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Infezioni ossee - osteomielite.net
Capitolo 109
Infezioni ossee
IX
C.L. Romanò, L. Drago, D. Romanò
L’infezione ossea, o osteomielite, è un processo infiammatorio di origine
batterica o, molto più raramente, micotica, coinvolgente in varia misura
il tessuto osseo, l’endostio e il periostio, con fenomeni di osteolisi,
necrosi e riparazione ossea e tissutale.
In passato le infezioni ossee erano essenzialmente causate dalla
penetrazione batterica diretta nel tessuto osseo o nei tessuti a esso
adiacenti a causa di traumi a bassa energia (ferite, cadute accidentali ecc.) o dalla disseminazione batterica per via ematica da focolai
infettivi presenti in altri organi o apparati. Mentre con il passare dei
millenni tali meccanismi di colonizzazione batterica dell’osso non
sono scomparsi, nel corso dell’ultimo secolo si è assistito, soprattutto
nei Paesi industrializzati, a un progressivo incremento delle infezioni
ossee causate da traumi ad alta energia (traumi bellici, incidenti
del traffico, traumi sportivi ecc.) o secondarie a contaminazione
postchirurgica. Inoltre sempre più frequenti sono le osteomieliti
associate a dismetabolismi, vasculopatie e/o neuropatie periferiche
(principalmente il diabete) e a condizioni di immunodepressione e
a comorbilità o all’età avanzata.
Il cambiamento della tipologia delle infezioni ossee e l’approfondirsi
delle nostre conoscenze si è tradotto progressivamente in una definizione sempre più accurata, ma anche più complessa e articolata, dei
diversi quadri clinici e dei possibili trattamenti.
150.000 protesi articolari impiantate ogni anno in Italia) e la tendenza di queste infezioni a cronicizzare, la prevalenza stimata delle
infezioni postchirurgiche in ortopedia e traumatologia è di diverse
decine di migliaia di casi nel nostro Paese e di almeno 100.000 in
Europa. I costi associati alle infezioni ossee postchirurgiche sono
particolarmente alti, considerando che, per il solo trattamento
chirurgico di un’infezione di protesi articolare, i costi sono pari a
4-6 volte quelli di una protesi di primo impianto e a circa il doppio
rispetto a una revisione di protesi asettica (Bozic et al., 2005; Hebert
et al., 1996; Sculco, 1993; Romanò et al., 2010).
Tra le infezioni ossee correlate a dismetabolismi, la più frequente, grave
e costosa nei Paesi industrializzati è certamente quella secondaria a
diabete. I soggetti diabetici hanno un tasso di infezione del piede del
30-40%, con un rischio di amputazione dell’arto inferiore 15 volte
superiore ai soggetti non diabetici (Most et al., 1983); circa il 59%
delle amputazioni nei diabetici è infatti preceduto da un’infezioni del
piede (Pecoraro et al., 1991); inoltre l’infezione è risultata la seconda
indicazione all’amputazione dell’arto inferiore in termini di frequenza
(dopo la gangrena) in una revisione di 31 studi pubblicati sull’argomento (Fylling et al., 1989).
■■Classificazione
© 2011 Elsevier Srl. Tutti i diritti riservati.
■■Epidemiologia
Mentre nei Paesi meno sviluppati l’osteomielite è più diffusa in età
infantile, nei Paesi più progrediti si verifica maggiormente negli
adulti. In particolare, l’incidenza di infezioni ossee trasmesse per via
ematogena, in età pediatrica, varia tra lo 0,4/100.000 nel Regno Unito
e il 14,3/100.000 nei Paesi dell’Est Europa. Il rapporto tra maschi e
femmine è di circa 2:1.
Le infezioni ossee tendono a recidivare e a cronicizzare. Tra gli individui
che sono stati trattati per un episodio di infezione acuta, la prevalenza
di osteomielite cronica è compresa tra il 5 e il 25% negli Stati Uniti
(Dich et al., 1975; Shivarathre et al., 2009; Blyth et al., 2001; Malcius
et al., 2005; Rasool, 2001).
L’incidenza di osteomielite dopo fratture esposte è compresa tra il
2 e il 50%, a seconda del grado di esposizione e del tipo di trattamento. L’incidenza di infezione ossea dopo chirurgia con materiali
impiantabili (osteosintesi, protesi articolari ecc.), pur in presenza di
adeguate sale chirurgiche e con le profilassi antibiotiche correnti, è
compresa tra lo 0,1% e il 5%, a seconda del tipo e della complessità
dell’intervento, della sua durata e del tipo di ospite. Considerato
l’elevato numero di interventi chirurgici effettuati ogni anno (circa
Le osteomieliti sono state classificate in vari modi, a seconda dell’aspetto
che si voleva studiare. Oggi è possibile proporre una classificazione
comprensiva delle diverse classificazioni proposte (Tab. 109.1), che si
ricapitolano brevemente di seguito (Romanò et al., 2011).
Classificazione in base
alla presentazione clinica
Le infezioni ossee sono distinte secondo la durata della malattia e/o
dei sintomi e al quadro clinico in:
• acute;
• subacute;
• croniche.
Osteomielite acuta e subacuta
Si definisce osteomielite acuta o subacuta ogni infezione ossea che si
manifesti per la prima volta in una determinata sede e che sia osservata
entro, rispettivamente, 2 o 6 settimane dall’insorgenza dei primi sintomi
e segni (dolore, calore e/o tumefazione locale, febbre, arrossamento,
rigidità articolare).
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1396
sezione
IX Chirurgia ortopedica
Tab. 109.1. Classificazione comprensiva delle infezioni ossee.
Clinica
Eziopatogenesi
Anatomopatologia
(ossa lunghe)
Ospite
Difetto osseo
Acuta
Subacuta
Cronica
Tubercolare
Ematogena
Contiguità
Associata a vasculopatie/
neuropatie/dismetabolismi
Correlata a impianti
temporanei (osteosintesi)
Correlata a impianti
permanenti (protesi articolari)
Classificazione ICS
– Tipo I
– Tipo II
– Tipo III
Stadio 1
Stadio 2
Stadio 3
Stadio 4
Tipo A
Tipo B
Tipo C
Tipo 1
Tipo 2
Tipo 3
Il paziente viene inquadrato in modo standardizzato in base alla presentazione clinica, al tipo di ospite e all’eziopatogenesi dell’infezione. È quindi possibile effettuare, come guida al trattamento,
la classificazione anatomopatologica delle osteomieliti delle ossa lunghe secondo quanto proposto da Cierny-Mader oppure, in presenza di infezione secondaria a impianto di mezzi di sintesi, si
può utilizzare la classificazione ICS. In tutti i casi è poi utile aggiungere la valutazione del tipo di difetto osseo, per pianificare la ricostruzione del segmento lesionato. Maggiori dettagli sulle diverse
classificazioni sono nel testo.
