sentenza in oggetto, con taluni
riferimenti alle decisioni del giudice americano che sono, come detto, in
antitesi, rispetto a quelle del giudice italiano; verrà inoltre riportata e
analizzata la sentenza di parziale riforma della Corte d’Appello.
Nello specifico, la maison italiana accusava Guess di contraffazione dei
propri marchi e di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598, nn. 1, 2, 3, c.c.;
ipotesi tutte escluse dal Tribunale di Milano con sentenza del 2 maggio
2013.
Detta sentenza mi è parsa rilevante sotto il profilo della tutela dei diritti di
proprietà intellettuale e industriale, nonché degna di nota, in quanto
parrebbe
rifarsi
ad
una
visione
dell’illecito
contraffattivo
legata
esclusivamente all’imitazione dei segni distintivi, tralasciando di considerare
condotte integranti comunque un richiamo costante ad uno stile
caratteristico e riconoscibile presso i consumatori: orientamento questo per
lo più superato dalla giurisprudenza più recente2.
Al contrario, la Corte statunitense, ritenendo che imitare non significhi
riprodurre in maniera identica un marchio o una trama, ma uno stile
peculiare e chiaramente riconoscibile, aveva ritenuto Guess colpevole di
imitazione di alcuni dei marchi Gucci, con sviamento di clientela e perdita di
profitti ai danni dell’azienda italiana: la condotta dell’azienda statunitense
avrebbe secondo la Corte causato l’annacquamento del brand “Gucci”.
La posizione del giudice italiano sembra, invece, porsi in opposizione alla
protezione dell’innovazione e della creatività, in un settore quale quello della
moda, dove tali peculiarità, che sono il frutto di ingenti investimenti,
appaiono essenziali e determinanti nelle scelte d’acquisto.
I provvedimenti del Tribunale sono stati condannati da più parti, oltre che
da Gucci stessa, e sono stati visti come una minaccia alla tutela del “made
2
Secondo quando sostenuto da Altagamma, associazione a tutela delle aziende italiane produttrici di beni di lusso.
6
in Italy”, rappresentando la maison italiana una delle eccellenze del nostro
paese nel settore di prodotti moda e fashion. Tanto che la stessa Corte
d’Appello di Milano, successivamente investita del giudizio, ha evidenziato
e condannato la presenza di una tensione imitativa delle pratiche
commerciali di Gucci da parte di Guess, accusando l’azienda americana di
concorrenza parassitaria con sviamento della clientela, ai sensi dell’art.
2598, n. 3, c.c..
Le decisioni del Tribunale sono state, dunque, in parte, ribaltate con
conseguente, parziale, salvaguardia del patrimonio aziendale della maison
italiana che avrebbe ora la possibilità impugnare la sentenza dinnanzi alla
Cassazione.
7
CAPITOLO I: IL MARCHIO
SOMMARIO: 1. La nozione e la funzione del marchio – 2. Le tipologie di marchio – 3. I
soggetti legittimati alla registrazione – 4. I requisiti per la registrazione – 4.1. Gli
impedimenti assoluti alla registrazione – 4.1.1. I segni non rappresentabili graficamente 4.1.2 Il principio di estraneità del marchio al prodotto – 4.1.3 (segue) I marchi di forma –
4.1.4 L’assenza di capacità distintiva – 4.1.5. L’illiceità – 4.2. Gli impedimenti relativi alla
registrazione – 4.2.1. La novità del marchio - 5. La tutela del marchio - 5.1. Il diritto di
esclusiva - 5.2. Uso di segno identico per prodotti o servizi identici – 5.3. Il rischio di
confusione –5.4. Il marchio che gode di rinomanza - 6. Nullità e decadenza - 6.1.
L’estinzione del marchio - 6.2. La nullità del marchio – 6.3. La decadenza del marchio –
6.3.1. La decadenza per non uso
1. La nozione e la funzione del marchio
Si possono definire segni distintivi quegli elementi che identificano un
determinato imprenditore, il luogo dove questo svolge la propria attività
economica e il segno che contraddistingue beni e servizi che sono il frutto
di tale attività. Ditta, insegna e marchio sono considerati segni distintivi tipici
e, in quanto tali, sono tutelati dal nostro ordinamento per far sì che
l’imprenditore trovi attorno a sé una sfera di protezione che gli permetta di
svolgere in piena libertà la propria attività senza alcun ostacolo al
dispiegarsi della libera concorrenza.
Il marchio, in particolare, è il segno destinato a comunicare informazioni
circa la provenienza di un determinato bene o servizio ed è strumento
utilizzato dalle imprese nel rapportarsi con i clienti: infatti questo permette
ai consumatori di effettuare la loro scelta tra i diversi beni e servizi presenti
sul mercato attribuendo meriti e demeriti all’imprenditore dal quale questi
effettivamente provengono3.
L’imprenditore con l’apposizione di un segno sulla propria produzione
costruisce una propria identità di marca che gli consentirà di rendersi,
appunto, riconoscibile ai consumatori e di differenziarsi dai concorrenti.
Il marchio, quindi, risulta essere strumento di comunicazione fra imprese e
consumatori, di informazione e concorrenza; per tali peculiarità assume un
rilievo preminente rispetto a tutti gli altri segni distintivi. In considerazione di
questa preminenza il legislatore ha dettato per tale segno una speciale ed
ampia disciplina, imperniata su di un procedimento amministrativo detto
3
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 149.
8
registrazione. Di qui il termine di marchio registrato che evoca appunto la
speciale disciplina cui questo segno è soggetto4.
La materia dei marchi nel nostro ordinamento è disciplinata dal codice civile
(artt. 2569-2574) e dal codice della proprietà industriale adottato con d.lgs.
n. 30 del 10 febbraio 2005. Il c.p.i. dalla sua entrata in vigore ha subito
numerose modifiche: anzitutto con il d.lgs. 140/2006 e la legge 99/2009, ma
la revisione più ampia è stata apportata con il d.lgs. 131/2010.
Secondo l’art. 7 del c.p.i., possono essere registrati come marchi d’impresa
tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare
le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la
forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità
cromatiche, purché siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa
da quelli di altre imprese. A questi si aggiungono, ove ricorrano determinate
condizioni, i ritratti di persone, nomi e segni notori (art. 8 c.p.i.); i marchi di
forma (art. 9 c.p.i.); nonché, a certe condizioni, gli stemmi e i segni con
significazione politica o di alto valore simbolico, o contenente elementi
araldici (art. 10 c.p.i.).
Nella l.m. anteriore alla riforma del 1992 unica funzione giuridicamente
protetta del marchio era la funzione distintiva, intesa appunto come funzione
di distinzione dei prodotti o servizi marcati tra gli altri consimili presenti sul
mercato5. L’art. 2569 c.c. parla della registrazione di un “nuovo marchio
idoneo a distinguere prodotti o servizi”; l’art. 7 c.p.i. a sua volta prevede che
possano essere registrati come marchio certi segni, a condizione che “siano
atti a distinguere i prodotti di un’impresa da quelli di altre imprese”; l’art.13
c.p.i. parla di “carattere distintivo” del segno come elemento essenziale di
esso, definendolo tuttavia in negativo, cioè indicando le ipotesi di mancanza
di esso6. Affinché il segno svolga una funzione distintiva è necessario che
il titolare vanti un diritto di esclusiva su quest’ultimo, è, infatti, contrastante
con essa un utilizzo del marchio da parte di una pluralità di imprenditori che
generi confusione presso il pubblico.
4
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 150.
SIRONI, Natura e funzioni del marchio, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014,
119.
6
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 152.
5
9
Sino al 1992 era accreditato in dottrina che la funzione distintiva si
specificasse nella funzione d’origine, il marchio veicolava le informazioni
circa la provenienza del prodotto da una determinata azienda e
indirettamente garantiva che la provenienza restasse costante nel tempo;
tale funzione del segno trovava riferimento normativo nell’ art. 15 l.m. che
disponeva in merito all’obbligo di veicolare il trasferimento del marchio alla
cessione dell’azienda o del ramo dell’azienda7.
Successivamente alla riforma del 1992, la concessione della tutela allargata
al marchio di rinomanza e la circolazione libera del marchio, insieme al
divieto del suo uso ingannevole, hanno portato ad un ripensamento in senso
estensivo della funzione da parte della dottrina che, peraltro, ha avuto
riflessi in
inducendola
giurisprudenza
a
valutare
piuttosto
occasionali e
di
in
volta
volta
non
anche
sistematici,
la
funzione
attrattiva/simbolica, quella di garanzia della qualità (più o meno ricondotte,
a seconda dei casi, a quella distintiva) 8 . Con la riforma vengono meno
anche tutte le norme che assicuravano un collegamento tra il marchio e la
fonte d’origine individuata, cosicché è necessario ripensare, anche, alla
funzione distintiva ampliandone la nozione9.
Il fervente dibattito in ordine alle funzioni giuridicamente tutelate del marchio
si snoda sul contenuto e sulle finalità del significato portato dal segno
distintivo: in altre parole, sulle informazioni che il segno è chiamato a
veicolare con riferimento ai prodotti e servizi che contraddistingue10.
In tal senso, prendendo atto di una prassi largamente diffusa, sono
riconosciute al marchio altre funzioni, attraverso cui la funzione distintiva si
specifica. A tal proposito è riconosciuta la funzione di garanzia di costanza
qualitativa, alla luce della quale si è soliti distingue tra i marchi generali e
quelli speciali a seconda delle informazioni che il segno veicola. In particolar
modo, sono i marchi generali che comunicano al cliente informazioni circa
l’origine del prodotto. Si definiscono marchi generali quei segni che sono
7
SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 119; SIROTTI GAUDENZI, Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza,
UTET, Torino, 2008, 224; SIRONI, Art. 7, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffè, Milano, 2013,
82.
8
SANDRI, L’evoluzione della funzione del marchio nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Dir. ind., 2010, 451.
9
SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 120.
10
BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei
marchi d’impresa, UTET, Torino, 2009, 4.
10
destinati a contrassegnare tutti i differenti prodotti provenienti da una stessa
impresa, spesso coincidono con la ditta11.
Ne sono esempio, “Microsoft” marchio generale che contraddistingue tutti i
beni
prodotti
dall’omonima
azienda
informatica
o,
nel
settore
automobilistico, “Ford” che contrassegna tutte le vetture prodotte
dall’impresa.
I marchi speciali, invece, veicolano informazioni attinenti alle caratteristiche
tecniche ed estetiche di un determinato prodotto; sono, infatti, quei segni
utilizzati per contraddistinguere una singola tipologia di prodotto all’interno
dei prodotti/servizi di una determinata impresa12.
Riprendendo l’esempio di cui sopra, per quel che riguarda “Microsoft”,
“Word”, “Excel”, “Power Point” sono alcuni dei marchi speciali che
contrassegnano i differenti prodotti che compongono la suite di applicazioni
dell’azienda; per quel che concerne “Ford” sono marchi speciali “Focus”,
“Mondeo”, “Fiesta”, in quanto comunicano determinate caratteristiche delle
automobili che contraddistinguono.
La funzione distintiva del marchio può essere letta, inoltre, come garanzia
di conformità del prodotto al messaggio intesa quale garanzia di veridicità
delle informazioni che il segno veicola. A presidio di tale funzione vi è il
divieto di uso ingannevole del marchio, che con le norme che sanciscono la
nullità del marchio ingannevole e quelle che vietano che possa derivare
inganno al pubblico dalla cessione o licenza del marchio, formano un vero
e proprio “statuto di non decettività” dello stesso. Questo statuto garantisce
al pubblico la veridicità dei messaggi comunicati dal marchio e sanziona,
anche con la perdita del diritto esclusivo in capo al suo titolare, ogni ipotesi
in cui quest’ultimo o terzi da lui autorizzati si servano del segno in modo da
suscitare nel pubblico una convinzione che non rispecchia la verità dei
fatti13.
L’evoluzione della disciplina del marchio mette in luce il valore in sé del
segno distintivo, che non è più strettamente connesso ai prodotti e servizi
11
RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 72.
SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 121; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè,
Milano, 2012, 153 ss; RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op. cit., 72.
13
SIRONI, Art. 14, op.cit., 258.
12
11
che contraddistingue; aspetto quest’ultimo evidenziato pure dall’abolizione
del vincolo aziendale (v. supra il riferimento all’art. 15 l.m.).
Il segno non è più semplice latore di informazioni ma trova ed esaurisce in
sé i significati, i valori, i messaggi di cui è significante, proiettandoli sul
prodotto e sul servizio con cui si viene a trovare in relazione, qualsiasi essi
siano14.
Il consumatore, più o meno consapevolmente, acquista il prodotto, ma
anche il segno che lo contrassegna, insieme ai valori ed ai significati di cui
il marchio è portatore.
A fronte di tale rilevanza dei valori legati ad un certo segno, il legislatore
dispone una particolare tutela per quei marchi che godono di rinomanza,
ossia che hanno grande notorietà presso il pubblico.
Questi segni trovano nel nostro ordinamento una tutela allargata che si
estende a tutti i casi in cui un terzo si impossessa del valore dell’altrui
marchio, indipendentemente dal fatto che con ciò si verifichi “un rischio di
confusione per il consumatore”.
La concessione ai marchi celebri di una tutala allargata e talune norme che
vietano l’approfittamento parassitario della rinomanza di tali segni,
denotano che l’ordinamento protegge anche la cc.dd. funzione attrattiva o
pubblicitaria del marchio che è da intendersi come tutela e riserva in
esclusiva al titolare del marchio del potere di vendita che il segno presenta
agli occhi del pubblico15 (cc.dd. selling power), ovvero della capacità del
marchio
di
attrarre
la
clientela
indipendente
dai
prodotti
che
contraddistingue e dall’azienda di riferimento. La tutela di tale funzione è
commisurata ad un fattore socio-economico in precedenza considerato
irrilevante, il capitale pubblicitario incorporato nel segno16.
14
BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, op.cit., 7; GALLI, Comunicazione d’impresa e
segni distintivi: le linee evolutive, in Dir. ind., 2011, 119 ss..
15
SIRONI, Natura e funzioni del marchio, op. cit., 122; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè,
Milano, 2012, 159 ss.; CGCE, 18 giugno 2009, in Giur. ann. dir. ind. 2009, n.5473, 1425.
16
LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 28; RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op.cit.,
74.
12
2. Le tipologie di marchio
In generale, possiamo distinguere diverse tipologie di marchio a seconda
del bene che contraddistinguono e a seconda della composizione del segno
in sé17.
Per quanto concerna la prima classificazione vi sono i marchi di fabbrica
che distinguono i beni e servizi come provenienti da una determinata
impresa e i marchi di commercio apposti da un intermediario su prodotti
realizzati da terzi. Il riferimento normativo è l’art. 2572 c.c., dove si riconosce
al rivenditore la possibilità di apporre il proprio marchio sui beni vietando
però di sopprimere il marchio del produttore18.
Si distinguono, poi, i marchi di prodotti e i marchi di servizi ricollegandosi
alla l. 24 dicembre 1959, n. 1178 che ha introdotto nel nostro ordinamento
quest’ultima categoria19; in tal caso la differenziazione si fonda sull’oggetto
che il segno connota, nel primo caso un bene materiale nel secondo, per
l’appunto, un servizio. Tale classificazione ha dei riscontri per quel che
concerne il giudizio di contraffazione e l’uso effettivo ai fini della decadenza.
Un’ulteriore distinzione possibile, priva di origine legislativa, è quella fra
marchi generali e speciali, a cui si è sopra accennato. Il marchio generale
contraddistingue appunto la totalità della produzione di un’impresa; quello
speciale si riferisce ad una singola tipologia di prodotto20.
Un secondo criterio di classificazione riguarda, come già detto, la
composizione del segno in sé.
In tal senso distinguiamo i marchi denominativi (composti da una o più
parole), i marchi figurativi (composti da disegni o elementi grafici) e i marchi
misti (composti da parole e disegni). Recentemente si annoverano tra i
segni distintivi i cosiddetti nuovi marchi, tra i quali vi sono i marchi sonori, i
marchi olfattivi, i marchi di colore, i marchi di forma, i marchi di movimento,
i marchi di posizione e quanti altri segni possono essere apposti sul
17
BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento dell’istituto, op.cit., 7.
Il riferimento è presenta anche nel c.p.i. all’art. 20.3.
19
RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op. cit., 72.
20
RICOLFI, I marchi. Nozione. Fonti. Funzione, op. cit., 72; BOTTERO, TRAVOSTINO, I marchi d’impresa. Inquadramento
dell’istituto, op.cit., 8.
18
13
prodotto/servizio di un determinato imprenditore e far sì che sia distinguibile
da quella dei concorrenti.
A queste classificazioni si aggiunge quella tra marchio registrato e non
registrato: il primo gode di una protezione rafforzata per il particolare
procedimento amministrativo al quale è sottoposto, il secondo è tutelato
dimostrando la sussistenza di determinate condizioni. Si distinguono poi i
marchi individuali dai marchi collettivi, a seconda che il segno sia utilizzato
dal singolo imprenditore o da imprenditori diversi che si obbligano a
rispettare degli standard qualitativi.
Infine, a seconda del grado di capacità distintiva di cui sono dotati i segni,
si differenziano i marchi forti dai i marchi deboli. I primi sono dotati di
un’impronta originale e di fantasia; i secondi sono formati da un nome
comune o espressivo con qualche variante21. Sono considerati marchi forti
i segni che non ravvisano alcuna attinenza concettuale con il prodotto che
contrassegnano 22 ; i marchi deboli denotano, invece, una determinata
inerenza concettuale con il prodotto che contraddistinguono 23 . A titolo
esemplificativo, sono dotati di un’intrinseca debolezza, come si vedrà nel
caso giudiziario tra le due case di moda analizzato al capitolo IV, i marchi
composti da una sola lettera dell’alfabeto soprattutto laddove non siano
qualificati da una particolare caratterizzazione grafica24.
3. I soggetti legittimati alla registrazione
L’art.19 c.p.i. attribuisce la legittimazione alla registrazione di un marchio di
impresa a chi “lo utilizzi o si proponga di utilizzarlo, nella fabbricazione o
commercio di prodotti o nella prestazione di servizi della propria impresa o
di imprese di cui abbia il controllo o che ne facciano uso con il suo
consenso”. Nella prima delle ipotesi colui che richiede la registrazione del
21
LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 52.
Ad esempio, Diesel (per abbigliamento), Canon (per macchine fotografiche).
23
Sono marchi deboli Scarpe&Scarpe (per scarpe), Lemonsoda (per bevanda al limone).
24
Il riferimento è alla “G” utilizzata da Gucci di cui la controparte richiedeva la nullità per mancanza di capacità
distintiva.
22
14
segno lo sta già utilizzando nella propria attività economica e richiede la
formalizzazione del diritto di esclusiva sull’uso dello stesso, si parla in tal
caso di marchio di fatto con riferimento ad un segno utilizzato
dall’imprenditore con funzione distintiva senza che vi sia ancora intercorsa
la registrazione25. Vi è, poi, l’ipotesi nella quale il richiedente si proponga di
utilizzare il segno di cui chiede la registrazione solo dopo quest’ultima.
La norma, dunque, prevede che chiunque possa registrare un marchio,
anche il non imprenditore o chi non si proponga di diventarlo, salvo l’utilizzo
diretto o indiretto del segno nell’attività economica a pena della decadenza
per non uso26.
Nonostante la norma, di cui all’art. 19, preveda che chiunque possa
registrare un segno come marchio, sussistono delle limitazioni derivanti da
diritti anteriori di terzi su un determinato segno che impediscono ad altri
soggetti di effettuare legittimamente il relativo deposito. Il riferimento è alle
ipotesi, ai sensi dell’art. 12 c.p.i., in cui un terzo vanti un diritto d’esclusiva
anteriore sul marchio che determina il venir meno della novità del segno
posteriore: quest’ultima è, infatti, uno dei requisiti necessari per la validità
della registrazione, di cui si dirà nel prosieguo della trattazione.
Come disposto dall’art.19, co. 2, c.p.i., non può ottenere la registrazione del
marchio chi abbia fatto la domanda in malafede. La norma ha un carattere
residuale che deve attribuirsi al limite rappresentato dalla malafede del
registrante: la registrazione ottenuta dal richiedente in malafede è
formalmente e contenutisticamente inoppugnabile sotto ogni altro punto di
vista, fuorché per lo stato soggettivo sussistente nel soggetto al momento
della presentazione della domanda 27 , a causa di tale stato, il soggetto
richiedente non può essere considerato meritevole di tutela. In generale, si
è in presenza di malafede qualora si verifichi una condotta disonesta o
laddove il depositante tenga un comportamento contrario ai principi di
correttezza comunemente accettati28 ma tale stato può essere presente in
tutte le ipotesi in cui il depositante sia consapevole dell’esistenza di diritti
25
FREDIANI, Commentario al nuovo Codice della proprietà industriale, Halley, Metalica, 2006, 52.
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 213 ss.; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007, 67 ss.; SIRONI, Legittimazione alla registrazione del marchio e soggetti aventi diritto, in SCUFFI, FRANZOSI (a
cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 136.
27
LAUDONIO, MALTE MULLER, La malafede nella registrazione dei marchi, in Riv. Dir. Ind., 2012, 40.
28
SIRONI, Legittimazione alla registrazione del marchio e soggetti aventi diritto, op.cit., 147.
26
15
anteriori sul marchio. Tuttavia, quest’ultime sono regolate da altre norme;
dunque al divieto di registrazione per malafede è lasciata una funzione di
chiusura del sistema, è, infatti, applicabile ogni qualvolta non sia possibile
fare appello ad un’altra norma29. Tali casi sono stati tipizzati da dottrina e
giurisprudenza.
4. I requisiti di validità della registrazione
I diritti esclusivi sono conferiti al richiedente con la registrazione del segno.
Il procedimento amministrativo è disciplinato dagli artt. 147 ss. c.p.i. e dalla
norme contenute nel d.m. 13 gennaio 2010, n. 3330.
Alla registrazione di un segno si procede depositando domanda presso
l’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi oppure presso le Camere di commercio e
presso determinati uffici o enti pubblici, che, a loro volta, trasmettono la
domanda all’UIBM. La domanda dovrà contenere l’indicazione del
richiedente, eventuale rivendicazione di priorità, la raffigurazione grafica del
segno e l’elenco dei prodotti per i quali si richiede la registrazione.
Una volta compiuti tali adempimenti, l’UIBM procede ad una verifica della
regolarità e di conformità della domanda ai requisiti richiesti, di cui si dirà
nel seguito della trattazione.
Se l’Ufficio non evidenzia irregolarità, pubblica la domanda ritenuta
registrabile nel Bollettino ufficiale dei marchi (di cui all’art.187 c.p.i.).
In secondo luogo, se non vi sono né impedimenti assoluti, né opposizioni di
terzi basate su eventuali impedimenti relativi, l’UIBM registra il segno come
marchio.
Una volta concessa la registrazione del marchio, i suoi effetti, in base all’art.
15, co. 2, c.p.i., risalgono alla data di deposito della domanda, cosicché
anche gli usi di terzi nel periodo intermedio tra deposito e registrazione
29
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 223-224; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007, 72; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli,
Torino, 2012, 115.
30
Il decreto ministeriale è volto a semplificare le procedure con l’intento di garantire una maggiore tutela ai titoli di
proprietà industriale. Nella domanda di registrazione del marchio, in particolare, devono essere bene specificate le
generalità del richiedente, oltre al tipo di marchio ed una riproduzione dello stesso.
16
costituiscono a tutti gli effetti contraffazione31. Ai sensi dell’art. 15.4, c.p.i.,
la registrazione ha validità decennale ma può essere rinnovata alla
scadenza.
Affinché un marchio sia validamente registrato deve presentare, come già
detto, determinati requisiti come disposto negli artt. 7-10, 12, 13, 14 co.1 del
c.p.i.. Nel prosieguo della trattazione si farà, invece, riferimento alla
terminologia comunitaria (artt. 3 e 4 dir. CE 2008/95 e artt. 7 e 8 RMC) che
parla di impedimenti alla registrazione più che di requisiti di validità del
marchio32.
Facendo riferimento alla Direttiva europea, possiamo suddividere i
presupposti per la registrazione di un segno come marchio in due gruppi
relativi, il primo, alla natura del segno e all’idoneità a svolgere la sua
funzione principale, quella distintiva, e l’altro all’incompatibilità del segni con
quello già registrati da terzi.
Il primo insieme raggruppa requisiti che sono a presidio della funzione
essenziale del segno e degli interessi generali della collettività, in assenza
di questi sussistono impedimenti assoluti alla registrazione. In tale ottica, si
ha una valida registrazione se il segno è suscettibile di essere
rappresentato graficamente, è autonomo rispetto al prodotto che
contraddistingue, è dotato di capacità distintiva ed è lecito.
Il secondo gruppo di requisiti attiene alla tutela dei diritti di terzi, un segno
per essere registrato validamente non deve essere confondibile con altri
marchi precedentemente registrati, marchi di fatto o altri segni distintivi,
deve, quindi, possedere il requisito della novità33.
In ragione di questa differente natura gli impedimenti assoluti possono
essere fatti valere da chiunque vi abbia interesse e, sulla loro base, può
essere promossa una causa di nullità del marchio anche dal Pubblico
Ministero; gli impedimenti relativi, invece, possono essere fatti valere solo
dal titolare di diritti anteriori o dal suo avente causa34.
31
SIRONI, Acquisto dei diritti sul marchio registrato. Registrazione e rinnovazione, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto
industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 210.
32
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto
industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 151 ss.; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 81
ss.; BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi
d’impresa, UTET, Torino, 2009, 13 ss..
33
BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 14.
34
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 152.
17
4.1 Gli impedimenti assoluti alla registrazione
4.1.1. I segni non rappresentabili graficamente
Il già citato art. 7 del c.p.i enuncia che possono essere registrati come
marchi d’impresa “tutti i segni suscettibili di essere rappresentati
graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni,
le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso,
le combinazioni o le tonalità cromatiche”.
E’ necessario che il segno sia definito in modo chiaro, stabile e preciso in
modo da andare incontro ad esigenze di certezza nell’individuazione
dell’entità da registrare o registrata, sia da parte degli uffici preposti alle
registrazione, sia da parte dei consumatori e degli altri operatori del
settore35.
La condizione risponde, per lo più, alle esigenze di non incorrere in
violazioni del diritto di terzi da parte di soggetti che sono intenzionati ad
utilizzare un segno sul mercato, facilitando la tutela contro azioni di
contraffazione o utilizzi non autorizzati del segno. Per conseguire questo
risultato occorre, per l’appunto, fissare, al momento della registrazione,
l’oggetto del diritto in modo chiaro, intellegibile, durevole e, per quanto
possibile, oggettivo e quindi non soggetto ad interpretazioni o modificazioni
che ne possono alterare, nel tempo, la sostanza 36.
Tra i marchi convenzionali il nostro ordinamento riconosce i marchi
denominativi, vale a dire quelli composti da parole (che comprendono anche
i nomi di persona), lettere e/o numeri e slogan; discussa è, invece, la
registrazione di titoli e testate di periodici.
Per quel che riguarda i segni composti da una singola lettera o numero, la
dottrina e la giurisprudenza37 hanno recentemente sostenuto la tutelabilità
di tali marchi, nonostante la precedente formula dell’art. 1, co.1, l.m.
35
SIRONI, Segni registrabili come marchio, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova,
2014, 128; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 165.
36
BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 16.
37
Cass., 25 giugno 2007, n. 14684, in Giur. dir. ind., 2008, 39.
18
anteriore al 1992 ne negasse la valida registrazione in quanto segni di uso
generale.
Le singole lettere o cifre in sé non sono, tuttavia, appropriabili come marchi
ma possono essere registrate e protette solo nella specificità della loro
caratterizzazione grafica, dalla quale possono ricevere quella capacità
distintiva, di cui si dirà in seguito, che loro altrimenti mancherebbe38.
La rappresentazione grafica di tali segni, a tal scopo, deve essere corredata
da un grafismo che risulti particolarmente individualizzante. Per quel che
riguarda la “forza” e la “debolezza” di tali marchi, questa va tuttavia,
affermata o negata non già in ragione dell’appartenenza delle lettere
dell’alfabeto ai segni di linguaggio, ma in funzione della capacità distintiva
di cui lo specifico segno sia dotato39. In tal senso, nella sentenza di cui si
dirà, il Tribunale di Milano ha dichiarato la nullità della lettera “G” circondata
da pallini di Gucci, considerandola una rappresentazione banale e
scarsamente significativa, quindi priva di capacità distintiva40.
I marchi figurativi o emblematici, invece, sono composti da disegni o
composizioni grafiche, figurative o astratte. Si possono registrare come
segni anche i marchi misti consistenti in parole e figure.
Vi sono, poi, i cc.dd. marchi non convenzionali che comprendono i segni di
difficile rappresentazione grafica come gli odori, i suoni, i gusti o tonalità
cromatiche. Questi sono detti anche nuovi marchi e la discussione riguardo
alla loro registrabilità si è sviluppata soprattutto in ambito comunitario,
anche grazie a talune pronunce della Corte di Giustizia.
Secondo quanto affermato dalla CGCE, “può costituire un marchio
d'impresa un segno che di per sé non è suscettibile di essere percepito
visivamente, a condizione che esso possa essere oggetto di una
rappresentazione grafica - in particolare mediante figure, linee o caratteri che sia chiara, precisa, di per sé completa, facilmente accessibile,
intellegibile, durevole ed oggettiva”41.
In particolare, per quel che riguarda i marchi di colore, il diritto comunitario,
a differenza della legislazione italiana che esclude da registrazione le
38
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 86.
SIRONI, Art. 7, op.cit., 2013, 95; Trib. Torino, 26 novembre 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2008, 589.
40
V. Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., n. 4792, 2013.
41
CGCE, 12 dicembre 2002, in Giur. ann. dir. ind,. 2004, n. 4763, 1255.
39
19
tonalità c.d. pure42 e che ammette solo segni costituiti da una particolare
combinazione di colori diversi o tonalità particolari
43
, consente la
registrazione come marchi di tutti i colori44, per quanto quest’ultimi non siano
espressamente menzionanti tra i segni registrabili.
Per quel che riguarda la rappresentazione grafica, posto che questa
dovrebbe essere sempre chiara, precisa, completa, facilmente accessibile,
costante ed oggettiva, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza
comunitaria
45
, risulterebbe inidonea la rappresentazione mediante il
deposito di un campione su una superficie in quanto soggetto ad alterazioni.
Al contrario, costituirebbe sempre idonea rappresentazione l’identificazione
del colore tramite il codice Pantone internazionalmente riconosciuto.
Altri ostacoli alla registrazione riguardano la valenza funzionale di
determinati colori per certi prodotti o il fatto che una determinata colorazione
può dare un valore sostanziale al prodotto: il problema viene risolto
escludendo i colori dalla registrazione mediante un’applicazione degli
impedimenti contenuti nell’art. 9 c.p.i. analoga a quella delle forme, di cui si
dirà46.
Possono in linea generale essere registrati come marchi anche quelli
gustativi o di movimento. A tal proposito la giurisprudenza ha, però, negato
la registrabilità del “sapore artificiale di fragola” e dell’ “apertura dall’alto
della portiera delle vetture Lamborghini”47.
Tra i marchi non convenzionali rientrano anche i marchi tattili e di posizione.
In
generale,
permangono
le
difficoltà
nel
dare
un’adeguata
rappresentazione grafica a tali marchi la cui domanda di registrazione è il
più delle volte rigettata.
A titolo esemplificativo, tra le domande di registrazione accolte c’è quella
dell’ “odore di erba appena tagliata” per contraddistinguere palline da tennis,
42
Trib. Milano, 7 giugno 2007, in Giur. ann. dir. ind., 2007, 829.
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 173; SIRONI, Segni registrabili come
marchio, op.cit., 131-132.
44
CGCE, 24 Giugno 2004, in Giur. dir. ind., 2004, 1423.
45
CGCE, 6 maggio 2003, in Giur. dir. ind, 2003, 1283.
46
SIRONI, Segni registrabili come marchio, op.cit., 132.
47
BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 26 ss; v. Commissione di ricorso dell’UAMI, 4 agosto
2003, in proc. R-120/2001-2; v. Commissione di ricorso dell’UAMI, 23 settembre 2003, in proc. R-772/2001-1.
43
20
in quanto l’odore in oggetto è stato ritenuto ben riconoscibile da tutti per
esperienza diretta48.
4.1.2 Il principio di estraneità del marchio al prodotto
Un secondo impedimento assoluto alla registrazione del segno è l’assenza
di autonomia rispetto al prodotto. La valida registrazione viene, infatti,
condizionata alla circostanza che il segno sia in sé idoneo a distinguere i
prodotti provenienti da un’impresa da quelli provenienti dalle altre e il
marchio sia separabile dal prodotto senza alterarne la natura, sia cioè
estraneo al prodotto stesso e alle sue qualità.
Questo tema è strettamente correlato a quello dei marchi di forma, il quale
principio sembrerebbe escluderne la possibilità di tutela; in realtà, la forma
alla quale ci si riferisce non è quella strettamente legata alla natura del
prodotto, ma alla sua struttura funzionale composta da elementi aggiuntivi
che possono venir meno senza che il prodotto perda la sua utilità49.
4.1.3 (segue) I marchi di forma
I marchi di forma o tridimensionali sono costituiti dalla confezione o dalla
forma del prodotto a cui è attribuita una funzione distintiva. In riferimento a
tali marchi l’art. 9 c.p.i esclude la registrabilità dei “segni costituiti
esclusivamente dalla forma imposta dalla natura stessa del prodotto, dalla
forma del prodotto necessaria per ottenere un risultato tecnico, o dalla
forma che da un valore sostanziale al prodotto”. La forma conferita dalla
natura del prodotto e le forme funzionali sono escluse dalla registrazione
per evitare il monopolio che verrebbe a costituirsi in capo al titolare del
marchio potendo questi impedire che altri imprenditori possano validamente
produrre un oggetto dotato di talune caratteristiche che lo rendono idoneo
all’uso cui è diretto50. Per quel che riguarda il concetto di “forma”, rientrano
48
TREVISAN, CUOZZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Ipsoa, Milano, 2013, 139.
BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 29; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale,
Giuffrè, Milano 2012, 166-167.
50
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 85.
49
21
nell’ambito di applicazione dell’art. 9 c.p.i. tutti i segni costituiti dall’aspetto
esteriore del prodotto51. Dunque la forma non è necessariamente un segno
tridimensionale, potendo trattarsi anche di elementi bidimensionali
intrinsecamente connessi al prodotto, quali particolari disegni o lavorazioni
apposte su un prodotto e i caratteristici tessuti utilizzati da molte case di
moda52.
Per quanto riguarda la forma naturale del prodotto, la dottrina e la
giurisprudenza sono concordi nell’affermare che debba trattarsi della forma
naturale o standardizzata essenziale all’esistenza stessa del prodotto,
quindi priva di capacità distintiva 53 . Ne sono esempio la forma di uno
schiaccianoci o di un pallone, la cui valida registrazione provocherebbe il
monopolio di un tipo di prodotto54. La “forma necessaria per ottenere un
risultato tecnico” è, invece, la forma funzionale, dettata da ragioni di utilità
tecnica, e quindi non monopolizzabile, appunto, se non nei limiti e secondo
le regole proprie dei brevetti per invenzione o per modello di utilità55; inoltre,
una forma proteggibile con brevetto non è tutelabile come marchio in virtù
della non cumulabilità delle due protezioni.
