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Uomini liberi a costo della vita. I profeti. 1. Il contesto storico della
Lectio divina mensile al Centro Giovanile Antonianum
5° incontro (17.02.2008)
Uomini liberi a costo della vita. I profeti.
1. Il contesto storico della profezia classica: la monarchia e lo sviluppo della classe sacerdotale, in
Israele, dal 10° al 6° secolo.
2. Modalità narrativa: raccolte di “detti” e brani narrativi.
3. Tre piste di riflessione:
a. Il profeta uomo posto accanto al re, ai sacerdoti, “all’istituzione”.
b. Il profeta uomo che legge gli avvenimenti contemporanei alla luce dell’alleanza e dei “gusti”
del Signore.
c. Il profeta uomo dalla parte di Dio e dalla parte del popolo.
Premessa
Fare il profeta, mettersi a fare il profeta» indica, nei tempi antichi, un lasciarsi invadere incontrollabilmente da uno stato di
eccitazione estatica, in cui si entri in qualche comunicazione con il divino e la si esprima poi esternamente in maniere che
vanno al di là degli ordinari mezzi razionali di conoscenza e di linguaggio: gesticolazioni, danze, grida, autodenudamento,
autoincisioni, abbigliamento inconfondibile, ecc.; manifestazioni che possono diventare contagiose (1Sam 10,5-13; 19,2024).
I profeti “classici”, viceversa, dal tempo della monarchia in poi, sono persone che non sperimentano situazioni di tipo
estatico: sono persone di preghiera, attente a interpretare gli avvenimenti del loro tempo e a “leggerli” alla luce
dell’esperienza autentica di Dio, convinti nel loro parlare agli altri di portare “la parola di Dio” (“oracolo del Signore”).
Comunicano un messaggio accompagnandolo spesso anche con gesti e azioni simboliche efficaci (= segni sacramentali),
propri di un forte realismo religioso, come leggiamo per esempio in 1Sam 15,27-28 (il mantello di Samuele strappato da
Saul); 1Re 11,29-39 (il mantello lacerato di Achia); 22,10-12 (le corna di ferro di Sedecia), ecc. Mediante l’azione
simbolica la parola entra dagli occhi. Questi segni sacramentali di profezia sono numerosi anche durante lo svolgimento
della missione dei grandi profeti: Is 7,3; 8,1-4.18; 10,20-23 (i nomi dei figli del profeta); 20,2-6 (il profeta nudo per tre
anni); Ger 1,11-19 (il ramo di mandorlo e la caldaia); 13,1-11 (la cintura nascosta presso Perath, se non si tratta di una
semplice visione profetica); 16,1-13 (il celibato di Geremia); 18,1-12 (la bottega del vasaio); 19,1-15 (la brocca spezzata
presso la Porta dei Cocci); 24 (i due canestri di fichi); 27-28 (i capestri e il giogo sul collo di Geremia); 32 (il campo
acquistato); Ez 3,22-27 (il profeta muto); 4 (tutta una mimica del profeta con un mattone e un razionamento dei viveri
annunziano l’assedio di Gerusalemme); 5 (la rasatura della barba e dei capelli di Ezechiele e la divisione dei peli tagliati);
12,1-20 (il mimo dell’esiliato); 24,1-14 (la pentola che bolle e l’assedio di Gerusalemme); 24,15-27 (il divieto fatto a
Ezechiele di fare il lutto per la morte della moglie e la guarigione del profeta dal suo mutismo; cf. 33,21-22); il dramma
matrimoniale di Osea e i nomi dei suoi figli (Os 1–3); ecc.
Anche il Nuovo Testamento conosce queste azioni simboliche nell’agire di Gesù e dei profeti: cf. Mt 21,12-17; Mc 11,1517; Lc 19,45-46; Gv 2,14-17 (i cambiavalute e i venditori cacciati dall’area del tempio); Mt 18-22; Mc 11,12-14.20-25 (il
fico sterile e seccato); Mt 12,38-42; Gv 2,18-22; 6,30-58 (il segno della morte e risurrezione del Messia); Gv 13,1-30 (la
lavanda dei piedi); At 21,10-14 (Agabo legato mani e piedi); ecc.