L’osteomielite acuta presenta una distribuzione bifasica nella popolazione in relazione all’età. Un primo picco di incidenza si rileva negli
individui al di sotto dei 20 anni di età (circa il 40% dei casi), mentre un
secondo picco si riscontra nelle persone oltre i 50 anni (circa il 35% dei
casi). Più della metà delle osteomieliti acute osservate nelle prime due
decadi di vita colpisce i bambini al di sotto dei 5 anni. La presentazione
clinica dell’infezione acuta nel bambino e dell’adolescente è tipicamente
contrassegnata da un esordio brusco, con brividi, cefalea, irritabilità,
vomito, prostrazione, tachicardia e febbre che raggiunge rapidamente
i 40 °C. Il sensorio è tanto più gravemente compromesso, specie in
giovane età, quanto più è veloce l’aggravamento dello stato settico.
Il dolore nella sede del focolaio è solitamente precoce e intenso, ma
non sempre immediato; a volte può essere riferito all’articolazione
contigua con conseguente immobilizzazione antalgica della stessa
oppure, specialmente negli infanti, può essere addirittura difficilmente
dimostrabile, fatto questo che può portare a un ritardo nella diagnosi.
A distanza di alcune ore o di pochi giorni dall’inizio dell’infezione, si
rendono manifesti i segni locali dell’infiammazione, con tumefazione,
arrossamento, accentuazione del reticolo venoso sottocutaneo e
termotatto positivo, segni che sono evidenti soprattutto se la sede
dell’osteomielite è superficiale e, comunque, quando la suppurazione
ha avuto modo di diffondersi oltre il periostio negli spazi intermuscolari
e di raggiungere il sottocute.
L’esordio nell’adulto presenta generalmente un minore coinvolgimento generale, anche se sono presenti i sintomi e i segni dell’infiammazione acuta. Nei casi a esordio subacuto, che possono evidenziarsi
per germi meno virulenti e/o in presenza di ospiti di età avanzata o
immunocompromessi, i segni dell’infiammazione possono essere
incostanti e meno accentuati, mentre il sintomo più frequente è
costituito dal dolore.
Le spondiliti e le spondilodisciti riguardano più frequentemente
pazienti di età maggiore di 45 anni e hanno spesso un esordio subacuto
e insidioso, con dolenzia e febbricola. Può esserci una storia di batteriemie o di infezioni nelle settimane precedenti l’inizio dei sintomi.
L’osteomielite acuta richiede un trattamento medico ed eventualmente chirurgico precoce per prevenire lesioni permanenti dei tessuti e ridurre il rischio di
cronicizzazione.
Osteomielite cronica
L’osteomielite cronica consegue spesso a una forma acuta che non
è guarita, per quanto possano esistere alcune forme croniche sin
dall’inizio, prodotte da germi poco virulenti o sviluppatesi in ospiti
poco reattivi (osteomielite dell’anziano).
Poiché l’osteomielite cronica è la fase evolutiva finale di un’infezione
che interessa il tessuto scheletrico senza soluzioni di continuità, appare
difficile stabilire una netta linea di demarcazione rispetto al processo
in fase acuta. Per questo si può utilizzare una definizione “funzionale”
di osteomielite cronica, in cui vengono incluse tutte le infezioni osteomidollari che rispondano a uno o più dei seguenti criteri:
• persistenza di segni clinici e/o radiografici di infezione per più di 6
settimane;
• evidenza radiografica di distruzione ossea, con formazione di sequestri
o sclerosi o di pseudoartrosi settica;
• persistenza o recidiva di infezione dopo un appropriato ciclo di
antibioticoterapia;
• infezione associata alla presenza di un corpo estraneo;
• infezione associata a insufficienza circolatoria;
• infezione sostenuta da microrganismi in grado di causare un processo morboso cronico in modo caratteristico (per es. Mycobacterium
tuberculosis).
Gli aspetti clinici e l’evolutività dell’osteomielite cronica sono assai
variabili, essendo influenzati da vari fattori quali l’agente eziologico,
la presenza di eventuali corpi estranei, l’atteggiamento terapeutico e le
condizioni generali dell’ospite.
Il quadro clinico è di solito caratterizzato da un’alternanza di fasi
paucisintomatiche, soprattutto a seguito di antibioticoterapia, e fasi di
riacutizzazione con comparsa di ulcere o fistole cutanee e segni locali di
flogosi. In tal caso possono coesistere affaticamento, malessere generale,
febbricola. Queste manifestazioni corrispondono a due condizioni
differenti dei microrganismi infettanti: lo stato sessile, in cui i batteri
restano in uno stato di quiescenza (talvolta protetti all’interno di uno
strato glicoproteico da loro stessi prodotto, il cosiddetto glicocalice
o biofilm) e lo stato planctonico, in cui i germi entrano in una fase di
proliferazione, diffondendo nei tessuti molli perischeletrici.
Le infezioni ossee correlate a materiali impiantabili (vedi oltre) possono
essere anch’esse utilmente suddivise in base al tempo trascorso tra
capitolo
1397
109 Infezioni ossee
l’impianto e la comparsa dell’infezione in infezioni precoci (comparsa
dell’infezione entro 6 settimane dall’impianto), ritardate (infezione
diagnosticata tra le 6 settimane e un anno dall’impianto) e tardive
(> 1 anno). Si ritiene che le infezioni precoci e quelle ritardate siano più
probabilmente acquisite intraoperatoriamente, mentre quelle tardive
riconoscano più probabilmente una genesi ematogena da focolai
infettivi in altre sedi corporee (orofaringe, apparato genitourinario,
addominale ecc.), talora silenti.
