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Il terremoto del Friuli (1976)

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Il terremoto del Friuli (1976)
STORIE DI PASSIONE CIVILE
EMERGENCIES
Il 6 maggio 1976, alle 21, una scossa del 6,4 della scala Richter colpì vaste
zone del Friuli, tra le province di Udine e Pordenone; i comuni più colpiti furono
Gemona, Venzone, Bordano, Artegna, Buia, Osoppo e Forgaria.
Tenendo conto della seconda scossa distruttiva verificatasi il 15 settembre
(6.1 scala Richter), in totale, i morti furono 993, e i senzatetto circa 80.000
!di Lorenzo Alessandrini
L
a scossa principale, la sera del
6 maggio, subito dopo cena, fu
preceduta da un unico segno premonitore: una scossa più leggera, ma
sempre nettamente avvertibile, del VI
grado della scala Mercalli: tale preavviso
si verificò un minuto prima della scossa
disastrosa; questa arrivò alle 21 mentre
una parte della popolazione aveva già
abbandonato le proprie case. La massima energia distruttiva si liberò nella fase
intermedia della scossa, durata circa
un minuto, e ciò permise lo scampo a
molti di quelli che non si erano allontanati
dalle case con la prima scossa. In quel
minuto interi paesi vennero distrutti; nella zona corrispondente all’epicentro, la
pianura ai piedi di Gemona, più del 40%
delle abitazioni crollò o fu danneggiata
irreparabilmente. Più su, nella valle di
Resia, nella parte inferiore del Canale
di Ferro e nella zona pedemontana a
Sud, andarono distrutte circa un quarto
delle abitazioni. Nell’area più duramente colpita, su poco meno di 140.000
abitanti, si ebbero un migliaio di morti
ed il doppio dei feriti. Poco meno di
60.000 persone restarono senza casa
mentre venivano a mancare contemporaneamente tutti i servizi essenziali:
l’acqua, l’energia elettrica, i telefoni e
le comunicazioni.
La zona colpita
A differenza di quanto avviene in caso
di bombardamenti bellici, gli effetti
L’arrivo dei
soccorsi, nel
caso del terremoto
friulano, fu assai
celere poiché circa
18 battaglioni dell’esercito
si trovavano di stanza
nell’Italia nord orientale
del sisma non sono selettivi: massimi
nella zona epicentrale, diminuiscono
via via con la distanza ma interessano
tutta l’area colpita. Danni agli edifici si
ebbero anche a notevoli distanze e,
ad esempio, furono danneggiate delle
sottostazioni dell’ENEL a più di 100
Km di distanza. Fu quindi necessario definire “amministrativamente” la
zona dove concentrare le operazioni
di soccorso e di assistenza. La legge
statale n. 336 e la legge regionale n.
15 hanno disposto la delimitazione
della zona terremotata: tale delimitazione geografica è stata effettuata
con D.P.C.M. del 18 maggio 1976,
per parte statale, e con D.P.G.R. del
20 maggio 1976, per parte regionale.
A seguito poi delle scosse di settembre, la legge statale n. 730 ha disposto
un’ulteriore delimitazione dei Comuni
colpiti (non già inclusi nella precedente
del maggio) effettuata in tre tempi
successivi con i D.P.C.M. dell’8 settembre 1976, del 19 novembre 1976
!Nell'articolo varie immagini del terromoto avvenuto in Friuli il 6 maggio 1976 e che
colpì diversi antichi comuni medioevali tra cui Gemona, Osoppo, Venzone, Artegna.
Tratte da "La forza di Rinascare"
e del 27 aprile 1977. Qui di seguito,
le carte del Friuli con la delimitazione
delle zone colpite dagli eventi sismici:
nella prima tavola quelle definite dal
D.P.G.R. del 20 maggio 1976;
nella seconda quelle definite dal
D.P.C.M. del 18 maggio 1976 e dalle
successive integrazioni.
È abbastanza chiaro che la delimitazione regionale e quella statale differiscono in modo considerevole. Del
resto i criteri di definizione non hanno
potuto che essere empirici per entrambi. Così è successo, in diversi casi,
che siano risultati inclusi tra i Comuni
colpiti località in cui i danni sono stati
tutto sommato limitati, mentre non lo
siano stati altri che hanno riportato
ferite non trascurabili.
D’altra parte una delimitazione “perfetta” ed “equa” non sembra facile, mentre per molti motivi questa è
I crolli degli edifici.
Morti, feriti e senzatetto
Gli effetti delle scosse si fecero sentire
soprattutto sui vecchi edifici costruiti
in gran parte con murature in ciottoli
arrotondati. La maggior parte dei cedimenti delle strutture si ebbe nelle
costruzioni di questo tipo; meglio si
comportarono gli edifici in mattoni
mentre poche furono i collassi totali
di quelle con ossatura in cemento
armato, anche se tra questi ultimi
bisogna annoverare il crollo completo
di due grandi fabbricati d’abitazione
multipiano a Maiano che provocarono molti dei 127 morti di questo
!L’onorevole Giuseppe Zamberletti,
dopo aver ricoperto l’incarico di Alto
Commissario del Governo in occasione
dei terremoti del Friuli nel 1976 e
dell’Irpinia nel 1980, è il Primo Ministro per
il coordinamento della Protezione civile
EMERGENCIES
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Il terremoto del Friuli (1976)
un’operazione che va fatta in tempi
molto brevi. Nella presente relazione, come d’altronde è stata norma
generale adottata anche dai mezzi di
informazione di massa, giornali, radio
e televisione, quando si citano le zone
“disastrate”, “gravemente danneggiate” e “danneggiate”, si fa sempre
riferimento alla classificazione adottata
dalla Regione.
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Comune. Il crollo dei due condomini,
letteralmente polverizzati assieme alle
60 famiglie che vi abitavano, lascerà alcuni dubbi sul numero complessivo dei
morti, mai precisato completamente a
causa dello smembramento dei nuclei
familiari determinato dall’emigrazione.