Nessuna confusione deve essere fatta tra l’azione simbolica dei profeti e la magìa. Il mago o l’indovino pretenderebbe di
indicare un inevitabile corso del destino, il profeta vuole rivelare una libera volontà di Dio, affinché l’uomo le obbedisca.
La magìa è lo strumento di un antropocentrismo fatalistico e senza speranza, mentre il profeta annuncia la presenza nel
mondo di un piano divino di salvezza, unico vero operatore di novità e di grazia.
La profezia non conosce e non rispetta barriere di sesso, cultura, classe sociale, età, stato religioso. Sono profeti laici e
sacerdoti, ricchi e poveri, colti e incolti, giovani e anziane, uomini e donne (Miryam, la sorella di Mosè (Es 15,20), Debora
(Gdc 4,4), Culda (2Re 22,14; 2Cr 34,22), Noadia (Ne 6,14), la moglie di Isaia (Is 8,3) …).
Bisogna distinguere tra un autentico carisma di profezia e, d’altra parte, tutta una serie di fenomeni puramente psichici di
autoesaltazione, magia, superstizione, frode, fanatismo, credulità, opportunismo o addirittura di satanismo; discernere cioè
tra lo Spirito veritiero e santo del Signore e lo spirito della menzogna è un’operazione molto delicata che genera uno
scontro polemico tra falsi e veri profeti, ed è uno dei massimi temi della rivelazione biblica, ebraica e cristiana; la
“normalità” della condizione in cui vive il popolo di Dio nella storia è quella di un continuo discernimento di “spiriti”, i
quali, rivestiti dei più variopinti abbigliamenti culturali, sono finalmente due: lo Spirito della Verità e lo spirito della
menzogna (1Re 22,22-23; 2Cr 18,21-22).
«I profeti sono uomini della parola, devono cioè porre a disposizione di Dio soprattutto il loro linguaggio, come se
dovessero dare la carne, il sangue, la vita e l’espressione della loro lingua perché in essi si incarni la Parola di Dio.
Evitiamo una concezione estrinseca del servizio della parola, che potrebbe essere suggerita da alcune formule come “Il
Signore rivolse la parola al tale”, “ Metto le mie parole nella tua bocca” (Ger 1), ecc. Qualcuno potrebbe concludere che il
profeta ascolta, impara a memoria e ripete alla lettera le parole di Dio. Non è così …: il profeta deve elaborare gli oracoli
col sudore della fronte, come coscienzioso artigiano della parola profetica /…/ Il profeta conserva la propria lucidità quando
riceve ed elabora il messaggio di Dio; conserva la propria libertà quando si pone a disposizione di Dio.» (L. ALONSO
SCHÖKEL, I profeti, Borla, 1984, 19).
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5° incontro (17.02.2008)
Testi biblici
Il profeta di fronte: a un peccato personale: 2Sam 11–12; all’abuso di potere: 1Re 21; ad una
religione degenerata: Ger 7,1–8,3; alla politica interna e agli idoli: Os 8,1–7; alla ricerca di
sicurezza presso le nazioni potenti: Is 30,1–17; 31,1–3; all’arroganza di un re straniero: Is
10,5–16; all’ingiustizia sociale: Am 3,13–4,12,; 8,1–14. Il profeta uomo del dolore: Ger 16,1–
13.
Sussidio n° 1
Ez 3,16–21
“Figlio dell’uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d’Israele. 17 Quando sentirai dalla mia bocca una
parola, tu dovrai avvertirli da parte mia. 18 Se io dico al malvagio: Tu morirai! e tu non lo avverti e non parli
perché il malvagio desista dalla sua condotta perversa e viva, egli, il malvagio, morirà per la sua iniquità, ma
della sua morte io domanderò conto a te. 19 Ma se tu ammonisci il malvagio ed egli non si allontana dalla sua
malvagità e dalla sua perversa condotta, egli morirà per il suo peccato, ma tu ti sarai salvato. 20 Così, se il
giusto si allontana dalla sua giustizia e commette l’iniquità, io porrò un ostacolo davanti a lui ed egli morirà;
poiché tu non l’avrai avvertito, morirà per il suo peccato e le opere giuste da lui compiute non saranno più
ricordate; ma della morte di lui domanderò conto a te. 21 Se tu invece avrai avvertito il giusto di non
peccare ed egli non peccherà, egli vivrà, perché è stato avvertito e tu ti sarai salvato”.
