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Negare il carcere. Per una ripresa del metodo

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Negare il carcere. Per una ripresa del metodo
From the SelectedWorks of Marco Solinas
2016
Negare il carcere. Per una ripresa del metodoBasaglia, in "Il Ponte. Rivista di politica economia
e cultura fondata da Piero Calamandrei", LXXII,
n. 2 (2016), pp. 45-51.
Marco Solinas
Available at: http://works.bepress.com/marco_solinas/62/
Negare il carcere.
Per una ripresa del metodo-Basaglia
La distruzione delle carceri «è un fatto urgentemente necessario, se non
semplicemente ovvio»; cosí vorrei parafrasare la convinzione espressa da
Franco Basaglia in una relazione del 1964 intitolata emblematicamente
La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione. I manicomi vennero poi effettivamente distrutti, le carceri ancora
debbono esserlo. Tra i molti vincoli rinvenibili tra quanto realizzato in
un campo e quanto ancora c’è da fare nell’altro, si può anzitutto considerare il comune fallimento delle finalità parzialmente convergenti poste
in origine nelle due istituzioni in gioco. A partire all’incirca dalla fine
del secolo dei Lumi, e poi attraverso reiterate e pressoché ininterrotte
riforme, si tentò infatti di conferire a carceri e manicomi una funzione
positiva, e non meramente custodialistica e repressiva: curare, rieducare,
correggere e riabilitare folli e criminali, senza nondimeno rinunciare
al compito di renderli inoffensivi. Semplificando ulteriormente, l’idea
guida fu, ed è ancora, quella per cui, fatti salvi i casi considerati incurabili e incorreggibili, anziché limitarsi a espellere dal corpo sociale e/o
a punire piú o meno duramente, si debba giungere al finale reintegro
di rei e alienati nel consesso civile. Riforme, se si vuole finanche rivoluzioni animate perlopiú da nobili intenti, ma destinate a generare fin
da subito una doppia serie, parzialmente sovrapponibile, di stringenti
e insolubili paradossi. Nel corso del Novecento si è difatti giunti a
riconoscere non soltanto l’assoluta inefficacia dei manicomi tradizionali, ma anche il fatto che tali istituzioni fossero in verità causa di gravi
malattie mentali. Da luogo di cura per eccellenza delle psicopatologie,
a istituzione mortifera e psicopatogena. Un fallimento storico radicale,
dunque – posto che i manicomi godono ancora in moltissimi paesi di
ottima salute. Certo, il riconoscimento del tradimento delle aspettative
originarie riposte negli ospedali psichiatrici può essere considerato (anacronisticamente) terribilmente tardivo, nonché gravemente incompleto
sul piano globale. Tuttavia, la situazione delle carceri è ben peggiore: si
continua a costruirne di nuove e piú grandi, un po’ come accadeva con
i manicomi nel XIX secolo.
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Si persevera, dunque, nonostante il carcere tradizionale abbia ormai
dimostrato di essere totalmente inefficace, sia per quanto concerne le
finalità costitutive di rieducazione e risocializzazione dei rei, sia rispetto
a quelle altrettanto fondamentali di prevenzione e di deterrenza. Un
fallimento attestato anzitutto dal tasso di recidiva, che attualmente in
Italia resta ben al di sopra del 70%. Come il manicomio risultava operare
in una direzione perfettamente contraria alle sue finalità costitutive,
aggravando cioè le malattie degli internati anziché curarle, cosí continua
ad accadere per il carcere: anziché fornire strumenti atti a contribuire
alla risocializzazione e al reintegro dei detenuti, il carcere si configura
perlopiú come una vera e propria scuola del crimine, concausa di una
dinamica di marginalizzazione sociale perlopiú irreversibile. Nel corso
del tempo si sono del resto moltiplicate le analisi che mostrano in
dettaglio i gravissimi aspetti deficitari, in verità criminali e criminogeni
del sistema carcerario tradizionale. Senza cercare di riassumerli, e senza
tentare di sviluppare un’analisi comparata tra le due istituzioni, porrò
sullo sfondo le loro analogie elementari, e darò per assodata la tesi del
fallimento del carcere. Potrò cosí concentrarmi sul metodo adottato
da Basaglia per negare l’istituzione manicomiale, per poi traslarlo al
dominio penitenziario.
