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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico

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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico
Essais
Filosofia.it © 2014
Niccolò Parise
Sulla relazione
Gennaro Sasso critico della «metafisica»
L’intento di questo articolo è mostrare come la critica rivolta da Gennaro
Sasso alla categoria che a suo modo di vedere caratterizza in modo peculiare la
maggior parte (per non dire l’interezza) del percorso della storia della filosofia – vale
a dire il concetto di «relazione» –, venga alla luce anche nella lettura nelle critiche da
lui mosse ad alcuni dei protagonisti di tale storia. Secondo Sasso la relazione è la
«categoria fondamentale della metafisica»1. Mia intenzione è rilevare come alcuni
punti, assolutamente decisivi, presenti all’interno della filosofia di Platone, Hegel e
Gentile2, vengano letti da Sasso proprio facendo perno sulle sue riflessioni teoretiche
riguardanti il concetto di relazione, e al suo modo, inoltre, di intendere la
«differenza». Ma prima che l’attenzione si concentri sulla «lettura» svolta da Sasso su
alcuni specifici problemi riguardanti gli autori appena citati, è opportuno rivolgere lo
sguardo a cosa nello specifico Sasso intenda per metafisica, e al motivo per cui la sua
attenzione è venuta a posarsi su questa «categoria fondamentale». È bene però fare
sin da subito una piccola, ma allo stesso tempo doverosa, premessa metodologica
riguardante il contenuto del presente studio. Nei tre paragrafi centrali di questo
lavoro, dedicati a Platone, Hegel e Gentile, si verranno a toccare alcuni problemi che
G. SASSO, Tempo, evento, divenire, Bologna 1996, p. 356.
Il motivo per cui ho deciso di prendere in considerazione questi tre pensatori a discapito di altri, pur
particolarmente presenti all’attenzione di Sasso, è molteplice. Per i due concetti che compaiono nel
titolo di questo contributo Platone rappresenta il filosofo nei cui confronti Sasso, forse meglio di
chiunque altro autore da lui studiato, rivolgendogli la propria critica a riguardo del legame tra idee e
cose, costruisce la propria, personalissima, «risposta» ai problemi che tramite i concetti di «relazione»
e «metafisica» non possono a suo giudizio trovare soluzione. Mi sembra inoltre che la critica di Sasso
rivolta al modo in cui all’interno della filosofia hegeliana la logica e la fenomenologia si intersechino,
si rapportino e si distinguano l’una dall’altra, sia emblematica proprio al fine di mostrare cosa Sasso
intenda per metafisica e come a suo modo di vedere sia impossibile, all’interno di questo quadro
concettuale, risolvere o delineare in modo coerente un rapporto tra «verità» ed «esperienza» volendo
insieme mantenerle distinte l’una dall’altra. Anche in Gentile, a proposito del modo in cui viene a
formarsi nel secondo volume del Sistema di logica il rapporto tra logica dell’astratto e logica del
concreto, è analizzato questo punto (seppur venga posto tramite un lessico e in un orizzonte
concettuale diverso da quello hegeliano), e i problemi che già in Platone e in Hegel si rivelavano di
difficilissima risoluzione, acquistano in Gentile tratti ancora più radicali.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
se dovessero essere svolti nella loro esaustività richiederebbero, a causa della loro
importanza e difficoltà, di essere messi al centro di un’indagine specifica che li
sviluppasse molto più ampiamente di come sono qui trattati. Non è quindi scopo di
questi paragrafi (che sarebbe ridicolo) ricercare una esaustività argomentativa a
proposito delle questioni che saranno di volta in volta al centro dell’indagine. Ciò su
cui si vuole concentrare l’attenzione, pur prendendo in esame alcune questioni
platoniche, hegeliane e gentiliane, è il modo in cui Sasso viene a discuterle e a
criticarle, connettendole mano a mano alla sua particolarissima riflessione teoretica,
il cui esplicito inizio è rappresentato dal volume del 1987 Essere e negazione3.
G. SASSO, Essere e negazione, Napoli 1987. Gli altri testi a carattere «teoretico» scritti da Sasso sono i
seguenti: L’essere e le differenze. Sul «Sofista» di Platone, Bologna 1991; Tempo, evento, divenire, cit.;
La verità, l’opinione, Bologna 1999; Fondamento e giudizio. Un duplice tramonto?, Napoli 2003; Il
principio, le cose, Torino 2004; e infine Il logo, la morte, Napoli 2010. In realtà il libro in cui molti dei
temi teoretici che Sasso svilupperà in seguito sono già presenti e si fanno, per così dire, «sentire» nelle
critiche sviluppate da Sasso a riguardo dell’autore lì trattato, è il celebre Benedetto Croce. La ricerca
della dialettica, Napoli 1975. Potrà sembrare forse sorprendente che nella trama del lavoro che sta per
iniziare, volto all’esame «diretto» e, anche, «indiretto» di una categoria fondamentale all’interno della
filosofia di Sasso, non si preda le mosse dal libro appena richiamato, che rappresenta anche sotto
questa lente visuale un ruolo centrale. Non solo, ma in tutto l’arco della presente ricerca questo libro, e
più in generale gli studi svolti da Sasso sui molteplici aspetti dell’opera crociana, sono quasi del tutto
assenti (farò un accenno nel paragrafo riguardante Hegel dell’Intermezzo hegeliano contenuto nel
libro del ‘75). I motivi di questa scelta sono determinati essenzialmente da due fattori. Il primo è
dovuto al fatto che l’interpretazione data da Sasso dell’opera di Croce è talmente ampia, complessa,
ricchissima di spunti e sfumature di carattere non soltanto filosofico/speculativo ma anche politico,
culturale e storiografico, che ho pensato non fosse il caso di inserirla in questo lavoro. Il secondo
motivo riguarda invece gli aspetti più strettamente teoretici della lettura e critica operata da Sasso nei
confronti della Filosofia dello spirito di Croce. Infatti il punto appena indicato potrebbe essere riferito
anche a Gentile, a cui pure è stato dedicato un paragrafo del presente lavoro. Il motivo per cui non ho
dedicato un paragrafo anche alla «lettura» di Croce data da Sasso è dovuta al fatto che le varie e
articolate analisi rintracciabili in primis nel gigantesco saggio del ’75, oltreché in altri specifici saggi,
per essere studiate con rigore, dovrebbero essere esaminate attentamente anche nell’ordine temporale,
o più propriamente «cronologico», in cui sono venute mano a mano a svilupparsi. Il libro sulla
«ricerca della dialettica» è infatti anteriore di ben dodici anni all’uscita del primo libro «teoretico» di
Sasso. Inserendo anche Croce in questo studio, non si sarebbe certo potuto mettere tra parentesi il
libro del ’75, ma così facendo si sarebbe dovuto far intervenire delle considerazioni ulteriori
riguardanti i tempi e i modi in cui certe determinazioni teoretiche si sono venute a sviluppare nel
pensiero di Sasso. Con questo non voglio dire che dal 1987 ad oggi non siano intervenute variazioni nel
suo particolarissimo discorso filosofico, tutt’altro. Queste variazioni però non sono prese qui come
vero e proprio oggetto di ricerca, cosa che sarebbe dovuta essere se si fosse inserito Croce e di
conseguenza il libro a lui dedicato nel ’75 in questo articolo. Per quanto riguarda il rapporto che
intercorre tra la produzione storico/filosofica di Sasso, a partire dai suoi studi degli anni ’50 su
Machiavelli fino al volume crociano del ’75 e oltre, con le sue successive riflessioni teoretiche, si
possono trovare puntuali riferimenti nel bel saggio di S. MASCHIETTI, Dire l’incontrovertibile. Intorno
all’analisi filosofica di Gennaro Sasso, «Giornale di filosofia», marzo 2007 (il §0 per quanto riguarda
il rapporto con Croce e il §4 per quanto riguarda quello con Machiavelli); oltreché in G. SASSO, La
fedeltà e l’esperimento, Bologna 1993, pp. 21-72 (si tratta di un libro-intervista in cui tre allievi di
Sasso, F. Scarpelli, F. S. Trincia e M. Visentin, rivolgono al loro maestro diverse e svariate domande a
riguardo non solo di questioni squisitamente teoretiche, ma a proposito anche dell’ambiente culturale
in cui Sasso è venuto a formarsi). Questo libro, ricchissimo di spunti, deve essere tenuto in
considerazione nella sua interezza per quanto riguarda la «formazione» filosofica e culturale di Sasso.
Utili indicazioni sono anche contenute nel saggio autobiografico scritto da Sasso come «congedo» al
suo sesto ed ultimo volume di Filosofia e idealismo, VI, Ultimi paralipomeni, Napoli 2012, pp. 643695. Questo saggio è stato anche separatamente pubblicato con il titolo La voce dei ricordi, Napoli
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
1. Introduzione
Tutti i temi che all’interno della riflessione teoretica di Sasso vengono
maggiormente dibattuti e analizzati (la particolare negazione che l’essere fa del nulla,
il rapporto/non rapporto tra άλήθεια e δόξα, l’«accadere» delle doxai) e che
costituiscono il centro di tutto il suo pensiero, risultano essere, all’interno di questa
specifica filosofia, tra loro strutturalmente connessi. La connessione strutturale a cui
qui si allude non riguarda solo il piano «incontrovertibile» della verità (o logo) e
quello
«controvertibile»
delle
opinioni
(o
doxai)
e
della
domanda
che,
necessariamente, viene a porsi di una loro possibile «relazione»; ma riguarda, più
specificamente, tutti i vari problemi che vengono a collocarsi all’interno di questi due
«ambiti»4. Non essendo possibile fare una vera e propria analisi tematica di tutto ciò,
si cercherà in questo paragrafo introduttivo di far cadere maggiormente l’attenzione
sulle categorie che interessa maggiormente porre in risalto in questo lavoro, ossia
quelle di «metafisica» e «relazione»; pur non facendo mancare qualche puntuale
riferimento agli altri problemi teoretici affrontati da Sasso.
Se […] per filosofia s’intende, non quello che con questo nome si designa nella
storiografia che la riguarda, ma la stessa cosa della verità dell’essere, allora è evidente
che per una storia che ne faccia il suo oggetto, nella filosofia non c’è posto. Come non è
soggetto, così nemmeno la verità è oggetto. E né da sé stessa, né da altri, potrebbe mai
esser posta come un oggetto da indagare e da definire: nemmeno nel caso in cui il
limite di questa oggettività fosse, per dir così, posto al di là di ogni suo conseguimento,
e la sua ricerca non potesse perciò aver fine (come suona l’alquanto retorica
espressione). Al di là degli insopportabili proclami e delle ridicole dichiarazioni di
superiorità in cui gli uni contro gli altri, alcuni filosofi e alcuni scienziati amano
cimentarsi, sta qui forse la differenza che passa, non solo tra la filosofia e la scienza, ma
2012. Il saggio di Maschietti è disponibile presso il sito internet www.giornaledifilosofia.it /
www.filosofiaitaliana.it.
4 Non intendo con questo affermare che la riflessione di Sasso sia caratterizzata dalla «sistematicità»,
tutt’altro. A parte il libro sul Sofista di Platone, tutti gli altri suoi lavori a carattere teoretico, pur
rivolgendosi «sistematicamente» ai vari temi in essi affrontati, non hanno tuttavia un andamento
propriamente sistematico (come invece, per non fare che un esempio, il libro La struttura originaria
di Emanuele Severino). Quello che intendo qui sottolineare riguarda il particolare modo di scrittura
utilizzata da Sasso nei suoi libri teoretici. La sua riflessione è infatti condotta in modo alquanto
«libero» da un lato, ma è caratterizzata allo stesso tempo da una profondissima e ferrea analiticità. Si
potrebbe dire che l’argomento di volta in volta affrontato da Sasso nei suoi scritti venga continuamente
analizzato facendo diversi e variegati riferimenti ad alcuni filosofi. Tramite questo rilievo non si
intende però sostenere come sia, anziché la sistematicità, la «rapsodicità» a caratterizzare questi libri
di Sasso. La sistematicità va ricercata nei «problemi» da Sasso affrontati in questi suoi libri, pur
essendo tali problemi sviluppati in modo assai «libero», individuabile nelle «occasioni» (determinate
dal prendere in considerazione un autore piuttosto che da un altro) che costituiscono l’analisi e la
discussione specifiche tramite cui quei problemi vengono esaminati.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
anche tra la filosofia e la storia (che non per questo sarebbe giusto dire che dev’essere
trattata con i metodi della seconda).5
Secondo Sasso, innanzitutto, come emerge dal passo qui riportato tratto dal
suo ultimo libro a carattere teoretico Il logo, la morte, la filosofia si distingue
alquanto nettamente e radicalmente da altre e tra loro assai diverse forme di
pensiero, quali per esempio la letteratura, la storia, la religione e la scienza. A ben
vedere il punto centrale su cui si basa la sua drastica divisione tra filosofia e gli altri
ambiti del sapere (di cui qui Sasso indica la scienza e la storia) sta nel concetto di
«ricerca». Senza alcun dubbio, l’altro giudizio che non può che agire come
presupposto in queste battute preliminari è l’indicazione per cui la filosofia sia la
«stessa cosa» della «verità dell’essere». La questio plurisecolare riguardante la
negazione che l’essere fa del nulla, e il modo in cui il nulla possa veramente mostrarsi
con il «suo» autentico volto senza diventare a sua volta «qualcosa» (e quindi essere e
non nulla) all’interno della negazione che l’essere ne fa, è una delle più dibattute e
attentamente analizzate da Sasso nei suoi scritti teoretici. Basti qui sottolineare che
ad avviso di Sasso la negazione che l’essere fa del nulla, non avviene e non si
costituisce nel tempo ma è originaria. Ciò che si costituisce, e non può non
costituirsi, nel tempo è la sua espressione linguistica, non però il suo senso. La
filosofia coincide così interamente con il «non esser nulla» dell’essere. Il «non esser
nulla» dell’essere, per altro, non è un predicato che, per così dire, si aggiunga
sinteticamente all’essere, il quale quindi potrebbe esserne privo. L’essere è, coincide
pienamente con, la negazione che esso «fa» del nulla; o si può anche dire che il «non
esser nulla» dell’essere è l’esplicitazione del senso dell’essere6. Detto ciò l’attenzione
deve esser fatta cadere, per una esaustiva comprensione del passo di sopra, sul
concetto di «ricerca» e tramite esso sulla «differenza» che Sasso propone tra filosofia
e gli altri saperi7. La posizione che viene qui ad assumere Sasso è certamente in forte
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., pp. 338-339.
«Che l’essere sia negazione del nulla è intrinseco al suo senso. È proprio, in altri termini, della φύσις
τοῦ ὄντος che l’essere sia essere “e non” nulla» (G. SASSO, La verità, l’opinione, cit., p. 16). Deve essere
sottolineato come la questio del nulla, e del particolarissimo modo in cui l’essere «lo» nega, costituisca
uno dei punti più delicati e insieme centrali per affrontare e comprendere le riflessioni teoretiche di
Sasso. Dal momento che un’analisi accurata del modo in cui Sasso tratta di questo specifico problema
non è possibile che venga eseguita in questa sede, rimando ai luoghi più significativi delle sue opere in
cui si discute di ciò: G. SASSO, Essere e negazione, cit., pp. 17-291; ID., La fedeltà e l’esperimento, cit.,
pp. 49-70; ID., La verità, l’opinione, Bologna 1999, pp. 11-88; ID., Il logo, la morte, cit., pp. 315-335.
7 All’interno della filosofia che si è appena iniziata a discutere e analizzare, non ha alcun senso parlare
di filosofia «dell’arte, del diritto, della matematica, della musica, dell’economia, della politica, della
storia, della scienza», così come non trova validità alcuna all’interno di questo orizzonte concettuale
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
contrasto con molti, e per altro svariati, modi di pensare l’«oggetto» della filosofia 8. Il
motivo centrale per cui secondo Sasso la «verità» non può essere cercata, è
determinato dal fatto che essa non può in alcun modo assumere la forma di un
oggetto, il quale viene, appunto, trovato da un soggetto, dal momento che «proprio la
ricerca della verità consegna quest’ultima a una dimensione, che è quella dell’oggetto,
non della verità: di un oggetto nascosto che deve farsi emergere alla luce»9. Se ci fosse
un’ipotetica strada, via, sentiero, che conducesse un soggetto a «possedere» la verità,
necessariamente questa strada, via, sentiero, sarebbe nella non verità e si creerebbe
così una situazione alquanto paradossale, per non dire contraddittoria: arrivare a
comprendere la verità tramite l’errore. La verità non può, a ben vedere, essere né
soggetto né oggetto, in quanto se fosse uno dei due, non essendo quindi l’altro,
necessariamente si troverebbe questo di fronte a sé; e l’«altro», non essendo la verità,
sarebbe (necessariamente) non verità, e verrebbe così nuovamente a formarsi
un’altra situazione paradossale, e contraddittoria, quanto la prima: lo stare della
verità dinanzi all’errore (e viceversa) – il quale però se così «stesse» non potrebbe
corrispondere autenticamente al concetto di «errore»10. Tra ciò che Sasso intende per
una sorta di «enciclopedia» delle scienze filosofiche (cfr. Il logo, la morte, cit., pp. 346-349). A
proposito inoltre del concetto di «filosofia della storia» cfr. Ibid., pp. 433-444.
8 È questo un punto che deve essere senza alcun dubbio sottolineato. Si nota qui, inoltre, un’affinità
non estrinseca con Emanuele Severino, ossia l’assoluta mancanza di una «ricerca» per giungere alla
«verità», la quale appartiene pertanto all’originario non al tempo: l’esser «già da sempre» nella verità
da parte della verità, il non poterci essere che verità nella verità; il non mettersi quindi in alcun
«cammino» per giungere ad essa: «Se l’incontrovertibile incomincia ad apparire, sopraggiunge nel non
incontrovertibile – è accolto nella non verità (recipitur ad modum recipientis: recipitur ad modum
non veritatis). E in quanto così accolto non è l’incontrovertibile» (E. SEVERINO, La Gloria. άσσα ουκ
έλπονται: risoluzione di «Destino della necessità», Milano 2001, p. 423), o anche: «Se nell’ascolto la
Necessità appare come tale, l’ascoltante non può essere che la Necessità stessa» (ID., La struttura
originaria (1958), nuova ed. riveduta e ampliata, Milano 1981, 2007 3, p. 98). La questione è,
naturalmente, variamente complicata e in Severino questa situazione concettuale ha diverse e
specifiche conseguenze, come per esempio il problematico rapporto che viene a delinearsi tra il tempo
(pur inteso come apparire e scomparire degli enti e non come luogo del loro annullamento) e la
«struttura originaria» o «destino», su cui non è qui possibile intrattenersi. Anche il significato del
passo appena riportato non può certo apparire limpido a chi abbia una conoscenza solo approssimata
del pensiero di Severino. Basti qui ricordare che «Necessità» è, all’interno del discorso severiniano, un
sinonimo di «verità» o anche di «incontrovertibilità». In Severino, tuttavia, non c’è alcuna cosa, alcun
ente, che sfugga alla presa della ferrea necessità, e questo è certamente un punto di profonda
divergenza con la prospettiva filosofica di Sasso, come si mostrerà a breve.
9 G. SASSO, Il principio, le cose, cit., p. 137.
10 La questione che viene qui a sollevarsi è altamente problematica e assai delicata. L’errore, come il
«nulla», come anche la «contraddizione», non ha propriamente alcun tipo di realtà. O meglio, non ha
alcun tipo di autonomia posizionale. L’unico momento in cui la sua «realtà» può essere colta, è nella
negazione (assoluta) esercitata dalla verità su di esso. C’è quindi un’assoluta identità tra la negazione
che l’essere fa del nulla e quella della verità sull’errore, che sono «due» soltanto per il linguaggio che le
esprime, non per il concetto che, per così dire, le pensa. Così, allo stesso modo che per il nulla, l’errore
fa la propria apparizione esclusivamente nella «battuta vuota» (o, come Sasso viene a dire ne Il logo, la
morte, «allusione») emergente dalla negazione che la verità fa su di esso. La questione di cui qui si
discute riguarda l’inevitabile «ontologizzazione» del nulla nel momento in cui «lo» si include in un
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
«verità» (che nel suo lessico non è che un sinonimo di logo, essere, razionalità e
filosofia)11 e ciò che per «verità» si intende nelle discipline di sopra (pur, come non
può che sottolinearsi, nella loro specifica diversità) non c’è che «omonimia»12, ma a
rigore nulla più. Il punto qui toccato è delicato, e riguarda propriamente il
«rapporto» che la filosofia intrattiene con gli altri ambiti del sapere, in particolar
modo con la scienza e la storia. In realtà, come appare evidente da quanto è stato
detto, assumendo il modo di intendere la filosofia come assolutamente estranea ad
ogni «ricerca», sia essa posta in posizione di soggetto o all’inverso di oggetto, il suo
rapporto con la scienza e la storia è reciso all’origine. Quando Sasso sostiene che
tanto la scienza quanto la storia appartengono entrambe, pur nella loro autonomia e
differenza, al mondo della doxa, non sta in realtà dicendo nulla di particolarmente
«eretico» o addirittura «oscurantista». Non sta insomma affermando che mentre la
filosofia sarebbe l’unico sapere in grado di contemplare la pura e autentica verità, gli
altri saperi, essendole di grado inferiore, e non potendo pertanto aspirare a tanto,
sarebbero relegati nel mondo caotico dell’opinione. Nulla di tutto ciò. In modo molto
schematico potrebbe dirsi che la «verità dell’essere» (filosofia) non ha nulla a che
vedere con la «verità delle cose o eventi» (scienza e storia). Altra, insomma, «la verità
discorso. Quando però si afferma che l’essere è essere e non nulla, tramite questo «e non nulla» (da
Sasso ribattezzato «battuta vuota» per la sua mancanza di spessore ontologico) si riesce a scorgere per
un istante l’autentico, «vero», volto del nulla. Nel dire che «il nulla se viene negato viene per ciò stesso
ontologizzato, e perciò è essere e non nulla», ecco che con queste ultime parole si scorge,
indirettamente, l’autentica fisionomia del nulla. La questione è particolarmente intricata e complessa,
per tale motivo non può essere come già detto discussa ed esposta nella sua compiutezza qui. Sulla
valenza della «battuta vuota» all’interno della risoluzione dell’aporia del nulla proposta da Sasso, cfr.
Essere e negazione, cit., pp. 183-201, mentre per quanto riguarda l’«allusione», che consiste in una
sorta di integrazione e maggior radicalità del discorso risolutivo di Sasso, cfr. Il logo, la morte, cit., pp.
315-335. Bisogna inoltre aggiungere come l’attenzione mostrata da Sasso per il concetto di «errore»
non ha molti paragoni nella filosofia contemporanea, in particolar modo se si considera non solo ciò
che Sasso ha scritto su questo delicato problema in prima persona nei suoi scritti teoretici, ma anche al
riguardo mostrato in questi e in altri suoi scritti di come questo concetto venga a presentarsi in diverse
altre filosofie, per esempio in Platone, Cartesio, Croce, Gentile e Severino. Per quanto riguarda gli
scritti teoretici di Sasso, il rinvio d’obbligo è al quinto capitolo di Essere e negazione, cit., pp. 329-362,
per intero dedicato al tema dell’«errore». A riguardo degli altri scritti teoretici non avrebbe senso
richiamare singoli passi, dal momento che questo problema ritorna in moltissime occasioni. Per
quanto riguarda invece la contraddizione, e la sua «equivalenza» all’errore e al nulla, cfr. Essere e
negazione, cit., pp.77-129 e Il logo, la morte, cit., pp. 371-374, oltre al breve ma densissimo saggio a
proposito del «paradosso del Mentitore», intitolato ΨΕΥΔΟΜΕΝΟΣ. Considerazioni a margine
(1998), in Filosofia e idealismo, IV, Paralipomeni, Napoli 2000, pp. 345-362.
11 A proposito di ciò cfr. G. SASSO, Essere e negazione, cit., pp. 431-435; La verità, l’opinione, cit., p.
309; Fondamento e giudizio, cit., pp. 98-100; Il logo, la morte, cit., p. 269.
12 G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 242. Con questo termine Sasso fa esplicito riferimento all’inizio
delle Categorie aristoteliche in cui si dice che: «Omonimi si dicono quegli oggetti, che possiedono in
comune il nome (ὄνομα) soltanto, mentre hanno differenti discorsi definitori (λόγος τῆς οὐσίας),
applicati a tale nome» (ARISTOTELE, Cat., 1 a, 1-2). La traduzione dell’Organon da cui cito è quella di
Giorgio Colli (Milano 2003).
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
dei filosofi», altra «la verità degli storici»13. Ma la stessa e identica cosa deve esser
detta a proposito del rapporto, o meglio del non rapporto tra verità della filosofia e
verità della scienza: «La battaglia che periodicamente si rinnova, e che a protagoniste
ha la filosofia, da una parte, la scienza, da un’altra, – questa battaglia, che ha dato
luogo, nel tempo, a episodi di memorabile importanza, caratterizzando col suo segno
tanta parte della cultura occidentale, non può essere decisa a favore dell’una e
dell’altra, semplicemente perché, in re, non ha luogo»14. Proprio per questo motivo,
secondo Sasso, alla scienza non viene tolto nulla, ma anzi «le si riconosce piena
dignità gnoseologica»15 nel momento in cui da un lato la si esclude dall’ambito
dell’άλήθεια, e dall’altro la si include nel mondo della δόξα. Solo infatti in questo
mondo, che è in realtà l’unico e autentico mondo, può esserci conoscenza, solo qui
può esserci progresso (e pertanto anche regresso), solo qui può essere ricercata,
migliorata, arricchita e integrata la verità. Un tratto essenziale del mondo della doxa
è quello di essere «un mondo sempre soggetto alla prova e alla “contraria prova”» 16,
ed è per l’appunto questo il luogo e l’ambito in cui può essere messa in atto la «”sana”
pratica della ricerca»17 propria degli storici come degli scienziati.
Tutto ciò non ha nulla a che vedere con la filosofia, la quale è completamente
estranea alla «questione della “realtà” del mondo esterno, o, che si dica, dell’esistenza
delle cose in quanto cose»18. Per Sasso la verità (o l’essere) non ha alcun contatto con
le «cose» (con il «mondo»), e si produce così di conseguenza una fortissima e
drastica separazione tra questi due ambiti: verità ed esperienza. Anche qui per altro,
in questa assoluta separazione, è da rilevarsi l’immane distanza che intercorre tra
filosofia e religione.
La verità è, in realtà, possesso soltanto della verità. Appartiene, se si vuol dire
così, a sé stessa: non agli uomini, e nemmeno a Dio che, se ne fosse il soggetto e la
possedesse, quella non sarebbe la verità. La ricerca e il possesso della verità sono pur
sempre prospettati come ricerca e il possesso di qualcosa. E pertengono perciò al
mondo della doxa, non a quello dell’aletheia, al quale, poiché è vero e non doxastico,
non potrebbero, per definizione, appartenere. Che senso avrebbe, in effetti, ricercare la
verità nel regno, vero, della verità? Intesa come qualcosa che può essere indagata,
tentata, ricercata, finalmente, in tutto o in parte, posseduta, la verità è un affaire della
metafisica, e della doxa, che, nella sua essenza, è una sua schietta espressione. Se perciò
ora si chiedesse se quel che qui si afferma rientri in una prospettiva religiosa, o in una,
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 270.
Ibid., p. 83.
15 Ibid., p. 78.
16 G. SASSO, Storiografia e decadenza, Roma 2012, p. 112.
17 G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 270.
18 Ibid., p. 78.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
invece, irreligiosa, la risposta può essere formulata con nettezza; e senza, perciò, alcuna
reticenza, deve dirsi, o, piuttosto, ribadirsi, che non rientra né nell’una, né nell’altra.
Religione e irreligione sono concetti correlativi, nell’affermazione e nella negazione; e
nell’affermare Dio, o nel negarlo, sono solidali, perché, intendendolo come un oggetto,
ne condividono, nel profondo, il concetto.19
L’estraneità di Sasso da ogni tipo di atteggiamento religioso è in questo passo
determinato soprattutto da due considerazioni. Se si dicesse che «Dio è la verità» non
si riuscirebbe ad ottenere se non una semplice tautologia, ovvero che «la verità è la
verità». Se Dio è inteso come la «stessa cosa» della verità, bisogna poi concludere
conseguentemente e dire quindi che «Dio» non è né più né meno che un nome
indicante la stessa cosa di «verità», o essere o logo. L’identità non può che essere
intesa come l’identico, non come l’identificazione dei diversi, che nell’unità sintetica
starebbero sì insieme (come identici), ma anche separati (come diversi). Questa per
Sasso sarebbe una situazione «mitologica», non filosofica. La distanza che invece
Sasso stabilisce tra la propria posizione filosofica e qualunque tipo di ateismo è
determinata dal fatto che «concettualmente, l’ateismo è un figlio, o, meglio, è la
stessa cosa della στέρησις τοῦ θεοῦ e, rigorosamente, presuppone ciò di cui assume di
esser privo»20. Oltre a sottolineare la profonda distanza tra il suo modo di intendere
la verità e quello proprio della religione, si può cogliere da quanto viene affermato in
questo passo (e in modo anche molto eloquente) la «differenza» stabilita da Sasso tra
l’essere (la verità) e gli enti (la doxa) 21. La verità, secondo la posizione di Sasso, non
Ibid., p. 363.
Ibid., p. 69. Di un certo interesse è il modo in cui secondo Sasso è opportuno criticare il celebre
«argomento ontologico» per la dimostrazione dell’esistenza di Dio. Il punto centrale della sua critica
riguarda il «rapporto» dal quale Dio viene investito nel momento in cui lo si dice, sia rispetto alla
realtà sia rispetto al pensiero, «ciò di cui niente può essere pensato maggiore». Se in effetti Dio fosse
fatto coincidere con «ciò di cui niente può essere pensato maggiore», «la sua esistenza» sarebbe
«affermata attraverso un paragone». Il problema è che nel paragone «e perché questo possa costituirsi
e aver luogo, l’inferiore costituisce la condizione del superiore, come questo costituisce la condizione
del primo. Il superiore e l’inferiore si implicano vicendevolmente, e non sono concepibili l’uno senza
l’altro». Senza volersi soffermare sulle ulteriori conseguenze che Sasso ricava da questa situazione
concettuale, il punto fondamentale della questione è in realtà già stato toccato. In un rapporto (e un
paragone è un rapporto), non è possibile che uno dei due termini possa stare senza l’altro. Da ciò
consegue che essendo (reciprocamente) l’uno condizione dell’altro, nessuno dei due può costituirsi
senza l’altro, cosicché entrambi, per poter essere quello che sono, necessitano dell’altro. Quello allora
che viene a risultare, è che Dio non può sussistere senza il mondo (cioè tutto ciò che gli è inferiore), e
questa è precisamente la conseguenza opposta rispetto a quella che si intendeva conseguire tramite
l’argomento ontologico, che intende identificare Dio con «ciò di cui niente può essere pensato
maggiore»; pertanto «L’assolutezza che gli [a Dio] viene attribuita è in effetti relativa al relativo. Perciò
è relativa e non, quale la si vorrebbe, assoluta» (Ibid., p. 11). Cfr. inoltre le riflessioni di Sasso a
riguardo dell’argomentazione di Pantaleo Carabellese secondo cui «affermare l’esistenza di Dio è
negare Dio», in Ibid., pp. 66-68.
21 È opportuno, per non cadere in un possibile equivoco e intendere questa posizione di Sasso come
una sorta di riproposizione (seppur con linguaggio alquanto differente) della differenza ontologica che
Heidegger indicò tra l’essere (Sein) e gli essenti (Seienden), soffermarsi brevemente su ciò. Senza poter
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
essendo un «oggetto» non ha e non può avere alcun tipo di «utilità». Che la verità
«serva» a qualcosa è un’essenziale caratteristica della metafisica. Attraverso questo
termine Sasso intende esplicitamente riferirsi a «un procedimento speculativo per il
quale si assume che la filosofia e l’esperienza, l’incontrovertibile e il suo contrario, ciò
che non può non essere e ciò a cui il poter non essere invece appartiene, entrino in un
rapporto, costituiscano una relazione e un ambito»22. Metafisica viene qui ad indicare
il carattere dominante di quasi tutta la storia della filosofia occidentale, in quanto, da
Platone a Hegel e oltre si è pensato o di tessere una relazione tra questi due ambiti,
oppure di escluderne uno a discapito dell’altro, con altrettante insormontabili
minimamente trattare qui uno dei punti più importanti e allo stesso tempo più complessi del pensiero
heideggeriano, ma volendo ciò nonostante indicare la differenza che intercorre tra la posizione appena
prospettata di Sasso e quella di Heidegger, si sentano queste poche (ma centrali) parole del filosofo
tedesco: «La svelatezza dell’essere è però sempre la verità dell’essere dell’ente, sia questo reale o no.
Viceversa nella svelatezza dell’ente c’è già sempre anche quella del suo essere. La verità ontica e la
verità ontologica concernono in modo rispettivamente diverso l’ente nel suo essere e l’essere dell’ente.
Esse si appartengono l’un l’altra in modo essenziale in base al loro riferimento alla differenza di essere
ed ente (differenza ontologica)» (M. HEIDEGGER, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, tr. F.
Volpi, Milano 1987, pp. 89-90). Non è, lo si ripeta nuovamente, possibile qui commentare in modo
adeguato questo passo heideggeriano. Risulta però chiaramente da quanto qui Heidegger sostiene che
la sua posizione è ben altra cosa dalla differenza (la quale è una «differenza assoluta» senza relazione
tra i termini) che Sasso intende far valere tra essere ed ente. Mentre Heidegger intende sottolineare la
differenza tra «essere» ed «ente» pur mantenendo esplicitamente (ma questo era già esplicito in Sein
und Zeit) un rapporto tra i due, Sasso, proprio e paradossalmente per cercare di stabilire una
differenza assoluta tra i due ambiti, intende escludere qualsiasi nesso e relazione tra loro. Il luogo in
cui Sasso si è soffermato più accuratamente su questo problema nella filosofia heideggeriana, è stato in
Tempo, evento, divenire, cit., pp. 24-29, in cui il testo di Heidegger preso in esame è Der Satz der
Identität del 1956.