Atti 2,14–18
Allora Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così: “Uomini di Giudea, e voi tutti che vi
trovate a Gerusalemme, vi sia ben noto questo e fate attenzione alle mie parole: 15 Questi uomini non sono
ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino. 16 Accade invece quello che predisse il
profeta Gioele:
e i vostri anziani faranno dei sogni.
17 Negli ultimi giorni, dice il Signore,
18 E anche sui miei servi e sulle mie serve
Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona;
in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi
i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
profeteranno.
i vostri giovani avranno visioni
Sussidio n° 2
(F.ROSSI de GASPERIS Prendi il libro e mangia. II. Dai Giudici alla fine del Regno. EDB, Bologna 1999, pp. 213–4)
La profezia non concerne solo la politica religiosa dei governanti. Essendo parola di Dio, e non solo di “uomini specialisti del
campo religioso”, essa scende fino ai minimi comportamenti di uomini e di donne, i quali debbono in tutto tener fede
all’alleanza, che è la vera carta costituzionale del regno. Ancora una volta, la Bibbia celebra la signoria della scienza e della
potenza di JHWH su tutti gli avvenimenti della storia e su ciascuna delle sue pagine e inculca il primato della fede di Abramo
sulla religione, oltre che sulla morale.
La profezia jahwista appare, così, come la garanzia del fatto che lo Spirito di JHWH continua a precedere e ad
accompagnare Israele anche quando i re assumono il potere e diventano i vicari di JHWH per il suo popolo. La fragilità degli
uomini di governo è accompagnata dalla presenza, dalla parola e dall’azione di uomini, fragili come loro, ma ispirati, sorretti,
e talvolta bruciati dallo Spirito, come lo erano i giudici, nei periodi della loro missione salvifica. Il profeta jahwista ha come
unico punto d’appoggio la parola di JHWH, che egli è chiamato a trasmettere: una parola che può risuonare come il ruggito
di un leone (Am 1,2), o bruciare come un fuoco ardente, chiuso nelle ossa (Ger 20,9), o essere gioia e letizia del cuore (Ger
15,16); una parola che può tardare a manifestarsi (Ger 42,7), ma dalla quale, quando giunge, si può voler fuggire (come
Giona).
Più nel popolo di Dio si struttura l’istituzione sociopolitica, più prende rilievo l’istituzione carismatica dell’intervento del
Signore in mezzo a esso. Con lo jahwismo, infatti, la profezia si rivela un’istituzione puramente carismatica volta a tradurre e
incarnare in modo originalissimo l’irrinunciabile primato dello Spirito presso il popolo di Dio, anche e soprattutto, nel periodo
monarchico. Il re è, per eccellenza, il mediatore del Signore presso il popolo, e la sua mediazione è accompagnata pure da
quella dei sacerdoti e dei “teologi” (gli scribi del regno), ma non è il re, né i sacerdoti o gli scribi, coloro che creano o
ordinano i veri profeti (anche se non mancherà l’abuso dei “profeti di corte”), bensì il Signore, che a essi parla direttamente,
senza mediazione. Il profeta non ha alcuna autorità istituzionale sul re, ma limita l’insindacabilità di questa autorità (a
differenza di ciò che accade nei regni vicini), avendo completa libertà di parola e di giudizio (quelli del Signore) nei suoi
confronti, e svolgendo l’ufficio di aiutarlo e sostenerlo nella fedeltà all’alleanza. I profeti sono gli «uomini di Dio», della sua
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parola immediata e spesso sconvolgente, che attraversa tutta l’esistenza del suo popolo sulla terra, e la rende propriamente
storica. Essi sono “la coscienza jahwista” dei re di Israele e di Giuda.
Sussidio n° 3
(CLAUS WESTERMANN, Profeta a prezzo della vita. Geremia, Marietti, Torino 1971, 110-113.)