Classificazione in base
all’eziopatogenesi
Già 40 anni fa Waldvogel et al. (1970) proponevano una classificazione
basata sull’eziopatogenesi delle infezioni ossee. Tale classificazione
si è poi rivelata sempre più insufficiente a rappresentare le diverse
patogenesi di questo tipo di infezioni. Una più completa classificazione
eziopatogenetica oggi comprende:
• osteomieliti ematogene;
• tubercolosi osteoarticolare;
• osteomieliti per contiguità (post-traumatiche o postchirurgiche);
• osteomieliti associate a vasculopatie e/o neuropatie o dismetabolismi;
• infezioni correlate a materiali impiantabili temporanei;
• infezioni correlate a materiali impiantabili permanenti.
Osteomielite ematogena
L’osteomielite ematogena è causata da batteri che raggiungono
l’osso per via ematica da un focolaio infettivo a distanza (foruncoli,
impetigine, ulcere, ferite infette, carie o ascessi dentari, infezioni del
rinofaringe, intestino, apparato genitourinario ecc.); si ritiene che il
focolaio di partenza sia evidenziabile solo nel 30% dei casi. Non tutti
i focolai infettivi sono seguiti da invasione ematogena e successiva
localizzazione ossea. Perché ciò si realizzi è necessaria la coincidenza
di due fattori: virulenza e carica batterica da un lato, condizioni locali
e stato delle difese immunitarie dell’individuo dall’altro. L’osteomielite
ematogena si osserva soprattutto in età pediatrica, con una distribuzione
bimodale: < 2 anni e tra gli 8 e i 12 anni; essa interessa di regola le
metafisi delle ossa in rapido accrescimento (femore, tibia, omero e radio
sono le sedi più comunemente colpite). A tale livello il rallentamento
del circolo e la presenza di vasi capillari con angoli acuti predispone
i vasi sanguigni metafisari a trombosi, necrosi e proliferazione dei
batteri eventualmente presenti nel sangue. L’impianto del germe
nell’osso comporta una risposta infiammatoria con edema, iperemia
e passaggio di polimorfonucleati dal circolo al connettivo pervasale.
Questo primo tentativo di difesa da parte dell’organismo non è però
efficace e l’infiltrato infiammatorio si diffonde rapidamente a tutti
gli spazi midollari dell’osso spongioso e penetra nei canali di Havers
dell’osso corticale. Le cellule vanno incontro a necrosi colliquativa con
la formazione tra le trabecole ossee, a livello dello spazio metafisario,
di microascessi che possono confluire a formare raccolte di maggiori
dimensioni. Il pus si può diffondere a questo punto attraverso i canali
di Havers, raggiungendo la corticale dell’osso e raccogliersi al di sotto
del periostio (ascesso sottoperiosteo). Per propagazione del pus sotto
il periostio, questo si distacca dalla corticale, mentre i vasi sottoperiostei si trombizzano con la conseguenza di immediati e gravi disturbi
trofici dell’osso. Sotto l’azione combinata delle tossine batteriche e
dell’arresto circolatorio, porzioni più o meno ampie di sostanza ossea
vanno in necrosi, restando isolate in una massa di materiale colliquato
e necrotico, fino a formare il “sequestro osseo” identificabile sui radiogrammi. Infatti, nelle aree necrotiche la struttura trabecolare e osteonica
mantiene almeno inizialmente la primitiva compattezza, perché non vi è
tempo per la sottrazione di materiale calcareo, ma gli osteociti, insieme
con gli elementi dell’endostio e del midollo, scompaiono in poche ore
per citolisi. La diffusione del processo settico procede di regola verso il
cilindro diafisario, poiché è ostacolata la sua diffusione verso l’epifisi
dalla cartilagine di accrescimento, una struttura priva di vasi. Tuttavia nel
bambino al di sotto dell’anno di età, la presenza di vasi transfisari fa sì
che l’osteomielite possa diffondersi all’estremità dell’osso. La successiva
erosione dell’epifisi e il passaggio di batteri in ambiente articolare
possono quindi dare luogo a un’artrite settica (osteoartrite). L’anca è
l’articolazione più colpita, ma l’infezione può essere localizzata anche
alla spalla, al gomito e alla caviglia. Nelle forme con lesioni molto estese
e vasto interessamento epifisario viene danneggiato anche lo strato
germinativo della cartilagine di accrescimento, determinando così una
crescita asimmetrica degli arti, se la cartilagine di accrescimento è compromessa solo parzialmente, oppure un vero blocco della crescita, se la
lesione è a tutto spessore. Alla fase puramente essudativa e necrotica,
segue successivamente una fase delimitante e riparativa, caratterizzata
da un’apposizione ossea reattiva da parte del periostio (Tab. 109.2).
Dopo i due anni di età, le cartilagini di accrescimento, prive di vascolarizzazione, costituiscono una vera e propria barriera al processo
osteomielitico e quindi è raro il superamento delle metafisi. Nei
bambini più grandi, quindi, il processo osteomielitico si espande più
facilmente nella diafisi, creando un danno alla circolazione ossea endostale. Qualora ciò avvenga in concomitanza a un ascesso periostale e
compromissione della circolazione periostale, si può verificare una
pandiafisite con esteso sequestro e osteomielite cronica.
Dopo la chiusura delle cartilagini di accrescimento, l’infezione
si può estendere direttamente dalla metafisi all’epifisi e da qui
all’articolazione.
7 Per tale motivo le artriti settiche, secondarie a osteomielite acuta
ematogena, si osservano solo in età infantile e adulta.
0
Negli adulti l’osteomielite ematogena si localizza prevalentemente alle
ossa lunghe; vi è, inoltre, una predisposizione per la localizzazione
vertebrale, generalmente in ospiti immunocompromessi. A tale livello
l’evoluzione è generalmente lenta e la formazione di sequestri è rara.
Una forma particolare di osteomielite ematogena è quella tubercolare.
La tubercolosi è una malattia infettiva ad andamento cronico causata
da Mycobacterium tuberculosis (bacillo di Koch) e più raramente da altri
Tab. 109.2. Schema delle fasi patogenetiche dell’osteomielite
ematogena.
