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Faremo e ricorderemo

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Faremo e ricorderemo
N° 2 - FEBBRAIO 2015 - SHEVAT 5775 • ANNO XLVIII - CONTIENE I.P. E I.R. - Una copia € 6,00 Poste Italiane S.p.A. Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 1 Roma
ITALIA
FRANCIA
ARGENTINA
ANCHE LA SATIRA
HA DEI LIMITI
FUGA
DEGLI EBREI
RELAZIONI PERICOLOSE
CON L'IRAN
‫בס’’ד‬
SHALOM‫שלום‬
EBRAISMO INFORMAZIONE CULTURA
Faremo e ricorderemo
A 70 anni dalla liberazione di Auschwitz:
ricordare l’antisemitismo di ieri, combattendo quello di oggi
Hollywood e la Bibbia
FOCUS
EDITORIALE
Nei luoghi della Memoria,
per una Memoria senza luoghi
La Comunità ebraica
romana commossa
dalle parole del
Presidente Mattarella
A
70 anni dalla liberazione dei
campi di sterminio nazisti,
il numero dei testimoni e
dei sopravvissuti si
affievolisce ogni giorno di più. E'
normale che sia così, 'una generazione
viene, una generazione va'. Preziose
perciò, ancora di più, sono le loro
parole; ed in questi ultimi anni molti
degli ex deportati si sono sottoposti a
faticosi e traumatici ritorni nei campi
di sterminio per raccontare ai giovani
cosa fu la persecuzione degli ebrei e
dei rom. Su quei luoghi di morte e di
barbarie, le parole rotte dal pianto dei
testimoni inebetiscono gli ascoltatori,
rompono l'indifferenza dei giovani,
costruiscono un ponte consegnando
alle nuove generazioni la
responsabilità di tramandare e
raccontare a loro volta.
Tutti abbiamo la consapevolezza che il
prossimo decennale dell'apertura dei
cancelli di Auschwitz (l'ottantennale si
celebrerà nel 2025), sarà diverso; vedrà
un ruolo molto più marginale dei
testimoni, il cui numero si sarà
ulteriormente affievolito.
La grande responsabilità che l'umanità
dovrà raccogliere sarà quella di
proseguire la testimonianza senza i
testimoni, ma la sfida più importante
sarà quella di non banalizzare il ricordo,
portando il racconto da un semplice
livello di narrazione in pathos, in
suggestione. Oggi questo è possibile
perché Sami Modiano, le sorelle Bucci,
Piero Terracina, Nedo Fiano e tanti altri
non parlano della Shoah in generale,
come un evento meta-storico, ma
raccontano le loro piccole e grandi
'storie' familiari, i loro affetti, i legami
d'amore brutalmente spezzati. Non
descrivono la sofferenza dei prigionieri,
ma raccontano il dolore che loro stessi
hanno provato, le umiliazioni che loro
stessi hanno dovuto subire. Solo così la
Shoah può essere compresa, la cui
percezione complessiva - per l'enormità
dei morti prodotti - sfugge all'uomo
comune. E' un concetto espresso da una
celebre frase, attribuita a Stalin: “La
morte di un uomo è una tragedia, la
morte di milioni è statistica”.
Se è impossibile poter raccontare sei
milioni di tragedie (di cui un milione e
mezzo di bambini trucidati), è doveroso
però non cedere alla tentazione
semplificante di raccontare la Shoah in
termini puramente storiografici. Visitare
quei luoghi, recarsi nei campi è
fondamentale per una buona didattica,
ed è motivo di orgoglio per il nostro
Paese che il Ministero dell'istruzione
abbia rinnovato il memorandum d'intesa
con l'Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane per continuare a promuovere i
Viaggi della Memoria per le scuole
italiane.
Ma solo una parte degli studenti va ad
Auschwitz. Perché la Memoria entri a
pieno titolo nel bagaglio formativo dei
futuri studenti, è necessario portare
Auschwitz qui. E' necessario avere
luoghi in Italia dove proseguire il
racconto della Shoah, ricordando le
storie dei singoli, i loro volti, i loro nomi.
Milano ha da alcuni anni il Memoriale
'Binario 21'. Roma quando avrà il Museo
della Shoah?
‘’Abbiamo ascoltato commossi le parole
del presidente della Repubblica Sergio
Mattarella nel suo discorso d’insediamento alla Camera dei Deputati. Condividiamo ogni minimo passaggio: la maggiore attenzione che l’Italia deve alle
comunità straniere, la valorizzazione
delle diversità, il ricordo di chi 70 anni fa
ha lottato contro il nazi-fascismo, la lotta
alla mafia come priorità assoluta, la
minaccia del terrorismo internazionale, i
singoli valori che fanno della nostra Carta
Costituzionale il fondamentale strumento
di democrazia”. Lo dichiara il presidente
della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici.
“Nel suo profondo pensiero guardando
dall’alto del suo ruolo il nostro Paese ha
voluto citare anche la tragedia che ha
colpito la nostra Comunità, segnata dal
terrorismo palestinese già il 9 ottobre del
1982 davanti al Tempio Maggiore di
Roma - sottolinea Pacifici - Il Capo dello
Stato ha nominato il piccolo Stefano Gay
Taché, ‘un nostro bambino, un bambino
italiano’, assassinato barbaramente in
quel vile attentato e così facendo ci ha
abbracciati condividendo con tutti noi un
dolore che non potremo mai estirpare. Io
sono figlio di quell’attentato. Mio padre è
stato ferito in quell’attacco come molti
altri ebrei romani scampati miracolosamente alla morte”.
“Il gesto del Presidente della Repubblica
riempie il cuore di speranza degli ebrei
romani e italiani - conclude. - La famiglia
di Stefano, i genitori e il fratello, vogliono
a loro volta abbracciare il Presidente e
immaginare che una volta per tutte il
nome di Stefano venga inserito nell’elenco delle vittime del terrorismo in Italia.
Per questo tale abbraccio non vuole rimanere solo una metafora. I genitori e il
fratello di Stefano vorrebbero abbracciare
di persona il Capo dello Stato nelle modalità che riterrà opportune, compresa la
possibilità di trovarsi insieme davanti
alla lapide fuori della grande sinagoga a
Roma, in Largo Stefano Gay Taché’’.
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
Ora occorre inserire
Stefano Gay Taché
tra le vittime
del terrorismo
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COPERTINA
La “basic law” dello Stato di Israele
che scandalizza il mondo
Troppe polemiche attorno al disegno di legge che vuole riconoscere
allo Stato ebraico una verità ribadita in ogni altra democrazia:
lo Stato nazionale è legittima espressione del popolo.
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
“L
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o stato di Israele è democratico, basato sulle fondamenta della libertà, della giustizia e della pace
nella visione dei profeti di Israele e sostiene i diritti individuali di tutti i suoi cittadini secondo la legge”. Questo è l’inizio della proposta di legge che dovrebbe alla
fine riconoscere Israele come lo Stato nazione del popolo ebraico.
Non sembra minacciosa verso la democrazia come invece si sono
affrettati a gridare i commentatori che non l’hanno nemmeno
letta. E’ veramente notevole quante critiche e malumori abbia
sollevato il fatto che il Parlamento israeliano abbia discusso il disegno che stabilirà, una volta
approvato, che Israele è lo Stato nazionale del Popolo ebraico. Una verità auto-evidente, e
che non sottrae nessun diritto
alle minoranze, come non sottrae questo diritto il fatto che
gli Stati Uniti siano la nazione
del popolo americano.
Cos’è che dà tanta noia all’opinione pubblica internazionale,
che cosa spinge a credere che
un fondamento legislativo di
questo tipo possa trasformarsi in razzismo e in discriminazione? Non è l’Italia lo Stato
del popolo italiano? Ciascuna
nazione, non è la nazione del
popolo che risiede con motivazioni storiche, culturali e, perbacco, talora persino religiose all’interno dei suoi confini, senza che
questo significhi deturpare i diritti delle minoranze al suo interno? Perché immediatamente si è sospettato il governo israeliano,
che così tanti amano odiare, di volere brandire una mannaia nei
confronti delle religioni non ebraiche e verso le altre etnie? Dove
si trova la traccia che questo possa accadere? Non nella storia di
questo paese, che ha rispettato tutte le differenze, e non nelle
parole del disegno di legge che sarà quello maggioritario, ovvero
quello già approvato dal Gabinetto. Forse che non è chiaro, anzi
sicuramente non è chiaro neppure ai nostri amici una volta per
tutte, anche se è stato rimarcato tante volte, che il popolo ebraico
è appunto un popolo e che l’ebraismo non è una religione solamente. Moltissimi paesi occidentali, spiegano i costituzionalisti,
definiscono il tema della appartenenza della terra al suo popolo
in modo spesso molto più determinato di quanto non faccia la
“basic law” ancora non votata alla Camera di Israele; e nessuno,
fra i commentatori del New York Times o di Ha’aretz, sembra
sapere che ci sono tre disegni di legge da mettere a confronto e
nessuno dice, scegliendo di riportare la versione più dura, che
l’opzione più probabile è invece che sia la versione più morbida a
moderata quella destinata a diventare legge.
Sarebbe così bello che, una volta tanto nel giudizio verso Israele,
invece di cercare il difetto, l’opinione pubblica cercasse di vedere
la verità: e la verità è che la legge stabilirà semplicemente quello
che ognuno sa e vede e che è naturale anche per qualsiasi altro
popolo in qualsiasi altra nazione.
Israele è lo Stato del popolo ebraico, la sua epica storia è costruita
per ritrovare la patria degli ebrei da mani ebraiche, come noi italiani abbiamo avuto il nostro risorgimento e la nostra resistenza,
così il popolo ebraico ha avuto i suoi momenti di identificazione
nella storia contemporanea come nel passato, e le ragioni storiche
e fattuali sono così forti, i sacrifici e l’eroismo nell’autodeterminazione, principio fondamentale della nostra epoca, così evidenti
che davvero non dovrebbe saltare per la testa a nessuno di metterli in discussione. Anche chi mette al primo posto la difesa dei
diritti delle minoranze, e questo è un diritto incontrovertibile e
anche importante, deve informarsi meglio: prima di tutto, tutte
le versioni più estreme, quelle
che potevano essere sospettate
di discriminazione sono già cadute, anche se molti giornali di
questo non tengono conto e seguitano a citarle, e il Gabinetto
le ha già cancellate.