Mentre la maggior parte della popolazione fuggiva all’aperto sia in seguito
alla prima scossa che durante la scossa principale, la rovina delle vecchie
case negli stretti vicoli dei centri storici
causava parecchie vittime tra quanti
erano riusciti a lasciare in tempo le
abitazioni. A Montenars, dove l’81%
delle case risaliva ad epoche anteriori
al 1920 e l’84% a prima del 1945,
perirono più del 4% degli abitanti; a
Osoppo che aveva il 58% di abitazioni
anteriori al 1920 e il 64% costruite pri-
EMERGENCIES
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!(2011) L’on. Giuseppe Zamberletti,
attuale presidente emerito della
Commissione nazionale Grandi Rischi in
una recente foto durante la sua visita al
Museo del Terremoto di Venzone
!A sinistra, il Sindaco di Gemona
Paolo Urbani con Giuseppe Zamberletti,
il Capo del Corpo nazionale dei Vigili
del Fuoco Alfio Pini, e l'attuale Vicepresidente della Regione Friuli Venezia
Giulia e assessore alla Protezione
civile Luca Ciriani a Gemona durante
l’inaugurazione della statua dei Vigili del
Fuoco avvenuta lo scorso anno
numeri risulteranno invece i seguenti: morti 993, feriti 2607, senzatetto
stabilizzati 52.454 su una popolazione interessata di 256.000 persone. I
danni superano i 1800 miliardi di lire.
31.000 case danneggiate. 20.000
capi di bestiame perduti. Le industrie
danneggiate al 50% e 6.000 operai
restano senza lavoro. Fuori uso strade,
ferrovie e acquedotti. Nelle prime ore
600.000 persone sono condannate
alla sete.
La gestione
della prima emergenza
La prima emergenza fu caratterizzata
da grandissime difficoltà di comunica-
zione a causa del collasso della rete
telefonica, del black out completo delle
linee elettriche e della mancanza assoluta di coordinamento tra le prime forze
intervenute. La popolazione si riversò
- al buio- negli spazi aperti, e lì restò
in attesa dei soccorsi. La primissima
emergenza venne vissuta da tutti in
condizione di totale isolamento, con
ogni famiglia convinta di aver subito
il peggio e senza nessuna cognizione
dell’emergenza di massa in corso.
Fu difficilissimo colmare il gap venutosi
a creare in poche ore tra domanda e
offerta di interventi di soccorso. Come
è noto, il sistema di comunicazione è
essenziale per l’avvio e la messa in
moto del sistema. Ebbene, dopo la
scossa, i principali sistemi di trasmissione finirono fuori servizio. Quello dei
Carabinieri a causa della rete SIP, quello dell’esercito per il danno subito da
un ponte radio e da un centro mobile,
quello della Guardia di Finanza fuori
uso nell’intera regione. Unici mezzi
funzionanti rimasero le radio mobili
di VVF, Stradale e Croce Rossa, che
funzionavano solo con i punti dove
si trovavano le unità mobili. Le prime
informazioni si dovevano soprattutto
ai radioamatori e ai CB. Fortuna volle
che al momento della scossa, fosse
in corso un’esercitazione radiotecnica
delle associazioni aderenti al CER,
proprio in molti dei comuni colpiti. Fra
questi operatori volontari si costituì
spontaneamente un Centro Operativo
a Majano, che a partire dal 7 maggio
1976, fece da punto di riferimento per
le prime operazioni.
La prima informazione pervenuta al
Ministero dell’Interno fu che non si
aveva alcuna notizia. Poi, pian piano,
da Spilimbergo, Majano e Gemona
cominciò ad arrivare qualche informazione. Le prime informazioni su
morti e feriti arrivarono quasi al mattino
successivo, mentre le prime colonne
venete di Vigili del Fuoco si muovevano
verso la zona colpita.
È proprio da Majano che venne lanciato l’appello a tutti i sindaci a riunirsi
a mezzogiorno al centro Operativo,
alla presenza dei parlamentari friu-
lani. Quello che apparve evidente è
che vi era carenza di informazioni al
punto tale da rendere inefficace qualsiasi sforzo di coordinamento degli
interventi. Le forze di soccorso nella
primissima fase furono di due tipi: la
prima fu quella organizzata localmente
dai comuni e dal volontariato locale, la
seconda quella inviata dall’esterno. La
mattina del 7 maggio si recarono nella
zona il presidente del Consiglio Moro
ed il ministro dell’Interno, Cossiga, che
decisero di affidare urgentemente al
sottosegretario alla protezione civile,
Zamberletti, il ruolo di commissario
straordinario per l’emergenza. Sempre
la mattina del 7 maggio vennero fatte
affluire dall’esterno 10.000 persone,
di cui 5.000 persone provengono
dalla Divisione “Mantova”, dalla “Julia”, dall’”Ariete” e dal 5^ e 4^ Corpo
d’Armata Alpino. L’arrivo dei soccorsi,
nel caso del terremoto friulano, fu assai celere poiché circa 18 battaglioni
dell’esercito si trovavano di stanza
nell’Italia nord orientale; quei militari
e quelle caserme che avevano subìto danni minori si poterono quindi
mobilitare prontamente per portare
soccorso alle popolazioni. I Vigili del
Fuoco arrivarono in 400 unità con
200 mezzi, poi saliti in serata a 860
uomini con 470 macchine. I Carabinieri
arrivarono in 500, mentre la Croce
Rossa fu presente con 50 autolettighe.
L’impiego delle sole Forze Armate registrerà una punta massima di 13.000
uomini. Presenti anche Paesi esteri:
Austria 134, Canada 180, Francia 71,
Germania Occidentale 897, Olanda
15, Svizzera 35, USA 320.