1. Batteriemia
2. Circolo rallentato nelle metafisi altamente vascolarizzate con capillari
con anse ad angolo retto
3. I batteri colonizzano la metafisi
4. Reazione infiammatoria
5. Necrosi ossea ischemica
6. Formazione di un ascesso
7. Espansione dell’ascesso
8. Aumento della pressione intramidollare
9. Ischemia corticale
10. Fuoriuscita del materiale purulento dalla corticale nello spazio
sottoperiostale
11. Ascesso sottoperiostale
12. Se non trattata: formazione di sequestri e comparsa di un’osteomielite
cronica
1398
micobatteri. Nella maggior parte dei casi la tubercolosi osteoarticolare
rappresenta una localizzazione secondaria a un processo specifico per
lo più polmonare o dei linfonodi ilari. Da questo primitivo focolaio,
non di rado del tutto asintomatico, si liberano micobatteri che per
via ematica o linfatica raggiungono quei segmenti scheletrici dove
riescono a impiantarsi. Si tratta in genere di ossa spugnose con una
ricca vascolarizzazione e un lento flusso circolatorio (vertebre, epifisi e
metafisi delle ossa lunghe, specie nei soggetti in accrescimento), ovvero
di articolazioni con ampie superfici rivestite da sinoviale.
Il bacillo di Koch, una volta insediatosi nell’osso, dà luogo a quadri
anatomoclinici di differente gravità che si rendono manifesti dopo
un periodo di latenza clinica e radiografica variabile da pochi mesi ad
alcuni anni.
Il quadro clinico e radiografico della tubercolosi osteoarticolare è assai
vario e in molti casi del tutto aspecifico, soprattutto nelle fasi iniziali.
Nella maggior parte dei casi la malattia si manifesta con l’insorgenza di
dolore localizzato nella sede colpita o irradiato a distanza. È presente,
inoltre, anche una sintomatologia generale caratterizzata da febbricola,
sudorazione serotina, astenia, anoressia e dimagramento.
All’esame obiettivo è possibile rilevare una tumefazione marcata nella
sede osteoarticolare colpita e una contrattura muscolare con finalità
antalgica. Un ulteriore importante segno da ricercare alla palpazione è
la presenza di un’eventuale linfoadenopatia satellite.
I primi segni radiografici che si rilevano sono una diminuzione della
densità ossea e una riduzione della rima articolare. Successivamente si
ha la comparsa di geodi o di erosioni osteocartilaginee con irregolarità
delle superfici articolari, mentre l’osso subcondrale non viene interessato. L’utilizzo di radiogrammi “molli” permette di rilevare l’eventuale
presenza di un ascesso o l’opacità di una sinoviale ispessita. Qualora
esista il sospetto di tubercolosi, lo studio radiografico deve comprendere
un radiogramma del torace.
Le indagini di laboratorio mostrano un aumento modesto della VES
e una leucocitosi. La positività della reazione tubercolinica (intradermoreazione alla Mantoux) è da considerarsi indicativa solo nei soggetti
non vaccinati. Ai fini diagnostici risultano dirimenti l’analisi istologica e
batteriologica condotta su materiale bioptico (liquido sinoviale, ascesso,
linfonodi) anche con tecniche di sequenzamento del DNA batterico
(PCR, Polymerase Chain Reaction).
La spondilite tubercolare (malattia di Pott) rappresenta la più frequente
localizzazione osteoarticolare (30-40%) ed è particolarmente temibile
per le gravi complicanze che ne possono derivare. Colpisce soprattutto
le vertebre dorsali e lombari e coinvolge la porzione anteriore del soma
provocando una marcata cifosi del rachide con prominenza delle spinose
delle vertebre (gibbo). L’infezione, se lasciata a se stessa, può propagarsi
al disco intersomatico sopra- e sottostante con coinvolgimento delle
vertebre adiacenti. Nella malattia di Pott è tuttora frequente il rilievo
di ascessi ossifluenti che nella loro evoluzione naturale migrano lungo
il decorso del muscolo psoas, fistolizzandosi in regione inguinale. Le
complicanze più gravi sono quelle neurologiche, fino alla paraplegia,
descritta da Pott come patognomonica di tubercolosi se associata al
gibbo e al dolore (triade di Pott).
La coxite tubercolare si manifesta con il dolore, spesso riferito al ginocchio, con limitazione funzionale e zoppia. Nelle fasi più avanzate è
possibile osservare l’assunzione di atteggiamenti viziati in flessione,
adduzione ed extrarotazione dell’anca, un’atrofia glutea oltre che
un’importante linfoadenopatia satellite.
La gonilite tubercolare è caratterizzata dal dolore, dalla zoppia e dalla
limitazione funzionale, cui si associa una marcata atrofia del muscolo
quadricipite che contrasta con la tumefazione del ginocchio (il cosiddetto “tumore bianco”).
sezione
IX Chirurgia ortopedica
Osteomieliti per contiguità
Si definiscono osteomieliti per contiguità o dirette quelle causate da
inoculazione diretta di batteri nel tessuto osseo in seguito a lesioni
traumatiche o chirurgia.
La presenza di batteri in una frattura aperta non è sufficiente, di per sé,
a causare un’osteomielite. Nella maggioranza dei casi, infatti, il sistema immunitario è in grado di prevenire la colonizzazione dei tessuti
da parte dei microrganismi. Il microambiente locale determina se si
svilupperà o no un’infezione. La tempistica e il tipo di trattamento
sono di grande importanza nel determinismo del processo settico.
Allo stesso tempo, le probabilità che si instauri un’osteomielite
dipende dal grado di lesione dei tessuti, dall’integrità del sistema
circolatorio locale e dall’efficienza del sistema immunitario. Pazienti
con diabete, vasculopatie o deficit di immunità locale sono a rischio
maggiore. Per quanto riguarda il tipo di lesione traumatica, si distinguono fratture chiuse, senza esposizione ossea, e fratture esposte.
Relativamente a queste ultime, secondo la classificazione proposta
da Gustilo-Anderson nel 1976 e successivamente riveduta (Gustilo
et al., 1976; Gustilo et al., 1987), si possono osservare i seguenti
tipi di fratture.
• Tipo I: esposizione < 1 cm, senza trauma da schiacciamento dei tessuti
molli. Rischio di infezione: 0-2%.
• Tipo II: esposizione > 1 cm, senza significativo schiacciamento o
mortificazione dei tessuti molli. Rischio di infezione: 0-5%.
• Tipo III: frattura con danno esteso ai tessuti molli o esposizione ossea
per tempo > 8 ore. Le fratture di tipo III sono ulterioremente suddivise
nei seguenti sottotipi.
– Tipo IIIA: copertura delle parti molli adeguata, nonostante il trauma
ad alta energia o la presenza di ampie ferite o lembi. Rischio di
infezione: 5-7%.