22 G. SASSO, Tempo, evento, divenire, cit., pp. 18-19. Pur essendo assai chiaro ciò che Sasso intende
dire in questo passo, tuttavia è qui contenuto un punto di una certa complessità per quello che
consegue dalla posizione filosofica di Sasso. Mi riferisco al concetto di «contingenza» che emerge dalle
linee qui riportate, ossia «ciò a cui il poter non essere appartiene». Potrebbe certo dirsi che mentre
l’«essere», il «logo», la «verità», pur non esistendo, non essendo cioè enti tra gli enti, respingono
originariamente da sé il nulla o l’errore e non hanno pertanto con «esso» alcun commercio, non così
avviene per le cose, per gli enti; ai quali quindi non è per nulla precluso di divenire, ossia di passare dal
non essere all’essere e viceversa. In realtà non è questa la conseguenza che deve essere tratta dalla
posizione di Sasso. Il concetto o categoria del «nulla» (come anche quella dell’«essere» in quanto
negazione assoluta del nulla) non ha alcun contatto con il mondo delle cose, ossia il mondo della doxa.
Se non ha «contatto» certo non può dirsi che le cose si annullino o che finiscano/provengano nel/dal
nulla. Naturalmente non si sta qui discutendo della coerenza o meno del passo sopra riportato, lì
infatti Sasso si riferisce al «progetto» della metafisica, la quale intenderebbe mettere in relazione
l’ambito incontrovertibile della verità con quello controvertibile (cioè, in questo contesto,
transeunte/contingente) del mondo. Questo passo da però l’occasione di sottolineare come l’assoluta
separazione della verità dal mondo sostenuta da Sasso, non consista semplicemente nella mera
divisione tra questi due ambiti, mantenendone però la medesima fisionomia da loro in precedenza
posseduta. Tramite questa completa «scissione» tra l’ambito incontrovertibile della verità e quello
controvertibile delle opinioni del mondo, questi due «universi» acquistano un colore e una valenza del
tutto particolare e non facilmente riducibili a quelli presenti in una visione «metafisica» della realtà.
Peraltro non può essere discussa in questa sede la valenza e la completa fisionomia di questa
«scissione» tra άλήθεια e δόξα, che comporterebbe uno studio specifico non solo del «senso» della
verità che si riduce alla negazione che l’essere fa del nulla e alla complicata presenza del linguaggio in
questo procedimento, ma anche del concetto di «accadere/evento» che è quanto secondo Sasso
caratterizza primariamente il mondo della doxa.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
difficoltà23. Il modo di pensare, da parte di Sasso, l’essere come non essere
«soggetto» o «oggetto» di predicazioni (da un lato) e di pensare l’ambito doxastico
come avente la propria ragion d’essere in sé e non poterla trovare in altro (dall’altro),
è volto ad una decisa e perentoria critica di ciò che lui chiama «metafisica» 24.
Metafisica non sta quindi a significare, all’interno del discorso di Sasso, l’attribuzione
alla verità di un carattere immutabile; ma significa invece la ricerca di un fondamento
o più in generale di un rapporto, di una relazione, tra verità ed esperienza. Facendo
leva sulla categoria della «relazione» come tratto distintivo del pensiero metafisico,
quasi tutta la storia della filosofia occidentale viene ad essere contraddistinta da
questo carattere. L’impossibilità che, nel discorso di Sasso, la verità possa essere
intesa come «soggetto» o come «oggetto» ha direttamente a che fare con la sua
assolutezza e originarietà, e quindi la sua strutturale irrelatezza con tutto ciò che è
tempo e spazio.
Il concetto di «metafisica» viene pertanto attribuito tanto alle filosofie che possono essere
considerate «razionaliste», quanto alle filosofie «empiriste», quanto a quelle «idealiste». Cfr. G. SASSO,
Il logo, la morte, cit., pp. 222-223. Ma a proposito di ciò cfr. anche M. VISENTIN, Il neoparmenidismo
italiano, I, Le premesse storiche e filosofiche: Croce e Gentile, Napoli 2005, pp. 11-13.
24 Secondo quanto sostenuto da Mauro Visentin nei suoi due volumi su Il neoparmenidismo italiano,
ciò che caratterizzerebbe la filosofia italiana del ‘900 è propriamente un tratto «antimetafisico» (M.
VISENTIN, Il neoparmenidismo italiano, II, Dal neoidealismo al neoparmenidismo, Napoli 2011, p. 9).
A suo parere questo tratto è determinato, paradossalmente, dal fatto che la vita culturale e sociale
italiana non sia stata particolarmente penetrata da aspetti e categorie appartenenti alla filosofia (come
invece sarebbe maggiormente avvenuto in Francia, Inghilterra e Germania). Proprio in questa sorta di
«debolezza filosofica», propria della penisola italiana, è da individuare il tratto antimetafisico della
filosofia italiana del XX secolo (non tutta senza distinzione, ma almeno quella segnata dai nomi di
Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Guido Calogero, Luigi Scaravelli, Emanuele Severino e Gennaro
Sasso), che Visentin chiama neoparmenideo. Con questo termine Visentin intende indicare la
separazione, assoluta, tra άλήθεια e δόξα che viene a rivelarsi (sia pure nella maggior parte dei casi in
modo inconsapevole e involontario) all’interno della filosofia degli autori in precedenza citati. Non è
naturalmente possibile soffermarsi su questi due impegnativi e voluminosi lavori di Visentin, ma è qui
comunque opportuno riportare un’osservazione di un certo interesse. L’unico autore che agli occhi di
Visentin non rientra a pieno titolo nella forma di neoparmenidismo secondo lui caratterizzante la
cultura filosofica italiana del ‘900, è proprio l’autore a cui, più di una volta, è stato attribuito questo
carattere: vale a dire Emanuele Severino. Secondo Visentin Severino potrebbe essere espressione più
che di un neoparmenidismo, di un neospinozismo, dal momento che attraverso il suo discorso
filosofico non viene ad essere tematizzata l’assoluta separazione tra verità ontologica e piano ontico,
quanto piuttosto la soppressione della loro differenza (cfr. Ibid., pp. 13, 443). Sempre sul significato
attribuito da Sasso (ma anche dallo stesso Visentin) al termine «metafisica» cfr. le due interviste fatte
da Giovanni Perazzoli a Visentin in occasione, rispettivamente, dell’uscita di un importante saggio (a
firma dello stesso Visentin) su Sasso apparso sul «Giornale critico della filosofia italiana», LXXX,
II/2001, pp. 326-359, e per l’uscita del secondo volume de Il neoparmenidismo italiano (di cui
l’ultimo capitolo è costituito dal saggio su Sasso del 2001). In particolare cfr. per quanto riguarda la
prima intervista (2003) il §2 e il §5, mentre per quanto riguarda la seconda (2011) il §3 (entrambe le
interviste sono disponibili presso il sito internet www.filosofia.it). A proposito del secondo volume de
Il neoparmenidismo italiano di Visentin, cfr. il saggio di S. MASCHIETTI, L’esito eleatico del pensiero
speculativo italiano. Analisi dei contributi di Mauro Visentin, ottobre 2013, www.filosofia-italiana.net
. Per quanto riguarda invece il primo volume de Il neoparmenidismo italiano, cit., cfr. la recensione di
M. MUSTÈ, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXXV, III/2006, pp. 545-549.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
I punti fondamentali che, a proposito di ciò, devono essere tenuti fermi sono
essenzialmente due. Da una lato il non essere «domanda» da parte della verità25,
dall’altro lato l’argomento riguardante l’impossibilità che la differenza differenzi. In
realtà potrebbe subito notarsi come questi due punti non siano che uno, in quanto il
primo è facilmente riconducibile al secondo. Infatti, perché possa esserci una
domanda, è necessario non solo che «qualcuno» domandi, ma che ci sia una
differenza tra domandante e domandato, tra colui che «pone» la domanda e ciò
intorno a cui si domanda. Insomma, e detto con altre parole, senza differenza niente
domanda. Ma la differenza, ed è questo un punto su cui si tornerà più analiticamente
in seguito, se pensata con le categorie della filosofia occidentale, non riesce ad essere
veramente pensata, e a rivelarsi al suo posto è l’identità26. Per avere sin da ora una
minima, ma non estrinseca, comprensione di cosa voglia dire Sasso con l’espressione
«la differenza non differenzia ma identifica», si può riportare un passo molto denso
ma allo stesso tempo chiaro e sintetico, in cui il filosofo prende come esempio il
rapporto fondamento/fondato, gettando così non poca luce sul concetto di relazione:
Nella relazione, in qualunque relazione, i termini sono necessariamente di pari
dignità. Non si può infatti, se non in forza e a prezzo di una patente contraddizione,
assumere che il fondamento, che del fondato è la ragion d’essere, sia «più» e che ciò che
ne dipende sia «meno»; oppure che, eventualmente, sia il «fondato» ad esser più di ciò
che lo fonda. Se il fondamento e il fondato non si corrispondessero nella forma della
pura coincidenza, se l’uno nei confronti dell’altro fossero «più» o «meno», il
fondamento non sarebbe autentico fondamento, il fondato non sarebbe autentico
fondato. Il residuo, infatti, e la differenza che si insinuano fra il «più» e il «meno», e
fanno sì che il «più» sia tale rispetto al «meno» e questo sia tale rispetto al «più», non
potrebbero essere in alcun modo ricompresi nella relazione: sulla quale, per
conseguenza, graverebbe la nera nube dell’irrazionalità. Nello stesso atto, la relazione
Se infatti la verità avesse un qualche rapporto con la (o una) «domanda», starebbe necessariamente
in rapporto con quanto si è escluso possa stare. Da un lato con il «ricercare», da un altro si porrebbe in
una posizione dualistica avente a un capo il «domandante» e all’altro il «domandato», ossia ciò
intorno a cui si domanda. «Soggetto» e «oggetto» verrebbero quindi reinclusi nel suo ambito, oppure
lei verrebbe ad essere inclusa nel loro. La domanda è invece caratteristica fondamentale, e
irrinunciabile, del mondo della doxa. In questo punto si pone una fortissima frattura, insanabile, tra
filosofia e filosofo. A riguardo di quest’ultimo punto cfr. Il logo, la morte, cit., pp. 383-386, oltre a M.
VISENTIN, Aletheia e doxa oltre Parmenide. Su un nuovo libro di Gennaro Sasso, «Giornale critico
della filosofia italiana», XCI, I/2012, p. 158, che è una recensione di quel libro. A proposito della
«domanda» cfr. soprattutto i primi quattro paragrafi del Proemio di Essere e negazione, cit., pp. 1728; l’Introduzione e i paragrafi conclusivi di Tempo, evento, divenire, cit., pp. 7-37, 357-384; il capitolo
terzo di La verità, l’opinione, cit., pp. 89-123; i capitoli VI-IX de Il principio, le cose, cit., pp. 57-154; e
infine il capitolo undicesimo de Il logo, la morte, cit., pp. 277-298.
26 Nel testo Fondamento e giudizio. Un duplice tramonto?, il punto teoretico tramite cui ad avviso di
Sasso è legittimo parlare di «tramonto» del concetto di fondamento, come del concetto di giudizio,
come anche del sillogismo, è proprio da ravvisare nel fatto che la differenza, anziché differenziare,
identifichi. La differenza essendo il «fondamento» del fondamento, del giudizio e del sillogismo. Vale a
dire che la differenza è ciò senza di cui il fondamento, il giudizio e il sillogismo non riescono ad essere
quello che si pretende che siano. Di questo libro cfr. soprattutto i capp. I e IV.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
sarebbe definita attraverso ciò che esclude, e lascia fuori di sé, e ciò che, viceversa,
include: senza che mai, nel segno della coerenza, l’«escluso» e l’«incluso» ne siano
ricompresi. Ne consegue che, se si tiene fermo alla distinzione, il risultato è
l’irrazionalità; e che se, per sfuggire a quest’ultima, s’invoca la razionalità, è l’identità
che mostra il suo volto: con l’identità l’impossibilità della relazione. Il fondamento e il
fondato sono «lo stesso»; e questo significa: identità, ταὐτότης.27
Il tratto della «pari dignità» è di centrale importanza per capire il
ragionamento di Sasso. Senza questa pari dignità, che è poi ciò che rende impossibile
la differenza tra i due termini, si creerebbe uno squilibrio distruttivo all’interno della
relazione medesima, facendo così cadere su di essa «la nera nube dell’irrazionalità».
All’interno di una relazione, qualunque specifica fisionomia venga essa ad assumere,
il «meno» e il «più» di cui si pretenderebbe predicare i due termini che la
costituiscono, sono al suo interno assolutamente impossibili da pensare; e risultano
quindi essere dei meri presupposti, dogmaticamente affermati e non criticamente
dedotti.
Nel concludere questo paragrafo, deve nuovamente essere sottolineato come
per Sasso la domanda metafisica per eccellenza, e cioè quella che chiede il «perché»
del mondo e delle cose, non è se non doxa, nient’altro che doxa. Ma ciò che
caratterizza il pensiero metafisico dalla doxa in quanto tale, è la pretesa di
oltrepassare il piano delle opinioni andando così a toccare quello della verità. Del
resto però, come si è detto, per Sasso «dalla doxa, nonché dalla metafisica, alla verità,
non c’è passaggio»28. Ciò che però deve essere notato, è che per Sasso la metafisica si
rivela come un’esigenza fondamentale, forse imprescindibile per l’uomo. È vero che il
carattere essenziale della metafisica è quello di andare oltre i limiti caratterizzanti il
mondo della doxa, ma è anche vero che il carattere determinante del mondo
doxastico è la domanda. L’uomo è un animal quaerens, ed è proprio qui, nel
domandare, e più propriamente nel linguaggio, che la metafisica trova la sua
autentica abitazione. Nel far seguire domande ad altre domande e alle eventuali
risposte che di volta in volta e caso per caso si siano date a queste domande, sorge la
domanda «non tanto o non soltanto della verifica empirica, quanto piuttosto del
fondamento ultimo delle cose»29. La metafisica è quindi, si potrebbe quasi dire,
intrinsecamente connaturata nell’animo umano, in quanto è dalle domande che da lui
provengono che essa viene a manifestarsi. Pertanto hanno ragione sia gli empiristi
G. SASSO, La verità, l’opinione, cit., pp. 12-13.
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 386.
29 Ibid., p. 27.
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logici, sia i filosofi analitici, a sostenere che «i problemi della metafisica nascono da
abusi del linguaggio e dall’impossibilità di darne la verifica empirica»30. Ciò che
costoro sbagliano, secondo Sasso, è che non basta mostrare l’insignificanza sul piano
empirico delle proposizione di cui la metafisica si nutre, in quanto pur volendo
controllare il linguaggio e la sua «esuberanza metaforica» 31, non è possibile
reprimere, rinchiudere, o addirittura eliminare, le domande che tramite esso
vengono, immer wieder, a presentarsi. Nel quadro così delineato da Sasso, il
linguaggio viene ad avere una certa analogia con il modo in cui si comporta la
Vernunft kantiana, la quale da luogo «a una consimile natürlichen und
unvermeidlichen Illusion»32, pur non incontrando (il linguaggio) in sé la necessità di
formulare domande, né tanto meno quella relativa alla verità. La domanda relativa
alla verità, semmai, ha una diversa e variegata ragione del suo continuo insorgere:
La domanda che si rivolge alla verità è indizio, non di forza, ma di carenza: della
massima, se si vuole, carenza. Che non è tuttavia, a guardar bene, carenza della verità,
dal momento che, se così fosse, quella le sarebbe presente attraverso il suo stesso
esserne priva; ma è bensì una sorta di ansiosità della mente e dell’anima, una sorta di
inquietudine, di interna agitazione, che al superamento di quella sofferenza
conferiscono il nome fascinoso della verità.33
Ibid.
Ibid., p. 379.
32 Ibid., p. 297. Per il passo kantiano cfr. I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, hg. von W. Weischedel,
Frankfurt am Main 1956, p. 311 (= B 354); tr. it. Critica della ragione pura, tr. G. Colli, Milano 1976,
20044, p. 363. Pur avendo fatto solo un brevissimo cenno al tema del linguaggio in una precedente
nota, è questo uno dei temi che più hanno impegnato Sasso nelle sue ultime opere teoretiche. Questo
problema emerge nella riflessione di Sasso non appena si esamina in che modo la verità possa essere
detta, espressa; cioè in che modo possa «manifestarsi» tramite il linguaggio, per Sasso interamente
incluso nel regno della doxa. A questo proposito cfr. soprattutto il secondo capitolo di La verità,
l’opinione, cit., pp. 55-88 e il capitolo nono de Il principio, le cose, cit., pp. 111-154. Ma è soprattutto ne
Il logo, la morte, cit., che il problema del linguaggio riceve da parte di Sasso le analisi più approfondite
(cfr. di questo libro in part. le pp. 429-432). Riflessioni importanti sul linguaggio da parte di Sasso si
trovano anche in Variazioni estetiche (e autobiografiche) su temi danteschi (2003), in Filosofia e
idealismo, V, Secondi Paralipomeni, Napoli 2007, pp. 11-114 (in part. pp. 16-19, 67-72, 89-92).
33 Ibid., p. 298.
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2. Su μεταξύ e μέθεξις. Sasso critico di Platone
Dopo questo paragrafo introduttivo non è certo difficile intuire come la
riflessione di Sasso fosse costretta a trovare un proprio fondamentale interlocutore in
Platone34. Prima di entrare in medias res e venire a parlare delle critiche che secondo
Sasso è opportuno rivolgere ad alcuni concetti centrali della filosofia platonica, è
necessaria una, seppur breve, premessa. Potrà sembrare ironico che venendo ora ad
analizzare alcuni capitoli dello splendido libro pubblicato da Sasso nel 1991, dal titolo
L’essere e le differenze. Sul «Sofista» di Platone, non si verrà quasi a parlare del
dialogo platonico che compare nel titolo di quest’opera. Tuttavia il motivo di tale
scelta, a chi abbia una qualche conoscenza di questo testo, non parrà forse così
maldestra. L’attenzione si verrà infatti a concentrare sui due capitoli (il secondo e il
sesto) in cui Sasso svolge altrettante «digressioni» (o excursus) al fine di chiarire
alcune questioni concettuali per poter poi intraprendere meglio il percorso che lo
porta a criticare i due maggiori risultati che si è soliti accreditare al magistrale dialogo
platonico sul Sofista: da un lato l’introduzione del genere della ετερότης, e dall’altro
lato l’«addio» che viene dato al non essere assoluto, inteso come εναντίον dell’essere,
proprio in virtù di questa introduzione. Questi due excursus riguardano
specificamente i temi che è mia intenzione affrontare in questo paragrafo, i quali
trattano delle critiche che secondo Sasso è lecito muovere alla teoria platonica della
partecipazione.
L’esigenza incontrata da Sasso in questo libro a intraprendere un’accurata
analisi del passo, per più di un verso decisivo, 476 C – 479 D della Repubblica prima
di riprendere l’analisi del dialogo intitolato al Sofista, è cercare di individuare la
risposta fornita da Platone alla domanda «che cosa è l’errore, il falso, il non
essere?»35. Nei tre paragrafi che compongono il secondo capitolo del suo libro, Sasso
illustra dettagliatamente ciò che Platone afferma a proposito di tale questione nel
passo della Repubblica appena richiamato, contenuto alla fine del libro V. Il punto
È per altro lo stesso Sasso ad indicare in Platone l’autore che più di ogni altro lo ha profondamente
segnato nel periodo di tempo che va dal 1975 (anno di pubblicazione del libro su Benedetto Croce e la
«ricerca della dialettica») al 1987 (anno di pubblicazione di Essere e negazione), cfr. G. SASSO, La
fedeltà e l’esperimento, cit., pp. 67-68. Non si dimentichi inoltre l’avvertenza dello stesso Sasso nelle
righe finali del Proemio di Essere e negazione: «Il libro che ora incomincia potrebbe essere
considerato come un commento, lasciamo andare quanto adeguato, delle parole che, nel dialogo
intitolato al Sofista, il Forestiero d’Elea pronuncia» (G. SASSO, Essere e negazione, cit., p. 44).
35 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 21. A proposito del problema dell’«errore» in Platone (e
particolarmente per le analisi svolte nel Teeteto), cfr. anche il §5 di G. SASSO, Croce: l’errore, il male,
l’utile (2004), raccolto in Filosofia e idealismo, V, cit., pp. 186-198.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
centrale presente in questo luogo della Repubblica, che segue di non molto il celebre
passo in cui Platone evoca la figura del «filosofo-re»36, riguarda l’«implicazione
biunivoca»37 e quindi il carattere fortemente unitario tra gradi di conoscenza e gradi
di esistenza. Platone, dopo aver distinto tra la «bellezza in sé» e le «cose belle», viene
ad affermare che soltanto chi «riconosce l’esistenza del Bello in sé e sa vederlo nella
sua assolutezza e nelle realtà a cui partecipa, e non lo confonde con queste ultime, né
viceversa scambia queste col Bello in sé», soltanto costui «conosce veramente»;
mentre colui che volge il proprio sguardo esclusivamente alle «cose» belle, alle
«apparenze», non sarà in possesso di una vera e propria conoscenza ma soltanto di
un’«opinione»38. Dopo aver detto che «chi conosce» conosce sempre «qualcosa che
è», dal momento che «come potrebbe conoscere qualcosa che non è?»39, Platone
viene ad introdurre per bocca di Socrate l’affermazione fondamentale, la quale dice
che «solo quello che pienamente è, è pienamente conoscibile, mentre ciò che non è
non può in nessun modo conoscersi»40. Ecco qui indicata, in modo per altro molto
esplicito, il legame di cui poc’anzi si parlava tra gradi (o livelli) di conoscenza e di
esistenza. Ciò che è pienamente (τὸ παντελῶς ὄν), la «sostanza che sempre è e non
muta mai nel senso della generazione e della corruzione»41, è ciò che è pienamente
conoscibile (παντελῶς γνωστόν), quindi l’unico e autentico oggetto della scienza
(ἐπιστήμη). Dall’altro lato, ciò che assolutamente non è (τὸ μηδαμῶς ὄν) non può in
alcun modo essere conosciuto (πάντῃ ἄγνωστον), dal momento che se può essere
conosciuto solo «ciò che è» (e anzi ora è stato indicato, radicalizzando tale assunto,
come ciò che si conosce veramente è soltanto ciò che è veramente, vale a dire il
mondo delle idee), come potrebbe essere conosciuto «ciò che non è»? Subito dopo
questo passo, riguardante la stretta corrispondenza tra ambito gnoseologico e ambito
ontologico del reale, Platone introduce l’elemento decisivo su cui rifletterà sino alla
fine del V libro. Ciò a cui qui si allude riguarda il legame che ancora deve essere
pienamente esplicitato tra l’opinione (δόξα), in precedenza evocata, e il suo specifico
«oggetto», ossia l’ambito ontologico a cui Platone la fa corrispondere. «Ordunque, se
Cfr. PLATONE, Repubblica, 473 C – E. Si avverta che per quanto riguarda la Repubblica si cita dalla
traduzione di Roberto Radice contenuta nel volume PLATONE, Tutti gli scritti, G. Reale, ed., Milano
2000, 20054. Per quanto riguarda il Parmenide dalla traduzione di Giuseppe Cambiano (PLATONE,
Parmenide, Roma – Bari 1998, 20084), mentre per il Sofista dalla traduzione di Francesco Fronterotta
(PLATONE, Sofista, Milano 2007, 20113).
37 M. VEGETTI, Guida alla lettura della “Repubblica” di Platone, Roma – Bari 1999, 20043, p. 79.
38 PLATONE, Resp., 476 C – D.
39 Ibid., 476 E – 477 A.
40 Ibid., 477 A.
41 Ibid., 485 B.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
esistesse qualcosa che ha come caratteristica propria quella di essere e di non essere
ad un tempo, non sarebbe, per così dire, collocabile in mezzo fra la sfera del vero
essere e quella dell’assoluto non essere?»42. Nel prosieguo del libro V viene mostrato
da Platone come sia per l’appunto l’opinione ad avere come proprio e specifico
oggetto «ciò che è oscillante» (ἐπαμφοτερίζειν)43 tra l’essere e il non essere, essendo
la stessa opinione un «intermedio», vale a dire ciò che si colloca «in mezzo», tra la
scienza (il vero conoscere) e l’ignoranza44. Non pretendendo di seguire il testo
platonico in ogni suo aspetto e sfumatura, è in ogni caso opportuno fare un’ultima
osservazione a riguardo dell’«oscillante» che è stato qui evocato e delineare in modo
più accurato almeno un tratto della sua fisionomia prima di passare a considerare le
riflessioni di Sasso. Ciò che deve essere meglio precisato è come deve essere inteso,
dal punto di vista ontologico, questo ἐπαμφοτερίζειν, questo «oscillante». Che cosa si
intende quando si afferma che questo ente (o questa «regione» ontologica, vale a dire
l’ambito che raccoglie tutti quegli enti che pur non essendo idee non possono essere
equiparati al nulla45) sta tra, in mezzo, il «vero essere» e l’«assoluto non essere»?
Platone risponde che questa realtà «insieme è e non è» (ἅμα ὄν τε καὶ μὴ ὄν), ossia
che stando «in mezzo» tra ciò che è e ciò che non è «partecipa di ambedue» (τὸ
ἀμφοτέρων μετέχον)46. Ciò che pertanto deve essere sottolineato in ultima istanza, è
che questo «intermedio» e «oscillante» viene ad occupare una regione ontologica che
include ἅμα47, insieme, sia «ciò che è» sia «ciò che non è».
Ibid., 477 A.
Pur essendo condotte, almeno parzialmente, in una differente direzione (come del resto fa notare lo
stesso Sasso, cfr. L’essere e le differenze, cit., p. 212, n. 16) non possono non esser richiamate qui le
importanti riflessioni svolte intorno a questo termine, e più in generale a questo medesimo passo della
Repubblica, da Emanuele Severino. Cfr. E. SEVERINO, Destino della necessità. Κατὰ τὸ χρεών, Milano
1980, 19992, pp. 19 sgg., e ID., Ἀλήθεια (1981), in Essenza del nichilismo, seconda ed. ampliata, Milano
1982, pp. 415-434.
44 «L’opinione dunque non si rivolge all’essere, – patrimonio ed oggetto specifico dell’ἐπιστήμη. Ma
nemmeno potrebbe dirsi che, al pari dell’ἀγνωσία (che proprio per questo è tale, e si definisce così), si
rivolga e si riferisca al μὴ ὄν, al “non essere”. Impossibile è infatti, e in ogni senso, opinare e “opinare
nulla”; e, proprio come la γνῶσις, anche la δόξα avrà perciò un oggetto tale che, a seconda dell’angolo
visuale prescelto, sarà caratterizzato sia come “né essere né non essere”, sia, conferendo positività di
nome a questa espressione, come l’”opinabile”, τὸ δοξαστόν, – ciò di cui la δόξα è, in senso specifico,
facoltà, δύναμις» (G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., pp. 24-25).
45 Ossia tutti quegli enti che sono soggetti al divenire.
46 PLATONE, Resp., 478 D – E.
47 Emanuele Severino ha sostenuto, molto risolutamente, come il significato che in questo passo della
Repubblica debba essere attribuito a questo avverbio greco non sia quello di «contemporaneità»
(come, dice Severino, probabilmente esso possiede in ARISTOTELE, Metafisica, 1005 B 19-20) ma
quello di «inseparabilità»: «ἅμα indica l’inseparabilità dei due (l’essere e il niente), tra i quali la cosa è
indecisa nel suo oscillare tra l’uno e l’altro. […] L’ἐπαμφοτερίζειν (l’oscillante) è un dibattersi (ἐρίζειν)
tra l’essere e il niente (ἐπὶ τὰ ἀμφότερα) proprio perché non è contemporaneamente l’uno e l’altro:
οὔτ᾿ ἀμφότερα. Il dibattersi è il divenire della cosa. Dove la cosa, insieme (ἅμα), è e non è, nel senso
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
A proposito degli ultimi tratti del discorso platonico appena richiamati, Sasso
afferma subito che codesto discorso a riguardo della δόξα sia come pervaso da un
«equivoco»48, che ne caratterizza in profondità il tessuto argomentativo. La domanda
a cui deve essere dedicata particolare attenzione è per Sasso la seguente: «Che cosa è
infatti il “né essere né non essere” in cui τὸ δοξαστόν, l’opinabile, consiste (e a cui,
come specifica δύναμις, la δόξα si riferisce)? Che cosa è τὸ ἀμφοτέρων μετέχον, τοῦ
εἶναι τε καὶ μὴ εἶναι? Che cosa è questo “partecipante di entrambi, dell’essere e del
non essere”, – questo μετέχον, appunto, che non potrebbe a giusto titolo (ὀρθῶς)
esser ritratto o con l’uno o con l’altro nome?»49. Il primo elemento critico che Sasso
viene ad indicare a proposito di questo μετέχον, ossia dell’ἐπαμφοτερίζειν, per meglio
delinearne la fisionomia è che:
se, in altri termini, si assumesse che, in quanto tale, l’«oscillante» e
«ambivalente» oscilla in sé medesimo, è, nel suo essere ambivalente, ambivalente, e
non di meno «è» l’oscillante e l’ambivalente, ecco allora che fra il suo «oscillare», il suo
essere ambivalente e il suo «è» verrebbe a porsi un’identità che, invece, è impossibile
porre. È evidente infatti che, nel suo «essere» l’oscillante, questo è, e coincide con,
l’intero ambito dell’oscillare, e, per conseguenza, non oscilla; ed è altresì evidente che se
per contro oscillasse, necessariamente oscillerebbe in un ambito esso stesso, a sua
volta, e con pari intensità, non oscillante.50
Il punto qui toccato da Sasso è di estrema importanza e riguarda la natura, la
φύσις, dell’oscillante. La quale natura, se è tale, rimane sempre identica a sé e non
oscilla in sé medesima. Ammesso quindi, e non concesso, che l’oscillante oscilli
dall’uno all’altro dei due estremi (ἄκρα) e che di essi sia quindi l’«intermedio»
(μεταξύ)51, ammesso e non concesso che «passi» dall’essere al non essere e viceversa,
è pur vero che all’interno di questo passaggio l’oscillante non «passa», non oscilla, ma
«sta». Nel suo oscillare l’oscillante non oscilla in se stesso, ma al contrario coincide
che, nel divenire, l’essere e il non essere sono inseparabili – e non nel senso che, nel divenire, la cosa
sia e non sia contemporaneamente» (E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, cit., p. 416).
48 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 25.
49 Ibid.
50 Ibid.
51 Sasso ha anche parlato, a proposito del modo in cui la δόξα viene presentata in questo passo
platonico, di «indecisione tonale», vale a dire di un «interno oscillare alla ricerca di un assetto non
conseguibile», e quindi «l’orientarsi verso la verità per, subito dopo, convergere sull’errore. […] Se la si
prendesse come una sorta di μεταξύ fra i puri opposti del vero e del falso, o di intermedio (come
avviene, in Kant, per lo schema) fra la spontaneità intellettuale e la ricettività sensibile, per questa via
la doxa verrebbe a infrangere il principio del terzo escluso. Sarebbe infatti una sorta di terzo incluso, in
virtù del quale gli opposti si rivelerebbero contrari» (G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 31). In altra
sede Sasso si è anche soffermato ad analizzare la struttura di un particolarissimo, e assai celebre,
esempio di μεταξύ platonico: vale a dire il concetto di «istante» (ἐξαίφνης) così come si presenta in
Parm., 156 D 6 – E 3. A tal proposito cfr. G. SASSO, Tempo, evento, divenire, cit., pp. 140-149.
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sempre, pienamente e perfettamente, con sé. È immobile, si potrebbe dire, nel suo
continuo e incessante mutamento; e proprio coincidendo sempre con sé nel suo
perenne mutare non può che essere perennemente identico a sé e quindi,
paradossalmente, non mutare affatto. Il secondo aspetto critico mostrato da Sasso
riguarda specificamente il modo in cui Platone viene a parlare del «non essere». In
un passaggio centrale Sasso rileva che «se, come qui del resto, eleaticamente, Platone
tiene fermo, il “non essere” non è ed è impossibile che sia52, come “essere” tuttavia lo
si prenderebbe, non come “non essere”, qualora si seguitasse a pensare che, con
l’essere al quale si oppone, costituisca uno dei due termini oscillando fra i quali
l’opinabile trova il suo “spazio” e la δόξα si rivela come la sua specifica δύναμις»53. Il
punto qui toccato da Sasso è di importanza decisiva, e riguarda la celebre aporia del
nulla, a cui in precedenza si è già fatto riferimento. A proposito di ciò, devono venir
subito riportate le parole tramite le quali la questione relativa al nulla e alla sua
«aporia» toccano il punto di maggior problematicità; vale a dire quando, nel Sofista,
il Forestiero d’Elea rivolgendosi a Teeteto dice che «Se si vorrà parlare [del nulla] in
maniera corretta, non bisogna definirlo né come uno né come molteplice, anzi, non lo
si deve nominare affatto, perché anche con questa espressione “lo” verrebbe ad essere
designato come una specie di unità»54. Nel momento in cui il nulla viene inserito
all’interno di un discorso, qualunque esso sia, lo si perde come nulla55. Parlando del
nulla non gli si può che conferire una, seppur minima, realtà, ma così facendo non
«lo» si riesce propriamente ad afferrare. Anche nel momento in cui si cerca di negarlo
affermando, per esempio, che «il nulla non è»; anche qui il nulla acquisisce il posto di
soggetto in una proposizione, che in quanto tale «è» e «non è nulla». Appena il nulla
entra, per così dire, in un qualche discorso viene «entificato» 56, «ontologizzato»57, gli
Cfr. PLATONE, Resp., 478 B – C. Ma a proposito di ciò cfr. in particolar modo Sofista, 237 B – 239 A.
G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 26.
54 PLATONE, Soph., 239 A.
55 Perspicuo, dunque, il rilievo di Gianni Carchia a riguardo di ciò: «Il λέγειν è il limite invalicabile
contro cui s’infrange la posizione di un non-essere inteso in senso assoluto. […] Qualunque
concettualizzazione e individuazione linguistica del non-essere è, comunque, già attribuzione di essere,
che relativizza e toglie qualunque posizione assoluta. È la stessa struttura grammaticale del λόγος a
porre, in ogni caso, la presenza dell’essere» (G. CARCHIA, La favola dell’essere. Commento al Sofista,
Macerata 1997, p. 59). È però opportuno precisare un punto che potrebbe portare a fraintendimenti,
riguardante la considerazione del non essere, non come «assoluto», ma come «relativo». Riducendo il
ragionamento all’essenziale, risulta evidente che per pensare il non essere come relativo, e cioè «non
assoluto», viene ad essere necessario pensare non solo il non essere «assoluto», ma anche la
differenza, assoluta e non relativa, che distingue il non essere relativo da quello assoluto. Cfr. in
proposito il §8 del primo capitolo di Essere e negazione, cit., pp. 65-69.