A dispetto dei numeri fatti affluire in una
sola giornata, a mancare gravemente
nella primissima fase acuta era un
centro di riferimento unico per il coordinamento e le decisioni da prendersi
fra i diversi livelli locali e quelli statali
impegnati. La sterzata avvenne con
la nomina del Commissario Straordinario nella figura dell’On. Giuseppe
Zamberletti. L’investitura avvenne
nella tarda serata del 7 maggio, ma
fu solo a partire dal 10 maggio che
il Commissario, dopo aver valutato
EMERGENCIES
ma del 1945, si ebbe pure il 4% delle
vittime sul totale della popolazione; a
Forgaria, con il 62% delle case anteriori al 1920, i morti furono più del 3%
della popolazione. I senzatetto furono
rispettivamente: il 58% degli abitanti a
Montenars, il 53% a Osoppo, il 59% a
Forgaria. In base ad un rapporto dei
Vigili del Fuoco redatto poco più di un
mese dopo, i morti furono 976, 31 dei
quali erano militari che furono travolti
da crolli avvenuti in alcune caserme
della zona. Le stesse fonti stimano i
feriti in circa 2.000 ed i senzatetto circa
70.000 su una popolazione interessata stimata inizialmente in 370.000
abitanti. A situazione stabilizzata, i
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EMERGENCIES
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le difficoltà e le dispersioni di risorse
causate dallo scoordinamento, istituì
l’articolazione organizzativa necessaria a dirigere l’emergenza. Anche
se la presenza dei militari disseminati
sul territorio garantiva un’ottima forza
di manovra, era difficile eliminare la
grande confusione venutasi a creare
fin dalle prime ore; infatti tutte le richieste passavano per il commissariato
ospitato nella prefettura di Udine per
le necessarie decisioni da prender per
via gerarchica.
Zamberletti nominò quattro vice-commissari, nelle persone del Comandante della Divisione Mantova Gen.
Rossi e dei due prefetti di Udine e
Pordenone, Spaziante e Arduini, per le
due diverse sponde del Tagliamento.
Inoltre nominò il Comandante della
Divisione “Mantova” Gen. Mario Rossi,
e il Comandante nazionale dei Vigili del
Fuoco Ing. Alessandro Giomi.
Istituì ad Udine il quartier generale,
istituendo nella Prefettura una grande
sala Operativa Generale, ma suddivise
il territorio colpito e da assistere in 9
Centri Operativi di Settore (C.O.S.):
Cividale, Gemona, Majano, Osoppo, Pordenone, S. Daniele, Resiutta,
Tarcento, Tolmezzo. Ogni COS coordinava mediamente l’attività di una
decina di comuni, per una dimensione
media di 40.000 abitanti per ciascun
Centro Operativo. Infine, convinse lo
stato maggiore dell’esercito a mettere
!La mappa che distingue i danni
ma non divide il dolore del Friuli che lavora per rinascere
Le lacune del sistema
di protezione civile nel 1976 e il
ruolo che ebbe del Commissario
Straordinario
Alla luce dei fatti, occorre riconoscere
che dei pochi articoli previsti dalla
legge 8 dicembre 1970 n. 996, quello
riguardante la nomina del Commissario Straordinario è forse quello che
si è dimostrato più importante. Ma a
poco sarebbe servita questa figura,
che in passato, sul Vajont e sul Polesine, era stata più di supervisione per
conto del Governo sulla zona colpita,
più di collegamento che di decisione,
se con un decreto legge dedicato, il
Consiglio dei Ministri non gli avesse
successivamente conferito anche dei
poteri “speciali”, vale a dire quelli che
gli avrebbero consentito di assumere tutti i provvedimenti da lui ritenuti
non solo necessari, ma anche solo
semplicemente “opportuni”. Proprio a
tale scopo il decreto Legge gli conferì
la facoltà di esercitare “le funzioni di
tutti i ministeri”.
Al Commissario Straordinario veniva
affidato un ruolo di “legislatore delegato”,
otteneva dunque poteri fortissimi di rappresentanza
dell’intero Governo. Una figura ben più forte
di quella che più tardi sarà disegnata dalla 225
come il “Commissario Delegato” del Presidente
Il Commissario Straordinario, cui veniva affidato in pratica un ruolo di “legislatore delegato”, otteneva dunque
poteri fortissimi di rappresentanza
dell’intero Governo.
Una figura ben più forte di quella che
più tardi sarà disegnata dalla 225
come il “Commissario Delegato” del
Presidente.
Per Zamberletti, avere un forte potere non significava peraltro ritrovarsi
un compito facile. In effetti, egli do-
veva supplire all’estrema debolezza
dell’impianto organizzativo statale, al
mancato coordinamento sul campo
e all’altrettanto assente collegamento
tra campo d’azione e direzione strategica romana. A lui toccava il compito
di bypassare e surrogare gran parte
degli organi previsti grossolanamente
da una legge che non era stata seguita
dal richiesto regolamento d’attuazione. Anche a causa di questa lacuna,
egli dovette inoltre completare, inven-
tandoselo, il sistema posto “a valle”,
mediante la costituzione di alcuni
organi di decentramento operativo.
Dovette infine organizzarsi un vero e
proprio commissariato inteso come
struttura amministrativa e di supporto
alle sue azioni quale responsabile delle
operazioni. Lo fece nel migliore dei
modi, circondandosi, come vice, di
soggetti capaci fargli superare alcuni
vincoli tradizionali, come ad esempio i meccanismi tipici del “doppio
comando”con i militari.
E forse il ruolo più importante del
Commissario, in questo certamente
in misura maggiore rispetto alla Regione autonoma del Friuli, fu quello di
collettore e interprete delle necessità
degli enti locali e dei sindaci, dei quali
riuscì a uniformare l’approccio con le
conseguenze del sisma, e ad indirizzare autorevolmente i comportamenti
amministrativi conseguenti, in modo
da non rischiare mai di creare disparità
fra terremotati di comuni diversi.