Più problematico appare il tema riguardante le forme che conferiscono un
valore sostanziale al prodotto: non è registrabile come marchio quella forma
ornamentale il cui pregio superi una determinata soglia ovvero quella che
incide significativamente sulla valutazione del prodotto ed è determinante
nella scelta di acquisto da parte del consumatore56. L’accento posto dalla
giurisprudenza è sul valore sostanziale della forma laddove apporti un
vantaggio competitivo significativo57. Il carattere sostanziale della forma è,
talvolta, influenzato dalla tipologia di prodotti cui si riferisce, in particolare
l’impedimento è pensato essenzialmente per i prodotti della moda,
51
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 173.
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 80; ne sono esempio i noti tessuti Burberry, Vuitton, Gucci.
53
V. Cass., 23 novembre 2001, in Giur. ann. dir. ind. 2002, n. 4334, 11; Trib. Venezia, 10 aprile 2006, in Giur. ann. dir.
ind. 2006, n. 5026, 742.
54
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 95; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto
industriale, Giuffrè, Milano 2012, 172.
55
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 81.
56
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 170; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007,82; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 96.
57
In tal senso v. Trib. Torino, 14 novembre 2008, Riv. dir. ind. 2009, II, 289.
52
22
dell’arredamento e dell’industrial design
58
. Ancora, l’impedimento è
applicabile se la forma rappresenta, per le sue caratteristiche intrinseche,
ragione d’acquisto per il consumatore, ma non lo è se un determinato
prodotto viene acquistato perché noto al pubblico come forma caratteristica
di una determinata impresa: in quest’ultimo caso, infatti, la forma attrae il
consumatore non come forma in sé, ma come segno distintivo 59.
Per concludere, se il prodotto viene acquistato in ragione della sua forma
come indice di provenienza da una certa impresa, la forma medesima è
suscettibile di registrabilità come marchio di forma; se l'acquisto del prodotto
dipende, invece, dalla forma in funzione meramente estetica, essa è
brevettabile come disegno o modello60.
4.1.4 L’assenza di capacità distintiva
Si è detto più volete che per poter essere registrato validamente il segno
deve essere dotato di capacità distintiva.
L’art.13.1 del c.p.i. dispone che non possono essere registrati come marchi
“i segni privi di carattere distintivo e in particolare: a) quelli che consistono
esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o
negli usi costanti del commercio; b) quelli costituiti esclusivamente dalle
denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che
ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a
designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la
provenienza geografica ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della
prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.
L’esigenza alla base della disposizione, come rimarcato dalla dottrina
italiana61, è il libero utilizzo dei segni da parte degli operatori di settore che
58
SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, in AA.VV., La proprietà intellettuale, Giappichelli, Torino, 2011, 51;
ROSSI, Art. 9, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà intellettuale, Giuffrè, Milano, 2013, 151.
59
GALLI, Comunicazione d’impresa e segni distintivi: le linee evolutive, in Dir. ind., 2011, 125; BOGNI, Il design:
registrazione e tutela di fatto dei diversi valori delle forme, in Dir. ind., 2011, 136.
60
FIGINI, TETTAMANTI, Sentenza Gucci: tra marchio di forma e modello ornamentale, in Norme & Tributi, fascicolo 5,
2013, 13.
61
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 86 ss; SARTI, Segni distintivi e denominazioni
d’origine, op.cit., 44-45; BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 36.
23
verrebbero ostacolati se termini di impiego comune fossero oggetto di
appropriazione in esclusiva come marchi62.
La presenza o meno del carattere distintivo, ovvero della capacità del segno
di comunicare al pubblico l’origine del prodotto, deve essere valutata con
riferimento ad “un consumatore medio, normalmente informato e
ragionevolmente attento e avveduto” 63 , come disposto da numerose
pronunce della CGCE.
La capacità distintiva del marchio può in oltre essere legata alla percezione
del consumatore di riferimento, in particolare, nel caso di prodotti destinati
ad un pubblico specialistico, si deve tener conto del fatto che questo
pubblico può percepire nel segno un’indicazione descrittiva in termini tecnici
sconosciuti al di fuori della cerchia di riferimento64.
Tale carattere distintivo può, inoltre, variare nel tempo: può accadere, infatti,
che l’uso nel tempo diminuisca la percezione del segno quale marchio o che
la
capacità
distintiva
del
marchio
accresca;
ancora,
un
segno
originariamente privo di capacità distintiva la può acquisire o, al contrario,
può verificarsi la perdita del carattere distintivo di un segno che in origine
ne era provvisto.
Prima delle influenze da parte della giurisprudenza comunitaria, nel nostro
paese si annoveravano tra i segni privi di capacità distintiva le
denominazioni generiche, le indicazioni descrittive e i segni divenuti di uso
comune.
A seguito delle decisioni della Corte di Giustizia UE e del Tribunale UE,
devono considerarsi privi di tale caratteristica, oltre alle denominazioni
generiche e le indicazioni descrittive (cui si riferisce l’art.13.1 b) c.p.i.),
anche i segni che vengono percepiti dal pubblico non come segni distintivi,
e quindi come un’indicazione dell’origine imprenditoriale del prodotto o
servizio, bensì come elementi strutturali del prodotto cui sono pertinenti,
ovvero come slogan pubblicitari65.
62
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 155.
Ad esempio, CGCE, 12 febbraio 2006, causa C-173/04P, in Giur. ann. dir. ind. 2006, n. 5051, 1053; CGCE, 3 settembre
2009, causa C-498/07P, in Foro.it, 2009, 541.
64
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 157.
65
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 175-176.
63
24
Tra i segni tradizionalmente privi di capacità distintiva, l’art.13.1, lett. b),
come supra riportato, individua quei segni costituiti “esclusivamente” da
denominazioni generiche o indicazioni descrittive e stilla un elenco, non
tassativo, degli elementi in relazione ai quali il segno può presentare,
appunto, una valenza descrittiva 66 . Con denominazioni generiche si
intendono le parole, figure o altri segni che indicano, nel linguaggio o nei
mezzi di comunicazione comuni, il prodotto67. Sono escluse, ad esempio,
da una possibile registrazione l’utilizzo della denominazione “pesce” o della
raffigurazione di un pesce per contrassegnare un prodotto ittico.
Possono, al contrario, essere registrati segni generici inseriti all’interno di
un marchio complesso, ovvero arricchiti o modificati da prefissi, suffissi o
combinati con altre parole (ad esempio, “Oransoda” per contraddistinguere
bibita al gusto di arancia). In quest’ultimo caso, infatti, l’elemento descrittivo
è arricchito da elementi distintivi; tali segni sono denominati “espressivi” in
quanto, per l’appunto, esprimono una caratteristica del prodotto68.
Inoltre, l’impedimento non trova applicazione se vengono impiegati come
marchi parole di fantasia o segni che hanno un proprio significato lessicale
nel linguaggio comune ma sono privi di aderenza concettuale con il prodotto
che contrassegnano (ad esempio, “Puma” nel designare scarpe sportive).
Sono considerati marchi descrittivi e, dunque, invalidi i cc.dd. marchi
geografici, se sono idonei ad avere una qualche rilevanza sull’impressione
che il consumatore riserva ai beni o servizi prodotti in quel determinato
luogo.
Una seconda ipotesi di segni privi del carattere distintivo, come disposto
dall’art. 13.1, lett. a), è quella dei segni divenuti di uso comune.
Tali segni, pur non avendo valenza descrittiva, sono utilizzati di frequente
nel commercio per esaltare le qualità dei prodotti, per una generica
magnificazione o per collocarli all’interno di una classe merceologica 69. Ne
sono esempio, parole quali “super”, “extra”, “ultra”, “universal”, “standard” e
66
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 158.
FRANZOSI, Marchi descrittivi, suggestivi, arbitrari, di fantasia, in Dir. ind., 2002, 125.
68
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 160-161; RICOLFI, I fatti costitutivi
del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 89.
69
GALLI, I segni distintivi e le denominazioni d’origine, in GALLI (a cura di), Codice della proprietà industriale: la riforma
2010, IPSOA, Milano, 2010, 31; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 176 ss.;
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 162.
67
25
segni figurativi quali una croce per designare farmaci o una saetta per
dispositivi elettrici.
Come sostenuto dalla dottrina nazionale anche i numeri e le singole lettere
dell’alfabeto, se non caratterizzati da particolari configurazioni grafiche, non
sono registrabili come marchi in quanto ritenuti segni di uso comune. Tale
impedimento fa riferimento al fatto che numeri e lettere, dato il loro impiego
generalizzato del commercio, anche per comporre sigle o abbreviazioni,
dovrebbero restare, come più volte sottolineato, di libero impiego. La loro
eventuale validità deve essere valutata caso per caso considerando l’uso
comune in relazione al genere di beni per i quali si richiede la registrazione
e eventuali particolarità grafiche del segno. La Corte di Cassazione ha
ritenuto, infatti, che lettere e numeri non possono essere automaticamente
ritenuti segni di uso comune, essendo invece onere di chi contesta la loro
valida registrazione come marchio dimostrare che nella fattispecie concreta
essi sono effettivamente tali70.
Un’ ultima categoria di segni privi di carattere distintivo individuati dalla
giurisprudenza comunitaria e, successivamente, anche dalla dottrina
nazionale comprende tutti quegli elementi del prodotto che non comunicano
l’origine imprenditoriale di quest’ultimo: ci si riferisce, in particolare, alle
forme, confezioni e colori. In talune ipotesi, infatti, questi vengono visti come
una caratteristica intrinseca del prodotto senza essere percepiti dal pubblico
come marchi. A questi segni è riconosciuta una capacità distintiva solo se
divergono in maniera significativa da quelli a cui il consumatore è abituato71.
Più difficilmente si individuano marchi denominativi o figurativi che non sono
descrittivi o di uso comune ma che sono comunque privi di capacità
distintiva72.
L’art. 13, c.p.i. prevede, inoltre, come già sottolineato, che la capacità
distintiva del segno possa variare nel tempo considerando sia l’ipotesi in cui
un segno, inizialmente privo del carattere distintivo, a seguito dell’utilizzo
70
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 165; il riferimento è alla
posizione della Cassazione in Cass. 25 giugno 2007, n. 14684, in Giur. ann. dir. ind. 2008, n. 5207, 39.
71
Sul punto CGUE, 20 ottobre 2011, cause riunite C-344/10P e C-345/10P secondo cui “la percezione del consumatore
medio non è la stessa nel caso di un marchio tridimensionale, costituito dalla forma del prodotto stesso, e nel caso di
un marchio denominativo o figurativo, rappresentato da un segno indipendente dall’aspetto dei prodotti che
contraddistingue”; CGCE, 6 maggio 2003, causa C-104/01, in Giur. ann. dir. ind. 2004, n. 4765, 1283.
72
Ipotesi emerse si riferiscono a cognomi di particolare diffusione, slogan, lettere o numeri non di uso comune.
26
l’acquisti, sia l’ipotesi in cui un segno, inizialmente dotato di capacità
distintiva, la perda (si parla in tal caso di volgarizzazione, v.infra). In
particolare, il secondo comma dell’art. 13 c.p.i. afferma che “possono
costituire oggetto di registrazione come marchio d'impresa i segni che prima
della domanda di registrazione, a seguito dell'uso che ne sia stato fatto,
abbiano acquistato carattere distintivo”. Il fenomeno è, però, assai raro in
giurisprudenza e la disposizione risulta superflua in quanto, non vi sarebbe
ragione di escludere dalla registrazione un segno già dotato di capacità
distintiva al momento della domanda73.
Oltre a questo, non può essere dichiarato o considerato nullo un marchio
se per l’uso che ne è stato fatto ha acquisito capacità distintiva prima della
proposizione della domanda o dell’eccezione di nullità. La legge prevede,
dunque, la sanatoria di vizi originari del segno o della registrazione con la
riabilitazione di un marchio all’origine sicuramente generico, che però,
tramite l’uso che ne è stato fatto nel tempo, ha acquistato un significato
ulteriore (per l’appunto, un secondary meaning, secondo la terminologia
anglosassone), che, convivendo con il significato “ordinario”, ha consentito
di individuare un determinato bene o servizio 74 . L’acquisto del carattere
distintivo suppone che il segno, a seguito del suo utilizzo per
contrassegnare i prodotti, possa essere percepito come marchio da parte
del pubblico di riferimento che abituandosi a questo uso, comincia a
collegare il segno al soggetto da cui provengono e a vedere in questo
un’indicazione di origine imprenditoriale 75 . Il marchio acquista capacità
distintiva se vi è il riconoscimento del segno come marchio da una parte di
una frazione significativa del pubblico di riferimento; è lasciata ai giudici
nazionali la facoltà di stabilire di caso in caso la soglia rilevante76.
In particolare la giurisprudenza italiana, per valutare l’acquisto di capacità
distintiva del marchio dispone una valutazione globale del caso concreto e
ne valuta alcuni fattori tra i quali l’intensità, l’estensione geografica, la quota
73
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 166; VANZETTI, DI CATALDO,
Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 183; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 95-96.
74
BOTTERO, Gli impedimenti assoluti alla registrazione, op.cit., 43.
75
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 168.
76
Vedi sul punto Trib. UE, 29 aprile 2004, T-399/02, in Giur. ann. dir. ind. 2004, n.5055, 1105.
27
di mercato, la durata dell’uso del marchio e gli investimenti effettuati a livello
promozionale77.
4.1.5. L’illiceità
Un’ ulteriore causa di non registrabilità del marchio o di nullità dello stesso
laddove ne sia stata concessa la registrazione è l’illecità del segno. A tale
impedimento vengono ricondotte una serie di fattispecie previste dalla legge
che sono eterogene fra loro.
Sono considerati illeciti i segni contrari alla legge, all’ordine pubblico e al
buon costume. La disciplina nazionale, a differenza di quella comunitaria, è
più restrittiva prevedendo, per l’appunto, anche l’illeceità del marchio
contrario alla legge.
Quest’ultima fattispecie è destinata ad essere applicata in rare occasioni e
comprende tutti quei casi in cui il segno, oggetto di registrazione, contrasti
con il divieto posto da una disposizione; in genere i divieti a cui ci si riferisce
sono quelli contenuti in norme esterne a quelle sui marchi78.
Si parla di segni contrari all’ordine pubblico in tutti quei casi in cui il segno
contrasti con i principi fondamentali su cui è fondato l’ordinamento dello
Stato 79 . Sono esempi di segni non registrabili per motivi riconducibili ai
divieti imposti dall’ ipotesi in esame, il fascio littorio o la svastica nazista.
Sono considerati, infine, segni contrari al buon costume quelli che si
pongono in contrasto con il comune senso del pudore (v. art. 529 c.p.) 80.
Il nostro ordinamento prevede, anche, il caso in cui tale contrarietà (alla
legge, all’ordine pubblico e al buon costume) sopravvenga nel tempo, in
seguito, deve ritenersi, a modifiche intervenute nell’ordinamento o nel
costume (art. 14.2 b) c.p.i.)81.
77
Trib. Torino, 19 ottobre 1999, in Giur. ann. dir. ind.,2000, 448; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale,
Giuffrè, Milano 2012, 185; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 170;
LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 62.
78
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 187 s.; in riferimento a tale ipotesi è stato
ritenuto illecito il marchio “I Grandi Veggenti d’Italia”, v. Trib. Milano, 14 febbraio 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, n.
4854, 687.
79
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 187.
80
Si veda il caso della A maiuscola unita a due punti, sul caso Trib. Milano, 17 dicembre 2005, in Giur. ann. dir. ind.,
2006, n.4990, 569.
81
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 101.
28
L’ art. 14.1 b) considera illeciti anche i segni idonei ad ingannare il pubblico,
in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei
prodotti o servizi. La norma va coordinata con la previsione relativa alla
decadenza del marchio per decettività sopravvenuta del segno, di cui all’art.
26 c.p.i.82.
L’ingannevolezza del pubblico è valutata con riferimento al consumatore
medio “normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”83.
Sono, infine, illeciti gli stemmi, gli emblemi ed altri segni considerati in
convenzioni internazionali o di interesse pubblico (di cui all’ art.10 del c.p.i.).
4.2 Gli impedimenti relativi alla registrazione
4.2.1 La novità del marchio
La novità del marchio attiene alla diversità del segno rispetto ad altri marchi
o segni distintivi ed, in particolare, a quelli eguali o simili sui quali un terzo
abbia acquistato un diritto anteriore al deposito della domanda di
registrazione.
L’art. 12 c.p.i. enuncia le ipotesi nelle quali sussiste un’interferenza
dell’ambito d’esclusiva acquisito da terzi e, dunque, quando si determina
una mancanza di novità del segno. Le lettere a), b) e f) fanno riferimento a
marchi di fatto o altri segni distintivi non registrati preusati da terzi; le lettere
c), d) ed e) riguardano, invece, il conflitto con marchi registrati preesistenti.
In base alla lett. a) dell’art.12 c.p.i., sono privi di novità i segni che “siano
identici o simili ad un segno già noto come marchio o segno distintivo di
prodotti o servizi fabbricati, messi in commercio o prestati da altri per
prodotti o servizi identici o affini, se a causa dell'identità o somiglianza tra i
segni e dell'identità o affinità fra i prodotti o i servizi possa determinarsi un
rischio di confusione per il pubblico, che può consistere anche in un rischio
di associazione fra i due segni”. Per quel che riguarda il requisito della
“notorietà”, si considera noto il marchio che sia conosciuto presso il pubblico
82
83
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 97.
V. Cass., 26 marzo 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, n. 4630, 95.
29
interessato, non essendo considerata condizione sufficiente la semplice
adozione del segno come marchio84. Non si tratta, tuttavia, di una mera
conoscenza del segno ma di una notorietà “qualificata”, ovvero è necessario
che il segno sia percepito dal pubblico come marchio, ossia come
un’indicazione della provenienza imprenditoriale del prodotto85; la notorietà
del marchio di fatto deve, dunque, raggiungere una certa “significatività”
(c.d. notorietà generale). Per evitare che l’uso precedente del segno
scarsamente rilevante presso il pubblico determini una condizione di nullità
del marchio posteriore registrato, l’art. 12.1 a) dispone che un preuso,
laddove non comporti una notorietà generale del segno o, comunque,
comporti una notorietà puramente locale, “non toglie la novità, ma il terzo
preutente ha diritto di continuare nell'uso del marchio”86. La notorietà del
segno può, inoltre, variare nel tempo passando da generale a locale o, per
converso, da locale a generale87.
Quanto poi alla dimensione territoriale della notorietà, è pacifico che non
occorre, affinchè possa aversi notorietà “generale”, una notorietà estesa
all’intero territorio nazionale, cosicché possa riconoscersi l’impedimento
anche di fronte a marchi di fatto noti solo in una parte del paese88. Se il
marchio preusato gode di notorietà generale, il marchio posteriore sarà
privo di novità se ricorre l’ulteriore condizione, di cui all’art. 12, ovvero il
rischio di confusione o associazione, di cui si dirà nel capitolo dedicato alla
tutela del marchio.
84
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 193; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al
marchio. I soggetti, op.cit., 106 s.; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit.,
193; TRAVOSTINO, Gli impedimenti relativi alla registrazione, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi
d’impresa, Utet, Torino, 2009, 86; SIRONI, Art. 12, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffè,
Milano, 2013, 181.
85
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 188; SARTI, L’impresa nel mercato, in AA.
VV., Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2012, 246; TRAVOSTINO, Gli impedimenti relativi alla registrazione, op.cit.,
87.
86
In merito, Cass., 26 settembre 2003, n. 14342, in Giur. dir. ind. 2004, 50, afferma che “mentre nel caso di uso
precedente di un marchio non registrato, che non importi notorietà di esso o che importi notorietà puramente locale, il
preutente ha diritto di continuare l’uso del marchio nei limiti della diffusione locale, ma la successiva registrazione del
segno da parte di un terzo è legittima, nel caso di preuso di un marchio non registrato con notorietà generale l’uso è
idoneo a togliere al marchio successivamente registrato il carattere della novità così da rendere invalida la
registrazione”.
87
SIRONI, Art. 12, op.cit., 185.
88
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 188; SIRONI, Requisiti di validità.
Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 195.
30
Le lett. c), d) ed e) dell’articolo in esame, disciplinano il conflitto tra un
marchio posteriore privo di novità e il marchio precedentemente registrato.
Affinché si verifichi tale tipo di conflitto, l’elemento formale necessario è il
deposito anteriore della domanda di marchio cui sia seguita una valida
registrazione 89 . Nonostante la norma faccia riferimento a marchi già
registrati in Italia o con efficacia nel nostro paese, il conflitto può verificarsi
anche in relazione a marchi comunitari o internazionali estesi all’Italia90.
Per stabilire quale marchio sia anteriore, ci si riferisce, in generale, alla data
di deposito della domanda di registrazione. Vi sono, però, alcune eccezioni
in cui si deve far riferimento ad una data anteriore alla data di deposito: ad
esempio, in riferimento alla priorità disposta dall’art. 4 c.p.i. oppure, ai sensi
degli artt. 34 e 35 RMC, qualora sussista una “valida rivendicazione di
preesistenza”.
Ai sensi dell’art. 12, co. 1, c.p.i., si verificherà una mancanza di novità
laddove il marchio posteriore sia identico a quello anteriore e ne sia
depositata domanda di registrazione per prodotti identici (lett. c)); “possa
determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, che può consistere
anche in un rischio di associazione” (lett. d)); o il marchio anteriore goda di
rinomanza e quello posteriore rechi pregiudizio alla sua rinomanza o alla
capacità distintiva (lett. e))91. Nel valutare la novità vanno posti a confronto
i segni come risultanti dalle rispettive registrazioni e i prodotti in esse
indicati; il giudizio di novità assumere, così, un carattere astratto non
facendo riferimento a specifiche modalità d’uso e al contesto in cui questo
avviene92. Solo nel caso dei marchi che godono di rinomanza è inevitabile
considerare nella valutazione elementi che dipendono dal contesto
concreto d’uso e di conoscenza del marchio anteriore93. A differenza del
marchio di fatto, il marchio registrato priva di novità il segno posteriore
anche in mancanza di una notorietà “qualificata”. Ai sensi dell’articolo in
esame, il marchio anteriore, nel caso non sia più “vitale”, ovvero sia scaduto
89
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 194 ss.; SIRONI, Art. 12, op.cit., 196.
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 201.
91
Ipotesi parallele sono previste all‘art. 20, co.1 c.p.i., di cui si tratterà nel prosieguo della trattazione; in dottrina vi è,
infatti, “un parallelismo fra definizione del potere invalidante del marchio anteriore e limiti della tutela contro le
violazioni del diritto”; v. sul punto VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano 2012, 203-204.
92
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 122; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè,
Milano 2012, 194 ss.; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 202.
93
Sul punto, VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 202 ss..
90
31
o decaduto per non uso, non priva di novità quello posteriore. Per quel che
riguarda i marchi scaduti il loro “potere invalidante” viene meno dopo due
anni dalla scadenza, ovvero dopo un periodo ritenuto sufficiente ad
estinguere il ricordo del marchio non rinnovato94. I marchi decaduti per non
uso protratto per cinque anni, ai sensi dell’art. 24 c.p.i., perdono, invece, la
loro efficacia invalidante alla scadere del quinquennio. E’ discusso in
dottrina se tali termini siano perentori o se per aversi novità del marchio
posteriore occorra comunque anche la perdita del ricordo95.
Come la capacità distintiva, anche la novità può essere sanata mediante la
convalida, di cui all’ art. 28 c.p.i.. Nel caso di convalidazione, ovvero di
tolleranza quinquennale all’uso di un marchio posteriore, non registrato in
malafede, simile o uguale a quello antecedente, quest’ ultimo resta efficace
e non può essere dichiarata la nullità per mancanza di novità di quello
posteriore, né può essere contestato con l’azione di contraffazione96.
La convalida può aversi rispetto sia a marchi anteriormente registrati97, sia
ad altri segni su cui vige un “diritto di preuso”98.
5. La tutela del marchio
5.1 Il diritto di esclusiva
Con la registrazione del marchio, sorge in capo all’imprenditore, titolare
dello stesso, un diritto esclusivo sul segno, interesse tutelato e protetto dalla
legge. Ai sensi dell’art. 20, co.1, c.p.i., il diritto, di cui sopra, consiste nella
“facoltà di fare uso esclusivo del marchio” in capo al titolare. Il suddetto
94
SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e relativi alla registrazione, op.cit., 203.
A sostegno di quest’ultima posizione si veda FLORIDIA, Il riassetto della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006,
136.
96
LECCE, Il marchio nella giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 2009, 163; SIRONI, Requisiti di validità. Impedimenti assoluti e
relativi alla registrazione, op.cit., 204.
97
In riferimento alla Legge dei Marchi vigente anteriormente alla riforma del 1992, la giurisprudenza aveva per molto
tempo ritenuto che non potesse verificarsi convalida rispetto ad un marchio anteriore registrato; tale orientamento
appare però oggi superato (v. Cass, 13 febbraio 2009, n. 3639, in Foro.it, 2009, 1037, nota CASABURI).
98
Il riferimento è ai marchi di fatto e ad altri segni distintivi non registrati: RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al
marchio. I soggetti, op.cit., 109 ss..
95
32
articolo, fissando i confini entro i quali l’uso del segno è riservato al titolare,
precisa, anzitutto, il diritto di quest’ultimo ad assumere liberamente scelte
circa le modalità di utilizzo del marchio (che possono includere anche
l’autorizzazione a terzi a servirsene) e, in seconda battuta, il diritto del
titolare di vietare a terzi non autorizzati l’utilizzo del segno che rientri nei
confini dell’esclusiva99. Se il titolare non ne autorizza l’uso si verifica una
violazione del diritto esclusivo sul marchio, ovvero una sua contraffazione.
La norma sopra riportata considera separatamente il caso della identità,
della somiglianza e dell’associazione fra segni, ma la sua ratio, e quindi il
trattamento delle tre fattispecie, è la medesima e cioè quella di tutelare la
funzione distintiva del marchio, evitando il rischio di confusione100.
L’articolo in esame prevede, come indicato, tre ipotesi nelle quali il titolare
può far valere il suo diritto sul marchio; tali fattispecie corrispondono, come
già detto, alle tre ipotesi, di cui all’art. 12 c.p.i., nelle quali un marchio
anteriormente registrato priva di novità un marchio posteriore
101
.
Nonostante il parallelismo sia evidente, va messa in luce una differenza tra
giudizio di novità e di contraffazione. In particolare, se nel giudizio di novità
vengono confrontati i marchi come risultano dalle rispettive domande di
registrazione e i prodotti in esse indicati, nel giudizio di contraffazione
vengono raffrontati il marchio anteriore come registrato e i prodotti per cui è
registrato con il marchio posteriore quale concretamente usato per
determinati prodotti, considerando il contesto d’uso102.
Ai sensi dell’articolo in esame, la contraffazione del marchio sussiste solo
se il terzo utilizza il marchio nell’attività economica; tale circostanza è la
soglia preliminare nel giudizio del terzo, infatti, solo se è superata si può
stabilire se effettivamente si è in presenza di una delle ipotesi di
contraffazione previste dalla norma. Non sono oggetto di contraffazione gli
usi personali del marchio altrui o i riferimenti al marchio in opere letterario,
artistiche o scientifiche103.
99
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014,
216; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 237 ss..
100
SARACENO, I diritti conferiti dalla registrazione, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet,
Torino, 2009, 150 ss..
101
Parallelismo ben rimarcato in VANZETTI, GALLI, La nuova legge dei marchi, Giuffrè, Milano, 2001, 122.
102
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 217.
103
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 220.
33
Affinché si verifichi contraffazione di un marchio l’uso deve avvenire nel
territorio del nostro paese, secondo il principio della territorialità. Alcune
perplessità sono sorte nel caso in cui il marchio sia utilizzato in Internet: in
generale, si ritiene effettivo un uso in Italia se il server si trova in Italia o se
si trova all’estero ma è rivolto al consumatore italiano; mentre non sussiste
un uso in Italia se il sito contiene offerte rivolte a consumatori di altri stati
anche se è visibile nel nostro paese.
Non costituisce, infine, contraffazione del marchio il mero deposito del
marchio cui non segue un effettivo utilizzo; in tal caso il titolare potrà
richiedere la declaratoria di nullità o ottenere il rigetto della domanda di
registrazione per mancanza di novità del segno104.
Al secondo comma, l’art. 20 definisce un elenco non tassativo di attività
riservate in esclusiva al titolare del segno registrato che costituiscono
ipotesi di contraffazione se compiute da un terzo non autorizzato. In
particolare, è riservata al titolare l’apposizione del marchio su prodotti e
confezioni; le attività di offerta, immissione in commercio, detenzione,
esportazione e importazione, utilizzo in corrispondenza e pubblicità di
prodotti recanti il marchio. In tali ipotesi, si verifica contraffazione anche
qualora non sia il produttore a porle in essere ma il distributore o il
rivenditore di prodotti fabbricati da altri.
Le previsioni di cui sopra vigono anche per gli altri segni distintivi ai sensi
del c.d. principio della “unitarietà dei segni distintivi”, di cui all’art. 22 c.p.i.105,
ovvero sono estese a tutte le ipotesi di utilizzo di un segno simile al marchio
in funzione di segno distintivo diverso.
5.2. Uso di segno identico per prodotti o servizi identici
Ai sensi dell’art. 20, co. 1, c.p.i., è vietato a terzi l’utilizzo di un segno identico
al marchio per prodotti identici a quelli per cui il marchio è registrato.
104
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 222; DI CATALDO, I segni distintivi, Giuffrè, Milano, 1993, 95.
Su tale principio v. SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 128-129; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto
industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 193 ss.; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 88 ss..
105
34
Lo scopo della norma in esame è quello di rafforzare la tutela sul marchio
registrato proteggendone, non solo la funzione d’origine, ma anche le altre
funzioni, in particolare, quella attrattiva contro ipotesi di agganciamento
parassitario106. La norma si applica anche nelle ipotesi in cui sembra che
una confondibilità sia da escludere, ad esempio, nel caso in cui il terzo
contrassegni il proprio prodotto con altri marchi che evidenziano la natura
non originale oppure quando il contesto renda chiara la non provenienza
del prodotto dal titolare del marchio107.
In merito alla identità fra segni, in dottrina vi sono differenti orientamenti: si
parla di identità assoluta e sostanziale, riferendosi nel primo caso a due
segni che non presentano alcuna differenza; nel secondo a due segni che,
seppur diversi per alcuni aspetti, presentano lo stesso carattere distintivo 108
o sono percepiti dal pubblico come identici109.
Nella giurisprudenza italiana sembra prevalere l’orientamento dell’identità
sostanziale, affermandosi l’identità tra due marchi anche qualora siano stati
aggiunti “elementi di differenziazione marginali, irrilevanti e non percepibili
dal consumatore medio”110.
D’altro canto, la Corte di Giustizia afferma che “v’è identità fra il segno e il
marchio quando il primo riproduce, senza modifiche, né aggiunte, tutti gli
elementi che costituiscono il secondo”, ma ammette l’identità fra i segni se
quello del terzo “considerato complessivamente, contiene differenze
talmente insignificanti da poter passare inosservate agli occhi del
consumatore medio”111.
Per quel che riguarda l’identità fra prodotti, questa “deve essere valutata
con riferimento alla classe di prodotto per la quale è stato registrato il
marchio” e il confronto deve avvenire “sul piano della tipologia
merceologica”112; in tal senso si ritengono identici i prodotti che il pubblico
non distingue tra loro, mentre vengono considerati diversi quelli che, anche
106
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239; SIRONI, in AA.VV., Studi di diritto
industriale in onore di Adriano Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, 1543 ss..
107
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 223; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano,
2012, 239; SIRONI, in AA.VV., Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, 1543 ss.;
SARTI, Segni distintivi e denominazioni d’origine, op.cit., 78-79.
108
GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 170-171.
109
SIRONI, in AA.VV, Studi di diritto industriale in onore di Adriano Vanzetti, Giuffrè, Milano, 2004, 1549 ss.
110
Trib. Milano, 21 febbraio 2009, in Giur. ann. dir. ind. 2009, n.5405, 726.
111
CGEU, 20 marzo 2003, causa C-291/00, in Giur. ann. dir. ind. 2003, n.4605, 1418.
112
Trib. Pistoia, 15 ottobre 2001, in Giur. ann. dir. ind. 2002, n. 4371, 347, in motivazione a p. 355.
35
se sono ricompresi all’interno della stessa categoria merceologica, vengono
considerati appartenenti a differenti tipologie. La valutazione sull’identità dei
segni e dei prodotti è, comunque, secondo un consolidato orientamento
della Corte di Giustizia, subordinata al fatto che l’utilizzo di un segno identico
su prodotti identici “pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del
marchio”113. In particolare, deve verificarsi presso i consumatori un rischio
di confusione sull’origine imprenditoriale o una lesione delle altre funzioni
tutelate del marchio 114 , ovvero un indebito vantaggio per il terzo o un
pregiudizio per il marchio115.
5.3 Il rischio di confusione
Nella fattispecie riportata all’art. 20, co. 1, lett. b), c.p.i., l’uso del marchio da
parte di terzi è vietato quando possa determinarsi “un rischio di confusione
tra il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione” a
causa dell’utilizzo di un marchio uguale o simile per prodotti identici o affini.
La tutela del marchio contro la confondibilità è volta a proteggere la sua
funzione distintiva, nel senso di funzione di indicazione di provenienza del
prodotto da un determinato imprenditore consentendo di distinguerlo, senza
confusione, da quello di origine diversa116. Inoltre, “il marchio deve costituire
la garanzia che tutti i prodotti che ne sono contrassegnati sono stati
fabbricati sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa attribuirsi la
responsabilità della loro qualità” 117 . Rispetto alla funzione distintiva così
definita, l’erroneo convincimento del pubblico circa la medesima origine
imprenditoriale dei prodotti rappresenta l’ipotesi della c.d. confusione in
senso stretto che si verifica laddove il consumatore acquista il prodotto dal
contraffattore credendo che questo provenga dall’impresa del titolare del
113
CGUE, 22 settembre 2011, causa C-323/09, in Riv. dir. ind. 2012, 81, nota STEFANI.
A sostegno della posizione della Corte di Giustizia GALLI, Marchi e invenzioni, in GALLI, GAMBINO (a cura di), Codice
commentato della proprietà industriale e intellettuale, UTET, Torino, 2011, 332-333; per critiche alla posizione v. SARTI,
Segni distintivi e denominazioni d’origine, op.cit., 77 s..
115
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 225.
116
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al
marchio. I soggetti, op.cit., 127 ss..
117
CGCE, 12 febbraio 2004, causa C-218/01, in Giur. ann. dir. ind., 2006, n. 5047, 999.