Tralasciando il piano concernente lo specifico contesto socio-politico
inerente alle modalità storicamente praticate e a quelle oggi praticabili
di negazione delle due istituzioni in gioco, per molti aspetti assai diverso
o semplicemente incomparabile, focalizziamo allora l’attenzione sul
metodo teorico adottato da Basaglia. Un metodo che doveva anzitutto
tener conto di una situazione per molti versi analoga a quella odierna
quanto al rapporto tra il critico, l’oggetto istituzionale da negare, e
l’opinione pubblica. Esattamente come per i manicomi di allora, si
staglia infatti dinanzi a noi una istituzione totale plurisecolare e iperconsolidata che nonostante il suo ormai evidente fallimento si presenta
come inamovibile, indistruttibile, insostituibile: sembra esser divenuta
un elemento del paesaggio naturale dell’umana (in)civiltà, ed essersi
incastonata indelebilmente nell’immaginario collettivo globale. E cosí,
anche di fronte alle piú puntuali e persuasive critiche che ne mostrano
l’inumanità, l’inutilità, e persino la paradossale ma invero assodata pericolosità sociale, anche nei settori dell’opinione pubblica piú sensibile
si sente immediatamente risuonare la piú semplice e apparentemente
fatale delle obiezioni: anche se fosse giusto, se chiudessimo le carceri poi
non sapremmo però come e dove sistemare i rei socialmente pericolosi;
dunque non possiamo abolirle. Come se appunto il carcere avesse colonizzato ogni spazio dell’immaginazione giuridico-politica, oscurando
nel proprio cono d’ombra ogni possibile valida alternativa. Siamo cosí
posti di fronte a una obiezione che ricorda da vicino quella che un
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tempo veniva rivolta a Basaglia: anche se fosse giusto, se chiudessimo
i manicomi poi non sapremmo però come e dove sistemare i malati di
mente pericolosi a sé e agli altri; dunque non possiamo abolirli. Come
il carcere oggi, all’epoca il manicomio presidiava saldamente l’immaginario collettivo. Basaglia aveva però fin dall’inizio un’ottima risposta
a questa obiezione, potremmo formularla in questo modo: “di preciso
ancora non lo so, e in verità è meglio non saperlo; l’importante per ora
è procedere nella distruzione del manicomio”. Risposta che, in termini
piú rigorosi, rimanda al metodo dialettico adottato.
La negazione del manicomio, per Basaglia, non doveva seguire all’individuazione di un modello alternativo definito da porre quale obiettivo
ultimo; al contrario, lasciando indeterminata la meta finale positiva,
ci si doveva concentrare sulla distruzione dell’esistente, procedendo
in modo graduale fino al suo superamento. Le risposte concrete alla
nostra obiezione vennero pertanto fornite gradualmente, non prima
di iniziare la distruzione dei manicomi (posto che una volta chiusi, i
tempi amministrativi di attuazione delle strutture alternative si siano
rivelati lenti, e soprattutto le risorse finanziarie necessarie assai scarse).
Il metodo-Basaglia, cosí lo vorrei definire, si presenta pertanto come
eminentemente negativo e nel contempo dialettico. Negativo perché
si focalizzò in primo luogo sulla distruzione, ovvero sulla negazione
dell’istituzione in gioco, senza postulare in via preliminare un modello
alternativo positivo da raggiungere. Dialettico perché le forme generate
dalla negazione dell’istituzione tradizionale vennero a loro volta negate
via via che si presentavano, procedendo quindi attraverso negazioni di
negazioni, fino al completo superamento della forma originaria, e alla
sincronica creazione di nuove e talvolta inedite modalità di gestione
dei malati mentali. Si tratta pertanto di un metodo dialettico in senso
stretto, che attinse direttamente alla strumentazione filosofica di matrice hegeliana, e che potremmo considerare anche come una peculiare
forma di critica immanente. Una critica, cioè, che muove dall’interno,
facendo esplodere le contraddizioni immanenti all’istituzione in oggetto, per poi demolirla e corroderla materialmente gradualmente senza
porre, o meglio senza imporre, al processo in atto un rigido modello
precostituito esterno.