La base della legge proposta
dal governo è composta di 14
punti e dice: “La terra d’Israele
è la patria del popolo ebraico
e il luogo di nascita dello Stato”; poi si parla dell’inno “Hatikva”, successivamente dei
diritto al ritorno che è esteso a
ogni ebreo, poi della necessità
di stringere rapporti con la diaspora e con gli ebrei in difficoltà
nel mondo, dell’educazione e non della religione, e quando si arriva a parlare della religione si dice che qualsiasi membro di altre
religioni avrà il diritto di osservare le sue feste e il suo culto, così
come i luoghi santi resteranno nelle mani delle varie religioni.
Libertà, giustizia, integrità, pace sono i principi citati come tipici di Israele nel disegno preferito, e non c’è nessuna traccia
di principi discriminatori, anche se si possono trovare invece in
altri progetti di legge. Il principio dell’uguaglianza, che non viene
citato espressamente per evitare le reazioni degli ortodossi, appare chiaramente nel richiamo alla dichiarazione di Indipendenza dal momento che la legge incorpora la dichiarazione del 1948
come fu redatta e letta da David Ben Gurion stesso. “In questi
giorni in cui si scrivono varie leggi sulla nazionalità… non deve
esserci spazio per discriminazioni verso gruppi dentro la società
israeliana… e (occorre) santificare i principi di eguaglianza su cui
la dichiarazione di indipendenza è basata…”.
La prefazione, fatta di cinque frasi, menziona la parola eguaglianza cinque volte. Molti altri punti del progetto che sarà probabilmente quello prescelto ne parlano. I principi discriminatori che
erano contenuti nelle proposte di destra, sono stati scavalcati dalla decisione politica per cui la legge dovrà essere sponsorizzata
dal governo, e Netanyahu dovrà dare la sua approvazione. Certo,
chi ama odiare Bibi seguiterà ad odiarla, la propaganda internazionale continuerà a bombardare, ma ogni persona di buon senso
leggerà il testo e vedrà che arabi, beduini, armeni, circassi, eccetera, seguiteranno a godere di una protezione completa di tutti i
loro diritti civili e culturali.
Invece, come è noto, oltre a una piattaforma nettamente nazio-
nalista, gli arabi palestinesi hanno decisamente
adottato una piattaforma
nazionalista discriminatoria nei confronti degli
ebrei e pretendono un carattere totalmente, esclusivamente, arabo del loro
stato. La Carta nazionale
palestinese dice “La Palestina è la patria del popolo
arabo palestinese, è parte
indivisibile della patria
araba e i palestinesi sono
parte integrante della
nazione araba”. Sembra
a qualcuno che qui ci sia
posto per una minoranza,
tanto più per la larga minoranza israeliana che si produrrebbe se
ci fossero distacchi territoriali notevoli nelle mani dei palestinesi
per formare uno stato palestinese, ovvero se gli insediamenti finissero in mano palestinese?
Chi avesse qualche speranza, può rileggersi i discorsi di Abu Mazen che ha dichiarato più
volte che non vuole vedere l’ombra di un ebreo
all’interno dei suoi territori
quando esisterà lo Stato
palestinese. E’ pura cultura dell’odio come quella
che santifica i terroristi e
dà i loro nomi alle piazze
palestinesi, quindi non ci
riguarda, non con questa
ci confrontiamo.
Ci riguarda molto di più
invece il punto politico
della necessità di dichiarare chiaro e tondo che
Israele, Stato ebraico, proprio per questo non sarà mai un Paese
discriminatorio nei confronti delle minoranze e che quando Abu
Mazen dice che non riconoscerà mai Israele come stato ebrai-
co, mesta nel torbido:
cerca infatti di alimentare la confusione che crea
nebbia quando si pensa
all’ebraismo come religione e non come radice
eterna della vita di un
popolo variegato e molto
diversificato al suo interno, in parte religioso in
parte non religioso. Se la
legge confermerà che gli
autobus non circolino di
sabato, sarà più o meno
la stessa scelta che stabilisce in Italia che la domenica sia festa, o che sia
festa nazionale il Natale.
Un popolo può, anzi deve riconoscere la sua radice, la sua natura,
i valori per cui vive e muore, specialmente se, come Israele, ogni
giorno di fatto deve difenderli da un attacco discriminatorio e
violento. Deve affermare di fronte all’interlocutore che ha giurato di non riconoscerti mai per quello che sei la sua identità,
soprattutto perché è del
tutto evidente che dietro
il rifiuto di Abu Mazen si
nasconde (a malapena) il
progetto del diritto al ritorno indiscriminato e alla
fine al piano di sommergere il popolo ebraico in
uno stato binazionale che
diventi poi solo arabo.
Israele è lo Stato del Popolo ebraico, e proteggerà
come nessun altro i diritti
delle minoranze. Il resto è
solo una favoletta. Inoltre
se c’è un modo di tornare
a colloqui di pace, esso è legato alla definizione chiara delle parti.
Il popolo ebraico è una di queste parti.
FIAMMA NIRENSTEIN
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‫ארגון רומאי חברים של ישראל‬
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Se lo vorrete non sarà un sogno
da Yom HaShoah a Yom HaAzmaut
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FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
PRESENTA
5
EUROPA
Paghiamo con il sangue il nostro diritto a vivere
È successo negli anni della Shoah
e si ripete anche in questo difficile momento storico
D
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
evo confessarlo: di fronte alle
notizie del terrorismo islamico giorno dopo giorno, anno dopo
anno - ho provato paura, spesso
un senso di lutto profondo, dei punti di
vera disperazione, rabbia, tristezza, anche
odio. Ma raramente mi è capitato di meravigliarmi. Che producessero terrorismo efferato società primitive e selvagge, che
usano anche al loro interno una violenza
senza limiti, mi è sempre
sembrato tragicamente ovvio, orribilmente coerente
con la loro identità. Atroce,
doloroso, intollerabile, moralmente abbietto - ma purtroppo scontato. E che fosse
contro di noi che innanzitutto portavano il loro terrorismo, che fossero i nostri
bambini, i nostri anziani, le
nostre donne, le nostre scuole, le sinagoghe, insomma, il
popolo ebraico, mi è sembrato ancor più orribile e pauroso ma altrettanto scontato.
L’idea che degli esseri inferiori, come ci considerano
dai tempi di Maometto, alludendo a noi con disprezzo
cinque volte al giorno nelle loro preghiere,
dei servi, dei nemici di Maometto, graziati
solo se accettavano ostensibilmente una
condizione servile in tutti i momenti della
loro vita pubblica e privata, si ribellassero,
ritornassero nella loro antica casa e pretendessero di governarla, anche se annessa da tempo al territorio dell’Islam... be’,
questo deve sembrare loro un affronto in-
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tollerabile, un’onta da lavare col sangue.
Che fossimo sopravvissuti alle molte guerre che ci hanno dichiarato, che avessimo
distrutto in pochi e senza aiuti, le loro
massicce armate, il loro terrorismo, il ricatto del petrolio... questo è un’offesa insopportabile al loro senso dell’onore.
In una cultura in cui i conflitti si risolvono
col sangue, quelli religiosi come quelli tribali, interetnici, dinastici o politici, è chia-
ro che l’insulto della nostra sopravvivenza
non possa che generare il terrorismo più
cruento, il più vile, il più privo di pietà
umana e di rispetto per i non combattenti.
Insomma, per il terrorismo mi indigno,
cerco nei limiti delle mie possibilità di
combatterlo, ne porto il lutto quando riesce a uccidere e a ferire, ancor di più
quando lo fa con bambini, donne, vecchi,
passanti indifesi. Ma non riesco a sorprendermene, lo trovo dolorosamente
prevedibile come i mali della vita, non ne
riesco anzi a immaginarne il termine possibile nel tempo della vita prevedibile. E
quindi non mi sento tradito quando accade. Attaccato sì, violato, ferito, ma non
tradito. So che non possiamo aspettarci
da quella parte altro che morte, salvo per
chi se ne dissocia, capisce che è una strada senza uscita, cerca di
cambiare questo destino
terribile, che porta alla rovina anche gli arabi prigionieri della loro volontà di vendetta contro la nostra vita.
Ancora: non mi sento tradito
dai paesi ex comunisti asiatici, africani, che danno un
appoggio più o meno effettivo alle iniziative diplomatiche contro Israele. Si tratta
di vecchi schieramenti, che
scattano con una specie di
automatismo: il “Terzo Mondo” insieme agli ex “Paesi
Socialisti” contro l’Occidente. Che Israele non sia più
appoggiato dall’Europa né
dall’amministrazione Obama
non importa, esso è considerato automaticamente l’avanguardia dell’imperialismo
americano, la terra del colonialismo eccetera eccetera. Amareggia naturalmente
che ci sia un antisemitismo in luoghi dove
non c’è mai stata una presenza ebraica se
non limitatissima, come in Cina e in India;
ma si tratta di posizioni politiche, che possono cambiare. E in effetti sembra che
Dopo il trauma tragico dello sterminio, che
non è stato solo nazista, ma ha visto la
partecipazione massiccia di governi e di
popoli in Germania ma anche in Francia, in
Italia, in tutto l’Est, gli ebrei hanno di nuovo ricucito la trama di un’integrazione coi
loro paesi, appoggiando allo stesso tempo
e favorendo la nascita e lo sviluppo di Israele. Israele non è nato come compensazione alla Shoà, ma certamente è una garanzia contro la sua ripetizione, è la realizzazione di un sogno millenario che diventa
urgenza politica alla fine dell’Ottocento
sotto la spinta della persecuzione e dell’oscura ma indubitabile pulsione europea a
liberarsi dei suoi ebrei.
Forse io mi sono illuso con la mia genera-
zione che l’Europa avesse imparato la lezione che essa stessa si è data con la Shoà.
Forse ho fatto male, con la mia generazione a trattare la Shoà come una cosa conclusa, frutto di un tempo finito, un errore
confessato e concluso. Oggi l’Europa tradisce ancora. Non protegge adeguatamente
gli ebrei che sono rimasti sul suo territorio,
che sono oggetto di attentati continui, di
minacce, di boicottaggi. E osteggia aperta-
mente Israele, col pretesto del tutto inattendibile sul piano della realtà di favorire
improbabili trattative di pace - che nella
strategia palestinese sono solo forme di
guerra sviluppata con mezzi diplomatici.