114
36
marchio 118 ; mentre, l’erroneo convincimento circa la provenienza dei
prodotti da imprese tra di loro economicamente collegate costituisce la c.d.
confusione in senso lato che coincide in sostanza con il rischio di
associazione, che si verifica quando il consumatore è consapevole della
provenienza del prodotto dal contraffattore ma ritiene vi sia un collegamento
economico con l’impresa del titolare, in realtà inesistente119. In genere, ci si
riferisce al rischio di associazione come ad un rischio di confusione
“allargato” che si verifica, appunto, qualora il pubblico riconosca dei legami
economici fra titolare e contraffattore120. Un diverso orientamento muove,
invece, da un collegamento/trasferimento dell’immagine di un marchio
all’altro ad opera del consumatore, il quale richiama alla mente il messaggio
collegato al marchio imitato pur in assenza di un pericolo di confusione121.
La giurisprudenza comunitaria, alla quale si è adeguata quella italiana,
interpreta la norma secondo il primo orientamento dottrinale, ovvero colloca
il rischio di associazione all’interno del rischio di confusione a chiarimento
di quest’ultimo; inoltre, non consente, in tal senso, la repressione di
fenomeni di agganciamento non confusorio122. E’ discusso, inoltre, se sia
rilevante ai sensi dall’articolo in esame, anche un rischio di confusione
presente in un momento anteriore all’acquisto, ovvero nel momento in cui il
consumatore entra in contatto con il prodotto, ma che viene meno al
momento dell’acquisto; si parla in tal caso di pre-sale confusion.
In tale ipotesi, il pregiudizio per il titolare del prodotto imitato non sta tanto
nel fatto che questo rischia di essere confuso con altri: il rischio è il contatto,
e sta nel fatto che il consumatore è attratto dalla somiglianza con il prodotto
noto, indipendentemente da ogni confusione successiva sulla fonte, e lo
118
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 226.
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 247; MAYR, I segni distintivi e il design, in
UBERTAZZI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e concorrenza, Cedam, Padova, 2012, 145;
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 132 ss.; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit.,
226-227.
120
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 139-140; MAYR, I segni distintivi e il design, op.cit., 145 ss.; VANZETTI,
DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 247.
121
SANDRI, Associazione e confondibilità per associazione, in Riv. dir. ind., 2012, 186 ss.; GALLI, Funzione del marchio e
ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 190 ss.; v. anche CASABURI, Segni e forme distintive. La nuova disciplina,
Giuffrè, Milano, 2001, 65-66.
122
App. Milano, 25 luglio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 520; Trib. Roma, 25 ottobre 2002, in Giur. ann. dir. ind.,
2003, 521; v. RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 132-133; MAYR, I segni distintivi e il
design, op.cit., 2012, 271; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 227-228.
119
37
acquista perché lo ritiene somigliante a quello originale123. Ne è esempio,
l’utilizzo di una bottiglia simile all’altrui forma registrata come marchio ma
con elementi differenti, tali da escludere un eventuale equivoco: in tal caso,
si verificherebbe, oltre alla mancanza di novità, un’ipotesi di pre-sale
confusion, in quanto il consumatore può in effetti avere compiuto
un'associazione mentale in un momento anteriore124. Un’ulteriore ipotesi di
rischio di confusione è il post-sale confusion che si verifica in un momento
successivo all’acquisto, qualora si riscontri confusione nei terzi circa la reale
provenienza del prodotto nonostante chi ha acquistato il prodotto conosca
l’effettiva titolarità del marchio125. Il riferimento è, ad esempio, all’acquisto
da parte del consumatore di prodotti che imitano le forme distintive di quelli
di celebri case di moda, quali Gucci o Luis Vuitton, per far credere a terzi
che vedono il prodotto-copia che si tratti dell’originale, nonostante
l’acquirente sia pienamente consapevole della diversa provenienza.
E’, dunque, evidente, e per questo la loro rilevanza ai sensi dell’art. 20 c.p.i.
è discussa, che queste forme di confusione non intaccano direttamente la
funzione del marchio come indicatore di origine e hanno in comune con la
confondibilità
“tradizionale”
essenzialmente
il
fatto
di
sfruttare
parassitariamente i valori di avviamento commerciale incorporati nel
marchio126.
Ulteriore motivo di discussione nella dottrina e nella giurisprudenza, è se la
confondibilità debba considerarsi in astratto o in concreto.
Nella prima ipotesi, per valutare il rischio di confusione tra i segni si fa
riferimento alle risultanze dalla registrazione, sia per quel che riguarda il
segno che per i prodotti rivendicati, a prescindere dalle modalità concrete
d’utilizzo del segno, dal contesto in cui questo avviene e dalle peculiarità
del prodotto offerto; in tal modo l’effetto confusorio viene confermato anche
se in realtà non sussiste in concreto127.
123
CASABURI, I looks-alike: situazione e prospettive in Italia, relazione in il problema dei look-alike: limiti alla “libertà di
imitare”, in www.indicam.it, Milano, 2003, 15.
124
CGCE, 29 settembre 1998, causa C-39/97, in Giur. It., 1999, 549, nota RICOLFI.
125
CASSANO, Fattispecie della concorrenza sleale mediante internet: gli atti pertinenti ai segni distintivi, in CASSANO,
CIMINO (a cura di), Diritto dell'Internet e delle nuove tecnologie telematiche, Cedam, Padova, 2009, 427.
126
GALLI, “Nuova” contraffazione di marchio: dalla confondibilità all’agganciamento parassitario, in relazione al
convegno indicam, in www.indicam.it, 20 settembre 2007.
127
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 56 ss.; SENA, Confondibilità fra segni e fra prodotti o servizi nella
giurisprudenza comunitaria: alcuni considerazioni pertinenti e impertinenti, in Riv. dir. ind., 2004, 201 ss.; RICOLFI, I fatti
costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 229.
38
Per quel che riguarda la seconda ipotesi, ovvero quella della confondibilità
in concreto, prevede che, nella valutazione, si debba considerare se le
modalità e il contesto d’uso interferiscono con la funzione d’origine, creando
un reale rischio di confusione sulla provenienza 128 . La giurisprudenza
italiana sembra aver superato la dicotomia astratto/concreto tendendo a
valutare la confondibilità in concreto e, solo per un’eventuale integrazione,
quella in astratto.
Per quel che concerne i criteri di valutazione del rischio di confusione, in
genere questo deve essere valutato globalmente considerando “tutti i fattori
pertinenti del caso in specie”
129
che devono essere simultaneamente
presenti, ma possono “bilanciarsi” e compensarsi tra loro.
Anzitutto i fattori da considerare sono l’identità o somiglianza tra i segni e
l’identità o affinità tra prodotti; a questi si aggiunge, inoltre, la valutazione
della “forza” distintiva del marchio che orienta il giudizio di confondibilità130.
Si è già detto cosa si intenda per prodotti identici, per quel che riguarda i
prodotti affini, invece, ci si riferisce all’ipotesi in cui, pur essendovi la
possibilità di distinzione, dal punto di vista merceologico, fra i prodotti, la
situazione sia tale da indurre i consumatori a ritenere che vi sia un
collegamento tra di loro131.
Il riferimento per valutazione è il consumatore medio, ossia, come già detto,
quello “normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”132.
Si considera, inoltre, il livello di esperienza, di preparazione e di attenzione.
In genere, il rischio di confusione è più elevato per prodotti poco costosi, di
consumo corrente, tipicamente acquistati da un consumatore che non
presta molta attenzione e che non ha particolari qualificazioni; è più ridotto
se si tratta di prodotti costosi che il consumatore acquista con molta
attenzione o di prodotti specialistici destinati a professionisti esperti133.
128
GALLI, Funzione del marchio e ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 113 ss.
CGCE, 12 giugno 2007, causa C-102/07, in Giur. ann. dir. ind. 2009, n.3469, 1357.
130
RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 231.
131
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 259; SIRONI, Ambito di tutela del marchio,
op.cit., 246-247; Trib. Milano, 7 luglio 2010, in Giur. ann. dir. ind., 2010, 760.
132
CGCE, 12 febbraio 2006, causa C-173/04P, in Giur. ann. dir. ind., 2006, n. 5051, 1053; CGCE, 3 settembre 2009,
causa C-498/07P, in Foro.it, 2009, 541.
133
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 246; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al
marchio. I soggetti, op.cit., 134; SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 232; CGCE, 12 gennaio 2006, in Foro It.,
2006, 354.
129
39
5.4 Il marchio che gode di rinomanza
In base all’art.20.1 lett. c) c.p.i. i marchi che godono di rinomanza
beneficiano di una tutela che va oltre il limite di rischio di confusione
sull’origine e che può operare anche quando i prodotti o i servizi del terzo
non siano affini a quelli per cui è registrato il marchio134. Per tali marchi non
vige il “principio di relatività della tutela”, in base al quale il marchio è protetto
in relazione ai prodotti per i quali è registrato o a prodotti affini. La loro tutela,
che si definisce “ultramerceologica”, va oltre il limite della identità o affinità
fra prodotti, in quanto essi esercitano un potere attrattivo nel consumatore
che acquista il prodotto non solo per ragioni legate alla sua particolare
provenienza. La protezione è volta a riservare in esclusiva al titolare la
capacità di vendita e di richiamo di tali marchi, impedendo a terzi
l’agganciamento o la lesione con la loro attività135.
La norma in esame è oggetto di interpretazioni differenti da parte della
dottrina e della giurisprudenza.
Secondo un primo orientamento, la funzione essenziale del marchio
sarebbe quella distintiva e, in tal caso, la norma centrale del sistema
sarebbe l’ipotesi di cui all’art. 20, co.1, b) c.p.i., alla quale, per alcuni marchi,
si aggiungerebbe la protezione oltre il rischio di confusione prevista dalla
norma in analisi136.
Secondo un differente orientamento, la funzione distintiva sarebbe solo una
componente della funzione principale del marchio che è, oggi, quella di
comunicare messaggi al consumatore: nel senso che tra i messaggi
comunicati al consumatore vi è anche quello sulla provenienza del
prodotto137. In tal caso, l’ipotesi, di cui alla lett. c) dell’art. 20.1, sarebbe
considerata ipotesi centrale e generale di contraffazione.
Ai sensi dell’art. 20, co.1, c), affinché la disciplina possa applicarsi è
necessaria la rinomanza del marchio, che può essere definita come una
134
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 249.
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 261 ss.; GALLI, Funzione del marchio e
ampiezza della tutela, Giuffrè, Milano, 1996, 135-136.
136
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 239 ss.; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007, 49-50; RICOLFI, I fatti costitutivi del diritto al marchio. I soggetti, op.cit., 127 ss..
137
GALLI, Marchi e invenzioni, op.cit., 260 ss.; GALLI, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova
disciplina, Giuffrè, Milano, 2001, 22 ss.; CASABURI, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova
disciplina, Giuffrè, Milano, 2001,108 ss..
135
40
conoscenza presso il pubblico a seguito del suo utilizzo. Nell’ orientamento
prevalente in dottrina e giurisprudenza, tale peculiarità è considerata in
termini molto “ampi”; come affermato dalla Corte di Giustizia138, il segno,
per godere dello stato di notorietà/rinomanza, deve essere “conosciuto da
una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti e servizi
contraddistinti da detto marchio”, dove con “pubblico interessato” si intende
“il grande pubblico, ovvero un pubblico più specializzato, ad esempio, un
determinato ambiente professionale”. In giurisprudenza, come in dottrina,
non si fissa una soglia percentuale di conoscenza del marchio da parte del
pubblico e, in particolare, la dottrina ritiene sufficiente una bassa soglia di
conoscenza del marchio 139. Tale rinomanza deve, inoltre, sussistere per
parte “sostanziale” del territorio italiano140.
Per quel che riguarda l’estensione merceologica, la protezione si applica
laddove il segno venga utilizzato per prodotti identici o affini e anche non
affini, ai sensi dell’articolo in esame.
Tale estensione è influenzata dall’ampiezza e intensità della rinomanza:
laddove un marchio sia celebre o molto noto si creerà indebito vantaggio o
pregiudizio anche se le categorie merceologiche di prodotti contrassegnati
sono molto distanti tra loro. Come per l’ipotesi di cui all’art. 20, co.1, b) c.p.i.,
anche in tale fattispecie è necessaria l’identità o somiglianza tra i segni che
in tal caso, tuttavia, si traduce in un “nesso” tra il segno posteriore e il
marchio d’impresa141. Dove per “nesso” si intende “il fatto che il marchio
posteriore evochi quello anteriore nella mente del consumatore medio,
normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto”142.
La valutazione della somiglianza si basa su un’impressione complessiva
generata dai marchi, considerando i loro elementi distintivi e tenendo conto
del profilo visivo, fonetico e concettuale143.
138
CGCE, 6 ottobre 2009, causa C-301/07, in Foro.it 2010, 320; Trib. UE, 13 dicembre 2004, in Foro.it 2005, 508; CGEE,
14 settembre 1999, causa C-375/97, in Giur. ann. dir. ind. 1999, 1569.
139
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 151-152; RONCAGLIA, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme
distintive. La nuova disciplina, Giuffrè, Milano, 2001, 367 ss..
140
QUATTRONE, in GHIDINI, DE BENEDETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Il sole 24 ore, Milano, 2006, 81.
141
CGCE, 23 ottobre 2003, causa C-408/01, in Riv. dir. ind. 2004, 130, nota GALLI; CGCE; 18 giugno 2009, causa C487/07, in Giur. Comm. 2010, 969, nota DI CATALDO.
142
CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI.
143
Trib. UE, 16 aprile 2008, T-181/05, in Foro.it, 2008, 442.
41
Altre peculiarità da tenere in considerazione sono anche: “la natura dei
prodotti per i quali i marchi in conflitto sono registrati”, “il livello di notorietà
del marchio anteriore”, “la distintività intrinseca o acquisita, grazie all’uso
del marchio anteriore”, e “l’esistenza di un rischio di confusione nella mente
del pubblico” 144 . Dunque, la norma prevede un richiamo del marchio
anteriore che può dipendere dalla somiglianza tra i segni ma anche da altri
fattori, non essendo quest’ultima sufficiente a tal fine.
Per tali segni, ai sensi dell’articolo in esame, la tutela è, dunque, ampliata
all’ipotesi in cui “l'uso del segno – identico o simile da parte di terzi- senza
giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere
distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi”.
Per stabilire se vi sia pregiudizio o indebito vantaggio occorre valutare
anzitutto, la capacità distintiva e la rinomanza del marchio, oltre a quanto il
segno del terzo richiama il marchio noto145. Sarà, dunque, più probabile si
verifichi pregiudizio o indebito vantaggio quanto più la presenza dei fattori
messi in evidenza sia elevata. Il consumatore al quale il legislatore si rifà è
quello di riferimento per i prodotti o servizi per cui è adottato il marchio
posteriore, nel caso di indebito vantaggio, quello di riferimento per prodotti
o servizi per cui il marchio è stato registrato, nel caso di pregiudizio146.
L’indebito vantaggio tratto dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del
marchio noto si verifica con l’agganciamento, da parte del terzo, a
quest’ultimo e alla sua capacità di attrarre il consumatore, con lo scopo di
agevolare l’accreditamento sul mercato di un prodotto, creando un clima di
favore da parte dei consumatori nei suoi confronti, e di ottenere un risparmio
di costi promozionali147.
Si verifica, invece, un pregiudizio al carattere distintivo del marchio noto
quando “il marchio anteriore non è più in grado di suscitare un’associazione
immediata con i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato” e vi è un
indebolimento della sua “presa esercitata nella mente del consumatore”148.
144
CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI.
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 255-256.
146
CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI.
147
Trib. Bologna, 6 febbraio 2009, in Giur. ann. dir. ind. 2009, 711; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale,
Giuffrè, Milano, 2012, 261 ss.; GALLI, in VANZETTI, SENA (a cura di), Segni e forme distintive. La nuova disciplina, Giuffrè,
Milano, 2001, 40-41.
148
CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, nota SANDRI; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di
diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 247.
145
42
Vi è, invece, un pregiudizio alla rinomanza nei casi in cui l’uso del segno del
terzo nuoce all’immagine e alla reputazione del marchio, ad esempio perché
si tratta di prodotti o servizi di qualità scadente o, comunque, non in linea
con l’immagine connessa al marchio149.
Infine, l’art. 20 alla lett. c) prevede che il terzo possa sottrarsi dall’accusa di
contraffazione e continuare l’uso del segno se sussiste “giusto motivo”, non
è facile però individuare casi in cui la clausola si applichi.
6. Nullità e decadenza
6.1 L’estinzione del marchio
Attraverso la registrazione o l’uso del marchio (per i marchi di fatto) viene a
costituirsi in capo al titolare del segno un diritto di esclusiva. Tale diritto,
come previsto dalla normativa nazionale e comunitaria, può estinguersi
totalmente
o
parzialmente
al
ricorrere
di
determinate
cause
o
comportamenti. Tale estinzione può conseguire, come nel caso della nullità
o della decadenza del marchio, alla sopravvenienza di vizi (quali il venir
meno dei requisiti di validità o il successivo accertamento di impedimenti
alla registrazione), o, come nel caso della scadenza, decorso il termine di
efficacia della registrazione senza che sia intervenuto il rinnovo (a fronte di
una validità del marchio decennale) 150.
6.2 La nullità del marchio
Come è stato detto più volte, il marchio per poter essere registrato deve
possedere i requisiti di validità; qualora il marchio sia registrato nonostante
149
SIRONI, Ambito di tutela del marchio, op.cit., 257.
PECORARO, Nullità, convalidazione e decadenza, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa,
Utet, Torino, 2009, 504.
150
43
sussistano degli impedimenti, potrà essere promossa un’azione di nullità, ai
sensi dell’art. 117 c.p.i..
Può accadere, infatti, che sussistano degli impedimenti che l’UIBM non ha
rilevato o ha valutato in modo inesatto nell’esame della domanda; che il
soggetto legittimato non presenti opposizione o questa sia respinta; oppure,
che sussistano impedimenti che non sono oggetto d’esame151.
L’elenco tassativo delle cause di nullità del marchio è disposto dall’art. 25
c.p.i..
La normativa comunitaria distingue, in riferimento agli impedimenti assoluti
e relativi alla registrazione, le cause di nullità assoluta e relativa: le prime
posso essere fatte valere da “qualsiasi persona fisica o giuridica” e dal
Pubblico Ministero, mentre le seconde dai titolari dei diritti anteriori, dai loro
aventi causa o aventi diritto152.
L’onere di provare la nullità del titolo “incombe in ogni caso su chi impugna
il titolo”, ai sensi dell’art. 121, co.1, c.p.i..
La declaratoria di nullità ha effetti ex tunc, essendo la registrazione invalida
priva di effetti ab origine153 e ha efficacia erga omnes. Tale declaratoria può,
inoltre, interessare solo una parte dei prodotti per i quali è registrato il
marchio, nel caso in cui solo per tali prodotti manchino i requisiti di validità:
si parla in tale ipotesi di nullità parziale.
Ai sensi dell’art. 21, co. 3, c.p.i., a seguito della declaratoria di nullità,
“quando la causa di nullità comporta l’illiceità dell’uso del marchio”,
quest’ultimo sarà vietato a chiunque. Tale illiceità ricorre nell’ipotesi in cui il
marchio sia decettivo o contrario alla legge, all’ordine pubblico e al buon
costume o sia stato registrato in violazione dell’art. 10 c.p.i.; vi sono, invece,
orientamenti divergenti nel caso in cui il marchio sia registrato in violazione
di diritti anteriori di terzi, di cui all’art. 14, co. 1, lett. c)154.
La nullità relativa, di cui si è detto, può essere sanata qualora il titolare dei
diritti anteriori tolleri consapevolmente per un periodo di cinque anni l’uso
151
SIRONI, Nullità e decadenza, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 290.
SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 290.
153
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 553; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007, 189.
154
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 295; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007, 192-193; SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 291.
152
44
del marchio registrato155. Tale ipotesi prevista dalla legge italiana è definita
come convalidazione del marchio (art. 28 c.p.i.) e si spiega sull’assunzione
che il marchio in conflitto, grazie all’uso quinquennale, abbia acquisito un
autonomo accreditamento presso il pubblico.
6.3 La decadenza del marchio
La decadenza del marchio consiste nell’estinzione dei diritti d’esclusiva di
cui gode il titolare dovuta al sopravvenire di situazioni ostative al perdurare
della registrazione e al protrarsi dei suoi effetti.
Ai sensi dell’art. 26 c.p.i. il marchio decade: a) per volgarizzazione, ai sensi
dell'art. 13, co. 4; b) per illiceità sopravvenuta, ai sensi dell'art. 14, co. 2; c)
per non uso, ai sensi dell'art. 24.
La decadenza, come la nullità, può essere totale o parziale, ossia riguardare
tutti i prodotti per cui il marchio è registrato o una parte di questi.
Al contrario della nullità, che opera ex tunc, la decadenza non opera con
efficacia retroattiva, determinando i propri effetti solo dal manifestarsi della
causa che la determina156.
Per quel che riguarda le diverse fattispecie citate all’art. 26, la decadenza
per volgarizzazione si verifica quando vi è una perdita della capacità
distintiva del marchio dovuta ad un’attività o inattività del titolare; si parla,
invece, di decadenza per illiceità sopravvenuta nell’ipotesi in cui un marchio,
a causa dell’utilizzo che ne viene fatto, divenga idoneo ad ingannare il
pubblico.
La decadenza per non uso, ipotesi che si verifica nel caso giuridico di cui si
dirà nel capitolo IV, sarà approfondita di seguito.
6.3.1. La decadenza per non uso
Tra le altre ipotesi di decadenza del segno, la più importante è la cc.dd.
decadenza per non uso.
155
156
SARTI, L’impresa nel mercato, in AA.VV., Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2013, 263.
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 194; PECORARO, Nullità, convalidazione e decadenza, op.cit., 511.
45
Ai sensi dell’art. 24.1 c.p.i., si è in presenza di tale ipotesi se il marchio non
viene effettivamente utilizzato entro cinque anni dalla registrazione ovvero
se l’uso venga sospeso per un periodo ininterrotto di cinque anni.
Con questa norma si vuole evitare che marchi “vivi” dal punto di vista
giuridico, ma “morti” nel relativo mercato di beni o servizi, possano impedire
l’accesso a nuovi competitors in virtù di un titolo giuridico che, sia pur
formalmente valido, non ha (più) un effettivo riscontro presso i
consumatori157.
Per quel che riguarda la nozione di uso “effettivo” a cui la norma fa
riferimento, la giurisprudenza prevalente e la dottrina affermano che questo
debba essere connotato da un sufficiente grado di intensità e di
continuità158.
Affinché non si verifichi la decadenza del marchio l’uso deve essere
economicamente rilevante, non puramente simbolico, “deve rispondere ad
un ragionevole requisito di effettività” e “testimoniare una certa presenza
della relativa impresa sul mercato”159; il segno deve contrassegnare prodotti
o servizi realmente destinati al mercato secondo le modalità e per le finalità
proprie dell’attività economica del titolare, considerandone le peculiarità.
Ad esempio, non vi è utilizzo effettivo quando l’uso del marchio avviene
internamente all’impresa del titolare, senza un contatto con i consumatori;
inoltre, l’uso non potrà essere invocato dal titolare per escludere decadenza
se il marchio sia utilizzato da un terzo senza il suo consenso160.
La decadenza non si verifica se il titolare utilizza il marchio in una forma
modificata ma che non sia idonea ad alterarne il carattere distintivo, ovvero,
nel caso in cui abbia la titolarità di una pluralità di marchi simili in vigore,
faccia uso di almeno uno di tali segni per contraddistinguere i medesimi
prodotti o servizi161. La norma lascia libertà al titolare nell’ apporre variazioni
o “aggiornamenti” rispetto al marchio registrato senza ricorrere nella perdita
del diritto di esclusiva su di esso. L’uso in forma modificata può essere
157
LICHERI, Il tema della decadenza del marchio per non uso, in www.diritto24.ilsole24ore.com, 17 gennaio 2014; sul
punto v. VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 282; FLORIDIA, Il riassetto della
proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 136; SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 300.
158
SIRONI, Art. 24, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2013, 497.
159
Trib. Milano, 30 settembre 2002, in Dir. ind. 2003, 67; Trib. Roma, 22 maggio 2003, in Giur. ann. dir. ind., n. 4676,
479.
160
SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 301 ss..
161
PECORARO, Nullità, convalidazione e decadenza, op.cit., 516; SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 304.
46
equiparato all’uso del marchio come registrato finché abbia ad oggetto un
marchio simile, i cui caratteri originali corrispondano a quelli del marchio di
cui si tratta 162 . In giurisprudenza si fa riferimento ad una “modalità di
utilizzazione che non incide né singolarmente, né complessivamente su
alcuno degli elementi individualizzanti del segno”163.
Inoltre, il marchio non decade quando il suo non utilizzo sia “giustificato da
un motivo legittimo” e sia, dunque, legato a questioni indipendenti dalla
volontà del titolare. L’orientamento prevalente nella nostra giurisprudenza
comprende nell’ipotesi in esame, anche scelte volontarie del titolare, quali
scelte imprenditoriali fondate su valutazioni ragionevoli di politica aziendale:
ne sono esempio, l’attesa di un’autorizzazione amministrativa o ripetute
contraffazioni che impediscono la vendita a condizioni vantaggiose164.
Non sono, invece, considerati “motivi legittimi” la mancanza di mezzi
finanziari e il fallimento dell’imprenditore165. Il titolare del segno può sempre
dimostrare che i motivi, a causa dei quali non ha fatto uso del segno
registrato, sono legittimi.
Sono esclusi della decadenza per non uso i cc.dd. marchi difensivi, ossia
quei segni simili, ma non confondibili al marchio principale che il titolare
registra, non per farne uso ma per ampliare la tutela di quest’ultimo.
Ai sensi dell’art. 24, co. 3 c.p.i., se decorso il termine quinquennale di non
utilizzo, il titolare o qualcuno da lui autorizzato, inizino o riprendano l’uso del
marchio, si verifica una sanatoria della decadenza per uso; quest’ultima,
infatti, non può essere fatta valere e il titolare conserva il diritto esclusivo
sul segno166.
162
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 282.
Trib. Milano, 24 febbraio 2003, in Giur. ann. dir. ind. 2004, n. 4664, 402.
164
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012,284; SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè,
Milano, 2007, 195.
165
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 195.
166
SIRONI, Nullità e decadenza del marchio, op.cit., 306.
163
47
CAPITOLO II: LA CONCORRENZA SLEALE
SOMMARIO: 1. L’art. 2598 c.c e le fattispecie di concorrenza sleale - 2. La concorrenza
per confondibilità - 2.1 Uso di nomi o segni distintivi confusori - 2.1.1 (segue) L’imitazione
dell’altrui marchio registrato - 2.2 Imitazione servile - 2.2.1 Le forme tutelabili - 2.3 Gli altri
mezzi della concorrenza confusoria - 3. L’appropriazione di pregi - 3.1.1 (segue)
L’agganciamento - 4. Le fattispecie dell’art. 2598 n.3 c.c. - 4.1 La concorrenza parassitaria
1. L’art. 2598 c.c. e le fattispecie di concorrenza sleale
In tema di contraffazione viene in rilievo la disciplina in materia di
concorrenza sleale, di cui all’art. 2598167 e ss., c.c. che è da mettere in
relazione con l’analoga struttura dell’art 10-bis della Convenzione d’ Unione
di Parigi per la protezione della proprietà industriale168.
La prassi giurisprudenziale nazionale si basa però sull’articolo del c.c., in
quanto la tutela è più ampia. E’ d’obbligo, inoltre, come da preambolo
dell’art. 2598, un coordinamento con il c.p.i., che tutela, come si è visto, i
segni distintivi; il medesimo articolo, inoltre, non può prescindere dall’art. 41
Cost. che dispone in merito alla libertà di iniziativa economica privata e il
vincolo posto alla stessa dell’utilità sociale169. L’articolo 2598 c.c., può, poi,
essere posto in relazione con l’art. 2043 c.c., il quale, presuppone il
verificarsi di un fatto ingiusto a differenza del primo che, prevedendo una
sanzione solo nel caso in cui si verifichi un’ipotesi di concorrenza sleale, ha
efficacia preventiva.
167
L’art. 2598 così prevede: “Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto ,
compie atti di concorrenza sleale chiunque: 1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o i
segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi
altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente; 2) diffonde notizie e
apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi
dei prodotti o dell'impresa di un concorrente; 3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non
conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”.
168
Tale articolo dispone:
“I Paesi dell'Unione sono tenuti ad assicurare ai cittadini dei Paesi dell'Unione una protezione effettiva contro la
concorrenza sleale.
Costituisce un atto di concorrenza sleale ogni atto di concorrenza contrario agli usi onesti in materia industriale o
commerciale.
Dovranno particolarmente essere vietati:
1) tutti i fatti di natura tale da ingenerare confusione, qualunque ne sia il mezzo, con lo stabilimento, i prodotti o
l'attività industriale o commerciale di un concorrente;
2) le asserzioni false, nell'esercizio del commercio, tali da discreditare lo stabilimento, i prodotti o l'attività
industriale o commerciale di un concorrente;
3) le indicazioni o asserzioni il cui uso, nell'esercizio del commercio, possa trarre in errore il pubblico sulla natura, il
modo di fabbricazione, le caratteristiche, l'attitudine all'uso o la quantità delle merci”
169
MALAGOLI, Art. 2598, in CENDON (a cura di), Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2009, 36.
48
L’art. 2598 può essere applicato solo nel rapporto tra imprenditori nel senso
che devono essere imprenditori, sia il soggetto attivo che quello passivo170.
Dunque, entrambi i soggetti sono imprenditori, ma non necessariamente
imprenditori commerciali, in quanto la norma è posta a garanzia di corretti
rapporti di competizione sul mercato con riguardo a ogni categoria di
imprenditori 171 . Infatti, la tendenza di dottrina e giurisprudenza va verso
un’interpretazione “ampia” della qualifica di imprenditore rispetto a quanto
disposto dall’ art. 2082 c.c.172.
La disciplina, di cui all’articolo in esame, presuppone, inoltre, che tra i due
imprenditori vi sia un rapporto di concorrenza economica173. In altre parole,
tra i due soggetti deve esserci una comunanza di clientela, intesa come
l’insieme di consumatori che avvertono lo stesso bisogno o bisogni simili.
Il rapporto di concorrenza al quale si fa riferimento non è solamente quello
attuale ma anche quello potenziale, come riconosciuto da dottrina e
giurisprudenza, analizzato in riferimento al profilo territoriale, merceologico
e temporale dell'attività174.
La norma articola le fattispecie di concorrenza sleale in tre gruppi: i primi
due prevedono ipotesi specifiche di concorrenza sleale, il terzo raggruppa
una pluralità di comportamenti non specifici costituendo una categoria
aperta e residuale.
La prima parte della norma in esame definisce, al n. 1, i cc.dd. atti di
concorrenza sleale per confondibilità in riferimento a quegli atti attraverso
cui un’impresa sfrutta l’affermazione sul mercato e la reputazione di un'altra
usando illegittimamente i suoi segni distintivi o imitando i suoi prodotti.
Tali atti saranno analizzati nello specifico al paragrafo successivo.
Per le ipotesi, di cui al n. 2 dell’articolo in esame, si parla di atti di
concorrenza sleale per appropriazione di pregi e denigrazione.
170
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 37-39; in merito anche App. Genova, 20 marzo 2002, in Dir. ind. 2002, 395; App. Napoli,
4 giugno 2008, in Mass. red. 2008; Cass.civ., 21 dicembre 2007, n. 27081, in Mass. Giur. It. 2007.
171
GAMBINO, Impresa e società di persone, Giappichelli, Torino, 2013, 46-47.
172
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 18.
173
Cass. civ., 9 agosto 2007, n. 17459, in CED cassazione, 2007; BIGLIA, Uso atipico del marchio altrui e rapporto di
concorrenza, in Riv. dir. ind., 2006, 200.
174
GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 82 ss.; GRAUSO, La concorrenza sleale: profili di tutela
giurisdizionale e presso le autority, Giuffrè, Milano, 2007, 23; Trib. Torino, 22 maggio 2007, in Giur. It. 2008, 132, nota
BOTTERO; Cass. civ., 14 febbraio 2000, n. 1617, in Riv. dir. ind. 2001, 96, nota CEVOLINI.
49
In particolare l’articolo dispone che compie atti di concorrenza sleale
chiunque “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un
concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei
prodotti o dell'impresa di un concorrente”.
La denigrazione consiste nella diffusione di notizie riguardanti attività o
prodotti dei concorrenti idonea a determinare la perdita di fiducia, della
buona reputazione di cui l’impresa gode sul mercato e volta a procurare,
così, un “danno concorrenziale” con eventuale perdita della clientela, dei
fornitori, dei finanziatori o dei dipendenti. I casi più frequenti di denigrazione
riguardano l’ambito pubblicitario, in particolare la pubblicità comparativa che
si verifica con il raffronto del proprio prodotto valutato positivamente con
quello del concorrente valutato negativamente (anche implicitamente) 175.
Anche con la magnificazione del proprio prodotto può verificarsi, in modo
implicito, la denigrazione di quello altrui; la giurisprudenza, in tale caso,
tende tuttavia ad essere indulgente considerandola lecita se si presenta
come generica o palesemente iperbolica176.
Sono, invece, considerati pregi suscettibili di indebita appropriazione tutti i
fatti riguardanti i caratteri dell’impresa, i risultati da essa conseguiti o le
qualità dei prodotti o dei servizi che per il pubblico rappresentino o possano
rappresentare motivi di apprezzamento positivo e quindi di preferenza
dell’impresa e delle sue prestazioni rispetto ad altre imprese177.
Infine, l’art. 2598, n. 3 comprende tutti quei comportamenti illeciti contrari ai
principi di correttezza professionale e volti a danneggiare l’impresa altrui.
Risulta impossibile abbozzare una completa elencazione di tutti i
comportamenti vietati da tale clausola, in quanto generale e residuale.
L’adozione dei comportamenti illeciti sopra citati comporta, una volta che
siano stati accertati, l’applicazione dei provvedimenti e delle sanzioni, di cui
agli artt. 2599-2600 c.c.. Data la difficoltà di provare l’entità del danno da
concorrenza, che sussiste anche per la contraffazione del marchio (v.
capitolo III), in materia assume importanza rilevante l’azione inibitoria,
175
Trib. Roma, 29 settembre 1993, in Riv. dir. ind., 1993, 382.
App. Firenze, 15 gennaio 2002, in Rass. dir. civ. ann., 2002, 1296, afferma che “la pubblicità iperbolica, attraverso la
quale si afferma, con espressione generica la superiorità di un prodotto rispetto agli altri non costituisce atto di
concorrenza sleale, salvo che vi siano riferimenti a fatti specifici tali da ingenerare nel pubblico un falso giudizio sui
prodotti o sulle attività reclamizzate”; v. anche App. Milano, 25 luglio 1997, in Giur. ann. dir. ind., 1999, 231.
177
FLORIDIA, La tipizzazione normativa, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 374.
176
50
disposta dall’art. 2599 c.c.. Quest’ultimo stabilisce che “la sentenza che
accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione”; in altri
termini, il giudice, verificata la sussistenza di comportamenti illeciti ne ordina
il divieto di prosecuzione. A questo si aggiunge il rimedio restitutorio, a cui
la seconda parte della norma si riferisce, teso a eliminare le conseguenze
negative dell’illecito attraverso, ad esempio, la distruzione dei prodotti
costituenti imitazione servile o l’eliminazione di etichette o confezioni
confondibili178.