Negare l’istituzione. Il carcere (il manicomio) deve essere distrutto.
Si tratta di riconoscere il fallimento radicale dell’istituzione carceraria
(manicomiale), e procedere coerentemente alla sua totale distruzione,
senza farsi scoraggiare dalla forza dell’esistente e senza farsi imbrigliare
nella sua logica assurda. È precisamente quanto fecero Basaglia e Slavich
non appena approdati all’ospedale psichiatrico di Gorizia: «Abbiamo
iniziato un lavoro che potremmo dire al di fuori di ogni a priori scien47
tifico. Abbiamo cioè formulato un’ipotesi pratica: che un’istituzione del
genere non poteva esistere e abbiamo cominciato a lavorare» (Basaglia,
La nave che affonda). Assistiamo qui a un sorprendente e fecondo rovesciamento teorico: non è che l’istituzione in oggetto «non dovesse
esistere», piuttosto «non poteva esistere». L’abituale rapporto tra realtà
e possibilità, tra storia e istituzione, nella narrazione ricostruttiva di
Basaglia viene rovesciato (con una certa nonchalance): è l’istituzione
esistente che è talmente terrificante da non essere accettabile, da non
poter esistere e perciò deve’ssere distrutta.
Come Basaglia scrisse con encomiabile semplicità in un’altra occasione, muovendo stavolta da una prospettiva analitico-genealogica, si
trattava di muovere dal «rifiuto di una situazione proposta come un
dato, anziché come un prodotto» (Basaglia, Le istituzioni della violenza).
Allorché lo sguardo del critico riesce a preservare un grado minimo di
consapevolezza storico-politica e di purezza etico-morale, l’istituzione
gli si pone immediatamente davanti agli occhi come un qualcosa di
inaccettabile: lungi dall’essere naturalmente data, essa non può che
essere negata e distrutta con la massima urgenza. Il manicomio allora,
il carcere oggi.
Si avverte in tale approccio il portato di un rifiuto viscerale dell’istituzione manicomiale che lo stesso Basaglia ricondusse peraltro direttamente a una esperienza personale legata al carcere (quello di Santa Maria
Maggiore, a Venezia, dove venne incarcerato per circa cinque mesi):
«Quando sono entrato per la prima volta in un carcere ero studente di
medicina. Lottavo contro il fascismo e sono stato incarcerato. Mi ricordo
della situazione allucinante che mi sono trovato a vivere. Era l’ora in
cui venivano portati fuori i buglioli dalle varie celle. C’era un odore
terribile, un odore di morte. Mi ricordo di aver avuto la sensazione di
essere in una sala di anatomia mentre si dissezionano i cadaveri. Tredici
anni dopo la laurea sono diventato direttore di un manicomio e quando
vi sono entrato per la prima volta ho avuto quella stessa sensazione.
Non c’era odore di merda ma c’era un odore simbolico di merda. Ho
avuto la certezza che quella era un’istituzione completamente assurda,
che serviva solo allo psichiatra che ci lavorava per avere uno stipendio a
fine mese. A questa logica assurda, infame del manicomio noi abbiamo
detto no» (Basaglia, Conferenze brasiliane).
Assurdo era il manicomio, e non la volontà di distruggerlo, sebbene
all’epoca potesse sembrare vero il contrario, e di fatto lo sembrasse ai
piú; cosí come oggi, a ben vedere, è la logica carceraria a continuare
a dimostrarsi assurda, sebbene ai piú possa invece sembrare assurda la
proposta del suo superamento. Ed è precisamente in riferimento a questo
scarto che in una delle sue ultime conferenze, tenuta il 28 giugno del
1979, quando la legge 180 era stata ormai emanata, Basaglia rivendi48
cava cosí l’esito dell’operazione intrapresa: «Vede, la cosa importante
è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci,
quindici, venti anni fa era impossibile che un manicomio potesse essere
distrutto» (Basaglia, Conferenze brasiliane). Oggi siamo al punto zero
rispetto al carcere: sembra impossibile poter distruggere l’istituzione
carceraria; e tuttavia, non appena il critico cambia sguardo, essa mostra
subitaneamente di non poter continuare a esistere, e di poter pertanto
essere rifiutata e distrutta.