Le difficoltà di comunicazione delle
prime ore furono determinanti per
comprendere i problemi di quella che
oggi siamo soliti chiamare la “prima
fase”: le squadre di soccorso, a causa
dei guasti alla linea telefonica e alla
sovrapposizione delle strutture operative sulle stesse frequenze radio,
finivano per farsi guidare dalle notizie
televisive, finendo in paesi già presidiati
e lasciandone scoperti altri; l’esercito dei sindaci tentava di ottenere
udienza e concessioni immediate da
Zamberletti. Urgeva la creazione di un
meccanismo di comando e controllo,
di decentramento delle funzioni e di
ricomposizione presso la direzione
strategica del commissario. La grande
novità, accettata inizialmente “obtorto
collo” ma poi riconosciuta come di
stringente ed evidente praticità dai
militari, fu quella di affiancare a ogni
sindaco, che doveva predisporre un
suo centro di comando unificato a livel!Particolare di un’opera d’arte
recuperata dalle macerie del terremoto
avvenuto in Friuli nel 1976, esposta al
Museo di Venzone
EMERGENCIES
a disposizione di ciascun sindaco un
ufficiale e dei militari per ogni tipo di
necessità tecnico-logistica e assistenziale. L’innovazione fu di grande rilievo, e costituì un modello decentrato
ripreso negli eventi successivi, a cominciare dall’Irpinia. Dopo la scossa, i
senzatetto trovarono un primo rifugio
nei vagoni ferroviari, nelle tendopoli,
nelle roulottes. Presso la base di Aviano un ponte aereo consentì l’arrivo di
40.000 tende provenienti dagli Stati
Uniti, poiché il nostro Paese non ne
possedeva un numero sufficiente.
Vennero organizzate 252 aree di accoglienza con tende, poi ridotte a 184
tendopoli, con 216 cucine da campo.
Altri 1000 piccoli insediamenti di tende
furono sparsi sul territorio. Le FF.SS.
sistemarono 35 vagoni cuccette, 133
vagoni passeggeri, 292 carri deposito
e 16 carri cisterna.
La gestione dell’emergenza si mise
allora su un binario di maggior chiarezza operativa e di coordinamento
generale, cominciando da subito a
dare i suoi frutti in termini di efficacia.
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EMERGENCIES
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lo comunale, un rappresentante delle
strutture operative e in particolare un
ufficiale delle Forze Armate. Replicare
a livello locale lo stesso meccanismo
di coordinamento presente nel Commissariato era per Zamberletti la via
da battere. Ogni sindaco diventava un
piccolo commissario nel suo comune,
e accanto a sé teneva in pratica un suo
personale “capo di stato maggiore”.
Il problema dei “censimenti” e del
fabbisogno di interventi
Uno dei problemi più spinosi tipici della prima fase di una gestione
emergenziale post sisma, e che si è
puntualmente presentato in tutte le
vicende italiane, è quello che viene
chiamato “procedimento di rilevazione
delle necessità”. Fin dalle prime ore
dopo la scossa, il sistema dei soccorsi
ha bisogno di conoscere quale possa
essere la domanda di soccorso e assistenza dal punto di vista qualitativo
e quantitativo.
È noto che il numero dei senzatetto
da assistere dipende normalmente
dal numero di abitazioni distrutte o
inagibili. Tuttavia, la determinazione dell’inagibilità di un’abitazione è
un’operazione che, oltre a presentare
un grosso impegno per la mole del
lavoro che deve essere svolto da persone altamente qualificate, comporta
l’impiego di criteri non sempre strettamente tecnici e talora largamente
opinabili: si tratta di determinare non
solo lo stato attuale di una costruzione,
ma anche le possibili conseguenze di
un futuro sisma di intensità e caratteristiche ignote (si pensi che, a parte
la scossa del settembre, lo sciame
sismico ebbe in Friuli una durata di
oltre un anno).
All’inizio di una grave vicenda sismica,
il numero dei “senzatetto” e dei bisognosi di assistenza può coincidere
addirittura con l’intera popolazione
residente nella zona colpita, e solo
nel periodo successivo il numero va
via via precisandosi.
Il Friuli non fece eccezione alla regola, tanto che se nei primi giorni si
dovettero far arrivare urgentemente
40.000 tende dagli Stati Uniti è perché si riteneva di dover soddisfare un
fabbisogno teorico di 116.000 posti
letto, che l’Italia in quel tempo non
poteva assolutamente raggiungere.
!1976: l'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro con l'assessore alla ricostruzione
Salvatore Varisco e il sindaco di Gemona Ivano Benvenuti
Il reinsediamento
della popolazione
Con il reinsediamento tocchiamo un
punto di grande delicatezza nell’economia generale di una gestione post
sisma. Il processo di reinsediamento
della popolazione colpita rappresenta
la cosiddetta “seconda fase”, che
segue la prima fase acuta di gestione
del soccorso e della prima assistenza
e ricovero. Questo secondo episodio
organizzativo e gestionale, che deve
precedere la ricostruzione e che non
dovrebbe superare di norma un periodo ottimale di sei mesi a partire
dallo sgombero delle abitazioni danneggiate, si concretizza nell’attività
di programmazione e realizzazione
di un numero necessario di alloggi
alternativi, di carattere provvisorio,
ossia rimovibili, in cui le famiglie che
hanno perduto la propria abitazione
possono attendere in condizioni il più
possibile “normali” la ricostruzione, e
far riavviare nel frattempo le attività
economiche e in generale la vita comunitaria.
La ricostituzione provvisoria, nello
stesso luogo di origine, di un tessuto
comunitario simile a quello che il terremoto ha posto in pregiudizio, è il primo
passo verso il recupero della normalità
e l’avvio delle attività di ricostruzione.
Nell’ultimo forte terremoto che aveva
interessato il Paese prima del Friuli,
quello del Belice del 1968, la soluzione
di un rapido reinsediamento di carattere provvisorio nei luoghi colpiti era stata
accantonata, privilegiando, in modo
centralistico e poco condiviso con la
popolazione, la difficile e laboriosa
ricostruzione di nuovi centri distanti
dal paese colpito, con conseguente
sradicamento degli abitanti e il loro
avvio verso un’inevitabile emigrazione.
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EMERGENCIES
Alla fine delle operazioni di alloggiamento urgente, le tende predisposte
furono invece 18.000, distribuite su
252 aree di accoglienza allestite in un
tempo di circa 20 giorni, mentre molte
persone cominciarono pian piano a
rientrare nelle case rimaste agibili.
