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Dirigere domani - concorsodirigente

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Dirigere domani - concorsodirigente
Indice
INTRODUZIONE
7
prima parte Entrare nello spirito giusto per vincere il concorso a dirigente scolastico
CAP. 1 fare il dirigente scolastico
11
Cap. 2 il concorso e il contesto
25
Cap. 3 oltre l’interesse: la motivazione
39
Cap. 4 Il concorso: prova di preselezione (test), prima prova scritta (elaborato),
seconda prova scritta (risoluzione di caso)
53
Bibliografia 95
seconda parte Esercitazioni per le prove scritte del concorso
test (prova di preselezione)
99
elaborati (prima prova scritta)
281
tracce per la risoluzione di caso (seconda prova scritta)
341
terza parte Soluzioni test
351
Introduzione
Non premessa, ma promessa
E voglio che tu scelga un momento del passato in cui eri
una bambina piccola piccola. E la mia voce ti accompagnerà. E
la mia voce si muterà in quelle dei tuoi genitori, dei tuoi vicini,
dei tuoi amici, dei tuoi compagni di scuola e di giochi, dei tuoi
maestri. E voglio che ti ritrovi seduta in classe, bambina piccolina che si sente felice di qualcosa, qualcosa avvenuto tanto
tempo fa, qualcosa tanto tempo fa dimenticato.
(Milton H. Erickson, 1983)
Ciò che leggerete nelle prime pagine vi farà venire voglia di saltarle: non sono importanti ai fini del concorso. Errore. La conditio sine qua non non è prepararsi — l’Italia
è piena di formatori — ma prepararsi per il concorso a dirigente scolastico. Per prepararsi a vincere il concorso occorre soprattutto furbizia anche se l’intelligenza non guasta.
Potete pure saltare la prima parte — e passare direttamente alla seconda parte, più
tecnica — ma sappiate che state gettando insieme all’acqua sporca, anche il bambino.
Queste pagine iniziali vogliono trasmettervi in modo implicito e suggestivo molti concetti
fondamentali — apprendimento, variabile tempo, strategie didattiche, ecc. —, e credo
siano utili non solo per acquisire la giusta forma mentis per essere dirigenti della scuola di
questi anni, ma anche per vincere il concorso, motivo per cui avete acquistato questo libro.
I suggerimenti che precedono i contenuti veri e propri hanno la valenza suggestiva
dell’ipnosi ericksoniana: in modo del tutto naturale vorrei introdurvi al codice linguistico
che usano coloro che vi sottoporranno all’esame concorsuale. Piano piano, senza fatica
le parole del libro entreranno in voi rendendovi capaci di usare lo stesso armamentario di
parole — che solo parole mai non sono — che appartiene al mondo cui volete accedere,
quello dei dirigenti o, meglio, del dirigente ideale che hanno in mente i vostri esaminatori.
Ci sono parole-molo e parole-ponte: le parole-molo vi conducono alla fine dove,
per continuare, dovreste tuffarvi fra gli scogli, con qualche grosso rischio; le parole-ponte
invece vi mettono in contatto con gli esaminatori e gli estensori dei test delle prove del
concorso. Le userò in modo subliminale.
Nessuna fatica consapevole: l’inconscio lavora per voi, non è un magma sotterraneo
fatto di diavoli e angeli caduti. Si tratta di una tecnica che ha un maestro illustre: Milton
Erickson. I racconti (ed è questa la formula del libro, la narrazione) seguono le orme di
Erickson che non raccontava storielle, anche se tali apparivano: per lui erano strumenti
terapeutici, per voi qui saranno strumenti di formazione conditi da tecniche in uso nella
programmazione neurolinguistica, vale a dire quell’insieme di tecniche basate sullo studio
della struttura dell’esperienza soggettiva che si adegua al «come» ciascun individuo percepisce e interpreta se stesso, gli altri e il mondo che lo circonda. La PNL (Programmazione
Neuro-Linguistica) vi permetterà di capire al primo impatto, perché si basa sul procedimento
usato da tutti gli esseri umani per codificare, guidare e modificare il proprio e l’altrui comportamento: e comportamento, in questo caso, è uguale ad apprendimento. Il linguaggio
del libro che avete in mano non ostenta, non esibisce, non sottolinea: in modo discreto
struttura o ristruttura il modo con cui pensiamo ed è ricco di informazioni «nascoste» che,
se potranno sfuggire alla vostra attività cosciente, saranno catturate dal vostro inconscio.
Leggendo non potrete non imparare.
«Non pensate a un lupo», dice Watzlawick. E ci avete già pensato.
Così come non si può non comunicare, non potete nemmeno non essere oggetto
di persuasione.
Potete gettare alle ortiche le pagine della prima parte, ma siate consapevoli che
gettate al vento la vostra più grande risorsa: voi stessi, ciò che sapete, ciò che siete veramente. Ma perché accontentarsi di quello che si è, se si può essere qualcosa di migliore?
In questo caso decidete pure: nella seconda parte troverete tutto quanto vi serve per
esercitarvi al concorso (test per la prova di preselezione con le soluzioni, elaborati svolti
e tracce per la risoluzione di caso). Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Noam Chomsky
hanno formulato teorie, spiegando i «perché» del funzionamento della mente umana: noi,
più modestamente, preferiamo occuparci del «come» per usare un insieme di procedimenti
la cui misura di valore è l’utilità, la funzionalità, il raggiungimento dell’obiettivo prefissato
e non «la» verità, non «la» scienza, non «la» formazione permanente.
De Coubertin scherzava: l’importante è vincere, non partecipare. Se siete dei perdenti, non comprate questo libro e continuate a fare gli insegnanti. Di là, nel suo ufficio,
il vostro attuale dirigente riderà sotto i baffi…
E se avete scelto di non fare il concorso perché non vi sentite all’altezza, sappiate
che avete sbagliato a valutarvi: non siete voi a non essere all’altezza della situazione è il
concorso che non è alla vostra altezza. Vi nutrirete di rimpianti come Guido Gozzano,
«Non amo che le rose che non colsi», mentre nella vita è sempre meglio vivere di rimorsi.
Il nostro Guido non sa quanta gioia avrebbe potuto ricevere dalla signorina Felicita
(e quanta ne avrebbe data a lei), voi non vivrete la gioia di fare il leader.
Voi aspirate a qualcosa di più e di meglio: non volete interpretare il ruolo del manager, ma quello del leader.
Chi fa può sbagliare, chi non fa ha già sbagliato.
8
Dirigere domani
1
Fare il dirigente scolastico
I grandi leader sanno scuoterci. Accendono il nostro
entusiasmo e animano quanto di meglio c’è in noi. Quando
cerchiamo di spiegare il segreto della loro efficacia, parliamo
di strategia, di lungimiranza, di carica ideale. In realtà, però,
la grandezza di una leadership si fonda su qualcosa di più
primitivo: la capacità di far leva sulle emozioni.
(Goleman, Boyatzis e McKee, 2004)
Leadership e management
Chi è dirigente-manager (per grazia divina o umana, o perché così si percepisce)
non è sicuramente un leader poiché l’unica influenza che esercita sugli insegnanti si
traduce in esercizio di government e non di governance: il primo fa cadere le decisioni
dall’alto; la seconda impone un rapporto simmetrico anche se il ruolo del leader è quello
di primus inter pares. Se in linea generale si definisce la leadership come la capacità di
influenzare individui o gruppi, per condurli verso determinati obiettivi utilizzando le risorse
di ciascuno, si può dire che la caratteristica fondamentale della leadership sia la capacità
di influenzare. Si tratta di un elemento — l’influenza — che non è specifico del leader, ma
è innato in ogni essere umano. Ci sono momenti o campi in cui l’influenzamento viene
esercitato da noi, e contesti o situazioni in cui l’influenza la subiamo: perciò la leadership
non potrà essere analizzata solo sul piano delle competenze tecniche specifiche del dirigente
scolastico, ma si dovranno trattare anche le questioni attinenti agli aspetti socio-emotivi
e all’assertività, intesa come capacità del dirigente di essere, innanzitutto, prima di tutto,
una persona libera. La scuola ha bisogno di tutto, tranne che di acritici e leccapiedi. Ce
ne sono stati fin troppi negli anni e nulla di buono hanno portato al miglioramento — e
qui la prima espressione retorica — della qualità dell’istruzione. Da qui la differenza tra la
gente comune e il leader autentico: questi esercita la propria influenza in modo costante,
differendo in quantità maggiore e qualità migliore rispetto a chi nella scuola porta pur
un notevole contributo. La scuola spesso è un ambiente patologico e gli insegnanti sono
migliori della scuola in cui abitano e lavorano. Si vorrebbe poter dire la stessa cosa per i
dirigenti. Ci proverò. Usando le parole-ponte invece che le parole-molo. Prima di andare
avanti occorre che questa distinzione sia chiara, come chiaro deve essere l’obiettivo di
questo nostro «conversare» che ha un unico scopo: farvi vincere il concorso di dirigente.