In virtù del perdurare del pregiudizio arrecato al titolare dei diritti di proprietà
nello svolgimento del procedimento giudiziale di accertamento dell’illecito,
è disposto che tali provvedimenti possano attuarsi, dopo un esame
sommario della vicenda, in via immediata e di urgenza.
A differenza di tali disposizioni che mirano a ripristinare lo status quo ante,
le sanzioni, di cui al 2600 c.c., tendono ad attuare una soddisfazione per
equivalente volta a recuperare l’utilità pregiudicata a causa della violazione
dell’interesse leso179.
L’articolo dispone che per poter ottenere il risarcimento del danno gli atti
illeciti devono essere compiuti con dolo o colpa; tuttavia, il comma 3 dello
stesso, afferma che “accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume”,
prevedendo, in merito a quest’ultimi, una tutela più intensa rispetto
all’ordinario illecito aquiliano (art. 2043 c.c.). A differenza del regime che
regola quest’ultimo, il giudice, infatti, può disporre le misure inibitore anche
in presenza di comportamenti incolpevoli o soltanto potenzialmente
produttivi di danno180.
Oltre al risarcimento del danno, è disposta, ai sensi dell’art. 2600 c.c., la
pubblicazione su uno o più quotidiani della sentenza il cui scopo è quello di
“portare a conoscenza del pubblico la reintegrazione del diritto offeso”181
nell’intento di riparare un eventuale pregiudizio subito dal concorrente leso.
178
MARTORANO, La concorrenza, in AA.VV., Manuale di diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2011, 147; SARTI,
L’impresa nel mercato, in AA.VV, Diritto commerciale, Giappichelli, Torino, 2014, 196.
179
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 122.
180
MANGINI, TONI, L’azienda e le regole del mercato, in AA.VV., Diritto commerciale, Monduzzi, Bologna, 2010, 51.
181
Cass., 7 maggio 1983, n. 3109, in Foro It., 1983, 2809.
51
2. La concorrenza per confondibilità
Come si è già accennato, in tema di concorrenza sleale, con particolare
riferimento all’art. 2598, n. 1, c.c., si verifica una sovrapposizione con le
norme del c.p.i. in materia di marchio: infatti, anche la tutela della
concorrenza contro la confondibilità presuppone l’esistenza di segni
distintivi e di diritti esclusivi su quest’ultimi182. Ciò nonostante, la disciplina
disposta dal c.p.i. è incompleta ed è necessaria, in riferimento ai segni
distintivi diversi dal marchio registrato, un’integrazione con quella
concorrenziale, di seguito analizzata.
Le fattispecie previste dall’art. 2598, n. 1, fanno riferimento all’uso di “nomi
o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni
distintivi legittimamente usati da altri”, all’imitazione dei prodotti di un
concorrente e, in generale, a comportamenti illeciti idonei a determinare
confusione sul mercato, in riferimento a prodotti e attività dell’imprenditore
concorrente.
Con atti idonei a creare confusione si indicano, tradizionalmente, tutti quegli
atti che ingenerano nei consumatori una falsa convinzione circa la
provenienza dei prodotti da un determinato imprenditore quando invece essi
devono ricondursi ad un imprenditore diverso 183 (si parla della cc.dd.
confusione sull’origine a cui si è già fatto accenno nel capitolo I).
In particolare, si ritiene che la confondibilità sussista laddove il
comportamento sia idoneo a determinare una possibilità di confusione dei
consumatori sulla base di un giudizio di probabilità ancorato alle circostanze
del caso; dunque, affinché siano integrati gli estremi dell’illecito, non è
rilevante che si siano verificati in concreto episodi di confusione184.
La confondibilità va accertata in relazione alle conseguenze che la
somiglianza dei segni o dell’aspetto esteriore del prodotto possa avere sul
c.d. consumatore medio dotato di ordinaria diligenza ed attenzione, tenendo
182
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 35.
DI TULLIO, Art. 2598, in UBERTAZZI, MARCHETTI (a cura di), Commentario breve alle leggi su proprietà intellettuale e
concorrenza, Cedam, Milano, 2012, 2070; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 110 ss.; VANZETTI, DI
CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 38.
184
DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2070; GRAUSO, La concorrenza sleale: profili di tutela giurisdizionale e presso le autority,
Giuffè, Milano, 2007, 37; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 48; MALAGOLI, Art.
2598, op.cit., 49; Trib. Milano, 28 novembre 1994, in Aida, 1995, 598; Cass., 15 dicembre 1994, n. 10728, in Giur. ann.
dir. ind., 1994, 153.
183
52
conto che questi non effettua le proprie scelte di acquisto in base a mirate
e documentate valutazioni comparative fra i marchi, bensì sulla base di un
esame rapido e sintetico, confrontando la realtà con il ricordo di precedenti
esperienze d’acquisto attraverso una stima complessiva del segno distintivo
che prescinde da elementi marginali di differenziazione, rilevabili solo ad un
esame attento185. Inoltre, nell’individuazione del consumatore al quale fare
riferimento nella valutazione della confondibilità occorre tener conto della
destinazione abituale dei prodotti.
In particolare, una determinata qualificazione professionale e una maggiore
avvedutezza e competenza del consumatore nelle scelte d’acquisto
possono escludere la potenzialità confusoria dell’atto concorrenziale.
In genere, si ipotizza tale competenza del consumatore in relazione a
prodotti di prezzo elevato186.
Presupposto comune alle ipotesi di confusione, in particolare a quelle
riconducibili all’utilizzo di segni distintivi di un concorrente, è la riproduzione
di segni distintivi legittimamente usati da altri, ossia tutelati in quanto dotati
dei relativi requisiti di validità (di cui al capitolo I per quel che riguarda i
marchi).
2.1 Uso di nomi o segni distintivi confusori
La prima delle ipotesi delineate dall’art. 2598, n. 1, c.c., come già
accennato, tutela i nomi e segni distintivi del titolare da eventuali usi da parte
di terzi che possano generare confusione.
Il legislatore intende riferirsi ai segni distintivi in un’accezione ampia
(qualificando come “nomi” i segni denominativi, e, come “segni distintivi”, i
segni emblematici o figurativi, sigle e cifre) che comprende sia i segni
distintivi tipici (da sottolineare in tal caso il problema di compatibilità con la
tutela già prevista per questi di cui si darà conto nel prossimo paragrafo)
185
CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 111; DI TULLIO,
Art. 2598, op.cit., 2070-2071; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 146.
186
DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2070-2071; MUSSO, Della disciplina della concorrenza, in DE NOVA (a cura di),
Commentario del codice civile e codici collegati, Zanichelli, Bologna, 2012, 1119; Trib. Roma, 10 febbraio 2006, in Riv.
dir. ind., 2006, 148.
53
che quelli atipici (quali, ad esempio, gli slogan inseriti in spot pubblicitari,
l’emblema dell’impresa, i domain name e le etichette) con la sola eccezione
dei segni costituiti dalla forma del prodotto, di cui si parla nell’ipotesi di
imitazione servile.
Nonostante dalla norma in esame non emerga chiaramente, si ritiene che
per essere tutelati i segni distintivi, nella specie i marchi, debbano essere
dotati di capacità distintiva, di novità e di notorietà “qualificata”187.
Per quel che concerne la capacità distintiva, il segno imitato deve essere
idoneo a distinguere i prodotti provenienti da una determinata impresa con
quelli analoghi provenienti da un imprenditore diverso. Tuttavia, il segno può
perdere la sua capacità distintiva nel tempo (venendo meno in tal caso
anche la sua tutela; si parla in tale ipotesi di volgarizzazione), ovvero un
segno originariamente privo di tale carattere può acquisirlo (e con esso la
tutela) a fronte dell’uso o della notorietà (si parla in tal caso si secondary
meaning). Quanto alla novità, anche in tal caso la legge nulla dice a
riguardo, ma si presume la necessaria presenza di tale requisito: l’art. 2598,
n. 1, c.c., infatti, disponendo circa l’utilizzazione di segni distintivi con quelli
“legittimamente usati da altri”, riserva la tutela a chi è titolare di segni che
sono legittimamente sul mercato, riferendosi a colui che si sia presentato
sul mercato in assenza di diritti anteriori su segni uguali o simili188.
Infine, il segno deve essere utilizzato nel mercato, il riferimento è ad un uso
cui segua una certa notorietà189, il mero utilizzo non è sufficiente.
Per quel che riguarda i segni atipici, non essendo previsto il procedimento
amministravo della registrazione che garantisce la “validità” del segno,
l’onere di provare che il segno è dotato dei requisiti di tutelabilità grava su
chi ne richiede la protezione.
2.1.1 (segue) L’imitazione dell’altrui marchio registrato
La tutela di cui all’ art. 2598, n.1, c.c. riguarda ogni tipo di segno (v. supra),
nonostante si sia discusso se tra i segni menzionati dall’articolo debbano
187
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 39 ss.; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2074.
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 45-46.
189
Si tratta di una notorietà cui faccia seguito la percezione da parte del consumatore della capacità distintiva del
segno definita come “notorietà qualificata”.
188
54
rientrare anche i segni tipici quali la ditta, l’insegna e il marchio registrato
che sono già tutelati dalla legge. Nello specifico, si tratta di stabilire se una
contraffazione di marchio registrato già specificatamente prevista come
illecito e sanzionata dal c.p.i. costituisca, ai sensi dell’art.2598 n.1 c.c.,
anche atto di concorrenza sleale 190 . La norma sembra ammettere la
possibilità di concorso delle due tutele con l’incipit “ferme le disposizioni che
concernono la tutela dei segni distintivi”. Secondo l’orientamento preferibile,
la contraffazione del marchio registrato non integra automaticamente ma
può costituire concorrenza sleale confusoria solo quando ricorrano le
condizioni previste dall’art. 2598: e quindi, solo quando vi sia una reale
situazione di concorrenza tra il titolare del segno imitato e l’imitatore, ovvero
quando il titolare del marchio l’abbia usato in modo da comportare la
notorietà del segno in un ambito territoriale coincidente con quello
dell’attività del contraffattore e per prodotti identici o affini a quelli di
quest’ultimo191.
La dottrina prevalente ritiene, quindi, configurabile, a talune condizioni, il
cumulo delle due azioni nel processo e ne sottolinea l’utilità: sotto il profilo
sanzionatorio, infatti, l’azione di concorrenza sleale è più ampia di quella di
contraffazione prevedendo, all’art. 2599 c.c., l’emissione di “opportuni
provvedimenti” affinché vengano eliminati gli effetti negativi dell’atto
confusorio nonché, all’art. 2600 c.c.192, la presunzione di colpa193. Anche la
giurisprudenza, che ha inizialmente assunto una posizione negativa al
riguardo ritenendo superflua una doppia qualificazione di illecità della
medesima ipotesi, sostiene oggi la cumulabilità delle due azioni ove ne
ricorrano i presupposti di ciascuna194.
Così il titolare di un marchio registrato può agire verso l’illecita
contraffazione dell’imprenditore concorrente sia con azione a tutela dell’uso
esclusivo del marchio medesimo, sia con azione di concorrenza sleale, per
190
CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 112.
DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2072; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 135 ss.; VANZETTI, DI CATALDO,
Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 49-50; Trib. Roma, 25 febbraio 1988, in Giur. dir. ind., 1988, 512.
192
L’articolo prevede che “se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa, l'autore è tenuto
al risarcimento dei danni. In tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Accertati gli atti di
concorrenza, la colpa si presume”.
193
CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 140.
194
Trib. Milano, 10 dicembre 2007, in Giur. dir. ind., 2007, 1100; Cass., 19 giugno 2008, n. 16647, in Dir. ind., 2008,
469; Cass., 25 settembre 1998, n. 9617, in Foro it., 1998, 50; Cass. civ., 22 luglio 2009, n. 17144, in Dir. ind., 2009, 448.
191
55
ottenere il risarcimento del danno ove quel comportamento abbia creato
confondibilità tra prodotti195.
E’ esclusa la tutela concorrenziale in tutte le fattispecie in cui il marchio
registrato sia protetto anche in assenza di possibilità di confusione, e, in
particolare, nel caso in cui venga invocata la tutela extramerceologica del
marchio che goda di rinomanza196.
2.2 Imitazione servile
Ai sensi dell’art. 2598, n. 1, c.c., compie altresì atto di concorrenza sleale
chi “imita servilmente i prodotti di un concorrente”.
La formula utilizzata dal legislatore appare ampia e volta a ricomprendere
nella fattispecie in esame qualsiasi imitazione fedele, pedissequa e
completa dei prodotti del concorrente. Tuttavia, tale ipotesi, è ricompresa
nelle fattispecie di cui all’art. 2598, n. 1, e, dunque, si ritiene illecita solo
quando suscettibile di determinare confondibilità197.
Tale valutazione deve essere svolta mediante un’analisi di tipo sintetico,
mettendosi nell’ottica del consumatore e tenendo in considerazione il fatto
che più il prodotto è di scarsa importanza merceologica, più la scelta può
essere determinata da percezioni di tipo immediato e superficiale198.
In particolare, integra gli estremi della concorrenza sleale per imitazione
servile la condotta dell’imprenditore che imiti la forma del prodotto di un
concorrente, ossia riproduca pedissequamente la mera forma esteriore del
prodotto del concorrente199: le parti interne o strutturali, infatti, non essendo
visibili agli occhi di chi guarda il prodotto non sono idonee a ingenerare
confusione.
E’ esclusa la configurabilità dell’illecito laddove l’imitazione degli elementi
formali del prodotto altrui non evidenzi una somiglianza dell’aspetto
195
CASABURI, Concorrenza sleale e diritti di proprietà industriale, in Dir. ind., 2012, 411; CESIANO, La tutela cautelare in
tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 140; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2072.
196
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 50.
197
DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2074; GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 146 ss..
198
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 39; Cass., 21 novembre 1998, n. 11795, in Foro it., 152; Cass.,
199
CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza e i problemi del look-alike, relazione tenuta
al Convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Parma, 2010; FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 367;
Cass., 12 febbraio 2009, n. 3478, in Riv. dir. ind., 2009, 473.
56
complessivo dei prodotti ovvero qualora l’imitazione di taluni elementi
formali si accompagni ad elementi di differenziazione non marginali
percepibili dal pubblico, come nel caso di apposizione sul prodotto imitato
del marchio dell’imitatore200.
Si parla di imitazione servile illecita non solo nei casi di “initial confusion”,
cioè di confusione in cui il consumatore incorre solo nel suo primo approccio
al prodotto, ma anche, nei casi di “post-sale confusion”, cioè di confusione
in cui incorre non chi effettua l’acquisto, ma chi poi vede il prodotto-copia
nelle mani di chi lo ha acquistato201.
Questo fenomeno che danneggia i produttori degli originali interessa per lo
più i luxury goods ed è da ritenere illecito tanto quanto quegli atti idonei a
produrre confusione per l’acquirente.
2.2.1 Le forme tutelabili
Come già detto, l’illecito si configura con riguardo all’imitazione dell’aspetto
esterno o confezione del prodotto che comporti un inganno circa l’identità
del produttore. Le forme alle quali può essere riferito il divieto dell’imitazione
servile devono avere capacità distintiva ed hanno tale capacità solo le forme
che siano nuove rispetto a forme adottate da imprenditori concorrenti in
epoca anteriore, che non siano standardizzate e perciò divenute comuni
all’intera categoria dei prodotti di cui si tratta202.
E’, inoltre, necessario accertare che le caratteristiche imitate non siano
dettate da esigenze funzionali o strutturali e presentino al contempo i
requisiti di originalità e, appunto, capacità individualizzante203.
Ci si riferisce, tendenzialmente, a segni distintivi tridimensionali ma è
corretto riferirsi alla fattispecie in esame anche quando il segno in questione
200
DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2075; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 58-59;
sul punto v. Cass., 10 gennaio 1997, n. 1541, in Mass. giust. civ., 1997, 276.
201
GALLI, “Nuova” contraffazione di marchio: dalla confondibilità all’agganciamento parassitario, consultabile in
www.indicam.it.
202
FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 367.
203
DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2075; sul punto Cass., 31 luglio 2008, n. 20884, in Giur. ann. dir. ind., 2008, afferma la
presenza dell’illecito concorrenziale relativamente alla pedissequa imitazione di “un particolare prodotto “similpelle”
costituito da un rivestimento tipo scamosciato con effetto nuvolato” ritenendo la particolare lavorazione
individualizzante, propria del prodotto oggetto di imitazione e non necessitati; v. anche Cass., 26 novembre 2008, n.
28215, in Foro it., 2009, 361; App. Milano, 17 settembre 2008, in Giur. dir. ind., 2009, 493; Trib. Milano, 24 aprile 2004,
in Foro it., 2006, 270.
57
consista in un prodotto bidimensionale (ne sono esempio i disegni dei
tessuti).
La tutela contro l’imitazione servile, in particolare per quel che riguarda le
forme di utilità, deve essere coordinata con la tutela brevettuale.
Caratteristica di tale sistema è l’imposizione di limiti di durata della
protezione (10 anni) da parte del legislatore, con la finalità di garantire
l’acquisizione al patrimonio culturale collettivo delle innovazioni tecniche.
La tutela concessa dall’art. 2598, n. 1, c.c., è, invece, perpetua; dunque
colui che utilizza per primo una determinata forma per il proprio prodotto
potrà vietare a terzi di imitarla senza alcuna limitazione temporale.
Si verrebbe così a generare una zona di conflitto normativo, con la
superfluità della normativa brevettuale, allorquando una forma distintiva di
un prodotto sia anche utile. Per evitare una totale disapplicazione della
normativa sui modelli di utilità, la giurisprudenza afferma che il generale
divieto di imitazione servile debba essere interpretato restrittivamente, nel
senso di non comprendere le forme funzionali idonee a costituire oggetto di
protezione brevettuale 204 . L’imitazione, in altri termini, per integrare gli
estremi della concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, n. 1, “deve
riguardare profili del tutto inessenziali alla funzione quali, ad esempio, le
dimensioni, le proporzioni delle parti, l’adozione di un particolare colore o di
altri particolari formali, sempre del tutto indifferenti rispetto alla funzione del
prodotto”205.
In particolare, in difetto di brevettazione sono liberamente imitabili, quanto
alle forme utili, quelle necessarie, inderogabili per ottenere un risultato
tecnico (e cioè non fungibili) 206; quest’ultime sono, dunque, suscettibili di
un’imitazione che riproduce la forma “originaria”, ossia quella rivendicata
dal suo titolare, ma che presenta talune differenze rispetto a quest’ultima
tali da garantire una differenziazione sul mercato senza che venga
pregiudicato l’effetto tecnico e funzionale al quale la forma “imitata” si ispira.
Si tratta di varianti, appunto, “innocue” perché, evitano il rischio di
204
CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 114.
Trib. Napoli, 23 dicembre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2006, 258; CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze
della giurisprudenza e i problemi del look-alike, relazione tenuta al Convegno "Il futuro della proprietà intellettuale",
Parma, 2010.
206
FRANZOSI, Imitazione servile e brevetto scaduto: scade il brevetto o il prodotto?, in Contr. e impr., 2001, 522.
205
58
confusione pur non pregiudicando l’effetto tecnico e funzionale della
forma207.
Né dal divieto di imitazione possono essere tutelate le forme che, benché
distintive, abbiano precipua valenza estetica, nel senso di costituire un
rilevante fattore di preferenza nell’acquisto per il consumatore di riferimento,
dovendo siffatte forme essere tutelate esclusivamente come modelli o
disegni registrati e, dunque, con eventuale esperibilità di un’ azione
“dipendente” o “integrativa” di concorrenza confusoria, in concorso con
l’azione di contraffazione del disegno o modello, ma, inevitabilmente, senza
più alcuna surrettizia tutela concorrenziale, una volta che la tutela tipica del
disegno e modello sia venuta meno, onde evitare ancora una volta
l’altrimenti illogica ed incoerente perpetuazione di una protezione esclusiva
per un bene già caduto in pubblico dominio dopo la scadenza della
registrazione (il cui termine è fino ad un massimo di 25 anni). 208
2.3. Gli altri mezzi della concorrenza confusoria
La clausola di chiusura di cui all’art. 2598, n. 1, apre a fattispecie atipiche
rientranti nella categoria, comprendendo tutti quegli atti idonei a “creare
confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”.
Poiché gli atti confusori richiedono, per compiersi, l’uso di segni distintivi
confondibili e sono però spesso riconducibili alla prima parte della norma,
l’applicazione giurisprudenziale della categoria è meno frequente delle
precedenti ipotesi e concerne di solito casi di appropriazione di segni
distintivi inusuali209.
Rientrano nella fattispecie in esame gli atti illeciti di imitazione di elementi
distintivi secondari e i comportamenti commerciali, escluse le ipotesi di
207
FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 368; CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della
giurisprudenza e i problemi del look-alike, relazione tenuta al Convegno "Il futuro della proprietà intellettuale", Parma,
2010; App. Milano, 28 ottobre 2003, in Riv. dir. ind., 2004, 14, in merito ha concluso che il produttore di mattoncini
interscambiabili con quelli della società Lego, nonostante la scadenza del brevetto, era tenuto ad un “onere di
differenziazione”, vale a dire ad apportare al prodotto delle “varianti innocue”, atte a differenziare la forma del
proprio prodotto da quella “originale”.
208
MUSSO, Della disciplina della concorrenza, op.cit., 1126; sul punto v. Trib. Milano, 6 febbraio 2009, in Giur. ann. dir.
ind., 2009, 687; Trib. Napoli, 23 dicembre 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2006, 258.
209
CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 115.
59
abuso di segni distintivi e di imitazione servile, idonei a generare confusione
in merito alla provenienza del prodotto e servizio offerto210.
Il primo gruppo di atti illeciti comprende l’imitazione di elementi formali altrui,
diversi dai segni distintivi e dai prodotti in senso tecnico, che contribuiscono
a formare l’impressione d’insieme che influenza le scelte d’acquisto del
consumatore, esercitando una funzione di richiamo211.
In giurisprudenza, l’applicazione di tale fattispecie si è estesa, ma talvolta,
appunto, si sovrappone con quella prevista nella prima parte dell’art. 2598,
n. 1, c.c..
In particolare, è stato ritenuto illecito l’atto di imitazione di materiale
“afferente
alla
presentazione
tecnico-pubblicitaria
del
prodotto,
insuscettibile di autonoma commercializzazione”212, poiché tale materiale
identifica, agli occhi del consumatore, il prodotto al quale rimanda.
Ancora, rientra nella fattispecie in esame, l’imitazione degli altrui
stabilimenti 213 , ovvero dell’architettura o delle decorazioni, o degli altrui
furgoni utilizzati per la distribuzione dei prodotti214.
Un secondo gruppo di fattispecie comprende tutti i comportamenti volti a
creare o rafforzare equivoci sull’impresa di provenienza. Si tratta anche in
tal caso di una categoria aperta di comportamenti atipici che la
giurisprudenza ha tentato di “tipizzare”. Tra gli altri, si annoverano quali
appartenenti al gruppo in esame, la diffusione di un’inserzione pubblicitaria
relativa ad una manifestazione sportiva omettendo il marchio del
concorrente che ne fa da sponsor esclusivo215 o il parcheggio sistematico
del proprio furgoncino pubblicitario davanti ai locali del concorrente216.
3. L’appropriazione di pregi
210
GHIDINI, La concorrenza sleale, Utet, Torino, 2001, 183; TREVISAN, CUOZZO, Proprietà industriale, intellettuale e IT,
Ipsoa, Milano, 2013, 78; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2079.
211
Trib. Roma, 19 dicembre 2006, in Giur. ann. dir. ind., 2007, 571.
212
Trib. Modena, 22 luglio 199, in Giur. ann. dir. ind., 2000, 362.
213
App. Milano, 11 dicembre 1958, in Riv. dir. ind., 1959, 175.
214
Trib. Torino, 11 settembre 1978, in Giur. ann. dir. ind., 1978, 498.
215
Trib. Bologna, 19 marzo 1988, in Giur. ann. dir. ind., 1988, 2301.
216
App. Roma, 16 maggio 1963, in Giur. ann. dir. ind.,1963, 151.
60
Come accennato nel precedente paragrafo, commette atto di concorrenza
sleale anche colui che si appropria di pregi dei prodotti o dell’impresa di un
concorrente, attività che consiste nella mendace attribuzione a sé stessi di
caratteristiche positive appartenenti ai prodotti o all’attività di un
concorrente, “in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori”217 e
da provocare, così, un potenziale danno per i concorrenti sotto il profilo di
sviamento della clientela218.
Sono considerati pregi suscettibili di indebita appropriazione tutti i fatti
riguardanti i caratteri dell’impresa, i risultati da essi conseguiti o le qualità
dei prodotti o dei servizi che per il pubblico rappresentino o possano
rappresentare motivi di apprezzamento positivo e quindi di preferenza
dell’impresa e delle sue prestazioni rispetto ad altre imprese219. Gli elementi
cui ci si riferisce devono essere individualizzanti per l’impresa del
concorrente: è, infatti, escluso l’illecito concorrenziale se l’elemento, di cui
il soggetto si appropria, è già diffuso.
Ad esempio, integra un’attività di concorrenza sleale, ai sensi dell’art. 2598,
n. 2, l’attribuzione, in un’offerta pubblicitaria, alla propria azienda di una
macchina in realtà prodotta dal concorrente sfruttando le potenzialità di
accaparramento della clientela220.
L’appropriazione di pregi deve essere tale da sviare la clientela sull’ipotesi
che l’impresa che si è appropriata delle qualità abbia le stesse
caratteristiche (o le abbiano i suoi prodotti o servizi) di quella del
concorrente. Non si tratta in tale caso, di confusione, ma di erroneo
convincimento; non vi sono, dunque, interferenze tra il comma 1 dell’art.
2598 e il comma 2 del medesimo articolo221.
L’appropriarsi consiste nella dichiarazione, in una comunicazione rivolta al
mercato, che la propria impresa o i propri prodotti detengono determinate
caratteristiche proprie dell’impresa o dei prodotti di un concorrente, non
tanto nella riproduzione di tali pregi 222 . Si pone qui un problema di
sovrapposizione con la fattispecie del mendacio concorrenziale prevista
217
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 75; Cass., 10 novembre 2004, n. 9387, in Mass. giust. civ., 1994, 11.
Trib. Venezia, 12 dicembre 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 1115.
219
FLORIDIA, La tipizzazione normativa, op.cit., 374; Trib. Torino, 29 gennaio 2007, in Giur. It., 2007, 2505.
220
Trib. Bologna, 5 agosto 2005, in Dir. ind., 2006, 284, nota SALVETTI.
221
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 76.
222
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 92.
218
61
all’art. 2598, n. 3. La peculiarità dell’ipotesi di cui al n. 2, che differenzia
quest’ultima dal mendacio, consiste nell’appropriazione dei pregi dei
prodotti o dell’impresa “di un concorrente” con il riferimento ad un pregio
appartenente in via esclusiva ad un determinato imprenditore che non sia,
nonché riprodotto, neppure riproducibile. Ci si riferisce al mendacio, invece,
quando l’appropriazione illecita di pregi riguarda caratteristiche che
potrebbero essere proprie di qualsiasi concorrente223. Permangono in ogni
caso ipotesi in cui la fattispecie si sovrappone inevitabilmente con quella
generale del mendacio. In linea pratica, che le fattispecie concrete siano
riferibili all’art. 2598, n. 2, c.c. o all’art. 2598, n. 3, c.c. gli effetti che
producono sono i medesimi e ad esse sono applicabili le medesime
sanzioni.
Nell’ipotesi di cui al n. 2, si è soliti far rientrare la c.d. "pubblicità parassitaria"
e quella "per riferimento" (o "agganciamento"), di cui si dirà al paragrafo
successivo. La prima si determina attraverso l’auto-attribuzione di qualità
positive del concorrente; la seconda è volta a far ritenere i propri prodotti
quali simili a quelli di un concorrente allo scopo di sfruttare la rinomanza
che questi possiede tra il pubblico.
3.1 (segue) L’agganciamento
Nell’ambito della fattispecie di cui all’art. 2598, n. 2, c.c., si parla di
agganciamento quando chi si propone presso i consumatori lo fa
equiparandosi in modo esplicito ad un concorrente che gode di notorietà sul
mercato e ai suoi prodotti, approfittando, così del frutto dell’altrui lavoro o
investimento onde la caratteristica principale di tale fattispecie consiste
proprio nella natura parassitaria della condotta224. A tal fine, il nome del
concorrente o il suo marchio saranno menzionati per trarre beneficio, non
solo dalla sua notorietà, ma anche dalla fiducia di cui essi godono sul
mercato e dalla conoscenza tra il pubblico delle loro caratteristiche.
223
SARTI, L’impresa nel mercato, op.cit., 193.
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 118; CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le
Fonti, Milano, 2008, 118.
224
62
Chi pone in essere la condotta di concorrenza sleale, quindi, può trarre
vantaggi inerenti sia a risparmi ottenuti per l'affermazione del suo prodotto,
sia all’agganciamento parassitario sfruttando la fama raggiunta dal titolare
del marchio noto; d’altro canto, il concorrente potrà subire un offuscamento
dell’immagine del marchio noto legato all’equiparazione a prodotti di qualità
scadente o di fascia di prezzo più bassa 225 , cui si aggiunge o può
aggiungersi un indebolimento del carattere distintivo del segno a causa del
venir meno della sua unicità sul mercato226. L’equivalenza ai prodotti del
concorrente può riguardare un pregio specifico ma può anche avere portata
più generale, riguardando la generica buona qualità del bene richiamato,
agganciandosi, così, alla fama raggiunta nel tempo dal concorrente227.
In tale ipotesi, l’illiceità dell’atto sussiste a prescindere del mendacio:
quest’ultimo, infatti, non è più necessario qualora il terzo approfitti
dell’accreditamento del prodotto del concorrente con un’azione parassitaria,
la quale ricorre sia qualora il prodotto “a traino” sia in realtà diverso da quello
del concorrente, sia nell’ipotesi in cui il primo possieda, in effetti,
caratteristiche simili a quello noto.
La fattispecie ricorre in presenza di un uso dei segni distintivi del
concorrente che escluda però ogni possibilità di confusione (in tal caso si
ricadrebbe nel n. 1 del 2598 di cui si è già detto o nella contraffazione
dell’altrui marchio)228: ci si riferisce, pertanto, ad un uso atipico, ovvero ad
un uso in funzione descrittiva.
Ipotesi ricorrenti di agganciamento sono la presentazione di un prodotto
altrui come proprio, attraverso la pubblicazione e la distribuzione di
cataloghi e dépliant che contengono immagini altrui; l’impiego, sul prodotto
o nella pubblicità, oltre che del proprio marchio, anche di quello altrui
preceduto dalla parola “tipo”, “modello” o simili con lo scopo di escludere
così una possibile confondibilità; ancora l’immissione sul mercato di un
prodotto nuovo con una forma analoga a quella di un prodotto già noto,
anche se contraddistinto da un segno denominativo visibilmente diverso 229.
225
Trib. Milano, 21 luglio 2004, in Giur. ann. dir. ind.,2005, 477.
Trib. Bologna, 12 febbraio 2008, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 1671.
227
MALAGOLI, Art. 2598, op.cit., 79; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 95-96.
228
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 97.
229
Trib. Milano, 21 luglio 2004, in Massime, 2005.
226
63
Ci si riferisce, in quest’ultima ipotesi, ai casi c.d. di look-alike, fattispecie che
prevede l’imitazione da parte di terzi della confezione del prodotto che può
indurre, erroneamente, il consumatore a scegliere il prodotto “che imita
quello originale”230.
I look-alike, inoltre, comportano un forte rischio di annacquamento, ma
anche di svilimento del marchio originario; la qualità dei prodotti look-alike
può infatti essere ben inferiore rispetto a quella degli originali, sicché il
consumatore, deluso, ben può trasferire la valutazione negativa del prodotto
look-alike a quello imitato231.
In tutte le ipotesi nelle quali si realizza la fattispecie dell’agganciamento, è
messa in evidenza la sua natura parassitaria, denotata, appunto, dalla
volontà del terzo di “agganciarsi” al credito che l’impresa o i prodotti del
concorrente hanno sul mercato, approfittando così del lavoro e
dell’investimento altrui.
4. Le fattispecie dell’art. 2598 n.3 c.c.
L’art. 2598 al n. 3, come già anticipato, costituisce una clausola generale
residuale (ispirata all’art. 10-bis, della menzionata Convenzione d’Unione di
Parigi) che qualifica come sleali tutti quegli atti “non conformi ai principi di
correttezza professionale e idonei a danneggiare l’altrui azienda”.
Tale ipotesi dovrebbe comprendere tutte quelle fattispecie, non tipizzate,
non rientranti nelle ipotesi di cui ai nn. 1, 2 del medesimo articolo.
L’intento è quello di evitare una “cristallizzazione” di tutti i comportamenti
contrari alla correttezza professionale, lasciando al giudice la facoltà di
decidere caso per caso ponderando gli interessi lesi degli imprenditori in
conflitto232.
Tuttavia, si tratta anche in tale caso di ipotesi tipizzate negli anni dalla
giurisprudenza, molte delle quali già individuate prima dell’entrata in vigore
230
SIRONI, Art. 20, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2013, 404; Trib. Milano, 21
luglio 2004, in Giur. dir. ind., 2005, 433.
231
CASABURI, La concorrenza sleale: le nuove tendenze della giurisprudenza, in Riv. dir. ind., 2011, 194.
232
SARTI, L’impresa nel mercato, op.cit., 193.
64
della norma, che vengono ricondotte al n. 3 per poter trovare una
collocazione normativa.
Si potrà guardare ai principi della correttezza professionale e all’idoneità a
danneggiare l’altrui azienda del n. 3 anche qualora una fattispecie nominata
al n. 1 e al n. 2 233 dia luogo ad incertezze interpretative circa il suo
inquadramento.
Un criterio guida per il riconoscimento degli atti di concorrenza sleale, di cui
al n. 3 della norma, è la “contrarietà ai principi di correttezza professionale”,
presupposto che interessa anche le ipotesi di cui al n. 1 e n. 2 dell’articolo.
Tale principi non hanno un contenuto preciso e codificato ma in merito
sussistono diverse interpretazioni della giurisprudenza.
Secondo parte della giurisprudenza i principi di correttezza professionale
sono costituiti dalle consuetudini generalmente affermate e storicamente
variabili, quali quelle del buon costume commerciale234.
Un altro orientamento giurisprudenziale, che sottrae l’interpretazione della
norma all’arbitrio del giudice e sembra essere, dunque, maggiormente
preferibile, ritiene debbano considerarsi lesivi della concorrenza i
comportamenti tesi ad eliminare quest’ultima da una parte sostanziale del
mercato, in virtù del già citato art. 41 Cost. 235 , impedendo uno sviluppo
razionale ed efficiente del sistema (lì dove, appunto, non giustificati dal
raggiungimento di un’utilità sociale)236.
Di fatto però il giudice, nella valutazione di comportamenti non conformi alla
correttezza professionale, si riferisce alla morale corrente, o più
esattamente alla propria interpretazione di questa237; tuttavia, dovrà in ogni
caso valutare, anche, l’idoneità del comportamento ad arrecare danno ai
principi della libera concorrenza.