L’Europa non tiene conto di come le sue
azioni, i voti dei suoi parlamenti, le sue
posizioni all’Onu abbiano l’effetto pratico
di mettere ancora in pericolo la vita individuale e collettiva degli ebrei. Non le importa, non se ne sente responsabile. Volentieri scarica sulla testa del popolo ebraico il
costo del suo colonialismo, la responsabilità dei suoi rapporti interni con l’immigrazione ed esterni con il mondo musulmano.
E’ un terzo tradimento, che sorprende e
amareggia. Che i paesi islamici presentino
all’Onu mozioni che puntano
alla distruzione di Israele sotto
la finzione della pace, non meraviglia. E non meraviglia neanche che cerchino di criminalizzare l’autodifesa israeliana
dalle minacce terroristiche
usando la Corte Penale Internazionale. Era previsto dalla sua
costituzione, con l’avvertenza
che anche in questo Israele
sarà solo il primo obiettivo e
seguiranno Usa, Gran Bretagna, Francia. Che buona parte
delle nazioni del Terzo Mondo
si allinei è sgradevole ma fa
parte delle costanti del gioco
politico. Che l’Europa rifiuti di
appoggiare Israele e si erga
come una terza parte che lo
giudica e in sostanza collabora per la sua
distruzione, questo sì, amareggia e sorprende.
UGO VOLLI
Nella pagina a fianco: Germania 1933 "con
lo Sturmer (giornale antisemita) contro gli
ebrei. Gli ebrei sono la nostra disgrazia"
In questa pagina: Inghilterra 2011 "Israele i
tuoi giorni sono contati. Per la pace nel
mondo Israele deve essere distrutta"
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
l’India uscirà dallo schieramento anti-israeliano all’Onu; con la Cina e il Giappone ci
sono processi di avvicinamento economico
e commerciale. Perfino con la Russia, che
pure è lo sponsor politico e militare dell’Iran e di Assad, ci sono dei discorsi aperti.
Ma resta la logica di schieramento.
Di loro non mi sorprendo. Mi meraviglio
invece, mi sento profondamente tradito
dall’Occidente, dall’Europa, da una certa
“intelligenza” americana, dalla sinistra
europea e italiana, e anche da quella sudamericana, che in questo ha fatto da battistrada all’Europa.
L’Europa ha visto la Shoà, anzi l’ha commessa. L’Occidente ha giurato molte volte
che non si sarebbe ripetuta, ha aperto
musei della Shoà e dell’ebraismo.
Tutti i paesi hanno avuto le testimonianze, i sopravvissuti, si sono commossi ai libri e ai film.
Sono stati spesso il teatro di piccolo o grande terrorismo antiebraico. Di più: il loro passato integra profondamente la storia
della diaspora ebraica e conosce
in maniera diretta (l’Europa) o
indiretta (Usa e America latina) i
molti secoli di persecuzioni inflitti agli ebrei.
Sono passati poco più di due secoli da quando la Francia ha iniziato il processo di emancipazione degli ebrei, che poi si è diffuso nel resto del continente, in
Italia (1848-61) in Germania (concluso solo negli anni Settanta del
Novecento) eccetera.
L’Europa ha promesso nell’Ottocento integrazione al popolo ebraico, che si è generosamente identificato con i paesi in cui
abitavano, ha partecipato in maniera eminente alla loro modernizzazione, alle battaglie politiche, perfino alle guerre, e poi l’ha
tradito con pogrom, con discriminazioni,
con umiliazioni come il caso Drayfus e poi
con la Shoà.
7
EUROPA
Davanti al fondamentalismo
islamico, quanta retorica,
quanta confusione mentale
Troppe giustificazioni, distinguo
e scarsa capacità di analisi persino
da chi non te lo saresti aspettato, dal Papa
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
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8
assata la sbornia del «Je suis Charlie» era purtroppo
inevitabile che riemergesse lo sfilacciamento (per non
dir peggio) del fronte che dovrebbe contrastare la
minaccia del fondamentalismo islamico. Troppi sono
stati i casi di scuole francesi in cui ci si è rifiutati di osservare un
minuto di silenzio in onore delle vittime e sono venuti fuori i
soliti arnesi a spiegare che tutto è stato una montatura messa in
piedi dalla Cia e dal Mossad. Tuttavia, anche volendo non dare
troppa importanza a questa controinformazione demenziale (il
che sarebbe un errore, visto come
inquinò le menti di tante persone
dopo l’attacco alle torri gemelle
di New York), è assai inquietante
il livello di confusione che circola
anche ai livelli più elevati della
politica e delle autorità religiose.
Papa Francesco ha dichiarato che
la violenza in nome della religione e di Dio è inaccettabile ma è
altresì inaccettabile l’offesa della
fede altrui, e se uno insulta la
mamma è del tutto naturale assestargli un pugno. Forse si potrebbe sorvolare su questo episodio,
visto che da varie parti è stato
derubricato a “scherzo”, ma colpisce assai che questo sia l’unico
caso in cui sia venuta meno la tenace adesione al principio
dell’accettazione dello “schiaffo sull’altra guancia”. Quando, in
precedenti occasioni, il Papa ha predicato la necessità di fermare
il fondamentalismo ha precisato con chiarezza che questo non
doveva comunque essere fatto con la forza (come, non si capisce
bene, ma questa è un’altra faccenda); e quando ha deprecato le
stragi di cristiani, la vendita come schiave delle donne cristiane
messe in gabbia, non si è mai sognato di dire, neanche per
scherzo, che bisognasse tirare qualche pugno contro simili
obbrobri. Dunque, è soltanto l’estremismo islamista che è gratificato di una comprensione che sconfina nella giustificazione
degli attentati?
Ma la confusione mentale dilaga a livelli apparentemente più
innocui – apparentemente, perché nei frangenti in cui siamo di
logomachia si muore. Ci si divide tra chi dice che gli attentati
francesi sono forme di terrorismo e chi dice che sono episodi di
vera e propria guerra all’occidente. No – replicano altri – è guerra civile perché le persone coinvolte sono cittadini francesi (o di
altri paesi europei) anche di seconda generazione. Una simile
osservazione è assai fondata ma bisognerebbe trarne le conseguenze tra cui due principali.
La prima è che la situazione è di gran lunga più grave di quanto
sarebbe se si trattasse soltanto di attacchi terroristici o bellici
del tutto esterni a una società compatta nel difendere i suoi principi di convivenza, mentre questo manifesta un livello di sfilacciamento e di disgregazione dei progetti di integrazione dell’immigrazione – fallimento che ha prodotto in forme diverse ma
analoghe nei diversi paesi europei segmenti comunitaristi isolati che mirano a difendere l’autonomia dei propri principi di con-
vivenza (la sharia, in particolare), anche quando sono in piena
contraddizione con la legislazione dominante e persino a imporli
con la forza.
La seconda conseguenza è che chi usa l’argomento della guerra
civile per mettere a tacere chi coglie l’occasione per condannare il
lassismo nella gestione dell’immigrazione, si dà la zappa sui piedi.
È ben evidente che c’è chi coglie il pretesto di quanto è accaduto
per parlare soltanto di immigrazione ed eccitare gli animi contro
gli immigrati, ma sostenere che il tema dell’immigrazione non
c’entri nulla in quanto gli attentatori sono cittadini europei, è uno
svarione da matita blu. E questo per il semplice motivo detto
prima: se costoro sono giunti al punto di essere mobilitabili per
attaccare le società europee dall’interno, vuol dire che i progetti di
integrazione sono falliti.
Se ci impantaniamo nella retorica
anziché ragionare si va alla catastrofe: chi scrive è figlio di immigrato, figuriamoci se può decentemente avercela con l’immigrazione, ma l’ingresso in un paese che
non sia basato sull’accettazione
delle sue regole, la conoscenza
della sua lingua e della sua tradizione culturale (e dirò di più, anche
l’interesse e l’affetto per queste)
non ha alcun senso se non quello
di fabbricare le premesse di una
catastrofe. Un conto è l’imposizione autoritaria di modelli che non
lasciano spazio alla coltivazione
del legame con le proprie radici e
con la propria religione, altro conto
è accettare che la società si decomponga in gruppi indipendenti
che non rispondono più ad alcun contratto sociale, fino al punto
– in nome di un disgraziato “buonismo” – di mettere all’ultimo
posto i diritti delle radici, della cultura e delle religioni storicamente prevalenti nel paese ospitante.
In definitiva, vi sono poche speranze che il contrasto alla sfida
dell’integralismo islamico possa avere successo se l’Europa non
tornerà sui suoi passi rispetto a un processo che in pochi decenni
ha sgretolato i fondamenti delle proprie società, persino dimenticandone la storia (come si vede bene al livello dell’istruzione),
screditandone la cultura, le istituzioni e le forme associative
democratiche. Quando ci si rifiutò di menzionare le “radici ebraico-cristiane” della civiltà europea, si poteva ben criticare questa
formula, suggerirne formulazioni diverse, ma il rigetto brutale che
ne venne fatto, quasi si trattasse di un proclama razzista, doveva
far capire lo sfacelo cui stava andando il continente. E che è sotto
gli occhi ogni volta che apriamo il portafogli e maneggiamo le
squallide carte-moneta su cui campeggiano forme architettoniche
astratte, per l’incapacità di mettersi d’accordo persino a scegliere
l’iconografia di un certo numero tra i grandi monumenti e tra i
volti di uomini rappresentativi della grandezza della civiltà europea. Quando riusciremo a vedere su quei pezzi di carta il Colosseo, l’Acropoli di Atene, la cattedrale di Chartres, una sinagoga di
Toledo, i volti di Galileo, Goethe, Cervantes, Newton o Spinoza,
senza che qualche congrega di imbecilli blocchi tutto in nome di
qualche stravagante obiezione “politicamente corretta”, sarà il
segnale che forse questo continente ha ancora qualche speranza
di sopravvivenza.
GIORGIO ISRAEL
Che dialogo è se uno vuole 'sottomettere' l'altro?
Non ci può essere nessuna giustificazione se una religione
consente di uccidere perché ci si sente offesi
Al Papa si sono subito accodati i vari leader occidentali, Obama per
primo, che non ha ritenuto opportuna la sua presenza alla marcia
di Parigi, e tutti gli altri, Hollande e Merkel in testa, che hanno
pubblicamente riaffermato
tutti gli apprezzamenti all'islam quale religione di pace.