Ci sono le parole-molo: sono parole che hanno una loro dignità, una loro semantica,
un loro modo di presentarsi, possono persino presentarsi con l’abito da festa della dolcezza,
possono persino far vibrare le corde del cuore quando le pronunciamo, le scriviamo, le
ascoltiamo, le leggiamo. Pensate — a occhi chiusi — che una voce dolce, nel silenzio della
vostra cameretta dica: «Mamma». La parola vi colpirà non solo la mente, ma anche il cuore.
Ha un significato connotativo. Non vi succederà la stessa cosa con la parola «bottiglia»,
a meno che non facciate parte degli Alcolisti Anonimi. In ogni caso mamma e bottiglia
sono accomunate in questo contesto (tutto ciò che serve a farvi vincere il concorso) dal
fatto di essere entrambe parole-molo; una volta scritte o lette o pronunciate non hanno
futuro: finiscono col finire laddove finisce il molo e sotto il molo il mare che mugghia,
l’azzurro cupo che pare nero, il baratro; non vi resta che fare un passo avanti…
La parola-molo ha sempre un confine invalicabile: solo questo oggi sappiamo, ciò
che non siamo, ciò che non vogliamo.
La parola-ponte varca il confine: i ponti sono fatti per comunicare da un punto all’altro, dalla riva bianca alla riva nera della Zanicchi, da una montagna all’altra, da un luogo
all’altro. Voi siete nel luogo sbagliato, con lo stipendio sbagliato, con desideri inappagati.
Sull’altra riva c’è il nemico: gli esaminatori. Tra voi e loro c’è l’abisso. Dovete gettare un
ponte, fatto delle stesse parole che usa il nemico.
Il nemico odia le mamme e non beve in servizio. Il nemico ama chi parla come lui,
chi usa le parole del suo mondo, un mondo in cui domina un codice che si aggira come
uno spettro sulla scuola. C’è del marcio in Danimarca. Dimenticate Amleto e il suo teschio,
ma documentatevi sul sistema scolastico danese.
Dovete conoscerlo. Dovete sapere che in Danimarca non c’è l’obbligo scolastico, ma l’obbligo dell’istruzione. Dovete sapere che in Francia sta avvenendo quello
che accade nel nostro Paese: il progressivo decentramento delle funzioni dal Ministero
dell’Educazione alle singole scuole; ma dovete anche e soprattutto conoscere le difese che
i francesi erigono — Asterix in testa — ogni volta che si attacca la laicità della loro scuola.
E visto che il Regolamento del 2008 dice di far riferimento tra le varie tematiche anche ai
sistemi scolastici europei, vi consiglio fin d’ora di fare qualche ricerca in Internet; i libri in
commercio si limitano alla descrizione fissata in un tempo e in luogo e le informazioni che
leggete in essi possono essere diventate nel frattempo «vecchie» e non più attendibili. Ma
il vero problema non è questo: tutto si consuma e si consuma rapidamente. L’importante
è non scambiare delle informazioni (un tempo si sarebbero chiamate «nozioni») con vere
e proprie conoscenze: quelle una volta usate non servono quasi più, queste non solo hanno una forza concettuale e la potenzialità di modificare atteggiamenti e comportamenti,
ma costituiscono delle forze germinatrici — le cosiddette mappe concettuali — di nuove
conoscenze, di nuovi saperi. E se l’informazione è cronaca, la conoscenza è storia, in
questo caso davvero magistra vitae. Perciò attenzione a quanto affermato nel Regolamento recante la disciplina per il reclutamento dei dirigenti scolastici, ai sensi dell’art. 1,
comma 618 della legge 27 dicembre 2006 n. 296, firmato a Roma il 10 luglio 2008 da
Napolitano, Berlusconi, Gelmini, Brunetta, Tremonti e vistato dal guardasigilli Alfano; in
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Dirigere domani
tale Regolamento è scritto testualmente: «La prima prova scritta consiste nello svolgimento
di un elaborato su tematiche relative ai sistemi formativi e agli ordinamenti degli Studi in
Italia e nei paesi dell’Unione europea, alle modalità di conduzione delle organizzazioni
complesse, oltre che alle specifiche aree giuridico-amministrativo-finanziaria, sociopsicopedagogica, organizzativa, relazionale e comunicativa». Quell’«europea» — scritta
in minuscolo — per alcuni appare addirittura scritta in grassetto, un titolo a tre colonne.
È normale. Chi scrive lo ha definito «effetto sineddoche»: si vede la parte, e solo la parte
che dà significato (soggettivo a secondo del livello di tollerabilità individuale) al «tutto».
Bisogna conoscere tutto quanto riguarda la scuola in Europa, questa è la conclusione. Sbagliata.
Unione Europea: hai chiuso il gas?
Se il difficile — come ripeteremo spesso — non è avere idee nuove, ma liberarsi
dalle idee vecchie, non possiamo proseguire senza prima aver fatto piazza pulita di questo
aspetto valutativo del Regolamento che può costituire un intralcio a una serena prosecuzione del vostro lavoro.
È come quando percorsi pochi chilometri da casa ci assale improvviso e inquietante
il dubbio: «Avrò chiuso il gas?». Non c’è che un modo: ritornare per controllare. Invece
perdiamo un sacco di tempo a dirci che sì l’abbiamo chiuso, che l’abbiamo sempre chiuso
per poi tornare a contraddirci con «e se stavolta me ne fossi dimenticato?». Ma no, ma sì,
ma no, ma sì: un tormentone. L’abitudine tutta italiana di discutere con se stessi si chiama
ruminazione. Discende da quei vecchi pedagogisti che discutevano se «il fatto è fatto in
quanto è atto» (Gentile) o se il bambino è libertà che si fa autorità o che altro (Agazzi) o,
ancora, se l’educazione è quel processo di spirituale ascesa di cui tu sei il protagonista
(Marco Agosti). E, anche se può sembrare una digressione, ciò che andrò a proporvi non
lo è. Fa parte delle conoscenze pedagogiche, delle metafore di una pedagogia passata
e fumosa. Conoscenze vecchia maniera d’accordo, ma pur sempre conoscenze. Non
hanno un valore solo storico: hanno un valore simbolico. Sono miti. E quindi radicati. Si
racconta (ma fonti autorevoli lo annotano come fatto storicamente accaduto) che Aristide
Gabelli avesse bandito un concorso con il seguente tema (da fare a casa): «Pesa più un
pesce morto o un pesce vivo?». Tutti gli studiosi dell’epoca si buttarono nello svolgimento: c’era chi sosteneva che un pesce vivo pesava di più perché respirando acqua con le
branchie risultava appesantito dal liquido, e c’era chi sosteneva con forza che il pesce
morto appesantito dall’aria che si posava sulle squame doveva sicuramente pesare di più.