– Tipo IIIB: danno periostale e inadeguata copertura delle parti molli;
necessità di ricostruzione plastica. Rischio di infezione: 10-50%.
– Tipo IIIC: associato danno vascolare, che richiede il trattamento.
Rischio di infezione: 25-50%.
Osteomielite associata
a vasculopatie e/o neuropatie
Le osteomieliti associate a vasculopatie e/o neuropatie sono un’importante causa di disabilità e hanno spesso una prognosi negativa nel
lungo termine, a causa della difficoltà di trattamento, dell’alto rischio di
recidiva e di insorgenza di nuovi focolai. Il tipico esempio è costituito
dal piede diabetico, che sta assumendo proporzioni epidemiche nei Paesi
occidentali e sempre di più nei Paesi emergenti con la diffusione del
benessere e delle nuove abitudini alimentari.
Infezioni correlate a materiali impiantabili
Le infezioni correlate a materiali impiantabili (Romanò, 2009)
costituiscono attualmente una grande parte delle infezioni ossee nei
Paesi sviluppati; esse sono caratterizzate dalla difficoltà di diagnosi e
di trattamento, causato da una parte dalla resistenza dei ceppi batterici
infettanti di tipo ospedaliero, multiresistenti agli antibiotici e, d’altra
parte, dalla capacità degli stessi batteri di aderire al corpo estraneo
impiantato. È ormai ampiamente dimostrato che il materiale impiantabile, comunemente usato in ortopedia e traumatologia è generalmente
ricoperto da proteine dell’ospite, come il fibrinogeno e la fibronectina,
che facilitano la colonizzazione batterica conducendo a un’infezione
di tipo ritardato. Un meccanismo patogenetico molto caratteristico è
la formazione di biofilm (Fig. 109.1), struttura all’interno della quale
i batteri aumentano la propria resistenza alle difese dell’ospite e agli
antibiotici (Gristina et al., 1989).
capitolo
1399
109 Infezioni ossee
facendo progredire la formazione del callo osseo, per poi rimuovere
i mezzi di sintesi a consolidazione avvenuta.
• Tipo II: infezione in osteosintesi stabile, ma con scarsa o assente progressione del callo osseo. In tali casi può essere mantenuta la sintesi,
controllando l’infezione come nel tipo I, accelerando il callo osseo
mediante gesti chirurgici (dinamizzazione, fattori di crescita ossea ecc.)
e fisici (ultrasuoni pulsati a bassa intensità, campi elettromagnetici
pulsati ecc.).
• Tipo III: infezione in osteosintesi, con scarsa progressione del callo
osseo e instabilità o insufficienza della sintesi. In tali casi si rende
necessaria la rimozione della sintesi e la sua sostituzione.
Classificazione anatomopatologica
Fig. 109.1. Immagine al microscopio confocale a scansione laser di biofilm (in
rosso) e batteri (Staphylococcus aureus) (in verde).
La presenza di varianti fenotipiche (small colony variant) delle cellule
batteriche parentali complica ulteriormente la situazione. Tali microrganismi, infatti, non solo sono difficilmente individuabili con i
comuni mezzi microbiologici, ma risultano essere anche più resistenti
ai vari antibiotici (Drago, 2009).
L’abilità di formare biofilm richiede che vengano esplicate almeno
due proprietà: la prima risiede nell’adesione del microrganismo a una
superficie; la seconda si basa sulla capacità di accumulare strati multipli di una sostanza chiamata slime, costituita da un esopolisaccaride
(PIA, polisaccaride intracellulare di adesione), nella quale le cellule
vengono racchiuse e, in qualche modo, protette dall’attacco del sistema
immunitario e dagli antibiotici (Davey et al., 2000).
L’osservazione che i batteri, in presenza dei materiali impiantati, sono difficilmente
aggredibili sia dall’organismo ospite sia dagli antibiotici spiega perché spesso
per vincere il processo settico si rendano necessarie in questi casi la rimozione
dell’impianto e la bonifica chirurgica dei tessuti infetti. A tale proposito, tuttavia,
vi è una differenza fondamentale tra materiali impiantabili destinati a
un uso temporaneo (materiali per osteosintesi per fratture o osteotomie) e
impianti destinati a un uso permanente (per es. le protesi articolari). Infatti,
mentre i materiali di sintesi sono necessari fino a che avvenga la consolidazione
ossea e possono poi essere rimossi senza inconvenienti, la rimozione definitiva
di una protesi articolare determina inevitabilmente la perdita di funzionalità di
quell’articolazione.
Per quanto riguarda le infezioni dopo un’osteosintesi, dato che l’infezione ossea
può rallentare il processo di consolidazione di una frattura, ma non ne impedisce,
di per sé, la guarigione (Ehara, 1997), è possibile quindi mantenere il mezzo di
sintesi fino alla guarigione della frattura o dell’osteotomia, controllando il processo
settico, per poi rimuovere l’impianto a consolidazione ossea avvenuta.
Nelle infezioni dopo osteosintesi, secondo la Classificazione ICS (Romanò et al., 2006a) (dall’acronimo di: infezione, callo osseo e stabilità
del mezzo di sintesi), è possibile distinguere tre tipi.
• Tipo I: infezione in osteosintesi stabile, con progressione del callo osseo ai controlli radiografici successivi. Il trattamento in questi casi può
consistere nel controllare l’infezione con terapie medicochirurgiche,
Circa 20 anni fa Cierny e Mader (1985) hanno proposto una classificazione delle osteomieliti delle ossa lunghe basata sul criterio
anatomopatologico di sede e sull’estensione della lesione ossea. Tale
classificazione, ancora oggi tra quelle più utilizzate in ambito internazionale (Mader et al., 1997; Cierny et al., 2003), si rivela utile per
guidare il trattamento e, integrata dalla classificazione del tipo di ospite
proposta dagli stessi Autori, per confrontare i risultati e le prognosi. Essa
distingue in quattro stadi.
• Stadio 1: osteomielite midollare (per es. infezioni ematogene, complicazione settica in esiti di sintesi con chiodo endomidollare ecc.).
• Stadio 2: osteomielite superficiale, ossia infezione limitata alla sola
corticale, senza interessamento dello spazio midollare (per es. infezioni paraostali, infezioni ossee da perdita di copertura delle parti
molli ecc.).
• Stadio 3: osteomielite localizzata, ossia infezione estesa alla corticale
a tutto spessore, fino allo spazio midollare (per es. osteomielite sequestrativa, complicanza settica di sintesi interna ecc.).