Poco importa se tutto il terrorismo che minaccia le
nostre libertà agisce proprio
nel nome dell'islam.
I giornalisti di Charlie
Hebdo sono morti invano?
Ho tenuto fuori da questo
commento gli ebrei vittime
dello stesso terrorismo islamico, essendo quelle del
supermercato kasher soltanto le ultime di una lunga
serie che ben conosciamo.
Ebrei che non hanno mai
alzato un dito, né un sopracciglio, di fronte a nessuna vignetta di Charlie Hebdo, essendo l’ironia e la satira una componente strutturale dell’ebraismo.
Il gioco – o meglio la tragedia – ha due attori, cristianesimo e islam.
Il secondo vuole sottomettere tutti, cristiani compresi, il primo lo
legittima.
Non c'è bisogno di scrivere un romanzo, premonitore, come ha
fatto Michel Houellebecq (Sottomissione, Bompiani ed.) per capire
che il risultato sarà il suicidio dell'Occidente, delle nostre società
sicuramente imperfette, ma democratiche, aperte, sempre più
attente ai diritti di tutti. Anche di quelli che pur vivendo in regimi
democratici approfittano delle nostre leggi permissive per distruggere i nostri valori. In poche parole per sottometterci.
ANGELO PEZZANA
In alto a destra: nella copertina di Charlie Hebdo, Michel Houellebecq
prevede di rispettare il Ramadan nel 2022
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
M
an mano che le stragi di Parigi si allontanano nel
tempo e l'emozione suscitata rimane anch'essa un
ricordo, abbiamo assistito ad un mutamento nella
pubblica opinione nei confronti dell'intera
vicenda. Dalle responsabilità
evidenti e riconosciute degli
esecutori materiali a quelle
dell'ideologia che le ha motivate, siamo passati ad una
fase che non è azzardato
definire giustificativa. L'esecuzione della redazione di
Charlie Hebdo - una strage a
sangue freddo - che ha commosso e indignato centinaia
di milioni di persone, generando una solidarietà verso
un giornale che forse soltanto una minima parte dei vari
milioni che poi l’hanno acquistato conosceva, si è tramutata in un riesame dei contenuti del giornale stesso.
L'insulto alla parola 'religione', che con l'aggettivo 'islamica' era
stato alla base della strage, mentre nei primi giorni veniva giustamente giudicato inaccettabile da una società democratica, e perciò
laica, come la Ministra della Giustizia francese Christiane Taubira
aveva dichiarato “Si può disegnare di tutto, anche il profeta Maometto, perché in Francia, paese di Voltaire e dell'irriverenza, si ha
il diritto di prendere in giro tutte le religioni", e come avevano
condiviso i milioni di partecipanti alla grande manifestazione "Je
suis Charlie", ebbene, a distanza di poche settimane, il vento è
cambiato.
Un sondaggio recente attribuisce al 40% dei francesi l'opinione che
il settimanale aveva oltrepassato il limite consentito, in pratica che
la libertà di espressione doveva fermarsi di fronte alla parola religione, inglobando in quel 40% - oltre ai prevedibili 6/7 milioni di
musulmani che vivono in Francia - su questo tema la quasi totalità
è d'accordo - una alta percentuale di francesi che ha fatto marcia
indietro. Una scelta sulla quale hanno sicuramente avuto influenza
le parole del Papa durante il suo viaggio nelle Filippine. "Un crimine uccidere in nome di Dio, ma non si insultano le religioni", ha
detto Francesco, un’affermazione che suona come una condanna
sull’intero Charlie Hebdo che, come tutti sanno, fa della satira
vera, non quella annacquata alla quale ci hanno abituato i vignettisti di casa nostra, sempre attenti all’uso che fanno delle loro
matite. Le parole del Papa sono state il segnale che Islam e Cristianesimo non possono essere soggetti a raffigurazioni men che mai
irrispettose, cancellando le speranze di chi aveva interpretato il
suo arrivo come novità, grazie soprattutto a quel suo "… e chi sono
io per giudicare!". Adesso sappiamo che l'islam, la cui traduzione
letterale è "sottomissione" è equivalente al cristianesimo.
Che poi le pene per chi lo critica siano diverse, è un fatto da attribuirsi al fatto che il cristianesimo opera in un mondo occidentale
che ne ha cambiato, dall'illuminismo in poi, pratiche e regole
nell'applicazione della fede. L'islam, che vive - o si propone di ritornare a vivere - in un mondo arretrato - può arrivare a fare stragi di
cristiani, ai quali non è concesso il diritto di reagire nemmeno con
la matita. Sempre per via del rispetto che dovrebbe essere dato
all'islam, dato che viene ritenuto - anche dal Papa - soltanto una
religione.
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EUROPA
L'aliyah è una risposta
all'antisemitismo europeo?
Polemiche e acceso dibattito,
dopo gli attentati, per l’invito
espresso dal premier israeliano
Netanyahu agli ebrei francesi
di trasferirsi in Israele
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O
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gni volta che il terrorismo jihadista colpisce l’Occidente,
le reazioni in Israele seguono un copione consolidato.
C’è, naturalmente, la solidarietà per le vittime, soprattutto quando a essere colpiti sono ebrei o israeliani che
si trovano all’estero. C’è poi la speranza che l’Occidente, e soprattutto l’Europa, si risvegli, comprenda il pericolo dell’estremismo
islamico e si riavvicini a Israele, che da decenni affronta da solo la
minaccia terrorista. Infine, segue l’invito pressante agli ebrei della
Diaspora a fare Aliyah, a emigrare in Israele, unico paese a poter
garantire la sicurezza e la sopravvivenza del popolo ebraico.
Ma è davvero così? L’Aliyah è la risposta migliore al terrorismo e
all’antisemitismo di chi prende di mira le comunità ebraiche sparse
nel mondo?
Il governo israeliano, e soprattutto il premier Benjamin Netanyahu,
ha seguito con convinzione il copione sopra descritto a seguito
della doppia strage compiuta a Parigi contro il settimanale satirico
Charlie Hebdo e i clienti ebrei del supermercato Hyper Cacher.
Questa volta però le parole e le azioni del premier e dei suoi alleati politici sono suonate strumentali e grossolane, suscitando critiche da parte europea e israeliana. Netanyahu, prima ancora di
partire alla volta di Parigi e poi
nelle sue numerose apparizioni
nella capitale francese, ha ripetutamente invitato il mondo a unirsi
contro l’estremismo islamico, cercando di collegare le azioni di
Al-Qaida, ISIS e altre organizzazioni islamiste internazionali a quelle
di Hamas e altri gruppi terroristi
vicini alla causa palestinese.
Netanyahu non ha tutti i torti nel
ravvisare possibili saldature fra il
jihadismo mondiale e il terrorismo
palestinese, e indubbiamente il
fanatismo islamico alimenta le
posizioni e le azioni di Hamas
quanto quelle di Al-Qaida. Eppure,
a torto o a ragione, la maggior parte del pubblico europeo e francese, anche quella parte che non è pregiudizialmente filo-palestinese, traccia un netto distinguo fra le motivazioni e gli scopi di
queste diverse compagini. E nel contesto dell’attentato di Parigi le
parole del premier israeliano sono suonate come un tentativo strumentale e disperato di agganciarsi al clima globale di solidarietà e
far sorte comune in un momento in cui invece le divisioni tra Israele e Unione Europea sulla questione palestinese sono chiare e
profonde.
Non a caso, secondo i media israeliani e francesi, il presidente
francese Francois Hollande aveva cercato di bloccare la partecipazione di “Bibi” alla grande marcia di solidarietà a Parigi per non
compromettere il senso di unità creatosi a seguito degli attentati.
Netanyahu, che inizialmente aveva acconsentito alla richiesta
francese, ha fatto marcia indietro quando ha saputo che il ministro
degli Esteri Avigdor Lieberman e il ministro dell’Economia Naftali
Bennett, suoi rivali per il voto di destra nelle prossime elezioni di
marzo, erano partiti per Parigi. Netanyahu non ha dunque esitato
a privilegiare i suoi interessi elettorali personali invece di salvaguardare le già tese relazioni tra Francia e Israele. Hollande ha
mostrato tutto il suo disappunto, quando, durante una cerimonia
in ricordo delle vittime dell’Hyper Cacher presso la sinagoga centrale di Parigi, si è alzato per lasciare l’evento nel momento in cui
Netanyahu prendeva la parola.
A turbare i francesi sono stati anche gli inviti di “Bibi” e dei suoi
ministri agli ebrei francesi ad aumentare il ritmo dell’emigrazione
verso Israele. “Lo Stato d’Israele è la vostra casa”, ha detto il premier. “Tutti gli ebrei che vorranno immigrare in Israele saranno
accolti a braccia aperte”. Netanyahu non ha irritato solo l’Eliseo,
ma anche molti ebrei francesi, che non credono alla necessità di
abbandonare in fretta e furia il continente europeo.
“Vivere in Israele non è facile” - dice Daphna Poznanski, presidente dell’Associazione dei Francesi in Israele - “non bisogna venire a
viverci per panico, ma perché si crede veramente in questo paese”.
Anche Rebecca - una trentunenne che viveva di fronte all’Hyper
Cacher, trasferitasi a Tel Aviv un mese prima degli attentati - rifiuta l’idea di un’Aliyah fatta sull’onda
della paura. “Io non ho mai avuto paura
in Francia: per strada, in sinagoga, a
scuola, ho sempre rifiutato di avere
paura” - dice la giovane nuova immigrata - “Sono venuta in Israele perché sono
sionista, ma Bibi non ha il diritto di dire
che dobbiamo lasciare la Francia”.
Paradossalmente, l’invito di Netanyahu
fa il gioco dei terroristi, spiega Gerard
Benhamou, altro leader della comunità
francese, trasferitosi trent’anni fa in
Israele. “È proprio quello che vogliono i
terroristi, spingere con le violenze gli
ebrei a fuggire dalla Francia”, spiega.
“Invece bisognerebbe dire che gli ebrei
hanno il diritto di vivere in Francia e in
Europa in pace e sicurezza.”
L’Aliyah dalla Francia è in aumento negli ultimi anni a causa della
crescita degli episodi di antisemitismo nel paese, e nel 2014 circa
7,000 ebrei francesi si sono trasferiti in Israele. Si tratta comunque
di poco più dell’uno per cento della comunità francese: non certo
un esodo di massa.