Illustri ricercatori parlavano di rigor mortis, di H2O che si adattava, di sindromi cinetiche
mancanti o presenti…
Si racconta che solo a un ragazzino (innocenza e candore dell’età?) o a un povero
artigiano (seguace delle teorie positiviste di Gabelli?) venisse in mente quella che oggi
chiameremmo verifica empirica. Chiunque fosse, si procurò una bilancia di precisione, una canna da pesca e un fiume. Pescò un bel pesce e subito mentre l’ex natante
era ancora vivo lo pesò. Poi attese che il pesce morisse. Sicuro della dipartita dell’ex
cittadino di Nettuno lo posò. Da morto. Il peso era esattamente uguale al valore della
prima pesata. Risultato: un pesce morto e un pesce vivo (sempre lo stesso) hanno lo
stesso peso. Se mai ci fosse stato, il peso dell’anima risultava irrilevante. Morto o vivo,
Fare il dirigente scolastico
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stesso pesce, stesso peso. Anche Gabelli, come oggi Morin, ma con minor fortuna,
dichiarava che scopo dell’educazione era formare lo strumento «testa». E non collocava
la testa tra le nuvole.
Che c’entra tutto questo con l’Europa?
Con l’Europa poco, con il metodo per la vostra preparazione abbastanza. Prima
di farvi prendere dal panico interpretando in modo catastrofizzante le parole che riguardano la scuola, leggete bene ogni parola, inseritela nel contesto specifico e questo nel
contesto più ampio. Non si tratta di conoscere a memoria tutti gli ordinamenti nei piccoli
particolari: si tratta di trovare invece i punti di differenza e i punti di concordanza tra i
diversi Paesi europei di cui la scuola è solo una (importante fin che si vuole) parte. E così
non potrà sfuggire che esiste una linea che sembra separare quei Paesi europei che —
avendo avuto una scuola troppo decentrata (ad esempio la Gran Bretagna) — cercano
di dare unità accentrando almeno le finalità (in Italia si chiamano Indicazioni) della scuola
stessa, da quelli che avendo avuto una scuola molto accentrata e verticistica (la Francia e
l’Italia in primo luogo) oggi tendono a decentrare, a dare autonomia alle singole scuole.
Bisogna conoscere l’obbligo dell’istruzione nei singoli Paesi, ma si devono tirar
fuori, più che termini e parole, i problemi: e così per quanto riguarda la Francia bisogna
conoscere come e perché non possa esistere una scuola cattolica e le ragioni della laicità
della scuola francese, bisogna conoscere perché la scuola finlandese non conosca l’insuccesso scolastico, ecc.
In altri termini non si tratta di studiare per essere in grado di elencare ordinamenti,
ma per capire cosa caratterizza «quella» nazione dal punto di vista scolastico e educativo; altrimenti lo studio diventa un mero esercizio di memoria, mentre si attribuisce agli
estensori del Regolamento il mero ruolo di chi compie un atto dovuto. Sappiamo tutti
che l’Europa è una realtà economica e commerciale, sappiamo che si fatica a creare
una identità autenticamente europea, sappiamo che le uniche discussioni serie fatte sulla
«cultura» autenticamente europea hanno riguardato questioni di lana caprina sulle origini
(cristiane o no?): dobbiamo invece sapere ciò che ci unisce e ciò che ci divide. A partire
dalla scuola. Gli ordinamenti sono il riflesso di una concezione dell’educazione e della
scuola: vanno trovate le linee di tendenza, i problemi emergenti, la metafora che ci unisce,
abbandonando questioni del tipo «pesce morto e pesce vivo».
Avete letto la frase «tematiche relative ai sistemi formativi e agli ordinamenti degli Studi
in Italia e nei paesi dell’Unione europea, alle modalità di conduzione delle organizzazioni…»
e vi siete preoccupati… Dovete occuparvene. Andate a ricercare. Ridimensionerete il tutto
e potrà pur farvi piacere, perché se la scoperta è un piacere, la verifica è un dovere. (A
proposito: avete notato che lo scrivente vi ha raccontato di Aristide Gabelli e del suo pesce
senza aver verificato se il fatto è storico oppure si tratta di una favola? Che farete ora?)
Il futuro dirigente, pur avendo fiducia nel prossimo e nei libri, non può credere ad
occhi chiusi. Questo può essere accettato solo da chi abbia una T della dirigenza come
attività manageriale.
La leadership è qualcosa in più del management.
Torniamo in medias res: primal leadership
Ma torniamo in medias res.
14
Dirigere domani
Essere leader è più che essere manager. Il management è relativamente facile, la
leadership è ben più difficile da esercitare dato che richiede una larghezza di prospettive
che getti lo sguardo al di là dell’orizzonte che limita la vista di tutti gli altri. Leadership
non significa semplicemente dire: «Silenzio e seguitemi!». Non consiste nel separare la
pianificazione dall’esecuzione, con i capi che elaborano i piani e i subordinati costretti
a eseguirli. Leadership significa convincere i subordinati (brutta espressione da sostituire
immediatamente con «collaboratori», parola-ponte) ad accettare gli obiettivi comuni del
gruppo e a impegnarsi nell’eseguirli.
Al leader più che vincere, interessa convincere. Il leader che «funziona» riesce a far
accettare gli obiettivi ai collaboratori e a convincerli della loro validità; dimostra tenacia e
pazienza durante il raggiungimento degli obiettivi; guida, educa e incoraggia i collaboratori.
Il concetto di leadership si coglie nella sua differenziazione con il management. Il
management consiste nel coordinamento e nell’integrazione delle risorse tramite un lavoro
di pianificazione, di organizzazione, di attuazione che possono essere collocate in momenti
separati: il manager si preoccupa del raggiungimento degli obiettivi imposti dalla logica
aziendale attraverso il controllo e il comando. Prevalgono gli ordini a scapito delle regole.
Il management ha bisogno di una collocazione di potere che viene sempre stabilita
dall’alto e non abbisogna di una legittimazione da parte dei dipendenti o collaboratori:
il ruolo del manager è funzionale solo agli interessi dell’azienda. In caso di insuccesso il
manager se ne chiama fuori, i fattori di successo o insuccesso sono dovuti a cause attinenti
all’azienda, a difetti o pregi organizzativi, a ragioni di mercato o di forza maggiore, a fattori
comunque estranei alla soggettività e responsabilità del manager.
Il leader è soprattutto colui che influisce sui comportamenti altrui: più che potere ha
carisma, più che suscitare timore, ispira fiducia, più che essere obbedito è seguito, più che
vivere il presente è proiettato nel futuro; il manager ha un progetto confinato tra le mura
dell’azienda, il leader è innovatore e per innovare deve puntare soprattutto sulle risorse
umane. Se nel management prevalgono gli ordini (anche se non scritti), nella leadership
prevalgono le regole: gli ordini sono diretti e attengono comunque a una gerarchia e a delle
mansioni rigide, nella leadership prevalgono le regole che sono impersonali e possono essere
«dettate» dal clima che il leader riesce ad instaurare. Nella leadership è vero che «exempla
trahunt». Appare allora chiaro come il capo riconosciuto debba padroneggiare entrambe
queste dimensioni, in una integrazione feconda. La leadership — in un certo senso — è
un aspetto del management, ma in senso più ampio si «serve» del management stesso.
La leadership è la capacità di una persona di influenzare altre persone o gruppi
per guidarli verso il raggiungimento di obiettivi utilizzando al meglio le abilità e le competenze di ciascuno. Se poi l’utilizzo al meglio delle capacità di ciascuno include anche le
potenzialità e le risorse nascoste, il leader è sicuramente un grande leader, oltre il quale
c’è il profeta, o il guru.
Il management è condizione necessaria, ma non sufficiente per essere leader. È
in questo senso che il leader è più che un manager: questi è tutto teso all’efficienza, al
prodotto finale, ai risultati «esterni», il leader si sforza di coniugare l’efficienza — il far le
cose bene — con l’efficacia — il fare le cose giuste. La leadership efficace mantiene la
coesione del gruppo, quella inefficace la disintegra. Il compito principale del leader è quello
di conciliare gli obiettivi generali della scuola (che sostanzialmente sono il percorso concreto che porta — per ogni ordine di scuola — alla «formazione dell’uomo del cittadino»).