• Stadio 4: osteomielite diffusa con coinvolgimento circonferenziale
della corticale e della midollare (per es. non unioni settiche).
Classificazione dell’ospite
Sia la suscettibilità alle infezioni osteoarticolari sia la prognosi sono
notevolmente influenzate dalla tipologia e dai fattori di rischio propri
del paziente (Wald, 1985). Cierny e Mader (Cierny et al., 1985; Mader
et al., 1997; Cierny et al., 2003) hanno per la prima volta differenziato
gli ospiti in tre categorie fisiologiche.
• Ospite di tipo A: ospite normale.
• Ospite di tipo B: ospite compromesso sistemicamente o localmente
(Tab. 109.3).
• Ospite di tipo C: ospite gravemente compromesso in cui il trattamento
può essere più dannoso rispetto alla malattia. Il paziente di gruppo C
può non essere di per sé un candidato al trattamento chirurgico oppure
presentare disturbi modesti, che non giustificano un trattamento
chirurgico impegnativo.
Tra i fattori di rischio ve ne sono alcuni congeniti, altri acquisiti e
altri ancora legati a stili di vita (fumo, alcol, tossicodipedenza ecc.).
Mentre alcune condizioni non sono modificabili (età [Romanò et al.,
2010], insufficienza renale cronica ecc.), per molte altre è possibile
adottare delle cure idonee almeno parziali (diabete, vasculopatie,
denutrizione ecc.) o cambiamenti delle abitudini di vita. Ciò può
permettere di modificare un ospite di tipo B in uno di tipo A,
aumentando le possibilità di guarigione o riducendo il rischio di
complicanze settiche.
1400
sezione
Tab. 109.3. Fattori sistemici o locali che interferiscono con
la sorveglianza immunitaria, il metabolismo e la
vascolarizzazione locale.
Fattori sistemici
Fattori locali
Malnutrizione
Insufficienza renale o epatica
Diabete mellito
Ipossia cronica
Immunodeficienza/
immunosoppressione
Tumori maligni
Età avanzata
Splenectomia
Abuso di tabacco/droghe/alcol
Linfedema cronico
Flebostasi
Vasculopatie periferiche
Arteriti
Cicatrici estese
Radioterapia
Microangiopatia
Neuropatie periferiche
Da: Lazzarini et al., 2004.
Classificazione del difetto osseo
Nelle infezioni dell’osso, le perdita di massa ossea locale è frequente,
per una o più delle seguenti condizioni.
• Il processo infettivo ha un effetto prevalentemente osteolitico, per il
rilascio batterico diretto o mediato da cellule dell’ospite di tossine,
fattori proinfiammatori, apoptosi cellulare ecc.
• Le non unioni settiche e le complicanze infettive postosteosintesi si
associano spesso a difetti ossei secondari al trauma, al riassorbimento
osseo e a precedenti interventi chirurgici.
• Le infezioni periprotesiche, determinando non raramente micromovimenti e mobilizzazione secondaria dell’impianto, sono spesso
associate a osteolisi periprotesica, talora molto grave.
• Chirurgie precedenti o attuali, dirette a eradicare l’infezione, sono una
potente causa di impoverimento del patrimonio osseo.
Si distinguono tre tipi di difetto osseo (Romanò et al., 2006b).
• Tipo 1: è un difetto cavitario. Questo comune tipo di difetto si verifica
nel contesto di un segmento osseo ed è delimitato da pareti periferiche. Il volume del difetto può variare da pochi mm3 a parecchi cm3.
La stabilità del segmento osseo è mantenuta. Questo tipo di difetti
IX Chirurgia ortopedica
si osserva frequentemente in osteomieliti ematogene, infezioni post­
osteosintesi e in quelle periprotesiche.
• Tipo 2: è un difetto osseo epifisario. Si caratterizza per la totale o
parziale perdita di patrimonio osseo a livello epifisario, con interessamento articolare. Può essere il risultato di infezioni in osteosintesi
metaepifisarie, protesi articolari settiche, osteoartriti infettive ecc.
• Tipo 3: è un difetto osseo segmentario circonferenziale esteso ad
almeno i 2/3 della circonferenza dell’osso, con perdita della valenza
meccanica dell’osso stesso. Il difetto di tipo 3 è tipicamente quello
delle incomplete consolidazioni e delle non unioni settiche, resezioni
ossee segmentarie dopo infezioni ossee ecc.
La classificazione dei difetti ossei nelle infezioni permette di codificare
meglio le indicazioni d’uso delle diverse possibilità terapeutiche oggi
disponibili che comprendono i seguenti tipi raggruppati in base a
categorie omogenee.
• Biomateriali di riempimento antibiotati (filler) (Meani et al., 2007):
– biologicamente inattivi (per es. polimetilmetacrilato [Calhoun
et al., 1989]);
– osteoconduttivi riassorbibili (innesti ossei omologhi, sali di calcio,
idrossiapatiti ecc.);
– osteoinduttivi riassorbibili (innesti ossei autologhi [Papineau,
1991], matrice ossea demineralizzata ecc.).
• Fattori di crescita (GFs, Growth Factors):
– derivati o gel piastrinici (PRP, Platelet Rich Plasma);
– proteine morfogenetiche dell’osso (BMP, Bone Morphogenetic
Protein);
– cellule staminali.
• Tecniche chirurgiche:
– trasporti ossei (Calhoun et al., 1991) (Fig. 109.2);
– artrodesi chirurgiche;
– lembi di copertura fasciocutanei, miofasciali (Anthony et al., 1991),
lembi liberi (Beris et al., 1995) ecc.;
– innesti ossei massivi, vascolarizzati.
• Mezzi metallici:
– protesi articolari da revisione e modulari;
– infibuli endomidollari con o senza rivestimento antibiotico;
– protesi segmentarie.
Fig. 109.2. (a) Quadro radiologico di pseudoartrosi settica della tibia. (b) Resezione del focolaio settico. (c) Impianto di un fissatore esterno circolare e osteotomia
prossimale di tibia. (d) Trasporto osseo: quadro radiologico dopo 4 mesi dall’intervento.
capitolo
1401
109 Infezioni ossee
• Tecniche di stimolazione biofisica dell’osso:
Tab. 109.4. Principali microrganismi responsabili di infezioni
protesiche.