Ulteriore criterio da accertare ai fini dell’applicazione del suddetto articolo
subordina l’illiceità del comportamento a l’idoneità di questo a danneggiare
233
In tali ipotesi tipizzate, secondo un filone della dottrina, la violazione della correttezza professionale sarebbe
implicita e sottintesa, assunta dalla normativa per mezzo di una presunzione iuris et de iure.
234
GRAUSO, La concorrenza sleale: profili di tutela giurisdizionale e presso le autority, Giuffè, Milano, 2007, 70; Cass., 15
dicembre 1983, n. 7399, in Giur. It., 1984, 1594; App. Milano, 20 ottobre 2003, in Riv. dir. ind., 2004, 14.
235
L’art. 41 Cost. cosi’ statuisce: “L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità
sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
236
Cass., 11 agosto 2000, n.10684, in Dir. giust. 2000, 12.
237
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 30-31.
65
l’altrui azienda. Il danno, a cui l’articolo si riferisce, è un qualsiasi danno
economico che colpisca l’impresa del concorrente, potrà quindi concernere
la sua immagine, la sua clientela o qualsiasi elemento organizzativo interno.
Non è necessario che il danno concorrenziale si sia realizzato ma solo che
la situazione prefigurata sia idonea a provocarlo. Si richiede, dunque,
l’idoneità della condotta di un concorrente ad arrecare pregiudizio all’altro,
pur in assenza di un danno attuale 238 . Non è, inoltre, richiesta la
dimostrazione dell’effettiva produzione del danno239.
Si è soliti suddividere le fattispecie tipizzate riconducibili al n.3, in due gruppi
di ipotesi, senza la presunzione che tale classificazione abbia alcun rilievo
giuridico240.
In particolare, un primo gruppo comprende quegli atti illeciti che alterano il
mercato senza il riferimento ad uno specifico imprenditore, quali, ad
esempio, il mendacio concorrenziale, le manovre sui prezzi e le violazioni
di norme di diritto pubblico.
In un secondo gruppo rientrano quegli atti rivolti ad un determinato
concorrente distinguendo tra questi quelli che colpiscono il suo patrimonio
organizzativo e tecnico 241 e quelli che ledono la situazione di mercato
dell’azienda242.
4.1 La concorrenza parassitaria
Il termine concorrenza parassitaria vale ad identificare un’ipotesi di condotta
illecita che si sostanzia nell’attività di un’impresa che ripercorre
sistematicamente le orme del concorrente di maggior successo, ponendosi,
così, sulla scia delle altrui scelte imprenditoriali243.
238
SIROTTI GAUDENZI, Manuale pratico dei marchi e brevetti, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2012, 136-137; Cass.
civ., 19 febbraio 1999, n. 1259, in Riv. dir. ind., 1999, 117.
239
Cass., 30 maggio 2007, n. 12681, in Foro it., 2007.
240
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 102.
241
Vanno menzionati, in questo gruppo, lo storno di dipendenti, la sottrazione di segreti aziendali, il concorso
nell’altrui inadempimento di obbligazioni.
242
A tale gruppo possono ascriversi la concorrenza dell’ex dipendente, la concorrenza parassitaria, il boicottaggio,
l’imitazione “a ricalco”.
243
TAVASSI, Tutela contro il parassitismo nel mondo della moda: gli sviluppi della giurisprudenza, in Dir. ind., 2013, 335.
66
Tale fattispecie è stata oggetto di diverse interpretazioni: in particolare, il
susseguirsi delle decisioni giurisprudenziali nel tempo ha confinato l’ipotesi
ad uno spazio limitato subordinando il verificarsi della specie a sempre
maggiori
restrittive.
giurisprudenziale
244
Secondo
un
consolidato
orientamento
, che fa riferimento ad alcuni studi compiuti in
passato245, affinché si verifichi concorrenza parassitaria è necessario ricorra
un’imitazione sistematica (ancorché non integrale) e protratta nel tempo
delle
iniziative
di
un
concorrente,
poste
in
essere
sfruttando
parassitariamente, appunto, il lavoro, gli studi e, genericamente, le attività
effettuate dall'imprenditore imitato246.
L’illecito è considerato come un mezzo idoneo a danneggiare l’impresa
altrui sia sotto il profilo dello sviamento della clientela sia sotto quello
dell’indebito sfruttamento da parte di terzi di costi economici e tempo 247.
Secondo tale impostazione, caratteristica essenziale del comportamento
illecito è la continuità e l’eterogeneità dell’azione imitativa che comprende
una pluralità di atti non confusori 248 che, se considerati singolarmente
potrebbero essere leciti, tuttavia nella loro globalità evidenziano un
comportamento concorrenziale scorretto, in quanto finalizzato allo
sfruttamento del lavoro altrui, ai sensi del n. 3 dell’articolo in esame249.
Nell’ipotesi rientrano le imitazioni di prodotti, di modalità pubblicitarie, di
tecniche di commercializzazione che non possono essere ricondotte alla
fattispecie di cui al n.1 poiché il rischio di confusione non sussiste (in quanto
gli atti imitativi risultano contraddistinti con chiarezza dal segno distintivo
244
Trib. Venezia, 13 ottobre 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 1231; Trib. Torino, 26 gennaio 2009, in Giur. ann. dir.
ind., 2009, 667; Trib. Bologna, 11 luglio 2009, in Giur. ann. dir. ind., 2009, 1089.
245
V. FRANCESCHELLI, Concorrenza parassitaria, in Dir. ind., 1956.
246
FRANCESCHELLI, Concorrenza parassitaria, in Dir. ind., 1956, 265 ss.; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2103; esempi di atti
illeciti sono la ripresa di diversi elementi della linea di produzione, oppure l’imitazione del singolo “pezzo forte”, di
grande successo e già affermato sul mercato, grazie agli ingenti sforzi pubblicitari e promozionali del concorrente
247
PASCHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir.
ind.,2012, 223; Cass. 17 aprile 1962, n. 752, in Giur. cost. civ., 1962, 918, in merito all’illecito parassitario afferma che
“tale comportamento, oltre a costituire un esoso sfruttamento dell'altrui iniziativa e organizzazione, contrario
all'ampio concetto di correttezza, esigendo gli usi onesti che nella competizione per la conquista dei mercati si prevalga
sui concorrenti avvalendosi di mezzi di ricerca e finanziari propri, è idoneo a danneggiare l'altrui azienda, a causa dei
minori costi di produzione ai quali deve sottostare l'imitatore, che gli consentono di praticare, a parità di prodotto,
prezzi inferiori a quelli del concorrente e di avviare verso la propria impresa una quantità di affari e di clienti che
avrebbero potuto invece avviarsi verso l'imprenditore imitato ».
248
V. Trib. Monza, 17 dicembre 2001, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 51.
249
MUSSO, Della disciplina della concorrenza, op.cit., 1177; DI TULLIO, Art. 2598, op.cit., 2103.
67
dell’imprenditore) ma che sono atti comunque in contrasto con i principi di
correttezza professionale.
Il comportamento illecito fin qui descritto denota le peculiarità della cc.dd.
concorrenza sleale diacronica, ovvero, in sintesi, la condotta di chi riproduce
sistematicamente nel tempo le iniziative imprenditoriali altrui per trarne
indebito vantaggio. Ulteriore orientamento ritiene si verifichi un’ipotesi di
concorrenza sleale c.d. sincronica in presenza di un comportamento illecito
di imitazione pedissequa e sistematica del lavoro altrui con una pluralità di
atti posti in essere simultaneamente o in un arco di tempo relativamente
breve250.
In merito, la Suprema Corte ha concluso che “non v'è ragione di ritenere
indispensabile la ripetitività nel tempo di più atti imitativi, essendo
perfettamente logico che, la sistematicità e continuità, da cronologicamente
successive che sono nell'ipotesi di base, possano anche essere simultanee
ed esprimersi nei caratteri quantitativi dell'imitazione”251. In tal senso, quel
che connota l’illiceità della condotta non sembra essere l’elemento
temporale (la ripetizione nel tempo), bensì, per l’appunto, quello quantitativo
dell’imitazione252.
Alcune interpretazioni più restrittive richiedono, invece, che l’imitazione
sistematica non confusoria, per essere considerata scorretta, deve quanto
meno
avere
ad
oggetto
iniziative
originali
o
perfino
“creative”
dell’imprenditore concorrente253.
Tuttavia, la tutela dell’originalità non è più azionabile una volta che
quest’ultima, “insita in una determinata idea realizzata da un imprenditore,
non potendo essere oggetto di privativa” sia divenuta di “dominio
pubblico” 254 ; dunque, secondo tale impostazione, non sarebbero illeciti
quegli atti imitativi che riguardano prodotti generici o standardizzati o
iniziative già consolidate sul mercato255.
250
PASHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir.
ind.,2012, 223; Trib. Modena, 1 luglio 2010, in Giur. dir. ind., 2010, 275.
251
Cass., 17 novembre 1984, n. 5852, in Riv. dir. ind., 1985, 3.
252
TAVASSI, Tutela contro il parassitismo nel mondo della moda: gli sviluppi della giurisprudenza, in Dir. ind., 2013, 336;
DE SANCTIS, La protezione delle forme nel codice della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2009, 300.
253
MUSSO, Della disciplina della concorrenza, op.cit., 1177; Trib. Torino, 26 gennaio 2009, in Giur. dir. ind., 2009, 667.
254
Cass. civ., 17 novembre 1984, n.5852, in Foro it., 1985, 127; Trib. Milano 5 luglio 2011, in Riv. dir. ind., 2012, 217.
255
PASCHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir.
ind.,2012, 225.
68
La giurisprudenza nella maggior parte delle pronunce, in ogni caso, qualifica
la fattispecie con riferimento alla visione tradizionale dell'illecito quale
imitazione sistematica di diverse iniziative commerciali del concorrente256.
In particolare, più di recente, muove verso interpretazioni meno restrittive
della condotta delineando ipotesi di concorrenza sleale anche in riferimento
ad atti imitativi riguardanti una pluralità di prodotti o singole iniziative
imprenditoriali, sia diacronici che sincronici257.
In questa prospettiva, la fattispecie di cui all’art. 2598, n. 3, in generale, si
delinea nella costante e sistematica attività imitativa delle iniziative
imprenditoriali altrui, volta allo sfruttamento del lavoro e della creatività del
concorrente col fine di conseguire in breve tempo un indebito
posizionamento nel settore di riferimento ed un ritorno economico258.
A titolo esemplificativo il Tribunale ha sanzionato la condotta sleale
nell’imitazione sistematica di una collezione di gioielli altrui in quanto,
questa “seppure non confusoria, è illecita giacché cagiona una potenziale
alterazione del meccanismo concorrenziale, concretatasi nell'appropriarsi
del risultato di mercato conseguito grazie all'organizzazione dell'impresa
concorrente”.
In particolare, si è sottolineato come le caratteristiche estetiche dei beni
prodotti dall’ imitatore siano state “in grado di inflazionare quel medesimo
segmento di mercato occupato dalla ricorrente sfruttando illecitamente
l'accreditamento commerciale già conseguito dalle res imitate”259; condotta
sanzionata ai sensi dell’art. 41 della Cost. e dell’art. 2598, n. 3, c.c..
Inoltre, gli atti di concorrenza sleale rientranti nella fattispecie, possono
essere costituiti oltre cha da condotte non confusorie, anche da quelle
confusorie di per sé illecite (quali sono atti di imitazione servile o
contraffazione di un modello), represse sia singolarmente in relazione alle
256
Trib. Varese, 7 luglio 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2003, 4584; Trib. Bologna, 17 luglio 2009, in Giur. ann. dir. ind,
2009, 5447; Trib. Venezia, 13 ottobre 2009, in Giur. ann. dir. ind, 2009, 5460.
257
TAVASSI, Tutela contro il parassitismo nel mondo della moda: gli sviluppi della giurisprudenza, in Dir. ind., 2013, 337;
BOGNI, La concorrenza parassitaria nella più recente giurisprudenza, relazione presentata al Convegno “Concorrenza
parassitaria, look alike, illeciti degli ex dipendenti: strumenti per la tutela delle imprese”, Milano, 2011.
258
Cass., 10 novembre 1994, in Giust. civ., n. 9387, 1995, 105.
259
Trib. Milano, 24 gennaio 2012, in Banca dati DeJure.
69
norme che violano, sia come parte di una condotta globale che integra
un’ipotesi di concorrenza sleale, di cui all’art. 2598, n. 3260.
CAPITOLO III: LA CONTRAFFAZIONE DEL MARCHIO
SOMMARIO: 1. La violazione del diritto di marchio - 2. L’azione di contraffazione - 2.1
(segue) La legittimazione attiva e passiva - 3. Onere della prova - 4. Le misure cautelari 4.1 L’inibitoria e il ritiro dal commercio - 5.Il risarcimento del danno - 5.1 Il danno emergente
e il lucro cessante - 5.1.1 L’art. 125, co. 3, c.p.i. e la retroversione degli utili
1. La violazione del diritto di marchio
Con la registrazione del marchio il titolare, come già detto, acquisisce un
diritto esclusivo di suo utilizzo.
La protezione, in riferimento all’altrui uso illegittimo del segno, è garantita
dalle disposizioni che tutelano, non solo il titolare di un diritto sul segno
anteriore, ma anche il consumatore che non potrebbe più fare affidamento
sul segno distintivo nel compiere le sue scelte di acquisto, in quanto
verrebbe meno la funzione distintiva del marchio nel mercato261.
La violazione del diritto di esclusiva sul segno distintivo riconosciuto al
titolare del marchio può assumere due forme: contraffazione ed
usurpazione 262 . In merito, la Cassazione 263 si riferisce all’ipotesi di
contraffazione quando vi è la “riproduzione integrale, in tutta la sua
configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno
distintivo”; mentre ricorre l’usurpazione “quando la riproduzione è parziale,
ma tale da potersi confondere col marchio originario o con il segno
distintivo”. Tale distinzione non è però stata giudicata rilevante, anche alla
luce del dettato normativo dalla dottrina prevalente che si riferisce
260
PASCHI, La concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 e la sua interpretazione nella giurisprudenza più recente, in Dir.
ind.,2012, 227.
261
La tutela dei diritti di proprietà industriale è stata rafforzata dopo il d.lgs. del 13 agosto 2010, n.131.
262
PERON, MOLINARI, Art. 2569, in CENDON (a cura di), Commentario al codice civile, Giuffrè, Milano, 2010, 254.
263
Cass. pen., 9 marzo 2005, n. 38068, in Riv. Pen., 2006.
70
genericamente ad atti di contraffazione in entrambi i casi, facendo rientrare
nella fattispecie ogni “imitazione” del marchio altrui264.
Nonostante il c.p.i. non dia una definizione di contraffazione, la fattispecie
si desume dall’art. 20, che dispone in merito ai diritti conferiti dalla
registrazione, di cui si è detto al precedente capitolo I265.
In sintesi, sono tre le ipotesi in cui un utilizzo da parte di terzi del segno altrui
rappresenta un’azione di contraffazione.
Nell’ipotesi di cui alla lett. a) del suddetto articolo, si parla di tutela di
carattere
assoluto
del
marchio
tralasciando
l’accertamento
della
sussistenza di un rischio di confusione; in talune ipotesi, infatti, questo
potrebbe non sussistere affatto (si pensi a due prodotti contrassegnati da
un segno identico venduti l’uno in una boutique, l’altro, ad un prezzo
notevolmente più basso, su una bancarella)266. Una tutela così rigorosa,
però, è riservata ai casi in cui l’identità dei beni e dei segni sia davvero totale
(o le differenze siano limitate a dettagli irrilevanti)267.
Nelle fattispecie di cui al punto b) è invece richiesto il determinarsi di un
rischio di confusione per il pubblico, che può “consistere anche in un rischio
di associazione”. Tale rischio si produrrà in due casi distinti: quando c’è
confusione in senso stretto, che si verifica laddove un consumatore acquisti
il prodotto proveniente dal contraffattore credendo di acquistare quello di un
dato imprenditore per un errore derivante dalla somiglianza dei segni; o
quando un segno identico o simile sia apposto su prodotti o servizi affini e
la confusione si determini in quanto i consumatori ritengono che il bene
provenga dalla medesima fonte produttiva: in tal caso l’errore consiste
nell’attribuire quel dato prodotto all’imprenditore titolare del marchio
contraffatto268.
Infine, nell’ipotesi di cui alla lett. c), se il marchio gode di rinomanza il titolare
ha il diritto di vietare a terzi l’utilizzo di un segno identico o simile al proprio
264
BARBUTO, Art. 2569, in RUPERTO (a cura di), La giurisprudenza sul codice civile coordinata con la dottrina, Giuffrè,
Milano, 2005, 3836 ss.; SARACENO, La contraffazione del marchio. Presupposti sostanziali, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura
di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 256; PERON, MOLINARI, Art. 2569, op.cit., 254.
265
In merito, v. supra, cap. 1, par. 6 relativo alla tutela del marchio.
266
GHIDINI, DE BENEDETTI, Codice della proprietà industriale, Il sole 24 ore, Milano, 2006, 73; PICARETTA, TERRANO, Il nuovo
diritto industriale, Il sole 24 ore, Milano, 2005, 71.
267
RICOLFI, La tutela del marchio, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino, 2012, 129.
268
Trib. Milano, 3 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 933; Trib. Firenze, 15 giugno 2002, in Giur. ann. dir. ind.,
2002, 974; SARACENO, La contraffazione del marchio. Presupposti sostanziali, op.cit., 260.
71
anche per prodotti non affini, qualora tale uso consenta di trarre un indebito
vantaggio dalla capacità distintiva o dalla rinomanza del segno oppure rechi
pregiudizio agli stessi.
Per quel che riguarda il giudizio di confondibilità tra i segni occorre
procedere una valutazione unitaria e sintetica di tutte le caratteristiche dei
due marchi269.
In merito a tale giudizio, secondo un orientamento dottrinario, di cui si è
ampiamente detto nel capitolo I, è opportuno distinguere fra confondibilità
in astratto, ossia sulla base delle risultanze della registrazione 270 e
confondibilità in concreto, ossia avuto riguardo all’uso del segno e
all’effettivo rischio di confusione per il pubblico271. Dopo varie interpretazioni
a favore dell’uno o dell’altro criterio di valutazione, la dottrina sembra ormai
essere giunta a ridimensionare e a superare il problema di una
contrapposizione tra valutazione in astratto e in concreto.
Si rileva, al riguardo, che l’inconveniente cui vuole porre rimedio la tesi della
valutazione in astratto è quello dell’eventualità che le modalità concrete
dell’uso fatto dal terzo possano escludere un rischio di confusione che
viceversa dovrebbe affermarsi se si considerassero i segni in sé272: il che,
tuttavia, non sarebbe sensato, giacché potrebbe portare ad una riduzione
della tutela del marchio usato rispetto a quella che il marchio aveva al
momento della registrazione, ovvero prima di essere utilizzato.
Pertanto, sarebbe preferibile una valutazione in concreto, alla quale potrà
eventualmente aggiungersi quella in astratto, in modo da garantire una
maggiore tutela al segno cui sia seguito un uso dopo la registrazione.
Inoltre, è necessario tener conto della normale diligenza e avvedutezza del
consumatore destinatario nonché della sua percezione dei segni e beni in
questione. Se i segni hanno un forte tasso di somiglianza, il pericolo di
confusione potrà verificarsi anche in relazione a beni relativamente distanti;
viceversa, nel caso di identità o di rilevante affinità fra le merci, la
269
I marchi sono comparati sotto l’aspetto visivo, fonetico e logico-concettuale.
Con riferimento ai due marchi in contestazione, in sé considerati, a prescindere dall’uso che del segno venga fatto
in concreto da parte del presunto contraffattore, che potrebbe non essere confusorio per l’aggiunta di elementi di
differenziazione.
271
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 55; PERON, MOLINARI, Art. 2569, op.cit., 255.
272
SIRONI, Art. 20, in VANZETTI (a cura di), Codice della proprietà industriale, Giuffè, Milano, 2013, 319.
270
72
contraffazione potrà essere ritenuta anche nel caso in cui il grado di
rassomiglianza fra i segni sia abbastanza ridotto273.
A titolo esemplificativo, sono stati ritenuti confondibili: “Emidio Tucci” e
“Emilio Tucci” 274 , “Arkea” e “Ikea” 275 , “Gucci” e “Guccini” 276 . Non sono,
invece, stati ritenuti confondibili: “Witch” e “Winx”277 e “Aliparma” e “Parma
Alimentare”278.
2. L’azione di contraffazione
L’azione cc.dd. di contraffazione è promossa dal titolare del diritto sul
marchio ed è “un’azione di carattere reale avente ad oggetto immediato e
diretto la tutela della titolarità esclusiva del bene immateriale destinato al
servizio di un’impresa, nei confronti di chiunque ponga in essere un fatto
oggettivamente lesivo di quella titolarità indipendentemente dalla sua buona
fede”279, nella sua attività economica280. Suddetta azione è, dunque, salvo
l’eventuale decadenza del marchio, imperscrittibile.
L’azione di contraffazione si distingue da quella per la repressione della
concorrenza sleale in quanto la prima ha, appunto, natura reale, ed è posta
a presidio del diritto all’utilizzo in via esclusiva del segno distintivo; la
seconda, ha carattere personale ed è volta a reprimere gli atti di
scorrettezza professionale idonei a creare confusione con i prodotti e
l’attività di un concorrente e a danneggiare l’impresa altrui281.
Con il termine azione di contraffazione si vuole indicare l’azione con la quale
sono chiesti al giudice, previo accertamento della lesione del relativo diritto,
273
RICOLFI, La tutela del marchio, op.cit., 133.
Trib. Torino, 12 agosto 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 4893.
275
Trib. Napoli, 15 marzo 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, 4415.
276
App. Roma, 11 maggio 1992, in Giur. ann. dir. ind., 1992, 623.
277
Trib. Bologna, 2 agosto 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 4831.
278
Trib. Piacenza, 1 maggio 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 4737.
279
Cass. civ, 13 febbraio 2009, n. 3639, in Foro it., 2009, 1037; Cass., 7 marzo 2008, n. 6193, in Mass. Giur. it., 2008.
280
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 211 ss.; RICOLFI, La tutela del marchio, op.cit., 127 ss.; FLORIDIA, Il
riassetto della proprietà industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 490 ss.; VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale,
Giuffrè, Milano, 2012, 264-265.
281
Cass., 22 febbraio 1986, n. 1080, in Foro It., 1986, 3064.
274
73
provvedimenti di tutela in forma specifica del diritto di proprietà industriale
violato282.
Nello specifico, i provvedimenti che il titolare del diritto di esclusiva sul
segno può chiedere al giudice sono: l’inibitoria, il ritiro dal commercio, la
distruzione o l’assegnazione in proprietà degli oggetti contraffatti, il
risarcimento del danno, la restituzione dei profitti, la pubblicazione della
sentenza283. E’ anche possibile che venga proposta un’azione volta a far
accertare e dichiarare che un determinato comportamento non costituisce
uso illecito del marchio altrui e, quindi, contraffazione 284 . Tale azione,
definita di “accertamento” o di “non contraffazione”, può essere proposta
solo quando vi sia stata una qualunque forma di contestazione mossa dal
titolare del segno285.
Quanto alla giurisdizione, l’art. 120 c.p.i. dispone che per le azioni in materia
di marchi nazionali e di marchi internazionali, essa appartiene alla Autorità
giudiziaria ordinaria italiana, qualunque sia la cittadinanza, il domicilio o la
residenza delle parti286.
2.1 (segue) La legittimazione attiva e passiva
Il titolare di un diritto di proprietà industriale è legittimato ad agire contro il
terzo che stia violando il suo diritto per ottenere dal giudice la condanna del
convenuto e l’irrogazione a suo carico delle sanzioni previste dalla legge 287.
La legittimazione attiva alla difesa di tale diritto, per quel che concerne il
marchio nazionale, è riservata al titolare del marchio registrato o in corso di
registrazione e del marchio di fatto (si parla in quest’ultimo caso di
violazione del diritto e non di contraffazione); nel primo caso, anche se il
282
COMASTRI, Sui rapporti tra azione di contraffazione e azione di concorrenza sleale, in Riv. dir. proc., 2005, 497.
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 211.
284
RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi
d’impresa, Utet, Torino, 2009, 312.
285
Cass. civ., 10 giugno 2013, n. 14508, in Giur. It., 2014, 587.
286
SENA, Il diritto dei marchi, Giuffrè, Milano, 2007, 213.
287
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 554-555.
283
74
diritto in esclusiva è conferito con la registrazione del segno, gli effetti
dell’esclusiva decorrono dalla data di deposito della domanda288.
Per quel che riguarda, invece, i marchi comunitari, il diritto di esclusiva del
titolare del marchio può essere fatto valere nei confronti di terzi solo a
decorrere dalla data di pubblicazione della registrazione del segno.
Tuttavia, l’art. 103 RMC, prevede espressamente l’applicazione di “misure
provvisorie e cautelari” sia relativamente ad un marchio comunitario che ad
una domanda di marchio comunitario.
La legittimazione passiva spetta ai soggetti cui si possono attribuire gli atti
che costituiscono violazione del diritto titolato; si possono definire come tali
non solo coloro che abbiano realizzato i prodotti o, violando un diritto altrui,
abbaino apposto i segni contraffatori, ma chiunque abbia preso parte alla
distribuzione dei prodotti e quindi, in generale, chiunque ne faccia uso
nell’esercizio
dell’attività
industriale
o
commerciale
289
.A
titolo
esemplificativo, è stato affermato che “non è estraneo alla contraffazione di
un marchio chi acquista gli spazi pubblicitari fruiti per l’utilizzo del segno che
si assume contraffattorio, dal momento che, ai fini della violazione del
marchio, ha rilievo qualsiasi contributo causale all’utilizzo vietato del segno,
anche soltanto nella pubblicità”290.
Nelle azioni di accertamento della “non contraffazione” la legittimazione
attiva è di competenza del presunto contraffattore mentre compete al
titolare del marchio la legittimazione passiva.
3. Onere della prova
288
RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, op.cit., 313.
Cass., 4 dicembre 1999, n. 13592, in Mass. giust. civ., 1999, 2449.
290
Trib. Milano, 14 febbraio 2005, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 697. In particolare nel caso in esame un’agenzia
pubblicitaria aveva acquistato degli spazi pubblicitari per un proprio cliente che vi aveva apposto un marchio simile a
quello altrui.
289
75
Ai sensi dell’art. 121 c.p.i., in applicazione del principio generale di cui al
2697 c.c. 291 , l’onere di provare la contraffazione del marchio registrato
incomberebbe sul suo titolare. Quest’ ultimo deve, anzitutto, dimostrare
l’esistenza del titolo di proprietà industriale oggetto della contraffazione
esibendo in giudizio il titolo stesso; i requisiti di validità del titolo, i quali, a
meno che il titolo non sia in corso di registrazione, sono presunti per
disposizione dell’articolo stesso. In ogni caso, posto che non sussiste
contraffazione laddove il marchio non sia utilizzato nell’altrui attività
economica imprenditoriale e commerciale, l’attore dovrà provare che il
contraffattore usa un segno uguale o simile al proprio marchio e detta prova
potrà essere fornita, a titolo esemplificativo, mediante la produzione in
giudizio
del
prodotto
oggetto
di
contraffazione,
corredato
da
ricevuta/fattura/scontrino fiscale che attestino l’avvenuta vendita, di
dépliant, bolle di accompagnamento, fotografie, cataloghi e documenti
pubblicitari in genere, comprese visure dalla camera di commercio, lettere
commerciali, pagine tratte da siti internet, oltre che a mezzo di prove orali292.
Nel caso di utilizzo da parte di un terzo di un segno uguale o simile al
marchio che gode di rinomanza il titolare dovrà dimostrare che il segno è
conosciuto da una parte significativa del bacino di consumatori di
riferimento allegando alcuni elementi quali la durata d’utilizzo del marchio,
gli investimenti sostenuti per promuoverlo, la quota di mercato, il successo
dei prodotti contrassegnati dal marchio293.
La tutela allargata (“ultramerceologica”) del marchio che gode di rinomanza
necessita della prova che l’utilizzo di quest’ultimo da parte del contraffattore
consente di trarre indebito vantaggio dalla distintività del marchio o recare
pregiudizio allo stesso carattere distintivo o alla notorietà/rinomanza.
L’onere probatorio dell’utilizzo di un segno uguale o simile al marchio
notorio per prodotti non affini con giusto motivo spetta al contraffattore 294.
Ricorre il giusto motivo se l’utilizzo del segno è autorizzato dal titolare o
291
L’articolo sostiene che: “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il
fondamento. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare
i fatti su cui l'eccezione si fonda”.
292
RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, op.cit., 328.
293
CGCE, 27 novembre 2008, causa C-252/07, in Dir. ind. 2009, 108, con nota di SANDRI.
294
Trib. Torino, 26 novembre 2011, in Foro it., 2011, 2047.
76
laddove l’utilizzo del segno da parte del contraffattore sia anteriore
all’acquisizione della rinomanza295.
4. Le misure cautelari
La protezione dei diritti di proprietà industriale deve consistere in una tutela
reale rapida ed efficace, essendo quella pecuniaria, spesso, insufficiente ed
essendo impossibile fornire a posteriori una prova concreta e analitica
dell’esatta entità del danno296.
A tal proposito, data la possibile lunghezza del giudizio di contraffazione, la
gravità dei danni che nel frattempo il titolare del diritto può subire, la loro
normale non risarcibilità in forma specifica, la stessa difficoltà di provarne,
nel giudizio di merito, l’esatta consistenza, il legislatore ha previsto delle
misure cautelari speciali, che sono consulenza tecnica preventiva,
descrizione, sequestro ed inibitoria 297 . Tali misure, che possono essere
richieste sia anteriormente che durante il giudizio di merito, sono disposte
dal nostro ordinamento accanto alla tutela ordinaria, di cui al 125 c.p.i., che
regola il risarcimento del danno.
Non evitare la protrazione nel tempo della violazione di un diritto può, infatti,
vanificare qualsiasi tutela giurisdizionale, in quanto la contraffazione fa venir
meno l’esclusiva nell’utilizzo del segno distintivo ed è fonte perciò solo di
danni che non sono facilmente risarcibili, né in forma specifica, né per
equivalente, data, come già detto, l’estrema difficoltà per il danneggiato di
provarne l’esistenza e l’ammontare 298. A ciò si aggiunge il rischio che il
contraffattore non sia più in grado di adempiere all’obbligo di risarcimento
al momento dell’accertamento della sussistenza dell’illecito e della
condanna definitiva. Per tali ragioni le domande di provvedimenti cautelari
295
RATTI, La contraffazione del marchio. Profili processuali, op.cit., 330.
MARINUCCI, La stabilità dei provvedimenti cautelari in materia di proprietà intellettuale ed industriale alla luce del d.
lgs. n. 140/2006, in Riv. dir. proc.,2007, 102.
297
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 556; FLORIDIA, Il riassetto della proprietà
industriale, Giuffrè, Milano, 2006, 529 ss.; DONATO, Le misure cautelari, in BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei
marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009, 403.
298
DONATO, Le misure cautelari, op.cit., 404-405.
296
77
sono frequenti299; talvolta, a seguito di una misura cautelare idonea può
accadere che le parti regolino i rispettivi interessi tantoché il giudizio di
merito non trova più ragione d’essere. Le misure in esame si rivelano,
pertanto, uno strumento adatto ad assicurare una tempestiva soluzione alle
esigenze degli imprenditori che vedono violati i loro diritti di proprietà
industriale.
Suddette
misure,
che
sono
disciplinate
agli
artt.128
(descrizione), 129 (sequestro), 130 (disposizioni comuni a descrizione e
sequestro), 131 (inibitoria e ritiro dal commercio), 133 (tutela cautelare dei
nomi a dominio) c.p.i., non sono però esaustive in quanto il c.p.i. fa’ altresì
riferimento alle norme processuali comuni: invero, gli articoli menzionati
infatti dichiarano applicabili alla descrizione le regole del codice di
procedura civile in materia di procedimenti di istruzione preventiva, al
sequestro ed all’inibitoria quelle in materia di procedimenti cautelari300.
Tutti i provvedimenti d’urgenza, secondo le regole generali, presuppongono
il fumus boni iuris e il periculum in mora301.
Il giudice deve verificare in modo sommario la sussistenza del diritto che il
titolare intende far valere e il possibile danno causato da un ritardo nel
giudizio e, dunque, dalla prosecuzione dell’illecito.
L’ esistenza del fumus può essere dimostrata mediante la prova della
registrazione del segno, anche se l’attore della violazione può contestare la
validità del marchio, cui segue la prova, almeno sommaria, del
perpretamento dell’illecito.
Per quel che concerne il pericolo nel ritardo è solito affermarsi in
giurisprudenza302 che non occorre fornirne una prova concreta in quanto, in
tali ipotesi, “un pregiudizio imminente e irreparabile” sarebbe in re ipsa,
anche se talune pronunce ritengono necessaria, invece, una sua
dimostrazione303.
Per la concessione delle misure cautelari tipiche, quali sono quelle citate, è
sufficiente la dimostrazione che e’ in essere o sta per verificarsi una
violazione del diritto; in tali casi il pericolo nel ritardo consiste nel rischio di
299
BARBUTO, La sezione Specializzata di Torino e l’incremento dei procedimenti cautelari, in Dir. ind., 2008, 118.
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 556.
301
CESIANO, La tutela cautelare in tema di marchi e di concorrenza sleale, editrice Le Fonti, Milano, 2008, 69.
302
Trib. Modena, 30 ottobre 2000, in Giur. ann. dir. ind., 2001, 454; Trib. Napoli, 5 maggio 2001, in Dir. ind., 2002, 38.
303
Trib. Milano, 11 febbraio 2009, in Annali it. dir. aut., 2010, 824.
300
78
un pregiudizio la cui espansione non è controllabile ovvero di difficile
quantificazione per il risarcimento304.
Nel paragrafo a seguire saranno analizzate nello specifico le misure
richieste da Gucci nel caso in analisi al capitolo IV.
4.1 L’inibitoria e il ritiro dal commercio
L’inibitoria cautelare, regolata dal 131 c.p.i., è una misura cautelare volta a
“congelare” una situazione dannosa per evitarne la ripetizione ovvero
l’aggravamento delle conseguenze provocate dalla condotta illecita posta
in atto dal contraffattore. Tale misura “provvisoria” non differisce
dall’inibitoria “definitiva”, di cui all’art.124 c.p.i..
Come disposto dall’articolo in esame, la misura vieta all’attore della
presunta
violazione
la
prosecuzione
o
la
ripresa
dell’attività
di
“fabbricazione, del commercio e dell'uso delle cose costituenti violazione
del diritto” e può consistere nell’ordine allo stesso di “ritiro dal commercio
delle medesime cose nei confronti di chi ne sia proprietario o ne abbia
comunque la disponibilità”.
L’inibitoria, oltre che come misura per contrastare fenomeni contraffattivi,
può essere disposta, anche, dinnanzi a fenomeni “interferenti” di slealtà
commerciale, inquadrabili nei paradigmi dell’art. 2598 c.c.305.