Scrivono Goleman, Boyatzis e McKee che il compito fondamentale del leader è quello di
innescare sentimenti positivi nelle persone che gestiscono: «Ciò accade quando essi sanno
Fare il dirigente scolastico
15
creare “risonanza”, una riserva di positività che libera quanto c’è di meglio in ogni individuo. Nella sua essenza, quindi, il compito del leadership è di natura emozionale» (2004).
Se le competenze manageriali sviluppano la capacità del «cosa fare», quelle del leader
sviluppano il sapere del «perché fare».
A scuola questa differenza è importante in primo luogo perché gli «oggetti» della nostra
azione tali non sono neanche tra virgolette: a differenza che in azienda dove il prodotto è,
in qualche misura, se non alienante (Marx), estraneo, a scuola il prodotto (insegnamento
che diventa apprendimento) è del tutto intrinseco al soggetto che vogliamo formare; in
secondo luogo perché non possiamo guardare ai risultati indipendentemente dai processi
impiegati e dagli scopi che riguardano la «crescita» della persona.
Non possiamo accettare che i nostri alunni siano in grado di partecipare alle Olimpiadi
della Matematica, se questo risultato è stato ottenuto a suon di sberle per ogni calcolo
errato da loro compiuto. Né possiamo accettare il fatto che obiettivo della scuola sia un
prodotto estraneo che si chiama programma: le discipline non hanno un valore in sé, ma
in quanto servono a un determinato tipo di crescita.
Chi si sta preparando al concorso a dirigente deve avere ben chiaro — a scanso di
frustrazioni future — che se vincerà il concorso, ottenendo così la tanto sospirata nomina
ministeriale, non avrà finito il suo percorso. Il suo potere sarà legittimo, concesso e autorizzato dall’alto, ma dovrà essere in grado di trovare una ulteriore legittimazione anche,
per così dire, dal basso e da come funzionerà nella guida di ogni giorno di una comunità
scolastica che sappia dove andare, perché e come. Si tratterà di coniugare il potere legittimo con il potere esperito o esperto, vale a dire basato sulla esperienza. Chi si prepara
con questo spirito deve sapere che dovrà mettersi in gioco. Fin da ora. Hic et nunc.
E quando sarà dirigente di una scuola vedrà da solo le differenze tra l’impresa e la
scuola. Dovrà possedere le conoscenze del manager, ma dovrà avere la capacità di ispirare
i propri collaboratori che dovranno spesso — in quell’azienda molto particolare che è la
scuola — andare oltre: oltre i doveri di ufficio, oltre le mansioni richieste, oltre il mestiere.
I grandi leader sanno cosa vogliono e ispirano i collaboratori ad andare oltre i
loro doveri di ufficio. Ma da dove nasce questa consapevolezza? Nasce dalla capacità
di sognare: tutti sogniamo, ma i leader hanno la forza di credere nei loro sogni e di
trasformarli nel tempo in realtà. (Guidarelli, 2004)
È soprattutto adesso che deve aver chiaro che sta «mettendosi in gioco».
E su questo non si ragiona né si discute. Si sente. Si intuisce che i panni dell’insegnante stanno stretti, si sente il bisogno di trovare la luce oltre la siepe, di andare verso
l’altrove. E l’altrove è più vicino di quanto si possa pensare. È dentro di noi. Antonella
Galletta (2007) dopo aver esaminato la possibilità che se non ci rimettiamo in gioco noi nel
mondo, sarà il mondo a farlo, fa notare il peso della paura nel volersi rimettere in gioco.
La paura è normale. Il contadino che non emigra e rimane contadino in una terra in cui
proliferano aziende agricole, ha fatto una scelta. Il suo gioco è quello di non rimettersi in
gioco. L’importante è averne consapevolezza. Ma cosa accade a chi vuole rimettersi in
gioco cambiando gioco?
Comincia a guardare con «animo perturbato e commosso» di vichiana memoria quella
scuola in cui ha vissuto. L’altrove è a portata di mano. Si tratta di demolire quelle paure,
quelle ansie sociali («Che diranno se non vinco il concorso?»), quei retaggi pregiudiziali
che appartengono alla categoria del piacere per passare a un nuovo paradigma: quello
16
Dirigere domani
del piacersi. Questa demolizione passa attraverso i sentimenti che afferiscono alla propria
autostima: è tempo di percepirsi come vincenti.
Buttarsi nel concorso non significa cancellare l’appartenenza.
Il dirigente scolastico, non solo fisicamente, rimarrà nella scuola. Sarà una declinazione diversa dell’insegnamento. I giuristi la chiamano «strategia di scopo». La strategia
di scopo è l’insieme organizzato di più organi o persone che perseguono — pur nelle
diverse funzioni e nei diversi ruoli — i medesimi obiettivi in un’organizzazione pubblica.
Se gli obiettivi della scuola sono quelli relativi alla crescita umana e personale mediante
l’istruzione, tali obiettivi appartengono sia al docente che al dirigente.
Beninteso con modalità e funzioni diverse.
Rimettersi in gioco
«Sarò capace?», questa è la domanda che si trasforma in notti insonni. Nei sogni
appaiono censori, giudici, platee giudicanti, navi senza equipaggio. La simbologia onirica
si arricchisce di significato simbolico, gravido di senso ed emozione… Lasciamo che
l’inconscio, con le sue rappresentazioni oniriche, sia un compagno di rivoluzione, un
complice, un mentore… (Galletta, 2007)
Per quanto ci riguarda si può dire di più: chi ha detto che l’inconscio sia quel magma
incandescente che deve farci paura? Chi ha detto che quel magma non lavori per noi,
per dare la giusta energia a chi vuole evadere dalla routine e tentare il nuovo? Se fare il
concorso a dirigente significa rimettersi in gioco, allora non resta che accettare le regole
del gioco: niente piagnistei sul fatto che questo nuovo concorso preveda la selezione con
i test, niente geremiadi sul fatto che il Regolamento e le nuove forme di reclutamento
siano in qualche modo cambiate e rese più complesse. Marchiatevi a fuoco nella mente
la frase di Animal house che fa parte del repertorio dei vincenti: «Quando il gioco si fa
duro, i duri cominciano a giocare».
Questo impone di guardare il buio oltre la siepe, di guardare oltre l’orizzonte rassicurante della nostra casa, della nostra scuola, del piccolo mondo antico in cui siamo
sempre vissuti. Solo Leopardi poteva naufragare nell’infinito oltre il caro «ermo colle» e
la «siepe che, da tanta parte de l’ultimo orizzonte il guardo esclude». Per i futuri dirigenti
anche se non privi di vena poetica quel colle va scavalcato. Se necessario con rabbia.
Ma con rabbia che diventi grinta: «Rimettersi in gioco è un viaggio con un tempo che
dovrà diventare definito, è fare della propria vita un’esperienza progettuale. Che la
rabbia sia ascoltata, sfogata, lasciando che la mente e il corpo non si imbavaglino da
soli» (Galletta, 2007).
Trasformate le vostre paure in sicurezze, trasformate la vostra rabbia in grinta. E
affrontate il viaggio da un’altra prospettiva: per quanto impegnativo non sarà mai l’anello
di una vecchia catena, ma il gradino di una nuova ascesa. E se qualche timore rimane,
rimandatelo al mattino: la luce dell’aurora modifica i giudizi del crepuscolo.
Il pellegrino non ha che il suo bastone. Voi avete la vostra cultura.
Potrete contare su un viaggio organizzato che promette ciò che mantiene. E il viaggio — questo libro — sarà piacevole, impegnato, gioioso, curioso, funzionale, scorrevole,
vincente. Non arriverete nudi alla meta perché già dalla partenza potrete contare sui vostri
vestiti. Aristotele li avrebbe chiamati «abiti». Ma sono la stessa cosa: le vostre conoscenze,
Fare il dirigente scolastico
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il vostro background culturale, le vostre esperienze di studio, la vostra cultura migliore
sono nel guardaroba. Indossate l’abito migliore, quello dei saperi.