56 Termine usato da Emanuele Severino per indicare questa situazione concettuale. Cfr., per esempio,
E. SEVERINO, Destino della necessità, cit., pp. 53-63. Com’è noto l’aporia del nulla costituisce, anche
per Severino, uno degli aspetti più delicati e importanti delle sue riflessioni filosofiche (cfr. in
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si conferisce cioè una qualche realtà, ma così entificato e ontologizzato è «qualcosa» e
non «nulla».
Venendo ancora in seguito a svolgere alcune osservazioni sull’ultima
questione presa in esame, bastino le poche battute che per ora le sono state dedicate.
Nel concludere il §3, Sasso fa convergere in poche battute le conclusioni che possono
già essere tratte a proposito dell’analisi del passo platonico in questione: «In quanto
“è” l’oscillante, l’oscillante non può non coincidere con tutta intera la sua estensione;
ed è impossibile che, in sé stesso, oscilli. E nemmeno può dirsi che viceversa oscilli
nell’ambito costituito dagli “estremi” dell’essere e del non essere. Il non essere infatti
non è. Se non è, non è un estremo, ed è impossibile che, con l’essere, concorra a
costituire un ambito (che sia)»58. La conclusione qui tratta da Sasso, in stretta
continuità con tanto fin qui detto, è assai drastica e non lascia per altro molti dubbi
su quale sia l’ulteriore conseguenza da trarre da questa situazione concettuale. Ma è
ora necessario rilevare l’ultimo punto messo in rilievo da Sasso, contenuto nel §4. Il
punto su cui si deve ancora far cadere l’attenzione viene così riassunto dallo stesso
Sasso: «l’”oscillante” è tale “in quanto” partecipa dell’essere e del non essere, oppure
ne partecipa in quanto “è” l’oscillante?»59. L’elemento messo in evidenza all’interno
di questa domanda è di estrema importanza e riguarda più da vicino il fondamentale
concetto platonico di μέθεξις (pur essendo, quello di cui si è fin qui trattato, come un
presupposto necessario per la critica che da ora verrà ad investire più specificamente
il concetto platonico appena richiamato). Subito dopo aver formulato questa fatidica
domanda, Sasso viene meglio a chiarificare i termini della questione dicendo che
«Nel primo caso, se ne sia o no consapevoli, l’essere proviene all’oscillante dal suo
“partecipare” dell’essere e del non essere. Ma nel secondo è invece il suo “essere” di
oscillante che consente e rende possibile la sua partecipazione dell’essere e del non
particolar modo E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., cap. IV; ma anche ID., La morte e la terra,
Milano 2011, cap. V; ID., Intorno al senso del nulla, Milano 2013). Non è possibile in questa sede
discutere in modo appropriato né la «soluzione» data da Severino all’aporia del nulla, né tanto meno
tenere in adeguata considerazione il contesto teorico in cui tale «soluzione» è inserita all’interno del
suo discorso filosofico. A proposito di ciò, e anche a riguardo delle critiche mosse alla «risoluzione»
severiniana da parte dello stesso Sasso oltreché da Mauro Visentin e Massimo Donà, cfr. N. CUSANO,
Capire Severino. La risoluzione dell’aporetica del nulla, Milano – Udine 2011, di cui per altro non
condivido tutte le riflessioni (in particolar modo a riguardo di Sasso e Visentin).
57 Questo invece è il termine regolarmente adoperato da Sasso. Per non fare che un esempio cfr. G.
SASSO, Essere e negazione, cit., pp. 53 sgg.
58 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 28.
59 Ibid., p. 29. I problemi teoretici che sorgono da questo interrogativo sono i medesimi che Sasso tocca
nel §44, seppur inseriti in un contesto differente. Il tema che verrà toccato in quel paragrafo non
riguarderà infatti l’«oscillante» e il suo partecipare dell’essere e del non essere, ma riguarderà i quattro
«generi» e la loro partecipazione dell’«essere» nel Sofista.
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essere»60. Per quanto riguarda il primo caso, se si asserisse che l’oscillante è
l’oscillante in quanto partecipa e dell’essere e del nulla, come non notare il fatto che
«per» partecipare (dell’essere e del nulla) l’oscillante deve già essere costituito in sé
stesso prima della partecipazione? Se non fosse in alcun modo, come potrebbe
partecipare di qualcosa? E come potrebbe distinguersi, se non fosse in alcun modo,
dal non essere assoluto? Per partecipare di qualcosa, il partecipante, deve in qualche
modo già essere prima di parteciparne altrimenti non di partecipazione potrebbe
parlarsi ma, ammesso e non concesso che tale concetto abbia la possibilità di
costituirsi, di creazione61. Per quanto riguarda invece il secondo caso, non potrebbe
in alcun modo dirsi che l’oscillante si costituisca grazie alla partecipazione, in quanto
si ammetterebbe esplicitamente che l’oscillante sia tale prima della partecipazione
stessa. Ma allora per quale motivo, fa giustamente notare Sasso, si parla
dell’«oscillante» se esso è (e non oscilla) già pienamente costituito prima della
partecipazione? Quello che risulta da questa situazione concettuale è che la
partecipazione, la μέθεξις, tanto nel primo quanto nel secondo caso non può venirsi a
costituire.
Come viene a ribadire Sasso, da tali aporie «venir fuori è impossibile»62. Ma
senza insistere sul punto che, da solo, basterebbe a distruggere completamente la
possibilità del costituirsi del μεταξύ, e toccando un aspetto per ora ignorato, potrebbe
chiedesi: che rapporto intrattiene l’ἐπαμφοτερίζειν con il tempo? Nel rispondere a
questa domanda, Sasso lascia qui intravvedere uno degli aspetti più importanti di
tutta la sua riflessione più propriamente teoretica, di cui si avrà occasione di parlare
anche nelle battute finali di questo lavoro. Risulta necessario venire ad introdurre
l’elemento temporale in questa discussione in quanto si considera il «partecipare
insieme dell’essere e del non essere» nella forma della successione. Partecipare
all’essere e al non essere per successione vuol dire che nel momento in cui l’oscillante
partecipa dell’essere «non» partecipa del non essere, mentre quando viceversa
partecipa del non essere «non» partecipa dell’essere. Nell’analisi di questa situazione
concettuale Sasso viene subito a porre l’accento sul tratto a suo avviso più rilevante e,
forse, anche quello a cui si fa generalmente meno attenzione:
Ibid.
Su questo concetto Sasso è intervenuto, per criticarlo radicalmente, in più di un’occasione. Cfr.
Essere e negazione, cit., pp. 144-149 e Il logo, la morte, cit., pp. 181-184.
62 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 30.
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mentre la pretesa, o la tentazione, è di assegnare al «quando» la ragione per la
quale l’oscillante oscilla, e, dopo esser stato partecipe dell’essere, proprio del suo
contrario-opposto passa invece a partecipare, della ragione in virtù della quale al
«quando» si assegna la ragione dell’oscillare non si indaga il fondamento e non
inquisisce la natura: quasi che fosse ovvio, evidente, pacifico per tutti, attribuire al
«quando» e alla sua serie, – ossia al tempo, e alla sua potenza, l’oscillazione
dell’oscillante. Ma assegnare al tempo l’oscillazione dell’oscillante, ossia la ragione per
la quale questo oscilla, tutto è fuor che ovvio. Per quale ragione infatti, posto che in un
momento del tempo si trovi a partecipar dell’essere, l’oscillante dovrebbe passare al
momento opposto del non essere, e parteciparvi?63
È molto importante soffermarsi sulle parole appena riportate in quanto
proprio qui è presente il rilievo a cui ho fatto in precedenza riferimento. Secondo
Sasso affermare che la partecipazione dell’oscillante all’essere e al non essere avvenga
in tempi «diversi», e che quindi prima partecipi dell’essere (o del non essere) e poi
partecipi del non essere (o dell’essere) e così via in questa perpetua altalena dei
«quando», non solo non risolve la questione ma mostra di non cogliere la
problematicità della situazione concettuale che si è venuta a verificare nell’indicare
come «ovvio» ed «evidente» la successione dei «quando». Perché, insomma,
l’oscillante passa da un «quando» a un altro «quando»? Secondo Sasso l’elemento
costitutivo di questa argomentazione è il non riuscire a dare una spiegazione
categoriale, logica, o meglio filosofica, della successione dei «quando» credendo che
sia sufficiente attestarne fenomenologicamente il passaggio da uno all’altro. Ma sul
piano logico, sul piano del logo, questa attestazione non è nient’altro se non un
infondato presupposto, che non può perciò essere considerato valido64.
Tornando ora alla domanda che si sta cercando qui di considerare, vale a dire
quale sia il rapporto tra l’oscillante e il tempo, la risposta di Sasso è la riproposizione
di una critica già in precedenza fornita, vale a dire la completa coincidenza con sé
dell’oscillante nel suo oscillare: «Non è in effetti evidente che, per ciò stesso che per
intero lo si include nel tempo, proprio per questo non potrà anche farsi che, in questo
“stare nel tempo”, l’oscillante oscilli? Non è evidente che, se il suo “stare nel tempo”
esso stesso oscillasse, e fosse e perciò anche non fosse il suo “stare nel tempo”, non
potrebbe farsi e dirsi che l’oscillante “sta” nel tempo?»65. Ma nel caso in cui la
partecipazione che l’oscillante fa del non essere e dell’essere fosse intesa come
Ibid., p. 31.
Come detto questo è uno dei punti più delicati della riflessione filosofica di Sasso, in quanto si viene
qui a toccare la questione riguardante la radicale scissione tra mondo della δόξα e dell’ἀλήθεια, tra
controvertibilità del mondo e incontrovertibilità della filosofia, di cui si è parlato nell’introduzione.
Nella conclusione della presente indagine si tornerà a parlare di ciò.
65 Ibid., p. 32.
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contemporanea, non si uscirebbe così da questo nido di vipere? Non se ne uscirebbe
in quanto il problema maggiore verrebbe anche qui a riproporsi, vale a dire il
problema costituito dal concetto di «partecipazione del “non essere”». Avendo già
insistito su ciò, bastino queste poche battute: «per poter partecipare del non essere, il
non essere dovrebbe “essere”; e di nuovo, se così fosse, come potrebbe dirsi che
l’essere partecipa del non essere?»66. Insomma, dopo aver cercato di affrontare la
questione relativa all’ἐπαμφοτερίζειν da più di un angolo visuale al fine di indagare le
varie complicazioni che questo concetto racchiude in sé, la situazione che deve essere
tratta è che tale concetto (insieme a quello di μεταξύ67) non può in alcun modo
riuscire a costituirsi e si rivela perciò impensabile.
Dopo quanto è stato sin qui detto è venuto il momento di passare alla parte
centrale, e in tutti i sensi centrale, di questo paragrafo avente a oggetto l’analisi e la
critica fornita da Sasso di alcuni passi platonici. È necessario a questo punto prendere
in esame un luogo che per il nostro autore, oltre a far parte di uno dei «capolavori
della filosofia occidentale»68, d’accordo quindi in questo con Hegel69, costituisce
anche il punto più rilevante per un’analisi critica della dottrina platonica delle idee,
«una critica della dottrina delle idee che non si sarebbe potuto desiderare più
radicale, stringente e impietosa»70. Tale luogo è la prima parte, o «prologo», del
Parmenide71. Sasso viene a dare sin dall’inizio del sesto capitolo del suo libro sul
Sofista, interamente dedicato all’analisi della prima parte del Parmenide, il suo
giudizio a riguardo della critica (o meglio: autocritica) alla dottrina delle idee
condotta da Platone, per bocca di Parmenide, nella prima parte del dialogo 72. Sasso
Ibid., p. 33.
Per un ulteriore approfondimento a riguardo dei problemi intrinseci a pensare questo concetto, cfr.
G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 229 n. 118. In questa nota Sasso mostra come tale concetto
risulti inconcepibile per la funzione che gli si vuole assegnare, tanto che lo si consideri come
«intermedio», tanto che lo si consideri all’opposto come «ambito includente» tra realtà fra loro
opposte.
68 G. SASSO, La fedeltà e l’esperimento, cit., p. 69.
69 Cfr. G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, Frankfurt am Main 1970, p. 66.; trad. it.,
Fenomenologia dello spirito, tr. E. De Negri, Firenze 1973, 19793, I, p. 59, e ID., Lezioni sulla storia
della filosofia, R. Bordoli, ed., Roma – Bari 2009, p. 265.
70 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 91.
71 Cfr. PLATONE, Parm., 127 D 6 – 135 C 4. Per quanto riguarda la «struttura» interna di questo dialogo
cfr. le indicazioni di F. FRONTEROTTA, Guida alla lettura del “Parmenide” di Platone, Roma – Bari
1998, pp. 9-24, e il § 4 dell’Introduzione dello stesso Fronteotta al dialogo in PLATONE, Parmenide, cit.,
pp. xx-xxvii.
72 Non essendoci qui l’intenzione, come per altro già indicato, di seguire tutti i fili problematici presenti
in questo libro di Sasso, risulta però opportuno indicare quale sia il «ruolo» che all’interno del libro
viene ad avere questa sua digressione riguardante la prima parte del Parmenide. La questione
riguardante la μέθεξις non è presente allo stesso modo nel Parmenide e nel Sofista, in quanto i
problemi che Platone affronta nei due dialoghi a riguardo di questa tematica non sono i medesimi. Nel
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considera, come già detto, questo luogo platonico e più in generale questo dialogo, un
«capolavoro», ed è inoltre dell’opinione che le critiche mosse da Platone a «se stesso»
nella prima parte del dialogo siano oltreché «autentiche» anche assai «serie», e che
questa parte del Parmenide debba quindi venir considerata come una mirabile e
rigorosa analisi filosofica e non «un elegante e ironico gioco concettuale»73. Per
questi motivi Sasso ritiene che al dramma espresso dalle parole con cui Parmenide
conclude la prima parte del dialogo74 non ci possano essere risposte di tipo
consolatorio, e che non volendo fare a meno della teoria della partecipazione
(μέθεξις) non si potrebbe in alcun modo evitare la distruzione della filosofia stessa:
È vero infatti che, in questo luogo Parmenide dice che, senza teoria delle idee, la
dialettica e, in ultima analisi, la stessa filosofia tramonterebbero; ma, in concreto, non
produce un solo argomento che valga a mostrare la via del loro vittorioso riaffermarsi.
Non è vero, dunque, quel che da varie parti, con alquanta grossolanità, si è affermato: e
cioè che, alla fine, dalle critiche impietose che le erano state rivolte la teoria delle idee
riemerge invincibile. Vero è piuttosto che ad essere riaffermata è soltanto la sua
«esigenza»; che è, per altro, esigenza, non (che sarebbe assurdo) della teoria criticata e
confutata, ma di una ripensata nel suo fondamento; di una teoria della quale la critica
stessa rivolta alla vecchia concezione delle idee pone, appunto, l’esigenza, senza, d’altra
parte (non è infatti che un’esigenza), saperne fornire la positiva tessitura logica.75
È noto che dopo la breve ma assai vivace discussione svoltasi tra Zenone e
Socrate76 e dopo aver quest’ultimo esposto, con ὁρμή, i suoi argomenti a favore della
teoria delle idee77, prese la parola Parmenide, il quale toccò immediatamente il punto
centrale della disputa chiedendo come prima cosa a Socrate: «sei stato tu a dividere
nel modo che dici, separando da una parte certe idee in sé e dall’altra invece le cose
che ne partecipano?»78. Sono qui evocati entrambi i termini che stanno al centro di
Parmenide il problema riguarda la «partecipazione» che le cose (empiriche e transeunti) fanno delle
idee (immutabili ed eterne), mentre nel Sofista si discute maggiormente della «partecipazione» tra i
cinque γένη (essere, identico, diverso, moto e quiete). Il problema della partecipazione che in questa
parte del Parmenide viene a imporsi tra idee e cose, ha per altro una forte analogia con il rapporto che
sarà presente nel Sofista tra l’«essere» e gli altri quattro «generi». Costituendo quindi la μέθεξις una
questione essenziale anche nel più tardo Sofista, è necessario per Sasso seguire da vicino le critiche che
a questo concetto vengono avanzate dallo stesso Platone all’inizio del Parmenide per poter seguire poi
con più rigore l’esame di quel dialogo. Cfr. comunque a proposito di ciò G. SASSO, L’essere e le
differenze, cit., pp. 92-94 e 128-131, oltre a F. FRONTEROTTA, Guida alla lettura del “Parmenide” di
Platone, cit., pp. 38-43.
73 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 92. A proposito di ciò cfr. inoltre Ibid., pp. 223-224, n. 93.
74 «Che farai allora a proposito della filosofia? Dove ti volgerai, se queste cose restano ignorate?» (Τί
οὖν ποιήσεις φιλοσοφίας πέρι; πῇ τρέψῃ ἀγνοουμένων τούτων;) (Parm., 135 C 5-6).
75 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., pp. 91-92.
76 Cfr. PLATONE, Parm., 127 D 6 – 128 E 4.
77 Cfr. Ibid., 128 E 5 – 130 A 2.
78 Ibid., 130 B 2-3. Pur sviluppando il discorso in altro senso rispetto a Sasso, cfr. su questo passo le
riflessioni di M. CACCIARI, Dell’Inizio, Milano 1990, pp. 61-68.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
questa prima parte del Parmenide: separazione (χωρισμός) e partecipazione
(μέθεξις). Il rapporto tra questi due concetti costituisce, come noto, il problema
centrale della teoria platonica delle idee. Poco dopo questo punto, che rappresenta
l’inizio della disputa tra il vecchio Parmenide e il giovane Socrate, prende avvio la
riflessione critica da parte di Sasso. Il luogo specifico da cui il nostro autore parte è
costituito dalla domanda che Parmenide pone a Socrate dopo aver quest’ultimo
risposto affermativamente ad una precedente domanda di Parmenide che gli
chiedeva se fosse dell’opinione che ci siano certe idee di cui le cose, partecipandone,
traggono da loro il nome. La domanda che così viene ad imporsi è: «ciascun oggetto
che partecipa partecipa dell’intera idea o di una parte? O sarebbe possibile qualche
altro modo di partecipare al di fuori di questi?»79. Facendo esplicito riferimento a
questa e alla domanda precedentemente ricordata, Sasso fa iniziare le sue riflessioni
interrogandosi sul significato rivestito dall’atto partecipativo oltreché sulla sua
specifica funzione e struttura interna. L’elemento che viene subito messo in risalto, e
che verrà costantemente riproposto per tutto il capitolo a testimonianza della
centralità che riveste per Sasso, è la ben netta distinzione che deve ravvisarsi tra le
espressioni «partecipare di» e «identificarsi con». Essendo questo un punto di
estrema delicatezza e importanza è opportuno riportare integralmente la riflessione
svolta da Sasso. Il quale parte dalla considerazione che l’atto partecipativo,
se è un atto, non potrà essere in sé stesso molteplice. E non di meno è un atto
partecipativo: tale, dunque, che proprio perché partecipa dell’unità, non di questa, nella
sua intera estensione, può in realtà partecipare, ma, appunto, per ciò stesso che ne
partecipa, di una sua parte soltanto; che se, al contrario, dell’intera sua estensione
partecipasse, non che ne partecipa sarebbe giusto dire, bensì piuttosto che vi coincide al
punto che, con la teoria che la definisce, ogni differenza di partecipante e partecipato
svanirebbe, e di partecipazione non potrebbe in alcun modo parlarsi.80
Come si può facilmente notare, i punti toccati in queste linee da Sasso
riguardano direttamente il problema posto da Parmenide in 131 A 4-5. Se partecipare
dell’idea da parte della cosa non può in alcun modo voler dire che la cosa viene ad
identificarsi all’idea (o il contrario), e pretendere quindi che «dopo» l’atto
partecipativo si continui a mantenere una chiara e netta differenza tra idea
(partecipata) e cosa (partecipante), la conclusione conseguente a questa situazione
concettuale non può che essere quella appena rilevata da Sasso. Se la cosa partecipa
79
80
Parm., 131 A 4-6.
G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 96.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
dell’idea (e partecipandone non le si identifica), proprio in quanto ne partecipa, non
dell’idea può partecipare ma soltanto di una sua parte. Ma partecipare di una parte
dell’idea, non è partecipare dell’idea (intesa nella sua interezza) 81. Da questo angolo
visuale è possibile radicalizzare ulteriormente il punto critico appena toccato, dicendo
come la teoria stessa della μέθεξις si rivela strutturalmente e intrinsecamente
autocontraddittoria, in quanto «nel suo stesso esercizio, nega quel che afferma, – e
cioè che sia e possa essere l’idea (l’idea presa, com’è necessario, nella sua intera
estensione e nella sua unità) “ciò di cui” esso, l’atto partecipativo, partecipa» 82.
Sasso nel proseguire la sua indagine (sottolineando che se la «cosa»
partecipasse non di una parte dell’idea ma dell’idea presa nella sua totalità, la
partecipazione, e il relativo «atto partecipativo», non sarebbe tale ma si rivelerebbe
come un’assoluta coincidenza tra cosa e idea), viene a rilevare un ulteriore punto
critico a riguardo della μέθεξις: «Assunta come oggetto, o termine, di partecipazione,
la “parte” starebbe, nei confronti di ciò che ne partecipa, nella posizione del tutto:
sarebbe bensì, rispetto al tutto, la parte, ma sarebbe anche, rispetto al partecipante,
un tutto»83. Il punto toccato con grande rigore e chiarezza in queste ultime battute è
di grandissima importanza, e riguarda in modo specifico lo statuto dell’«oggetto»
determinato della partecipazione che di volta in volta si viene ad indicare. Se
partecipare non della parte ma della totalità equivale ad identificarsi (si lascino ora
da parte i problemi sottesi al concetto di «identificarsi con»84) ad essa, e quindi a non
Come è noto dopo la domanda contenuta in 131 A 4-5 Platone fa cadere il discorso proprio su questa
questione, prima di venire ad introdurre la prima formulazione dell’argomento detto del «terzo uomo»
(cfr. Parm., 131 A 8 – E 9). Si aggiunga inoltre che «Due sono le ipotesi formulate nel testo (131 A 4 – E
6): o il soggetto della partecipazione – le cose empiriche – partecipa “dell’intero genere” (ὅλου τοῦ
εἴδους) o partecipa soltanto di una sua “parte” (μέρους). Ciò che si traduce come segue: o l’idea è
interamente presente in ciascuna delle cose che ne partecipano o si divide in parti, presenti, ognuna, in
ciascuna delle cose ‘partecipanti’» (F. FRONTEROTTA, Guida alla lettura del “Parmenide” di Platone,
cit., p. 39). Rimanendo sempre su questo punto, ossia sulla differenza che per la teoria della
partecipazione deve essere mantenuta tra «partecipare/andare a far parte di» e «identificarsi con»,
secondo Sasso il punto di maggior consapevolezza raggiunto da Platone su tale questione si ritrova in
Parm., 158 A 3-5 (cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., pp. 232-233 n. 148).
82 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 97. Nel prosieguo di questa stessa pagina Sasso viene a
cogliere e a sviluppare un’ulteriore considerazione a riguardo di quanto è stato appena detto. Nel
soffermarsi sul concetto di «partecipare della parte», mostra come tale partecipazione risulti essere di
per sé stessa impossibile e per una ragione ulteriore a quella rilevata poc’anzi. Il motivo è determinato
dal fatto che per partecipare della parte si assume, implicitamente, che il partecipante possa e sia in
grado di avere come oggetto di partecipazione, non la parte ma la totalità. La parte infatti, in quanto
tale, è parte di un tutto, e se questo non è presente in modo concreto nell’atto partecipativo, nemmeno
quella può esserlo.
83 Ibid., p. 98.
84 La proposizione, infatti, indica in quanto tale la differenza. Cosicché la condizione di possibilità
affinché qualcosa si «identifichi con» qualcosa, è la differenza dei qualcosa. Pertanto è la differenza dei
qualcosa la condizione di possibilità del loro identificarsi, ed è qui che sorge il problema che affligge
81
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
parteciparne, è lecito far riferimento alla partecipazione che la cosa fa della parte e
non della totalità dell’idea affinché possa permanere una differenza tra cosa
partecipante e idea partecipata. Ma è proprio qui che le difficoltà vengono per così
dire a moltiplicarsi e a complicarsi, rendendo impossibile il concetto stesso, e non
una sua particolare declinazione, di μέθεξις. Come è stato detto, se la cosa
partecipasse di una parte dell’idea, nell’atto partecipativo la parte verrebbe ad assume
il volto del «tutto» e non della «parte», cosicché le difficoltà che si cercava di
superare vengono nuovamente rincontrate. Ma a questo punto l’aspetto della
questione che deve essere ben messo in risalto e su cui è necessario prestare
attenzione riguarda la conseguenza dei ragionamenti or ora svolti, che è, se così può
dirsi, ancor più distruttiva nei confronti della teoria della partecipazione. Lo sguardo
deve cadere sull’«oggetto» della partecipazione, il quale da un lato, nel momento in
cui viene indicato come l’oggetto specifico della partecipazione, viene sempre a valere
come un «tutto» rispetto al partecipante e non può pertanto costituirsi come il vero e
proprio oggetto della partecipazione per i motivi già visti; da un altro lato, essendo
impossibile «partecipare del tutto», l’oggetto della partecipazione regredisce sempre
«al di qua del suo limite costitutivo»85 per potersi costituire come tale. Ma se per
potersi costituire come oggetto della partecipazione codesto «oggetto» deve
costantemente regredire al di qua di sé, la conclusione è che di costituirsi come
oggetto della partecipazione gli è assolutamente impossibile.
Tali problemi si ripresentano, pur con diversa accentuazione, nel passo del
Parmenide immediatamente successivo a quello fino ad ora preso in considerazione,
ossia in 131 A 8-9: «Ti pare dunque che l’intera idea, che è una, sia in ciascuno dei
molti oggetti o come?»86. La questione che qui viene a presentarsi ha al proprio
centro la differenza tra l’«unità» dell’idea e la «molteplicità» degli oggetti in cui l’idea
dovrebbe passare. Subito, dopo aver posto questa fatidica domanda, Platone rileva
come il problema che affligge questa situazione concettuale è determinato dal fato
che, se l’idea («una») fosse in ciascuno degli oggetti («molti») che ne verrebbero così
l’espressione «identificarsi con»: appena si dice per esempio che a si identifica con b, non si riesce ad
indicare la (appunto) loro identità ma soltanto la loro differenza.
85 Ibid., p. 98. A proposito di ciò si vedano i tre esempi, e le ulteriori complicazioni in essi rinvenibili,
illustrati da Platone in Parm., 131 C 9 – E 2. Tali esempi intendono dimostrare l’impossibilità di
un’eventuale risposta affermativa alla domanda posta da Parmenide a Socrate in 131 C 9-10:
«Consentirai dunque a dire, Socrate, che l’idea unitaria si divide per noi veramente in parti (τὸ ἓν εἶδος
ἡμῖν τῇ ἀληθείᾳ μερίζεσθαι) e sarà ancora una? (καὶ ἔτι ἓν ἔσται;)». Per altro è lo stesso Socrate, subito
dopo essersi sentito rivolgere questa domanda, a sostenerne l’impossibilità (131 C 11).
86 Πότερον οὖν δοκεῖ σοι ὅλον τὸ εἶδος ἐν ἑκάστῳ εἶναι τῶν πολλῶν ἓν ὄν, ἢ πῶς;
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a partecipare, non si potrebbe non constatare il fatto che l’idea verrebbe ad essere una
e medesima presso di sé e, allo stesso tempo, presente nella sua interezza presso gli
oggetti che le sono separati (χωρὶς). Dal che è necessario ricavare che «essa stessa
verrà ad essere separata da se stessa»87. Il commento che Sasso assegna a questa
complicata situazione concettuale è tra i punti più significativi del capitolo del suo
libro qui in esame, ma direi dell’intero libro, per cogliere un aspetto centrale della sua
riflessione teoretica. Per la verità, chi sia in possesso di una qualche familiarità con i
testi teoretici di Sasso, può facilmente notare prima dello specifico commento che
Sasso viene a dare a questa questione un altro aspetto che si riscontra costantemente
non solo nei suoi testi teoretici ma anche nei suoi saggi e libri dedicati, come in parte
lo è anche questo su Platone, all’esegesi di filosofie altrui. Sasso caratterizza con
l’aggettivo «semifantastico» l’argomentazione che si verrebbe a dare se si dicesse che
pur passando l’idea negli oggetti «tutta intera» sono questi ultimi, grazie alla loro
molteplicità, a renderla «diversa da sé»88. «Semifantastico» significa che, secondo
Sasso, tale argomentazione non è in grado di farsi «concetto», di essere quindi
un’autentica argomentazione filosofica, ma rimane interamente prigioniera del
linguaggio che la esprime. Per tanto, una tale argomentazione, ha la propria ed
esclusiva validità solo all’interno di un orizzonte metaforico, semifantastico appunto,
ma in nessun caso in un orizzonte stricto sensu filosofico. La motivazione per cui tale
argomentazione è semifantastica e che se sottoposta al vaglio della filosofia non ha
alcuna possibilità di costituirsi, rivelando così il volto dell’autocontraddittorietà, è
data da Sasso nel commento qui sopra richiamato, che per la sua importanza
conviene riferire nella sua interezza.
La rigorosa determinazione del concetto che ora emerge richiede infatti altro; e
cioè che, moltiplicandosi negli oggetti e tuttavia rimanendo una, rimanendo una e
tuttavia moltiplicandosi negli oggetti (se infatti non rimanesse una, non potrebbe dirsi
che sia essa, l’idea, a moltiplicarsi negli oggetti), la diversità dell’idea dall’idea sia
concepita come pura diversità di identici, e dunque come non autentica diversità.
«Diversità di identici» nient’altro infatti significa che rapporto o nesso di identici; e,
dunque, identità: nei confronti della quale, come potrebbe dirsi che, posto che sul serio
ne siano penetrati, gli oggetti conservano la loro molteplicità e differenza? Non è forse
evidente che tutti, allo stesso modo, penetrati dall’idea (che in ciascuno immane nella
sua interezza), gli oggetti sono altresì non molteplici, ma identici: identici all’idea, che è
identica, e identici l’uno all’altro, dal momento che tutti, allo stesso modo, ne sono
penetrati?89
καὶ οὕτως αὐτὸ αὑτοῦ χωρὶς ἂν εἴη (Parm., 131 B 2).
G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 99.
89 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., pp. 99-100.
87
88
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Pur ritornando nella chiusura del presente lavoro ad un più approfondito
esame dei punti da Sasso toccati in questo passo, è necessario venire ora a svolgere su
di essi un breve commento, per avere una completa intelligenza delle critiche da lui
mosse a Platone. Se l’intera idea fosse presente in ognuno degli oggetti che ne
partecipano, la situazione che verrebbe a profilarsi sarebbe quella di un’idea che pur
«moltiplicandosi negli oggetti» rimarrebbe tuttavia «una» e che «rimanendo una» si
«moltiplicasse negli oggetti». Ma il punto centrale della riflessione di Sasso si
riscontra quando si dice che «la diversità dell’idea dall’idea sia concepita come pura
diversità di identici», e che per questo motivo la diversità non riesce a mostrare il
proprio volto. Ma cosa significa propriamente «diversità dell’idea dall’idea»? Per
comprendere questa espressione non bisogna perdere di vista, nel testo qui riportato,
la parentesi che la precede. Questa «diversità» dell’idea dall’idea è dovuta al fatto del
simultaneo rimaner una dell’idea (che se non rimanesse una e identica con sé, che
idea sarebbe?) e del suo moltiplicarsi in tutti gli oggetti che, così, ne partecipano. Ed
ecco che «moltiplicatasi» in tutti i diversi oggetti è diversa da sé (ma anche identica a
sé). Per questo stesso motivo Platone notava che «pur essendo una e identica, sarà al
tempo stesso insita nella sua interezza in molti oggetti che sono separati e così essa
stessa verrà ad essere separata da se stessa»90. Passando per tutte queste
considerazioni si giunge al tema più delicato toccato da Sasso, che riveste un posto
centrale, al di là dello specifico contesto in cui viene qui evocato, all’interno delle sue
riflessioni teoretiche. Il tema riguarda il concetto di «diversità degli identici». La
ragione per la quale la «diversità degli identici» non è vera diversità ma, anzi,
identità, non è tanto ravvisabile nel fatto che essendo identici non possono essere
diversi, ma in un ben più radicale e problematico motivo. Si ammetta
provvisoriamente che gli identici siano tra loro, l’uno dall’altro, diversi; la domanda
che insorge è allora: in che modo si presenta tale diversità? Cioè: in che modo gli
identici sono tra loro diversi? La risposta non può che essere che la differenza tra gli
identici è tra loro identica, non differente. Questo implica l’impossibilità che gli
identici siano effettivamente tali, e cioè gli identici e non, come a rigore accade che
«siano», l’identico. Infatti posto un identico e posto l’altro identico, la differenza che
li separa non può essere differente. La differenza è una relazione reciproca tra i
Parm., 131 B 1-2. Cfr. F. FRONTEROTTA, Guida alla lettura del “Parmenide” di Platone, cit., pp. 40,
77-81.
90
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differenti, e se non la si intende concepire in questo modo non di differenza ma di
altro si verrebbe a parlare. La reciprocità sta a significare che se, per esempio, a
differisce da b, nello stesso atto e secondo le medesime modalità, b differisce da a. Ma
come non vedere in questo caso che l’autentica differenza tra i due termini è
semplicemente detta, pretesa, assunta prima di essere provata e non, per l’appunto,
dimostrata? Quello che deve trarsi da queste analisi è che è il concetto stesso di
differenza ad essere investito e travolto da problemi insormontabili91.
Ciò che in definitiva risulta palese dalle conseguenze tratte dallo stesso
Platone a proposito della μέθεξις e degli ulteriori rilievi di Sasso, è l’impossibilità che
le idee comunicandosi ai molteplici oggetti possano rimanere ciascuna in sé stessa
«una», e che quindi né «per la parte» né «per il tutto» le cose riescano a partecipare
delle idee92. Dopo questo passaggio si giunge così alla prima delle due formulazioni
del τρίτος ἄνθρωπος, del «terzo uomo», in cui Platone sceglie l’idea di «grandezza»
come esempio su cui discutere. La prima formulazione, pur essendo molto breve93,
contiene almeno tre questioni da tematizzare e chiarire per poterne cogliere appieno
il significato, ma prima di passare a ciò è necessario sottolineare un aspetto che fino a
questo momento è rimasto in ombra. Tale aspetto costituisce, per così dire, la
premessa non solo teoreticamente necessaria ma anche contestualmente accorta per
una piena comprensione dell’argomentazione platonica. Le idee sono «separate»
dalle cose, e nell’essere così separate sono «perfette», al contrario delle cose che nella
loro imperfezione e finitezza sono sin tanto che sono e hanno per tanto il carattere
della contingenza, di contro alle idee che posseggono quello dell’eternità. L’eternità
delle idee implica il loro essere «ferme, e cioè extratemporali, sottratte alla vicenda
dell’essere e del non essere» e proprio per questo «dotate di intrinseca perfezione» 94.