Netanyahu, dicono dunque i francesi d’Israele, farebbe meglio a
lasciare da parte le strumentalizzazioni politiche e a mettere le
risorse dello Stato ebraico in fatto di sicurezza e protezione
anti-terrorismo al servizio della Francia e della sua comunità ebraica. Meglio lasciar stare gli inviti a “fare i bagagli” e lavorare per
rafforzare gli ebrei della Diaspora, perché una Diaspora forte significa anche tutelare un appoggio importante per lo Stato ebraico nei
momenti del bisogno - momenti che negli ultimi anni, purtroppo, si
sono fatti assai frequenti.
ARIEL DAVID
A Parigi a dire ‘Je suis’ c’erano tutti, meno Obama
N
EW YORK – All’indomani delle stragi terroristiche di
Parigi, Barack Obama sale in cattedra per fare la lezione
ai governi europei, esortandoli ad “assimilare meglio la
propria minoranza islamica”, perché “il pugno di ferro e
le misure straordinarie di sicurezza non bastano a risolvere i problemi e prevenire futuri attacchi”.
“Il più grande vantaggio degli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo interno è che la nostra popolazione musulmana si sente
americana”, ha spiegato il Presidente Usa nel corso di una conferenza stampa con il Premier inglese David Cameron, primo leader
invitato alla Casa Bianca dopo gli attentati francesi. “In America
c’è questo incredibile processo di immigrazione e assimilazione
che fa parte della nostra tradizione ed è probabilmente la nostra
forza più grande”, ha aggiunto, “mentre lo stesso non è vero in
molte parti d’Europa”.
Sondaggi, esperti di terrorismo e sociologi gli danno ragione. La
maggiore integrazione degli islamici in Usa e le eccezionali misure
di sicurezza implementate da Washington dopo l’11 di settembre
hanno permesso all’America di dormire sonni più tranquilli rispetto
ad Europa, Canada e Australia, anche se l’attentato alla maratona
di Boston, nell’aprile 2013, ha ricordato al Paese che bastano due
folli ‘lupi solitari’ per mettere in ginocchio un’intera città.
Ma Obama sa bene che l’impegno militare anti-Isis degli Usa rende
il Paese nuovamente vulnerabile e così annuncia che il 18 febbraio
si terrà a Washington, alla Casa Bianca, un summit anti-terrorismo
ad alto livello, da lui presieduto, per affrontare la crescente minaccia dei “foreign fighters” (5000 solo quelli con passaporti europei):
estremisti islamici occidentali andati a combattere in Siria e Iraq
che potrebbero tornare in patria per compiere attacchi terroristici
come quelli di Parigi. “Riuniremo insieme tutti in nostri alleati”,
spiega Obama, “per discutere come possiamo reagire a questo
estremismo violento che pervade il mondo intero”.
L’attivismo americano fa seguito al putiferio di polemiche per l’assenza del Presidente Usa alla storica marcia post-attentati di Parigi:
la più imponente manifestazione di piazza dai tempi della Liberazione, nel 1945, cui sono intervenuti oltre 40 capi di stato tra cui il
Presidente francese Francois Hollande, il Cancelliere tedesco Angela Merkel, il Primo ministro britannico David Cameron, il Primo
ministro italiano Matteo Renzi, il Presidente del governo spagnolo
Mariano Rajoy.
“Obama n’est pas Charlie”, ha tuonato l’influente sito ‘Politico’.
“Ha deluso il mondo”, gli ha fatto eco in prima pagina il New York
Daily News. I media americani hanno accusato Obama di aver
“snobbato la marcia” e di essere rimasto alla Casa Bianca con la
famiglia, (“ma nessuno sa come ha impiegato il tempo”, hanno
puntato il dito), mentre il vicepresidente Biden “era a casa nel
Delaware e il sottosegretario Kerry era in visita in India”.
Alla marcia non c’era nemmeno il ministro di Giustizia, Eric Holder,
che pure era presente al summit antiterrorismo che si era svolto a
Parigi soltanto un’ora prima della manifestazione di Place de la
Republique. L’unica partecipazione americana ufficiale ha finito per
essere quella dell’ambasciatrice Jane Hartley, un livello di rappresentanza di solito riservato ai Paesi emergenti. Apriti cielo.
«Quest’assenza è simbolo di una mancanza della leadership americana sulla scena internazionale ed è pericoloso», l’ha accusato Ted
Cruz, senatore repubblicano del Texas. «L’attacco di Parigi, così
come quelli contro Israele e altri alleati, è un attacco ai valori condivisi», ha aggiunto. «È stato un grave errore», ha rincarato la dose il
senatore della Florida Marco Rubio, leader di punta del Tea Party.
Alla fine Obama è stato costretto ad un’umiliante mea culpa.
“Avremmo dovuto inviare qualcuno ad alto livello alla marcia di
Parigi”, ha ammesso il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest,
assicurando che il Presidente avrebbe voluto partecipare al raduno,
ma lo scarso tempo a disposizione per mettere a punto le misure di
sicurezza glielo ha impedito.
Quando gli hanno chiesto come mai persino il Primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, era presente in strada, Earnest ha
detto che la sicurezza del Presidente e del Vicepresidente è molto
più dispendiosa e difficile. “I requisiti di sicurezza di una visita a
livello presidenziale o di un vicepresidente sono onerosi e rilevanti
e il tutto è amplificato in occasione di eventi con tale partecipazione
di massa”, si è giustificato.
In un’intensa e commossa visita a una settimana dai blitz, il Segretario di Stato John Kerry ha cercato di correre ai ripari. “Ci tenevo
a essere qui con tutta Parigi, con l’intera Francia”, ha detto il capo
della diplomazia Usa in un discorso in francese nell’Hotel de Ville,
la sede del municipio parigino, prima di incontrare il Presidente
Francois Hollande e il collega Laurent Fabius. “Vengo a condividere con voi un grande abbraccio, vecchi amici, e a manifestarvi di
persona l’orrore e il dolore che gli americani condividono per l’incubo a occhi aperti, per l’infamia che avete dovuto subire”.
“Io rappresento una Nazione che rende grazie ogni giorno per
avere nella Francia uno dei propri alleati più antichi”, ha aggiunto,
“ve lo volevo dire di persona”. Poi Kerry ha ceduto il proscenio a
uno degli “amici del Massachusetts”: il celebre cantautore James
Taylor, che prima ha intonato la Marsigliese e poi ha accompagnato
alla chitarra uno dei suoi più celebri successi, non a caso ‘You’ve
Got a Friend’, ‘Tu hai un amico’.
A chi mette in dubbio l’impegno americano per combattere il terrorismo, l’amministrazione ricorda che nessuna nazione al mondo
spende altrettanto nella lotta per sradicare l’odio. “Oltre ad aver
perso più di 6800 uomini nelle operazioni post-11 di settembre tra
Iraq e Afghanistan, gli Usa continuano a mantenere una massiccia
presenza in Europa”, spiega un funzionario, “66mila tra soldati e
personale militare di stanza nel vecchio mondo. E dopo gli attacchi
di Parigi”, aggiunge, “abbiamo letteralmente inondato il continente
dei nostri migliori 007, agenti FBI e spie varie”.
ALESSANDRA FARKAS
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
L’incomprensibile assenza dell’amministrazione americana
11
EUROPA
“I
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
l discorso è forse complesso, ma
a me, uomo della strada, sembra abbastanza semplice. La
libertà di espressione, conquista importantissima della civiltà moderna,
non può scatenare reazioni violente, ma
reazioni sdegnate sì. In sostanza: le
vignette blasfeme si possono fare ma io
sono libero di criticarle anche in modo
pesante e di dire che mi fanno schifo. Poi il
resto dovrebbe dipendere dalla sensibilità
di ciascuno. Io per esempio non amo il
dileggio sarcastico, mi diverte invece
molto l’ironia più lieve, ma il mio gusto
personale non c’entra nulla con le leggi.”
Questa frase estrapolata fra le tante che si
leggono a pochi giorni dai fatti di Parigi,
non menziona il secondo episodio: le quattro vittime altrettanto se non più innocenti
dell'ipermercato Kosher.
Ognuno cercava una risposta in quelle ore
di odio, in quel primo giorno, e fra le infinite possibilità di manifestare lo sdegno e il
dolore per quanto appena accaduto, avevo
deciso di postare sui social network: non
io sono Charlie, ma con tutto il cuore sono
vicino a Charlie.
Poche ore e la mia vita è stata travolta di
nuovo: ho cambiato ancora e ho messo un
Maghen David listato a lutto. Nel mare di
distinguo sottili come spilli o violenti come
travi in un occhio, la mia anima, con semplicità aveva trovato la sua strada, vicina
alle vittime della jihad islamica, identificata con loro dal mio essere un ebrea libera,
che vorrebbe essere libera anche di decidere se e come fare la mia alyà. Come ha
detto Joel Mergui, presidente del Consistoire di Francia, voglio scegliere con il
mio cuore, non per paura e/o in fuga.
Il giorno dopo ero il mio popolo, colpita a
morte insieme alle vittime innocenti dell'odio più bieco: senza se né ma, perché il
rispetto dell'identità ebraica è l'essenza
12
PERIZIE E VINTAGE RESTYLING
Voglio scegliere
con il mio cuore
A Parigi grande solidarietà alle vittime di Charlie Hebdo.
Ma gli ebrei scappano dalla Francia. Non si capisce
che l'identità ebraica è l'essenza stessa dei parametri
di libertà e di democrazia del Paese
stessa dei parametri di libertà e di democrazia; i 17 morti di Parigi, morti per essere
liberi, per essere i garanti dell'ordine da
cui tutte le libertà sono tutelate, morti per
essere ebrei.
Sto usando parole lievi rispetto a quelle
che sentiva la mia anima e la mia mente,
mi sentivo schiacciata, sola, io non ho fatto
satira sulle attività e i gusti sessuali del
profeta, io sono nata membro di un popolo
cui i distinguo, mancati, esitanti, tardivi,
troppo pronunciati, sovraesposti (non
importa la forma e la dimensione dell'articolazione intellettuale, per essere identificato come ebreo basta esserlo) hanno
assottigliato di qualche milione di unità
l'esistenza in vita.