– ultrasuoni pulsati a bassa intensità (Romanò et al., 2009a);
– campi elettromagnetici pulsati;
– campi elettrici capacitivi.
■■Agenti
causali
L’agente patogeno delle infezioni ossee è isolato solo nel 25-50% delle
infezioni, a seconda della localizzazione e del tipo di infezione.
7 Un esame colturale negativo non permette, quindi, di escludere con
certezza un’infezione ossea.
0
I microrganismi più frequentemente causa di osteomieliti ematogene
in età infantile sono: Staphylococcus aureus, streptococchi del gruppo A e
B, Haemophilus influenzae, Enterobacter spp., E. coli, mentre nel bambino
più grande e nell’adulto Staphylococcus aureus è il germe causale in circa
l’80% dei casi, seguito da Klebsiella spp., Enterobacter spp., Pseudomonas
spp. (Jackson et al., 1982). Sono stati segnalati recentemente casi di
infezioni ossee ematogene, extranosocomiali, causate da ceppi di
Staphylococcus aureus meticillino-resistente (MRSA).
Osteomieliti ematogene negli adulti, soprattutto in soggetti immunodepressi o debilitati, possono essere causate anche da Pseudomonas, Proteus
spp., Klebsiella spp. e da altri batteri Gram− , che possono anche essere
all’origine di spondiliti e spondilodisciti. È anche possibile il riscontro
di microrganismi anaerobi, principalmente Bacteroides spp.
Infezioni ossee di origine micotica sono più frequenti in pazienti
immunocompromessi e sottoposti a terapie endovenose prolungate o
a nutrizione parenterale.
La Tabella 109.4 riporta i microrganismi più frequentemente causa di
infezioni postchirurgiche e correlate agli impianti.
Nei pazienti traumatizzati, soprattutto in quelli con fratture esposte, il
più comune agente eziologico, come singolo germe infettante, è lo Staphylococcus aureus, ma frequentemente esso fa parte di una flora batterica
mista. È comune l’isolamento di batteri Gram− , quali Pseudomonas spp.,
Enterobacter spp. e Klebsiella spp.
■■Diagnosi
La diagnosi di infezione ossea è talora conclamata, ma in altri casi può
essere difficoltosa e necessitare di un approccio multimodale (Romanò
et al., 2009b). Essa si basa sull’esame clinico-anamnestico, i dati di
laboratorio, gli esami colturali, e talvolta istologici, e le tecniche di
diagnostica per immagini.
Tra gli esami di laboratorio si rivelano particolarmente utili lo studio
della velocità di eritrosedimentazione, il conteggio dei leucociti e la
formula leucocitaria, il dosaggio della PCR, del fibrinogeno, a2- e g-globuline e, in casi selezionati, della interleuchina-6. I test di laboratorio,
sebbene non specifici per le infezioni ossee, sono altamente sensibili
e di facile esecuzione e consentono anche di monitorare l’andamento
della terapia.
L’esame colturale, eseguito su liquidi biologici (liquido sinoviale,
sangue, raccolte ascessuali ecc.) o direttamente nel focolaio di lesione,
consente la diagnosi di certezza, sebbene siano possibili dei falsi
Gram+
Gram−
Staphylococcus aureus
Stafilococchi aurei
meticillino-sensibili (MSSA)
Stafilococchi aurei
meticillino-resistenti (MRSA)
Enterobatteri
Escherichia coli
Proteus spp.
Enterobacter spp.
Klebsiella spp.
Citrobacter spp.
Serratia spp.
Pseudomonas aeruginosa
Stafilococchi coagulasi-negativi
S. epidermidis
S. hominis
S. saprophyticus
S. capitis
S. haemolyticus
S. warneri
Streptococcus spp.
Enterococcus faecalis
Enterococcus faecium
Propionibacterium spp.
Corynebacterium spp.
Acinetobacter baumannii
Stenotrophomonas maltophilia
Bacteroides spp.
positivi, e di intraprendere una terapia antibiotica mirata, sulla base
dell’antibiogramma; tale accertamento, che andrebbe preferibilmente
eseguito prima della somministrazione di antibiotici o, almeno, dopo
la sospensione di questi per qualche giorno, risulta tuttavia positivo solo
nel 25-50% delle infezioni ossee, per cui un esame colturale negativo
non esclude, di per sé, l’infezione.
In casi dubbi può essere necessario eseguire un esame istologico,
eventualmente anche con tecniche di biologia molecolare.
Le tecniche di diagnostica per immagini comprendono la radiologia
tradizionale (poco affidabile per la diagnosi precoce di infezione
ossea), l’ecografia, la TC e la RM, la scintigrafia ossea e, in casi
selezionati, la PET. In particolare, la RM sta assumendo un ruolo
sempre maggiore per la sensibilità della metodica nel riconoscere
precocemente le alterazioni infiammatorie dell’osso, per la definizione
dei dettagli nei vari piani dello spazio e per l’innocuità e la facile
ripetibilità dell’esame.
Spesso si rende necessario l’uso combinato di più tecniche, sia per la diagnosi differenziale sia per lo studio preoperatorio (Sammak et al., 1999).
La Tabella 109.5 riporta le più frequenti diagnosi differenziali con le
infezioni ossee.
Tab. 109.5. Principali diagnosi differenziali con le infezioni ossee.
Tumori
 Sarcoma di Ewing
 Osteosarcoma
 Metastasi
 Leucemie, mielomi
Malattie reumatiche
 Gotta
 Pseudogotta
 Artriti infiammatorie
Fratture traumatiche o da durata
Algodistrofia e necrosi asettica
1402
sezione
IX Chirurgia ortopedica
■■Terapia
Una volta posta la diagnosi di osteomielite è necessario instaurare prontamente
una terapia efficace che domini l’infezione nella fase iniziale, evitandone, per
quanto possibile, la cronicizzazione. Il trattamento è generalmente coordinato
dal chirurgo ortopedico, coadiuvato, secondo le necessità, dallo specialista
infettivologo, microbiologo, chirurgo plastico, diabetologo-internista ecc., secondo
un approccio multidisciplinare.
Il trattamento prevede l’uso singolo o associato di:
• terapia antibiotica;
• trattamenti chirurgici;
• trattamenti di supporto.