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la nostra storia di territorio sismico
ci ha insegnato, è che il periodo di
accadimento dei terremoti disastrosi condiziona fortemente le modalità di gestione di tempi e strumenti
dell’emergenza. L’utilizzo immediato
delle tende durante la stagione mite
consente un accomodamento urgente
delle persone, assicura un certo periodo di tempo ai tecnici per effettuare
la ricognizione dei danni, determinare
il numero effettivo dei senzatetto e
programmare la conseguente realizzazione di alloggi stabili anche se di ca-
rattere provvisorio. Tuttavia, un ritardo
che intervenga in questa sequenza di
attività, pone improvvisamente il sistema dei soccorsi di fronte all’obbligo di
individuare drammatiche alternative in
vista dell’arrivo della stagione invernale
non affrontabile in tenda.
D’altra parte, un sisma che colpisca un
territorio alla fine dell’estate o addirittura nella brutta stagione, pone una serie
completamente diversa di problemi
relativi alla sistemazione alloggiativa
provvisoria, poiché il flessibile utilizzo
della tenda viene limitato o reso addi-
!Il Duomo di Gemona completamente distrutto dal terromoto
EMERGENCIES
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rittura impossibile dal peggioramento
delle condizioni climatiche e meteorologiche. In tal caso, l’eventuale utilizzo
di alberghi e appartamenti – in specie
sulle coste turistiche- porrà altri problemi legati alla “scadenza naturale”
dell’alloggiamento per l’arrivo della
primavera e delle prenotazioni che
interessano le strutture ricettive.
È del tutto evidente, dunque, che in
entrambe le tipologie “stagionali” di
sistemazione provvisoria, le condizioni operative dell’emergenza non
concederanno mai, di norma, più di
sei mesi di tempo per la realizzazione
di alloggi sostitutivi della casa resa
inagibile dal sisma.
Il limite ragionevole dei sei mesi, quantunque risulti difficilissimo a rispettarsi
in caso di macrosisma, va posto comunque come un obiettivo fondamentale. Ciò significa che già durante
i giorni del soccorso tecnico e della
prima assistenza, l’attività di valutazione e analisi da parte dei soccorritori
deve abbracciare e ricomprendere
anche una visione programmatica
delle soluzioni possibili e idonee per
la seconda fase.
In Friuli, dopo la prima sistemazione urgente seguita alla scossa del 6
maggio, c’era dunque da pensare al
reinsediamento, poiché era di ogni
evidenza che in quelle zone la bella
stagione non sarebbe durata a lungo,
e presto le tende sarebbero diventate
un problema serio per i senzatetto.
I friulani avevano lanciato ottimisticamente lo slogan “dalle tende alle
case”, sperando di poter presto ricostruire o riparare rapidamente – con
una forte dose di autosufficienza- le
proprie abitazioni, anche se i problemi
di ordine urbanistico ed il numero di
sfollati rendeva di difficile attuazione
questa ipotesi. La Regione Friuli sposò
comunque la tesi, e orgogliosamente
si assunse l’onere dell’impresa di realizzare i prefabbricati provvisori per
sostituire le tende. Sappiamo tuttavia
che quando la scelta di ricostruzione
riguarda la riparazione o la ricostruzione delle case esistenti secondo il
principio del “dove era e come era”,
i tempi non possono essere brevi, e
l’attività di ricostruzione non dura mai,
generalmente, meno di 10-12 anni, in
considerazione dei problemi urbanistici, della necessità di servizi e della
carenza di professionalità e di ditte
locali disponibili. Per la fase transitoria
e di reinsediamento, la Regione Friuli,
memore dell’esperienza siciliana di
otto anni prima, aveva scelto di realizzare case provvisorie prefabbricate
invece delle baracche. La differenza
tra le due soluzioni – oggi possiamo
apprezzarlo compiutamente dopo
le esperienze trascorse negli ultimi
decenni – è davvero enorme, quando
fosse per il solo fatto che un insediamento di case prefabbricate prevede la
presenza delle urbanizzazioni primarie
con servizi a rete sotterranei e impianti
di depurazione. Ai giorni nostri può
sembrare un fatto scontato, ma quarant’anni fa non lo era. In Friuli, questo
tipo di reinsediamento provvisorio
venne attuato -per la prima volta nella
EMERGENCIES
I friulani avevano lanciato ottimisticamente
lo slogan “dalle tende alle case”, sperando
di poter presto ricostruire o riparare rapidamente con una forte dose di autosufficienza le proprie abitazioni, anche se i problemi di ordine
urbanistico ed il numero di sfollati rendeva
di difficile attuazione questa ipotesi
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EMERGENCIES
EMERGENCIES
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Liberate i vostri strumenti più preziosi
conda scossa, il nuovo Presidente
del Consiglio Andreotti, in visita il 13
settembre alle zone colpite, venne
contestato pesantemente dalla folla.
Alla contestazione non era estranea
anche la tensione politica che andava
salendo, anche per l’arrivo in zona di
gruppi extraparlamentari e comitati
collettivi organizzati che fomentavano
la contestazione. Una delle principali
preoccupazioni per le istituzioni nazionali e locali, riguardava il numero
degli espatriati dopo il terremoto. Il
rischio di abbandono del territorio e di
un’emigrazione forzata e irreversibile
era forte. Dal mese di maggio, infatti,
erano già oltre ventimila i passaporti
rilasciati dalle province di Udine e
Pordenone, mentre era ormai fuori
controllo il numero degli emigrati in
altre zone d’Italia. Andreotti decise
allora immediatamente un nuovo commissariamento, con un proprio DPCM
del 13 settembre 1976, cui fece seguito il D.L. 18 settembre 1976 n. 648
che conferiva di nuovo a Zamberletti
poteri straordinari e facoltà di operare
in deroga. Andreotti volle così dare
un rinnovato impulso alle attività di
assistenza alle popolazioni disagiate.
La seconda scossa
La mattina del 15 settembre, la nuova
scossa distruttrice sorprese il neo
Commissario Zamberletti già all’opera,
in mezzo a una riunione che si stava
tenendo nella Prefettura di Udine,
convocata per organizzare l’esodo
programmato.