In nessun profeta prima o dopo Geremia la parola e 1’azione profetica sono stati tanto collegati al dolore. Sono
tre gli ambiti in cui ciò si estrinseca:
1. Prima di tutto Geremia si trova nella storia di un tramonto: quello del suo popolo. Geremia è sottoposto al
dramma del crollo non con l'indice minacciosamente alzato, né come l'uomo che già sapeva e aveva da sempre
già detto quanto sarebbe accaduto, ma come colui che partecipa, soffrendo con tutta la sua esistenza. Tutto
questo torna sempre nuovamente ad esprimersi profondamente nella sua attività. Così avviene quando il profeta,
annunciando l'assalto tempestoso dei nemici contro Gerusalemme, grida:
4,19: Oh, le mie viscere! Oh, le mie viscere! Oh, le pareti del mio cuore!...
oppure quando, annunciando la distruzione (8,18-23), i suoi effetti vengono descritti così:
Per la sventura della figlia del mio popolo io sono affranto, costernato e preso da spavento.
Non vi è forse più balsamo a Galaad? Non vi si trova un medico?
Di tali parole di dolore, solidale con la sofferenza del popolo, ce ne sono molte altre; anche nel racconto di Barùc
passo per passo troviamo lo stesso orientamento. Nell'attimo in cui è minacciato di morte dalla folla, che dopo il
discorso del Tempio vuole ucciderlo, Geremia fa emergere la sua superiorità, quella di non pensare a se stesso,
ma agli uomini che sono intenzionati di ucciderlo: «Sappiatelo: se mi uccidete, fate ricadere sangue innocente su
di voi e su questa città». E, dopo la conquista di Gerusalemme, quando gli viene offerta la possibilità di condurre
una vita sicura nella corte babilonese, Geremia decide di rimanere con il resto abbattuto. Vuole appartenere fino
alla fine al suo popolo sofferente.
2. L'incarico ricevuto nella sua vocazione lo introduce nella sofferenza. Questa possibilità era aperta ad un
profeta; in una breve osservazione, inserita negli avvenimenti del discorso del Tempio (26, 20-23), veniamo a
conoscere di un profeta, Uria, che venne ucciso per aver proclamato la rovina. Presentando l'opera di Geremia, la
sofferenza, che ha origine dall'ufficio di profeta, ha un significato predominante. A causa del suo messaggio
Geremia viene ad inimicarsi con il re, i sacerdoti e i profeti, ma anche con i suoi più stretti parenti e con la
cerchia di persone più vicine alla sua vita (12,1-6). Diventa così un uomo solitario: «Afferrato dalla tua mano,
rimasi solitario» (15,17). Egli stesso deve divenire un segno per il suo popolo, vivendo senza moglie, bambini,
famiglia (16,1-4). Anzi, gli viene rifiutata persino la partecipazione umana alla gioia e al lutto dei suoi
conterranei (16,5-9). Spesso viene condannato, viene battuto e messo in catene, viene gettato in una cisterna
nella quale quasi perisce, viene accusato di tradire il paese e il suo popolo. Ma la cosa più tremenda per lui è
sentirsi abbandonato, lasciato solo da Dio stesso, in certe ore e in certi periodi (« Sei divenuto per me un torrente
infido!»), e sentire che la misura delle sue sofferenze supera la capacità di un uomo, senza che Dio lo liberi dalla
sofferenza. Ciò è mostrato in maniera sconvolgente dai suoi lamenti. Tutta questa dismisura di sofferenze per il
profeta non si può spiegare, e neppure al profeta stesso viene spiegata. Tuttavia, la presentazione della passione
di Geremia, è talmente intrecciata con la sua attività, che per lo meno si può percepire una cosa: in questo
rapporto con l'opera del profeta essa deve avere un senso, anche se per ora non è riconoscibile.
3. Una indicazione orientativa per la direzione in cui bisogna cercare la soluzione viene data dalle parole conclusive del racconto delle sofferenze di Geremia, che vengono rivolte al suo compagno Barùc (Ger 45,4–5)
riguardo all'incarico ricevuto da Dio:
Ecco: ciò che ho costruito, io lo demolisco, ciò che ho piantato, io lo sradico...
E tu pretendi grandi cose per te?