Inoltre, tale provvedimento, avendo un fine preventivo, non richiede che
l’atto illecito sia in atto ma è sufficiente che appaia probabile una sua
“reiterazione”, a prescindere dall’effettivo danno subito dal titolare del diritto.
Talvolta, può accadere, che il terzo affermi di aver cessato la condotta
illecita e si impegni a evitare una reiterazione della violazione: in tal caso,
egli deve dimostrare quanto sostenuto.
Il giudice può, inoltre, rafforzare la misura fissando una somma dovuta per
ogni violazione o inosservanza successivamente constata o per ogni ritardo
304
DONATO, Le misure cautelari, op.cit., 409; CASABURI, Codice di proprietà industriale e Sezioni specializzate: una
relazione virtuosa, in Dir. ind., 2008, 124.
305
SCUFFI, L’inibitoria, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 1424.
79
nell’esecuzione del provvedimento306, si tratta anche per tale motivo di una
misura fortemente efficace.
Si ritiene che la violazione dell’inibitoria sia sanzionata penalmente ai sensi
dell’art. 388 c.p., che punisce la mancata esecuzione dolosa di un
provvedimento del giudice; si tratta peraltro, di norma raramente applicata,
perché in generale il timore della sanzione penale induce quasi sempre la
parte intimata all’esecuzione spontanea307.
Per quel che riguarda il ritiro dal commercio, questo può essere disposto
nei confronti del proprietario o di chiunque abbia la disponibilità giuridica e/o
materiale dei beni costituenti violazione del diritto. La misura è, in genere,
complementare e rafforzativa di quella inibitoria, ma a differenza di
quest’ultima, impone dei comportamenti attivi (e non mere astensioni) 308.
Come gli altri provvedimenti di diritto industriale, tranne per quel che
concerne il risarcimento del danno, anche l’ordine di ritiro dal commercio
presuppone l’accertamento della violazione ma prescinde dalla prova della
colpa e del danno.
5. Il risarcimento del danno
Oltre all’accertamento della violazione del diritto e alla pronuncia delle
misure previste, nelle cause di contraffazione del segno il contraffattore è
condannato al risarcimento del danno procurato al titolare.
In un sistema altamente competitivo, quale il nostro, sembra necessario il
risarcimento integrale del danno provocato, cui si aggiunge una
valorizzazione del risarcimento nella sua funzione di deterrente, a fronte del
diffondersi di pratiche contraffattorie.
La liquidazione del danno da contraffazione si presenta sempre come una
operazione difficile, e, nella nostra esperienza giudiziaria, sono finora
306
FLORIDIA, La tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale, in AA.VV., Diritto industriale, Giappichelli, Torino,
2012, 699.
307
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 560; MAGELLI, Il risarcimento del danno da
contraffazione nell’esperienza giurisprudenziale italiana, in Dir. ind., 2012, 182.
308
SCUFFI, L’inibitoria, op.cit., 1426.
80
mancati seri criteri di quantificazione 309: tale mancanza ha comportato il
verificarsi di una costante sottovalutazione del danno risarcibile che
costituisce un incentivo alla violazione dei diritti di proprietà industriale.
La regola fondamentale in materia di risarcimento del danno da
contraffazione è quella enunciata dall’art. 125 c.p.i., co. 1, in base al quale
“il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni
degli artt. 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti
pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato
guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della
violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come
il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione”. La norma, di
cui all’articolo enunciato, non solo evidenzia un elemento indennitario 310,
ma assume rilievo anche in chiave riparatoria nell’intento di annullare gli
effetti negativi della violazione per lo svolgimento della regolare attività di
mercato311.
Poiché la contraffazione di un marchio è un illecito extracontrattuale, la
domanda di risarcimento del danno, soggetta in generale alla disciplina
della responsabilità aquilana di cui all’art. 2043 c.c. ed al termine di
prescrizione quinquennale di cui all’art. 2947 c.c., richiederebbe
l’accertamento, e quindi la prova, del dolo o della colpa del contraffattore,
dell’esistenza di conseguenza negativa nel patrimonio del titolare del diritto
leso e del nesso di casualità tra la condotta del contraffattore e tali
conseguenze negative312.
Peraltro, si ritiene presunta la colpa del contraffattore, che ha il dovere di
consultare i registri per verificare la presenza di diritti esclusivi di soggetti
terzi, laddove l’oggetto della violazione sia un marchio registrato, supportato
da un sistema di pubblicità legale313.
309
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 562.
SPOLINDORO, Il risarcimento del danno nel codice della proprietà industriale. Appunti sull’art. 125 c.p.i., in Riv.dir.
ind., 2009, 152.
311
GALLI, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, in Dir. ind., 2012, 110.
312
RATTI, Il risarcimento del danno, IN BOTTERO, TRAVOSTINO (a cura di), Il diritto dei marchi d’impresa, Utet, Torino, 2009,
359.
313
App. Milano, 24 settembre 1991, in Giur. ann. dir. ind., 1991, 2704.
310
81
Il contraffattore, dal canto suo, ha l’onere di dimostrare la sua avvenuta
consultazione dei registri314 o la difficoltà nel farlo; nella pratica, tuttavia,
fornire tale prova contraria non è semplice.
Come già precisato, la quantificazione del danno da contraffazione non è
sempre agevole. In merito, occorre precisare che prima della definizione
dell’entità del risarcimento, ovvero del quantum, è necessario procedere
con l’accertamento dell’an, ovvero dell’esistenza di conseguenze negative
sul patrimonio del titolare del diritto di proprietà industriale causate dalla
contraffazione 315 , nonché la presenza di un nesso di casualità, ai sensi
dell’art. 1223 c.c., tra l’illecito di contraffazione e il danno subito. Sebbene
tale nesso sia stato considerato, talvolta, in re ipsa316, per la giurisprudenza
maggioritaria 317 l’attore in contraffazione deve fornire elementi indicativi
della presenza di conseguenze dannose risarcibili.
In generale, il nesso di causalità presuppone la dimostrazione della
probabilità che il titolare del diritto, in assenza dell’illecito contraffattorio,
avrebbe effettuato vendite pari a quelle del contraffattore o a parte di
esse318.
Ai sensi dell’art. 1226 c.c., richiamato dall’art. 125 c.p.i., se non vi è
possibilità di dimostrare l’ammontare preciso del danno, il giudice dispone
una liquidazione secondo equità, ovvero senza riferimento a specifici criteri
e norme giuridiche.
5.1 Il danno emergente e il lucro cessante
In materia di liquidazione del danno da contraffazione si è soliti riferirsi ai
concetti di danno emergente e lucro cessante, richiamati dall’art. 2056 c.c.,
in tema di fatto illecito.
314
Trib. Milano, 22 febbraio 1993, in Giur. ann. dir. ind., 1993, 463.
RATTI, Il risarcimento del danno, op.cit., 360; SIROTTI GAUDENZI, Proprietà intellettuale e diritto della concorrenza,
UTET, Torino, 2008, 195; SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, in SCUFFI, FRANZOSI (a cura
di), Diritto industriale italiano, Cedam, Padova, 2014, 1373.
316
App. Milano, 6 giugno 2003, in Giur. ann. dir. ind., 2005, 4792.
317
Cass., 28 aprile 1990, n. 3604, in Giur. ann. dir. ind., 1990, 72; Trib. Firenze, 10 luglio 2006, in Giur. ann. dir.
ind.,2006, 5095; GHIDINI, Della concorrenza sleale, Giuffrè, Milano, 2001, 407.
318
FRANZOSI, Il risarcimento del danno da lesione di diritti di proprietà industriale, in Dir. ind., 2006, 205.
315
82
Il danno emergente è costituito, anzitutto, dalle spese sostenute per
accertare e acquisire le prove dell’illecito (di investigazione, di consulenza,
ecc.); da quelle per la costituzione in processi penali e civili, per la
“pubblicità da ricostruzione”, resa necessaria a seguito della contraffazione
(anche mediante comunicati o diffide) al fine di riportare il fatturato ai livelli
precedenti; dalle spese rese nulle dall’illecito perpetrato (es. spese
pubblicitarie); da quelle conseguenti al c.d. danno normativo319.
Con “danno normativo” si indica il pregiudizio subito dalla posizione di
dominio in sé goduta dal titolare dell’esclusiva quale situazione
giuridicamente protetta dall’ordinamento320.
Tale danno è la conseguenza della “dilution” del marchio legata alla
condotta contraffattoria che si riflette, sul piano delle mancate vendite, ma
anche sulle possibilità di sfruttamento economico del prodotto sul mercato.
Ci si riferisce, ad esempio, ai fenomeni del c.d. annacquamento del marchio
notorio per effetto del discredito derivato da offerte di prodotti simili di
scadente qualità incompatibili con il prestigio e l’immagine propria del
marchio imitato, il più delle volte “evocativo” di eccellenza per il
consumatore321.
Il pregiudizio del valore economico “di posizione” del marchio prescinde
dalla riduzione del volume di vendite provocata dall’azione di contraffazione,
senza per tale motivo escluderne la liquidazione322. Per quel che riguarda
la quantificazione del danno d’immagine, la nostra dottrina giuridica ed
economica ha messo in luce come la stessa possa essere effettuata
commisurandola quanto meno al “costo per una pubblicità di ricostruzione
(correttiva)” dell’immagine aziendale deteriorata, ovvero ad una frazione dei
costi pubblicitari sostenuti: ed ovviamente al riguardo non si può pretendere
di risarcire solo la pubblicità ricostruttiva che sia stata effettivamente
realizzata, perché, nella logica differenziale, ciò che conta è che la
contraffazione abbia determinato la necessità della “riparazione”, non che
la riparazione sia stata già effettuata323.
319
GUERNELLI, La retroversione degli utili fra rischio di overcompensation ed esigenza di colmare il lucro cessante, in Dir.
ind., 2011, 213.
320
BUSNELLI, PATTI, Danno e responsabilità civile, Giappicchelli, Torino, 2013, 12.
321
SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, op.cit., 1378.
322
In particolare, sulla tutela del marchio Gucci si veda Trib. Firenze, 2 giugno 2004, in Giur. ann. dir. ind., 2004, 4816.
323
GALLI, Risarcimento del danno e retroversione degli utili: le diverse voci di danno, in Dir. ind., 2012, 115.
83
La prova a sostegno del danno emergente è ovviamente molto spesso
documentale. La liquidazione può avvenire anche in via equitativa 324 ,
qualora appaia difficile provare il danno nel suo preciso ammontare.
Molto più difficoltosa risulta essere la quantificazione del lucro cessante,
volendosi con tal termine indicare il mancato guadagno del titolare del diritto
leso (lucro cessante in senso stretto), ovvero, in senso lato, i vantaggi
patrimoniali che la vittima avrebbe potuto conseguire in assenza della
condotta lesiva325.
Le difficoltà di quantificazione del danno, anche nella componente del lucro
cessante possono essere in parte superate grazie alla valutazione
equitativa del danno stesso326, inoltre, come disposto dall’art. 125, co. 2,
c.p.i., il giudice può liquidare il danno “in una somma globale stabilita in base
agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano”.
Sono stati individuati diversi parametri (poi in parte codificati), talvolta
combinati tra loro, con i quali sarebbe possibile coprire tale voce di danno:
1) il calo, perdita o decremento del fatturato del titolare della privativa, con
conseguente perdita di profitto (c.d. teoria dei profitti persi, lost profits due
to lost sales); 2) il giusto prezzo (royalty) del consenso, che il violatore
avrebbe dovuto pagare al titolare del diritto se avesse ottenuto regolare
licenza; 3) la retroversione degli utili ritratti dal contraffattore327.
Il primo criterio, applicato di frequente, ricollega il danno alle perdite
registrate dal soggetto leso, a loro volta legate ai minori volumi di vendita o
a sconti legati alla presenza di prodotti contraffatti sul mercato e richiede
una prova della diminuzione del fatturato o del suo mancato incremento
secondo le aspettative. La dimostrazione del nesso di causalità tra tali
avvenimenti e la violazione del diritto di proprietà, tuttavia, è difficile: sono
differenti, infatti, i fattori che influiscono sulla capacità di un’impresa di
324
MAGHELLI, Il risarcimento del danno da contraffazione nell’esperienza giurisprudenziale italiana, in Dir. ind., 2012,
188-189.
325
MAGHELLI, Il risarcimento del danno da contraffazione nell’esperienza giurisprudenziale italiana, in Dir. ind., 2012,
215.
326
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 563.
327
GUARNELLI, La retroversione degli utili fra rischio di overcompensation ed esigenza di colmare il lucro cessante, in Dir.
ind., 2011, 215.
84
realizzare profitti 328 . Tra questi vi sono, ad esempio, le variazioni nelle
condizioni di mercato o delle preferenze dei consumatori.
Il secondo criterio ricollega l’entità del danno alla royalties che il
contraffattore avrebbe dovuto versare in presenza di un regolare contratto
di licenza.
Il terzo ed ultimo criterio sarà diffusamente trattato al paragrafo successivo.
5.1.1 L’art. 125, co. 3, c.p.i. e la retroversione degli utili
Come disposto dall’art. 125, co. 3, c.p.i., “in ogni caso il titolare del diritto
leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall'autore della
violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in
cui essi eccedono tale risarcimento”.
Tale misura non è aggiuntiva al risarcimento delle perdite e mancati
guadagni del soggetto leso, bensì alternativa e/o correttiva della valutazione
del lucro cessante addotto da quest’ultimo, per consentire il ristoro di un
pregiudizio altrimenti destinato a rimanere sostanzialmente impunito329. La
logica che il legislatore persegue è quella di evitare che il contraffattore
possa ottenere un guadagno dalla contraffazione: potrebbe verificarsi,
infatti, una situazione in cui il titolare non subisce una contrazione delle
vendite a seguito dell’altrui contraffazione. In questi casi viene in soccorso
la norma in esame, in quanto se si limita il danno al mancato utile, si
verrebbe a negare ogni risarcimento (danno emergente a parte), perché il
titolare del diritto leso non ha subito alcuna contrazione di vendite330.
L’attribuzione del decremento delle vendite subito dall’imprenditore
all’illecito di contraffazione non è sempre agevole, possono, infatti, esservi
delle fluttuazioni imputabili ad altri fattori, quali, ad esempio, la variazione
degli investimenti pubblicitari, il ciclo di vita del prodotto, l’introduzione di
nuovi competitors.
328
SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, op.cit., 1380; RENOLDI, L’incidenza economica
della contraffazione e la misurazione del danno, in Dir. ind., 1999, 238; CARTELLA, Il risarcimento del danno nella
contraffazione di marchio, in Dir. ind., 2001, 143.
329
SCUFFI, Il risarcimento del danno e la pubblicazione della sentenza, op.cit., 1382-1383.
330
VANZETTI, DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, Giuffrè, Milano, 2012, 565.
85
Per tale motivo, è necessaria un’analisi approfondita del mercato e del
prodotto che sappia evidenziare le variazioni causate da variabili estranee
alla contraffazione.
Nell’ipotesi di contraffazione di un marchio speciale da parte di terzi, l’attività
illecita consiste nell’utilizzo di detto marchio per contrassegnare determinati
prodotti, gli utili da restituire sono quelli realizzati con la vendita dei prodotti
sui quali il marchio contraffatto è stato apposto, non tutti gli utili del
contraffattore, siano essi derivanti dalla produzione e vendita di prodotti
contrassegnati da un marchio differente, non contraffatto. La sanzione di
retroversione degli utili da parte del contraffattore non è risarcitoria, pertanto
potrebbe essere inflitta anche qualora l’autore della violazione dimostri
l’assenza di dolo o colpa a suo carico.
CAPITOLO IV: IL CASO GUCCI CONTRO GUESS
SOMMARIO: 1. I fatti e le ipotesi di diritto richiamate - 2. Le decisioni del Tribunale di Milano
- 2.1 Contraffazione di marchi - 2.2 Imitazione servile - 2.3 Concorrenza parassitaria- 3.
Conclusioni del Tribunale di Milano - 4. Le decisioni della Corte d’Appello
1. I fatti e le ipotesi di diritto richiamate
Nel settore della moda trova sempre maggiore diffusione il fenomeno
concorrenziale che si sostanzia nella commercializzazione di prodotti che si
caratterizzano per riprodurre esclusivamente o in combinazione fra loro, in
modo sistematico e con modalità appariscenti ed indubbiamente
accattivanti, i marchi, i loghi, i temi ricorrenti più celebri delle maison di
moda331.
Talvolta, questi segni distintivi sono parzialmente modificati o rivisitati ma
rimangono, comunque, sempre identificabili.
331
FERRARI, Contraffazione di marchi e concorrenza sleale, in Quot. giur., 12 giugno 2013.
86
Tali rivisitazioni non sembrano minare la forza attrattiva dei segni che
godono di rinomanza, oggetto di tale operazione, ma anzi la confermano,
essendo i segni noti in grado di trasformare in un’operazione commerciale
di successo anche scelte stilistiche di modesto rilievo e denotate da scarsa
creatività.
In materia di concorrenza sleale e contraffazione di marchio, è interessante
riportare la battaglia legale intercorsa tra le due maison di moda Guccio
Gucci spa e Guess? Inc..
Di seguito sarà analizzata la conclusione sul caso tratta dal Tribunale di
Milano332, agli antipodi rispetto alle decisioni della Southern District of New
York che, con sentenza del 5 maggio 2012, ha riconosciuto la violazione dei
marchi di Gucci da parte di Guess e inflitto a quest’ultima un risarcimento
del danno, a titolo di retroversione degli utili, di una somma superiore a 4
milioni di dollari, nonché l’inibizione dall’utilizzo dei propri marchi.
Gucci spa, fondata a Firenze nel 1921, è una delle più celebri case di moda
italiana nel mondo. Il 5 maggio 2009 la maison italiana conviene in giudizio
l’azienda di moda statunitense Guess? Inc. e la consociata Guess Italia srl
chiedendo la condanna di quest’ultima per la contraffazione di numerosi
marchi nazionali (nn. 947057, 1057600, 1057601, 876580, 1040793,
876581, 971291, TO2008C000635) e comunitari (nn. 122093, 940490,
940491, 2751535, 160028, 4462735, 5172218, 6682728, 2782548), di
proprietà dell’attrice; chiedendo, inoltre, l’accertamento e dichiarazione di
responsabilità di Guess in merito alle condotte di concorrenza sleale da
questa tenute, ai sensi dell’art. 2598, nn. 1, 2, 3 c.c..
In particolare, Gucci accusava Guess di aver tenuto comportamenti illeciti,
contraffattori e sleali, a partire dagli anni 2000, con l’imitazione di propri
segni distintivi, modelli e linee stilistiche in relazione a prodotti venduti a
prezzi decisamente più bassi degli originali.
Analizzando la storia della maison statunitense si possono, infatti,
individuare due “momenti” vissuti da quest’ultima: una prima “stagione”,
collocata tra gli anni ‘80 e ’90, caratterizzata dalla produzione di linee di
abbigliamento giovanili e casual con richiami ai campus americani, e una
seconda “stagione” caratterizzata dallo sforzo della maison americana nella
332
Dopo la prima udienza tenutasi il 16 febbraio 2010.
87
costruzione una brand image più raffinata per affacciarsi sul mercato medio
di consumatori attirati dal mondo dei marchi celebri e dell’alta moda.
Con tale intento, Guess avrebbe abbandonato i segni distintivi utilizzati in
precedenza (tra i quali il celebre triangolo rosso con il punto interrogativo al
centro) per impossessarsi di marchi e prodotti delle più celebri maison di
moda, imitati e contrassegnati, poi, dal proprio segno distintivo “Guess”, che
vantava ancora una certa rinomanza.
Data la riconosciuta alta qualità dei suoi prodotti, la notorietà presso i
consumatori e i cospicui volumi di vendite, tra i marchi noti interessati dalla
condotta illecita posta in essere da Guess vi erano quelli della maison di
moda italiana Gucci.
In merito, Guess avrebbe adattato i propri segni distintivi a quelli di Gucci e
creato, inoltre, nuovi marchi confondibili con quelli dell’azienda italiana,
quali il logo Guess con le “G”; oltre a ciò, l’azienda statunitense avrebbe
pedissequamente riprodotto il nastro “verde-rosso-verde” e la stampa
“Flora”, segni distintivi di titolarità dell’attrice, e imitato i modelli di scarpe,
borse e borselli di Gucci più conosciuti.
Rispetto a quanto sostenuto dall’attrice, la strategia di Guess sarebbe stata
quella di sfruttare la rinomanza di Gucci imitandone segni distintivi e prodotti
con il fine di proporsi al mercato come alternativa, con prezzi più contenuti,
della maison di moda italiana.
L’attrice ribadiva che la condotta illecita di Guess, volta alla servile,
prolungata e costante imitazione e contraffazione dei segni distintivi e dei
prodotti, fosse integrazione non solo dell’illecito di cui al 2598, n. 1, c.c., ma
anche di quelli previsti dai nn. 2, 3 dello stesso. L’azienda statunitense, con
la condotta imitatoria di marchi e prodotti, si sarebbe, infatti, impadronita
dell’immagine e della notorietà di Gucci; oltre a ciò, data la ripetitività e la
permanenza dell’attività imitativa messa in atto da Guess, sarebbe stata
integrata anche la fattispecie della concorrenza parassitaria.
In merito a tali condotte di Guess, Gucci richiedeva l’inibitoria dei predetti
comportamenti illeciti, con fissazione di idonea penale, oltre al ritiro dal
commercio e alla distruzione dei prodotti, oggetto della condotta illecita, e
del relativo materiale pubblicitario; nonché la condanna della controparte al
88
risarcimento del danno ed alla restituzione degli utili; infine, domandava la
pubblicazione della emananda sentenza.
Guess Inc., azienda americana fondata nel 1981, maison di moda tra le più
apprezzate per la produzione di capi d’abbigliamento di tendenza e
giovanili, oltre a rigettare le domande presentate da Gucci, chiedeva, in via
riconvenzionale, che fossero dichiarati nulli tutti i marchi azionati dall’attrice
per mancanza dei requisiti richiesti dalla legge e/o la decadenza per perdita
di capacità distintiva dei medesimi; inoltre, richiedeva la dichiarazione di
decadenza per non uso ultra-quinquennale del marchio italiano n. 331121.
Gucci citava in giudizio, unitamente a Guess, richiamando l’art. 20, co. 2,
c.p.i. 333 , anche la società Zappos.com, che commercializzava scarpe
tramite il web, poiché responsabile della vendita in Italia di due modelli
contrassegnati da marchio Guess, ritenuti pedissequa imitazione di quelli
dell’attrice.
La stessa Zappos aveva confermato di aver accettato ordini da clienti
internazionali ponendosi in un rapporto di concorrenza con l’azienda
italiana. In particolare, quest’ultima dichiarava di aver letto in un blog della
presenza di un modello di scarpe, oggetto dell’illecito, in un negozio italiano;
inoltre, un paio di scarpe recava sulla scatola l’indicazione delle taglie
europee a dimostrazione che tali scarpe fossero state commercializzate e
vendute anche presso consumatori europei.
La controparte sottolineava che la vendita dei propri prodotti avvenisse solo
attraverso il sito internet dedicato esclusivamente a consumatori americani
e canadesi, in quanto redatto in lingua inglese, con prezzi espressi in dollari
e taglie americane.
In effetti, il testo menzionato da Gucci, riportava le difficoltà incontrate nella
procedura d’acquisto: quest’ultima si era, infatti, bloccata una volta inseriti i
recapiti di consegna presso indirizzi non americani; a questo punto si era
resa necessaria la telefonata al numero indicato per concludere l’acquisto
con relativa consegna, da parte di Zappos, dei prodotti ad un spedizioniere
internazionale che, con costi a carico del destinatario, consegnasse il pacco
ad un indirizzo ubicato in Italia.
333
L’articolo in questione include tra le attività vietate anche l’importazione di prodotti contrassegnati da un marchio
contraffattorio.
89
Zappos affermava, inoltre, che le vendite attraverso siti internet non
potessero essere considerate come politica attiva di vendita in tutti i Paesi
in cui il sito risultasse accessibile; tali vendite sarebbero state da
considerarsi effettuate nel Paese di residenza del titolare del sito stesso,
considerando l'attività commerciale di tal soggetto come attività meramente
passiva334. Oltre a ciò, Gucci non aveva considerato il fatto che Zappos
commercializzava e vendeva solamente prodotti della collezione americana
di Guess, escludendosi così qualsiasi rapporto con il territorio italiano e con
i prodotti venduti dall’azienda statunitense in Italia.
Si procedera’ ora con l’analisi, nello specifico, di tutti i marchi azionati da
Gucci e le ragioni di parte attrice e della controparte convenuta in giudizio.
Tra i marchi imitati da Guess, l’attrice indicava: il marchio comunitario n.
121947, depositato il 1 aprile 1996, ossia la scritta “Gucci” in corsivo con
sottolineatura, considerato uno dei suoi marchi più famosi (fig. 1); quello
italiano, n. 1330236, e comunitario, n. 6682728, raffiguranti la lettera “G” in
corsivo maiuscolo (fig. 2).
L’attrice riteneva che il logo “Gucci” in corsivo sottolineato fosse protetto
dalla tutela prevista per i marchi celebri, in quanto utilizzava il suddetto dagli
anni ’50-’60 e che Guess l’avesse imitato con il proprio marchio avente ad
oggetto la scritta “Guess” in carattere corsivo e con sottolineatura, posto su
diversi prodotti dell’azienda statunitense non soltanto commercializzati e
venduti presso punti propri vendita, ma anche pubblicizzati su cataloghi e
riviste italiane. In particolare, Gucci evidenziava come la somiglianza della
tipografia dei due segni distintivi, l’identica sottolineatura utilizzata da
Guess, unita all’utilizzo di tali segni su un tessuto logato o stampe simili, se
non identiche a quelle dell’azienda italiana, creasse comunque un possibile
effetto confusorio presso il pubblico, posto, oltretutto, che le prime due
lettere (“gu”) delle espressioni considerate sono le stesse.
D’altro canto, Guess ribadiva la diversità concettuale, fonetica e letterale tra
“Gucci” e “Guess” escludendo, inoltre, che il carattere corsivo potesse
essere oggetto d’esclusiva, in quanto carattere grafico generico utilizzato
da diverse maison di moda.
334
Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., n.4792, 2013.
90
La convenuta affermava, anche, di utilizzare tale carattere per il proprio
segno dal 1982, dunque, precedentemente alla registrazione del marchio
da parte di Gucci, avvenuta nel 1996; potendosi, in merito, oltretutto,
rilevare la nullità del segno registrato da Gucci per mancanza di novità.
In relazione a quanto affermato dalla convenuta, Gucci presentava una
documentazione a sostegno del preuso del marchio anteriormente alla sua
registrazione; Guess contestava il fatto che il marchio preusato fosse
differente, per tipografia e sottolineatura, da quello successivamente
registrato da Gucci e che l’utilizzo del segno, fino agli anni ’70, fosse limitato
a specifici accessori e foulards, per essere riutilizzato, in forma rielaborata,
solo dal 2005. Infine, la controparte affermava che Gucci non avesse
adeguatamente provato né la rinomanza del marchio in questione, né
tantomeno l’asserito preuso del medesimo.
L’attrice, nella memoria di replica, confermava l’utilizzo del marchio dagli
anni ’40, seppur in modo non continuativo (la notorietà del medesimo
sarebbe quindi, secondo la medesima indiscutibile); inoltre, la tipografia del
segno preusato - affermava Gucci - era la stessa del marchio che sarebbe
stato successivamente registrato: le differenze grafiche erano, infatti, non
percettibili, e, in ogni caso, si trattava di una “forma grafica modificata che
non ne alteri il carattere distintivo”, ai sensi dell’art. 24, co. 2, c.p.i., che
integrava il pieno uso del marchio stesso.
L’azienda italiana, sottolineava, infine, l’utilizzo da parte di Guess di alcune
espressioni in corsivo, negli anni ’80-’90, differenti da quelle di Gucci, tranne
l’ultima delle stesse considerata contraffazione del marchio della maison
fiorentina, e, come l’utilizzo delle medesime fosse in ogni caso successivo
agli anni ’40. Inoltre, la tutela concedibile a tale segno, secondo l’attrice, si
sarebbe dovuta estendere a tutti i marchi dell’azienda recanti la medesima
grafia.
In merito alla “G” in corsivo, anche in tal caso l’attrice affermava la
contraffazione
da
parte
di
Guess:
quest’ultima,
infatti,
avrebbe
contrassegnato i propri prodotti, venduti e riprodotti rispettivamente su
negozi e cataloghi italiani, con una “G” identica a quella di Gucci, che
vantava, peraltro, di notorietà e celebrità internazionale.
91
Per contro, Guess ribadiva la nullità di suddetto marchio per carenza di
capacità distintiva, data la debolezza dei segni costituiti da una singola
lettera dell’alfabeto. Oltre a ciò, evidenziava come fosse pratica
estremamente diffusa nel mondo della moda l’utilizzo della lettera “G” per
contrassegnare i propri prodotti (ne sono esempi, le “G” corsive di Gant,
Romeo Gigli, Guerlain, Guru). L’attrice non aveva, inoltre, dimostrato
l’effettivo utilizzo del marchio, né tantomeno la sua rinomanza e la
secondarizzazione.
Guess utilizzava il segno costituito dalla lettere “G” in corsivo anteriormente
alla registrazione del marchio da parte di Gucci (avvenuta nel 2008) per
diversi prodotti, largamente diffusi e pubblicizzati: pertanto, secondo quanto
affermato dall’azienda statunitense il marchio registrato da Gucci non
presentava il requisito della novità richiesto.
Guess rimarcava, poi, che la lettera “G” in corsivo era accompagnata da
altri elementi grafici che permettevano di distinguerla dalla “G” di Gucci.
Ancora, l’attrice evidenziava la contraffazione del marchio “GUCCI” in
maiuscolo (fig. 3), con grafie dorate ed effetto in rilievo (tridimensionale), in
quanto le prime scritte della controparte presentavano una tipografia
differente ed erano prive dell’effetto tridimensionale. Guess ribadiva che le
espressioni utilizzate da Gucci nel tempo erano diverse, per grafia e colori,
da quella ivi contestata, oltre al fatto che mancasse, ancora una volta, una
prova dell’utilizzo del suddetto marchio da parte di Gucci.
La controparte affermava, per contro di utilizzare la tipografia contestata dal
2004, sia nei cataloghi che come insegna dei punti vendita. Inoltre, la scritta
di Guess era, a colpo d’occhio, differente da quella di parte attrice.
Le altre contestazioni sollevate da Gucci avevano ad oggetto i marchi
contenenti la singola lettera “G” o due “G” contrapposte (fig. 4-7)335.
In particolare, secondo parte attrice, Guess avrebbe imitato e violato i diritti
relativi
a
detti
segni
distintivi
producendo,
commercializzando
e
pubblicizzando nel nostro paese molteplici capi d’abbigliamento e accessori
contrassegnati dalla lettera “G” in diverse rappresentazioni, oppure
realizzati con il tessuto contraddistinto dalla trama a “G” incrociate.
335
Il riferimento è ai seguenti marchi: marchio italiano n. 1057601 e comunitario n. 940491; marchio italiano n.
1057600 e comunitario n. 940490; marchio italiano n. 947057 e comunitario n. 122093; marchio italiano n. 876580 e
comunitario n. 2751535.
92
Il medesimo comportamento illecito sarebbe stato commesso anche da
Zappos, colpevole della vendita via internet, in Italia, di due modelli di
scarpe contrassegnati dalla trama a “G” incrociate e da ulteriori elementi
confondibili con i segni distintivi di Gucci.
Quest’ultima riteneva Guess colpevole della pedissequa imitazione del
proprio segno cc.dd. “diamond”, composto da una trama di linee tratteggiate
a formare dei rombi con la lettera “G” apposta agli angoli dei medesimi - in
modo da dare l’impressione di due “G” contrapposte e capovolte, come
nella trama dell’attrice -.
Guess avrebbe, inoltre, imitato i colori, in particolare lo sfondo beige delle
trama e il marrone scuro delle lettere, utilizzati da Gucci nel pattern
“Guccissima”, oltre ad aver apposto nella trama dei cuori dopo che anche
l’attrice l’aveva fatto.
Tale comportamento di Guess, volto all’imitazione pedissequa e costante
dei segni dell’attrice, come riportato anche nella sentenza USA richiamata
in apertura del capitolo336, integrerebbe, a detta di Gucci, l’ipotesi di una
condotta sleale e contraffattoria. In particolar modo, si sarebbe costituito un
rischio di confusione presso i consumatori sia relativamente alla “pre-sale
confusion”, che si verifica quando il consumatore viene attratto da un
prodotto perché il segno che lo contrassegna rimanda al marchio noto del
concorrente; sia relativamente alla “post-sale confusion”, ovvero nel caso in
cui i terzi, vedendo il prodotto indossato dall’acquirente, possano pensare
che quest’ultimo sia stato prodotto dal titolare del marchio contraffatto.
Secondo parte attrice, tale condotta integrerebbe l’ipotesi illecita di cui
all’art. 20, co. 1, sia lett. b), che c), c.p.i. (in quanto si tratta di un marchio
rinomato), in considerazione dell’impressione complessiva prodotta dai
marchi azionati e della valutazione generale dei diversi segni distintivi e
prodotti di Gucci e dalla controparte. Inoltre, si configurerebbe l’illecito
sfruttamento della notorietà, delle iniziative e degli investimenti altrui: tale
condotta sarebbe stata la causa della dispersione dell’identità dei marchi
dell’azienda italiana con riduzione della loro presa nella mente dei
consumatori; parimenti, si sarebbe verificato l’indebolimento della capacità
336
Southern District Court of New York, “Gucci America Inc. v. Guess? Inc.”, 21 maggio 2012, n. 09 Civ. 4373, reperibile
in www.abovethelaw.com, 2012.
93
dei marchi di suscitare nel consumatore un’associazione tra quest’ultimi e i
prodotti per i quali erano stati registrati, oltre ad una danno alla rinomanza
della maison italiana in quanto la qualità dei prodotti Guess sarebbe più
scadente rispetto a quelli di Gucci.
Parte attrice contestava, anche, la contraffazione del marchio composto
dalla trama a “G” squadrate (fig. 10), depositata nel 2002 ma utilizzata, la
trama, sino dagli anni ’70, la “G” squadrata da sola, invece, dagli anni ’70’80.
Secondo controparte, invece, tale marchio sarebbe da considerarsi,
addirittura, nullo in quanto conferente valore sostanziale ai prodotti e
percepito dai consumatori come motivo decorativo, oltre al fatto che, come
già evidenziato, l’utilizzo della lettera “G” tra le maison di moda fosse
generalizzato.
Inoltre, il suddetto marchio sarebbe da considerarsi debole in quanto
singola lettera dell'alfabeto, come si è detto per la “G” in corsivo.
Guess ribadiva, anche, la diversità nella forma, nel contrasto di colori del
proprio segno distintivo, oltre alla differente distanza e posizione delle
lettere “G” all’interno della trama.