Per questi motivi il tentativo di Platone, tramite la teoria della μέθεξις, è di far sì che
«le idee costituiscano il criterio in forza e in ragione del quale l’esperienza, o, se si
preferisce, il mondo del divenire e della δόξα, cessa di essere il puro fluire di ciò che
non ha regola per conformare sé medesimo al segno dell’intelligibilità razionale»95.
Sasso fa giustamente notare che, mentre per la dottrina della μέθεξις la condizione
Al di là delle innumerevoli riflessioni e analisi che si potrebbero fare su questo punto, per rimanere
in aderenza al tema e al contesto che si sta qui analizzando, bisogna dire con veemenza che senza
distinzione (tra idee e cose) la teoria della μέθεξις non può venirsi a costituire (cfr. G. SASSO,
Fondamento e giudizio, cit., p. 18).
92 Cfr. Parm., 131 E 3-5 oltre a G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., pp. 100-103.
93 Cfr. Parm., 132 A 1 – B 2.
94 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 105.
95 Ibid., p. 104.
91
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della «separazione» tra idee e cose è proprio ciò che garantisce alle idee di essere
ferme e perfette in loro stesse e imprimere così alle cose, tramite la partecipazione, il
tratto della razionalità; per l’argomento del «terzo uomo» tale separazione è proprio
il «vizio logico» che non consente alla teoria della μέθεξις di uscire dalle aporie già in
precedenza illustrate e quindi, in ultima analisi, di riuscire a costituirsi96. Il quadro
che così si presenta è quello di una radicale «differenza ontologica» tra mondo ideale
(perfetto ed eterno) e mondo empirico (imperfetto e transeunte) che, e ciò deve
essere ribadito, costituisce allo stesso tempo per Platone il problema da risolvere
(determinato dall’assoluta irrazionalità del mondo empirico nel caso in cui questo
fosse «lasciato a se stesso») e la condizione di possibilità per la sua risoluzione (se le
idee non fossero in sé stesse ferme, razionali e perfette, quindi «separate», non
sarebbero le idee).
La prima delle tre tematiche o il primo dei tre problemi affrontati
dall’argomento detto del «terzo uomo» è contenuta nella prima 97 delle tre
affermazioni che Parmenide svolge riferendosi a Socrate. La questione che in queste
parole di Parmenide si manifesta è tutt’altro che secondaria o ininfluente a riguardo
del rapporto che «idee» e «cose» intrattengono tra loro. Ciò che in queste prime linee
dell’argomento del «terzo uomo» sorge, e che viene a costituire una sorta di
«premessa» a quanto Parmenide verrà a dire in seguito, può ben essere detto il
«rischio del circolo vizioso»98 determinato da un’immediata «idealizzazione del
molteplice empirico»99. Come risulta palese dal passo contenuto in 132 A 3-4, per
Il motivo per cui Sasso sottolinea questa incompatibilità tra ciò che è necessario alla μέθεξις per
potersi costituire e ciò che viene affermato tramite l’argomento del «terzo uomo», è anche per dare
prova di come, dal suo punto di vista, l’autocritica di Platone presente in questa prima parte del
dialogo sia autentica e non meramente «ironica»; e proprio per questo motivo il carattere essenziale di
questo dialogo viene ad essere il «dramma» e non lo «scherzo»: cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze,
cit., pp. 224-225 n. 96.
97 «Io sono del parere che tu creda all’esistenza di ciascuna idea unitaria perché parti da questo:
quando ti sembra che molte cose siano grandi, forse ti pare che esista un’unica identica idea se volgi lo
sguardo su tutte quelle cose e da ciò ritieni che il grande sia uno (ἓν τὸ μέγα)» (Parm., 132 A 1-4).
98 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 113. Che la μέθεξις sia affetta da un «circolo vizioso» era già
stato espressamente affermato da Sasso nel suo saggio Luigi Scaravelli e il «Sofista» di Platone
(1987), ora raccolto in Filosofia e idealismo, III, De Ruggiero, Calogero, Scaravelli, Napoli 1997, pp.
573-620 (cfr. in particolare le pp. 576-587). Tale giudizio veniva lì formulato in riferimento a Soph.,
245 B-C. A proposito di questo luogo del Sofista cfr. ora G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., §12.
Valuta assai diversamente E. BERTI, Elementi di ontologia nel Parmenide e nel Sofista, in M.
BIANCHETTI – E.S. STORACE, ed., Platone e l’ontologia. Il Parmenide e il Sofista, Milano 2004, pp. 1522, il quale reputa che in quel passo del Sofista sia presente una valida e autentica confutazione
dell’eleatismo.
99 Ibid., p. 228 n. 113. Pur riferita ad una problematica leggermente differente da quella che vuole qui
essere esaminata, in questa nota Sasso riporta l’osservazione, a suo giudizio assai acuta e perspicua, di
ARISTOTELE, Metaph., 997 B 12. Essendo l’argomentazione aristotelica e la conclusione a cui essa
giunge di grande rilievo per l’argomento che si sta affrontando, riporto l’intero periodo del III libro
96
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riuscire ad inferire l’esistenza dell’idea della grandezza è pur sempre dallo spettacolo
delle cose grandi che si parte. Ma così facendo si rovescia l’ordine logico-gnoseologico
imposto da Platone, secondo il quale si può dire e pensare che una cosa è grande in
quanto si è già in possesso dell’idea di grandezza, mentre qui è l’immediato
manifestarsi
delle
cose
(empiriche)
che
conduce
all’affermazione
dell’idea
corrispondente. Il centro del problema che viene a porsi è così indicato da Sasso: «il
primo tempo dell’argomento postula qualcosa come uno sguardo che, scevro ancora
del criterio atto a far riconoscere nelle cose grandi la grandezza per la quale sono tali,
a tal punto tuttavia per un altro verso deve non esserne scevro che dalle cose grandi
deduce l’idea, – quella stessa che, certo, mai riuscirebbe a dedurre se non la
possedesse alla radice dell’atto mediante il quale, appunto, la deduce»100. Passando al
secondo problema dell’argomento, corrispondente alla seconda riflessione svolta da
Parmenide101, si tocca il punto più radicale e importante per una compiuta critica alla
teoria della μέθεξις. Proprio su questo punto l’analisi di Sasso, insieme alla sua
acutezza ed originalità esegetica, tocca il suo culmine. Il significato che in genere
viene attribuito all’argomento del terzo uomo, culminante nella terza e ultima
affermazione di Parmenide102, è quello della celebrazione dell’impossibilità della
teoria delle idee dovuta alla figura del «regresso all’infinito» introdotta in chiusura
dell’argomentazione; e proprio tramite tale regressus, vale a dire tramite
l’impossibilità di trovare un saldo fondamento per la teoria delle idee, verrebbe alla
luce nel modo più limpido l’impossibilità stessa della μέθεξις. L’analisi e la
della Metafisica in cui Aristotele nota proprio come «i sostenitori delle idee» non facciano in realtà
altro che attribuire agli oggetti sensibili i caratteri dell’eternità e dell’incorruttibilità: «la sua assurdità
maggiore [della dottrina dei sostenitori delle idee e degli enti intermedi] sta nel sostenere l’esistenza di
certe entità che trascendono quelle che sono nell’universo, e nell’affermare che tali entità hanno le
stesse caratteristiche di quelle sensibili, tranne che esse sono eterne e queste, invece, sono corruttibili.
E invero, quando essi affermano l’esistenza di un uomo-in-sé […], si comportano presso a poco allo
stesso modo di quelli che pur dicono che gli dèi esistono, ma li considerano come aventi forme umane:
difatti, come costoro non hanno saputo concepire altro se non uomini eterni, così essi concepiscono le
idee solo come enti sensibili eterni» (Metaph., 997 B 5-12). A proposito di ciò, e tenendo ben fermo il
punto problematico qui toccato, è interessante notare come non sia di poco conto per la teoria delle
idee il problema sottoposto da Parmenide a Socrate in Parm., 130 C 1 – E 4. La traduzione del passo
della Metafisica appena riportato è quella di Antonio Russo: ARISTOTELE, Metafisica, Roma – Bari
1982, 20028.
100 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 113.
101 «Ma il grande in sé (τὸ μέγα) e le altre cose grandi (τἆλλα τὰ μεγάλα), se analogamente con l’anima
volgi lo sguardo su tutte, non ti appariranno forse, a loro volta, un qualcosa di unitario (ἕν τι), un
grande in virtù del quale tutte queste cose appaiono grandi?» (Parm., 132 A 6-8).
102 «Farà allora apparizione un’altra idea di grandezza (ἄλλο ἄρα εἶδος μεγέθους ἀναφανήσεται), nata
accanto alla grandezza in sé (τὸ μέγεθος) e alle cose che partecipano di essa (τὰ μετέχοντα αὐτοῦ); e
sopra tutte queste un’altra ancora, in virtù della quale tutte queste saranno grandi. E così ciascuna
delle idee non sarà più una per te, ma illimitata molteplicità (ἀλλὰ ἄπειρα τὸ πληθος)» (Parm., 132 A
10 – B 2).
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
conseguente interpretazione di Sasso pur facendo, come ovvio, specifico riferimento
ai tratti dell’argomentazione appena indicati, si sviluppa in tutt’altra direzione a
riguardo del significato che secondo lui deve essere attribuito alla figura concettuale
del regressus in infinitum. Il problema centrale che deve essere analizzato, e che
costituisce il punto di unione della seconda e della terza affermazione di Parmenide, è
quello relativo all’«andare a far parte» delle cose grandi da parte dell’idea della
grandezza nel momento in cui si volge lo sguardo su entrambe. Questo «volgere lo
sguardo su entrambe» significa includere tanto le cose grandi quanto l’idea della
grandezza (e cioè ciò in virtù di cui le cose grandi sono appunto dette «grandi») in un
«qualcosa di unitario», vale a dire qualcosa che contenga dentro di sé tanto le cose
quanto l’idea. In realtà è proprio questo passaggio, questo convergere in un insieme
unitario da parte delle cose e dell’idea, che costituisce il problema teoretico più
rilevante presentato dall’argomento del terzo uomo. Il primo aspetto che deve essere
colto di questa situazione può essere notato nelle parole stesse utilizzate da Platone.
In un primo tempo sembra che, andate a far parte di un «qualcosa di unitario», tanto
le cose grandi quanto l’idea della grandezza non possano esser più distinte tra loro, in
quanto lo sguardo che contempla tanto le prime quanto la seconda è per entrambe lo
stesso e identico sguardo. Proprio a causa di ciò è richiesta l’apparizione di una
«nuova» idea di grandezza, in virtù della quale tanto le cose grandi quanto la
«prima» idea possano esser dette «grandi», e poi ancora un’altra idea nell’atto in cui
la «seconda» idea venga anch’essa inclusa in uno sguardo che stringa insieme lei, la
«prima» idea e le cose grandi. Et sic in infinitum. Successivamente però Platone
continua a distinguere le «cose grandi» dalla «prima» idea di grandezza chiamando
la seconda τὸ μέγεθος («grandezza in sé») e le prime τὰ μετέχοντα αὐτοῦ («cose che
ne partecipano»). Nell’insorgere, la nuova idea della grandezza, si trova dinanzi tanto
la prima idea quanto le cose che di quest’idea partecipano. I problemi che vengono
così a mostrarsi sono essenzialmente due. Il primo riguarda il potersi distinguere
della prima idea di grandezza dalle cose grandi, di cui però l’idea è andata a far parte.
Se si volge lo sguardo tanto alle cose grandi quanto all’idea di cui esse partecipano, e
così facendo si viene a formare un che di unitario in cui tanto le cose quanto l’idea
sono incluse, non ha alcun senso all’interno di questo ambito parlare di differenza tra
idea e cose, essendo necessario che ciò che in tale ambito è incluso sia affetto dallo
stesso grado ontologico. Il problema è in effetti proprio qui, ed è l’intenzione di
considerare l’idea che «va a far parte» delle cose grandi, da un lato sempre come
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
«idea», dall’altro come «cosa» tra le altre cose. Il secondo problema è determinato
dal fatto che, sorgendo, la nuova idea è chiamata a sanare la difficoltà che si trova di
fronte, e a ben guardare ciò che essa si trova di fronte è proprio la μέθεξις. La
«partecipazione» che però, attuata, non riesce ad essere ciò che vorrebbe (vale a dire
il meccanismo che permette all’idea di essere una e ferma ma allo stesso tempo di
conferire alla molteplicità delle cose la razionalità che altrimenti esse mai potrebbero
avere), ma anzi si rivela essere esattamente l’opposto, ossia il luogo di una inevitabile
«differenza ontologica»103. Il punto che costituisce la ragione dell’impossibilità della
teoria della partecipazione di essere ciò che pretende di essere, rivelandola così il
luogo della scissione e di una insanabile differenza, è determinato dalla pretesa di una
sorta di «sdoppiamento regressivo»104 dell’idea. Il «regresso all’infinito» non
rappresenta altro, secondo Sasso, se non «il simbolo della contraddittorietà
intrinseca all’assunto che, identica com’è a sé stessa, l’idea possa farsi “altra” da sé, –
passare nella cosa e riemergere come idea»105. L’elemento su cui Sasso fa cadere
l’attenzione, e qui sta oltreché la sua originalità esegetica anche il punto teoretico più
raffinato ed importante della sua critica, non è tanto la conseguenza a cui il
regressivo e incessante sdoppiamento dell’idea porta, ossia al vero e proprio regresso
εἰς ἄπειρον e cioè all’impossibilità di trovare in questo continuo processo un fermo e
stabile fondamento. Decisivo non è tanto il ripetersi continuo dello sdoppiamento
dell’idea, decisivo è lo stesso sdoppiamento. È questo il tratto autenticamente
contraddittorio, e perciò impossibile, che l’argomento del terzo uomo viene a
mostrare. Come Sasso fa giustamente notare, lo «sdoppiamento» dell’idea, all’interno
della sequenza argomentativa di Platone, è inevitabile; ma proprio tale inevitabilità è
pervasa al suo interno dalla contraddizione che la rende quindi schiettamente
impossibile106. La contraddittorietà è determinata dall’entrare a far parte, da parte
dell’idea della grandezza, del campo ontologico delle cose grandi; vale a dire il
passaggio che fa accedere l’idea nell’ambito ontologico delle cose grandi. Sasso parla
Cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 122. Ma questo veniva già rilevato in G. SASSO,
Filosofia e idealismo, III, cit., p. 587.
104 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 117.
105 Ibid., p. 118. In più di un’occasione Sasso si è soffermato sulla figura del «regresso all’infinito»,
indicando in esso una sorta di simbolo metaforico di ciò che concettualmente non può essere pensato
(cfr. G. SASSO, La verità, l’opinione, cit., pp. 148-149; ID., Fondamento e giudizio, cit., p. 84; ID., Il
logo, la morte, cit., pp. 30 e 402). Il motivo può ben essere sottolineato come esempio dell’attenzione
sempre mostrata da Sasso, e di grande rilievo per la sua riflessione teoretica, sulla distinzione tra ciò
che appartiene propriamente al «concetto» (o al regno, per così dire, della filosofia) e ciò che
appartenergli non può in alcun modo, non trattandosi altro che di una «metafora», la quale trova la
propria casa non nella filosofia, ma nel linguaggio.
106 Cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 116.
103
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
di «inevitabilità» dello sdoppiamento perché se si ammette questo passaggio, risulta
certo conseguente il (continuo e incessante) venirsi a formare di una nuova idea
«identica e altra», «altra e identica» dell’idea che è andata a far parte delle cose
grandi. Identica in quanto è sempre un’idea, con la stessa natura della precedente,
quella che si affaccia ora sulla scena; altra in quanto non è più la precedente idea
quella che ora può abbracciare il campo ontologico delle cose grandi e della (prima)
idea di grandezza, ed ecco appunto l’insorgere di una nuova (o altra) idea della
grandezza. Il problema strutturale è determinato dal passaggio, dal divenire dell’idea;
e l’elemento contraddittorio è proprio questo «primo» divenire, non i «successivi»107.
I successivi passaggi che rendono necessario un continuo sorgere di una nuova idea
non sono altro che l’esemplificazione dell’impossibilità costituita dal primo
passaggio, dal primo divenire dell’idea; non fanno altro che ripresentare il problema
che sta alla loro origine. Se l’idea è tale il divenire le è rigorosamente vietato. Divenire
significa diventar altro108, significa avere un essenziale rapporto con il tempo,
significa essere affetti da una continua scissione di una parte di sé da sé, cosicché
l’autentico e strutturale carattere dell’idea (l’identità109) non può qui essere
affermato: «per entrare in contatto con le cose, l’idea contravviene al suo carattere
essenziale, che è l’identità»110. Se l’idea diviene, non è un’idea111. È proprio questo il
Cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 230 n. 125.
Non è certo possibile affrontare qui questo complicato e allo stesso tempo imprescindibile problema
filosofico in poche battute. Imprescindibili analisi a questo cruciale concetto sono state date da
Emanuele Severino. Tra tutti i libri di questo autore che prendono in esame il problema del divenire,
cfr. soprattutto Tautótēs, Milano 1995. Anche Sasso si è analiticamente soffermato su questo
problema, soprattutto in Tempo, evento, divenire, cit., pp. 307-353, ma anche ne Il logo, la morte, cit.,
pp. 173-188.
109 Volendo svolgere questo punto con rigore, sarebbe necessario introdurre l’assai complicato
problema riguardante la «molteplicità» delle idee, ossia introdurre nel discorso la considerazione che
ogni idea è sì identica a sé, ma allo stesso tempo diversa dalle altre, dove il problema è quello di
pensare e non soltanto asserire quell’«ogni» e quelle «altre» (cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit.,
pp. 105-108, 129-131).
110 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 125.
111 A proposito di questo punto Sasso fa alcune opportune precisazioni. La premessa da cui bisogna
partire è che è il divenire stesso a risultare necessario nel momento in cui «si fa che l’idea sia niente di
più che una cosa quando, in virtù del suo stesso costituire la ratio essendi et cognoscendi della
“grandezza”, ad esempio, delle cose grandi, entra a far parte del loro ordine specifico». L’elemento a
cui si deve quindi prestare attenzione, come fatto nel testo sopra, è il divenire stesso dell’idea. A questo
punto Sasso cerca di guardare il problema anche da un lato che non è stato qui preso in
considerazione. Il punto è che se il divenire è qui necessario, esso non può appartenere all’idea, e se
non appartiene all’idea è soltanto alla «cosa» che esso può appartenere. Cosicché se si dicesse che «è in
quanto “cosa” che l’idea diviene», verrebbe a prodursi un problema a riguardo del «soggetto del
divenire», in quanto sarebbe «contemporaneamente indicato nell’idea e nella cosa». Ed è proprio qui il
punto a cui bisogna fare attenzione. Se il soggetto del divenire è l’idea, allora, in quanto idea, non può
divenire. Se però a soggetto del divenire si prende la cosa e non l’idea, il divenire è certo (all’interno del
pensiero platonico) possibile, non però come diventar cosa della cosa. La cosa infatti è cosa non
diventa cosa. Si potrebbe dire che non diviene l’universo ontologico all’interno del quale la cosa può
divenire. Divenire può esserci «solo se ciò a cui il divenire giunge (terminus ad quem […]) è qualcosa
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punto in cui l’elemento dell’assoluta scissione tra mondo delle idee e mondo delle
cose viene a mostrarsi. L’idea, se è tale, non può divenire e quindi non può «toccare»
o andar a far parte del mondo delle cose sensibili. Le cose certo non possono diventar
idee; in quanto pur essendo inserite in un incessante e continuo divenire, se si
ammettesse che divenendo possano diventar idee si cadrebbe nel medesimo
problema appena riscontrato, solamente visto dalla prospettiva opposta. Se si
ammettesse infatti che le cose, diventate idee, sono idee si direbbe certo bene; ma il
punto rimarrebbe che quelle idee sono appunto diventate tali e che in quanto così
divenute non possono realmente essere idee, le quali non divengono quello che sono
ma lo sono dall’eternità e per l’eternità. Ed ecco che, l’impossibilità da parte delle
cose di diventare idee e l’impossibilità delle idee di diventar cose determina una
profonda e irreparabile scissione tra questi due mondi, e la teoria che intendeva
sanare quest’assoluta differenza, la μέθεξις, non ha alcuna possibilità di costituirsi:
«Escogitata per mediare la differenza dell’ordine ideale e di quello mondano, la
μέθεξις dunque non media. Non media ma, piuttosto, esaspera»112.
Senza volersi soffermare su tutte le variegate analisi che Sasso sviluppa nei
paragrafi successivi a proposito della predicazione o autopredicazione dell’idea113 e a
riguardo della seconda formulazione dell’argomento del «terzo uomo»114, è molto
di diverso da ciò da cui il divenire incomincia (terminus a quo)» (E. SEVERINO, Tautótēs, cit., p. 13),
ossia solo se c’è diversificazione. Soltanto che nel caso della «cosa» (o se si vuole della «cosalità» della
cosa), essa è sempre tale tanto all’inizio quanto alla fine del processo del divenire. Ed è per questo
motivo che Sasso, alla fine di questo ragionamento, osserva che preso da questo lato il divenire è
«inutile»: G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 119.
112 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 110.
113 Cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., §23 e §26. Cfr. inoltre F. FRONTEROTTA, Guida alla lettura
del “Parmenide” di Platone, cit., pp. 52-70, dov’è anche contenuta un’esposizione e discussione di
diverse tesi di alcuni tra i maggiori studiosi di questo dialogo platonico.
114 Pur non introducendo la seconda formulazione, dal punto di vista strutturale, nulla di
particolarmente nuovo rispetto alle critiche rivolte alla prima formulazione, è ciò nonostante doveroso
sottolineare due punti che Sasso coglie con eccezionale acume nell’esaminare questa seconda
formulazione dell’argomento del «terzo uomo» (cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., §25). Il
primo si riferisce al motivo, non casuale secondo Sasso, per cui Platone utilizza l’idea della
«simiglianza» (ὁμοιότης) come esempio nella seconda formulazione dell’argomento. Sasso osserva che
Platone utilizza questa determina idea non casualmente ma per una «ragione strutturale» in quanto
«essa simboleggia, in effetti, la differenza che, costituendo la premessa e poi anche la conseguenza
della μέθεξις, fa sì che fra le idee e le cose non si dia relazione che, come qui Socrate propone, non si
risolva nella “simiglianza”». Esattamente per questo motivo Sasso prosegue dicendo che «l’idea della
ὁμοιότης sembra costituire qualcosa come l’autocritica della pretesa che, nel suo esercizio, la μέθεξις
sembra voler tradurre in realtà: dal momento che, come l’intento suo è la realizzazione del rapporto, il
fatto che essa svela è invece che, fondato sulla simiglianza (o risolto nella forma della simiglianza), il
rapporto non è un autentico rapporto perché, alla radice di sé stesso, suppone e mantiene una
differenza irrisolta, e, con questa, l’impossibilità di realizzare fino in fondo la sua natura» (Ibid., pp.
123-124). Il secondo motivo su cui Sasso insiste nel §25 è che cosa significhi che «il simile è simile al
simile», espressione riscontrabile in Parm., 132 D 7. La premessa dalla quale è necessario partire è che
per essere simili, i simili devo tutti partecipare dell’idea di simiglianza. Detto ciò i problemi che subito
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
importante in chiusura di questo paragrafo sottolineare con forza uno spunto
interpretativo di Sasso presente nel §27. Lo spunto a cui sto alludendo riguarda
l’autentico oggetto della critica mossa da Parmenide nell’argomento del terzo uomo.
Sasso viene a ipotizzare come la critica condotta dal personaggio di Parmenide alla
dottrina delle idee possa fungere anche da autocritica di Parmenide alla propria
stessa dottrina. Il punto che qui Sasso vuole indicare riguarda quella che da lui viene
espressamente chiamata la sostanza «profondamente parmenidea» del pensiero di
Platone115. L’impossibilità del passaggio tra mondo delle idee e mondo delle cose nella
teoria della μέθεξις platonica, è la medesima impossibilità che secondo Sasso
impedisce che ci possa essere un contatto tra ἀλήθεια e δόξα nel poema dell’eleate. Ed
è per l’appunto a causa di questa impossibilità116, almeno in Platone, che si produce il
dramma finale della prima parte del Parmenide alla quale segue la seconda e ben più
ampia parte del dialogo117. Ed è esattamente su questo punto, su questa impossibilità,
sorgono sono essenzialmente due. Il primo è che «la “simiglianza” della quale, per essere tali, i simili
partecipano, è un’idea che, per sé, non è simile, ma identica a sé, perché se fosse simile e non identica
sarebbe impossibile che ad essa si facesse riferimento come ad una unità e a un’idea […]. È dunque di
un’identità che, per essere simili, i simili partecipano». Il secondo problema che sorge è che «poiché
dell’identità partecipano e con essa dunque non si identificano, i simili sono dissimili dalla simiglianza
(che infatti è identità). Ma fra loro come sono: simili o dissimili (dissimili dalla simiglianza, e perciò
identici)?». Ecco qui sorgere nuovamente una questione assai delicata e di straordinaria importanza
per Sasso, vale a dire la questio della differenza. Com’è già stato in precedenza rivelato, anche qui i
dissimili sono, non simili ma identici, nel loro essere dissimili dalla simiglianza, e per questo motivo
sono tra loro né simili né dissimili ma identici. Per questi motivi Sasso conclude dicendo che «per un
verso la partecipazione della simiglianza (che per sé è non simile a sé, ma identica) stabilisce fra εἶδος e
τὰ μετέχοντα αὐτοῦ, la differenza irriducibile; e per un altro, invece, l’identità», giungendo così a
presentare un mondo «di idee senza cose» oppure «di cose senza idee» (Ibid., pp. 126-127). Per
l’appunto è a uno scenario di questo tipo che giunge la riflessione di Sasso: un mondo di cose senza
filosofia (il mondo della doxa), e un mondo, per così dire, in cui la filosofia è intesa in modo talmente
puro e assoluto da essere orfana di qualunque cosa, senza che tra questi due piani possa esserci alcun
passaggio, e alcuna relazione.
115 G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., p. 129. A riguardo di questo punto assai delicato, cfr.
un’analoga indicazione in F. FRONTEROTTA, Guida alla lettura del “Parmenide” di Platone, cit., p. 34 n.
21, dove però il riferimento specifico da cui si parte per una riflessione più generale è costituito
dall’aver usato Platone per descrivere le idee in Fedro, 250 C 3, lo stesso termine adoperato da
Parmenide (fr. 1, v. 29; ma cfr. anche fr. 8, v. 4) per indicare il «cuore della persuasiva verità», vale a
dire ἀτρεμῆ («senza tremito»).
116 È proprio a proposito di questa impossibilità che Platone parla in 133 B 4 della difficoltà «più
grande» o «massima» (μέγιστον δὲ τόδε): se infatti le idee sono un «in sé», proprio per questo motivo
non possono essere «in noi» (cfr. Parm., 133 A 8 – 134 A 2). Dopo aver detto ciò, nelle due pagine
successive Platone viene a trarre da questo argomento alcune conclusione assai drammatiche a
proposito della «scienza» e di «dio» (cfr. Parm., 134 A 3 – 135 C 4).
117 «Tuttavia, Socrate, disse Parmenide, se qualcuno avendo notate tutte le difficoltà di poco fa e altre
simili, non consentirà che ci siano idee degli enti e non distinguerà una determinata idea per ciascun
oggetto singolo, non avrà neppure un punto a cui indirizzare il suo pensiero, in quanto non concede
che ci sia un’idea sempre identica di ciascuno degli enti, e in tal modo distruggerà completamente il
potere della dialettica» (Parm., 135 B 5 – C 2). Pur essendoci assai sintonia su molti punti
interpretativi, per non fare che un esempio sul forte legame che entrambi riconoscono tra la prima e la
seconda parte del dialogo (cfr. G. SASSO, L’essere e le differenze, cit., pp. 231-232 n. 136; F.
FRONTEROTTA, Guida alla lettura del “Parmenide” di Platone, cit., pp. 103-105), su questo passo
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
e dunque su questa assoluta scissione tra piano immutabile e piano empirico che
viene a muoversi tutta la riflessione teoretica di Sasso.
3. Movimento, necessità, indeterminatezza. Questioni hegeliane
Da quanto è stato fin qui detto a proposito del modo in cui Sasso intendere la
filosofia e la fortissima scissione tra questa e, per esempio, la storia, appare evidente
come uno degli autori ad essere più distanti teoreticamente da lui risulti essere Hegel.
Più distante, ma, forse, proprio per questo, un filosofo a cui il nostro autore sente
costantemente la necessità di tornare. In un’ottica hegeliana le analisi proposte e
sviluppate da Sasso non potrebbero che essere giudicate come «astratte»,
«analitiche», «intellettualistiche»118, proposizioni che stando solo ed esclusivamente
presso di sé e non riuscendo a negarsi e insieme conservarsi è a loro precluso
l’accesso al gradino più alto del sapere, das Absolute Wissen. Ma lasciando da parte
facili accuse e sterili etichette e concentrandosi invece sulla «cosa», è bene andare
subito ad uno dei punti centrali del pensiero hegeliano che Sasso critica con grande
veemenza. Questo punto, su cui si sono scritte delle biblioteche, riguarda il rapporto
tra storia, sviluppo fenomenologico, e necessità della «scienza». Il punto è quello
riguardante la begriffene Geschichte, la «storia» pensata, compresa secondo non il
suo lato empirico/accidentale, bensì secondo il «concetto». Ma prima di porre
attenzione ai motivi che inducono Sasso a criticare questo punto nevralgico della
filosofia hegeliana,
e a soffermarsi per tanto sulle ultime pagine della
Phänomenologie des Geistes, è necessario fare un cenno ai luoghi della stessa opera
in cui Hegel viene a formare il terreno su cui le sue riflessioni finali potranno
costituire il suggello definitivo. Come premessa, dunque, al problema hegeliano che
appena citato Sasso e Fronterotta vengono ad esprimere due giudizi opposti. Sasso giudica che in
questo passo platonico, già in precedenza riportato, ciò che da Parmenide viene espressamente
ribadito è soltanto l’esigenza di una teoria delle idee interamente ripensata nella sua strutturazione
logica, e non la teoria criticata e confutata in questa prima parte. Per Fronterotta invece ciò che viene
esplicitamente ribadito da Parmenide è proprio la teoria delle idee (cfr. PLATONE, Parmenide, cit., p.
116 n. 33 e n. 34).
118 Per altro, tale rilievo, viene sollevato in modo autoironico dallo stesso Sasso (cfr. G. SASSO, Tempo,
evento, divenire, cit., p. 298). Naturalmente oltreché le «analisi» svolte da Sasso anche le sue, per così
dire, «soluzioni» non verrebbero risparmiate dalla critica di astrattezza e intellettualismo da una
prospettiva hegeliana. Tali soluzioni, tra cui spicca soprattutto quella relativa all’aporia del nulla, non
sono state per altro che accennate e avrebbero bisogno di essere esaminate e svolte in una sede
specifica per essere intese autenticamente. Cfr. almeno a questo proposito S. MASCHIETTI, Dire
l’incontrovertibile, cit., e M. VISENTIN, Il neoparmenidismo italiano, II, cit., pp. 429-481, oltre alle due
interviste rilasciate da Visentin a Giovanni Perazzoli, già precedentemente ricordate.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
Sasso intende indagare, è di eccezionale importanza il passo della Vorrede, tra i più
famosi dell’intera opera, in cui Hegel identifica das Wahre con das Ganze: «Il vero è
l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si completa mediante il suo sviluppo
(durch seine Entwicklung). Dell’Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente
Resultato, che solo alla fine è ciò che è in verità (dass es erst am Ende das ist, was es
in Wahrheit ist); e proprio in ciò consiste la sua natura, nell’essere effettualità
(Wirkliches), soggetto o divenire-se-stesso (Sichselbstwerden)», e due capoversi
prima, in un passo di altrettanta importanza, aveva definito il «vero» come das
Werden seiner selbst,
La sostanza viva (lebendige Substanz) è bensì l’essere il quale è in verità
Soggetto, o, ciò che è poi lo stesso, è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in
quanto la sostanza è il movimento del porre se stesso (die Bewegung des
Sichselbstsetzens), o in quanto essa è la mediazione del divenir-altro-da-sé con se
stesso (die Vermittlung des Sichanderswerdens mit sich selbst). Come soggetto essa è
la pura negatività semplice, ed è, proprio per ciò, la scissione del semplice in due parti,
o la duplicazione opponente; questa, a sua volta, è la negazione di questa diversità
indifferente e della sua opposizione; soltanto questa ricostituentesi eguaglianza (diese
sich wiederherstellende Gleichheit) o la riflessione entro l’esser-altro in se stesso (die
Reflexion im Anderssein in sich selbst), – non un’unità originaria (ursprüngliche
Einheit) come tale, né un’unità immediata (unmittelbare) come tale, – è il vero. Il vero
è il divenire di se stesso (das Werden seiner selbst), il circolo che presuppone e ha
all’inizio la propria fine come proprio fine (der Kreis, der sein Ende als seinen Zweck
voraussetzt und zum Anfange hat), e che solo mediante l’attuazione (Ausführung) e la
propria fine (sein Ende) è effettuale (wirklich ist).119
È alla parte centrale di questo capoverso hegeliano, oltreché alle ultime righe,
che bisogna prestare grande attenzione. Il «vero» è indicato esplicitamente come
«eguaglianza» che si fa tale, che proprio perciò non è unità «originaria» e
«immediata». L’elemento processuale, lo sviluppo, il divenire (vero) da parte del
vero, sono in questo passo sottolineati con grande enfasi da Hegel. Il quale aggiunge
che affinché il vero sia veramente tale, e cioè wirklich, deve «attuarsi» e giungere alla
sua «fine» (Ende) tramite per l’appunto il proprio progresso, il quale costituisce
autenticamente il «fine» (Zweck) della sostanza-soggetto, la quale è die Bewegung
des Sichselbstsetzens o anche die Vermittlung des Sichanderswerdens mit sich
selbst. L’unità, l’identità, non è uno statico, monolitico, immediato essere di tipo
parmenideo; ma è un farsi identità, di sé con sé, soltanto durch seine Entwicklung.