Dio sta distruggendo la sua stessa opera. Dio stesso è costretto a compiere un'opera estranea a lui! Dietro la
sofferenza del profeta Geremia (come anche del suo compagno Barùc) si apre l'orizzonte poderoso, spaventoso
della sofferenza di Dio, che deve distruggere la sua opera. Ciò è detto molto umanamente; ma è come una
indicazione tangibile di qualcosa di incomprensibile. L'afflizione di Dio per la necessità della distruzione si
rivolge già al di là di questa opera di distruzione: ecco quale è il senso aperto da questa indicazione. Si tratta di
parole che hanno occupato profondamente l'attenzione di Dietrich Bonhoeffer durante la sua prigionia; in
Resistenza e Resa sono spesso citate.
Il lamento di Dio sul suo popolo, sul suo abbandono incomprensibile, sulla sua corsa verso la propria rovina
percorre tutto il messaggio di Geremia: 2,12-13; 31-32; 8,4-7.13; 12,7-13; 15.5-9; 18,13-17. Di nuovo si mostra
una particolarità della predicazione di Geremia: il tono di questo lamento di Dio di solito è quanto mai alto e
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sostenuto. Da questa afflizione di Dio – ma ciò non vale sempre - colui che è capace di ascoltare comprende che
una possibilità è ancora aperta: quando il colpo distruttore è sceso, l'afflizione di Dio non si è scaricata in questo
colpo, ma rimane presso di lui e, quindi, indica un futuro. Considerando la sofferenza di Geremia che partecipa a
quella del suo popolo, considerando quella di Dio per il suo popolo e quella che, in questi avvenimenti, colpisce,
in modo smisurato, uno in particolare, il messaggero di Dio, allora si capisce che, in questa ora della storia di
Dio con il suo popolo, la sofferenza, che nell'epoca precedente era pur sempre un segno dell'ira di Dio e quindi
sempre qualcosa di negativo, comincia ad acquistare un significato positivo. In quel momento la svolta di
un'epoca viene compiuta nella storia del popolo di Dio: sull'orlo dell'abisso mostra la novità di un significato
positivo assunto dalla sofferenza per la storia del popolo di Dio. Non diciamo che la sofferenza di Geremia sia
stata già in qualche modo vicaria o avesse avuto un senso espiatorio. Di ciò non troviamo traccia alcuna nel libro
di Geremia. Però, partendo dal libro di Geremia, si può comprendere che, dopo la catastrofe, nei canti del Servo
di JHWH del deutero - Isaia, la sofferenza vicaria ed espiatrice del Servo di JHWH abbia ricevuto un senso
salvifico. Si mette, così, in evidenza una linea che, dalla sofferenza del profeta Geremia, porta a quella
sostitutiva del Servo di JHWH e, tramite lui, alla sofferenza espiatrice di Gesù Cristo, che ha sofferto al posto
degli altri.».
Sussidio n° 4
(C.M. MARTINI, Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Centro Ambrosiano, Milano 1990, 57–63)
L’idolatria
1. Etimologicamente idolatria vuoi dire culto degli idoli, adorazione di oggetti fabbricati dall'uomo, che hanno un significato
religioso, oggetti che possono raffigurare un uomo, una donna oppure anche un animale (serpente, vitello, aquila). A essi si
presta onore, si attribuiscono poteri divini, magici, superiori, si prestano riverenza e adorazione offrendo sacrifici.
2. Non è facile capire perché l'uomo si comporta così: dovremmo entrare in discussioni complesse di antropologia e di
psicologia religiosa.
– La motivazione più immediata, che forse valeva per gli antichi, va cercata nel fatto che pensavano a una forza misteriosa
insita in determinati oggetti.
– Probabilmente però c'era dell'altro: pensavano a una forza divina della persona o della realtà raffigurata. Non possiamo
quindi vedere l'idolatra sempre come qualcuno che scambia l'oggetto per Dio; piuttosto, egli crede nel suo riferimento a una
personalità divina oppure a una forza astrale, mitica.
– Anche l'idolo può dunque avere un valore relativo e perciò la sua adorazione può indicare un certo atto religioso verso ciò
che l'uomo non riesce bene a immaginare. Chi onora l'idolo può volere onorare in un segno visibile una forza divina invisibile.