La maison statunitense affermava, poi, di aver ideato la trama a “G”
squadrate, successivamente riportata nei cataloghi di una collezione di
borse dell’estate 2002, precedentemente alla registrazione del marchio da
parte di Gucci; inoltre, il tessuto cc.dd. “a damier” con trama a “G”
squadrata, che l’azienda italiana sosteneva di utilizzare sino dagli anni ’70,
era differente da quello registrato e azionato dalla stessa.
D’altro canto, Gucci replicava che la funzione “ornamentale” del marchio
non incide sulla capacità distintiva e validità del suddetto e sottolineava
come le differenze tra il marchio utilizzato negli anni ’70 e quelli registrato
fossero, in realtà, poco percettibili.
Riteneva, inoltre, posta l’oggettiva differenza tra i segni di Gucci e quelli
simili già presenti sul mercato, quali Givenchy o Gherardini, che non vi fosse
la generalizzazione del marchio Gucci, come, invece, asserito da Guess.
Oltre a ciò, le modeste differenze tra la trama della maison statunitense e
quella di Gucci, che parte attrice riteneva protetta dell’ampia tutela riservata
94
ai marchi rinomati, evidenziavano un intento contraffattorio ai danni
dell’azienda italiana.
A tal punto, Guess affermava la decadenza del suddetto marchio in quanto
Gucci non aveva provato l’effettivo utilizzo del segno sia prima che dopo la
registrazione, oltre all’asserita secondarizzazione del marchio stesso;
inoltre, a causa della già citata generalizzazione dei marchi raffiguranti la
lettera “G” tra le maison di moda, tale segno sarebbe da ritenersi nullo per
difetto di novità, o, comunque, molto debole.
Secondo parte convenuta, non sarebbe stato oggetto di contraffazione,
come, invece, sostenuto da Gucci, il marchio composto da cinque gruppi di
due lettere "G" contrapposte ed invertite, collegate tra loro da pallini vuoti
(marchio italiano n. 876580, registrato il 3 ottobre 2002); tale segno
dovrebbe, invece, essere anch’esso ritenuto nullo, in quanto, costituito da
un disegno che conferisce un valore sostanziale al prodotto.
Come per i precedenti marchi, anche in tal caso, Guess, posta la
generalizzazione del segno sul mercato, evidenziava la mancata
secondarizzazione del marchio, affermando, quindi, la debolezza di detto
segno.
Inoltre, nella trama Guess erano rappresentate singole lettere “G”, differenti
per carattere e tipografia da quelle dell’attrice; quest’ultima, consapevole
dell’inesistenza della contraffazione, avrebbe depositato nel 2007,
posteriormente rispetto all’utilizzo del marchio da parte di Guess, un segno
composto da singole lettere “G”, di cui si richiedeva, in tal sede, la
protezione.
Anche per tale segno valgono le osservazione sollevate per il precedente
riguardanti la secondarizzazione e la debolezza del marchio, oltre alla
mancata dimostrazione, da parte di Gucci, dell’effettivo utilizzo del
medesimo.
In più, tale segno rappresentava solo un motivo ornamentale e non
coincideva con diritti e titoli azionati da Gucci nell’atto di citazione.
Parte attrice sosteneva, ancora, l’imitazione del suo marchio costituito da
due lettere “G” contrapposte ed invertite, nonché di quello composto dalla
lettera “G” con dei quadratini ai quattro angoli (marchio nazionale registrato
95
nel 1982, rinnovato per la seconda volta nel 2012; marchio comunitario
registrato nel 1996, rinnovato per la seconda volta nel 2006).
Tale segno sarebbe, tuttavia, da ritenersi decaduto per non uso, in quanto,
Gucci, anche in tal caso, non avrebbe provato l’effettivo utilizzo del marchio;
oltre al fatto che anche il medesimo, secondo Guess, dovesse essere
dichiarato nullo poiché privo di capacità distintiva o, comunque, molto
debole; infine, doveva escludersi ogni imitazione da parte della convenuta,
non essendo la trama dell’azienda statunitense, costituita da coppie di
lettere “G” contrapposte o invertite, né raffigurante quadratini e mancando
la prova da parte di Gucci dell’asserito illecito contraffattivo e della
rinomanza dei marchi azionati.
Secondo la convenuta, il proprio tessuto sarebbe differente da quello di
Gucci, in quanto Guess avrebbe utilizzato la singola lettera “G” con una
grafia diversa da quella di parte attrice, con delle losanghe agli angoli e
collegata alle altre con cinque trattini; la trama di Gucci era, invece, costituita
da due lettere “G” contrapposte e invertite, con delle losanghe vuote agli
angoli e collegate tra loro da due quadratini.
Inoltre, tutti i prodotti dell’azienda statunitense erano contrassegnati in
modo evidente dalla denominazione “Guess”.
In ultima istanza, la convenuta negava l’ipotesi di condotta illecita e
parassitaria, evidenziata da Gucci, relativamente all’imitazione della
collezione “Guccissima”, in particolare, dei colori beige e marrone scuro e
dei cuoricini per le trame azionate.
L’azienda statunitense ribadiva, inoltre, l’impossibilità di detenzione, da
parte dell’attrice, del diritto in esclusiva su elementi grafici o colori apposti
sui propri prodotti, in quanto, nel settore della moda, i trend seguiti dalle
maison, in un dato momento, sono, in generale, gli stessi; in aggiunta, Gucci
non avrebbe sollevato la questione in relazione a simili condotte intraprese
da altre maison di moda, posta, appunto, la presenza di somiglianze tra i
prodotti derivante dalle tendenze del momento.
La casa di moda fiorentina rammentava la notorietà della lettera “G”, nelle
diverse raffigurazioni, come segno distintivo della maison di moda italiana
e
l’utilizzo
dei
segni
azionati
anteriormente
96
rispetto
all’azienda
statunitense337; infatti, nonostante il tessuto di Guess fosse stato depositato
dalla stessa nel 2005 e quelli di Gucci solo 2007, la maison americana
avrebbe, comunque, violato dei diritti antecedenti relativi a ulteriori segni di
titolarità di Gucci.
Parte attrice affermava, inoltre, la rinomanza e la capacità distintiva dei
propri
marchi,
ritenendo
inutile
considerare
l’eventuale
funzione
ornamentale del segno.
Per quel che riguarda, in particolare, le due lettere “G” contrapposte e
invertite Gucci faceva appello alle decisioni in cui si era ribadita la notorietà
del pattern nel mondo e per tale motivo, la domanda della controparte di
decadenza per non uso sarebbe infondata.
L’imitazione dell’ombreggiatura, dei colori, del metodo di lavorazione della
pelle, in riferimento alle trame qui azionate da Gucci, rimarcano, a detta
dell’attrice, la condotta illecita costantemente contraffattoria e parassitaria
attuata da Guess.
Parte attrice contestava, anche, la contraffazione del celebre marchio
raffigurante il nastro "verde-rosso-verde"338 (fig. 8), utilizzato dalla stessa
già a partire dagli anni ’50.
In particolare, l’illecito sarebbe stato posto in atto in virtù della vendita nel
nostro paese, mediante l’intermediario Zappos, di due modelli di sneakers
caratterizzate dalle strisce "verde-rosso-verde", pedissequa imitazione di
quelle di Gucci; trattandosi di marchio rinomato, la fattispecie integrata
sarebbe quella prevista dall'art. 20, co. 1, lett. a), b) ed anche lett. c), c.p.i.
ed all'art. 9, co. 1, RMC.
Guess si giustificava affermando di non aver mai commercializzato prodotti
riproducenti il marchio celebre di Gucci; chiedeva, inoltre, che tale segno
fosse dichiarato nullo in quanto privo di capacità distintiva, posta l’ampia
diffusione delle strisce di suddetti colori nel settore della moda, e conferente
valore sostanziale al prodotto.
Replicava l’attrice che il marchio azionato era costituito da una determinata
sequenza di colori e non, genericamente, da righe tout court: infatti, solo in
337
In particolare Gucci utilizzava i tessuti logati con la lettera “G” singola nelle diverse stillizazioni dagli anni ’60-’70 e
dagli anni ’50 relativamente alle “G” contrapposte, infine, usava il motivo geometrico cc.dd. “diamond” a lonsanghe
dagli anni ’30.
338
Marchio italiano n. 414406, depositato nel 1985 e rinnovato; marchio comunitario n. 160028, depositato nel 1996.
97
quest’ultima ipotesi il marchio potrebbe essere considerato debole o privo
di capacità distintiva.
Ancora, posta la forza del segno e l’evocazione del suddetto della tradizione
e dello stile della maison italiana, parte attrice contestava alla convenuta
l’osservazione secondo cui tale disegno conferirebbe valore sostanziale al
prodotto.
Gucci affermava, infine, la contraffazione del suo marchio figurativo 339
costituito da una stampa floreale chiamata “Flora” (fig. 9). Tale stampa, che
era stata ideata nel 1996 appositamente per la principessa Grace Kelly di
Monaco, rappresentava una nota icona della maison di moda fiorentina e,
in
riferimento
alla
sua
riproduzione
su
due
modelli
di
scarpe
commercializzate e vendute in Italia, l’attrice riteneva che la convenuta
avesse integrato l’illecito di cui all’art. 20, co. 1, lett. a), b) e c) c.p.i..
Parte convenuta sosteneva di non aver mai venduto e pubblicizzato il
prodotto menzionato in Italia, ma solo negli Stati Uniti. A tal punto, Gucci
riteneva corretto dover valutare tale condotta in modo complessivo sotto il
profilo della concorrenza sleale e, per questo motivo, produceva in giudizio
degli articoli reperiti nel web che accusavano Guess di voler imitare il
suddetto modello di scarpe da Gucci, dimostrando come queste fossero
state pubblicizzate in Italia.
L’azienda statunitense sosteneva l’impossibilità di dimostrare la vendita del
medesimo prodotto in Italia, affermando, inoltre, che il marchio fosse da
ritenersi nullo, in quanto privo di capacità distintiva, posto l’utilizzo diffuso di
tessuti floreali nel settore della moda. Ribadiva, poi, di avvalersi di un motivo
simili a quello azionato già dal 1997 e la mancanza di prove in merito ad un
effettivo utilizzo del marchio da parte di Gucci nel periodo tra gli anni ’80 e
il 2005 340 , sostenendo che tale segno fosse rimasto inutilizzato per
vent’anni.
Infine, secondo parte convenuta, Gucci non avrebbe dovuto godere del
diritto di esclusiva sulla stampa floreale, se non nel suo insieme, in quanto,
in caso contrario, si sarebbe accordato all’azienda italiana il diritto esclusivo
di utilizzo su ogni tipologia di fiore rappresentato nella medesima.
339
Marchio italiano n. 971291, depositato il 25 maggio 2005; marchio comunitario n. 446273, depositato il 23 maggio
2005 e marchio comunitario n. 5172218 depositato nel 2006.
340
Il documento presentato, datato 1996, riportava un foulard della collezione del 1966.
98
Gucci, al riguardo, contestava il fatto che la stampa preusata da Guess
fosse diversa da quella azionata e la domanda di nullità del segno, in quanto
il medesimo, nonostante potesse esser utilizzato anche con funzione
ornamentale, era dotato di capacità distintiva.
Posta l’asserita contraffazione dei marchi di Gucci da parte di Guess,
l’attrice contestava anche la costante e pedissequa imitazione dei suoi
prodotti dimostrando la sistematicità della condotta illecita dell’azienda
statunitense, nonché la breve distanza temporale tra la produzione e
commercializzazione di un nuovo prodotto di Gucci ed uno ritenuto simile di
Guess.
Secondo parte attrice, tale condotta è da ritenersi illecita ai sensi dell’art.
2598, nn. 1, 2, 3 c.c., in quanto, oltre a contraffare dei segni distintivi e
prodotti di Gucci, Guess si sarebbe anche appropriata di fama e notorietà
della maison italiana, insinuando nei consumatori un rischio di confusione
tra i marchi e prodotti delle due aziende; inoltre, data la sistematicità e la
costanza dell’imitazione di iniziative, marchi e prodotti, si sarebbe verificata
anche l’ipotesi di concorrenza parassitaria. Tra i prodotti imitati da Guess si
annoveravano una cintura, e relativa fibbia, borse, scarpe e gioielli quali
orologi, anelli e collane; oltre al fatto che diversi prodotti già simili a quelli
della maison italiana erano, anche, realizzati con una trama a “G” analoga
nei colori, beige per lo sfondo e marrone scuro per le lettere, a quella di
Gucci (fig. 11).
Parte attrice affermava, poi, la pedissequa imitazione di un morsetto, che
l’azienda italiana utilizzava fin dagli anni ’50, dichiarato marchio celebre dal
Tribunale di Milano, con sentenza del 2 novembre 2011, benché la
violazione non fosse azionabile nel presente giudizio, in quanto, sarebbe
avvenuta posteriormente.
Guess, al contrario, affermava che taluni dei propri prodotti, oltre che diversi
da quelli di parte attrice, erano stati realizzati antecedentemente rispetto a
quelli di quest’ultima e che alcuni dei modelli che la maison italiana riteneva
fossero copia dei propri erano, in realtà, ampiamente generalizzati nel
settore della moda, quale ad esempio la borsa “a bauletto”, il modello
“Hobo” o le ballerine.
99
Inoltre, in relazione ai due modelli di scarpe azionati, Guess sosteneva di
non averli mai commercializzati e venduti in Italia, neanche per mezzo di
Zappos, a differenza di quanto sostenuto da parte attrice.
A dimostrazione dell’anteriorità dei prodotti Guess rispetto a quelli di Gucci,
la prima confrontava la data di pubblicazione dei cataloghi della maison
italiana con quella della commercializzazione dei propri prodotti,
considerando che, di norma, l’ideazione del prodotto avviene circa un anno
prima rispetto alla sua messa in commercio.
L’azienda italiana sosteneva, al contrario, la priorità temporale dei propri
prodotti, posto che il momento della commercializzazione degli stessi era
successivo almeno di un anno rispetto a quello dell’ideazione e
presentazione al pubblico nelle sfilate e nelle campagne pubblicitarie di
Gucci; aggiungendo, inoltre, come talune delle date di immissione in
commercio dei prodotti Gucci fossero state indicate tardivamente da parte
di Guess.
Parte attrice contestava, da ultimo, l’osservazione della convenuta
relativamente al fatto per cui Gucci, essendosi accorta dell’asserita condotta
illecita da parte di Guess, avrebbe, comunque, atteso alcuni anni prima di
agire in giudizio; oltre alle numerose domande riconvenzionali poste, in
sede processuale, dalla maison americana.
Infine, con riferimento alle domande di concorrenza sleale da parte di Gucci,
sia Guess che Zappos ritenevano vi fosse, in via pregiudiziale, carenza di
interesse ad agire e difetto di legittimazione attiva in capo alla maison
italiana, in quanto quest’ultima era titolare dei segni distintivi ma non più
operativa sul mercato della distribuzione dei prodotti contrassegnate dai
suddetti marchi.
2. Le decisioni del Tribunale di Milano
Il Tribunale di Milano, chiamato ad esprimersi in merito alle domande di
Guess e Gucci, rileva quanto segue.
Anzitutto, in ordine al difetto di legittimazione attiva ed interesse ad agire
sollevato da Guess, il collegio riteneva che, nonostante la maison italiana
100
non fosse più operativa nella distribuzione dei propri prodotti, affidata a
Luxury Goods Italia spa, i consumatori, in ogni caso, tendessero a collegare
i medesimi a Gucci e al suo “universo” in genere, e che, pertanto, una
condotta sleale da parte della convenuta riversasse i suoi effetti su tutte le
società del gruppo, recando pregiudizio al pregio e all’esclusiva dei segni,
nonché al suo successo commerciale.
Tali osservazioni valevano, nello specifico, per la società del gruppo che
presentava la stessa denominazione dei marchi utilizzati sul mercato,
ovvero Guccio Gucci spa.
Era quest’ultima, infatti, che gestiva la creazione dei prodotti, il marketing,
la pubblicità e, in generale, l’immagine della maison italiana nel mondo, oltre
a tutti i marchi, le privative di proprietà industriale del gruppo e i marchi di
fatto.
In considerazione di suddette attività, si poteva confermare l’esistenza di un
rapporto di concorrenza tra Guccio Gucci spa e le convenute, Guess e
Zappos, benché le aziende operassero ad un livello diverso della catena
produttiva e distributiva.
A fronte di siffatte motivazioni, il Tribunale dichiarava la sussistenza, in capo
a Guccio Gucci spa, della legittimazione attiva, della titolarità dell’azione e
dell’interesse ad agire con il fine di promuovere l’azione di concorrenza
sleale e parassitaria nei confronti delle convenute.
In merito all’eccezione sollevata dall’azienda Zappos, secondo la quale il
Tribunale adito sarebbe privo di giurisdizione in quanto l’attività dell’azienda
non si sarebbe realizzata nel nostro paese, il Collegio rigettava
l’osservazione proposta.
In particolare, il Tribunale riteneva che la lingua inglese utilizzata dal sito
non potesse costituire elemento di limitazione dell’attività ai soli consumatori
anglofoni, non rappresentando l’inglese un ostacolo per i giovani o il
pubblico in genere, sempre più abituato all’utilizzo di tale lingua, come di
taglie e di prezzi americani, soprattutto per quel che riguardava gli acquisti
online.
Le modalità di vendita descritte nell’analisi dei fatti, secondo il Collegio,
consentivano di affermare che Zappos vendesse anche in Italia, seppur in
ipotesi circoscritte. La società era, infatti, consapevole dell’ubicazione
101
dell’acquirente consentendo all’immissione dei propri prodotti nel territorio
italiano e, per di più, nel relativo sito internet era ben indicata la volontà di
rivolgersi anche “international customers”, non limitandosi, dunque, ai clienti
statunitensi o canadesi.
Veniva altresì respinta l’eccezione di Zappos secondo la quale la propria
condotta sarebbe stata lecita in quanto, con l’acquisto del prodotto da parte
di Gucci stessa, si presupponeva che la maison italiana approvasse la
commercializzazione del bene.
Quindi, dato che Zappos aveva venduto dei prodotti contraffatti a clienti
internazionali, nello specifico italiani, sussisteva un rapporto effettivo di
concorrenza tra l’azienda e Gucci.
La destinazione del bene, confermata anche dall’indicazione di taglie
europee sulle scatole dei modelli di sneakers, giustificava la giurisdizione
del Tribunale nazionale, non influenzata, invece, come già rilevato,
dall’eccezionalità della vendita, particolare rilevante solo nel risarcimento
del danno.
2.1 Contraffazione di marchi
Nel corso del presente paragrafo vengono prese in considerazione le
decisioni del Tribunale in merito alle domande di contraffazione di marchi
sollevate da Gucci e da Luxury Goods nei confronti della convenuta, le quali
decisioni consentono di valutare ogni singola responsabilità e l’asserita
condotta parassitaria di Guess.
Per quel che riguarda la scritta Guess in corsivo con sottolineatura, il rilievo
di Gucci in merito alla contraffazione del proprio marchio da parte di Guess
era stato giudicato infondato.
La convenuta, infatti, aveva dimostrato l’utilizzo del marchio sin dall’anno
1982, ovvero antecedentemente rispetto al deposito di Gucci avvenuto nel
1996.
Per converso, il Tribunale non aveva accolto nemmeno la domanda di
nullità del marchio per mancanza dei requisiti, né quella di decadenza del
segno per perdita della capacità distintiva, opposte da Guess, in quanto non
102
opportunamente supportate nei fatti alla luce delle prove offerte da parte
attrice.
Detto marchio, dotato di rinomanza e notorietà, era stato utilizzato
ininterrottamente da Gucci sin dagli anni ’40-’50, sia all’interno di borse che
al loro esterno, dunque, lo stesso risultava essere protetto dalla speciale
tutela dei marchi celebri.
In base alla documentazione tratta dall’archivio storico di Gucci, si poteva
affermare che Gucci vantasse una priorità d'uso sul segno e che il
medesimo avesse acquisito rinomanza negli anni, essendo stato utilizzato
in modo continuativo nel tempo, cosicché non possa concludersi con
un’opinione favorevole in merito all’asserita decadenza del marchio.
In merito alla richiesta di contraffazione di Gucci, il Tribunale riteneva essere
rilevante la diversità, per suono e per una visione d’insieme, a colpo
d’occhio, delle denominazioni che compongono il marchio.
In particolare, il Collegio sosteneva la differenza nei caratteri e nello
spessore delle varie lettere, oltre alla diversità della lettera iniziale: inclinata
e arrotondata quella di Guess, più rigida e dritta quella di Gucci.
Inoltre, essendo l’impresa statunitense sul mercato dagli anni ’70, non era
possibile evidenziare una voluta analogia nella denominazione delle due
maison, posto, peraltro, che Gucci non aveva mai mosso obiezioni in merito
e che la scelta del nome “Guess” faceva riferimento al verbo inglese
indovinare come evidenziato dal punto interrogativo posto accanto alla
denominazione: punto interrogativo facente tutt’oggi parte della regione
sociale dell’azienda americana.
Anche la sottolineatura escludeva ogni sospetto di contraffazione, in
quanto, la linea tra i due marchi era differente: da sinistra a destra nel
marchio Guess, a completamento dell’occhiello della lettera “G”; da destra
a sinistra nel segno di Gucci a conclusione della lettera “i” finale. La
sottolineatura era, inoltre, molto utilizzata nel settore dei segni distintivi con
l’effetto di rimarcare il nome, tantoché il gesto di sottolineare significa
appunto “apporre una linea sotto” con il tentativo di mettere in evidenza,
valorizzare il nome.
Ancora, il Tribunale ribadiva come la rinomanza dei due marchi fosse tale
da escludere il rischio di confusione tra i consumatori; in particolare, la
103
rinomanza internazionale di Guess sarebbe stata documentata dal
materiale pubblicitario e dalle riviste di settore, nonché affermata dalla
stessa parte attrice.
Il rischio di confondibilità tra i due segni era stato valutato dal Collegio in
concreto, considerando le modalità e l’ambito in cui i marchi erano utilizzati,
oltre all’attitudine dei segni a distinguere i prodotti contraddistinti in relazione
alla fonte dalla quale provengono, nonché alla notorietà dei segni distintivi
sul mercato nazionale e internazionale (notorietà che deve essere tale da
escludere il collegamento con l’attività del concorrente da parte dei
consumatori).
Nel caso in esame, infatti, oltre alle particolarità che differenziavano i due
marchi, la stessa notorietà di cui godevano i suddetti segni sul mercato
contribuiva ad escludere un eventuale rischio di associazione; ancora il
consumatore si dimostrava attento e avveduto non trattandosi di prodotti a
“buon mercato”.
La giurisprudenza ha spesso rilevato come nel settore moda l’acquirente
medio presti particolare attenzione allo stile, alla qualità, al prezzo e alla
rifinitura del prodotto prima di procedere con l’acquisto, in particolar modo
ove “si tratti di prodotti di lusso o particolarmente costosi, il pubblico di
riferimento si dimostrerà ancor più attento nei loro confronti" (Trib. CE, 29
settembre 2009, causa T-139/08).
Inoltre, nell’acquisto di prodotti di abbigliamento vi è una grande attenzione
all’immagine nonché una propensione all’apprezzamento delle diversità.
Il consumatore, dunque, si era dimostrato in grado di rilevare le differenze
tra i prodotti e segni distintivi delle due maison, propendendo per l’una o per
l’altra in base al look che prediligeva: in particolare, propendeva per Guess
nel caso di preferenza di un look giovanile glamour e trendy, laddove,
invece, preferiva un aspetto “di classe”, elitario e signorile optava per Gucci.
Tali differenze erano evocate anche dal materiale pubblicitario delle due
maison di moda: Gucci infatti presentava nelle proprie pubblicazioni
celebrative attrici famose e principesse, rimandando ad un’idea di élite,
mentre Guess modelle con un’immagine glamour e fashion.
Il Tribunale sottolineava, inoltre, che in tutti i prodotti della convenuta era
ben evidente la denominazione “Guess”, altro elemento che escludeva ogni
104
possibile confusione (anche relativamente alla post-sale confusion)
essendo il marchio “generale” dotato di una forza scriminate, considerata la
sua notorietà nazionale e internazionale.
Allo stesso modo, quanto al rischio di associazione non sembrava
ipotizzabile che il consumatore si ingannasse circa la sussistenza di un
legame economico tra le due aziende.
Alla luce di siffatte osservazioni, il Tribunale escludeva la contraffazione in
merito al marchio in corsivo in esame.
Analoghe considerazioni valgono anche per il segno costituito dalla lettera
“G” in corsivo.
In merito alla domanda di nullità del marchio costituito da una singola lettera
dell’alfabeto (la prima lettera della denominazione “Gucci”, di cui si è detto
sopra) proposta dalla convenuta, il Tribunale confermava la sua valida
registrazione in quanto l’oggetto del segno in questione non era tanto la
singola lettera, quanto la sua particolare grafia; ribadiva, inoltre, che il segno
di Gucci era dotato di distintività in ragione dell’ampia diffusione nel
mercato, nonché protratta nel tempo e geograficamente vasta, tanto del
marchio costituito dalla singola lettera “G”, quanto del marchio Gucci in
corsivo dotato della stessa grafia. Tale marchio era, inoltre, da ritenersi
valido in virtù della spontanea associazione da parte dei consumatori tra la
singola lettera “G” e il brand Gucci esteso che utilizza il medesimo carattere
e la stessa lettera iniziale.
Le variazioni al marchio apportate nel tempo da Gucci erano da ritenersi
legate allo “svecchiamento” del segno e, in ogni caso, sono state ritenute
dal Collegio percepibili solo mediante un raffronto diretto, ponendosi il
grafismo del segno in questione in continuità con quello antecedente.
In conclusione, nonostante l’ampia diffusione dell’utilizzo di suddetta lettera
tra le maison di moda e la generale debolezza dei segni costituiti da una
singola lettera dell’alfabeto, la tipografia del suddetto marchio è da ritenersi
sufficientemente distintiva, essendo percepibili dal consumatore le
differenze con altri marchi simili.
Considerando la lettera “G” utilizzata da Guess, il Tribunale evidenziava la
differenza con quella di Gucci anche nel carattere tipografico: “la lettera è
diversa nell’avvio del tratto superiore (più arrotondata e chiusa la “G” di
105
Gucci rispetto a quella di Guess); il tratto di Guess è meno differenziato in
ordine allo spessore della linea (che varia nella G di Gucci fra sottile e
spessa, rimarcando l’effetto chiaro-scuro), essendo la linea di Guess nel
complesso più spessa e più uniforme; la linea di Guess infine reca in tutto il
suo percorso una doppia bordatura in colore scuro, totalmente assente nella
“G” di Gucci”341.
Il marchio di Guess, inoltre, presentava una corona d’alloro con una nastro
nella parte inferiore corredata dalla denominazione “Guess”; oltre a tali
differenze grafiche, l’impresa statunitense utilizzava su molteplici prodotti il
suddetto segno da prima del 2008, con ampia diffusione, sia dei prodotti sia
del marchio medesimo, fin dal 2002.
Per tali ragioni il Collegio escludeva la contraffazione da parte di Guess,
ritenendo, tuttavia, valido il marchio in questione.
Osservazioni analoghe valgono per la denominazione “Guess” in
stampatello maiuscolo dorato tridimensionale ritenuta analoga a quella di
Gucci.
Il Tribunale aveva, in tal caso, ritenuto valida la considerazione di Guess:
secondo quest’ultima, infatti, Gucci avrebbe modificato nel tempo la scritta
per grafia e colori, tutte varianti differenti del segno contestato alla maison
americana.
Inoltre, risultava che Guess utilizzasse il logo azionato su pubblicità,
cataloghi e come insegna fin dal 2004.
Oltre a ciò, il Collegio sosteneva che Gucci non potesse monopolizzare il
carattere stampatello maiuscolo o il colore dorato per le lettere, oltretutto
differenti da quelle di Guess per carattere tipografico, dimensione e
proporzioni.
Anche l’effetto tridimensionale, oltre ad essere carattere abbastanza
comune, è diverso tra i due segni distintivi: Gucci utilizzava, infatti, una
banale ombreggiatura mentre Guess tratti più netti, chiaro-scuro e punti luce
molto evidenti.
Il Tribunale, dunque, concludeva escludendo un possibile rischio di
confondibilità tra i due segni, anche in virtù della notorietà dei due marchi,
nonché delle particolari caratteristiche del target di consumatori.
341
Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., 2013.
106
Relativamente al marchio costituito da due lettere “G” contrapposte e
invertite, corredato da quadratini ai quattro angoli, del quale Guess
chiedeva la decadenza per non uso e la nullità, il Tribunale rigettava
quest’ultima, in quanto non fondata: infatti, benché non vi fossero
effettivamente delle prove circa l’utilizzo del marchio corredato dai
quadratini da parte dell’attrice, il segno distintivo costituito esclusivamente
dalle due “G” contrapposte ed invertite, cuore del suddetto segno, era stato
individuato come caratterizzante la storia della maison fiorentina da diversi
decenni. I quadratini posti agli angoli risultavano, infatti, solo un elemento
ornamentale, di contorno rispetto alle due lettere “G” contrapposte,
apparendo con ciò, dunque, marginale il fatto che Gucci non avesse
utilizzato il segno corredato da quadratini ma solo quello composto dalle
due “G” contrapposte e invertite.
In ogni caso, la contraffazione era stata, anche in tal caso, esclusa, non
potendo affermarsi alcuna imitazione da parte di Guess del segno, in quanto
nessuno dei marchi contestati e utilizzati dall’azienda americana, come
emblemi distintivi o riprodotti nelle proprie trame, riproduceva le
caratteristiche del segno da ultimo richiamato.
Il tessuto di Guess che riproduce quattro lettere “G” centrali intrecciate
corredate da rombi composti da cinque piccoli segmenti era, infatti, stato
considerato del tutto differente da quello composto da due “G” contrapposte
e invertite di Gucci.
Il Collegio, poi, avanzava forti dubbi in merito all’effettivo utilizzo da parte di
Gucci della singola “G” squadrata, ritenuto marchio debole anche dalla
Corte americana, e affermava che esso non potesse ricevere protezione,
così come pure il segno costituito dalla singola lettera "G", anche se ripetuta
in una trama che la integra all'interno di un rombo delineato da pallini.
La tutela era stata esclusa trattandosi di una banale “G” squadrata di forma
quadrata in carattere maiuscolo non dotata di particolare grafia e
caratterizzazione, essendo, peraltro, la lettera singola (“G”) diffusa sul
mercato come marchio di celebri case di moda.
Nel giudizio in questione, il giudice italiano richiamava altresì la sentenza
americana, la quale riconosceva lo sviluppo della “G” squadrata da parte di
Guess “nella sua denominazione sin dagli anni ’80” e lo sviluppo del disegno
107
nel 1995, nonché la messa in commercio “per la prima volta nel 1996, se
non prima"342. La District Court, inoltre, affermava che "Gucci non aveva
dimostrato che i consumatori effettivamente riconoscessero la “G”
squadrata come segno distintivo di Gucci”343, concludendo che il marchio
non godesse di notorietà quando Guess aveva iniziato ad utilizzare il segno
nel 1996 e ritenendolo un segno debole.
Al contrario, il giudice italiano escludeva, innanzitutto, la debolezza del
segno distintivo; inoltre, ai fini del giudizio di concorrenza parassitaria e
imitazione servile, evidenziava piuttosto il fatto che Guess avesse provato
l’utilizzo del marchio dagli anni 1996/1997 e successivamente per 3 anni a
partire dal 2000 e l’uso da parte dell’azienda americana di una “G” con
forma rettangolare anziché quadrata, come rivendicato, invece, da Gucci.
A fronte di tali osservazioni, il Tribunale escludeva il diritto di esclusiva di
Gucci su tale segno, oltre alla contraffazione e all’imitazione servile da parte
di Guess.
Le “G” squadrate erano, inoltre, riprodotte in serie nel marchio italiano n.
876581 del 26 luglio 2002344.
In relazione alle ragioni avanzate da Guess, in merito alla nullità del marchio
in questione, in quanto costituito da un disegno che attribuiva valore
sostanziale al prodotto, il giudice riteneva che il "pattern" in oggetto
conferisse valore sostanziale al prodotto ma che tale valenza estetica non
fosse tale da qualificarsi come fattore determinante nella scelta d’acquisto
dei consumatori345.
Il segno sembrava, infatti, costituire elemento determinante per l’acquisto in
relazione alla sua forza distintiva, di richiamo della produzione della maison
di moda italiana e della rispettiva brand image.
Veniva al riguardo richiamato, dal Collegio l’orientamento giurisprudenziale
secondo il quale il c.d. valore sostanziale della forma, seppur gradevole
342
Southern District Court of New York, “Gucci America Inc. v. Guess? Inc.”, 21 maggio 2012, reperibile in
www.abovethelaw.com, 2012.
343
Southern District Court of New York, “Gucci America Inc. v. Guess? Inc.”, 21 maggio 2012, reperibile in
www.abovethelaw.com, 2012.
344
La corrispondente domanda di registrazione del marchio comunitario n. 2782548, depositata il 18.7.2002, è stata,
invece, rigettata dall’UAMI.
345
v. Trib Milano, 24 aprile 2008, per il quale “Il grado di apprezzamento dell'estetica di una forma che impedisce la
registrazione della medesima come marchio (…) richiede che la forma appaia idonea per il suo valore meramente
estetico ad incidere in maniera determinante sull'apprezzamento del consumatore tanto da costituire in sé la
motivazione dell'acquisto del prodotto”.
108
sotto il profilo estetico, non ostacola la registrazione di un marchio di forma
nel quale prevalga la funzione di richiamo della provenienza del prodotto da
una determinata impresa; funzione, come noto, prevalente del marchio.
Dunque, a differenza del logo con la singola lettera “G” squadrata isolata,
per tale pattern il Tribunale affermava la sussistenza della capacità distintiva
e la prevalenza di quest’ultima funzione su quella estetica; pertanto, oltre
ad essere esclusa la decadenza per non uso, il marchio era stato ritenuto
valido nonostante le molteplici trame nel settore della moda raffiguranti le
lettere “G” nelle diverse configurazioni.
Per quel che riguarda l’illecito di contraffazione, imitazione servile e
concorrenza parassitaria, deve concludersi, alla luce dei rilievi tribunalizi,
che la trama costituita dalle “G” squadrate utilizzata da Guess sia del tutto
differente da quella di Gucci, giacché il disegno dell’azienda americana
riproduceva “G” squadrate ma allungate, disposte in modo casuale, con
tratto non uniforme e pieno come quello di Gucci. Per tali motivazioni, nel
complesso, il pattern di Guess si differenziava da quello della maison
italiana e, dunque, il Collegio escludeva qualsiasi atto di contraffazione e
imitazioni servile.
Relativamente al logo composto dalla ripetizione seriale di cinque coppie di
lettere “G” contrapposte ed invertite, collegate da puntini, il Tribunale
sosteneva la validità di tale marchio, per le stesse ragioni considerate nel
caso delle due “G” contrapposte ed invertite ed il pattern a “G” squadrate,
di cui si è detto precedentemente.
Essendo le “G” contrapposte ed invertite il cuore del segno distintivo in
questione, era innegabile la sua particolare caratterizzazione e il richiamo
alla maison di moda italiana.
Anche in tal caso il marchio utilizzato da Guess si differenziava da quello
Gucci ed il Tribunale, dunque, escludeva l’illecito contraffattivo.