Abbiamo passato ore… giorni in cui sembrava che la carneficina non dovesse avere
mai fine, il mondo sbigottito, avendo
dimenticato l'11 settembre 2001, ritornava
ad accorgersi che ci sono persone che
distinguo non ne fanno, né sottili né grossolani. Bestie, sotto forme umane, che in
nome di una religione, intesa come valore
di liberazione dall'altro, uccidono i diversi
da sé. L'odio non conosce differenze.
Come tutte le forme della politica sistemica, anche l'ordinamento europeo ha la
necessità di riassestarsi di fronte ai mutamenti radicali delle realtà circostanti. Non
credo che la soluzione sia passare dalla
libera circolazione alla chiusura delle frontiere, ma ad una maggiore condivisione di
intelligence si, ad una revisione dei criteri
di entrata, in funzione delle provenienze
risultanti dei vari viaggi in paesi che ucci-
dono in una guerra non dichiarata, è indispensabile.
Se c'è una lezione che viene dagli attentati
di Parigi, oltre la visione chiara del malmostoso stagno di un antisemitismo diffuso e
talora oltremodo vergognosamente tollerato, è che se l'Europa unita è solo l'Euro, non
solo l'obiettivo dell'Unione è mancato ma la
denuncia è più grave: il sistema, messo in
marcia dal Trattato del 1954, che non prevedeva solo il dato economico come dato
unificante, ma la condivisione di valori
che, prima o poi, dovrà portare ad una
costituzione d'Europa, ha subito una grave
marcia d'arresto.
Troppo facile prevedere i disastri, con
buona pace di quanto scritto da Oriana
Fallaci, inventarsi la speranza e immaginare il futuro è più difficile, particolarmente
se non si è anziani, amareggiati, iconoclasti, ma giovani col futuro dinanzi a sé e in
procinto di prendere in mano la vita. Più
difficile riscrivere le norme tenuto conto di
contesti sociali e politici mutati. Ma per
questo siamo andati ad eleggere i nostri
rappresentanti al Parlamento Europeo e
forse all'appello qualche loro voce è mancata. Dopo le marce cosa si deve fare?
La politica deve essere chiamata a rispondere in tutte le sue sedi, anche e soprattutto dopo le emergenze, quando i media
dimenticano di ricordare gli orrori prossimi, si concentrano su quelli passati e nelle
nostre comunità si sceglie di emigrare in
Israele, anche per paura. Piano piano lo
sdegno evapora, ritornerà il silenzio?
CLELIA PIPERNO
La Francia strabica
Non ha mai reagito quando la violenza
islamica ha colpito gli ebrei.
Solo dopo Charlie Hedbo,
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FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
U
na Francia senza ebrei, non sarebbe più tale, ha affermato il premier Manuel Valls all’indomani delle grandi
manifestazioni parigine contro gli attentati terroristici
di matrice islamista. È vero. La Francia non sarebbe più
la stessa. Ma se così è, bisognerebbe essere conseguenti, ammettere con onestà che la Francia ha purtroppo smesso da molto
tempo di essere la stessa.
Quindici anni fa c’è voluto del tempo prima che le autorità francesi riconoscessero che gli attentati alle sinagoghe, e i pestaggi
quotidiani, erano la manifestazione virulenta di un antisemitismo
di tipo nuovo, di matrice islamista, in cui l’odio contro gli ebrei e
Israele, uniti indistintamente, faceva da perno al rigetto della
civiltà e dei valori occidentali. A differenza di quanto accadde in
passato con l’antisemitismo della destra, anche quando ha riconosciuto il carattere indiscutibilmente antisemita dell’ondata di violenza antiebraica, la cultura progressista non si è mobilitata. I
francesi non sono stati chiamati a scendere in piazza in solidarietà
con i loro concittadini ebrei aggrediti per le strade, all’uscita dai
ristoranti, nei luoghi di preghiera e nelle scuole. Le scuole ebraiche erano protette come fossero dei bunker, ma la gente non ha
percepito l’angoscia degli ebrei francesi come propria. Gli attentati alle scuole e le stragi d’innocenti non erano percepiti come un
attacco diretto contro la Francia. Erano considerati dai più come il
risultato di una guerra che si svolgeva altrove, che non coinvolgeva la Francia come tale. Un’importazione pericolosa del conflitto
mediorientale condannabile quanto si vuole, in cui però si riteneva che Israele “avesse una responsabilità morale” oltre che “politica” e che vedeva la Francia in prima fila nella difesa “dei diritti
palestinesi” e forse anche per questo “risparmiata” dalle conseguenze più devastanti.
Secondo questa narrazione falsa, se Israele avesse “accolto i diritti palestinesi”, il terrorismo antiebraico avrebbe perso la ragion
d’essere. Nelle forme estreme di questo delirio, gli ebrei erano
“responsabili” dei loro stessi mali e avrebbero dovuto avrebbero
dovuto prendere le distanze dalla politica israeliana.
Fintanto che gli attentati sono stati rivolti contro gli ebrei, e le
istituzioni ebraiche, questa falsa narrazione autoassolutoria, che fa
da sfondo a un nuovo antisemitismo, ha purtroppo funzionato,
impedendo la presa di coscienza di un pericolo che non riguarda
solo ed esclusivamente gli ebrei, ma l’intera società francese ed
europea. Rimossa dallo spettro politico, la verità torna a galla nel
momento in cui a essere colpiti non sono solo gli ebrei, ma l’intera
società francese con i suoi simboli costitutivi. “Che abbiano ragio-
ne gli israeliani, nel denunciare la demonizzazione, di cui è ignobilmente oggetto il loro paese?”- “Sarà mica, che la situazione d’insicurezza, che da sempre caratterizza l’esistenza di Israele (e che
una parte consistente della cultura europea rifiuta di guardare), sia
stata solo l’anticipo di quel che potrebbe accadere in Europa?““Non sarà mica che stiamo per diventare tutti ‘israeliani e che per
non riconoscerlo ce la prendiamo proprio con gli israeliani?”.
Qualcuno nel segreto della coscienza, qualche domanda se la sarà
posta. Anche per questo, chi aveva timore di pensare in modo
nuovo, non ha trovato di meglio che prendersela con la volontà del
premier israeliano di esserci comunque alla grande manifestazione, per testimoniare la vicinanza al popolo francese e agli ebrei
francesi. Pensare in modo nuovo fa paura. Non si guarda meglio
cantando al buio, o peggio trattando come fossero dei paria gli
esponenti di un paese amico e che è l’unica democrazia del Vicino
Oriente. La difesa di Israele, unica democrazia nel Vicino Oriente,
la sua accettazione piena nel mondo arabo e islamico, la sua sicurezza ed esistenza in pace con i vicini, è una condizione imprescindibile e irrinunciabile perché il dialogo tra l’Europa e l’islam,
l’Occidente e l’Oriente, per quel che valgono queste metafore, non
sia una parola vuota. Chi non comprende questo, è al di qua del
livello etico minimo accettabile per discutere del problema.
DAVID MEGHNAGI
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13
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Nell’orrore della
violenza antisemita
brilla la luce
di un Giusto
Un doveroso grazie
a Bathily Lassanna, il commesso
musulmano del Hyper cacher
di Parigi che ha salvato
decine di ebrei
I
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
drammatici eventi di Parigi hanno riportato ancora una volta
un fattore positivo sempre presente nella storia del popolo
ebraico: la presenza del giusto che, sebbene faccia parte della
famiglia o del popolo dei persecutori antisemiti, si distingue e
si rivela come colui che salva la vita di ebrei innocenti. Ciò è presente sin dal libro dell'Esodo con la presenza della figlia del Faraone Batyah che salva il piccolo Mosè, fino ad arrivare all'azione salvatrice di Schindler che risparmia dalla morte annunciata nei lager
migliaia di ebrei.
Questa volta è toccato a Bathily Lassanna vestire i panni dell'eroe.
Originario del Mali, musulmano praticante e commesso presso
l'Hyper kosher assaltato dal terrorista islamico Coulibaly, è riuscito
a mettere in salvo in una cella frigorifera alcuni ebrei che si trovavano lì. I media, nei giorni successivi al triste epilogo, hanno messo
in evidenza la sua azione eroica, dando lo spunto per spendere
qualche osservazione. Balza agli occhi ciò che ha fatto Lassanna
perché stride con la passività a cui assistiamo quotidianamente;
un'indifferenza che ha causato e causa ancora danni incalcolabili.
E' ciò che vogliono gli esecutori del crimine. Diffondere la paura,
seminare terrore nell'opinione pubblica, in modo che cresca l'omertà e il silenzio. Paralizzando le coscienze in uno stato d'impotenza,
creando l'immobilismo di fronte all'emergenza che stiamo vivendo.
Purtroppo l'Europa in questi ultimi decenni di fronte al moltiplicarsi di attentati ci ha abituato a questo comportamento.
Era lecito pensare che dopo la tragedia della Shoah, dalle ceneri di
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Allestimenti eventi con buffet dolci e salati
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Auschwitz fosse rinato il Vecchio Continente con gli anticorpi
necessari a fronteggiare i fenomeni di totalitarismo che mettono in
pericolo i diritti conquistati dopo secoli di conflitti. A giusta ragione, si pensava che queste difese fossero diffuse capillarmente
nelle nostre democrazie. Non è stato così. Ma il pensiero che ci sia
sempre qualcuno che intervenga incoraggia a sostenere che il
popolo ebraico non sia mai solo del tutto. C'è sempre un filo che
lega l'uno all'altro, anche nei momenti più bui del martirio. Rafforzando l'idea che si combatta nel corso della storia per uno scopo
universale che unisce tutti coloro che credono nella libertà e nella
democrazia. Sia che sia successo ai tempi del Faraone, sia ai tempi
della Shoah e sia oggi.
L'atto virtuoso di Lassanna, come allora quelli di Batyah e Schindler, segnalano la presenza di coscienze umanitarie che non conoscono il timore di agire. Grazie a questo tacito legame che unisce
si può combattere sicuri di vincere la minaccia islamica. Perché la
guerra all'Isis richiede determinazione, con un'azione decisa senza
pause, senza cedere al ricatto del Califfato. E i soli discorsi non
bastano.
Ora tocca a noi, lettori ed osservatori, sollecitare l'azione delle Istituzioni affinché al Giusto Lasanna sia reso merito del suo operato.
Perché con la sua azione, mettendo a rischio la propria vita, ha
trasmesso al mondo intero la testimonianza di ciò che è la solidarietà umana. Che va al di là della propria fede.