Non dovrete cambiare nulla di ciò che già sapete, semmai si tratterà di arricchire, di
accrescere, di cambiare visuale. L’arrivo è garantito. Sarete un dirigente scolastico, non un
temporary manager, un manager che per rimanere tale deve adeguarsi alla velocità dei
cambiamenti planetari, anche se del pianeta dovrà conoscere molto, anche se non potrà
vivere in un’isola dove la globalizzazione e l’ipercomplessità non siano ancora arrivate. Il
vero leader sa pensare in grande e operare in piccolo.
È noto come esistano dei leader naturali che senza alcuna investitura costituiscono
il punto di riferimento di molti colleghi. Forse avete esperienza del classico dirigente circondato dalla classica corte. E tra i cortigiani ce n’è sempre uno — o più di uno — che
cortigiano non è, una eminenza grigia, una sorta di Cardinale Richelieu, che comanda di
fatto dando l’impressione al dirigente formale di comandare.
Mettersi in gioco e affrontare il nuovo mestiere con autenticità e umiltà farà sì che il
dirigente che voi sarete viva con la coscienza pulita di chi ha effettuato una conquista. Se
avrete la mentalità giusta, vale a dire l’atteggiamento mentale del vincente, questo libro
vi fornirà gli strumenti. E se ogni tanto lo studio imporrà un’isola deserta dove sarete
Robinson, queste pagine saranno il vostro Venerdì. Lasciate stare gli atteggiamenti negativi o alibi precostituiti del tipo del Manzoni che disse: «Deh! Vogli la via segnarmi, onde
toccar la cima io possa, o far, che s’io cadrò su l’erta, dicasi almen: su l’orma propria ei
giace». Neanche a parlare di giacere. Non potete cadere! E dopo dovete tener presente
che esiste una equazione inversamente proporzionale: più sarete competenti, meno
dovrete sottostare alle regole formali. Quando smetterete la cravatta — «ho la sindrome
dell’impiccato» — sarete davvero competenti.
Il leader deve invece possedere quelle qualità umane, che fanno sottolineare a Carl
Rogers la sua convinta adesione a un vecchio proverbio cinese che dice: «Quando l’uomo
sbagliato usa le tecniche giuste finisce sempre col fare cose sbagliate, quando l’uomo giusto
usa tecniche sbagliate finisce sempre col fare le cose giuste».
Aristotele nell’Etica Nicomachea dice: «Colui che si adira per ciò che deve e con
chi deve, e inoltre, come, quando e per quanto tempo si deve, può essere lodato».
Ecco perché buoni leader non si nasce, si diventa.
Un grande dirigente — sir Harvey Jones — attribuisce il suo successo come leader non tanto alle sue doti naturali — giudicate normali — quanto alla sua capacità di
gestire le persone: ponete al di sopra di tutto le persone che lavorano per voi (1994).
Al di sopra degli ultimi gerarchi, al di sopra dei burocrati ministeriali, al di sopra di
quella fauna che si aggira nel mondo della scuola come latitanti che vogliono sfuggire
al WWF che li vorrebbe rinchiudere come specie protetta non in un parco nazionale,
ma nel cimitero degli elefanti. Non abbiate paura del nuovo. Il nuovo vi aspetta. Ma non
c’è resurrezione senza crocifissione perciò abbiate il coraggio di leggere (e applicare) il
paragrafo seguente.
Il letto di morte
In un libro recente Steve Chandler (2009) propone un esercizio molto pericoloso. Chi
fosse debole di cuore o impressionabile può saltarlo. In ogni caso, oltre al fatto che relata
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Dirigere domani
4
Il concorso: prova di preselezione (test), prima prova scritta (elaborato), seconda prova scritta (risoluzione di caso)
Dura lex, sed lex: prima il Regolamento
Il bando potrà avere caratteristiche discutibili, ma non dovrebbe scostarsi molto da
quanto già presente nel Regolamento recante la disciplina per il reclutamento dei dirigenti
scolastici (DPR n. 140 del 10 luglio 2008), ai sensi dell’art. 1, comma 618 della legge
27 dicembre 2006, n. 296, dato a Roma addì 10 luglio 2008. Eventualmente si tratterà
di capire se c’è un’attenzione particolare su una parte degli argomenti rispetto a un’altra.
Vedremo se sono stati rispettati i binari del Regolamento del 2008. Esamineremo se:
a) lex minus dixit quam voluit: in questo caso il Regolamento può essere considerato
come «reticente» (vi sono meno cose di quanto dice il Regolamento);
b) lex magis dixit quam voluit: in questo caso il Regolamento si sarebbe allargato un po’
troppo rispetto alle intenzioni, richiedendo troppo ai candidati o disequilibrando il peso dei
vari argomenti. Ma di questo parleremo più avanti. Nel momento in cui avete accettato di
partecipare al concorso per dirigente scolastico (che per voi dovrà avere un solo significato:
vincere) Regolamento e bando saranno — per voi —perfettamente equilibrati e integrati.
Il Regolamento e il bando dovranno diventare il vostro Vangelo laico. Stando così
le cose, cominciamo con la decodifica del Regolamento. Al bando penseremo dopo, una
volta che sarete convinti. Il Regolamento va letto «juxta propria principia».
Esso definisce le modalità delle procedure concorsuali per il reclutamento dei
dirigenti scolastici nei ruoli regionali di cui all’art. 2: «In attuazione di quanto previsto
dall’art. 39 della legge 27 dicembre 1997 n. 449, i posti di dirigente scolastico destinati
alla procedura concorsuale di cui all’art. 3, si determinano in sede di programmazione
del fabbisogno di personale».
L’art. 3 del Regolamento richiama l’unificazione dei tre settori formativi (vale a
dire che non esiste più e da tempo la distinzione tra presidi e direttori didattici) e parla
di concorso unico con cadenza triennale. Nel bando di concorso il numero dei posti si
ripartisce a livello regionale.
Il concorso è indetto con cadenza triennale (!) e viene curato da un punto di vista
organizzativo dagli Uffici Scolastici Regionali.
Meno male, finalmente qualcosa di non federalistico, finalmente l’attuazione piena
dell’articolo 3 della Costituzione.
Ma se proseguiamo (art. 5 Procedure di selezione) incontriamo la novità, o meglio,
la riproposizione (già prevista per il concorso a Dirigente tecnico) dei test.
Rileggiamo test-ualmente:
Art. 5 – Procedura di preselezione
1. La procedura di preselezione prevede il superamento di una prova oggettiva a carattere
culturale e professionale. La prova consiste in un congruo numero di quesiti diretti
all’accertamento delle conoscenze di base per l’espletamento della funzione dirigenziale
in relazione alle tematiche di cui all’articolo 6, comma 1, ivi comprese quelle sull’uso
delle apparecchiature e delle applicazioni informatiche più diffuse a livello avanzato,
nonché sull’uso di una lingua straniera, a livello B1 del quadro comune europeo di
riferimento, prescelta dal candidato tra francese, inglese, tedesco e spagnolo.
Ciò che si capisce chiaramente è che il candidato dovrà superare una prova a carattere culturale e professionale. Si capisce inoltre (lex minus dixit quam voluit) che tale
prova consiste in un congruo numero di quesiti diretti all’accertamento delle conoscenze
di base. Meno chiare sono, da un lato, l’«oggettività» della prova e, dall’altro, il riferimento alle conoscenze di base. Sembra comunque di capire che queste conoscenze di base
riguardino l’espletamento della funzione dirigenziale «in relazione alle tematiche dell’articolo 6 comma 1 ivi comprese quelle sull’uso delle apparecchiature e delle applicazioni
informatiche più diffuse a livello avanzato».