Quanto alla singola lettera “G” corredata da pallini e il relativo pattern, il
giudice riteneva detti segni nulli in quanto la lettera “G” non era corredata
da particolare grafia, né da alcun elemento decorativo, posto che
l’apposizione dei pallini appariva banale e non caratterizzante.
Era stata esclusa anche l’acquisizione di capacità distintiva conferita grazie
all’uso del segno, in quanto tale utilizzo “non era stato dimostrato in causa
109
in termini di intensità e frequenza tali da indurre il pubblico ad identificare
nell'uso di un simile segno in modo univoco la provenienza dalla società
attrice”346.
Lo stesso può dirsi per la trama composta dalle singole “G”: non era, infatti,
stata ritenuta sufficiente la ripetizione seriale di un elemento di per sé privo
di caratterizzazione per conferire validità al marchio, senza considerare il
fatto che nel settore della moda l’utilizzo della losanga riportante le iniziali
delle maison era ampiamente diffuso.
Nonostante l’invalidità del segno da ultimi richiamato, occorreva, tuttavia,
valutare la sussistenza della condotta illecita da parte della convenuta.
A tal fine il Collegio rilevava, innanzitutto, il fatto che l’azienda americana
riportasse la denominazione “Guess” in ogni proprio prodotto, oltre alla
diversità di grafie delle singole lettere “G” riportate sulla trama: a tratto
spesso, contrapposte ed invertite e poste agli angoli delle losanghe vuote
collegate tra loro da due quadratini quelle di Gucci; una singola lettera “G”
a tratto sottile e con carattere tipografico differente, disposta agli angoli delle
losanghe, congiunte tra loro da 5 trattini e con al centro un particolare motivo
grafico, quella di Guess.
Per tali differenze di grafia e per il fatto che le losanghe apparissero vuote
nel disegno di Gucci e riempite dall’intreccio di “G” in quello di Guess,
l’impressione generale dei due disegni era differente.
In particolare, confrontando a distanza le due trame ciò che rimaneva
impresso erano le due lettere “G” invertite nel disegno di Gucci, mentre
spiccava, quale elemento decorativo autonomo, l’intreccio centrale delle
quattro “G” in quello di Guess.
In linea con tali considerazioni, il Tribunale escludeva l’illecito contraffattorio
e l’imitazione servile in ordine al suddetto segno distintivo, atteso che il
disegno di Guess non aveva nulla a che vedere con quello di Gucci, tenendo
conto anche del vasto panorama di tessuti delle maison di moda riportanti
la lettera “G”.
La maison italiana denunciava, inoltre, la contraffazione del nastro in
tessuto costituito da tre strisce, due verdi e una rossa centrale più spessa.
346
Trib. Milano, 2 maggio 2013, in Dir. giust., 2013.
110
Secondo parte convenuta, essendo il segno costituito da colori comuni e
privo di alcuna capacità distintiva, nonché conferente valore sostanziale al
prodotto, doveva essere considerato nullo come marchio; motivo cui doveva
aggiungersi quello secondo cui Gucci nella registrazione non aveva indicato
nemmeno i codici Pantone internazionali.
Il Tribunale, tuttavia, dichiarava valido il marchio, in quanto dotato di
un’indiscutibile forza distintiva e idoneità ad identificare il prodotto quale
proveniente da una determinata impresa.
Nel merito, il giudice riteneva poi corretto escludere la contraffazione posto
che Guess risultava estranea alla diffusione delle scarpe recanti il suddetto
marchio nel mercato italiano: ne è prova che Gucci avesse reperito con
difficoltà, tramite l’intermediario Zappos, i due modelli di scarpe in
questione.
Erano stati, inoltre, esclusi gli illeciti di contraffazione, imitazione servile e
concorrenza sleale in riferimento a prodotti rappresentati nei cataloghi
Guess recanti nastri marrone-rosso-marrone o altri colori, posto che non era
proteggibile la semplice idea d’utilizzo di nastri caratterizzati da differenti
alternanze di colore.
Ancora, Gucci lamentava la contraffazione del tessuto florale “Flora” 347
riprodotto su alcuni prodotti Guess.
A tal proposito, il giudice affermava che i prodotti riproducenti il marchio in
questione sarebbero comparsi su un blog di un soggetto terzo escludendo,
così, sia la possibilità di risalire alla fonte di reperimento della calzatura e
della notizia, sia la presunta diffusione nel mercato italiano dei prodotti
contraddistinti dal suddetto segno, come, invece, sostenuto da Gucci.
Indipendente dalle osservazioni riportate da parte convenuta, il Collegio
dichiarava nullo il disegno in questione, in quanto privo dei requisiti richiesti
per la registrazione dei marchi di forma, ai sensi dell’art. 9 c.p.i..
In particolare, il segno distintivo costituito da un tessuto floreale ricercato ed
esteticamente gradevole non poteva essere considerato valido come
marchio, giacché nello stesso era ravvisabile un elemento estetico
preponderante, se non esclusivo e, in ogni caso, tale da determinare la
347
Marchio italiano n. 971291, depositato il 25/05/2005; marchio comunitario n. 4462735, depositato il 23/05/2005 e
marchio comunitario n. 5172218, depositato il 16/06/2006.
111
scelta d’acquisto del consumatore, in virtù della sua funzione ornamentale,
non in quanto indice della provenienza da una determinata impresa. Per tali
motivi, Gucci aveva, infatti, registrato il marchio anche come modello.
Il Tribunale, in merito, evidenziava una carenza di capacità distintiva ed una
rilevanza estetica tale da poter registrare la suddetta forma come modello,
la cui tutela non era cumulabile con quella del marchio.
In relazione alla convalida del marchio in forza dell’uso protratto nel tempo
e diffuso che ne era stato fatto (si parla in tal caso del fenomeno della
secondarizzazione o “secondary meaning”) invocata da Gucci, il Tribunale
richiamava l’art. 3 della Direttiva del Consiglio del 21 dicembre 1988
(Direttiva 89/104/CEE), secondo la quale un segno escluso dalla
registrazione come marchio ai sensi di detto articolo, n. 1, lett. e)348 non può
mai acquisire un carattere distintivo per l’uso che ne è stato fatto in base
all’art. 3, n. 3, in quanto per l’ipotesi riportata alla lett. e) è esclusa dalla
possibilità di convalidazione successiva.
Disposizioni analoghe sono contenute anche nell’art. 7, n. 1, del
Regolamento CE n. 207/09 del 26 febbraio 2009.
Quindi, secondo il Collegio, la nullità del marchio permaneva nonostante la
notorietà raggiunta sul mercato dal segno distintivo in esame.
Infine, in riferimento alla pelle c.d. “logata”, il Tribunale sosteneva che la
tecnica di impressione della pelle indicata da Gucci come propria fosse in
realtà una lavorazione e scelta decorativa diffusa da diversi anni sul
mercato.
La diversità dei loghi, inoltre, caratterizzava la pelle in modo difforme
escludendo una possibile imitazione da parte di Guess.
A fronte di tali osservazioni, il Collegio dichiarava infondato l’addebito
dell’illecito concorrenziale a Guess, sostenendo che l’impresa americana si
sarebbe ispirata ad una tendenza diffusa sul mercato piuttosto che a Gucci.
2.2. Imitazione servile
348
L’articolo in questione esclude la registrazione delle forme imposte dalla natura stessa del prodotto, dalle forme
del prodotto necessarie per ottenere un risultato tecnico e dalle forme che danno un valore sostanziale al prodotto.
112
Oltre alla contraffazione dei propri segni distintivi, Gucci lamentava anche
atti di concorrenza sleale da parte di Guess, in particolare sotto il profilo
dell’imitazione servile con riferimento alla riproduzione dei prodotti
contrassegnati dal pattern composto dalle due lettere “G” contrapposte, già
giudicato non confondibile con quello di Gucci.
Occorreva, tuttavia, valutare, per ogni prodotto su cui parte attrice
contestava l’illecito, la confondibilità in concreto tra gli elementi di cui si
compone il prodotto, oltre al disegno del tessuto su cui, appunto, è stata
esclusa ogni confondibilità.
Posto il comune utilizzo di tessuti recanti le iniziali da parte delle maison di
moda, delle losanghe e dei colori marrone-beige sui tessuti “canvas”, il
Tribunale escludeva l’illecito concorrenziale in merito ai canvas di suddetti
colori, considerando, anche, la diversità dei marchi posti sui tessuti delle
due aziende e la banalità della combinazione cromatica, tale da non
renderla associabile all’impresa italiana nella mente del consumatore,
tenendo presente, anche, che detta combinazione è molto diffusa nel
settore moda.
In merito alle cinture, Gucci contestava l’imitazione da parte di Guess dei
quattro modelli di seguito elencati.
In particolare, parte attrice denunciava la pedissequa imitazione della
cintura con fibbia a “G” squadrate, esclusa dal Tribunale per le seguenti
motivazioni.
Analizzando i due prodotti, nello specifico, si rilevavano talune differenze,
loro peculiarità, tali da escludere un possibile rischio di confusione. Nello
specifico, la cintura di Guess era da donna, colorata e marchiata con lettere
“G”; mentre quella di Gucci era una cintura in pelle nera, da uomo, elegante.
Confrontando le fibbie si rilevava che quella di parte convenuta riportava la
denominazione “Guess” quale elemento decorativo della medesima fibbia;
inoltre, con riguardo ai rapporti dimensionali dei singoli elementi costitutivi,
pur recando entrambe la “G” squadrata, la fibbia di “Gucci” appariva più
regolare mentre quella di “Guess” più “fantasiosa” e caratterizzata. A tali
motivazioni, si aggiungeva l’utilizzo generalizzato delle lettere “G” squadrate
da parte delle maison di moda (il riferimento è alle cinture di Givenchy,
Gherardini, Galitzine, Gazzarrini).
113
Con riguardo alla cintura con fibbia circolare in bamboo, veniva accolta
l’eccezione di Guess in merito alla mancata commercializzazione del
prodotto in Italia. Inoltre, il modello in questione era particolarmente diffuso
nel settore sia per quel che concerneva la forma che per la tipologia della
chiusura, nonché per i materiali: era stato dimostrato, infatti, che l’utilizzo
del bamboo o di materiali con un simile aspetto era presente nel mercato
fin dagli anni ’50.
Ancora, Gucci contestava l’illecito con riguardo ad una cintura di Guess con
fibbia a placca che ricordava lo stile “militare”.
In tal caso, il Collegio evidenziava la differenza tra i tessuti delle due griffe,
oltre alla diversità delle fibbie stesse: una, quella di Gucci, era “liscia” mentre
l’altra, quella di Guess, presentava borchie piramidali e un fregio al centro.
Infine, parte attrice contestava l’imitazione della cintura recante i marchi
denominativi delle due imprese in corsivo.
Anche in tal caso le differenze erano ben individuabili: la fibbia di Guess
presentava una scritta in corsivo con cristalli “Swarovski”, mentre quella
dell’azienda italiana era una fibbia liscia con la denominazione “Gucci” in
corsivo; inoltre, posto che entrambe le fibbie riportavano le denominazioni
“Guess” o “Gucci”, la tipografia, gli elementi decorativi e la sottolineatura
erano differenti.
In tal senso, nel complesso la fibbia della società americana aveva un
aspetto più grintoso ed aggressivo, mentre quella di Gucci appariva più
raffinata e semplice e tale diversità, a detta del Tribunale, escludeva ogni
possibile rischio di confusione per il consumatore.
Brevemente, per quel che riguarda i portafogli, il Collegio respingeva la
confondibilità poste le differenze sostanziali di inserti, tagli e dimensioni, tali
da non poter neppure essere raffrontati tra loro, oltre al fatto di presentare
forme note sul mercato; così come parimenti nota era la pelle logata.
Secondo parte attrice, l’illecito concorrenziale riguardava anche alcuni
modelli di borse, tra i quali il cc.dd. modello “Hobo”, in riferimento ad un
sacco detto “hobos” che i senza tetto portavano sulle spalle. Le peculiarità
di
tale
prodotto,
commercializzato
da
Guess
sin
dal
1999
e
antecedentemente rispetto a Gucci, erano la forma a goccia o mezzaluna,
ampia e con un manico modellato da poter portare a spalla.
114
Oltre alle osservazioni sulla distingubilità dei due tessuti, valide anche in tal
caso, vi erano delle differenze, sottolineate anche dalla difesa di Guess, che
consentivano di distinguere i modelli delle due griffe: forma a trapezio,
squadrata con manici rigidi, profili in pelle, manico e fettucce con ganci a
contrasto per il modello Gucci; forma più arrotondata, manico morbido e
pendaglio con moschettone a forma di cuore per Guess. Ad una visione
d’insieme, ancora una volta, la borsa di Guess appare più “giovane” e
glamour, quella di Gucci più elegante e classica.
Dinanzi a suddette peculiarità, il consumatore dotato di un determinato
grado di attenzione non potrebbe, dunque, confonderei due modelli e
nemmeno potrebbe affermarsi che Guess imitasse Gucci, in quanto
entrambe le maison si ispiravano ai trend e alla scelte artistiche del settore
nei diversi momenti storici, interpretando i gusti del target di clientela cui si
rivolgevano.
A fronte di tali considerazioni, il Tribunale escludeva l’ipotesi di concorrenza
parassitaria ai danni di Gucci.
Lo stesso può dirsi per il modello cc.dd. “bauletto”, molto diffuso tra le
maison di moda e commercializzato da Guess sin dal 1994.
Anche in tal caso, come nei precedenti, valevano le considerazione fatti
relativamente alla diversità dei tessuti; a ciò si aggiungevano differenze
estetiche notevoli, tali da escludere la confondibilità e la concorrenza
parassitaria.
In particolare, il bauletto di Guess aveva una forma schiacciata, la tracolla,
manici cuciti con doppio riquadro sui lati, pendaglio a forma di cuore ed
ulteriori elementi decorativi metallici, con fodera interna stampata
raffigurante cuori e la denominazione “Guess”; mentre la borsa di Gucci era
caratterizzata da una forma più regolare, da manici piccoli e lisci con anelli.
Per tutti gli altri modelli contesti da Gucci (il borsello da uomo, la borsa in
pelle e la borsa c.d. “a cartella”), il Tribunale rilevava analoghe riflessioni in
merito alle soluzioni estetiche differenti adottate delle case di moda,
trattandosi, oltretutto, di scelte stilistiche molto diffuse nel settore, tali da
escludere un eventuale rischio di confusione tra i modelli anche ad un
raffronto a distanza, nonché l’ipotesi di concorrenza parassitaria asserita da
115
parte attrice. Taluni dei prodotti citati, peraltro, non erano nemmeno
commercializzati in Italia.
Per quel che riguarda le scarpe, Gucci evidenziava la pedissequa
imitazione delle calzature recanti il nastro verde-rosso da parte della maison
statunitense. Il Collegio, tuttavia, accoglieva le contestazioni mosse da
Guess affermando che il modello di scarpe in questione non era
effettivamente stato commercializzato in Italia, posto che Gucci per
acquistare suddette scarpe era dovuta ricorrere all’acquisto via internet
senza alcuna responsabilità da parte della maison americana.
Le calzature commercializzate da Guess in Italia, invece, riportavano il
nastro rosso-marrone ritenuto non confondibile con quello verde-rosso di
Gucci anche dal giudice americano.
Ancora, per l’acquisto alle cc.dd. “sneakers” Gucci si era dovuta rivolgere
allo shop online del distributore statunitense Zappos: si rilevava, in tal caso,
che effettivamente l’intermediario non consentiva consegne al di fuori degli
Stati Uniti, oltre al fatto che il costo delle spese di spedizione era molto
elevato, equivalente a circa la metà del prezzo del prodotto.
Il Tribunale ha, inoltre, giudicato differenti per tessuto, profili e accessori il
modello cc.dd. “decolleté” e quello “Chanel” delle due griffe, trattandosi,
peraltro, di modelli piuttosto diffusi tra le case di moda.
Per quel che riguarda il mocassino si evidenziava, anzitutto, come il modello
fosse distribuito da tutte le maison di moda (si menzionava, in particolare, il
celebre mocassino TOD’S) sin dalla sua origine risalente agli anni ’30,
quando l’azienda americana GH Bass lanciò il cc.dd. “Penny loafer”, con la
caratteristica “mascherina” a forma di labbra.
In particolare, i due mocassini in questione si differenziavano per cuciture,
tacco, mascherina e per la striscia blu-rosso-blu presente sulla scarpa di
Gucci ma non su quella di Guess.
Risultavano, poi, evidenti le diversità tra le due ballerine: l’una, quella di
Gucci, a punta chiusa, l’altra, quella di Guess, a punta aperta, con profili a
contrasto rispetto al colore di sfondo e una placca recante il marchio
denominativo “Guess”.
L’unico elemento in comune tra i due prodotti era la riproduzione di alcuni
cuori sul tessuto, particolare, tra l’altro, molto diffuso nel settore; tuttavia,
116
anche in tal caso, si denotavano delle differenze: i cuoricini di Guess erano
posti su uno sfondo di un colore simile, avevano tratto uniforme ed erano
accompagnati dal motivo grafico tipico di Guess composto dalle “G”
incrociate all’interno delle losanghe; quelli di Gucci, invece, erano di colore
verde-rosso-verde ed erano posti agli angoli delle losanghe alternati alle “G”
contrapposte ed invertite.
Il Collegio, sulla scorta dei fatti emersi e accertati da parte dal giudice
americano, rilevava, inoltre, che l’utilizzo del motivo da parte di Guess era,
comunque, antecedente a quello di Gucci, escludendo l’illecito asserito.
Gucci contestava, ancora, l’imitazione degli stivali in montone con suola “a
zeppa”. Relativamente a suddetto prodotto, nell’escludere l’imitazione da
parte di Guess, il Collegio denotava talune differenze tra i due modelli e il
fatto che le caratteristiche della calzatura costituissero il trend della stagione
nella quale sia Gucci che Guess avevano prodotto lo stivale.
A supporto della propria decisione, il giudice richiamava altresì il fatto che
mancasse, agli atti, sia la prova della commercializzazione che della
produzione di detto prodotto da parte di Gucci, tantoché la messa in
commercio della calzatura potrebbe essere stata contestuale a quella di
Guess e delle altre maison.
Per quel che concerne i sandali a tessuto floreale di Guess, il giudice
confermava il rilievo di quest’ultima affermando che questi non erano
effettivamente mai stati commercializzati in Italia. Inoltre, raffrontando tra di
loro i sandali delle due aziende si notavano delle differenze significative e
sufficienti per l’esclusione dell’illecito in un settore nel quale le peculiarità
dei prodotti sono marginali, posto che, come già affermato più volte, tutte le
maison si ispiravano al trend del momento.
Infine, quanto ai prodotti di gioielleria di Guess, ritenuti da parte attrice come
pedissequa imitazione dei propri, in via sommaria, si può affermare che il
giudice escludeva l’illecito per le rilevanti differenze sotto il profilo estetico
dei prodotti delle due griffe.
Nel dettaglio, l’anello di Guess contestato da parte attrice non era
commercializzato in Italia, recava la classica “montatura a giorno” diffusa e
molto utilizzata nel settore della gioielleria, nonché “griffe” di grandi
dimensioni erano collocate ai quattro angoli, anche questa peculiarità molto
117
comune nel settore (si menzionavano, a titolo esemplificativo, gli anelli di
Cartier e Pomellato). Considerando, inoltre, le linee dell’anello e delle
“griffe” nel loro complesso, si evidenziavano delle differenze tra il modello
di Guess e quello di Gucci.
Le catenine, prodotte da entrambe le aziende nella stagione 2002 si
differenziavano per il rispettivo marchio denominativo in corsivo apposto in
maniera ben evidente, oltre che per la maglia della catena, la grafia del logo
e la chiusura. Il modello in questione, peraltro, si ispirava ad un girocollo
molto diffuso nel settore, ove era comune l’utilizzo della catenina con al
centro il proprio nome o una diversa espressione (ispirazione tratta da un
noto film americano).
Anche gli orologi delle due griffe erano diversi per quadrante, cassa e
cinturino; a fronte di tali considerazioni era stata esclusa ogni possibile
similitudine tra i due anche quanto ai prodotti di gioielleria.
2.3 Concorrenza parassitaria
Relativamente all’addebito di concorrenza parassitaria ai danni di Gucci, si
richiamavano
il
noto
caso
Motta/Almegna
349
e
altre
massime
giurisprudenziali ribadendo che la sommatoria di atti leciti potrebbe dare
luogo, se valutata nel complesso, ad un illecito sotto il profilo della
concorrenza parassitaria.
Inoltre, pur non sussistendo l’imitazione dei singoli prodotti altrui, fattispecie
verificatasi nel caso in questione, era possibile che si verificasse, da parte
di un imprenditore, la conformazione alle scelte commerciali altrui con lo
scopo di trarne indebito vantaggio, fattispecie illecita ai sensi dell’art. 2598,
n. 3, c.p.i..
Il Collegio, valutata l’ipotesi discussa nel suo insieme, affermava che non
può dirsi che le linee stilistiche di Guess siano ispirate e conformate a quelle
di Gucci, ma bensì che le due aziende si siano allineate alle tendenze
stilistiche presenti in un determinato momento storico, restando, in ogni
caso, fedeli alle proprie peculiarità.
349
Ivi citato, v. pag. 78.
118
Oltre alla contraffazione e all’imitazione servile, escludeva, quindi, anche la
concorrenza parassitaria asserita da Gucci.
3. Conclusioni del Tribunale di Milano
In sintesi, il Tribunale rigettava tutte le domande mosse da parte attrice nei
confronti di Guess e di Zappos.com.
In merito alle domande formulate, in via riconvenzionale, da Guess il
Collegio accoglieva la richiesta di nullità dei seguenti marchi: il marchio
italiano n. 1057601, depositato il 4 luglio 2007, registrato il 27 agosto 2007
e marchio internazionale n. 940491 del 27 agosto 2007, esteso alla
Comunità Europea; il marchio italiano n. 1057600, depositato il 4 luglio 2007
e registrato il 27 agosto 2007 e marchio internazionale n. 940490 del 27
agosto 2007, esteso alla Comunità Europea; infine, il marchio italiano n.
971291, depositato il 25 maggio 2005, registrato il 6 luglio 2005, marchio
comunitario n. 4462735, depositato il 23 maggio 2005, registrato il 5 maggio
2006 e marchio comunitario n. 5172218, depositato il 16 giugno 2006,
registrato il 4 febbraio 2008.
Rigettava, infine, tutte le altre domande riconvenzionali di parte convenuta
e dichiarava la compensazione delle spese processuali tra le parti in causa.
Alla luce di tali decisioni, Gucci presentava appello contro la sentenza del
Tribunale di Milano chiedendo la riforma della medesima e l’accoglimento
delle domande poste in primo grado in forza dell’erronea esclusione
dell’illecito di contraffazione, l’erronea dichiarazione di nullità di tre marchi
dell’azienda italiana, l’erronea esclusione della concorrenza sleale, sotto il
profilo dell’imitazione servile, dell’agganciamento e della concorrenza
parassitaria e, infine, l’erroneità dell’esclusione di Zappos da ogni
responsabilità. Di seguito, le decisioni della Corte d’Appello in merito.
4. Le decisioni della Corte d’Appello
119
Come richiesto dall’impresa italiana la Corte d’Appello era chiamata a
formulare un proprio giudizio in merito alla nullità dei segni distintivi, alla
contraffazione dei marchi, all’illecita condotta concorrenziale di Guess ed,
infine, alla responsabilità di Zappos.
Proseguendo con ordine, Gucci chiedeva la revoca delle decisioni prese dal
Tribunale in merito alla nullità di tre dei propri segni distintivi.
Relativamente ai marchi costituiti dalla lettera “G” con due pallini ai quattro
angoli, singola e inserita nella trama a losanghe, e del tessuto floreale
“Flora”, la Corte ne confermava la nullità per carenza di capacità distintiva,
evidenziando, peraltro, la carenza della giurisdizione italiana con riguardo
ai marchi internazionali nn. 940491 e 940490.
Nello specifico, quanto ai segni composti dalla lettera la "G" maiuscola con
due pallini ai quattro angoli, si evidenziava la particolare diffusione presso
le maison di moda di marchi raffiguranti la lettera “G”, nonché la banalità
degli elementi decorativi e dello stile grafico, non particolarmente
caratterizzanti per il segno in questione.
A differenza del marchio di Gucci composto da “G” contrapposte e invertite
che rimandava immediatamente, nelle percezione del consumatore,
all’azienda italiana, il segno qui in questione, essendo costituito da una
singola lettera dell’alfabeto inserita all’interno di una trama a losanghe
composta da pallini, non era distinguibile ed era privo di capacità distintiva.
Quanto al marchio "Flora", la Corte affermava che il segno non era tutelabile
quale marchio, in quanto l'elemento caratterizzante di tale trama era quello
meramente ornamentale, nonché comune a qualsiasi raffigurazione
floreale. Anche il tal caso, si ribadiva la nullità del marchio in questione.
Quanto al diritto all’uso esclusivo del marchio, anche la Corte d’Appello
provvedeva ad esaminare ciascuno dei marchi richiamati da parte attrice,
escludendo tuttavia quelli dichiarati nulli, ove il problema relativo alla
contraffazione non si poneva.
Anzitutto, la Corte valutava l’illecito con riguardo al segno distintivo
composto dalla “trama di G” 350 nelle molteplici combinazioni di colori,
impressa nella pelle e in diversi tessuti.
350
Marchi nazionali nn. 1474470 - rinnovo della registrazione n. 947057 -, 1057600, 1057601, 1474814 - rinnovo della
registrazione n. 876580 e marchi comunitari nn. 122093, 940490, 940491, 2751535.
120
In particolare, in merito ai segni composti dalla lettera "G" con due pallini ai
quattro angoli, sia per la variante con lettera singola al centro che per quella
dove le lettere “G” erano inserite in una trama a losanghe, la Corte, posto
che si trattava di marchi nulli, escludeva la condotta contraffattoria da parte
di Guess.
La contraffazione veniva, ugualmente, esclusa in relazione ai marchi
composti dalla lettere “G” invertite e contrapposte, considerando anche in
tal caso sia la versione singola che quella ove le lettere erano inserite
all’interno di una trama romboidale, in quanto sussistevano delle diversità
dal punto di vista grafico tra i marchi delle due griffe che, ad un raffronto
complessivo, ne escludevano la confondibilità. In particolare, la trama di
Guess presentava quattro lettere “G” incrociate tra di loro e poste al centro
della losanga, mentre il disegno di Gucci due lettere “G” riflesse e invertite
collocate agli angoli del rombo.
Relativamente alle calzature recanti il nastro verde-rosso-verde, la Corte
d’Appello condivideva le decisioni del Tribunale ritenendo l’azienda
statunitense estranea a responsabilità in merito alla commercializzazione in
Italia del modello di scarpe in questione, avendo Gucci, peraltro, dimostrato
solo la possibilità d’acquisto tramite uno shop online, ma non la diffusione
della calzatura, in Italia presso punti vendita.
La Corte, poi, escludeva la confondibilità, dunque la contraffazione, in
relazione all’utilizzo da parte di Guess della striscia marrone-rosso-marrone
sui propri prodotti, in quanto l’alternanza di colori è totalmente differente da
quella di Gucci.
Quanto alla scritta dei rispettivi marchi denominativi in corsivo con
sottolineatura, posto che era necessaria una valutazione globale dei due
segni distintivi che esulasse dalle rispettive peculiarità grafiche idonee a
differenziare i due segni, si riteneva, anche in tal caso, di dover escludere
l’illecito contraffattivo in virtù del rimando delle espressioni “Guess” e
“Gucci” a due maison di moda ben distinte.
Per quel che riguarda la lettera “G” in corsivo, come nel precedente caso in
analisi, era necessario un giudizio di confondibilità unitario e sintetico non
limitato all’analisi dei singoli dettagli idonei a differenziare i segni.
121
A fronte di tali osservazioni, la Corte riteneva dover escludere la
contraffazione posto che sotto la lettera “G” in corsivo era ben evidente la
denominazione
“Guess”
che
eliminava
ogni
possibile
rischio
di
confondibilità presso i consumatori in ordine alla riconduzione del segno
distintivo all’impresa americana.
Si respingeva, inoltre, l’addebito di contraffazione del marchio composto da
una serie di “G” squadrate contrassegnanti una borsa di Gucci giacché la
somiglianza tra quest’ultimo e il segno di Guess era minima: nel marchio
dell’azienda statunitense le lettere erano, infatti, separate da un elemento
decorativo e non poste in serie come nel marchio di Gucci.
Con riguardo al tessuto Flora, ribadita la nullità di tale segno, il problema
relativo alla contraffazione non sussisteva.
Al contrario, in merito all’illecito di concorrenza sleale imputato a Guess, la
Corte d’Appello affermava che, valutando nel complesso il comportamento
imprenditoriale messo in atto da Guess, appariva con evidenza la costante
volontà imitativa delle iniziative di Gucci, dispiegata in atti considerati leciti,
se presi singolarmente, ma che integravano una violazione dei principi di
correttezza professionale nella loro reiterazione nel tempo; pur ribadendo,
ancora una volta, l’esclusione della confondibilità dei segni utilizzati da
Guess nelle pratiche messe in atto.
Raffrontando i prodotti delle due case di moda (borse, scarpe, cinture e
gioielli), la Corte evidenziava un richiamo da parte di Guess alle forme,
materiali, tonalità, elementi decorativi e delle scelte stiliste in genere di
Gucci, posto che l’azienda americana lanciava prodotti simili a quelli della
maison italiana a breve distanza di tempo dalla presentazione delle
collezioni di quest’ultima.
“Quindi, indipendentemente dal profilo della confondibilità dei prodotti tra le
imprese concorrenti, restava il dato che l'iniziativa di Guess, attuata con una
pluralità di atti, appariva, in molti casi, improntata al sistematico e massiccio
sfruttamento dell'iniziativa e della creatività altrui. In tale senso, a giudizio di
tale Corte, Guess era responsabile della condotta parassitaria prevista
dall'art. 2598.n. 3, c.c.”351.
351
Corte d’Appello, 15 settembre 2014, n. 6095, reperibile in www.marchiebrevettiweb.it.
122
Nella valutazione della risarcibilità del danno da concorrenza sleale,
occorreva considerare anzitutto l’elemento colposo della condotta illecita,
nonché il danno recato, in concreto, dal comportamento tenuto da Guess.
L’elemento soggettivo, ovvero l’intenzionalità dell’imitazione da parte di
Guess, emergeva in modo chiaro dalle prove raccolte e riportate nella
sentenza USA, elemento utilizzato dalla Corte nelle proprie valutazioni.
Con riguardo ai danni procurati dalla condotta parassitaria tenuta da Guess,
la Corte evidenziava la sussistenza di uno sviamento di clientela; nello
specifico, infatti, l’impresa americana commercializzava prodotti che
richiamavano quelli di parte attrice ad un prezzo inferiore rispetto, appunto,
agli “originali”. A prova della dannosità procurata, si rapportavano le opinioni
lasciate dai consumatori sul web.
In virtù delle osservazioni ivi riportate, la Corte d’Appello, riformando la
sentenza del Tribunale di Milano, affermava l’addebito dell’illecito
concorrenziale, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c., in capo a Guess, nonché il
diritto di Gucci ad ottenere un risarcimento in relazione al danno subito.
L’importo di tale risarcimento è rimesso alla determinazione, in separata
ordinanza, di apposita consulenza tecnica d’ufficio.
In merito alla posizione di Zappos, la Corte rilevava l’effettiva possibilità di
acquisto dall’Italia, purché con modalità non conformi all’abituale
procedimento di acquisto online previsto dal sito, dei prodotti in vendita
sull’e-commerce della citata azienda americana, azionati da Gucci in quanto
considerati contraffazione dei propri, ai sensi dell’art. 20, co. 2, c.p.i..
Tale addebito di condotta contraffattiva in capo a Zappos era stato, invece,
escluso dalla Corte, con riferimento alle motivazione riportate in ordine ai
singoli segni imputati.
Si escludeva anche la condanna di Zappos a titolo di concorrenza sleale,
posta l’immissione nel mercato italiano di prodotti simili a quelli di Gucci in
maniera isolata e quantitativamente poco significante.
Concludendo, la Corte d’Appello riformava la sentenza del Tribunale
dichiarando Guess responsabile di atti di concorrenza sleale ai danni di
Gucci, ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. e la condannava al risarcimento del
danno procurato, da quantificarsi in separata ordinanza; confermava,
invece, negli altri punti, la sentenza del giudice di primo grado.
123
Appendice
Fig. 1: Marchio comunitario n. 121947.
Fig. 2: Marchio italiano, n. 1330236 e comunitario, n. 6682728.
Fig. 3: Confronto tra il marchio di Gucci e quello di Guess.
Fig. 4: Marchio italiano n. 1057601 e comunitario n. 940491.
Fig. 5: Marchio italiano n. 1057600 e comunitario n. 940490.
Fig. 6: Marchio italiano n. 947057 e comunitario n. 122093.
Fig. 7: Marchio italiano n. 876580 e comunitario n. 2751535.
Fig. 8: Marchio italiano n. 414406 e comunitario n. 160028.
Fig. 9: Marchio italiano n. 971291, comunitario n. 4462735 e comunitario n.
5172218.
Fig. 10: Marchio italiano n. 876581.
Fig. 11: Confronto tra modelli di Gucci e Guess.
124
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Ringraziamenti
Con questo lavoro volge al termine il mio percorso di studi universitari e con
esso un periodo importante e significativo del mio processo di crescita
formativa e di vita.
Desidero cogliere questa occasione per ringraziare innanzitutto la mia
relatrice Alessandra Zanardo: a lei va la mia più sentita riconoscenza per
l’importante sostegno dimostratomi nella stesura dell’elaborato finale.
Le sue indicazioni e il suo supporto morale si sono rivelati determinanti
durante tutto il corso di svolgimento del periodo di tesi e per la sua riuscita.
Un ringraziamento particolare va, poi, ai miei genitori e a mia sorella Giulia
per il supporto non solo economico, ma soprattutto morale: un enorme
grazie per avermi incoraggiato di fronte alle difficoltà e per aver condiviso
ogni mia scelta. Spero e credo di non aver deluso le loro aspettative e che
siano fieri di questo mio percorso.
Ringrazio anche i nonni Giovanni, Angelina, Pietro e Silvia perché con il loro
esempio di vita mi hanno insegnato che non si ottiene nulla senza qualche
sacrificio, voglio dedicare questo mio importante traguardo un po’ anche a
loro.
Un ringraziamento agli amici di sempre Sara, Cristina, Filippo S., Marco I.,
Francesca, Marco V., Filippo B., Giacomo, Leonardo che mi sono vicini
ormai da 10 anni e con i quali ho condiviso i momenti più esilaranti del mio
percorso di vita.
Un ringraziamento va’ anche agli amici di AC che con me condividono una
delle attività che più mi gratificano.
Infine, voglio ringraziare tutti i professori che ho avuto modo d’incontrare nel
mio percorso universitario e che mi hanno permesso di costruire il mio
bagaglio di conoscenze, con l’augurio che questo traguardo sia solo un
punto di partenza per un futuro ricco di aspettative.
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