Naturalmente se non si toglie lo sguardo da quanto è stato detto nel paragrafo
introduttivo e in quello successivo su Platone, non possono che esserci forti, drastiche
119
G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, cit., pp. 23-24; trad. it., I, pp. 14-15.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
riserve da parte di Sasso a proposito di questa, seppur grandiosa, concezione
hegeliana. I punti di debolezza di questa concezione sono, da un lato la pretesa che ci
sia un «nesso» tra verità e storia, dall’altro lato che tale nesso comporti l’essere la
storia «storia della verità» e l’essere la verità «verità della storia». Il contatto e il
convergere, per così dire, in un unico punto dei due problemi appena richiamati si
nota considerando che l’intenzione sovrastante questa situazione categoriale è che le
«due» (verità e storia) non solo abbiano tra loro un contatto, una «relazione», ma che
nell’esser differenti siano identiche, e differenti nell’esser identiche. Ed è, ad avviso di
Sasso, per sfuggire alla critica del considerare la «verità» come sempre minore di
sé120 (prima quindi di aver raggiunto il Sapere Assoluto, ed esser così giunta alla
coincidenza di in sé e per sé) che Hegel ricorse all’immagine del «circolo»121, senza
riuscire però ad ostacolare le altrettante difficoltà che emergono da questa immagine,
con la conseguenza che:
il circolo non potendosi formare se non nel circolo, e quindi nella pura
coincidenza di inizio e fine, fine e inizio, l’idea della verità intesa come processo della
sua propria autocostituzione era, nel fatto, criticata da quest’altra, che implicava la sua
pienezza in ciascun punto della simbolica figura, il circolo appunto, che ne esprimeva,
per lui, l’essenza.122
La domanda che sorge quindi spontanea è: come è possibile che l’inizio
essendo inizio ma anche fine, la fine essendo fine ma anche inizio, non vengano ad
implicare un’assoluta immobilità del circolo?123 Che è per l’appunto il punto estremo
«Come se la verità potesse essere ora più e ora meno alta (profonda), maggiore e minore di sé
stessa; potesse stare all’origine di sé stessa e al di là di questa, essendo tuttavia la medesima, una e
assoluta verità» (G. SASSO, Il principio, le cose, cit., p. 132).
121 Cfr. i §§15-16 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Cfr. anche l’osservazione, nel
commento a questi due paragrafi, di V. HÖSLE, Hegel e la fondazione dell’idealismo oggettivo, tr. G.
Stelli, Milano 1991, p. 106, a proposito dell’etimologia di «enciclopedia» come «dottrina del circolo».
122 G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 359.
123 «Ogni passo del progresso (Fortgang) nel determinare ulteriormente, mentre si allontana dal
cominciamento (Anfang) indeterminato, è anche un riavvicinamento (Rückannäherung) ad esso, e
che perciò quello che dapprima può sembrar diverso, il regressivo fondare il cominciamento, e il
progressivo determinarlo ulteriormente, cadon l’un nell’altro e son lo stesso (desselben ineinander
fällt und dasselbe ist)» (G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, hg. von G. Lasson, Hamburg 1971, II,
p. 503; trad. it., Scienza della logica, tr. A. Moni, riv. C. Cesa, Roma – Bari 1981, p. 954). Ma la ragione
di questo coincidente allontanarsi e riavvicinarsi del progresso al cominciamento, è determinata da
ciò: «Il resultato è ciò stesso che è il cominciamento soltanto perché il cominciamento è fine (weil der
Anfang Zweck ist); – oppure l’effettuale (das Wirkliche) è ciò che è il suo concetto, soltanto perché
l’immediato come fine (das Unmittelbare als Zweck) ha dentro di lui il Sé o la pura effettualità. Il fine
attuato o l’effettuale esistente è movimento, è divenire giunto al suo dispiegamento (der ausgeführte
Zweck oder das daseinde Wirkliche ist Bewegung und entfaltetes Werden); ma proprio questa
inquietudine è il Sé; ed esso è eguale a quella immediatezza e a quella semplicità del cominciamento
perché è il resultato, perché è ciò che è tornato in se stesso (das in sich Zurückgekehrte); – ma ciò che
è tornato in se stesso è appunto il Sé; e il Sé è l’eguaglianza e la semplicità che si rapportano a sé»
120
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
a cui giunge l’analisi di Sasso a riguardo del nesso necessario che in Hegel lega l’inizio
e il risultato: «Che l’inizio e la fine, l’immediatezza e la mediazione, il principio e il
risultato, si implichino a vicenda e, mentre stanno in questa posizione, anche stiano
in quella opposta, non è forse la prova che, nella sua essenza, il circolo è
immobile?»124.
Tornando ora al punto sopra toccato nel passo citato di Sasso relativo al
rapporto tra storia, discorso fenomenologico delle figure e scienza, l’attenzione deve
cadere non tanto sulle prime quanto piuttosto sulle ultime pagine della
Phänomenologie, in cui Hegel nel toccare il vertice del sapere getta uno sguardo
all’indietro, sul senso dell’intero percorso svolto dalla coscienza, dalla certezza
sensibile sino al sapere assoluto.
Il sapere non conosce soltanto sé, ma anche il negativo di se stesso o il suo
limite (das Negative seiner selbst oder seine Grenze). Sapere il suo limite vuol dire
sapersi sacrificare (aufzuopfern). Questo sacrificio è l’alienazione (Entäußerung), in cui
lo spirito presenta il suo farsi spirito nella forma del libero, accidentale accadere
(freien zufälligen Geschehens), intuendo fuori di lui il suo puro Sé come il tempo, e,
similmente, il suo essere come spazio.125
E dopo aver detto che «quest’ultimo farsi dello spirito» è la natura e
venendola subito a distinguere dall’«altro lato del farsi dello spirito», vale a dire la
storia che consiste nello «spirito alienato nel tempo», Hegel prosegue il discorso
indicando come la storia si presenti nel suo svolgimento in una successione di spiriti,
una galleria d’immagini ciascuna delle quali, provveduta della completa
ricchezza dello spirito, si muove con tanto torpore proprio perché il Sé ha da penetrare
e da digerire tutta questa ricchezza della sua sostanza. Consistendo la sua perfezione
nel sapere perfettamente ciò ch’esso è, ossia la sua sostanza (seine Vollendung darin
besteht, das, was er ist, seine Substanz, vollkommen zu wissen), questo sapere è il suo
insearsi (Insichgehen), nel quale lo spirito abbandona il suo esserci e ne consegna la
figura alla memoria.126
Ma il punto estremo, la «conclusione» di questi passi della Phänomenologie,
sono le poche righe che alla fine dell’opera precedono i versi di Schiller che Hegel
pose alla conclusione del suo capolavoro:
(G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 26; trad. it., I, p. 17), vale a dire dalla coincidenza
del (divenire del) cominciamento e del risultato, ed è proprio tramite questa coincidenza che l’andare
avanti è ipso facto un tornare indietro.
124 G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 359.
125 G.W.F. HEGEL, Phänomenologie des Geistes, cit., p. 590; trad. it., II, p. 304.
126 Ibid.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
La meta (das Ziel), il sapere assoluto o lo spirito che si sa come spirito (der sich
als Geist wissende Geist), ha a sua via la memoria degli spiriti com’essi sono in loro
stessi e compiono l’organizzazione del loro regno. La loro conservazione secondo il lato
del loro libero esserci apparente nella forma dell’accidentalità, è la storia; ma secondo il
lato della loro organizzazione concettuale, è la scienza del sapere apparente (die
Wissenschaft des erscheinenden Wissens); tutti e due insieme (beide zusammen), cioè
la storia concettualmente intesa (die begriffene Geschichte), costituiscono la
commemorazione e il calvario dello spirito assoluto (bilden die Erinnerung und die
Schädelstätte des absoluten Geistes), l’effettualità, la verità e la certezza del suo trono
(die Wirklichkeit, Wahrheit und Gewißheit seines Throns), senza del quale esso
sarebbe l’inerte solitudine (ohne den er das leblose Einsame wäre).127
Ciò che, tramite queste celebri e potenti parole hegeliane, deve nuovamente
essere sottolineato, è il problema a cui già sopra si è cercato di accennare. Se la
«totalità», il «tutto», è la meta, ciò sta a significare che tutte le varie «figure» da cui
la coscienza è costituita nel suo lungo e travagliato cammino, non possono
corrispondere ed essere in sé ad essa adeguate. C’è quindi, da questo punto di vista
uno scarto, uno iato, tra le figure della coscienza e la sua meta. Dall’altro lato però,
affinché possa esserci piena trasparenza e armonia tra in sé e per sé, e che quindi il
processo sia intrinsecamente presente durante tutto il suo percorso necessario, non
può che esserci identità tra il «pervenire a sé» e l’«esservi pervenuto»: «In nessun
momento, in nessuna fase del suo “pervenire a sé stesso”, e alla verità che sta nel
profondo di sé stesso, lo spirito è privo della verità alla quale è in via di pervenire» 128.
Ed è proprio a riguardo di ciò che si produce una forte, anzi fortissima, tensione tra
das Ganze, inteso nella sua pienezza e assolutezza, e la storia intesa come libero,
accidentale, accadere.
La scienza è allora l’integrarsi strutturale dei momenti, il loro rientrare
nell’unità del sistema di ciò che, dal lato dell’esteriorità e nella forma del libero
accadere accidentale, assume la fisionomia esteriore del tempo e dello spazio. E da una
parte si ha perciò la successione temporale, il «discorso» fenomenologico delle figure,
inteso, converrà aggiungere, nella sua pura esteriorità; da un’altra la struttura, la
pienezza autopossedentesi del Selbst, la suprema mediazione, la scienza: con la
conseguenza, secondo il giudizio di Hegel, che è l’unità di questi due «lati» a costituire,
nella sua totalità e concretezza, il «vero», che è storico, ma nell’aver superato la forma
estrinseca della storicità.129
Il concetto che Sasso viene ad analizzare riferendosi a questi passi di grande
complessità
concettuale
della
Phänomenologie,
è
quello
di
«alienazione»
Ibid., p. 591; trad. it., II, p. 305.
G. SASSO, Tempo, evento, divenire, cit., p. 294.
129 Ibid., p. 296.
127
128
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
(Entäußerung). Tramite l’alienazione, è stato riportato in precedenza, avviene ciò che
rende possibile allo spirito «il suo farsi spirito nella forma del libero, accidentale
accadere», e vengono così ad apparire le varie «figure» della coscienza. Ciò che Sasso
vuole sottolineare è che non è certo per caso «che il sapere si aliena e presenta il suo
farsi finito nella forma del libero, accidentale accadere» 130. Detto più accuratamente:
l’alienazione consente allo spirito di trovare sé fuori di sé, di «farsi spirito» nella
forma del «libero, accidentale accadere», ma l’alienazione stessa (che è condizione di
possibilità del libero e accidentale accadere) non accade κατα
piuttosto κατα
συμβεβηκός, ma
τò χρεών. Quello allora che risulta evidente in questo giro
argomentativo è che,
un nesso non accidentale, non libero, e piuttosto in ogni senso necessario, lega
l’accidentalità alla necessità e, in questo atto, svela il suo «essere» come necessario, non
come «libero» e «accidentale». Non potrebbe infatti essere accidentale ciò che,
necessariamente, intrattiene un rapporto con la necessità: dovrà essere, in sé stesso,
costituito in vista di questo rapporto con la necessità. O meglio: dovrà essere
«accidentale» perché è di lui, in questa accezione e secondo questo significato, che si
assume stringa un rapporto con la necessità. Ma anche, e nello stesso atto, dovrà essere
necessario, perché è alla sua natura, e quindi di necessità, che a lui appartiene di
stringersi nel rapporto con il necessario: con la conseguenza antinomica che già si è
indicata, e che si rileva quando conclusivamente si consideri che non potrà essere
accidentale, dovrà essere necessaria, la distinzione, nell’accidentale, dell’accidentale dal
necessario!131
Perché il necessario si distingua dall’accidentale, e perché questo si distingua
da quello, non solo è necessario che il necessario sia tale, ma è anche necessario (e
non accidentale) che l’accidentale sia accidentale e non necessario. Ma necessario il
necessario, necessario l’accidentale, come non vedere che la distinzione è anche qui
detta, pretesa, asserita, ma non sul serio «posta»? Scendendo ancora più a fondo a
riguardo della questione qui in discussione, e venendo a toccare così un problema
costantemente al centro della riflessione teoretica di Sasso, la domanda cruciale che
qui viene ad imporsi è: che tipo di nesso, di rapporto, di relazione, può essere
intrattenuto tra il necessario e il contingente?132
Ibid., p. 297.
Ibid.
132 Il problema della contingenza in Hegel è certamente, per motivi intrinseci alla sua filosofia, di
grandissima complessità oltreché di grande e decisiva importanza per cercare di cogliere alcuni degli
aspetti più riposti dell’intero suo sistema. A tal proposito cfr. E. DE NEGRI, Interpretazione di Hegel
(1943), seconda ed. riveduta e ampliata, Firenze 1969, pp. 213-225, il quale si sofferma su questo
problema discutendolo in connessione a quello della «natura».
130
131
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
L’assoluto e il necessario, devi ripetersi, sono troppo forti perché ciò che ne è toccato
non assuma il loro carattere. Sono troppo forti perché, addirittura, si dia qualcosa (il
contingente, il relativo) che, toccato dall’assoluto e dal necessario, resista in sé e non venga a
farne parte. Sono troppo forti perché, addirittura, si dia qualcosa che l’assoluto possa
ammettere accanto a sé. Se c’è l’assoluto, non c’è il relativo. Se c’è il necessario, non c’è il
contingente. Se l’assoluto implicasse il relativo, e il necessario, il contingente, l’assoluto
sarebbe relativo al relativo, e il necessario al contingente. Ma il relativo e il contingente
sarebbero allora essi l’assoluto e il necessario; ai quali sarebbe perciò di nuovo vietato di
essere il fondamento dell’uno e dell’altro.133
Ecco qui che, come ben si comprende, oltre a farsi nuovamente innanzi un
problema a più riprese dibattuto nel paragrafo su Platone, la risposta conferita da
Sasso è assai netta e radicale. La maggior parte delle considerazioni che Sasso svolge
in questo passo sono in realtà già state rese note nelle precedenti pagine. Su di un
punto deve farsi cadere l’attenzione per poter cogliere un elemento tipico e peculiare
a riguardo della riflessione del nostro autore. Interessante è notare come Sasso neghi
un possibile «nesso» tra necessità e contingenza, che salvaguardi quindi tanto la
realtà della prima quanto quella della seconda, in virtù della potenza assimilatrice
propria del necessario, del logo. Se infatti si istituisse un nesso, cioè una relazione, tra
necessario e contingente, questo non potrebbe che essere o necessario o contingente.
Se la φύσις del nesso tra necessario e contingente venisse intesa come, essa stessa,
necessaria, non di autentico nesso potrebbe parlarsi. Dal momento che, necessario
uno dei due termini, necessario il nesso che questi due termini viene a «connettere»,
come potrebbe pensarsi che il contingente tenga invariato il suo carattere di,
appunto, contingente? Il contingente, contenuto (necessariamente) nel nesso
necessario, è necessario e non contingente. Se invece fosse contingente la φύσις del
nesso, in questo caso si cadrebbe palesemente in un autentico equivoco. L’equivoco
riguarda il concetto stesso di contingenza. Se del contingente se ne fa un «carattere»,
un ἔθος, di qualcosa (per esempio di un nesso, di un rapporto), necessariamente il
contingente diventa un che di necessario e non ha la capacità di essere davvero
contingente134. In un contesto logico-filosofico, per il contingente non c’è spazio
alcuno. In questo breve passo, tenendo lo sguardo fisso su questo aspetto della sua
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 9.
«Presa in sé, la contingenza è tale che, nel suo cerchio, del quale non potrebbe infatti dirsi che non
fosse il suo cerchio, ἀναγκαίως richiama la necessità. Se si dice che “il contingente è contingente” […],
è come se si dicesse che, essendo necessario che il contingente sia contingente, e che questa, appunto,
sia la sua necessità, dirlo contingente è impossibile. In altri termini, se lo si prende “in sé”, il
contingente si rivela necessario. Non nel senso che sia la necessità a conferirgli il carattere per il quale,
in contrasto con quella, lo si definisce come contingente. Ma perché, si deve ripeterlo, preso come
contingente, in sé esso è necessario» (Ibid., p. 17).
133
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
argomentazione, si coglie abbastanza limpidamente la direzione della riflessione
filosofica di Sasso, che è quella di sottolineare una sorta di non-relazione tra filosofia
(necessità) ed esperienza (contingenza). L’esperienza, cioè l’apparire delle varie
determinazioni del mondo, e la contingenza, pensate, ossia «incluse» per così dire nel
pensiero, non possono distinguersi da questo; e ne vengono a tal punto trasfigurate
da risultargli identiche. Anche qui bisogna subito aggiungere che non potrebbe più
parlarsi di quelle e di questo, ma (ed ecco il punto) esclusivamente di questo. Ma
nemmeno potrebbe dirsi che, completamente separate dalla filosofia (o verità o
razionalità), la realtà e la contingenza che si assume la costituisca, non continuino a
rivelare i tratti che si era soliti attribuirgli. La contingenza, per esempio, non può più
essere intesa come «poter non essere» o «aver potuto non essere»; l’essere come il
nulla non sono più concetti che, nella riflessione di Sasso, possano essere applicati
alle cose, agli enti; così come la differenza, la molteplicità che costituiscono il mondo
dell’esperienza non possono rientrare nell’orizzonte della filosofia.
Riprendendo il discorso su Hegel, secondo Sasso, pur avendo Hegel
«avvertito» l’assai ardua e complessa difficoltà, di cui sopra si è parlato, quando
venne a parlare dell’«insearsi» (Insichgehen) dello spirito, non è stato però in grado
di vedere questa difficoltà nella sua interezza. Un’altra, in effetti, e forse ancor
maggiore, difficoltà emerge quando si viene a porre l’attenzione se ci possa o no
essere uno sdoppiamento del «sé» quando questo «si presenti nella forma della verità
e della sostanzialità»135. Il rilievo che qui viene ad esser mosso da Sasso è rivolto ad
uno dei punti più complicati dell’intero pensiero hegeliano, consistente da un lato nel
giungere, tramite un «processo»136, all’Assoluto da parte della coscienza, dall’altro
alla necessità che, affinché la coscienza giunga all’Assoluto, l’Assoluto stia «alle
spalle» della coscienza medesima e la spinga così, di volta in volta, verso «se stesso».
G. SASSO, Tempo, evento, divenire, cit., p. 298.
Nei primi due paragrafi del IV capitolo di Essere e negazione (cit., pp. 295-301), Sasso individua in
due opposte esigenze, vale a dire quella del «tempo» e quella a questo opposta del «primo», il motivo
centrale dell’insorgere dei problemi concernenti il rapporto tra «storia» e «struttura» in Hegel.
Sottolineo nuovamente come questi due piani vengano ad essere in Sasso divisi a tal punto che
nessuna relazione potrà più essere posta tra essi. Anche in Sasso è molto forte l’esigenza di non negare
né l’uno né l’altro di questi due piani; ma proprio a causa delle aporie che vengono da lui rintracciate
in Hegel, come anche in Platone, in Gentile e in tutti coloro che cerchino di stringere in una «sintesi»
la verità con la realtà dell’esperienza, è necessario lasciar cadere a suo giudizio qualunque tipo di
relazione si voglia porre tra l’una e l’altra. Mi sembra che sia in questa sorta di «influenza rovesciata»
che vada intesa la riconoscenza espressa da Sasso nei confronti di Hegel (Ibid., p. 299). A proposito del
rapporto tra «processualità» e «verità», sempre in confronto a Hegel, cfr. anche G. SASSO,
Fondamento e giudizio, cit., pp. 53-54.
135
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
Certo è che se, necessariamente, la verità è intesa come la pienezza di sé
medesima, allora non è concepibile che ad essa manchi la coscienza di sé e sia perciò
costretta a cercarla, essa, la verità, e ad ottenerla per la via dello sdoppiamento e
dell’alienazione: una via che la coscienza certo non potrebbe intraprendere se, ad
intraprenderla, essa non fosse abilitata dal suo essere coscienza di questa via e del suo
condurre alla verità, – mentre per l’altro verso è pure evidente che se a questo la
coscienza fosse abilitata, il punto d’arrivo sarebbe già stato conseguito innanzi al suo
mettersi in cammino lungo il famoso sentiero della dialettica acquisizione del vero.137
Sarebbe alquanto interessante poter seguire il modo in cui Hegel ha
prospettato questo problema della «fine» che è insieme «inizio» il quale solo «dopo»
sa ciò che è «prima» nelle pagine finali della Scienza della logica riguardanti il
«metodo» all’interno del capitolo sull’Idea assoluta138, nelle quali è come costretto a
tornare su un altro e altamente problematico punto riguardante il «conservarsi» del
concetto nel suo «esser altro», ma non è possibile in questa sede ripercorrere e
analizzare con la puntualità che meritano quelle dense pagine hegeliane.
Prima di concludere questo paragrafo è opportuno sviluppare qualche
considerazione su di un altro, alquanto tormentato e complesso, problema hegeliano:
il cosiddetto «cominciamento assoluto». Intorno a questo concetto, svolto e
analizzato da Hegel all’inizio della Scienza della logica, Sasso viene a svolgere, in
diversi luoghi delle sue opere, alcune importanti considerazioni che meritano di
essere qui messe in luce. La prima che intenderei sottolineare riguarda le riflessioni
di Sasso a proposito del modo in cui Hegel, nella prima «triade» della Logica, definì
l’«essere» come das unbestimmte Unmittelbare, e quindi «Sein, reines Sein, – ohne
alle weitere Bestimmung»139, e proprio per questo motivo, per il suo essere
esclusivamente «indeterminata immediatezza» e quindi «senza» (ohne) nessun’altra
determinazione, Hegel lo identificò al Nichts, das reine Nichts. In questo passaggio,
riguardante la ricerca da parte di Hegel di raggiungere la purezza dell’essere e di
G. SASSO, Tempo, evento, divenire, cit., pp. 298-299. Sasso sottolineerà ancora maggiormente in
seguito come tra verità (filosofia) e coscienza della verità (a cui può farsi corrispondere il filosofo) non
si dia alcun tipo di relazione. È un punto questo di estrema delicatezza e complicazione nella teoresi di
Sasso, che era necessario qui accennare ma che non può essere esaminato e discusso in modo analitico
(per questa questione cfr. soprattutto, Il logo, la morte, cit.). Si aggiunga per altro che è questo uno dei
motivi per cui Sasso è in esplicito contrasto, come si è già sottolineato, con qualunque atteggiamento
inerente la «ricerca della verità»: ζητεῖν τὴν ἀλήθειαν (al cui riguardo cfr. Il principio, le cose, cit., p.
137).
138 Cfr. in particolar modo G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., II, pp. 497-502; trad. it., 949953. È noto come nell’ ultimo capitolo della Scienza della logica soltanto i primi due capoversi trattino
dell’«idea assoluta», mentre le pagine successive riguardino il problema del «metodo» (cfr. E. DE
NEGRI, Interpretazione di Hegel, cit., p. 211).
139 G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 66; trad. it., p. 70.
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porlo quindi, tramite la sua «identità/differenza» dal nulla, come der Anfang der
Philosophie, l’attenzione di Sasso viene a cadere in primis proprio su quel «senza»
che in quanto tale caratterizza, determina l’essere, il «puro» essere.
L’indeterminatezza che si pretendeva assoluta, tale non era affatto, dal
momento che, per ottenerla, era stato indispensabile, attraverso il «senza», metterla in
relazione a, e perciò farla derivare da, ciò che avrebbe invece dovuto derivarne: con la
conseguenza che l’indeterminato rivelava proprio il volto che non si sarebbe voluto
fosse stato il suo.140
Il punto qui toccato da Sasso è certamente di grande acutezza e, oltre a
svilupparsi come una vera e propria critica al modo che Hegel tenne nel parlare della
unbestimmte
Unmittelbarkeit,
rivela
l’interesse
e
l’attenzione
che
Sasso
costantemente assume nell’analisi del concetto filosofico che più interessa discutere
in questa sede, e caratterizzante più di ogni altro la sua riflessione teoretica, vale a
dire quello di relazione. Nel dire che l’essere è assoluta indeterminatezza, ossia senza
alcuna determinazione, necessariamente tramite la parola che qui indica la
privazione («senza» per l’appunto) l’essere viene messo immediatamente in contatto,
in rapporto, in relazione con ciò di cui è – o meglio: si pretende che sia – privo. Il
problema è che tramite questo rapporto l’essere non riesce davvero, vale a dire nel
concetto, ad essere senza alcuna determinazione; ma, anzi, il risultato che si consegue
è necessariamente proprio l’opposto di quello che ci si era prefissati: ossia il sue
essere con tutte le determinazioni, che proprio nell’essergli sottratte lo definiscono
come «essere, puro essere»: «Un essere, il quale fosse privo di determinazioni,
sarebbe necessariamente in attesa che queste gli pervenissero, e ne dipenderebbe:
perciò, non sarebbe puro, ma, in sé stesso, e proprio attraverso il “senza” (ohne) che
dovrebbe testimoniare in favore della sua purezza, si rivelerebbe come una figura
della στέρησις»141. Insomma: proprio per essere «puro» l’essere è «senza»
determinazioni, ma tramite il «senza» (e per essere tale) quelle determinatezze
vengono reincluse nel suo concetto; ma così reincluse l’essere non è più puro e senza
determinatezza, ma esattamente il contrario. In questo modo il concetto di das
unbestimmte Unmittelbare è impensabile, perché in sé stesso autocontraddittorio142.
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 139.
Ibid., p. 95.
142 È opportuno sottolineare come questa espressione sia essa stessa un’espressione contraddittoria.
Non è possibile in questa sede soffermarsi analiticamente su tale questione, linguistica e insieme
schiettamente filosofica. Sasso tratta di ciò in diversi sui scritti di carattere teoretico, basti qui il rinvio
a Il logo, la morte, cit., pp. 371-374 (in part. p. 372).
140
141
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
Oltre a ciò, la maggiore problematicità del considerare l’essere come «indeterminata
immediatezza» e quindi, per l’appunto, senza altre determinazioni, può forse essere
ravvisata in ciò. Questo iniziale essere, equivalente ad una «pura indeterminatezza» e
ad un «puro vuoto»143, viene fatto coincidere, come noto, al «nulla»144. L’essere è il
nulla (che è essere), il nulla è l’essere (che è nulla). Altrettanto noto è il fatto che pur
avendoli identificati, subito Hegel li volle differenziare, così da poter ricavare la loro
differenza nella loro identità. Il problema che qui sorge riguarda allora questa
altrettanto «immediata», ma non «indeterminata» identità: «L’identità che sottende
l’esser nulla dell’essere e il contemporaneo esser essere del nulla è l’indeterminato
stesso che, in questo atto, almeno questa determinazione riceve, consistente nel suo
essere la non annullabile radice (essere, dunque, e non nulla) dell’essere nulla che è
nulla essere»145.
La questione riguardante l’«essere» dell’inizio della Logica hegeliana, come
per altro tutti i punti che si cercasse di analizzare in queste intricatissime e
celeberrime pagine, è collegata ad altre e altrettanto difficili questioni. Una di queste
è determinata dalle parole che Hegel pronunciò nel brevissimo paragrafo riguardante
il divenire, subito dopo aver detto che il puro essere e il puro nulla «son dunque lo
stesso»: «Il vero (die Wahrheit) non è né l’essere né il nulla, ma che l’essere, – non
passa (nicht übergeht), – ma è passato (sondern übergegangen ist), nel nulla, e il
nulla nell’essere»146. Come è noto da qui iniziano le tormentate riflessioni che
G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 66; trad. it., p. 70.
«L’essere, l’indeterminato Immediato (das unbestimmte Unmittelbare), nel fatto è nulla, né più né
meno che nulla. […] Il nulla è così la stessa determinazione (dieselbe Bestimmung) o meglio assenza di
determinazione (Bestimmungslosigkeit), epperò in generale lo stesso (überhaupt dasselbe), che il
puro essere» (Ibid., I, p. 67; trad. it., p. 70).
145 G. SASSO, Essere e negazione, cit., p. 38. Tale problema è stato da Sasso discusso in particolar modo
nei §§ 2-7 dell’ultimo capitolo, riguardante il divenire in Hegel, di Tempo, evento, divenire. Senza
potersi fermare in modo analitico su tutto il tessuto argomentativo sviluppato da Sasso, si veda almeno
il punto culminante della sua analisi in cui si dice che: «L’identità di essere e nulla è insomma una
identità. E […] non riesce ad essere pensabile come inclusiva dell’essere, del nulla, della loro identità e,
insieme, della loro differenza. Il concetto dell’inclusione dell’essere, del nulla, della loro identità e della
loro differenza richiede infatti che il cerchio della inclusione, sia e non sia nulla, sia identico a sé, e non
anche diverso. E la conseguenza è allora che i termini anzidetti essendo allo stesso modo inclusi nel
cerchio dell’inclusione, non solo non possono essergli diversi (perché in questo caso non potrebbero
esservi inclusi), ma anche sono, nell’esservi identicamente inclusi, fra loro identici. Il cerchio
dell’inclusione, in altri termini, non include, perché non è se non identità. E se è così, non c’è
differenza possibile fra l’essere, il nulla, l’identità e la differenza; pensata con rigore, ed eliminando il
margine metaforico dell’espressione, l’identità dell’includente e dell’incluso esclude che di inclusione
possa addirittura parlarsi» (G. SASSO, Tempo, evento, divenire, cit., p. 345).
146 G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 67; trad. it., p. 71. Cfr. a proposito di questo
fondamentale passaggio hegeliano le acute osservazioni di V. VITIELLO, Non divider il sì dal no. Tra
filosofia e letteratura, Roma – Bari 1996, pp. 49-51, anche se rivolte criticamente in particolar modo a
Bertrando Spaventa e a Giovanni Gentile. Ma cfr. anche ID., Hegel in Italia. Dalla storia alla logica,
Milano 2003, pp. 193-209, capitolo esplicitamente dedicato al tema dell’«inizio» in Hegel. A proposito
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porteranno Hegel a dire che la verità tanto dell’essere quanto del nulla sta nel loro
«dileguarsi» (verschwinden), che il loro dileguarsi è lo stesso dileguarsi del divenire
(o Verschwinden des Verschwindens selbst), e il venire così a precipitare in un
«risultato calmo», vale a dire il sorgere dell’«essere determinato» (Dasein)147. Ma
dirigendo l’attenzione sul passo sopra riportato, sorge subito una grossa difficoltà. La
difficoltà che si incontra in quel mirabile passo hegeliano è determinata
dall’avvertenza, fatta dallo stesso Hegel, che il «passaggio» dell’essere nel nulla e del
nulla nell’essere non doveva essere concepito nel loro «passare» l’uno nell’altro,
quanto piuttosto nell’«esser passato» l’uno nell’altro.
Hegel, in altri termini, era ben consapevole che il passare dell’astratto essere
nell’astratto nulla era piuttosto un’identità assoluta, dalla quale ogni movimento era
escluso. Ma al movimento, che era essenziale perché l’edificio al quale aveva cominciato
di questo tema della filosofia hegeliana, sono di grande interesse, ma meriterebbero di essere discusse
e analizzate nel loro specifico contesto, le osservazioni di M. CACCIARI, Dell’Inizio, cit., pp. 101-115,
dove si critica Hegel rilevando come il filosofo tedesco nell’intendere e pensare l’Inizio abbia, in realtà,
inteso e pensato sempre e soltanto l’Iniziante.
147 Su questo punto, e sullo specifico passaggio che Hegel istituisce tra il «dileguarsi dell’essere e del
nulla» e il «dileguarsi del divenire» o «dileguarsi del dileguarsi stesso», Sasso si è soffermato molto
analiticamente nel denso paragrafo intitolato Intermezzo hegeliano all’interno del suo celebre libro su
Benedetto Croce. La ricerca della dialettica (cit., pp. 151-175), dandone un’interpretazione a cui è
opportuno in questa sede conferire una qualche attenzione. Il passo hegeliano su cui viene
maggiormente a cadere la sua attenzione è per l’appunto quello che è già stato riportato sopra,
contenuto nel primo capoverso del paragrafo intitolato Aufheben des Werdens, che conviene riportare
qui nella sua interezza: «L’equilibrio (das Gleichgewicht), in cui si pongono il nascere e il perire, è
dapprima il divenire stesso. Ma questo si raccoglie eziandio in unità quieta. L’essere e il nulla stanno
nel divenire solo come dilaguantisi (nur als Verschwindende); ma il divenire, come tale, non è che in
forza della loro diversità. Il loro dileguarsi è quindi il dileguarsi del divenire, o il dileguarsi del
dileguarsi stesso (Ihr Verschwinden ist daher das Verschwinden des Werdens oder Verschwinden des
Verschwindens selbst). Il divenire è una sfrenata inquietudine (haltungslose Unruhe), che precipita in
un resultato calmo (ruhiges Resultat)» (G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 93; trad. it.,
p. 99). Sasso indica bene l’intenzione di Hegel per cui il «dileguarsi» è la stessa inquietudine del
trapassare del nulla nell’essere (nascere) e dell’essere nel nulla (perire), e che quindi il «dileguarsi del
dileguarsi» imporrebbe allo stesso divenire di dileguarsi e precipitare così in un risultato calmo: il
Dasein (G. SASSO, Benedetto Croce, cit., p. 173). Il punto problematico, però, viene incontrato ad
avviso di Sasso per l’appunto in quest’ultimo passaggio, vale a dire nell’«equivalenza» che Hegel
stabilisce tra «dileguarsi [dell’essere nel nulla e del nulla nell’essere]» e «dileguarsi del dileguarsi» o se
si preferisce tra «l’essere e il nulla stanno nel divenire come dileguantisi» e l’assunzione secondo cui
«il loro dileguare sia perciò il dileguarsi del divenire, o del dileguarsi stesso» (Ibid., p. 174). Secondo
Sasso, invece, la «sfrenata inquietudine» derivante dal continuo dileguare dell’essere nel nulla e del
nulla nell’essere, non può (soltanto per il fatto che se ne proclami il «dileguare» medesimo) davvero
dileguare, dal momento che: «Se l’essere, con il suo dileguare nel nulla (e l’essere è questo dileguare
nel nulla), si annienta, il nulla, con il suo dileguare nell’essere (e il nulla è questo dileguare nell’essere),
nega il primo dileguare e si afferma; e ne deriva allora che mentre l’essere che dilegua nel nulla nega se
stesso, annientandosi, il dileguare del nulla nell’essere sarà negazione di quel dileguare e perciò, in
perfetta simultaneità, affermazione ed essere». Cosicché il risultato autenticamente conseguito da
questa situazione concettuale non è altro che la «sfrenata inquietudine» stessa: «L’identità è la
differenza, la differenza è l’identità: ma l’esser l’una l’altra è appunto la “sfrenata inquietudine”, non la
“quieta semplicità”». Ma la ulteriore e più grave conseguenza da trarsi è che il continuo trapassare,
proprio a causa della sua «irresolubilità», non possa che «chiudersi nella sua immobile forma»; la
quale però non equivale al raggiungimento del Dasein, in quanto «il cristallizzarsi della “sfrenata
inquietudine” non importa il suo togliersi» (Ibid.).