Negare le negazioni. La distruzione dell’istituzione carceraria (manicomiale) deve essere portata avanti attraverso negazioni reiterate,
ovvero negazioni di negazioni, fino al raggiungimento del pieno superamento della forma originaria e alla sincronica costruzione di un realtà
preliminarmente indeterminata. Non si deve pertanto perseguire un
modello positivo definitivo precostituito; al contrario, la crisi innescata
dall’iniziale rovesciamento deve divenire permanente: devono essere
negate anche le forme transitorie che l’istituzione assumerà passo dopo
passo nel corso dell’operazione di distruzione. Approccio che rimanda
direttamente alla prospettiva hegeliana, anzitutto nella valorizzazione
della dimensione dinamica del processo di negazione, piú precisamente
all’idea che si debba innescare un processo dialettico in senso stretto,
tale cioè da negare reiteratamente le forme di volta in volta generate
dal processo stesso di negazione. Si tratta di un metodo che tra le altre
cose scongiura il rischio di approdare a delle mere pseudo-soluzioni, e
permette nel contempo di ampliare gradualmente il quadro analitico e
d’intervento alla considerazione critica di una molteplicità seriale di elementi di vario ordine e grado che sorreggono l’esistenza dell’istituzione
in gioco, nella sua forma attuale o in vesti piú o meno gattopardesche.
E, piú in generale, di un metodo che contribuisce ad ampliare lo spettro
della critica: dai manicomi in senso stretto, alle molteplici forme e funzioni scientifiche, culturali, sociali e politiche della psichiatria moderna
nel suo complesso.
Nei termini limpidissimi adottati da Basaglia e dal suo gruppo (nel
1968): «Il passaggio da un ospedale psichiatrico tradizionale a forme
nuove di organizzazione e di assistenza può percorrere vie diverse: se il
punto di partenza è comune con poche varianti, il punto di arrivo, che
è quello della psichiatria di domani, non è ancora noto. Il punto di partenza comune è dato dal rifiuto dell’ospedale psichiatrico tradizionale.
L’ospedale psichiatrico tradizionale è stato studiato ormai a fondo, ma
solo oggi è finalmente noto nella sua vera struttura sociopsicologica.
Le strutture future sono invece ancora indeterminate. D’altro lato le
prospettive di rinnovamento stanno divenendo cosí radicali (anche in
taluni studi stranieri) da indurci a ritenere con fondate ragioni che gli
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stessi concetti di “assistenza psichiatrica”, di “struttura organizzativa” e
anche di “terapia” vadano rivisti e riformulati su basi totalmente nuove»
(Basaglia et al., Considerazioni su una esperienza comunitaria). Dunque:
rifiuto radicale, futuro indeterminato, ampliamento prospettico della
critica. Sono queste le ragioni che spiegano perché Basaglia, all’inizio
della sua opera, non soltanto non sapesse di preciso cosa costruire in
alternativa ai manicomi, ma ritenesse che fosse bene non saperlo.