JONATAN DELLA ROCCA
Francia, la lunga scia
di sangue ebraico
Sono innumerevoli gli attentati
e le violenze che hanno avuto
per obiettivo gli ebrei
gli studenti di una scuola ebraica. Nell’ottobre
2003 a Essonne, il rabbino Michel Serfaty viene
aggredito mentre va in sinagoga. Nel febbraio
2004 a Parigi viene distrutta la targa che ricorda
gli ebrei deportati durante la Shoah. Sono centinaia le intimidazioni e le violenze che seminano
il panico e la paura nei seicentomila ebrei francesi, che rappresentano la più popolosa comunità europea. Una situazione divenuta insostenibile tanto da far dire dall'allora premier israeliano Sharon, in visita a Parigi nel luglio del 2004,
agli ebrei francesi di emigrare al più presto in
Israele per fuggire dalla violenza antisemita.
Sarà una dichiarazione che, oltre a turbare i
rapporti con l'Eliseo, lascerà il segno, presagendo ciò che accadrà negli anni a venire. Perché il
peggio non è passato.
In un clima arroventato di minacce e violenze, si
arriva nel febbraio del 2006 al sequestro che
segna il dramma di Ilan Halimi: un giovane
ebreo che dopo 24 giorni di prigionia e di torture
sarà bruciato vivo da una banda islamista perché ebreo, dopo che gli investigatori avevano
escluso il movente antisemita. Ma ciò non basta
a fare alzare il livello di guardia della vigilanza
sulle istituzioni ebraiche per fronteggiare la
furia musulmana estremista sempre più incalzante nelle sue quotidiane aggressioni. E non
giungerà inattesa la strage di Tolosa del marzo
2012, quando il giovane franco algerino di fede musulmana Mohamed Merah, ucciderà tre studenti e un insegnante nella scuola
ebraica Ozar Hatorah.
J.D.R.
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FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
L
a Francia è stata teatro di attentati
contro obiettivi ebraici ed israeliani sin
dalla fine degli anni Settanta, periodo
nel quale il terrorismo palestinese
imperversava in Europa e la capitale francese
era uno dei principali centri operativi dei servizi segreti mediorientali. Aeroporti, sinagoghe,
cimiteri, scuole ebraiche e ristoranti kosher
erano nel mirino dei killer arabi palestinesi che
godevano di una rete capillare internazionale
del terrore con a capo leggendarie figure come
Carlos e Abu Nidal.
Le cronache ci riportano ad una lunga scia di
sangue che vede spesso la regia di George
Habbas, fondatore del Fronte Popolare per la
Liberazione della Palestina. Dopo un attentato
perpetrato all’aeroporto di Orly nel maggio del
1978, in cui alcuni terroristi spararono all’impazzata contro un gruppo di passeggeri in
partenza per Tel Aviv causando otto morti;
nell’ottobre 1980 è la sinagoga parigina di Rue
Copernic ad essere colpita: verranno assassinate quaranta persone e saranno venti i feriti.
Gli attentati avvengono nel periodo del riconoscimento ufficiale europeo dell'Olp dopo il vertice di Venezia, che causerà un allentamento
della morsa verso il terrorismo arabo, vista l'apertura politica concessa dai governanti del
Vecchio Continente, e che vede tra i principali
sostenitori, in prima fila, insieme a Giulio Andreotti i socialisti
Francois Mitterrand e Bettino Craxi. Tutta l’Europa è sotto il mirino, oltre a Parigi, anche Vienna, Anversa e Roma saranno colpite
duramente da questa nuova stagione. Dopo l'uccisione di un diplomatico israeliano nella capitale francese nell'aprile del 1982, quattro mesi dopo nell'agosto è preso di mira il quartiere ebraico del
Marais, dove nel ristorante Goldenberg sei persone sono uccise e
ventidue sono ferite. Nel marzo del 1985 delle bombe esplodono
in un cinema parigino durante il Festival cinema ebraico causando
18 feriti e nel mese successivo gli ordigni sono piazzati presso
l'agenzia della Banca Israeliana di proprietà Leumi. Nel maggio
del 1990 la notizia della profanazione del cimitero di Carpentras
sconvolge tutto il mondo, con le tombe scoperchiate e cadaveri
estratti. Negli anni successivi si susseguiranno atti intimidatori
che prenderanno di mira scuole con bombe incendiarie, rabbini e
studiosi con la kippàh aggrediti per le strade.
Dopo l’11 settembre e la seconda Intifadah in Israele, i riflessi
della globalizzazione del terrore islamico anche in Francia sono
devastanti; ad accrescere il fenomeno contribuisce il boom della
rete che recluta migliaia di fanatici con i contatti nei nuovi siti
internet che incitano l'odio razziale. E ciò contribuirà all’ escalation di attentati antisemiti: nell’aprile del 2002 a Bondy (Seine-Saint-Denis) sono aggrediti quattordici calciatori del Maccabi;
nel gennaio 2003 a Parigi il rabbino Farhi è pugnalato all’addome
e tre giorni dopo gli viene bruciata la macchina. Nei mesi successivi le cronache riportano prima un’aggressione a due appartenenti al movimento ebraico Haschomer Hatzair, qualche settimana più tardi, con bastoni e spranghe di ferro, vengono attaccati
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EUROPA
Francia: l’unica fede
dello Stato è quella laica
Nei pubblici uffici, nelle scuole e negli
ospedali non sono ammessi i simboli
dell’appartenenza religiosa. Quindi niente
croci, chador, hijab, kippot, ziziot
S
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
i racconta che il 13 aprile del 1655, presentandosi in
tenuta da cacciatore al Parlamento di Parigi, Luigi XIV il
“Re Sole” abbia pronunciato la frase destinata alla celebrità: L’Etat c’est moi, “lo Stato sono io”. E chiuse in
questo modo a favore della Corona un dibattito estenuante
sull’imposizione di nuove tasse.
Durante i successivi 26 anni la Corona, grazie all’infaticabile
teologo Bossuet, difese strenuamente le prerogative della Chiesa
di Francia (i cosiddetti Privilegi Gallicani) contro ogni rivendicazione di autorità dei Pontefici romani. Il risultato conclusivo
furono i Quattro Articoli del 1681. Il primo e più importante di
essi stabiliva che il potere temporale del re (dunque la capacità
politica dello Stato) non può e non deve essere in alcun modo
limitato dalla dottrina e dalla teologia, neppure se espresse formalmente dal Papa. Luigi XIV divenne così de jure et de facto,
nel proprio regno, anche il capo della Chiesa. Non molto diverso,
almeno in materia di religione, dai sovrani protestanti. Nasceva
così nel cuore dell’Europa cattolica, e proprio per volontà del “Re
Cristianissimo”, una nuova dottrina: lo Stato assume totale libertà d’iniziativa e discrezionalità legiferante, anche in materia di
fede e pratiche religiose. Non si trattava certo di una premessa
alla separazione laica e definitiva tra Stato e Chiesa. Infatti la
giustizia francese continuò a mandare al patibolo fattucchiere e
stregoni presunti, come pure ad incarcerare, torturare e processare ebrei ed eretici se trovati nel posto sbagliato al momento
sbagliato, perfino nell’Età dei Lumi.
16
Uno dei padri fondatori del moderno laicismo fu Francois-Marie
Arouet, meglio conosciuto come Voltaire. Il quale è anche uno
dei genitori non illegittimi del moderno antisemitismo. A Voltaire
si dovrebbero preferire Rousseau e Montesquieu, due illuministi
sicuramente più profondi e forse meno protetti dall’Europa radical chic del Settecento.
Venne la Rivoluzione del 1789, ma fallì il tentativo di fare della
“Dea Ragione” la nuova divinità della Francia. Alla fine gli affari
e la borghesia conquistarono il potere anche con la benedizione
del clero. Poi Napoleone Bonaparte prese l’Europa. Per due volte,
a meglio sottolineare la nuova realtà delle cose, trasportò in
Francia il Sommo Pontefice Pio VII imponendogli nel 1804 l’inco-
ronazione in Notre Dame e nel 1813 una indigesta convenzione-concordato. Il Papa fece in tempo a vedere la fine dell’Impero,
senza peraltro rimediare ai danni irreparabili che la Francia della
laicità aveva inflitto alla tradizione feudale-aristocratica: si aprivano vie nuove, la libertà di fede e la piena uguaglianza di fronte
alla legge potevano veramente trasformarsi in diritto inalienabile, ebrei ed evangelici sarebbero divenuti cittadini a tutti gli
effetti. Un conto furono naturalmente le solenni enunciazioni, e
altro affare invece la dura realtà della lotta contro il pregiudizio.
La modernità laica aveva chiuso gli antichi ghetti, precipitando
però gli ebrei d’Europa nel gioco rischiosissimo, spesso letale,
dei conflitti tra gli Stati e all’interno degli Stati stessi.
Alla Rivoluzione fece seguito la persistente violenza della reazione, fino alla vicenda del Capitano Alfred Dreyfus. La storia raramente si muove a caso.
Con la legge del 9 dicembre 1905 la Repubblica Francese sanciva
il principio dell’assoluta separazione tra Stato e Chiesa. Non ci
sarà dunque bisogno di un Concordato. L’attività legislativa deve
essere conforme all’etica praticata dallo Stato: quella della Costituzione repubblicana.
Non trascorre neppure un anno: il 12 luglio del 1906 la Corte di
Cassazione francese cancella la condanna inflitta nel 1894 all’ebreo Dreyfus in quanto tale, e come tale dunque “traditore” per
definizione, secondo le più consolidate tradizioni antisemite
dell’Europa cristiana. Due guerre mondiali, un Presidente ebreo
- Leon Blum - che la Gestapo terrà in ostaggio a Dachau, Vichy e
la rivincita reazionaria dei collaborazionisti con l’invasore nazista. La Francia che esce dalla Seconda guerra mondiale è una
nazione umiliata e contraddittoria, i peggiori fascisti antisemiti
non faticano a riciclarsi. Forse l’arroganza dell’estremismo islamico ha trovato qualche precoce incoraggiamento, già durante
gli Anni Settanta del secolo passato, proprio negli ambienti
“nostalgici” che infestavano il nazionalismo.