Cominciamo con il togliere una preoccupazione a chi, analfabeta informatico,
dovesse cominciare a farsi assalire dall’ansia: qui non si tratta di vedere se sapete fare
questa o quella diavoleria informatica, ma solo di sapere.
Si tratta quindi di un sapere tutto sommato nozionistico che attiene solo alla conoscenza teorica, direi scolastica, di ciò che riguarda l’informatica più o meno avanzata.
Questo non significa che si può stare tranquilli girandosi i pollici, significa semplicemente
cominciare a studiare conoscendo nomi, terminologia specifica, strutture di riferimento
senza la preoccupazione di dimostrare che le cose che esponete sapete anche farle con
le vostre manine. L’assenza del computer: immaginate la stanza dove vi somministreranno
i test senza i computer, ma con i soli banchi di risulta e la solita matita copiativa: sarà un
buon deterrente per l’ansia. Almeno per ora.
La novità dei test (prova «oggettiva» di preselezione)
Anche se il Regolamento parla di due prove scritte, in realtà le prove in cui si deve
usare la penna sono tre. E la prima prova è il lasciapassare per le altre due.
«Congruo numero di quesiti», traduzione: test. Un test è sempre insidioso. È come
un virus: vi attacca quando meno ve lo aspettate. Qui si indica una «strategia anti-virus».
La chiameremo a rimbalzo.
Ha una base scientifica solida e si basa sulla complessità — vale a dire su quel paradigma che considera il mondo come un contesto di sistemi aperti in cui il contesto globale
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Dirigere domani
non può mai essere eluso né frammentato, ma va tenuto presente costantemente — e
sul fatto che i problemi essenziali non sono mai frammentari e che le conoscenze vanno
inserite sia nei loro contesti particolari che in contesti più ampi.
Qui si attiva l’unica intelligenza possibile a comprendere (cum-prehendere, prendere
dentro di sé) nel modo più ampio, planetario: un’intelligenza — dice Morin (2000) —
incapace di considerare il contesto e il complesso planetario rende «ciechi, incoscienti
e irresponsabili». Occorre non solo una conoscenza pertinente (gli argomenti specifici e
specificati del Regolamento) ma anche una conoscenza più ampia in grado di collocare
quelle conoscenze nel proprio contesto (la scuola) e se possibile in contesti sempre più
ampi. In altri termini: dovete guardare le conoscenze non solo dal vostro posto di osservazione, ma anche in un contesto più ampio, la cima del mondo: un mondo apolide che
vi fa superare la vostra identità «vicina» e localizzata (cittadini di un paese, di una città) per
farvi assumere quella identità che Morin (sempre lui!) chiama «identità terrestre».
Questo si traduce in pratica nel fatto che la strategia proposta deve «fare la spola» tra
le conoscenze teoriche (il sapere richiesto dal Regolamento e, poi, dal bando) e l’esecuzione
dei test. In modo graduale e simmetrico si tratta semplicemente di procedere dando un
colpo al cerchio e uno alla botte e considerando non solo l’aspetto organico e lineare,
ma anche l’aleatorietà, l’incertezza, l’imprevisto.
La prova del test si definisce «oggettiva». Un lapsus freudiano di chi scrivendo si
trova tanto perfetto da poter essere oggettivo laddove il massimo che si può ottenere è
l’intersoggettività?
Un errore? Inammissibile direbbe Oscar Wilde: è più che un delitto, un errore.
E allora tanto vale inserirlo all’interno della logica degli psicometristi secondo i quali
tutti i test sono oggettivi per il semplice fatto che vengono somministrati a tutti nelle stesse
condizioni, che il linguaggio criptico di costoro chiama «in situazioni standardizzate», vale a
dire senza tener conto della storia e delle condizioni di partenza di ciascuno. O l’aggettivo
«oggettivo» può voler dire che i test risponderanno ai criteri classici di validità e attendibilità.
La validità di un test si riferisce a ciò che viene misurato dallo stesso test e il grado
di precisione con il quale riesce a misurare ciò che deve misurare. La validità del contenuto
si riferisce sostanzialmente all’esame sistematico del contenuto del test per determinare se
esso comprende un campione rappresentativo di ciò — una materia, una disciplina, un
congegno e le sue parti — che si intende misurare. Questa procedura di valutazione viene
normalmente usata per la valutazione dei test di profitto o di apprendimento. Questo tipo
di test serve a misurare a quale livello il soggetto sia riuscito ad acquistare padronanza in
un certo campo di studio. Una difficoltà è rappresentata dalla campionatura del contenuto.
L’area di contenuti che deve essere esaminata mediante il test deve essere analizzata sistematicamente, perché si abbia la certezza che tutti i principali aspetti siano compresi nelle
prove del test nelle debite proporzioni. Il test del nostro concorso non può prevedere una
preparazione molto formale e rigida, non può essere sottoposto a procedure di pretest.
In questo caso si potrebbe correggere il tiro, equilibrare gli argomenti, ricorrere a diverse
campionature, omogenee, «equieterogenee», con il fondo di preparazione «presunto» che
si ritiene di rilevare con il test.
Abbiamo a grandi linee i contenuti cui accenna il Regolamento: la prova di preselezione consiste nell’accertamento delle conoscenze di base per lo svolgimento della
funzione dirigenziale; la prima prova scritta consiste nello svolgimento di un elaborato su
tematiche relative ai «sistemi formativi e agli ordinamenti degli studi in Italia e nei Paesi
Il concorso: test, elaborato, risoluzione di caso
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dell’Unione europea, alle modalità di conduzione delle organizzazioni complesse, oltre che
alle specifiche aree giuridico-amministrativa, finanziaria, socio-psicopedagogica, organizzativa, relazionale e comunicativa». La seconda prova scritta consiste nella risoluzione di
un caso relativo alla «gestione dell’istituzione scolastica» con particolare riferimento alle
«strategie di direzione» anche in rapporto alle esigenze formative del territorio. Ci saranno
prove che si focalizzeranno maggiormente sugli aspetti formativi o amministrativi o sulle
strategie di direzione?
Confidiamo che i test proposti all’esame siano ben costruiti e rilevino gli obiettivi
cui tende la natura selettiva specifica (si tratta di selezionare un dirigente scolastico e non
un manager dell’Alitalia) e non soltanto gli argomenti studiati o memorizzati. Si tratterà
di una questione di equilibrio che comunque non potrà sfuggire all’intrusione di quell’imponderabile «fattore g» che rappresenta l’intelligenza generale che agisce nell’ombra in
ogni campo che attiene all’umano. È soprattutto per questo che il presente volume — a
rimbalzo, a spirale o come volete chiamarlo — non si limita a una arida elencazione di
test, ma propone anche argomenti essenziali: sotto c’è l’idea di struttura, vale a dire
quella serie coordinata di concetti che fanno di ogni concetto un’idea madre, vale a dire
un’idea generatrice di altre idee. L’altro aspetto è che i test a risposta multipla non saranno semplici domande, brevi, concise, mnemoniche: all’interno della domanda e prima
della sua finale formulazione vengono forniti concetti essenziali e informazioni pertinenti.
Ma veniamo all’altro criterio, quello dell’attendibilità. Un test può essere valido, ma
non essere attendibile: il decametro è uno strumento valido se voglio misurare il perimetro di un’area piccola, ma se dimentico i vari punti in cui lo poggio e lo metto un palmo
sempre più in là, lo strumento è valido, ma la misurazione non è attendibile.
Da qui l’esigenza dell’attendibilità: questo termine, «quando è applicato ai test, ha
due significati distinti: uno si riferisce alla stabilità nel tempo, l’altro alla coerenza interna»
(Kline, 1996). L’attendibilità fa riferimento alla coerenza o fedeltà dei punteggi ottenuti da
uno stesso soggetto quando questi venga sottoposto allo stesso test in occasioni diverse,
o in un insieme di prove equivalenti, o in diverse condizioni di somministrazione. L’attendibilità di un test nel tempo è nota come «attendibilità re-test». Per chi avesse poi voglia di
entrare in particolari tecnici suggeriamo la lettura del libro di Kline citato.