Questo secondo evento si verificò al
culmine di una crisi sismica di almeno
una settimana, in cui delle scosse di
notevole entità, a più riprese, avevano spaventato la popolazione, costringendola spesso a catapultarsi in
strada e in mezzo ai campi. La nuova
violentissima scossa, di magnitudo
6,1 Richter, buttò giù tutto quello che
restava in piedi del Friuli, comprese le
case ancora agibili e quelle appena
riparate. Si doveva dunque ricominciare da zero e, peggio ancora, dopo
Photo : A.Child
A.Child
Childeric
eric - Kalice
Kal
nostra storia- senza un precedente
che potesse far da guida. E proprio
per questo l’ottimismo regionale iniziale fu forse eccessivo. In assenza
purtroppo di procedure accelerate
e derogatorie che consentissero di
bruciare i tempi, i ritardi accumulati
dalla Regione Friuli nell’avvio delle
operazioni di costruzione dei villaggi
provvisori, portarono alla fine dell’estate e all’arrivo del primo freddo con
le attività appena all’inizio. La prefabbricazione leggera della Regione
Friuli, prevista in circa 9.000 alloggi,
non era in realtà riuscita a decollare.
Durante l’estate, soltanto le piccole
riparazioni alle case moderatamente
danneggiate erano stata assicurate
con solerzia dagli alpini impegnati in
emergenza. Giunti quasi alla fine della
bella stagione, i prefabbricati non solo
non erano pronti, ma erano ancora di
là da venire. Dunque, prima ancora che
la nuova grande scossa di settembre
precipitasse gli eventi, l’evacuazione
delle aree di accoglienza si rendeva
necessaria e inevitabile già dalla fine di
agosto, sia perché appariva temerario
restare in tenda con l’avvicinarsi della
brutta stagione, sia perché, in molti
casi, era proprio nelle aree occupate
dalle tendopoli che si doveva avviare la
realizzazione dei prefabbricati provvisori. E ovviamente, in quello che è uno
scenario classico e ripetitivo dei terremoti italiani, di fronte alla prospettiva
di un trasferimento fuori area causato
dagli evidenti ritardi, già alle prime
avvisaglie, la gente aveva manifestato
la sua reticenza a trasferirsi temendo
lo sradicamento e l’allontanamento
definitivo. Un fenomeno psicologico
inevitabile in tutte le vicende sismiche
importanti del nostro Paese.
Tra l’11 e il 12 settembre, nuove scosse avevano causato nuovi crolli, anche
tra le case già riparate dagli alpini. Il
morale dei vecchi e dei nuovi terremotati cominciò anch’esso a crollare, e
con questo anche la fiducia nelle istituzioni. Intanto il maltempo cominciava
ad imperversare, e la scontentezza e
il dissenso prese piede fra gli sfollati,
tanto che due giorni prima della se-
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EMERGENCIES
comuni ospitanti e del volontariato
locale. Con l’aiuto e la collaborazione spontanea delle amministrazioni
comunali interessate, i luoghi dove
organizzare il ricovero vennero chiamati “Dipartimenti Assistenziali” (D.A.),
presso i quali si trasferirono le comunità con i rispettivi Centri Operativi.
Questi ultimi, che erano stati programmati e istituiti fin dal 13 settembre,
furono:
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EMERGENCIES
40
i nuovi crolli il fabbisogno di prefabbricati risultava ora raddoppiato. A quel
punto, l’esodo verso il mare, che era
già nell’aria, diventava un imperativo
categorico. Da un punto di vista logistico, la distanza relativamente breve
e la facilità dei collegamenti permettevano il pendolarismo a chi voleva
riavviare la propria attività, ma anche
agli agricoltori ed agli operai, in modo
tale da non subire del tutto l’estraneità
dai luoghi d’origine. Inoltre l’imminenza
della chiusura della stagione estiva
avrebbe lasciato il patrimonio edilizio
turistico completamente inutilizzato,
e dunque nella piena disponibilità per
un utilizzo emergenziale.
Funzionari di prefettura vennero incaricati di prendere immediatamente
contatti con le istituzioni e con le organizzazioni di categoria della costa
per verificare numeri e disponibilità.
Dall’altra parte, i sindaci dei comuni
colpiti furono responsabilizzati per
convincere le proprie recalcitranti cittadinanze a lasciare le tende per recarsi
in hotel o nei residence. Dopo i primi
giorni, nonostante gli indubbi effetti
in termini di convincimento apportati
dalla nuova terribile scossa, i risultati dell’iniziativa di arretramento, a
un primo monitoraggio, si rivelavano
ancora parziali. Qualcuno resisteva,
nonostante lo sforzo di sindaci ormai
del tutto convinti e collaborativi. Ma
alla fine, a convincere davvero la gente
a lasciare le tende e a trasferirsi sulla
costa per quattro o cinque mesi – il
tempo stimato realisticamente per
la costruzione dei prefabbricati- più
ancora della scossa fu il maltempo.
Il freddo e la pioggia, cominciando a
imperversare, scoraggiarono definitivamente la resistenza della pur tenace
gente friulana, e l’esodo organizzato
con la saggia e paterna collaborazione dei sindaci, si tradusse, ora dopo
ora, in una vera e propria fuga verso
il mare con ogni mezzo. L’ospitalità,
nonostante l’arrivo e la sistemazione trafelati, venne garantita in modo
ordinato e non casuale, grazie all’organizzazione preventiva del personale
del commissariato e l’assistenza dei
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EMERGENCIES
Il primo spostamento di sfollati fu
organizzato dalla Sala Operativa del
Commissariato con mezzi civili per
le persone e con mezzi militari per il
trasporto delle masserizie.
Durante il pendolarismo, il problema
dei collegamenti tra la costa e l’entroterra (gli sfollati non autonomi venivano accompagnati gratuitamente ogni
giorno verso i luoghi di residenza nelle
zone terremotate) passò, a partire dal
1^ ottobre e fino alla fine dell’arretramento, dal Commissario al Servizio
Trasporti della Giunta Regionale. Il
trasporto di eventuali masserizie, invece, venne sempre assicurato dai
militari aggregati ai Centri Operativi
di riferimento. La parte più imponente
dell’esodo ebbe una durata di circa
quindici giorni, anche se i trasferimenti
continuarono fino alla fine di ottobre.