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
a lavorare progredisse verso la sua meta, non poteva rinunziare. E allora trasferì nel
passato quel che nel presente avvertiva come impossibile. Dette per avvenuto quel che
non gli riusciva di far avvenire; e in modo implicito, e senza perciò nominarlo, alluse a
un «soggetto», a un’energia che, agendo alla radice degli astratti essere e nulla, o,
meglio, dell’astratto, a questo imprimeva il necessario movimento, dal quale anche
dipendeva che quelli fossero l’essere e il nulla.148
Ed ecco il punto più delicato che forse sia possibile incontrare in questo giro
di questioni a proposito del «cominciamento» hegeliano. Il punto non è coincidente
con quello rilevato da Adolf Trendelenburg a proposito della «deduzione» hegeliana
del divenire, in cui Hegel avrebbe anticipato il divenire al divenire medesimo non
riuscendo a fare emergere das bewegte Werden da due «momenti» in quiete149. Il
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., pp. 145-146. «La lor differenza è quindi interamente vuota (völlig
leer). Ciascuno dei due è in egual maniera (auf gleiche Weise) l’indeterminato. La differenza non sta
perciò in loro stessi (an ihnen selbst), ma solo in un terzo (in einem Dritten), nell’intendere o
nell’opinare (Meinen). Ma l’intendere od opinare è una forma del soggettivo (eine Form des
Subjektiven), e il soggettivo non si appartiene a quest’ordine d’esposizione. Se non che il terzo (das
Dritte), in cui l’essere e il nulla hanno la loro sussistenza (Bestehen), si deve presentare anche qui
(muß auch hier vorkommen); e si è presentato anche qui: è il divenire (das Werden)» (G.W.F. HEGEL,
Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 78; trad. it., p. 82). L’intero passo hegeliano che ha al proprio centro
le linee appena riportate, iniziante con il riferimento al divenire come «intero» e «vero risultato»
dell’unità delle proposizioni «essere e nulla è lo stesso» e «essere e nulla non son lo stesso», fino alle
poche linee successive al passo riportato, è senza alcun dubbio uno dei passaggi più importanti e
insieme complessi di quanti se ne trovino nelle quattro densissime Anmerkungen che Hegel ha fatto
seguire al primo dei tre «momenti» che scandiscono il divenire, ossia quello intitolato Unità di essere e
nulla. Sasso ha in più di un’occasione richiamato l’attenzione su questo passo hegeliano, e più in
generale sulla figura della Meinung (cfr. G. SASSO, Essere e negazione, cit., pp. 51-52 n. e ID., Il logo, la
morte, cit., pp. 186-187). In particolar modo, il significato delle assai sintetiche riflessioni contenute
nella nota appena richiamata di Essere e negazione, mi sembra debba essere questo. Hegel sostiene
che la «differenza» tra essere e nulla non è in loro stessi, ma in un «terzo», la Meinung per l’appunto.
Subito dopo a questa affermazione riferisce però come la Meinung, non essendo altro che eine Form
des Subjektiven, non appartenga all’ordine di questioni affrontate nella Logica, la quale non si occupa
di Dinge ma di Sachen, ossia di reinen Wesenheiten. Cosicché afferma come il «terzo» in cui l’essere e
il nulla trovano la loro sussistenza, dovendosi presentarsi anche «qui» (ossia nella Logica), sia proprio
il divenire. Il problema è che il divenire è solo in quanto l’essere e il nulla sono diversi; stando soltanto
all’identità dell’essere e del nulla, senza alcuna diversità, il divenire acquisterebbe per intero il
carattere della pura, vuota e astratta identità. Ma la diversità tra essere e nulla è proprio quanto qui
non viene spiegato ma presupposto al proprio concetto, dal momento che l’unica traccia di diversità
era stata poche righe prima rintracciata nella Meinung, la quale però non appartiene all’ordine di
questioni di cui si occupa la Logica, in cui invece il divenire ricade pienamente. Hegel indica nella
Meinung il luogo della differenza tra essere e nulla, ma dopo aver escluso tale «figura» dal discorso ha
introdotto il concetto del divenire, dicendo come in esso sia da rintracciare il «terzo» in cui l’essere e il
nulla sussistono come diversi (in quanto, si ripeta, senza tale diversità non può parlarsi di divenire).
Soltanto che questa diversità non viene dedotta, non si spiega da dove possa e come possa sorgere, una
volta congedata la Meinung. Sicché può ben dirsi che la «forma del soggettivo» della Meinung abbia la
propria «corrispondenza» nella Logica con la figura del divenire, anche se, bisogna aggiungere, la
stessa «corrispondenza» di cui qui si parla non potrebbe non avere la propria casa se non in eine Form
des Subjektiven, mai e poi mai nella Logica stessa.
149 Cfr. A. TRENDELENBURG, Logische Untersuchungen, I, Leipzig 18622, p. 38. Su questo punto Sasso
concorda con il rilievo critico di Trendelenburg nei confronti di Hegel. Il punto su cui invece la sua
critica si discosta da Trendelenburg riguarda non tanto la «conclusione» quanto piuttosto la
«premessa» del discorso hegeliano. Se sull’inadeguatezza della conclusione è in accordo con la relativa
critica di Trendelenburg, non lo stesso può essere detto a riguardo della premessa, che riguarda
«l’ammissibilità dell’astratto come astratto» e «dell’indeterminato (hegeliano) come indeterminato»
(G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 139). La critica di Trendelenburg si riferiva infatti esclusivamente
148
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
punto è semmai quello riguardante in che modo l’essere e il nulla, intesi come Hegel
li intende all’inizio della Logica, possano distinguersi tra loro. Da un lato senza
distinzione non potrebbe certo essere consentito che si continuasse a parlare di
«loro», ossia di essere e nulla. Infatti tramite questa parola li si continua a
distinguere, senza distinguere veramente, allo stesso modo di come potrebbe parlarsi
di «loro» in riferimento a x, x, x, x. Che, senza dubbio, sono quattro nel loro venir
«detti» o «scritti», ma che siano quattro anche nel pensiero150 non potrebbe
facilmente dirsi. La distinzione sarebbe esclusivamente nominale, e quindi anche
parlare di identità «tra» essere e nulla sarebbe fuorviante, in quanto quel termine
starebbe a indicare una differenza la cui possibilità non è stata qui provata. Per questi
motivi sarebbe più appropriato parlare, anziché di identità, di identico. Senza alcun
dubbio, stando all’interno del pensiero hegeliano, la verità tanto dell’essere quanto
del nulla è il divenire, il quale però non sarebbe quello che si pretende che sia se
l’essere e il nulla non si distinguessero151. Se l’essere e il nulla non si distinguessero e
fossero così solo e soltanto un’immediata identità, il divenire non potrebbe certo
sorgere; o meglio, il divenire non sarebbe il divenire ma pura e semplice identità.
Hegel stesso mostra di essersi reso perfettamente consapevole di questo problema,
quando disse che «la verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento
consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro (Ihre Wahrheit ist also
diese Bewegung des unmittelbaren Verschwindens des Einen in dem Anderen): il
divenire»152. Il problema è quello del «movimento», che Sasso mette in rilievo
tramite queste parole:
La difficoltà, o, se si preferisce, l’incertezza, si notano […] nel punto in cui, dopo
averlo definito puro, assoluto, scevro perciò di ogni interno riferimento a
determinazioni di sorta, egli sostenne che quello fosse un nulla da cui doveva (si badi:
doveva) venir fuori «qualcosa»: un nulla, dunque, che, se era puro, se era la stessa cosa
dell’essere preso nella sua immediatezza, e al di qua, quindi, di ogni determinazione, in
forza di che avrebbe potuto uscir fuori dal suo vuoto riferimento a un essere che, a sua
alla pretesa di ricavare il divenire, e il conseguente Etwas, dalla pura, vuota e indeterminata identità
dell’essere e del nulla; ma non si riferiva all’ammissibilità stessa del concetto di indeterminatezza qui
presa in considerazione da Sasso. Per quanto riguarda la spinosissima questione dell’«astratto»
all’interno della filosofia di Hegel e del rilievo che secondo Sasso è necessario muovergli, vedi quanto si
è detto sopra. Per quanto riguarda invece il problema del divenire in Hegel cfr. soprattutto G. SASSO,
Tempo, evento, divenire, cit., pp. 331-353, e ID., Il logo, la morte, cit., 173-188.
150 Che per Sasso equivale a «essere», o «logo», o «filosofia». Cfr. G. Sasso, Essere e negazione, cap.
VII.
151 «È nel divenire che l’essere e il nulla sono come diversi (als unterschiedene): il divenire è solo in
quanto essi son diversi (Werden ist nur, insofern sie unterschieden sind)» (G.W.F. HEGEL,
Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 78; trad. it., p. 82).
152 G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 67; trad. it., p. 71.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
volta, era anch’esso così puro, e indeterminato e vuoto da poter essere immediatamente
identificato con lui?153
Senza perdersi ora nelle tante e tante osservazioni che su questo punto, ben
messo in rilievo da Sasso, si potrebbero fare è però opportuno, prima di concludere
questo paragrafo, soffermarsi su quel «doveva» citato da Sasso. A guardar con
attenzione sono due i punti (almeno i più significativi) in cui, all’interno della Logica,
Hegel mostra come dal «cominciamento» indeterminato e immediato «debba» uscir
qualcosa, o sia «già» contenuto qualcosa da cui far seguire il successivo, iniziale,
movimento. Senza volerli qui commentare nel modo in cui meriterebbero è però
importante almeno riportarli e mostrare come il punto toccato da Sasso tramite
quella parola voglia in realtà alludere a qualcosa di assai grave e difficile da
«superare» all’interno del sistema hegeliano154. Il primo passo a cui ho alluso poco fa,
è contenuto all’incirca a metà della parte intitolata Con che si deve incominciare la
scienza?, la quale come noto da l’avvio alla «dottrina dell’essere», e recita:
Nulla è ancora, e qualcosa deve divenire (es soll Etwas werden). Il
cominciamento non è il puro nulla, ma un nulla (ein Nichts) da cui deve uscire
qualcosa (von dem Etwas ausgehen soll). Dunque anche nel cominciamento è
già contenuto l’essere. Il cominciamento contien dunque l’uno e l’altro (Der
Anfang enthält also beides), l’essere e il nulla; è l’unità dell’essere col nulla (ist
die Einheit von Sein und Nichts); – ossia è un non essere, che è in pari tempo
(zugleich) essere, e un essere, che è in pari tempo non essere.155
Ora è naturale che da queste parole non possano che sorgere almeno due
interrogativi: se il nulla è un von dem, come può continuare ad essere considerato,
ciò nonostante, il nulla? Come può il nulla, nelle pagine a seguire, essere indicato
anch’esso come Bestimmungslosigkeit, se da esso «deve uscire qualcosa»? Il secondo
punto che mi sembra opportuno riportare si trova alla fine dell’ultimo capito della
Logica, riguardante die absolute Idee. Senza poter richiamare tutto il contesto in cui
questo passaggio viene a comparire, nel riportare il passo fondamentale si tenga
ferma l’attenzione sul punto che qui vuole essere colto e discusso, vale a dire
l’indeterminatezza del cominciamento assoluto.
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 177.
Vale a dire al fatto che das unbestimmte Unmittelbare non sia in realtà unbestimmte, e che quindi
la «purezza» del cominciamento e la sua corrispettiva mancanza di Voraussetzungen vadano
necessariamente in pezzi.
155 G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 58; trad. it., p. 59.
153
154
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
Il cominciamento non ha pertanto per il metodo nessun’altra determinatezza
che quella di essere il semplice e l’universale; questa appunto è la determinatezza per
cui esso è manchevole (mangelhaft). L’universalità è il puro, semplice concetto, e il
metodo, come coscienza (als das Bewusstsein) del concetto, sa (weiß) che l’universalità
è soltanto un momento e che in essa il concetto non è ancora determinato in sé e per sé.
Ma con questa coscienza, che vorrebbe portar avanti il cominciamento solo a cagione
del metodo, questo sarebbe un che di formale, posto nella riflessione esterna. Ora
invece siccome il metodo è la forma oggettiva, immanente, l’immediato del
cominciamento (das Unmittelbare des Anfangs) dev’essere (muss) in lui stesso il
manchevole (an ihm selbst das Mangelhafte), ed esser fornito (begabt sein)
dell’impulso (Triebe) a portarsi avanti (sich weiter zu führen). […] l’immediatezza
dell’universale (die Unmittelbarkeit des Allgemeinen) è quello stesso che qui si esprime
come l’essere in sé senza essere per sé (das Ansichsein ohne Fürsichsein). – Si può
quindi benissimo dire che ogni cominciamento si debba fare con l’assoluto, come anche
ogni avanzamento non è che l’esposizione di esso, in quanto ciò che è in sé è il concetto.
Ma siccome cotesto è soltanto in sé, così in pari tempo (ebensosehr) non è l’assoluto, né
il concetto posto e nemmeno l’idea; poiché questi sono appunto che l’essere in sé è
soltanto un momento astratto unilaterale (das Ansichsein nur ein abstraktes,
einseitiges Moment ist). L’avanzamento non è quindi quasi un che di superfluo (der
Fortgang ist daher nicht eine Art von Überfluß); sarebbe tale se, veramente, l’iniziale
fosse già l’assoluto (wenn das Anfangende in Wahrheit schon das Absolute wäre); ma
l’avanzare consiste anzi in ciò che l’universale determina sé stesso ed è per sé
l’universale, vale a dire anche individuo e soggetto. Solo quando è compiuto esso è
l’assoluto (Nur in seiner Vollendung ist es das Absolute).156
Ogni parola di questo eccezionale passo hegeliano pone problemi. Nel
concentrarsi su quelle che più di ogni altra sottolineano la difficoltà di cui Hegel ha
qui cercato di venire a capo, Sasso commenta: «se il “manchevole” è il “non assoluto”,
l’indifferenza alle determinazioni, che, proprio perciò, come Hegel dice, si fa
“impulso” (Trieb) alla loro conquista, è pur chiaro che la direzione dell’impulso è
guidata dall’essere, dal risultato e che il tempo della negazione rientra perciò
nell’eterno dell’affermazione, senza poterne alterare l’assolutezza, la necessità,
l’immodificabilità»157. Ciò che in questa considerazione Sasso intende sottolineare
può essere felicemente sintetizzato con la frase di Hegel, sopra citata, secondo cui
«l’avanzamento non è quindi quasi un che di superfluo». È proprio tale nonsuperfluità che Sasso contesta con decisa veemenza, riflettendo sul fatto che se tutto il
processo, dal suo «inizio» sino al raggiungimento della perfetta identità di in sé e per
G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., II, pp. 489-490; trad. it., pp. 940-941. A proposito della
prima parte del passo hegeliano appena riportato, bisogna riconoscere come più di un autore
nell’odierno panorama filosofico italiano gli abbia dedicato particolare attenzione, senza per altro far
mancare su di esso il proprio giudizio critico. Gli autori a cui alludo, oltre naturalmente a Sasso, sono
E. SEVERINO, La struttura originaria, cit., pp. 53-54 (il quale tende a dare maggior risalto alle parole
an ihm selbst), e M. CACCIARI, Dell’Inizio, cit., p. 109 (che invece insiste maggiormente sul termine
Trieb). Pur in un contesto teorico assai diverso fra loro e con argomentazioni, almeno in parte,
differenti, mi sembra che i tre filosofi qui richiamati convergano nel sottolineare come la deduzione del
divenire tentata da Hegel non riesca ad essere quello che pretende di essere, vale a dire esente da
qualunque tipo di «presupposto».
157 G. SASSO, Benedetto Croce, cit., p. 167.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
sé, è direzionato e determinato dal risultato, non resta che trarre la conclusione per
cui, in questo quadro concettuale, il «manchevole» e il «perfetto», «l’in sé e il per sé»,
«non sono che personaggi scontati, destinati a ripetere in eterno le loro parti» 158. Il
problema è, per concludere, il medesimo che già sopra è stato toccato; e se si vuole
ancora maggiore in quanto ai problemi toccati se ne aggiunge un altro, o altri, dal
momento che vengono qui ad intrecciarsi la dialettica tra in sé e per sé con il
problema del divenire. Al problema della «purezza», che qui sta per «immediata
indeterminatezza», del cominciamento, si interseca in queste pagine finali della
Logica il tema incontrato all’inizio di questo paragrafo tra astratto (in sé) e concreto
(per sé). Senza voler qui far riferimento al problema del «circolo vizioso»159, ma
volendo tenere fisso lo sguardo sul problema che si stava in precedenza dibattendo,
sorge un’ulteriore domanda: se il cominciamento «è fornito» dell’impulso a portarsi
avanti, come può essere indeterminato? L’esser fornito importa una particolare
costituzione che determini das Unmittelbare des Anfangs ad andare avanti, e a
seguire in tal modo un cammino necessario. Anche qui, in queste pagine finali della
Logica, torna a mostrare il suo volto il problema, assai grave per le filosofie
«idealiste», della mancanza, delle privazione, della στέρησις. Il problema, in termini
hegeliani, della consistenza e valenza ontologica dell’astratto160, e sarà proprio questo
concetto ad essere messo al centro dell’attenzione nel prossimo paragrafo su
Giovanni Gentile.
Ibid., p. 168.
Cfr. G. SASSO, Essere e negazione, cit., pp. 385-387.
160 Il cui tratto maggiormente problematico può ben essere così, seppur in modo alquanto sintetico,
indicato: «Il Verstand hegeliano è una potenza separante e lacerante che si esercita entro il quadro
della riunificazione. Produce un dramma che non si risolve mai in vera tragedia, arrivando a
coinvolgere lo stesso teatro nel quale si rappresenta» (G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 429). Su ciò,
all’interno di una più generale discussione sul sillogismo, cfr. anche Fondamento e giudizio, cit., pp.
117-120. Inoltre, senza poter entrare nel merito a riguardo di ciò in questa sede, per avere più
concretamente presente cosa Sasso intenda dire tramite la netta separazione di «dramma» e
«tragedia», cfr. Storiografia e decadenza, cit., pp. 336-343, in cui in poche ma dense pagine
contrappone esplicitamente, tramite questo binomio, i modi di pensare la decadenza all’interno del
processo storico da parte di Karl Marx e di Niccolò Machiavelli.
158
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
4. Il
passaggio
dalla
logica
dell’«astratto»
alla
logica
del
«concreto» nel pensiero di Giovanni Gentile
In questo paragrafo si cercherà di affrontare il problema riguardante il modo
in cui Giovanni Gentile, al culmine del suo pensiero (riconducibile in particolar modo
al secondo volume del Sistema di logica), tentò di «dedurre» la logica dell’astratto
dalla logica del concreto e quindi il «passaggio» dalla prima alla seconda. È bene
peraltro tener da subito presente come la riflessione gentiliana a riguardo del
rapporto tra le due logiche (che può a ragione essere giudicato come «il» problema
più delicato e strutturale dell’intero attualismo)161 sia variamente mutata nel corso
degli anni; a partire da quando tenne presso la Biblioteca filosofica di Palermo (nel
dicembre del 1911) la memoria su L’atto del pensare come atto puro162, passando per
la Teoria generale dello spirito come atto puro del 1916, proseguendo attraverso il
primo (1917) e il secondo (1923) volume della sua maggiore opera filosofica, ossia il
Sistema di logica come teoria del conoscere, per arrivare a La filosofia dell’arte,
apparsa nel 1931, e concludere con l’uscita (dopo la sua morte ma in quello stesso
anno 1944) del suo ultimo libro Genesi e struttura della società. Oltre a restringere
l’attenzione ad alcune parti del primo e del secondo volume del Sistema di logica –
scelta in parte determinata da ragioni materiali ma in parte anche dovuta alla
maggiore attenzione conferita da Gentile in quest’opera al problema che qui sta a
cuore analizzare – ci si concentrerà sulla lettura che di questa «deduzione» del
concreto dall’astratto ha dato Sasso. Come noto gli studi dedicati da Sasso a Gentile,
in particolar modo nel corso degli ultimi tre decenni, sono variegati e oltre ad aspetti
specifici riguardanti la filosofia dell’atto puro prendono anche in considerazione
alcuni tratti non secondari degli studi «storiografici» svolti da Gentile nel corso di
lunghi anni, nonché di momenti particolarmente significativi della sua biografia
«La distinzione tra pensiero astratto e pensiero concreto è fondamentale; e il trasferimento dei
problemi dal pensiero astratto al concreto è, si può dire, la chiave di volta di tutta la nostra dottrina»
(G. GENTILE, Teoria generale dello spirito come atto puro, Firenze 19987, p. 94); ed è necessario, per
comprendere appieno il senso di questa frase, far cadere l’attenzione non tanto sulla «distinzione» tra
astratto e concreto, quanto sul «trasferimento» delle problematiche dal primo al secondo,
sottolineando come qui risieda la maggiore difficoltà per il pensiero di Gentile.
162 «Per quanto, nella ricerca delle origini dell’idealismo attuale, ci si spinga indietro, e per quanto forte
sia stata la tendenza del suo autore ad anticipare gli inizi, non è possibile, per quanto concerne la
questione dell’astratto e del concreto, oltrepassare a ritroso la data del 1911/12, ossia il periodo nel
quale Gentile compose le due memorie palermitane su L’atto del pensare come atto puro e su Il
metodo dell’immanenza» (G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, Giovanni Gentile, Napoli 1995, pp. 165166).
161
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
personale (come l’adesione data al regime fascista nel maggio del 1923)163. L’intento
di questo paragrafo, come di quelli che lo hanno preceduto, è sì esaminare alcuni
aspetti essenziali della teoresi gentiliana, ma in particolar modo esaminare come
nella lettura e nella conseguente critica fatta cadere da Sasso su questi aspetti,
agiscano alcune specifiche e peculiari categorie della sua riflessione più
marcatamente speculativa. Si ricerca pertanto, come del resto già accennato all’inizio
del presente lavoro, di trovare il «Sasso filosofo» all’interno del «Sasso esegeta e
interprete di filosofie altrui», per dirlo in modo alquanto schematico164.
Per queste ragioni, oltreché per quella più ovvia riguardante la perizia filologica e il rigore esegetico
con cui ha condotto tali studi, può senz’altro sostenersi come l’attenzione data da Sasso allo studio
dell’opera di Gentile sia paragonabile a quella rivolta alle opere di Benedetto Croce e Niccolò
Machiavelli. Per il paragrafo che sta iniziando mi concentrerò particolarmente su due saggi, composti
da Sasso, esplicitamente dedicati allo studio del rapporto tra le due logiche gentiliane. Il primo, e più
importante, a cui alludo è intitolato La questione dell’astratto e del concreto. Questo saggio, che
considero il più importante tra i tanti notevoli da Sasso dedicati all’esame dell’attualismo, è diviso in
tre parti: la prima (Dal 1912 al 1917) è comparsa per la prima volta, come saggio a sé stante, nel 1994
all’interno del fascicolo monografico del «Giornale critico della filosofia italiana» dedicato a Croce e
Gentile un secolo dopo, mentre la seconda (Verso il ‘Sistema di logica’) e la terza (Nel ‘Sistema di
logica’ e oltre) sono apparse per la prima volta nel secondo volume, interamente dedicato a Gentile, di
Filosofia e idealismo, la raccolta dei vari saggi, in sei volumi, scritti da Sasso a proposito dell’idealismo
italiano, di cui questo saggio sulla questione dell’astratto e del concreto costituisce il terzo capitolo. Il
secondo saggio, dal titolo Giovanni Gentile: le due logiche e il loro rapporto, è invece uscito
inizialmente nel terzo fascicolo del 2007 della rivista «La Cultura», ed è stato successivamente raccolto
nel sesto volume di Filosofia e idealismo. Ultimi paralipomeni, Napoli 2012, pp. 267-314. Per il tema
che qui maggiormente interessa segnalo inoltre il saggio del 2008, sempre raccolto in questo sesto
volume di Filosofia e idealismo, su Gentile, Croce e la distinzione (pp. 211-268).
164 Se non si tiene in debito conto questo punto, mi sembra che ci si lasci sfuggire molte analisi e prese
di posizione di Sasso, variamente argomentate nei sui libri sull’idealismo italiano oltreché in altri testi
di carattere non strettamente teoretico. A specifico riguardo dell’autore di cui ora si andrà a parlare,
vale a dire Gentile, può essere riportato un esempio particolarmente significativo. Come è noto Sasso
ha in varie sedi sottolineato con forza come la ragione per cui Gentile aderì al regime fascista, e poi
sempre vi rimase fedele fino alla tragica morte avvenuta il 15 aprile 1944, non possa essere in alcun
modo ricavabile o derivabile dalla «teoria dello spirito come atto puro» (cfr. G. SASSO, La fedeltà e
l’esperimento, cit., pp. 101-105; ID., Visitando una mostra. Considerazioni, ricordi, polemiche (1986) e
Gentile e il nazionalsocialismo. Appunti e documenti (1995), entrambi raccolti in Filosofia e
idealismo, II, pp. 11-52, 399-423; i primi nove paragrafi di Gentiliana et Cantimoriana (2009), in
Storiografia e decadenza, cit., pp. 183-208). Su tale questione si è particolarmente soffermato nel suo
ampio lavoro su Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998. Pur non essendo minimamente
possibile soffermarsi in questa sede, per di più in una nota, su di un lavoro di questa ampiezza e
importanza, è necessario comunque ricordare come secondo Sasso l’adesione data, e poi sempre
ribadita, da Gentile al fascismo, pur non avendo nulla a che fare con la filosofia dell’atto, non per
questo sia stata determinata da ragioni estrinseche o del tutto casuali. Detto in modo più che
schematico, il motivo per cui Gentile si legò al fascismo è determinato da una sua assai meditata e
complessa interpretazione della storia d’Italia, e in particolare dalla sua lettura dell’Umanesimo (in cui
la figura di Francesco Petrarca assume un’importanza quasi emblematica: cfr. i capp. I e III), del
Rinascimento, oltreché del Risorgimento. La via, dunque, che Gentile percorse per approdare al
fascismo fu «politica, passionale, storiografica» ma «filosofica, in senso stretto, proprio non fu» (Ibid.,
p. 575). Non potendo esser possibile dire di più a riguardo di tale questione, non bisogna comunque
dimenticare come questa ricerca sulle «due Italie» di Sasso costituisca una vera e propria
Auseinandersetzung con i saggi di Augusto Del Noce dedicati a Gentile (per il giudizio di Sasso, assai
negativo, sugli studi gentiliani di Del Noce, cfr. anche Filosofia e idealismo, II, cit., p. 167 n. 5;
Filosofia e idealismo, VI, cit., pp. 266-267. I saggi delnociani a cui si allude sono ovviamente quelli
raccolti ne Il suicidio della rivoluzione (1978), Fondazione Centro Studi Augusto Del Noce, ed., Torino
2004, e nel volume uscito postumo Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia
163
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
Entrando subito in medias res, il problema che deve sin da subito esser
messo in evidenza a riguardo del rapporto tra le due logiche gentiliane presenta
questo carattere:
quando, riconosciuta nella formula della pura identità la sostanza profonda
dell’astratto, ossia del «pensiero pensato» (che non è il «pensante» e a questo sta, in
sostanza, come la natura al logo), subito la questione inevitabile appare quella del
«passaggio» al «pensiero che pensa», all’atto del pensiero o al pensiero come atto, la
cui caratteristica è la libertà che supera, spezzandola, l’immota circolarità
dell’identico.165
Per potersi addentrare nei luoghi dei testi gentiliani che illustrano
maggiormente questo «passaggio» e nelle rispettive analisi sviluppate da Sasso, è
necessario delineare meglio la peculiare fisionomia dell’«astratto» nel pensiero di
Gentile. Nel fare questo si può prendere in considerazione il modo in cui Gentile, nel
primo e poi nel secondo volume del Sistema di Logica, interpreta il pensiero di
Parmenide. Il ruolo «ambiguo»166 assegnato da Gentile in quest’opera al pensiero di
Parmenide è un punto su cui Sasso insiste molto, notando come il posto che il filosofo
siciliano riserva al «venerando e terribile» Parmenide all’interno del suo sistema
contemporanea, Bologna 1990), sia per quanto riguarda i risultati a cui i due studiosi giungono, sia a
riguardo delle modalità d’analisi da loro condotte. Per concentrarsi sul punto che intendo qui mettere
in rilievo, è bene soffermarsi sulle brevi pagine conclusive di questo ampio lavoro di Sasso; nelle quali,
oltre alla ribadita presa di posizione nei confronti di Del Noce (cfr. Le due Italie, cit., pp. 568, 572-575),
oltre a sottolineare con forza l’intento più specifico del suo libro e della linea che in esso ha tracciata, e
cioè l’autentica ragione per cui Gentile si legò al regime mussoliniano, oltre a tutto ciò Sasso pone
l’accento su di un punto che, anch’esso accennato a più riprese durante il corso dell’analisi, riguarda
esplicitamente un elemento di importanza suprema all’interno della sua specifica riflessione filosofica
(cfr. Ibid., pp. 568-570, 571-572). Il punto a cui alludo riguarda il rapporto, o meglio il non-rapporto,
che secondo Sasso lega la politica (ma più in generale la realtà) con la filosofia (la verità). Questo
punto, ossia l’impossibilità che un qualsivoglia progetto politico possa essere dedotto dalla filosofia,
che costituisce anche un tratto teoreticamente rilevante e impegnativo del volume, può essere
autenticamente compreso esclusivamente tramite un confronto diretto con le analisi teoretiche di
Sasso, che fanno sentire anche qui la loro presenza (cfr. lo specifico riferimento all’«orizzonte
relazionale» che si incontra a p. 569). È comunque importante specificare come il «non rapporto» tra
attualismo e fascismo non sia per nulla fatto coincidere da Sasso con la sua tesi secondo cui la filosofia
(non una) non ha alcun contatto con la politica (non una specifica); anzi è da questa espressamente
tenuto distinto (è lo stesso Sasso ad evidenziare questo punto: Ibid., p. 569). La non traducibilità della
filosofia dell’atto in fascismo, ma anche e più in generale in politica, è dovuta a ragioni interne e
strutturali della specifica filosofia delineata da Gentile (a riguardo di ciò cfr. soprattutto il cap. VII). Mi
permetto inoltre di far notare come l’altro autore e interprete dell’attualismo con cui Sasso intende
contrapporsi nelle ultime pagine del suo libro sia Emanuele Severino, sul quale, e in particolar modo
sulla sua idea relativa all’estraneità della filosofia di Gentile al fascismo, è contenuta una fine
riflessione che meriterebbe di essere sviluppata e analizzata di per sé (cfr. Ibid., pp. 570-571). Pur non
essendo citato il suo nome, che Sasso si riferisca a Severino in queste pagine non può non apparire
evidente a chiunque abbia una minima conoscenza del linguaggio e dei temi lì dibattuti (cfr. anche
Ibid., p. 399 n. 13). Cfr. in aggiunta, a riguardo di questo libro, l’audio della presentazione avvenuta a
Roma il 18.02.1999 al seguente indirizzo: http://www.radioradicale.it/scheda/109548/110067-le-dueitalie-di-giovanni-gentile-presentazione-del-libro-di-gennaro-sasso-ed-mulino-c-o-istituto-e .
165 G. SASSO, Essere e negazione, cit., p. 373.
166 G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., p. 265.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
filosofico, è indizio e «radice» della problematicità che segna nel profondo il rapporto
tra logo astratto e logo concreto e il conseguente «passaggio» dal primo al secondo.
Ma prima di procedere con l’esposizione che Gentile fece del «logo» parmenideo
(inizialmente nei primi due paragrafi dell’ottavo capitolo della prima parte e poi nel
terzo paragrafo del secondo capitolo della terza parte del Sistema di Logica) è
opportuno prestare particolare attenzione alle parole di Sasso che verranno ora
riportate, costituenti il nucleo problematico di questo paragrafo:
Astratta o concreta, se era «logica», la logica era per lui [per Gentile]
mediazione, non immediatezza, perché se questo al contrario fosse stata, e cioè
immediatezza, sarebbe stata «natura», non logica. Di qui, come si vede, al fondo della
questione che, in questi termini, Gentile poneva dell’essenza di ciò che è logico, l’altra
questione, che ne era come la radice problematica, della «natura»; che non poteva, in
quanto tale, essere ospitata entro la dimora della logica, che pone l’immediatezza, non
la subisce e la nega, e non poteva tuttavia non essere in qualche modo presupposta,
perché, e si trattasse pure di una «presupposizione» paradossalmente «posta»
piuttosto che subìta, una presupposizione era, - una presupposizione della quale, per
ciò stesso che il suo destino era di negarla, lo spirito non poteva in alcun modo fare a
meno.167
Addentrandosi ora nel modo in cui Gentile interpreta il pensiero parmenideo,
bisogna subito sottolineare come il ruolo «ambiguo» che secondo Sasso caratterizza
tale interpretazione è dovuto essenzialmente a questo motivo: per un verso
Parmenide è visto come il «fondatore» della logica dell’astratto e quindi il suo è
propriamente un «logo»168, ma per un altro verso il «logo» di Parmenide non entra
affatto di diritto nella «logicità», così come viene ad essere definita da Gentile, e
quindi il suo non è un vero e proprio «logo» ma piuttosto pura e semplice «natura».
L’essere di Parmenide è definito da Gentile come «naturale» e «immediato», e da ciò
gli deriva il suo essere «immobile», «continuo», «uno» e non «limitato da altro» 169.
Poche righe dopo Gentile si sofferma su alcuni versi dell’ 8° frammento del poema
parmenideo170 per sottolineare come identico (ταὐτὸν) sia il pensare all’essere,
commentando così il ταὐτὸν parmenideo:
Ibid., pp. 316-317.
G. GENTILE, Sistema di logica come teoria del conoscere, I, Firenze 19554, p. 147.
169 Ibid.
170 «Lo stesso (ταὐτὸν) è il pensare e ciò a causa del quale (οὕνεκεν) è il pensiero,/perché senza l’essere
nel quale è espresso,/non troverai il pensare. Infatti, nient’altro o è o sarà/all’infuori dell’essere (πάρεξ
τοῦ ἐόντος)» (PARMENIDE, fr. 8, vv. 34-37). La traduzione qui riportata è quella di Giovanni Reale (cfr.