Come avete già capito questo concetto di attendibilità non riguarda il nostro test,
dato che il concetto di attendibilità abbraccia parecchi aspetti della coerenza dei punteggi.
Concetti come varianza, coefficiente di correlazione, significatività statistica non ci riguardano. Non si tratta di misurare il vostro umore: in questo caso le variazioni quotidiane dei
punteggi a un test di euforia-depressione sarebbero importanti ai fini del test stesso. Qui
l’ansia è un fattore che esiste ma è irrilevante ai fini dell’attendibilità del test. L’attendibilità
viene determinata dall’accuratezza delle misurazioni, dall’anonimato, dalla professionalità
degli esaminatori. Ma al di là di questo esame necessariamente di carattere generale,
esistono dei metodi per eseguire un test in maniera veloce e completa? Sì, esiste. Ma è
impraticabile: si tratta di riempire la testa con tutte le nozioni che riguardano l’universo
della pedagogia, della scuola e delle scienze dell’educazione. E allora, volendo rimanere
sul concreto, si possono dare dei consigli desunti dall’esperienza. Chi scrive è un «esperto»
solo nel senso etimologico della parola: esperto è chi ha provato, chi ha esperito, chi ha
fatto di tante esperienze una esperienza che si traduce in una mentalità utile, a meno di
non considerare l’esperienza «come il nome che ciascuno di noi dà ai propri errori» come
scriveva Oscar Wilde.
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Dirigere domani
La prima regola è rilassarsi. Ci sono mille modi per ottenerlo, i migliori sono utilizzati dalla terapia cognitivo-comportamentale. Qui si suggerisce il metodo della desensibilizzazione sistematica di Wolpe (1972). I fondamenti teorici della desensibilizzazione
sistematica sono da ricercare nell’ambito del condizionamento classico. Secondo questo
modello di apprendimento uno stimolo, precedentemente neutro, diventa condizionato
quando, associato a uno stimolo che evochi una reazione specifica, finisce con il produrre
la stessa risposta. Lo stimolo incondizionato e quello condizionato devono essere associati
ripetutamente perché si stabilisca una connessione altrimenti si estingue. Fuori dagli schemi:
se il test somministrato ha natura ansiogena non resta che ripetere il test (i vari tipi di test)
in condizioni standardizzate e ripetute. L’ansia scenderà a ogni nuova somministrazione.
Ma questo purché i test proposti in questa guida vengano eseguiti tutti, nelle condizioni
(presumibili e verosimili) in cui sarà somministrato il test all’esame vero e proprio. Quali
le condizioni presumibili?
01.Sarete soli.
02.Sarete soli in mezzo a una folla.
03.Farà un freddo boia o ci sarà un’aria pesante da ammasso di persone.
04.Non avrete trovato un bar vicino all’edificio della prova d’esame. Vi manca il vostro
caffè e vi manca la vostra sigaretta.
05.Dovrete aspettare (il rispetto dei tempi non fa parte della cultura ministeriale e scolastica).
06.Dovrete concentrarvi subito.
07.La vostra penna della domenica non funzionerà. Munitevi di tre vecchie Bic cariche.
08.Guardate il foglio e date una prima occhiata al numero dei test.
09.Guardate l’orologio e il tempo concesso.
10.Cominciate a leggere e a segnare. Soffermate la vostra attenzione su quanto richiede
il test e cominciate senza indugi.
11.Se incontrate un test dubbio, saltate velocemente: ci ritornerete dopo.
12.Eseguite e poi controllate.
Nella desensibilizzazione sistematica lo stimolo condizionato ansiogeno va sperimentato in una condizione antagonista all’ansia: il rilassamento. Perciò, prima di accingervi a
eseguire i test qui presentati fate tutto ciò che vi rilassa: mettete della musica (strumentale),
fate scorrere la vostra fontana Zen comprata dai cinesi, accarezzate il vostro gatto se con
voi funziona la pet-therapy. Assicuratevi che nessuno vi disturbi: il cellulare va spento, il
computer allontanato. Poi fate il test.
Sempre nelle stesse condizioni e sempre dandovi «quel tempo». Ciò favorirà efficacia
ed efficienza e costituirà un deterrente per l’ansia.
Secondo consiglio. Applicate il canone di Lloyd Morgan: «Non possiamo legittimamente sostenere che una determinata azione è prodotta da una facoltà psichica superiore
se siamo in grado di dimostrare che essa è il prodotto di una facoltà situata a un livello
inferiore». Meazzini, che riporta la citazione di Lloyd Morgan, fa l’esempio del cane che
si avvicina alla porta (1978). Noi diciamo che il cane «vuole» uscire di casa per fare una
passeggiata; si tratta invece di un semplice processo di apprendimento: il cane ha appreso
che avvicinandosi alla porta qualcuno gli aprirà. Perché attribuire all’animale un atto di
volizione — facoltà superiore — quando invece possiamo spiegare il suo comportamento
con la ripetizione che porta a un apprendimento? E così è per i test.
Un esempio:
Il concorso: test, elaborato, risoluzione di caso
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L’Analisi transazionale ha dimostrato che doti e carattere sono prevalentemente
il risultato delle esperienze individuali vissute nell’età dello sviluppo. Segna la risposta
corretta:
•Ogni persona possiede dentro di sé il potenziale per diventare leader di successo solo
se si impegna.
•Ogni persona può diventare leader di successo se si impegna, ma a condizione che
la sua anima profonda sia favorita dagli eventi.
•Ogni persona può diventare leader di successo solo se il suo inconscio ha un equilibrio
tra Ego, Super Io ed Io.
L’unica risposta plausibile è la prima. Perché ricorrere a concetti come anima o
inconscio se possiamo spiegare la tendenza alla leadership come una dote comune a tutti
coloro che vogliono impegnarsi? Spero di essere stato chiaro.
Il terzo consiglio è quello di assumere un atteggiamento preparato all’imprevisto.
Un atteggiamento del genere si può costruire evitando di eseguire in successione solo
domande relative allo stesso argomento e «saltando di palo in frasca». In altri termini
significa abbandonare la regolarità settoriale che vede la somministrazione di item tutti
incasellati in uno stesso argomento.
Se parliamo di leadership, non dobbiamo attenderci tutte domande sullo stesso
argomento, ma dobbiamo essere pronti all’imprevisto che si può presentare con un item
alieno rispetto a quanto ci aspettiamo. Si tratta di abbandonare una logica lineare per una
logica circolare aperta alla discontinuità.
Mai come in questo caso le parole sono importanti e l’attenzione deve essere vigile.
Dal tema al saggio all’elaborato del concorso (Prima prova scritta)
Solo chi non ha scritto lettere d’amore fa veramente ridere.
(Roberto Vecchioni, Lettere d’amore)
A differenza dei concorsi precedenti non vengono più usati termini come tema o
saggio o progetto. Si parla di elaborato per la prima prova scritta, di risoluzione di un
caso per la seconda prova scritta. A queste due prove scritte si accede se si superano i
test della preselezione, trovata che per i pedagogisti nostrani è una vera e propria novità,
mentre quelli americani la considerano ormai obsoleta. E poi dicono che gli italiani in
quanto a fantasia e creatività non li supera nessuno...
La colonizzazione americana continua. Malgrado Morin, malgrado la complessità,
malgrado una tradizione europea.
1. Le due prove scritte accertano la preparazione del candidato sia sotto il
profilo teorico sia sotto quello operativo, in relazione alla funzione di Dirigente
scolastico. La prima prova scritta consiste nello svolgimento di un elaborato su
tematiche relative ai sistemi formativi e agli ordinamenti degli studi in Italia e
nei paesi dell’Unione europea, alle modalità di conduzione delle organizzazioni
complesse, oltre che alle specifiche aree giuridico-amministrativa, finanziaria,
socio-psicopedagogica, organizzativa, relazionale e comunicativa. La seconda prova
scritta consiste nella risoluzione di un caso relativo alla gestione dell’istituzione
scolastica con particolare riferimento alle strategie di direzione anche in rapporto
alle esigenze formative del territorio.