La punta massima raggiunta di sfollati sulla costa fu di 32.340 persone.
Lignano Sabbiadoro risultò il centro
interessato dal maggior numero di
ospiti, che arrivò a 19.370.
Le circa 15.000 persone che restarono
nelle zone terremotate per la necessità
di non interrompere le attività lavorative
o per scelta personale, furono sistemate in 5.200 roulottes acquistate,
requisite dalle Prefetture di tutta Italia
o ricevute in dono dal Commissario. Si
calcola peraltro che circa 3.000 persone abbiano continuato a soggiornare
in tenda nelle classiche aree sparse.
Queste situazioni furono lasciate alla
cura dei C.O.S. All’interno dell’operazione di trasferimento e sistemazione
alloggiativa, non mancarono momenti
di grave difficoltà. Infatti, la disponibilità
di alloggi reperiti grazie alla ricerca
effettuata subito prima della scossa
del 15 settembre, fu messa in crisi
dalla foga con la quale la gente a un
certo punto cominciò a riversarsi verso la costa. Gli sfollati affluivano con
ogni mezzo, e le richieste di alloggio
erano sempre maggiori a fronte di
una disponibilità ancora assai limitata.
Con l’impegno del Commissario al
pagamento del dovuto, si era fatto
appello alla disponibilità dei privati, ma
la solidarietà tardava a venire. Il Com-
I prezzi e le indennità erano modesti
grazie anche al piglio dei poteri commissariali. Poteri che si esercitavano proprio sul controllo dei prezzi in
crescita: tanto che con un’ordinanza
del 17 settembre, su mandato del
Commissario, il Prefetto di Udine - Vice
Commissario Dr. Spaziante, bloccò i prezzi incardinandoli ai livelli del
maggio 1976, mentre, con un’altra
dell’8 ottobre creò una commissione
di controllo dei prezzi sulla base di un
paniere dettagliato.
L’unità e la coesione delle comunità
territoriali vennero conservate trasferendo interi paesi in una stessa località
(con minime eccezioni legate a locali
fenomeni di “overbooking”), compresi
i servizi comunali e le scuole. Se gli
anziani trovavano posto negli alberghi,
le famiglie andarono a occupare le
case sfitte o i residence di proprietà
di agenzie e turisti, dietro impegno
del Commissario verso i proprietari
di pagare alla fine dell’emergenza
sia l’affitto che i danni eventuali. Per i
capifamiglia che dovevano restare in
zona, il Commissario requisì roulottes in tutta Italia. I Dipartimenti Assistenziali dovettero prendere in carico
diversi aspetti della vita comunitaria
lì ricostituitasi temporaneamente: da
quello medico-sanitario (vaccinazioni,
controlli igienici, distribuzione medicinali e apertura di farmacie); a quello
scolastico, che vide ben 3.584 alunni
tornare a scuola in 196 aule appositamente formate (elementari e medie
l’11 ottobre, la materna il 17 novembre
per problemi di reperimento di plessi e
aule); a quello dell’assistenza sociale
e a quello dei sussidi e dei contributi
economici commissariali.
A partire dall’inizio di ottobre cominciarono gradualmente i primi rientri, in
coincidenza con la consegna dei primi
prefabbricati previsti dall’originario
piano regionale. I nomi degli assegnatari venivano comunicati dalla Sala
Operativa Generale ai Dipartimenti
assistenziali, dopo di che la famiglia
interessata aveva una settimana di
tempo per verificare l’agibilità dell’alloggio e preparare il rientro.
La previsione di una permanenza
massima di sei mesi sulla costa o in
montagna teneva conto ovviamente
della presunta durata dei lavori di
prefabbricazione sia del primo piano
regionale (novemila alloggi) che del
secondo piano commissariale integrativo (altri diecimila prefabbricati)
resosi necessario dopo la scossa
di settembre. Il 31 marzo 1977 fu la
data limite imposta, e più volte ribadita
pubblicamente dal Commissario in
modo da tranquillizzare gli operatori
del turismo, per il rientro degli sfollati.
Alcuni ritardi nelle consegne (e quindi
nei rientri) derivarono qua e là dagli
aggiustamenti apportati dai sindaci
alla prefabbricazione pianificata, a
causa dei rientri di emigrati che se ne
erano andati dopo il sisma di maggio,
e che rientravano ora in regione contando sull’assistenza commissariale e
sull’assegnazione sicura di un alloggio:
ciò che costringeva le amministrazioni
locali a correggere in corsa la programmazione delle opere. Il piano di
sgombero e arretramento dalle zone
colpite e di ospitalità nei centri balneari
restò in vigore ufficialmente fino al
mese di aprile 1977; mentre venivano
approntate le aree di insediamento
provvisorio dei prefabbricati, fu intanto
definito un piano di recupero edilizio
per le case che avevano subito danni
minori. Ed effettivamente, l’operazione
di arretramento della popolazione, con
qualche strascico legato alla consegna
ritardata di alcuni prefabbricati, andò
avanti fino all’aprile 1977. Al 1^ aprile
1977 si trovavano sul mare ancora
4814 persone, un numero che può
far considerare felicemente conclusa
l’operazione senza conseguenze per
i comuni ospitanti e per le loro attività
economiche.