Era questo che intendevano fare gli Ebrei costruendosi nel deserto il vitello d'oro: non pensavano di sostituire a JHWH un
altro dio, ma di rendergli culto in maniera tangibile, di avere un simbolo della potenza propria di JHWH che li aveva condotti
fuori dall'Egitto.
– Naturalmente, anche in tal caso, che è quello più genuinamente religioso di idolatria, ci si potrebbe chiedere: la forza divina
a cui si vuole rendere culto è una forza veramente trascendente oppure è una idealizzazione di una realtà umana? Se gli
Ebrei nel deserto avevano quasi certamente la volontà di adorare JHWH, nei culti di Baal, invece, veniva adorata la forza
della fecondità, della natura con i suoi cicli riproduttivi di morte e di vita, di vita che nasce dalla morte, della primavera che
nasce dall’inverno. Gli adoratori di Baal esprimevano un senso religioso di riverenza e di dipendenza verso le grandi forze
che reggono il mondo: l’amore, il sesso, la natura, la fertilità.
È dunque difficile entrare a fondo nei meandri del cuore umano.
3. Comunque noi sappiamo che la Scrittura è contrarissima a ogni atteggiamento che risenta anche minimamente di
idolatria. Pur essendo consapevole che ci sono tanti modi di essere idolatri, la Bibbia non ammette che si riduca la divinità a
qualcosa di umano, di tangibile, nemmeno se si tratta di un simbolo, di un riferimento a una Realtà più alta.
Qualcuno si stupirà della rigidità e intransigenza della Sacra Scrittura; infatti, se si pensa ad altre religioni, potrebbe
sembrare legittimo esprimere un certo valore religioso attraverso degli oggetti, almeno come tentativo di affermare un Essere
supremo che bisogna adorare. Come mai, quindi, l’idolatria viene rigettata anche nelle sue forme più spirituali, più alte?
La ragione, a mio avviso, la troviamo nella definizione che Elia dà di sé:
«Per la vita del Signore, Dio di Israele, alla cui presenza io sto» (1 Re 17, 1). Per la vita del Signore, «Vivit Dominus»,
secondo la versione latina. Questa è la chiave per capire la lotta di Elia contro gli idoli e la lotta della Bibbia contro tutto ciò
che, sia pur minimamente, appare come idolatria. JHWH è un Dio vivo.
Nel contesto che ci interessa, significa che Dio è imprevedibile, che la sua azione nei nostri riguardi è libera e sovrana, che
non possiamo mai calcolare niente in anticipo. Ecco l’enorme differenza tra la concezione del vero Dio e ogni altra forma di
religiosità. Perché l’idolo, anche se con esso si intende personificare e venerare la giustizia, la verità, la santità, non è ancora
il Dio imprevedibile, il Dio vivo. L’idolo è sempre, in qualche modo, controllato dall’uomo che può prevederne le esigenze e,
avendo una sua idea della giustizia, della santità, della verità, può tenerlo, in certo senso, in mano.
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5° incontro (17.02.2008)
Invece JHWH è libero, non si lascia disporre dalla sua creatura, non si lascia incapsulare nei nostri ragionamenti e nelle
nostre previsioni. Noi non sappiamo come Dio si comporterà perché è una personalità vivente e trascendente; da lui tutto
dipende e non deve rendere conto a nessuno. Al contrario, come dicevo sopra, un valore umano personificato, rende conto
a me del concetto che io ho di lui e posso, se voglio, esorcizzarlo. JHWH agisce come vuole, si rende presente come e dove
vuole, non è un principio astratto, ma ama, suscita e distrugge, premia e castiga, eleva ed abbassa, e lui solo sa il perché.
Questo è il Dio vivo, e perciò la Bibbia non ammette che si possa restringerlo in una rappresentazione, in un concetto,
neppure in una definizione perché è «Colui che è» (cf Es 3,14), si rende cioè presente dove e come vuole, agisce dove e
come vuole, ama l'uomo perché lo vuole amare e lo salva nel modo che lui sa.
In fondo, il nome di Elia è la sintesi di quanto andiamo dicendo: «II mio Dio è JHWH», il mio Dio non me lo sono immaginato
io, non me lo sono costruito, magari con la mia ragione, con la mia filosofia, con la mia concettualizzazione; JHWH è lui,
l'imprevedibile, il Dio che mi coinvolge, che mi attrae.