Il trattamento antibiotico è preferibilmente effettuato sulla base dell’antibiogramma. In attesa dei risultati o in caso di esami colturali negativi, è consigliabile
comunque attuare una terapia antibiotica su base empirica, impostata sulla
base dei dati epidemiologici e di aspetti clinici specifici del singolo paziente. La
terapia antibiotica deve essere praticata a dosi piene e per un periodo di tempo
adeguato, generalmente per almeno 4-6 settimane, spesso per via parenterale
(Swiontkowski et al., 1991). Il tessuto osseo, infatti, viene raggiunto con una
certa difficoltà dai vari farmaci antibatterici (Mader et al., 1999; Couch et al.,
1987; Dirschl et al., 1993; Tetzloff et al., 1978).
Gli antibiotici più frequentemente impiegati, di solito in associazione di almeno
due di essi, includono: penicilline sintetiche, cefalosporine, glicopeptidi, chinolonici, rifampicina, cotrimossazolo, clindamicina, aminoglicosidi, carbapenemici,
polimixine ecc. Antibiotici di nuova produzione – linezolid, daptomicina, quinupristin/dalfopristin, tigeciclina ecc. – possono essere utilizzati a discrezione del
curante, sotto stretto controllo e in casi selezionati.
La terapia delle forme di tubercolosi osteoarticolare si avvale di mezzi farmacologici, ortopedici ed eventualmente chirurgici. Il trattamento chemioterapico
prevede, di solito, l’associazione di tre farmaci, tra cui la rifampicina e l’isoniazide
per almeno 6-9 mesi, a cui si associa per i primi 2-3 mesi un altro antibiotico a
scelta tra l’etambutolo, la pirazinamide e la streptomicina.
Il monitoraggio della terapia farmacologica nelle infezioni ossee è effettuato
prevalentemente sulla base dei dati clinici e di laboratorio.
7 Nelle osteomieliti la terapia antibiotica può avere funzione di trattamento completo o coadiuvante prima e dopo la chirurgia. Nella maggioranza delle infezioni ossee, soprattutto nelle forme cronicizzate, si
rende infatti necessario associare alla terapia antibiotica il trattamento
chirurgico, poiché il solo trattamento farmacologico è inefficace.
Fig. 109.3. Donna di 54 anni: infezione ematogena tardiva, comparsa a distanza
di 11 anni dall’impianto di protesi totale di anca. Il quadro clinico locale non
evidenzia segni di flogosi acuta, mentre gli indici infiammatori e un agoaspirato
preoperatorio sono tutti positivi per infezione.
oppure, per le infezioni ritardate o tardive rimozione e sostituzione della protesi in uno
o due tempi, rimozione senza reimpianto, artrodesi, amputazione (Widmer, 2001).
7 Nel trattamento delle osteomieliti, la necessità di ricorrere a ripetute
procedure chirurgiche, seguite da altrettanti cicli di terapia con
farmaci antibatterici, non è un’evenienza rara.
0
Le terapie di supporto, utilizzate secondo diverse indicazioni, includono
l’uso di tutori, l’ossigenoterapia iperbarica (Mader et al., 1990; Mader et
al., 1989), sistemi biofisici per la stimolazione del callo osso, supporti
nutrizionali ecc.
0
La chirurgia ha essenzialmente due obiettivi:
• la rimozione accurata e il più radicale possibile dei tessuti devitalizzati e infetti;
• la ricostruzione dell’anatomofisiologia del segmento lesionato.
I tempi e i modi del trattamento chirurgico dipendono dal tipo di infezione ossea.
Seguendo la classificazione di Cierny-Nader:
–– il trattamento delle osteomieliti delle ossa lunghe di stadio 1 (osteomielite midollare) può essere effettuato con la sola terapia antibiotica (per es. infezioni
ematogene nel bambino) o con la fresatura del solo canale midollare;
–– le infezioni di stadio 2 (osteomielite superficiale) richiedono di solito una
bonifica ossea relativamente limitata e un associato intervento di copertura
plastica in un unico tempo o in più tempi successivi;
–– nello stadio 3 (osteomielite localizzata) si rendono necessarie chirurgie più
complesse di resezione ossea tangenziale, fresatura del canale midollare,
eventuali plastiche e innesti di materiali antibiotati;
–– nello stadio 4 (osteomielite diffusa), la complessità del trattamento aumenta, con la necessità, talvolta, di trasporti ossei, innesti ossei vascolarizzati,
protesi segmentarie o articolari, amputazioni ecc.
La scelta del trattamento delle infezioni in presenza di materiale di sintesi
segue le indicazioni ricordate a proposito della classificazione ICS, mentre nelle
infezioni correlate a impianti destinati a un uso permanente, come le protesi articolari (Figg. 109.3 e 109.4), sono possibili diverse opzioni: semplice sbrigliamento
dei tessuti infetti e terapia antibiotica, prevalentemente per le infezioni precoci,
Fig. 109.4. Quadro intraoperatorio: per spremitura si ottiene l’evacuazione
di un voluminoso ascesso sottofasciale, esteso al terzo medio di coscia e in
comunicazione con la neoarticolazione. La protesi sarà rimossa e reimpiantata
in un secondo tempo.
capitolo
109 Infezioni ossee
■■Prognosi
e possibili complicanze
Come appare evidente da quanto descritto finora, il trattamento delle
infezioni ossee è tra i più complessi della chirurgia ortopedica. La prognosi è variabile a seconda del tipo di osteomielite e dell’ospite.
Mentre agli inizi del XX secolo circa il 20% dei pazienti con un’osteomielite diffusa andava incontro alla morte, oggi tale rischio è divenuto
trascurabile, anche se tuttora possibile. I risultati del trattamento sono
infatti decisamente migliorati negli ultimi due decenni, grazie a una
diagnostica più precoce, a un trattamento più aggressivo e combinato
e ai nuovi presidi terapeutici.
Rimane tuttavia un rischio di recidiva dell’infezione di circa il 15-20%
e non sono rare alcune gravi complicanze tra cui si ricordano le più
frequenti:
• osteomielite ricorrente;
• osteomieliti, artriti e infezioni metastatiche di altri organi;
• ascessi, celluliti e flemmoni;
• batteriemie e setticemie;
• fratture patologiche;
• arresto della crescita ossea;
• mobilizzazione degli impianti protesici;
• deficit neurologici secondari a spondiliti e spondilodisciti;
• trombosi venose;
• degenerazione carcinomatosa di tragitti fistolosi (circa l’1% dei casi di
osteomielite cronica [Sedlin et al., 1963; Sankaran-Kutty, 1982]).
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