PARMENIDE, Poema sulla natura, Milano 1991, 19922).
167
168
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Questa identità di sé con se stesso, che Parmenide si trova innanzi quando cerca
di determinare il concetto del pensiero, è certamente la definizione del pensiero: e noi
l’abbiamo già come tale esposta, dimostrando che l’autocoscienza non è altro che
l’essere che si riflette su se stesso, e in questa riflessione (o idealizzazione) si oppone a
sé, restando, anzi facendosi, identico con se stesso. Ma il ταὐτὸν parmenideo non è
l’essere che, sdoppiatosi, si unifica perché il suo sdoppiamento sia atto dell’unità
originaria; bensì l’essere indifferenziabile, nella sua immediatezza: il punto di partenza
dello sdoppiamento, la cui risoluzione nell’unità originaria realizzerebbe la vera
identità. Di guisa che nel monismo parmenideo c’è la parvenza del pensiero, non la
realtà. La quale richiederebbe sì il momento dell’identità, ma anche quello della
differenza e dell’opposizione. E quest’ultimo nel concetto dell’essere immutabile non è
possibile.171
In questo passo sono rinvenibili diversi temi, nonché esigenze, interne al
pensiero gentiliano. La differenza per esempio tra il modo in cui il «concetto del
pensiero» si presenta, ad avviso di Gentile, in Parmenide e il modo invece in cui viene
a presentarsi nell’idealismo attuale172. Ma la forse maggiore indicazione ricavabile da
questo passo riguarda il modo in cui secondo Gentile l’identità si costituisce
all’interno della sua filosofia, cioè come l’essere che «sdoppiandosi» venga a
unificarsi e sia così «atto dell’unità originaria». Infatti, l’«identico», il ταὐτὸν
parmenideo è «indifferenziabile» e per questo motivo impossibilitato al movimento
dello sdoppiamento e poi della riunificazione con sé; e non essendo possibile
mediazione in questo orizzonte, l’essere/identico parmenideo è «immediato», e qui
immediato sta per natura173. Qualche pagina dopo, all’inizio della seconda parte
dell’opera, Gentile sostiene (a discapito di quanto aveva detto in precedenza) che
colui che «comincia» la logica (la logica in generale, ma più specificatamente quella
dell’astratto) è Socrate (quindi non Parmenide), in quanto con lui «l’essere spezza la
dura crosta primitiva della immediatezza naturale, in cui s’era fissato nelle concezioni
degli Eleati e degli Atomisti», aggiungendo subito che l’identità, intesa come
G. GENTILE, Sistema di logica, I, cit., p. 148.
Questa differenza/discordanza è da Gentile attribuita, più in generale, a tutta la filosofia antica e
moderna, pur con i dovuti distinguo che devono essere mantenuti. Cfr. a riguardo di ciò soprattutto
l’importante memoria, tenuta il 16 dicembre del 1912 alla Biblioteca filosofica di Palermo, su Il metodo
dell’immanenza (poi raccolta due anni dopo ne La riforma della dialettica hegeliana), e anche il terzo
capitolo dell’ampia Introduzione del primo volume del Sistema di logica, cit., pp. 32-46.
173 Per «natura», termine così importante nella filosofia di Gentile, bisogna qui intendere «non la
natura naturans teorizzata da Spinoza, la quale possiede in sé il principio attivo della generazione, ma
la natura naturata che, in quanto tale, a tal punto non ha con l’altra alcun contatto che nemmeno nelle
più lontane età della sua storia potrebbe, ripiegandosi su sé stessa, ritrovarne il segno o l’indizio; e non
tanto perché di ripiegarsi su sé stessa sia incapace, quanto piuttosto perché, se è natura, è
immediatezza, se è immediatezza, non ha una storia, e per questo solo è incapace di ripiegarsi su sé e
riflettersi nello specchio della sua propria coscienza» (G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., pp. 317318).
171
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
momento della logicità, è identità non immediata ma «unità di differenze»174. Per
chiarire quest’ultimo punto Gentile fa seguire un esempio, in cui afferma che l’essere
naturale (parmenideo) si differenzia dall’essere pensato o concetto (socratico) come,
schematicamente, A si differenzia da A = A. Non essendoci pensiero alcuno senza
mediazione, l’essere naturale (così come A) non è «pensabile», in quanto per esserlo
dovrebbe contenere in sé la differenza che lo faccia essere identico a se stesso (A = A).
Ma come è già stato affermato l’essere naturale è «indifferenziabile» proprio in
quanto «immediato». Allora, per quello che è stato appena detto, risulta opportuno
sostenere che «il logo astratto ha già lasciato dietro le spalle l’immediato, e, oltre a
essere astrazione, è anche logo – pensiero e concetto»175.
Andando qualche pagina indietro, all’inizio del capitolo ottavo della prima
parte, si trova questa fondamentale osservazione:
L’essere per essere realizzato come veramente immutabile, deve: 1° non esser
pensato (o non esser pensato come pensato); 2° non essere propriamente (pensato
come) immutabile. Infatti il pensiero turberebbe e annullerebbe l’immobilità
dell’immutabile; laddove, prescindendo dal pensiero, l’immutabile non è più tale;
perché non mutare è essere identico; e identità importa A = A, ossia una riflessione su
di se stesso che è propria soltanto del pensiero, e che su ciò che non sia pensiero può
essere esercitata soltanto dal pensiero. Donde le conclusioni negative e scettiche che il
gran sofista Gorgia di Lentini ricavò dall’intrepido unizzare di tutti gli Eleati: l’essere,
non essere; se fosse, non esser conoscibile; se fosse conoscibile, non essere
enunciabile.176
Prima di procedere oltre, e notare come la questione che ha iniziato qui ad
essere prospettata trovi all’inizio del secondo capitolo della terza parte del Sistema di
Logica il suo momento culminante, si rifletta su questo passo e su quello sopra
riportato riguardante il modo in cui Gentile legge il ταὐτὸν di Parmenide. L’essere di
Parmenide non è l’essere che «sdoppiatosi, si unifica perché il suo sdoppiamento sia
atto
dell’unità
originaria»,
ma
è
«l’essere
indifferenziabile»
nella
sua
«immediatezza». Non è A che sdoppiandosi viene poi a ricongiungersi con sé (A = A),
ma è il puro, immediato, indifferente, immobile, A. Proprio a questo punto,
riguardante il modo in cui Gentile concepisce questo essere immutabile, è presente
una conseguenza al discorso gentiliano di grande interesse. L’atto, il pensiero, il
concreto, per Gentile sono divenire, un continuo fieri, che mai è perché sempre
diviene. Per questo motivo, e in modo conseguente, Gentile indica all’inizio del passo
G. GENTILE, Sistema di logica, I, cit., p. 169.
M. MUSTÈ, La filosofia dell’idealismo italiano, Roma 2008, p. 69.
176 G. GENTILE, Sistema di logica, I, cit., p. 149.
174
175
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citato come un essere «veramente» immutabile non solo non può essere in alcun
modo pensato, ma non può essere propriamente nemmeno immutabile. Pensato,
verrebbe modificato dal pensiero; ma allo stesso modo verrebbe dal pensiero
modificato se fosse immutabile, cioè identico; in quanto l’identità (A = A) importa
una differenza, una riflessione, che può provenire solo dal pensiero. Per queste
ragioni Gentile riferisce le celebri parole di Gorgia, che devono essere secondo lui
riferite ad un essere che pretenda di essere veramente immutabile. La domanda che
sorge è: questo essere veramente immutabile, che posto viene ad occupare all’interno
dell’attualismo? E se, come si è detto, questo «essere» corrisponde alla natura, quale
posto per la natura nel sistema dell’idealismo attuale? Un problema ulteriore sorge
con l’esigenza, centrale com’è stato appena sottolineato per l’attualismo, del
mutamento, del divenire, della dinamicità che sempre travolge e supera la staticità.
Allora non può che presentarsi la seguente domanda: come può avvenire il
«passaggio» al pensiero? Come può accadere, in questo quadro categoriale, il
passaggio da A ad A = A; vale a dire dalla natura al pensiero pensato? Questo
problema è lo stesso problema che si verrà ad analizzare a proposito del passaggio dal
logo astratto al logo concreto, solo posto su di un altro piano 177. La risposta a questa
domanda può essere intravista nella frase in cui Gentile indica esplicitamente
nell’essere
«indifferenziabile»,
«immediato»,
il
«punto
di
partenza
dello
sdoppiamento», «la cui risoluzione nell’unità originaria realizzerebbe la vera
identità». La vera identità, la «legge fondamentale della logica dell’astratto», è A = A
ed è in questa unità originaria che essa si «realizza». Ma nel dire che l’essere
immediato, parmenideo, è il punto di partenza (A) dello sdoppiamento (A a sinistra e
A a destra del simbolo di uguaglianza), significa affermare che l’essere immediato
viene a far parte della vera identità (A = A), ne è appunto l’«inizio», seppur non
temporale ma logico. Da un lato significa affermare, più o meno esplicitamente, che
l’essere immediato in quanto «molla» della mediazione, non è propriamente
immediato. Da un altro lato però, significa affermare che questo essere immobile,
indifferenziabile, immediato, naturale, non appartiene in alcun modo al pensiero; e
dal momento che il pensiero nell’attualismo gentiliano occupa l’intero ambito del
«Di qui, alla radice dell’astratto la situazione che si ritroverà, identica, alla radice del concreto; e
l’esigenza, per questo aspetto, di una deduzione dell’astratto dalla natura, del tutto analoga o, meglio,
identica, a quella che si pone per il concreto che, anch’esso, è costretto, per negarlo, a presupporre
l’astratto, e deve perciò giustificarlo e dedursene» (G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., p. 317).
177
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
reale, tale essere viene ad essere completamente escluso da tale ambito178. Il
problema che viene così a porsi riguarda la necessità che il pensiero fosse «già
presente» nella natura affinché questa potesse superare la propria immediatezza, ma
nel sostenere ciò era impossibile che la natura, l’«essere senza il pensiero» 179,
rimanesse natura e non fosse «già» pensiero:
Era impossibile, deve intendersi, per Gentile; che, avendo posta la natura
innanzi al logo e non potendo, malgrado tutto, rinunziare a porla così, non poteva poi
non ritrovare la radice del logo nella stessa natura, che cessava perciò in intrinseco di
essere ciò che si era detto fosse. Ma era bensì impossibile nei confronti della cosa
stessa; e cioè della natura che, conforme alla sua definizione, non poteva esser
dichiarata capace di ospitarla in sé, quella radice; e se ne fosse stata dichiarata capace,
sarebbe venuta meno alla sua definizione.180
Questa è la questione che, in altri termini, verrà tra poco ad imporsi
all’attenzione anche a riguardo del «passaggio» (o meglio: del desiderio del
passaggio) tra logo astratto e logo concreto. Ma prima di parlare di ciò è necessario
fare un accenno al modo in cui la figura di Parmenide è collocata nella terza parte del
Sistema di Logica. È quindi opportuno citare in modo integrale il primo capoverso
del terzo paragrafo del secondo capitolo, in cui Gentile, ritornando a parlare di
È precisamente a proposito di quest’ultimo aspetto del pensiero di Gentile che M. VISENTIN,
Attualismo e filosofia della storia (1999), in Il neoparmenidismo italiano, I, cit., p. 438, ha parlato del
suo pensiero come espressione, certo involontaria, di una «filosofia neoeleatica». Tale «eleatismo», o
anche «parmenidismo», è determinato da un lato dal fatto che in Gentile (come anche in Croce) non
c’è propriamente uno «spazio» all’interno del suo sistema filosofico che faccia posto al meramente
empirico (nel linguaggio gentiliano al logo astratto dell’astratto), da un altro lato dall’avere l’empirico
realtà solo ed esclusivamente grazie alla negazione che il concreto esercita su di lui. Il logo astratto
dell’astratto è ciò che viene radicalmente escluso e negato in modo assoluto dal pensiero (unità questo
del logo astratto concretamente inteso e del logo concreto). In altre parole secondo Visentin si
ripropone, nel fondo del pensiero di Gentile, una completa separazione tra ἀλήθεια e δόξα. Di Visentin,
oltre al saggio appena citato, cfr. anche Il concetto attualistico della religione. Cattolicesimo, diritto e
morte fra astratto e concreto (2003), in Il neoparmenidismo italiano, I, cit., pp. 233-258; Gentile e il
modernismo di Blondel, in Ibid., pp. 259-287 (in part., pp. 268-274); Le filosofie dello spirito di Croce
e Gentile (logica e metafisica del neoidealismo italiano), «Giornale critico della filosofia italiana»,
2/2011, pp. 274-306 (in part., pp. 279-289). Inoltre Visentin ha proposto un paragone tra il modo in
cui nell’attualismo si nega la «molteplicità» irrelata (cfr. G. GENTILE, Teoria generale, cit., p. 121), e il
modo in cui nell’idealismo hegeliano viene trattato ciò che non viene incluso nel movimento dialettico,
ossia nell’Aufheben, e che per tale motivo viene anch’esso negato in modo assoluto (Il
neoparmenidismo italiano, I, cit., p. 428). In nota a questa pagina Visentin fa riferimento al tratto «adialettico» del pensiero hegeliano su cui ha insistito E. De Negri, a proposito dell’«accidentalità della
natura», nel capitolo IX della sua Interpretazione di Hegel, cit. Senza voler ora entrare nella questione
analiticamente, è interessate per il punto qui toccato far notare come anche E. SEVERINO, Tautótēs, cit.,
c. VI, § 2, pur senza soffermarsi esplicitamente su ciò, indica chiaramente come attraverso l’Aufheben
permanga un residuo di annullamento assoluto, non «conservato» all’interno del processo dialettico. Il
riferimento di Severino è a G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik, cit., I, p. 94; trad. it., p. 100.
Questo rilievo di Severino, certamente non per intero sovrapponibile a quello di De Negri, mi sembra
possa essere però ad esso complementare.
179 G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., p. 319.
180 Ibid., p. 318.
178
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Parmenide, introduce dei nuovi elementi alquanto interessanti e significativi a
quanto aveva detto a proposito dell’eleate nella prima parte dell’opera.
Finché il pensiero umano interrogò la muta natura, non poté averne risposta.
Lungi dal rispondergli, la natura schiaccia l’uomo, spegne il pensiero. Parmenide
immedesima il pensiero con l’essere: ogni naturalista fa del suo pensiero natura; e
negando la libertà nega la possibilità stessa della riflessione e però del pensare (del
pensare la stessa natura). La logica comincia quando la natura si idealizza, riflettendosi
in modo che non sia più semplice natura, ma natura identica a se stessa, e però avente
una essenza, una intelligibilità, come un terreno in cui l’uomo possa poggiare il piede,
un essere che cessi di essere eterogeneo ed impenetrabile al pensiero. Questa natura,
diventata pensiero, finalmente risponde al pensiero, e dice: – Io sono natura. – E non
può dire che così. Non può rispondere da prima: – Io sono pensiero, – perché ancora
non ha acquisita coscienza della profonda trasformazione in sé prodotta da questa sua
riflessione su se stessa. Il suo primo riflettersi è nient’altro che questo ragguaglio:
natura = natura, A = A. (Perciò Platone non giunge a intendere la spiritualità delle sue
idee, e le lascia di fronte al pensiero in quella stessa posizione, che aveva sempre avuta
la natura dei Presocraici).181
Ed ecco che qui, in questo passo molto significativo, si può notare in modo
assai più esplicito e problematico il punto che già prima era stato messo in luce. In
questo passo due problemi vengono ad imporsi, seguendo i quali si inizia anche a
percorrere il tratto di strada che condurrà al centro della difficoltà relativa alla
(ricerca di) deduzione del logo concreto dal logo astratto, ponendo così termine a
questo excursus gentiliano su Parmenide. Il primo problema è quello riguardante il
«tempo»; o meglio il rapporto tra logica (o pensiero) e tempo. Questo problema viene
qui a manifestarsi tramite una parola, decisiva all’interno di questo quadro
concettuale, che Gentile utilizza per indicare il «passaggio» dalla natura al pensiero: e
cioè il «quando» presente nella frase «la logica comincia quando la natura si
idealizza». Questo termine adottato da Gentile, «quando», non può certo essere
inteso come un termine neutro, vale a dire senza spessore, all’interno del discorso
attualistico. Se si chiedesse «quando avviene questo “quando”?», la risposta non
potrebbe che essere «”quando” la natura, riflettendo, e rispondendo al pensiero dice:
“Io sono natura”», e così dicendo non è più natura, ma è già pensiero. Ciò che qui
viene ad imporsi a riguardo del tempo e del suo rapporto con il pensiero, non è certo
possibile risolverla in poche battute, e sarebbe necessario analizzarla in ogni suo
aspetto per riuscire a coglierne il tratto fondamentale. In ogni caso valga qui questa
assai breve, ma allo stesso tempo chiara e precisa, osservazione di Sasso: «Se fosse
stato soggetto al “quando”, il pensiero non sarebbe stato il pensiero. Se fosse stato
181
G. GENTILE, Sistema di logica come teoria del conoscere, II, Firenze 20035, pp. 19-20.
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sottoposto alla legge del pensiero, il “quando” non sarebbe stato ciò che
quell’avverbio designava: non sarebbe stato il “quando”»182. Nel primo caso qui
proposto da Sasso, il pensiero non sarebbe stato sé stesso in quanto «soggetto al
“quando”» non vuol dir altro che «condizionato» o «costituito» dal quando; per tale
motivo non sarebbe più stato assoluto ed eterno. Nel secondo caso il «quando»
sarebbe per intero incluso nel pensiero, dunque «pensiero» e non «quando».
Cosicché può correttamente dirsi che nel quadro attualistico non è il tempo ad essere
il «signore» del pensiero, ma è l’opposto, e cioè è il pensiero a signoreggiare sul
tempo183. Pensare quindi che ci sia un «quando», una sorta di lampo, un ἐξαίφνης di
platonica memoria, in cui la natura «inizi» a rispondere al pensiero, vale a dire a
togliersi dalla sua iniziale e statica immediatezza per passare, riflettendo su di se, alla
mediazione e quindi nel regno del pensiero, pensare questo all’interno del quadro
attualistico è pura follia, o una contraddizione in termini. Se ci fosse un «quando»,
inizialmente esterno al pensiero tramite il quale la natura, passata al suo interno,
acceda così al grado del pensiero, questo passaggio mai potrebbe avvenire, ed è facile
capirne il motivo. Un movimento, un passaggio, un «divenire» così inteso sarebbe per
Gentile nient’altro che un presupposto naturalistico, qualcosa di estraneo al pensiero
stesso: «Il divenire non è intelligibile come legge della realtà se non quando la realtà
si sia immedesimata col pensiero»184. Perché quel passaggio avvenga il «quando»
G. SASSO, Filosofia e idealismo, VI, cit., p. 282.
Per lo specifico rapporto, all’interno dell’attualismo, tra atto e tempo, non posso che rinviare
all’ampio e notevolissimo saggio di Sasso su L’atto, il tempo, la morte (1994), in Filosofia e idealismo,
II, cit., pp. 53-164, in cui la questione a cui qui si accenna è sviluppata analiticamente su più testi
gentiliani. Il saggio è inoltre impreziosito da un’analisi finale dedicata ai §§45-53 di Sein und Zeit (cfr.
pp. 141-164), in cui Sasso, a stretto contatto con il testo heideggeriano, sottolinea alcune convergenze
tra questo e il modo tenuto da Gentile di pensare la morte – al di là quindi dei rapporti, peraltro non
particolarmente significativi, intercorsi tra i due filosofi. A proposito di quest’ultimo punto cfr. Di
Gentile, di Heidegger e della loro reciproca conoscenza. Documenti e aneddoti (1995), in Filosofia e
idealismo, II, cit., pp. 383-397. Per quanto riguarda il problema del tempo e anche dello spazio con
l’atto puro, pur non essendo dedicato esclusivamente a queste questioni, cfr. anche integralmente il
saggio in precedenza citato di M. VISENTIN, Attualismo e filosofia della storia, cit., pp. 401-440, in
part. pp. 420 sgg.
184 G. GENTILE, Sistema di logica, II, cit., p. 66. A proposito del modo in cui Gentile pensa il divenire e
di come si discosti dall’intenderlo «intellettualisticamente», si vedano le riflessioni di E. SEVERINO
contenute in Attualismo e «serietà» della storia (1975), in Gli abitatori del tempo. Cristianesimo,
marxismo, tecnica, Roma 1978, pp. 116-127, oltreché nel primo (Nietzsche e Gentile) e nel secondo
(Attualismo e problematicismo) capitolo della seconda parte di Oltre il linguaggio, Milano 1992, pp.
77-98, 99-118. In questi tre saggi Severino delinea la sua interpretazione dell’attualismo gentiliano, la
quale vede in questa filosofia uno dei momenti di maggiore coerenza della «Follia», che nel particolare
lessico severiniano sta ad indicare la persuasione, comune a tutto il pensiero occidentale, di vedere nel
divenire una oscillazione incessante tra l’essere e il non essere. Proprio Gentile, per il modo peculiare
in cui la teoria del divenire si presenta nel suo pensiero, sarebbe uno dei maggiori «distruttori degli
immutabili», uno dei maggiori «rigorizzatori» della Follia di cui tutto il pensiero occidentale è
persuaso. Tale coerenza/rigorizzazione (che con questa forza può essere ravvisata secondo Severino
soltanto in altri due autori della storia del pensiero, ossia Giacomo Leopardi e Friedrich Nietzsche)
182
183
63
Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
deve già essere contenuto nel pensiero, la natura (immediatezza) deve già essere di
per sé mediazione. Ma allora, stante che i termini siano questi, come può parlarsi qui
di «passaggio»? E se quel «quando» è già da sempre contenuto nell’eterna e infinita
attività del pensiero, come può continuare ad esser considerato un «quando»?
Toccato il problema del tempo, e la necessità, all’interno del pensiero di
Gentile, che non sia esso a signoreggiare sopra il pensiero ma sia piuttosto l’opposto,
si diriga ora lo sguardo verso il problema più acuto che possa esser esaminato in
questo paragrafo, vale a dire il modo in cui Gentile tenti il «passaggio» dalla natura al
logo astratto (e successivamente dal logo astratto al logo concreto). Innanzitutto
Gentile sostiene come il «pensiero umano» interrogando la natura non può da essa
consiste nel non ammettere, accanto all’incessante e travolgente passaggio dal non essere all’essere e
da questo a quello in cui il divenire consiste, alcun «immutabile» (vale a dire alcun ente che si collochi
«oltre» o «al di là» del divenire) escogitato da tutto il corso del pensiero filosofico, dall’antichità sino
ad oggi, come riparo dall’angoscia e dal dolore causati dal divenire medesimo. A proposito della
«filosofia della storia» di Severino, e anche a riguardo del modo in cui questa viene a connettersi alla
sua vera e propria «interpretazione filosofica della storia della filosofia», non è qui possibile dire di
più. Si può però sottolineare come Sasso critichi l’interpretazione severiniana dell’attualismo facendo
notare come il divenire dell’atto è in realtà da Gentile soltanto proclamato, detto, ma non
autenticamente realizzato e dimostrato (cfr. la nota, all’inizio del paragrafo, a riguardo del libro su Le
due Italie di Sasso. Ma cfr. anche M. VISENTIN, Alcuni recenti studi sul pensiero attualistico, «Giornale
critico della filosofia italiana», 3/2005, p. 569). La critica di Sasso, direi, è assolutamente condivisibile;
anche se, almeno a riguardo di un punto, andrebbe meglio specificata. La specificazione, di non poco
conto, riguarda l’insostenibilità del concetto di «divenire» per come esso si è venuto formando e si
presenta nel pensiero occidentale tanto per Sasso, come si è più volte indicato, quanto anche per
Severino. Naturalmente questa precisazione non è certo ignorata da Sasso, il quale ha dedicato pagine
di grandissimo valore al pensiero di Severino in alcuni capitoli di suoi libri a carattere teoretico. Ciò
che vorrei sottolineare non riguarda soltanto l’impossibilità che per Severino il divenire così come
viene inteso da Gentile sia veramente «realizzato» e «dimostrato», ma riguarda anche il fatto che
l’interpretazione, e in particolar modo le conseguenze che questa implica, data da Sasso sull’attualismo
dovrebbe essere da lui condivisa. Tale «condivisione» dovrebbe essere a mio avviso giustificata da
alcuni tratti comuni (alcuni, non tutti) rinvenibili nelle critiche, molto radicali, mosse dai due filosofi
al concetto di «divenire». Ma su ciò in questa sede non può essere detto di più, anche se deve essere
sottolineato come lo studio che si volesse intraprendere a proposito del rapporto intrattenuto da
Severino con Gentile, per essere esaminato in modo rigoroso, dovrebbe essere condotto su almeno tre
livelli. Il primo è rappresentato dallo statuto dell’errore (o contraddittorietà) nella «struttura
originaria», esaminandolo quindi in relazione non solo alla «verità» ma anche a quello che Severino
chiama «errare» (o contraddirsi). Il secondo punto riguarderebbe l’esame critico del, per così dire,
«doppio registro» che Severino tiene costantemente nella pars destruens delle sue opere (ossia: da un
lato lo «sguardo» del destino, dall’altro quello della «coerenza della Follia»). In terzo luogo, infine,
sarebbe opportuno studiare quello che può essere indicato come il punto più delicato di questo
rapporto, vale a dire la «presenza» del pensiero di Gentile in alcuni punti centrali della «struttura
originaria» di Severino (a tal proposito l’unico saggio che io conosca sull’argomento è quello di O.
OTTAVINI, Gentile e Severino. Appunti per un’ipotesi di lettura, «Divus Thomas», 114, 3/2011, pp. 313339; ma si vedano anche gli spunti contenuti in C. FABRO, L’alienazione dell’Occidente. Osservazioni
sul pensiero di E. Severino, Genova 1981). Cfr. inoltre, gli interventi di Sasso e Severino al convegno
romano del 1994 per il cinquantesimo anniversario della morte di Gentile, i quali, seppur molto brevi,
possono dare qualche indicazione a riguardo del punto di vista da cui Sasso e Severino si pongono
nell’affrontare
la
filosofia
di
Gentile,
al
seguente
indirizzo:
http://www.radioradicale.it/scheda/62738/62805-giovanni-gentile-1875-1944-convegno-di-studipromosso-dal-comune-di-roma-in-occasione-delle-commemora . Gli «atti» di questo convegno sono
stati raccolti in Giovanni Gentile. La filosofia, la politica, l’organizzazione della cultura, M.I. Gaeta,
ed., Venezia 1995.
64
Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
avere risposta. La natura infatti «spegne il pensiero», e per tanto anche la libertà. Ma
la frase più significativa Gentile viene a pronunciarla quando sostiene che la logica
comincia quando la natura si idealizza, e diventi così un «terreno in cui l’uomo possa
poggiare il piede», cioè cessi di essere un «essere eterogeneo ed impenetrabile al
pensiero». Ecco il punto centrale: affinché il pensiero possa «ascoltare» la natura è
necessario che questa non sia più eterogenea rispetto ad esso, divenendo perciò ad
esso omogenea185. Il passaggio è allora ben visibile in queste linee, e la problematicità
sta tutta nelle parole in cui Gentile parla di natura «diventata pensiero», la quale
«risponde al pensiero», segno che è già in possesso della capacità di «ascoltarlo», di
porsi al suo ascolto, e così di rispondergli, venendogli a dire «io sono natura»: «La
“natura” è muta, eppure parla e dice “Io”; è ignara della coscienza, eppure ne avverte
il brivido. E la coscienza, che è accadimento assoluto e necessariamente reinclude in
sé il suo inizio, è come costretta, accadendo, a constatare di essere già accaduta e a far
sì che il suo assoluto inizio non sia che un qualsiasi, empirico, inizio» 186. Nel dire così,
compiendo una «riflessione su se stessa», la natura non è più natura ma è diventata
pensiero. Ma qui è proprio il divenire della natura pensiero che pone problemi
È molto interessante il fatto che qui Gentile usi proprio la parola «eterogeneo». Come noto questo
termine, in un conteso certo diverso da quello qui in esame, ma non poi così lontano dai «problemi» e
dalle inquietudini gentiliane qui riscontrabili, ha un’importanza, e per riflesso una problematicità,
grandissima nel capitolo sullo schematismo trascendentale all’inizio dell’Analitica dei principi della
prima Critica kantiana. Il problema, in questo delicatissimo luogo della Critica della ragion pura, è
quello dell’applicazione (Anwendung) delle categorie ai fenomeni. Dal momento però che «In ogni
sussunzione di un oggetto sotto un concetto, la rappresentazione dell’oggetto dev’essere omogenea
(gleichartig) rispetto all’altra rappresentazione» (I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, cit., p. 187 (= B
176); tr. it., p. 217), ma essendo allo stesso tempo i concetti dell’intelletto assolutamente eterogenei
(ungleichartig) rispetto alle intuizioni della sensibilità, spontaneo l’intelletto e recettiva la sensibilità,
ecco allora sorgere la difficoltà di una loro possibile «connessione» (Verknüpfung). Ed è proprio a
questo punto e per questa, irrinunciabile, esigenza che Kant introduce «un terzo» (ein Drittes), una
«rappresentazione mediatrice» (vermittelnde Vorstellung), ossia lo «schema», tale da dover essere,
oltreché «pura» e cioè «priva di tutto ciò che è empirico» (ohne alles Empirische), anche da un lato
«intellettuale» (intellektuell) e dall’altro «sensibile» (sinnlich) (Ibid., p. 187-188 (= B 177-178); tr. it.,
p. 218). È naturalmente impossibile in una nota poter discutere e ragionare in modo sufficientemente
analitico sulla questione qui evocata, la cui importanza può difficilmente essere esagerata, della prima
Critica. Ma è comunque importante rilevare come Kant, in questo luogo della sua opera, tenti tramite
un vero e proprio «intermedio» di tenere uniti ma allo stesso tempo distinti (altrimenti si perderebbe
l’originarietà, cioè l’autonomia, delle zwei Quellen) la sensibilità e l’intelletto. Gentile invece,
attraverso la «duplicazione» dell’astratto, da un lato include l’astratto (concretamente inteso) nel
concreto a tal punto da non poterlo più distinguere da questo, dall’altro lato esclude così radicalmente
l’astratto (astrattamente inteso) dal pensiero, dallo spirito, da non fargli avere più alcuno specifico
spazio all’interno del suo sistema filosofico. Sasso si è confrontato in diverse occasioni a proposito del
problema contenuto nel capitolo sullo schematismo, cfr. Essere e negazione, cit., pp. 310-314; Tempo,
evento, divenire, cit., pp. 243-244; Fondamento e giudizio, cit., p. 15; Il principio, le cose, cit., pp. 116118; Scaravelli e il giudizio, in Filosofia e idealismo, V, Secondi paralipomeni, Napoli 2007, pp. 665679; Il logo, la morte, cit., pp. 13-16, 285-286. Ma cfr. anche la nota «storiografica» contenuta ne La
«buia incandescenza della fiamma». Luigi Scaravelli e la questione degli «opposti» (1987), in
Filosofia e idealismo, III, cit., p. 512 n. 55.
186 G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., p. 322.
185
65
Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
insormontabili. Si potrebbe rinfacciare a Gentile la stessa, identica, critica che lui
rivolse ad Hegel a proposito della deduzione che il filosofo tedesco cercò di fare del
divenire (mediazione) dal puro essere e dal puro nulla (immediatezza) 187. Ma
andando direttamente al centro della questione, il problema che qui si pone può
essere indicato tramite questa domanda: come può esserci un passaggio dalla natura
(immobile) al pensiero (movimento) se la natura non è già, di per se stessa, pensiero
e non, quindi, natura?
Toccato il punto centrale della questione, è ora necessario mostrare
concretamente in che modo questo problema (che per ora ha riguardato solo la
natura e il suo passaggio al logo astratto) viene ad articolarsi tra il logo astratto e il
logo concreto, traendone le dovute conseguenze. Può essere opportuno riportare
alcuni passaggi finali della Prefazione alla terza edizione (1940) del Sistema di logica,
in cui Gentile, parlando del rapporto tra pensiero astratto e pensiero concreto,
afferma che «cieco il primo e vuoto il secondo appena si stacchino l’uno dall’altro»,
per concludere alla fine dello stesso capoverso che «gli estremi sempre si toccano, e
l’uno vale l’altro»188. Insomma, se mai Gentile ebbe avuto dubbi sul primato dell’atto
sul fatto, del pensiero sulla natura, del volere sul voluto189, non poté in questa
occasione «evitare di concedere all’astratto tanta realtà quanta ne concedeva al
concreto»190. Il motivo di ciò è che se l’astratto fosse inteso nel modo in cui Gentile
intese la natura nei paragrafi 6 e 9 della memoria su L’atto del pensare come atto
puro191, il passaggio dall’astratto al concreto e dalla natura al pensiero non poteva che
avvenire nel segno della più palese contraddizione. Se fino alla Teoria generale (e in
parte anche nel primo volume del Sistema di logica) Gentile indicava quasi
l’equivalenza tra «l’astratto, o il “pensato”, e l’errore, fra l’astratto e la natura e fra
questa e, di nuovo, l’errore»192, a partire dal Sistema di logica (in particolar modo dal
Cfr. l’importante saggio La riforma della dialettica hegeliana e B. Spaventa del 1912, venuto a
costituire l’anno seguente la prima parte della raccolta di saggi intitolata La riforma della dialettica
hegeliana.
188 G. GENTILE, Sistema di logica, I, cit., p. viii.
189 Cfr. G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., pp. 218-235, in cui Sasso dedica un’analisi dettagliata ai
primi sei paragrafi del sesto capitolo de I fondamenti della filosofia del diritto (1916), in cui Gentile
sviluppa questo rapporto. Su questo breve, ma importante, libro cfr. il già ricordato capitolo settimo
(Intermezzo teoretico. La filosofia, il diritto, lo Stato) de Le due Italie, cit., pp. 263-315.
190 G. SASSO, Filosofia e idealismo, VI, cit., p. 275.
191 «La natura – unico limite possibile al pensiero – solo astrattamente è natura, in concreto è esso il
pensiero nella sua interna mediazione» (G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze
20033, p. 188).
192 G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., p. 191. Ciò che in quelle opere rappresentava l’errore, qui
viene a corrispondere non al logo astratto, ma al logo astratto astrattamente inteso (cfr. G. GENTILE,
Sistema di logica, II, cit., p. 354). Per quanto riguarda la questione dell’«errore» in Gentile, cfr. M.