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Dirigere domani
E qui è il caso di essere analitici, di approfondire a costo di essere pedanti. Le due
prove scritte accertano (vale a dire devono documentare in modo chiaro e inequivocabile) la preparazione del candidato sia sotto il profilo teorico sia sotto quello operativo, in
relazione alla funzione di dirigente scolastico.
Sarebbe fin troppo facile smontare la correttezza di quella «e» (congiunzione) ricorrendo non solo alla logica, ma anche all’autorità di Pirandello che diceva: «la vita o si vive
o si scrive». Già perché la vita è sempre così ingorda di se stessa che non si lascia mai
assaporare. E quando si scrive, si assapora, si pensa, si riflette, tutte attività mentali che
non si vivono con comportamenti osservabili. Se si trattasse di una prova solo orale o
di più prove orali allora si potrebbe ricorrere a un linguaggio più ostensivo, osservabile,
misurabile (il comportamento verbale è osservabile, apprezzabile, misurabile, valutabile,
ecc.). Ma così non è. Anzi, spesso è proprio il contrario: ciò che si scrive, viene contraddetto dal comportamento contraddittorio di chi scrive (e predica) bene e razzola male.
Detto questo per onestà intellettuale, dobbiamo essere coerenti: non solo essere convinti
(anche se un po’ criticamente) che il Regolamento va affrontato «juxta propria principia»,
ma anche che il Regolamento non è tanto cultura, quanto natura, perciò «non, nisi parendo, vincitur». In altri termini: se il Regolamento non ci piace, in ogni caso dobbiamo
fare in modo che ci piaccia.
Quando si scrive un elaborato dobbiamo «mostrare» in punta di penna (vale a dire
con sussurri mai personalizzati) che saremmo in grado di coniugare teoria (ciò che stiamo
scrivendo) e pratica (ciò che andremo a fare da dirigenti). Questo deve in qualche modo
«emergere» dal contesto, dalla sottolineatura di certe affermazioni o principi, dal pathos
che ci si mette. Mai ricorrere a frasi del tipo «io penso...», «secondo me...», «sulla base
della mia esperienza...» e neppure al plurale humilitatis, «noi abbiamo avuto modo di...»,
«il nostro gruppo ha fatto esperienza di cooperative learning...», ecc. Usate sempre
l’impersonale: «è noto che per quanto riguarda…», «appare possibile una scelta…», «gli
studiosi più accreditati…», «si è portati a…».
Difficile scrivere con attenzione e autenticità se si usa intelligenza pura, facilissimo
se si usano furbizia, trucchi (che, per carità, voi chiamerete «tecniche») e un certo modo
di esprimersi. E in questo caso la furbizia — pardon, la tecnica — consiste nel fare riferimento (evitando le forme troppo esplicite e il pronome «io») a delle esperienze di cui
voi — in maniera più o meno diretta — siete a conoscenza. Del resto è possibile che
abbiate osservato davvero; e siccome ormai è assodato che l’osservatore non può essere
avulso dal campo di osservazione, ma ne fa parte, essendo incluso anche emotivamente
nell’osservazione, non dovrete sentirvi in colpa: solo la cavia non impara nulla dalla sperimentazione o dall’osservazione.
L’elaborato parla del cooperative learning? Inquadrate bene il tutto, gli aspetti
teorici e storici (un riferimento al nostro San Giovanni Bosco e al suo mutuo insegnamento — sacrificato sull’altare del cooperative learning americano — è necessario e rientra
nelle tecniche di captatio benevolentiae), e quindi parlate delle differenza tra i metodi di
insegnamento a mediazione dell’insegnante e i metodi a mediazione sociale. Come far
intravvedere l’aspetto operativo?
Vi proponiamo in sintesi degli esempi di alcune formule da inserire nel punto che
ritenete più pertinente:
C’è da dire — e questo si coglierà subito sulla base della prima esperienza che si andrà
a fare — che più il numero degli alunni è numeroso, maggiore sarà la difficoltà di gestire
Il concorso: test, elaborato, risoluzione di caso
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il gruppo. E allora si cercherà di formare dei gruppi equieterogenei, inserendo elementi
(una strategia più direttiva da parte del maestro, l’apporto di eventuali tutor con funzioni
carismatiche) che possano costituire da deterrente preventivo per evitare confusione.
Siamo tutti convinti che il punto centrale dell’apprendimento sia sempre e comunque l’alunno. Le stesse Indicazioni parlano di centralità della persona. Questo non può
significare continuare con la lezione ex cathedra: se l’insegnante trasmette, difficilmente
potrà chiamare poi gli alunni a partecipare all’elaborazione del sapere.
L’insegnante coglie il suo primo successo nel momento in cui scende dalla cattedra
e si pone fra i banchi: l’ascolto è il primo momento. E questo atto di umiltà iniziale
comunque non è da tutti. Purtroppo (attenzione: in questo purtroppo ci siete voi!) non
tutti gli insegnanti hanno compreso che abbassarsi a livello dell’allievo è in realtà — come
diceva S. Agostino — un innalzarsi.
Nel concorso precedente si parlava di saggio. In quello ancora prima di tema. Avrete
già colto la differenza fra il tema (quello che avete «compitato» per anni nella vostra vita
scolastica subito dopo aver imparato a scrivere i «pensierini»… Cosa potevano essere i
vostri pensieri da piccoli? Pensierini…), il saggio e l’elaborato.
Ci sono differenze e punti comuni. Il punto comune a saggio, tema, elaborato è lo
«svolgimento».
Oggi ci sono gli sms dove la classica frase dei fidanzatini di Peynet trova una collocazione più matematica che linguistica: «Ogni giorno ti amo + di ieri e – di domani».
Ma gli estensori del Regolamento devono essere degli inguaribili romantici: vogliono la
scrittura. In linguistica per scrittura si intende la rappresentazione grafica del linguaggio.
Ma il Regolamento sembra escludere la pittografia (la scrittura attraverso immagini).
Sembra alludere alla scrittura alfabetica, più precisamente con le lettere dell’alfabeto in
uso in Italia. Si parla di elaborato.
Di sicuro esistono delle differenze, anche se dubitiamo fortemente che le differenze
siano così marcate. A ogni buon conto: meglio prevenire. Ne tento una differenziazione,
provando a circoscriverne i limiti, pur sapendo che si tratta di confini mobili, borderline:
– tema (svolgimento);
– saggio (trattazione);
– elaborato (riflessione, «sincresi», analisi, sintesi).
Mi si perdonerà se faccio riferimento ai ricordi di scuola che, come tutti i ricordi, sono
vividi in alcune parti e poco chiari in altre. Ricordo perfettamente il fatto, i personaggi, la
lettura, ma non ricordo il quando e il dove. In qualche parte dei suoi ricordi il Pascoli fa
riferimento al Carducci che, come è noto, fu suo insegnante all’Università. A quei tempi
le selezioni erano serie e non bastava essere il cuoco del barone universitario per essere
ammessi alla famosa Università di Bologna. C’era l’esame scritto di selezione. Tutti i
partecipanti erano in trepida attesa del Grande Maestro che avrebbe dettato il compito di
italiano. Pascoli, anche Pascoli tremava. Il professor Carducci arrivò, disse «buongiorno,
seduti seduti» e dettò il compito. Non ricordo quale fosse il compito, ma sicuramente
riguardava la letteratura italiana.
Dopo averlo dettato, il professore stava per andarsene, ma come il tenente Colombo,
si fermò davanti alla porta e, rivolto agli studenti, disse: «Si limitino a fare quanto richiesto.
Non mi facciano un saggio di estetica!». Aprì la porta, ma ancora come il tenente Colombo aggiunse: «Del resto non ne sarebbero capaci». Il saggio ha una sua natura elitaria: è
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Dirigere domani
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