Fu anche in virtú di questa sorta di sospensione del giudizio che
Basaglia rifiutò in modo categorico e sistematico ogni iniziativa volta
esclusivamente a migliorare o a perfezionare gli ospedali psichiatrici
tradizionali, che non mirasse cioè alla loro totale distruzione: «Il rinnovamento delle strutture psichiatriche non può che procedere per
continue crisi e autocritiche, ovvero per superamenti dialettici che
impediscano il cristallizzarsi delle successive proposte in nuove forme di
chiusura, in falsi rinnovamenti, in nuove istituzioni immobili, anche se
piú moderne, efficienti, “democratiche” “comunitarie”» (Basaglia et al.,
Considerazioni su una esperienza comunitaria). Come spiegò in un’altra
occasione adottando una terminologia meno spiccatamente hegeliana:
«la scelta del modello anglosassone della comunità terapeutica voleva
essere la scelta di un punto di riferimento generico, che potesse giustificare i primi passi di un’azione di negazione della realtà manicomiale»;
compiuti questi primi passi, però, si procedette: «Nei passi successivi, la
definizione di comunità terapeutica per la nostra istituzione, si è rivelata
ambigua perché poteva, come tuttora può, essere intesa come la proposta
di un modello risolutivo (il momento positivo di una negazione, che si
propone come definitivo) che, nella misura in cui è accettato e inglobato
nel sistema, viene a perdere la sua funzione contestante. Comunque,
seguendo passo passo le fasi evolutive di questo nostro rovesciamento
istituzionale, risulterà piú chiara la necessità di un continuo rompersi
delle linee d’azione che – inserite nel sistema – proprio per questo loro
inserimento devono venire a mano a mano negate e distrutte» (Basaglia,
Le istituzioni della violenza). Dunque, si continuò a negare le negazioni, a distruggere le forme transitorie via via (faticosamente) costruite,
attraverso continui superamenti dialettici.
Il metodo adottato contribuí pertanto a evitare il rischio che l’operazione intrapresa si arenasse nelle secche di soluzioni temporanee, inefficaci
o comunque non sufficientemente radicali. Un rischio, è bene sottolinearlo, particolarmente grave in relazione sia all’istituzione psichiatrica
tradizionale sia a quella carceraria. Si pensi per esempio alla piaga del
sovraffollamento, denunciato ininterrottamente su entrambi i fronti a
partire dalla loro fondazione moderna. Del resto abbiamo a che fare
con due istituzioni che a dispetto di innumerevoli e ormai plurisecolari
tentativi di riforma, talvolta piuttosto profondi, per una serie di ragioni
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non facilmente dominabili hanno mostrato e continuano a mostrare
una sorta di spiccata ritrosia a essere migliorate in modo significativo
e stabile. Il movimento è perlopiú inverso: dopo ogni riforma, le due
istituzioni sembrano come animate da una intrinseca tendenza, invero
accertabile storicamente, alla regressione, a ritornare cioè alla brutalità
delle loro peggiori forme originarie. Sostanzialmente irriformabili, patogene e criminogene di per sé: cosí sembrano in definitiva presentarsi
le istituzioni carcerarie e psichiatriche tradizionali. È anche tenendo
conto di questa sorta di diabolica propensione che il metodo-Basaglia
sembra essere il miglior candidato per affrontare la questione carcere.
Adottandolo, la distruzione del carcere potrà allora dispiegarsi attraverso
il susseguirsi di riforme graduali ma ininterrotte, si pensi per esempio
al modello delle colonie penali scandinave e naturalmente al ricorso
deciso a varie forme di pene alternative (oltre a lavorare, a monte,
sulla depenalizzazione di tutta una serie di reati, ecc.). Essenziale è però
che questi e/o altri modelli e strumenti vengano a configurarsi quali
tappe intermedie, quali fasi evolutive di un processo che, attraverso
continue crisi, deve appunto approdare al pieno superamento della
forma carceraria tradizionale, e alla costruzione sincronica di una forma
alternativa che è bene resti preliminarmente indeterminata; pena la sclerotizzazione del processo dialettico, quindi il naufragio dell’operazione.
L’applicazione del metodo-Basaglia all’istituzione penitenziaria sembra
inoltre promettente anche in relazione all’ampliamento prospettico
della critica. La negazione del carcere, come accadde con i manicomi,
non può non condurre, infatti, a un ripensamento di una molteplicità
di dispositivi giuridici, e piú in generale di forme e pratiche culturali,
sociali e politiche, che hanno generato e continuano a supportare le
istituzioni carcerarie con la correlata logica penale. Intanto, però, si
tratta di avviare con la massima urgenza il processo di distruzione delle
istituzioni carcerarie.
Marco Solinas
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