187
66
Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
secondo volume) viene a dire, a proposito dei «due» momenti, che «l’uno vale
l’altro». In un passo centrale del secondo capitolo della terza parte si legge:
In A = A non siamo noi a ragguagliare A con se stesso: A si ragguaglia o si
riflette. La logica del logo astratto non conosce nulla che possa stare di fronte o dietro al
logo: esso è tutto, infinito. La mente lo vagheggia in una sconfinata solitudine. Che altro
infatti si può pensare secondo verità, che non sia la verità stessa? Questo logo,
adunque, tutto solo e infinito, si riflette su se stesso, e nella riflessione è logo. Si riflette
da se stesso, e non per azione altrui. La sua perciò è libera riflessione. Ma questa libera
riflessione, che è il segreto della logica dell’astratto, è pure il principio del suo
superamento e la radice della sua dissoluzione eterna.193
È qui possibile cogliere con una certa nettezza, derivante anche dalla
chiarezza della prosa gentiliana, che il problema è quello di dividere, di tenere
separati i due logoi, il concreto dall’astratto, in quanto all’interno del quadro qui
tracciato da Gentile questa differenza e distinzione risulta assai difficile da concepire.
Si dice chiaramente che il «segreto» della logica dell’astratto è la sua «libera
riflessione», la quale costituisce anche il «principio» del suo «superamento».
Insomma: il logo astratto ha in se stesso il principio del suo superamento, il suo
«segreto» è la libera riflessione che lui fa su di se, e tramite questa riflessione giunge
alla sua «dissoluzione eterna». Questa dissoluzione eterna è l’altra faccia della
«costituzione eterna» appartenente al logo concreto194, il quale, come l’atto in atto,
mai è ma sempre si fa. Ed è qui facile notare come anziché differenza e distinzione
VISENTIN, Attualismo e filosofia della storia, cit., pp. 432-433; La posizione di Gentile di fronte al
modernismo, «La Cultura», 3/2006, pp. 450-453; Le filosofie dello spirito di Croce e Gentile, cit., pp.
282-288. Ma cfr. anche G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., pp. 179-185, e M. MUSTÈ, La filosofia
dell’idealismo italiano, cit., pp. 66-69.
193 G. GENTILE, Sistema di logica, II, cit., p. 19. Questo passo gentiliano è molto interessante, oltreché
per i motivi sviluppati nel testo, anche per un altro a cui qui non si può fare che un mero cenno. Questo
tema mi sembra debba essere indicato come un punto di contatto tra Gentile e la particolare posizione
filosofica di Sasso. Il punto a cui alludo riguarda la distinzione, per non dire netta separazione, tra il
«pensiero» e i «pensieri», tra la mente e «la mente limitata del filosofo che ha un nome di battesimo e
un posto tra i tanti esseri della natura» (G. GENTILE, Sistema di logica, I, cit., pp. 45-46), tra, in poche
parole, l’unicità e assolutezza del pensiero e la molteplicità e determinatezza dei singoli pensieri. Tale
separazione si presenta nel pensiero di Sasso in modo ancora più radicale, venendo il «pensiero» ad
essere esclusivamente un altro nome per «essere», «verità», «logo»; e tale da non aver alcun rapporto
e relazione con i singoli «pensieri», così come la verità non ha alcun contatto con le varie e molteplici
doxai. I due luoghi in cui Sasso ha sviluppato maggiormente questo tratto del suo discorso, variamente
rinvenibile nei suoi testi teoretici, sono il settimo e ultimo capitolo di Essere e negazione, cit., pp. 397451, e il secondo capitolo di Fondamento e giudizio, cit., pp. 59-82. Ma a proposito di ciò cfr. anche G.
SASSO, La fedeltà e l’esperimento, cit., 45-47, 55-57, e S. MASCHIETTI, Dire l’incontrovertibile, cit., p. 5
n. 5. Pur non potendo essere possibile in questa sede analizzare nel dettaglio questo punto, di grande
delicatezza tanto in Gentile quanto in Sasso, è interessante notare, riconnettendosi anche ad una nota
precedente, come proprio in specifico riferimento a questo aspetto del pensiero gentiliano secondo
Sasso la filosofia dell’atto puro non possa avere alcun rapporto, alcun contatto, con la politica.
194 «L’atto è infatti superamento eterno che pone, e posizione, essa pure, eterna, di ciò che supera: in
modo che né il superamento può sul serio essere tale, né la posizione può sul serio essere una
posizione» (G. SASSO, Storiografia e decadenza, cit., p. 105).
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
non ci sia che identità tra le due logiche, e pertanto sarebbe meglio dire che non di
due logiche identiche ma che solo ed esclusivamente dell’identico è possibile
parlare195. Poche pagine prima Gentile aveva sostenuto che l’errore degli antichi come
dei moderni non era altro se non quello di non aver inteso questo fondamentale
principio: «Il pensare non presuppone nulla; e il pensato, assolutamente, presuppone
in pensare»196. Se però, come Sasso invita costantemente, ci si attiene ai concetti e
alla loro sintassi e non alle parole o alle semplici intenzioni in queste rinvenibili, che
Gentile non potesse più pronunciare queste parole sembra essere già alquanto
evidente per quello che fin qui è stato detto. Se inoltre si tornasse indietro ancora di
qualche riga, al paragrafo precedente queste ultime parole di Gentile, che la deriva
verso un’identità fra le due logiche a discapito di una loro qualsiasi distinzione fosse
ormai avviata risulta essere evidente. Si legga dunque l’ultimo capoverso del § 7 del
primo capitolo della terza parte del Sistema di logica, intitolato Natura del pensato:
non bisogna né prevenire né inseguire l’atto del pensiero, con cui tutti sentiamo
di acquistare conoscenza nuove, scoprire, inventare, estendere l’ambito del nostro
sapere, ampliare l’orizzonte del pensiero stesso. Basta entrare dentro allo stesso atto di
chi pensa. Lì è il pensare; ma lì è pure ciò che si pensa, il pensiero pensato; e se questo
non ci fosse, non ci sarebbe pensare; e però né anche il pensante. Il quale c’è, poiché
appunto pensiamo: e c’è dunque il pensato, e non se ne può fare a meno. Non c’è
dialettica che possa cancellarlo.197
Non è possibile non avvertire in queste parole di Gentile, tenute insieme a
quelle in precedenza riportate, una sorta di lotta che il filosofo compieva con se
stesso. Sono parole queste che vanno in un «senso opposto» da quello indicato dalle
parole in precedenza riportate198. L’esigenza è certamente sempre quella di
distinguere il pensare dal pensato, ma se si pone attenzione ai termini così come qui
vengono posti da Gentile questa non può che essere una mera esigenza, niente di più.
L’identità tra i «due pensieri» è ciò che emerge con grande energia. L’elemento su cui
pone l’accento Gentile tramite queste parole non può che essere indicato col dire che
lo stesso «pensare», per essere quello che è, necessita del «pensato» e che questo è
tanto necessario a quello come quello a questo all’interno della sua dialettica 199. Il
pensiero pensante tutto deduce, però nello stesso tempo ha necessità di dedursi; si
Cfr. G. SASSO, Filosofia e idealismo, VI, cit., p. 275.
G. GENTILE, Sistema di logica, II, cit., p. 10.
197 Ibid., p. 9.
198 Cfr. G. SASSO, Filosofia e idealismo, II, cit., p. 298.
199 «L’Io senza oggetto è anch’esso un’astrazione: quello stesso e identico astratto che è il logo astratto»
(G. GENTILE, Sistema di logica, II, cit., p. 24).
195
196
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«strappa» da sé producendo il pensato, senza però poter mai autenticamente
permettere che questo possa veramente «strapparsi» da lui.
Per cercare di trovare un punto terminale alla situazione concettuale che è
venuta a formarsi, si potrebbe far riferimento ad un paragrafo di grande importanza
nella terza parte del Sistema di logica, vale a dire il settimo del quarto capitolo,
significativamente intitolato Immanenza del logo astratto nel concreto.
La concretezza del logo astratto consiste, come s’è veduto, nella inerenza di esso
nel logo concreto, e cioè nel pensiero in atto. Ma questa inerenza non è da
rappresentare, con meccanica immaginazione, morta e passiva appartenenza del
contenuto al suo contenente, o della parte al tutto; bensì è da pensare speculativamente
come intrinseca generazione del risultato in cui termina un processo dinamico vivo.
Il logo astratto è l’oggetto in cui si rappresenta a sé il logo concreto: attuale
perciò nell’attualità stessa del logo concreto. Fisso in sé, chiuso come processo esaurito,
in questo suo essere in cui il pensiero pensante lo contempla, esso non è
originariamente e per se medesimo; ma entra in essere e si mantiene per virtù dell’atto
pensante, come manifestazione di questa virtù, realizzazione di questo atto. Il quale
perciò lo ha in sé, e può dirsi che lo contenga. Non lo contiene in una sorta di spazialità
metaforica, o ideale che si voglia dire, ma nel suo processo vivente; così come un
organo determinato e particolare d’un organismo naturale si nutre e vive nella vita
complessiva del tutto, la cui interruzione è morte pure dell’organo.200
Se il logo astratto è attuale «nell’attualità del logo concreto», se quest’ultimo
«lo ha in sé, e può dirsi che lo contenga», come può il logo astratto essere «astratto» e
non «concreto» lui stesso? Sarebbe però, senza dubbio, alquanto ingeneroso ritenere
che Gentile non si fosse accorto del problema che, ora più che mai, nasceva
continuamente dalle sue stesse parole, avendo ben saldo nella mente che «tutta la
logica dell’effettivo pensiero si regge sulla distinzione di pensato e pensare» 201. La
tortuosità che è stata, sebbene in modo alquanto fugace, delineata in queste pagine di
Gentile è dovuta essenzialmente a due profonde esigenze che il filosofo dell’atto
custodiva dentro di sé. Da un lato l’esigenza della «sinteticità», per la quale l’atto è
autoctisi, «autosintesi» che è anche «autoanalisi», e per questo lato l’atto «non
poteva non essere inteso come perfezione», unità assoluta quindi202. Dall’altro lato
Ibid., p. 42. Il riferimento fatto da Gentile all’inizio del passo è al precedente capitolo, cfr. Ibid., pp.
28-35.
201 Ibid., p. 23.
202 G. SASSO, Storiografia e decadenza, cit., p. 106. «L’atto dell’Io come norma sui è la sintesi logica
fondamentale e però immanente di tutto il pensiero che ha verità. Giacché ogni concetto dello stesso
logo astratto si converte in un fatto e si spoglia del suo valore se non viene assunto dal logo concreto
nell’attualità dell’Io, risolvendo la molteplicità propria del pensiero astratto nell’unità assoluta del
pensiero in atto» (G. GENTILE, Sistema di logica, II, cit., p. 79). Per la questione a cui qui si è solo
alluso, deve tenersi presente tutto l’importante capitolo, sesto della terza parte, da cui è tratto questo
200
69
Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
l’esigenza del «movimento», per cui l’atto non è un che di statico ma un fieri, un
continuo e costante divenire che mai potrebbe fermarsi, trasformandosi in questo
caso in actum e perdendo il suo actus203. Ciò che allora nasce dall’unione di queste
due fondamentali esigenze, cercando quindi di far sì che nessuna delle due venisse
fatta cadere per far posto esclusivamente all’altra, è la necessità di «dialettizzare il
dialettizzare»204, in quanto per Gentile «Se il dialettismo fosse una sintesi statica, non
vi sarebbe luogo a dialettizzamento»205. Per Gentile «sintesi statica» è una
contraddizione in termini, in quanto c’è sintesi solo se c’è dinamicità, e c’è dinamicità
solo in quanto c’è sintesi che ricomprenda immer wieder il proprio altro all’interno di
sé. Qui sta il cuore della questione, e qui allo stesso modo sta il cuore della difficoltà.
L’atto è sintesi, ma è una sintesi che non esce a rigore da sé; l’«altro» che l’atto viene
a catturare, per così dire, all’interno della propria ragnatela non è se non il fatto, il
«combustibile» (per usare un’immagine cara a Gentile) che pur venendo sempre
bruciato dall’atto è anche ciò senza di cui l’atto nulla potrebbe bruciare. Ma che fuoco
è un fuoco che non bruci? È un fuoco «dipinto», il fuoco di Eraclito206, quello contro
cui Gentile ha sempre cercato di lottare. Ma se «il movimento non può essere mosso;
ed è impossibile che in sé stesso non sia fermo, che non si chiuda nella pura
coincidenza con sé»207, cosa succederebbe se invece il movimento si muovesse, se il
divenire divenisse? Semplice, l’avvento di un immutabile208. Il risultato sarebbe
quindi lo stesso, vale a dire l’impossibilità che tramite queste categorie il divenire, il
movimento, vengano sul serio pensati.
I due punti centrali che sono stati qui toccati e che fanno parte integrale della
riflessione più strettamente teoretica di Sasso sono: da una parte l’impossibilità di un
breve passo gentiliano, intitolato L’autoanalisi, oltre al successivo dal titolo Le categorie e la
categoria.
203 «Io dunque, è vero, sono Io: ma sono quell’Io che non sono e mi fo. […] Ed ecco che l’essere del mio
Io non è se non l’atto con cui io affermo me stesso, non dicendo o pensando, ma facendo e realizzando
il mio essere: “Io = Io” significa: “Io mi fo Io”. L’Io perciò è veramente autoctisi» (G. GENTILE, Sistema
di logica, II, cit., pp. 61-62).
204 G. SASSO, Filosofia e idealismo, VI, cit., p. 314.
205 G. GENTILE, Sistema di logica, II, cit., p. 151.
206 Cfr. G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 6, oltre a G. GENTILE, Sistema di
logica, II, cit., p. 66.
207 G. SASSO, Filosofia e idealismo, VI, cit., p. 314. A causa di questo motivo Sasso ha sottolineato
nell’attualismo, seppur involontariamente se si sta alle intenzioni di Gentile, un’istanza «megarica»;
per l’impossibilità propria dell’attualismo di intendere una «potenza» (nel senso della δύναμις
aristotelica) che sia esterna allo stesso atto puro, actus, e che quindi debba necessariamente prodursi e
svilupparsi all’interno della sua propria perfezione (cfr. G. SASSO, Giovanni Gentile: filosofo
aristotelico o megarico?, in ID., La potenza e l’atto. Due saggi su Giovanni Gentile, Firenze 1998, pp.
1-100).
208 Cfr. E. SEVERINO, Oltre il linguaggio, cit., p. 116.
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
punto di contatto di concetti tra loro antitetici (astratto/concreto, fatto/atto,
natura/spirito), da un’altra parte l’impossibilità che nell’unità, nell’identità, ci possa
essere distinzione, differenza. A quest’ultimo problema sarà dedicata qualche
attenzione nel prossimo e conclusivo paragrafo di questo saggio, non prima però di
aver reso esplicito con le seguenti parole qual è, ad avviso di Sasso, l’intrinseca
conseguenza alle critiche mosse qui sopra all’attualismo gentiliano:
Pensata come Gentile la pensava, la connessione dell’astratto e del concreto
costituisce la testimonianza, e il documento, dell’intrinseca impossibilità della
metafisica, del suo fallimento. Del fallimento necessariamente intrinseco al tentativo di
chiudere in un magico cerchio unitario l’essere e le differenze; e che, deve ripetersi, è
tanto più drammatico quanto più, nel profondo, ad aggirarsi fosse l’opposto tema
costituito dalla consapevolezza (perché altrimenti due logiche?) della impossibilità
della connessione.209
5. Conclusione
Dopo aver cercato nei precedenti paragrafi di individuare i temi e le
argomentazioni
filosofico/teoretiche
fondamentali
che
hanno
consentito,
e
consentono tuttora, a Sasso di avanzare alcune critiche peculiari a Platone, Hegel e
Gentile, è adesso necessario ricollegarsi a quanto era stato detto nel paragrafo
introduttivo e venire quindi ad evidenziare alcuni punti a cui non è ancora stata
conferita in questo studio l’importanza che meritano – dato il loro strettissimo
legame con i concetti di relazione e metafisica all’interno dell’orizzonte teorico di
Sasso. Mi riferisco a due temi in particolare, vale a dire quello della «differenza» e
quello, altrettanto importante, della valenza e particolare fisionomia che il concetto di
«verità» assume nella riflessioni di Sasso.
Per Sasso l’essere non è né un «qualcosa» né la totalità dei qualcosa (o enti).
Del «qualcosa» inoltre non si può dire che sia una parte o determinazione dell’essere.
Il motivo di ciò è determinato dal fatto che: «Se, come si assume che sia, l’essere fosse
la totalità delle determinazioni, di nessuna di queste potrebbe dirsi che, essendo la
determinazione che è, non lo fosse in ragione, per un verso della negazione da essa
eseguita della totalità, dalla quale così si distacca e si distingue, e per un altro della
negazione che di essa è eseguita dalla totalità»210. Il punto su cui si concentra in
queste righe l’attenzione di Sasso è determinato dal fatto che se l’essere venisse inteso
209
210
G. SASSO, Il principio, le cose, cit., p. 91.
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 87.
71
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come la totalità degli enti, e questi a loro volta fossero gli enti che sono, diversi gli uni
dagli altri, verrebbe a prodursi una sorta di «doppia» negazione, affinché l’essere sia
la totalità degli enti e gli enti, a loro volta, le parti (tra loro distinte) di questa totalità:
«Da un lato, è l’essere che, negando, determina. Da un altro, è la determinazione che,
negando, fa sì che l’essere neghi e determini»211. Da ciò risulta per Sasso
l’impossibilità di «tener ferma» la totalità in quanto tale, dal momento che essa
risulta essere sempre meno di se stessa, da un lato negando, dall’altro essendo
negata212. Il punto fondamentale che qui deve essere necessariamente richiamato, in
quanto già precedentemente accennato, riguarda la negazione. Sasso sostiene che, se
per «negare» è necessario riconoscere la realtà di ciò che si nega, allora la negazione
fa il contrario di ciò che si crede che faccia: afferma, non nega. In conseguenza di ciò
(in conseguenza dell’«ontologizzazione»213, svolta dalla negazione, di ciò che si
intende negare) risulta essere inevitabile che, dopo aver affermato (e cioè
riconosciuto) la realtà di ciò che si intenderebbe negare, non è più possibile «negare»
tale realtà, e per questo motivo tale realtà diventa innegabile. Se quanto appena detto
viene connesso alla problematica precedentemente indicata, la conseguenza risulta
essere questa: «Se negare significa riconoscere la realtà che si nega e non poterla di
conseguenza negare, di qui consegue che né la totalità può negare determinando, né
la determinazione potrebbe mai, quand’anche se ne assumesse la possibilità, negare
la totalità di cui è, o si assume che, sia, parte»214. Da qui l’argomentare di Sasso si
volge verso l’importantissimo punto riguardante la ricerca di «pensare» la differenza.
Se infatti si assumesse
Ibid.
Su questo specifico punto è fondamentale la valenza che viene ad assumere la predicazione e l’uso
che se ne fa: «Se la predicazione fosse concepita con rigore, e, sul serio, dell’essere, ossia della totalità,
l’ente, ossia la parte, si predicasse, dell’ente, e della parte, non potrebbe parlarsi se non come
dell’essere e della totalità. E di ente non potrebbe affatto parlarsi» (Ibid., p. 171). Cfr. ancora, su questo
specifico e delicato problema, il §44 all’interno del capitolo IX de L’essere e le differenze, cit., pp. 183189, e in modo particolare le conseguenze della riflessione svolta da Sasso nell’intento di mantenere
una differenza tra le espressioni «partecipare di» e «identificarsi con» (su cui ci si è soffermati nel
paragrafo su Platone).
213 Dell’«ontologizzazione» dell’oggetto negato, che, in quanto tale (cioè in quanto inserito all’interno
del processo della negazione) è sempre «qualcosa». Se non fosse un «qualcosa» non potrebbe rivestire
il ruolo di «oggetto» negato. La negazione è sempre «negazione di» (cfr. G. SASSO, La verità,
l’opinione, cit., p. 42). Proprio su questo punto, vale a dire sul «di», sorgono grandi (ma non
insuperabili secondo Sasso) difficoltà a riguardo della negazione che l’essere fa «del» nulla: infatti
tramite questa preposizione il nulla si mostra in realtà come «qualcosa» e non come «nulla». Ed è
anche a proposito di questo punto che, secondo Sasso, sorge la differenza tra «negazione
ontologizzante», ossia una classica negazione, e la specifica negazione che l’essere fa del nulla, che è
una (o meglio la) «negazione negante e non ontologizzante». A proposito di ciò cfr. soprattutto Essere
e negazione, cit., pp. 183-201; La verità, l’opinione, cit., 11-53; e Il logo, la morte, cit., pp. 315-335.
214 G. SASSO, Il logo, la morte, cit., pp. 87-88.
211
212
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la differenza dell’essere dall’ente come una sorta di sottrazione di questo da
quello, dovrebbe convenirsi sul punto che dalla sottrazione la totalità sarebbe essa
stessa ridotta a parte; e che, perciò, non «totalità» sarebbe, ma anch’essa «parte»,
«qualcosa». Ne conseguirebbe che, il «qualcosa» essendo identico al «qualcosa», non
potrebbe distinguersene, e a profilarsi sarebbe perciò di nuovo l’essere, che è, non la
totalità delle determinazioni, ma l’essere.215
Ciò su cui bisogna indirizzare l’attenzione all’interno di questo passo è il
punto relativo alla necessità che «il “qualcosa” essendo identico al “qualcosa”, non
potrebbe distinguersene». Ecco il punto centrale. Quello che viene qui a profilarsi
(anche se in modo rapido e fugace) è il grande problema della «deduzione» delle
differenze – dei qualcosa, degli enti –, non quello di una loro semplice constatazione,
o della loro evidenza. Ciò che si è appena detto è di grande importanza e delicatezza,
in quanto è prestando attenzione al giro di questioni appena considerato, che può ben
essere messa in luce la «linea» che, per Sasso, metaforicamente, divide i due ambiti di
cui si è parlato nel paragrafo introduttivo: quello della verità (o logo) da una parte e
quello della doxa (o meglio: «delle» doxai) da un’altra.
Se gli enti fossero assunti nella loro molteplice dimensione, e come il non essere
l’uno l’altro, anche si dovrebbe concentrare l’attenzione sul «non» che li individua e li
riconosce come l’ente che ciascuno è in sé. È infatti la negazione che ciascuno esegue
dell’altro che, in questa prospettiva, fa sì che di ciascuno possa dirsi che è il «ciascuno»
che è. Omnis determinatio est negatio, secondo la famosa formula di Spinoza. Ma
anche, e all’inverso, omnis negatio est determinatio. Con la questione che, in entrambi
i casi, ne nasce, e che concerne il soggetto della determinazione, nel primo, della
negazione, nel secondo: il soggetto che, in entrambi, non potrà non essere l’ente, che, se
così si argomentasse, sarebbe preso come ente prima che la determinazione e la
negazione, la determinazione attraverso la negazione, lo avessero rivelato nella luce
dell’esistenza.216
Questo passo è tanto significativo quanto è chiaro il punto su cui Sasso
intende far cadere l’attenzione. Se l’esser «ogni determinazione una negazione» e
all’inverso «ogni negazione una determinazione»217 venissero assunti come «prova»
della molteplicità dei qualcosa, che proprio in virtù (da una parte) del loro essere il
qualcosa che sono e (da un’altra) del loro non essere il qualcosa che non sono
dovrebbero determinarsi negandosi e negarsi determinandosi a vicenda, si cadrebbe
Ibid., p. 88.
Ibid., pp. 88-89.
217 È celebre il passo in cui Hegel nella Scienza della logica, riferendosi esplicitamente a Spinoza, dice
che «Die Bestimmtheit ist die Negation als affirmativ gesetzt» (G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik,
cit., p. 100; tr. it., p. 108).
215
216
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
in una petitio principii. Si cadrebbe in ciò dal momento che è necessario un
«soggetto» che (nel primo caso) affermando neghi, e che (nel secondo caso) negando
affermi, ma proprio un tale «soggetto» risulterebbe essere necessariamente
presupposto a se stesso, in quanto proprio di codesto soggetto (o «qualcuno» o
«ente») si cercava la deduzione. Come è facile notare, il piano su cui Sasso intende
muoversi è rigorosamente (e anche esclusivamente) logico-proposizionale, non c’è
alcuna intenzione di riferirsi all’ambito dell’evidenza, della constatazione o più in
generale dell’esperienza, per trovare una casa al molteplice – pur essendo per
l’appunto questo, solo questo, l’autentico luogo in cui la differenza, e per conseguenza
la molteplicità, trova la propria legittima abitazione218.
Nel ricollegarsi ora ad uno spunto presente all’inizio di questo paragrafo,
lasciato in sospeso, bisogna sottolineare ed eventualmente chiarificare un punto con
forza (pur avendolo già variamente accennato in più punti all’interno di questo
saggio). Si è accennato sopra come l’essere non possa essere la totalità degli enti, e
come questi non possano essere sue parti. È impossibile, quindi, considerare l’essere
come «orizzonte delle differenze», dal momento che «Κατ’ ἀλήθειαν, i diversi sono
semplici nomi dell’identico: ὄνόματα τῆς ταὐτότητος»219. Balza infatti subito agli
occhi che, inteso in questo modo, l’essere assume una fisionomia assai vicina al modo
in cui l’«essere» venne pensato e inteso da Parmenide. Sasso dice esplicitamente che
A proposito di questo punto, relativo specialmente all’impossibilità della «deduzione» delle
differenze, cfr. anche Fondamento e giudizio, cit., pp. 106-112 e l’ottavo capitolo de Il logo, la morte,
cit., in particolare le pp. 213-221 e 229-234 (in questo capitolo, il punto qui in discussione, viene
studiato a strettissimo contatto con quello relativo all’impossibilità, secondo Sasso, di distinguere i
«contrari» dai «contraddittori»).
219 G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 376. Su questo punto è possibile notare una certa assonanza con
quanto sostenuto da Kant nel primo punto, riguardante «identità e diversità», dell’Anfibolia
nell’Analitica dei principi (è d'altronde lo stesso Sasso a menzionare questo luogo kantiano: cfr. Ibid.,
p. 263). È opportuno notare però un punto di divergenza, di non secondaria importanza, tra la
posizione esposta qui sopra da Sasso e quanto Kant afferma in quel mirabile punto della Critica della
ragion pura. Senza alcun dubbio lì Kant, in polemica con Leibniz, sosteneva «come la famose gocce
d’acqua […] non si distinguerebbero l’una dall’altra, e non sarebbero perciò discernibili, se il loro luogo
stesse unicamente nell’intelletto e a distinguerle non provvedesse l’intuizione sensibile esterna (lo
spazio nel quale sono collocate)» (Ibid.). A questo discorso Kant premetteva però una considerazione
di non poco conto per il discorso che si sta svolgendo, vale a dire che certamente «un oggetto» che ci
viene presentato «più volte» viene a costituire «non già molte cose, ma una cosa soltanto» quando
viene presentato come «oggetto dell’intelletto puro (Gegenstand des reinen Verstandes)», ma soltanto
quando però «ogni volta (jedesmal)» in cui ci viene presentato lo sia «con le medesime determinazioni
interne (mit eben denselben innern Bestimmungen)», vale a dire «qualitas et quantitas» (I. KANT,
Kritik der reinen Vernunft, cit., pp. 287-288 (= B 319-320); tr. it., p. 336). Insomma, affinché per Kant
le «molte cose», tramite l’uso puro dell’intelletto, risultino essere «una cosa soltanto (nur Ein Ding)»,
devono essere presentate «ogni volta con le medesime determinazioni interne»; mentre per il discorso
svolto da Sasso questa precisazione non risulta essere affatto necessaria. Per Sasso infatti all’interno di
quello che lui chiama «logo» non c’è né qualitas, né quantitas che gli possano essere «presentate», nel
logo «non c’è se non il logo» (G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 263).
218
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
«Nella più pura accezione parmenidea, l’essere è l’essere. Nella più pura. Il che
significa che, a differenza di quel che, per questa parte, si legge nel poema del
pensatore αἰδοῖος καί δεινός “venerando e terribile”, non è passibile di predicazioni
che non consistano nella semplice ripetizione del suo essere “essere”»220. Mentre,
infatti, nel poema parmenideo dell’essere si afferma che è «ingenerato»,
«imperituro», «un intero nel suo insieme», «immobile», «senza fine», «uno» e
«continuo»221, il discorso che qui svolge Sasso è, se si vuole, ancora più radicale ed
escludente di quello svolto da Parmenide. Dell’essere (o logo o verità o pensiero o
identità o, addirittura, filosofia) si può solo dire che è «essere», e i termini indicati tra
parentesi non sono che sinonimi di quello. La vicinanza con Parmenide sul modo di
concepire il logo, l’essere, è senza alcun dubbio molto forte (come del resto ammesso
e sottolineato dallo stesso Sasso). Per quanto riguarda invece, non tanto la sfera dell’
άλήθεια, quanto quella della δόξα (e più specificamente la relazione tra le due), la
differenza da Parmenide è profonda – senza dimenticare, ovviamente, il fatto della
complessità di interpretare questo tema nel poema dell’eleate, complessità in parte
G. SASSO, Il logo, la morte, cit., p. 95. La celebre espressione a cui Sasso si riferisce si trova, come
noto, in PLATONE, Theaet., 183 E – 184 A. È questo, com’è già stato sottolineato precedentemente, un
punto di decisiva importanza a riguardo del rapporto tra il discorso filosofico di Sasso e quello di
Emanuele Severino. Da un lato la differenza tra i due filosofi italiani non potrebbe essere, su questo
punto, più netta. Mentre per Sasso l’essere non ha alcun contatto con gli enti, per Severino l’essere non
è altro se non tutti, cioè la «totalità», degli enti (cfr. perciò la posizione di Severino a riguardo del libro
di Sasso La verità, l’opinione in E. SEVERINO, Il muro di pietra. Sul tramonto della tradizione
filosofica, Milano 2006, pp. 202-203). Da un altro lato però, che sarebbe opportuno sottoporre a
specifica analisi, può notarsi qui un punto, non ancora accennato, di grande interesse nella riflessione
di Sasso (ed è un tema che potrebbe essere rintracciato in più punti di diversi libri di Severino). Mi
riferisco a quello che lo stesso Sasso ha ribattezzato come un tratto «averroista» del proprio discorso
filosofico (cfr. La fedeltà e l’esperimento, cit., p. 47; Il logo, la morte, cit., p. 399). Come per la verità e
per la filosofia, anche il «pensiero» non è che un sinonimo dell’essere. Il «pensiero», quindi, non ha
alcuna possibilità di essere moltiplicato in «pensieri»; cosicché se i pensieri fossero intesi in un
rapporto con il pensiero pari a quello che si è cercato di far sussistere tra enti ed essere, quelli si
rivelerebbero «tra loro» identici, o meglio l’identico, vale a dire lo stesso pensiero. Per tal motivo gli
individui/intelletti non intrattengono alcun rapporto con l’intelletto. Il punto, come già detto, è
variamente complesso e dà forse la possibilità di giungere al punto più complicato e profondo del
pensiero di Sasso (ma, ripeto, forse anche a quello di Severino). Su ciò sono essenzialmente due i
luoghi che devono esser maggiormente presi in considerazioni nei testi teoretici di Sasso: il capitolo
settimo di Essere e negazione, cit., pp. 397-451, e il secondo di Fondamento e giudizio, cit., pp. 59-82.
Ma su questo punto non sono di secondaria importanza i suoi studi su Dante (cfr. S. MASCHIETTI, Dire
l’incontrovertibile, cit., p. 5, n. 5). Per quanto riguarda Severino, il tratto della sua riflessione a cui
intendo riferirmi quando affermo che anche in lui (o meglio: in alcune pieghe del suo pensiero) è
presente ciò che Sasso ha chiamato «averroista» riferendosi a se stesso (tratto così complicato, dati i
vari temi e intrecci, che per essere esposto anche solo in modo sommario non potrebbe essere separato
da questi aspetti), viene espresso da Severino, per esempio, con l’espressione secondo cui «Solo il
destino può capire il destino» (E. SEVERINO, La morte e la terra, Milano 2011, p. 140). Tale tratto del
suo discorso filosofico, oltreché con il rapporto tra dimensione iposintattica/dimensione persintattica
e la Gioia, dovrebbe essere studiato in particolar modo a stretto contatto con il rapporto tra «verità» ed
«errore». Ma su ciò qui non può essere detto di più.
221 Cfr. PARMENIDE, fr. 8, vv. 3-6.
220
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Niccolò Parise, Sulla relazione. Gennaro Sasso critico della «metafisica» [ Filosofia.it © 2014 ]
anche dovuta all’inaccessibilità della parte del poema che avrebbe dovuto trattare
esplicitamente della δόξα 222.
Il tratto su cui Sasso non smette di insistere, cercando in tal modo di
radicalizzarlo sempre di più con l’andare degli anni, è quello che si è cercato di
analizzare, mettendolo al centro di queste pagine: vale a dire il concetto di relazione.
Potrebbe in effetti dirsi che la filosofia di cui qui si è discusso non possa che portare, e
magari porti consapevolmente e intenzionalmente, a un crudo dualismo. La verità,
l’esperienza. Da una parte la verità chiusa, per così dire, nella sua assolutezza e
unicità (tanto da aver indotto lo stesso Sasso a parlare di «noumeno»223 a proposito
del suo modo di intenderla), da un’altra l’esperienza, contenente tutte le varie e
molteplici sfumature del mondo. In realtà, guardando con più attenzione al discorso
qui svolto da Sasso, e in particolar modo alla sua meticolosa attenzione a non
reificare il concetto di verità, non può parlarsi di un vero e autentico dualismo,
proprio in quanto viene a cadere qualunque tipo di intreccio relazionale tra i «due»
piani. Pertanto mi sembra più adeguato parlare, anziché di dualismo, di un doppio
monismo; cercando in questo modo di tenere ben fermo il punto attorno a cui si è
articolato questo saggio, ossia la necessità che, «in ultima analisi», «relazione»
significhi «identità»224.
Per la prossimità tra la propria posizione e quella dell’eleate, tra i tanti luoghi che potrebbero
citarsi, cfr. Il logo, la morte, cit., p. 365. Per quanto riguarda la lontananza, invece, cfr. La verità,
l’opinione, cit., p. 104 e la relativa «annotazione» a pp. 316-317, e Il logo, la morte, cit., pp. 365-369.
223 Cfr. G. SASSO, Il logo, la morte, cit., pp. 397-398, dove si inca anche chiaramente la differenza con il
concetto di «noumeno» così come è stato delineato da Kant.
224 G. SASSO, La verità, l’opinione, cit., p. 109.
222
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