Serviamo il Dio vivo?
Oggi vi sono molte forme di superstizioni che ricordano quelle del passato; tanta gente usa i talismani, gli amuleti, la
divinazione, le carte, gli oroscopi. Ma possiamo affermare che nel nostro mondo occidentale l'idolatria è diversa dall'antica
idolatria. Molti hanno una certa idea di un Essere superiore, e non sono così numerosi come si potrebbe credere gli atei
convinti, razionali. Anche le statistiche religiose riferiscono che persone non credenti nel Dio della Chiesa cattolica sono
pensose sul tema dell'al di là.
Tuttavia pochi, forse, pur tra i battezzati, sono giunti alla conoscenza del Dio vivo, così come ce la presenta la Scrittura e
come ce la presenta Gesù. Un Dio che non è fatto come lo penso io, che non dipende da quanto io attendo da lui, che può
dunque sconvolgere le mie attese, proprio perché è vivo.
La riprova che non sempre abbiamo la giusta idea di Dio è che talvolta siamo delusi: mi aspettavo questo, mi immaginavo
che Dio si comportasse cosi, e invece mi sono sbagliato. In tal modo ripercorriamo il sentiero dell'idolatria, volendo che il
Signore agisca secondo l'immagine che ci siamo fatta di lui.
"Signore, noi ti conosciamo poco, e tu infatti hai detto che nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui a cui il Figlio lo
voglia rivelare".
È soltanto nella rivelazione della Scrittura, che ha il suo culmine in Gesù, che noi possiamo conoscere il Dio vivo. Colui che
né la carne né il sangue ci rivelano, né i ragionamenti, né le abitudini, né le deduzioni della nostra mente. Certo, noi
possiamo giungere a dire che c'è qualcuno al di là di noi, al di là di tutto, ma non lo riteniamo mai così superiore a noi da
poterci «deludere» e sorprendere. Istintivamente lo riduciamo alla nostra misura, mentre l'adorazione del Dio vivo,
l'adorazione dello zelo forte, instancabile, ardente fino alla crudeltà, di Elia è per il Dio a cui nessuno più dire nulla, che è al
di là di ogni immagine e pensiero nostro, che si rivela per amore e con amore sconvolge sempre e ancora una volta le idee
umane. Tutto il vangelo è una manifestazione della fatica compiuta dagli uomini per accettare il Dio di Gesù, a cominciare
dagli apostoli, perché lo attendevano diverso. E quando il Dio di Gesù annuncia che si rivelerà nella croce, si scandalizzano
accorgendosi che non è il Dio che pensavano.
Serviamo davvero il Dio vivo?
"Rivelati, Signore, a me, rivelati sconvolgendo i miei pensieri, rivelati distruggendo le mie idee prefabbricate su di te,
distruggendo gli idoli, le false immagini di te che occupano il mio cuore".
I nostri idoli
Possiamo concludere con una domanda: quali sono gli idoli che mi impediscono la conoscenza del Dio vivo? Certamente
sono tanti, personali e sociali. Personali: l'orgoglio, l'ambizione, tutte le pretese che mi porto dentro.
E poi sociali, esterni a me e che tuttavia mi impediscono la conoscenza del Dio vivo: gli idola tribus, gli idola fori, gli idola
theatri. Nel linguaggio moderno: la razza, la cultura di una gente, che in parte è un valore e in parte può imprigionare la
mentalità mettendo gli uni contro gli altri; la paura di ciò che pensa la gente, dell'opinione pubblica, lo stare sempre soltanto a
ciò che è la media del pensiero comune; infine, gli idola theatri, tutto ciò che mi rende schiavo delle attese altrui. Si tratta di
piccoli idoli, come quelli che le mogli dei patriarchi si portavano dietro, nascosti, per non perdere del tutto il loro legame col
passato. Piccoli idoli sono i legami alle opinioni, alle abitudini degli altri, alle false abitudini della cultura, che alla fine mi
tolgono la libertà e la purità del cuore.
Potremmo dire, in sintesi, che tutto ciò che è contro la purezza di cuore rappresenta la nostra idolatria: «Beati i puri di cuore
perché vedranno Dio » (Mt 5,8).
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