Oltre che alla gradualità delle consegne dei prefabbricati, ulteriori strascichi nel rientro che si protrarrà in pratica
fino a metà maggio, furono legati
anche all’esigenza di alcune famiglie
di far terminare l’anno scolastico ai
figli nelle località di ospitalità, e che
quindi, pur avendo ricevuto l’alloggio
prefabbricato, tentavano di conser-
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42
S.Cividale al Tagliamento) e Caorle,
che accolsero la comunità di San
Daniele del Friuli;
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che accolse i comuni di Gemona,
Osoppo con l’aggiunta di Pinzano al
Tagliamento;
t%JQBSUJNFOUPEJ+FTPMPDIFBDDPMTF
il C.O. di Meduno con esclusione di
Pinzano;
t%JQBSUJNFOUPEJ(SBEPDIFBDDPMTF
i Centri Operativi di Cividale, Tarcento
e Resiutta.
t%JQBSUJNFOUPEJ3BWBTDMFUUPJTUJUVito il 22 settembre, che con gli altri
centri dell’Alta Carnia (Forni Avoltri,
Forni di Sopra e Rigolato), raccolse
le popolazioni della zona industriale
del Tolmezzino.
I Dipartimenti Assistenziali erano organi concettualmente e strutturalmente
simili ai Centri Operativi di Settore
(C.O.S.), anche se nei Dipartimenti
erano maggiore il peso e il ruolo degli
Enti Locali ospitanti e delle delegazioni
di quelli terremotati che lì si trasferivano
provvisoriamente.
missario attivò quindi il meccanismo
della requisizione, che venne posto in
essere solo per i residence e le seconde case, mentre non riguardò gli hotel
né i villaggi turistici o i campeggi. Il 24
settembre il Commissario dispose la
requisizione in uso fino al 31.3.1977
(termine entro il quale avrebbe dovuto
concludersi l’esodo) di tutti gli “alloggi
non abitati, arredati o non arredati,
e comunque non già occupati da
famiglie sfollate dei comuni sinistrati”.
Quanto alla procedura di requisizione,
i sindaci ospitanti della costa vennero
responsabilizzati per la ricerca degli alloggi e per garantire la pubblicizzazione
del provvedimento, ma il Commissario
prese su di sé tutta la responsabilità
nei confronti dei privati proprietari, che
in massima parte erano comunque
non residenti. I quali, restii a subire
la requisizione, tentarono l’occupazione fittizia degli appartamenti, a cui
il Commissario rispose modificando
l’Ordinanza: si requisivano adesso
tutti gli “alloggi anche non arredati,
non abitati da persone residenti nel
comune di ubicazione dell’alloggio e
non già occupati da famiglie sfollate
dei comuni sinistrati”.
Dal punto di vista della resistenza alla
concessione dell’uso degli alloggi, i
maggiori problemi si verificarono a
Grado, dove il sindaco dovette occupare di frequente gli alloggi in modo
forzoso, mentre a Lignano, Caorle e
Bibione non si rese mai necessario l’ingresso con l’ausilio della forza pubblica. A Ravascletto, che invece è località
turistica invernale, si verificarono gli
stessi problemi di Grado. Anche qui, si
scelse di sacrificare le seconde case,
mentre provvedimenti di requisizione
non riguardarono gli alberghi, al fine
di salvaguardare l’economia locale.
L’indennità di occupazione degli
appartamenti fu fissata in 9.000 lire
mensili per ogni vano utile; mentre
la retta alberghiera (scelta preferita
per il ricovero gli anziani) fu fissata in
lire 5.000 giornaliera. Sempre per gli
anziani, il “Villaggio Marzotto” di Jesolo
fu attrezzato ad ospitarne 500 non
autosufficienti.
43
Busines
Managems Process
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m
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44
vare anche l’appartamento sul mare
come “alloggio di riserva”. Altri ritardi
furono legati esclusivamente a casi di
persone anziane, in particolare non
autosufficienti, che ebbero difficoltà
a rientrare nei tempi previsti.
Da allora in poi, la ricostruzione friulana, dal punto di vista legislativo e di
indirizzo, fu caratterizzata da un forte
decentramento delle responsabilità a
favore della regione e degli enti locali,
comuni in primis; e questa fu una
novità nel campo della gestione delle
ricostruzioni, visto che da qualche
anno erano state istituite le regioni, ed
il Friuli Venezia Giulia godeva anche dei
privilegi di regione a statuto speciale.
Se è possibile stabilire paragoni, rispetto all’esperienza negativa del
Belice, diversi furono i fattori che influenzarono positivamente la gestione
emergenziale e del reinsediamento del
Friuli. In sintesi:
tMBDDBEJNFOUPEFMTJTNBJOVONPmento favorevole della stagione;
t MB DPTQJDVB QSFTFO[B NJMJUBSF
nell’area;
tMBQSFTFO[BEJCVPOFWJFEJDPNVnicazione;
tJMSVPMPEJ6EJOFMBDJUUËDBQPMVPHP
di regione, che non fu colpita;
t MB QSFTFO[B TVMMB OPO MPOUBOB DPsta adriatica, di strutture turistico
- ricettive, e conseguentemente la
disponibilità immediata di numerosi
posti letto per ospitare i senzatetto
(un’opportunità, quest’ultima, valorizzata fortemente anche in occasione
dell’emergenza abruzzese del 2009).
Quanto alla ricostruzione, in cinque
anni la metà dei senzatetto ebbe già
una sistemazione definitiva (39mila su
!"Il Friuli ringrazia e non dimentica", una frase diventata mito che i terremotati
scrivevano sui muri delle case distrutte
80mila); nel 1985, invece, i senzatetto
ospitati nei prefabbricati erano circa
20mila, di cui alcuni erano occupanti
senza titolo. La ricostruzione, quindi,
era andata avanti abbastanza velocemente, favorita dal decentramento
delle decisioni e dal fatto che la responsabilità era in gran parte affidata
ai comuni, in modo tale da favorire
scelte idonee caso per caso e controllabili dalla popolazione, che impostò
la ricostruzione sulla volontà del fare
“di bessoi”, da soli. Inoltre, la relativa
omogeneità del territorio permise una
gestione migliore della pianificazione.
In Friuli tutte le risorse, compresi i risparmi privati, furono convogliati verso
la ricostruzione abitativa lasciando
poco spazio alle opportunità di speculazione. Alla luce dei fatti, quella
del Friuli resta dunque ancora oggi la
più riuscita iniziativa di superamento
dell’emergenza e di ricostruzione post
sisma del nostro dopoguerra.
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