Oggi la ruota ha fatto un altro giro, e la destra francese preferisce
non ricordare. Tuttavia il 5 ottobre del 1958 la Francia si era data
la settima Costituzione Repubblicana, la Costituzione tuttora in
vigore della Quinta Repubblica. L’Articolo 1 così esordisce: “La
Francia è una Repubblica indivisibile, laica, democratica e sociale”. L’aggettivo laica ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro e provocato alluvioni di polemiche sull’ammissibilità dell’esibizione nei
pubblici uffici e nelle scuole, negli ospedali e ovunque, di segni
esteriori di appartenenza religiosa: chador, hijab, kippot, ziziot.
Altro tsunami dopo la strage a Charlie Hebdo e al supermercato
casher: quali limiti alla libertà di espressione e alla polemica
antireligiosa? In Francia non ne esistono, se non per l’insulto e il
dileggio contro le vittime di un crimine. E la Shoah è un crimine
provato e comprovato. Così lo pseudocomico Dieudonné ha inutilmente tentato di equiparare Charlie Hebdo alla sua quenelle
antiebraica, che gli ha assicurato fama e denaro. Il Presidente
Hollande e il Primo Ministro Valls hanno dimostrato coraggio e
determinazione partecipando alla cerimonia nella Grande Sinagoga di Rue de la Victoire. Il ricordo degli ebrei assassinati soltanto perché acquistavano il cibo per la mensa di Shabbat li ha
commossi in modo visibile. Non avevamo visto un comportamento analogo nei giorni della strage di Tolosa, tre anni fa.
PIERO DI NEPI
La République française:
Liberté, Égalité, Fraternité
e Antisémitisme
T
ra la primavera e l’estate del 1940 le armate della Germania nazista invasero la Francia in sole sei settimane. Un
vecchio e malandato maresciallo ottantenne, Petain, gloria della prima guerra mondiale, fu spinto, invitato o forse
ben felice di scendere a patti con il nemico nazista creando un
governo fantoccio e collaborazionista, il governo di Vichy, che ben
presto si trasformò da fantoccio in alleato e tra i migliori collaboratori del progetto di sterminio antiebraico.
Allora come oggi, di fronte ad un’opinione pubblica francese indifferente o complice rispetto al destino degli ebrei di Francia, dovremmo
chiederci perché la Repubblica delle
Repubbliche non abbia a cuore il
destino dei propri cittadini ebrei e,
tra le pieghe della sua storia, ha
nascoste pagine così intrise di sangue ebraico da mettere in dubbio
ogni pretesa di antica democrazia
sin dai tempi di Vercingetorige.
Prima di ogni cosa, per comprendere la realtà della deportazione degli
ebrei di Francia, dobbiamo sfatare il
mito di un’occupazione nazista della stessa: l’esiguo manipolo di
soldati tedeschi rimasti a guardia del governo di Vichy non avrebbe potuto mai sostenere una così imponente macchina della morte.
Da subito Pétain ed i suoi colleghi dimostrarono una volontà persecutoria verso i cittadini ebrei francesi che nessun paese in Europa eguagliò mai. Il governo di Vichy creò campi di transito, di raccolta, di internamento che furono ottime basi per il progetto di
eliminazione che dal 1942 fu messo in atto in maniera precisa, ben
oltre le aspettative tedesche. Gli accordi di quello stesso anno, fra
governo di Vichy ed Eichmann, stabilirono che la polizia di Vichy
si sarebbe occupata delle retate e furono gli stessi funzionari di
Vichy che proposero ad Eichmann ed Heydrich un progetto di
rastrellamento di intere famiglie, senza distinzione di sesso e di
età, un progetto ben oltre le aspettative dell’alleato tedesco! Il 16
ed il 17 luglio il governo di Vichy si mise all’opera e più di tredicimila ebrei furono arrestati e radunati nel Velodrome d’Hiver a
Parigi per essere trasferiti prima nei campi francesi e poi verso
“Est”, cioè verso Auschwitz. Tra fine agosto ed inizio settembre
furono organizzate nuove retate che portarono ad altri settemila
arresti.
Di fronte al crescente antisemitismo in Francia rimaniamo sconvolti; per uno Shabbat, le autorità hanno fatto chiudere la centrale
sinagoga di rue de la Victoire, cosa che non avveniva dai tempi di
Vichy, e dovremmo chiederci il senso storico della relazione tra
ebrei e Francia. Un senso storico che solo nel 1995 con il presidente Jacques Chirac fece ammettere le dirette e reali responsabilità
dello Stato francese nella tragedia dell’Olocausto.
Uno Stato che sin dagli albori della propria nascita ha avuto comportamenti ambigui nei confronti della minoranza ebraica. Da un
lato, negli anni prima della Rivoluzione del 1789, molto fu scritto
per la liberazione degli ebrei e la loro emancipazione, a cominciare
dalle riflessioni dell’abate Grégoire, dall’altro restava un’idea di
“utilità” degli ebrei per lo Stato e restavano anche granitici tutti i
pregiudizi antiebraici che dipingevano gli ebrei come persone
attardate in superstizioni arcaiche. L’accettazione degli ebrei all’interno dello Stato doveva passare attraverso quella che divenne una
famosa formula: “Bisogna rifiutare tutto agli Ebrei come nazione,
bisogna accordare loro tutto come individui, bisogna che non costituiscano nello Stato né un corpo politico, né un ordine. Devono
essere individualmente dei cittadini.” Una formula del genere, pur
restando una pietra miliare nel percorso dei diritti di cittadinanza
delle minoranze ebraiche in Europa, lascia aperta l’annosa questione dell’ebreo che, se non si spoglia della pericolosa identità ebraica che lo accumuna agli altri ebrei e
lo rende “gruppo”, resta un potenziale nemico dello Stato e della
Repubblica, un nemico che può
essere sacrificato ben volentieri
sull’altare della tranquillità della
Nazione francese quando questa,
come nei giorni di Vichy, deve scegliere come nutrire il coccodrillo
nazista. Lo stesso accadde il 22
dicembre del 1894, quando alla
Nazione servì un nuovo pasto pronto da consegnare al popolo francese
inferocito e questo pasto era il capitano Alfred Dreyfus, l’ebreo
accusato falsamente di tradimento, degradato, arrestato e solo nel
1906 riabilitato.
La massa aveva bisogno di gridare: “Morte a qualcuno!” E fu
naturale per la Repubblica sostituire la parola “qualcuno” con la
parola “ebreo.” Quell’ebreo che in dettaglio, in quanto cittadino, in
fondo non aveva mai smesso di essere “nazione” altra da quella di
Francia. Solo il coraggio dello scrittore libero Emilè Zolà porterà
sulle pagine di Le Figarò il suo “J’Accuse…” una forte accusa
verso un governo che perseguitava un innocente con poche prove
e per giunta discutibili.
Il caso Dreyfus per “l’ebreo moderno, colto, che si era lasciato alle
spalle il ghetto ed i suoi piccoli traffici fu un colpo al cuore.” Pare
che questa frase fu pronunciata dal padre del Sionismo, Theodor
Herzl, allora giornalista a Parigi. Di fatto di “colpi al cuore” gli
ebrei di Francia e di tutta Europa ne avrebbero avuti molti altri e
forse ancora ne vedranno fintanto che la Francia e quindi l’Europa
tutta non accetti l’idea di una presenza ebraica inviolabile e che
non può essere sottoposta a condizioni. Perché nel momento stesso in cui una nazione, una repubblica, un qualsiasi stato europeo
pone condizioni e vincoli alla esistenza dei propri cittadini ebrei si
avvia alla propria scomparsa come democrazia. Una democrazia
che da un lato costringe i propri cittadini che vengono ammazzati
mentre vanno in una scuola ebraica o in un supermercato casher a
trasformarsi da uomini in ebrei e dall’altro, avvenuta questa trasformazione, pretende di non poterli più difendere adeguatamente
perché, appunto, sono “solo” degli ebrei.
I fatti di Parigi, al giornale Charlie Hebdò, così come all’Hyper
Cacher ci hanno dimostrato che di fronte ai coccodrilli totalitari,
siano essi di formazione nazista, fascista, comunista o islamista,
non esistono repubbliche in salvo o cittadinanze di rifugio: siamo
tutti ebrei, cristiani, infedeli senza alcun passaporto o gloriosa
storia repubblicana da poter usare come scudo.
PIERPAOLO P. PUNTURELLO
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
La Patria della democrazia che
non ha mai difeso i suoi cittadini ebrei
17
EUROPA
La Bibbia messa ai margini
e la crisi del cristianesimo
L’Europa sconta un’incapacità nel comprendere lo Stato di Israele.
A una certa politica miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da ricordare
e non come soggetti con cui confrontarsi
S
iamo in guerra e prendiamo coscienza che siamo solo agili
inizi. E’ la prima volta dai giorni di Adolf Hitler che le
sinagoghe in Francia sono state chiuse di sabato. Tuttavia, è unicamente il tragico attentato al giornale Charlie
Hebdo che ha scosso gli europei: i molti e continui attentati ai
singoli ebrei e alle comunità ebraiche in tutta Europa in questi
anni hanno turbato qualcuno, ma per quasi tutti si è
trattato «solo» di ebrei.
Molti intellettuali e politici
sostengono che il problema
non è l’Islam, ma il terrorismo. È come dire che il cristianesimo non è l’antisemitismo o l’antigiudaismo.
Certo! Tuttavia è innegabile che l’antisemitismo e
l’antigiudaismo sono stati
problemi profondi propri
del cristianesimo (e non
solo). La violenza e il fanatismo, la sottomissione religiosa e il terrore non esauriscono l’Islam, ma sono un
problema religioso che in qualche modo riguarda l’Islam. L’autocritica dell’Islam (assieme alla critica laica esterna) su questo
punto sembra difettare.
Cristiani ed ebrei, secondo il Corano, sono presenti nei Paesi islamici in quanto dhimmi, popolazioni sottomesse, tollerate purché
subalterne e paganti apposite tasse. Cosa dobbiamo, sia a livello
politico e giuridico sia a livello inter-religioso, chiedere oggi ai più
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autorevoli teologi islamici nei Paesi europei e arabi, anche a fronte della massiccia presenza demografica di musulmani?
La prima domanda è la seguente: è possibile per l’Islam, in ossequio al Corano e per necessità religiosa intima propria dei musulmani osservanti, e non solo perché richiesto dai governi occidentali o da ebrei e cristiani, accettare teologicamente, apprezzandolo, il
concetto di cittadinanza
politica, anziché quello di
cittadinanza religiosa, confliggente quest’ultimo con i
valori occidentali e pericoloso per le comunità cristiane
ed ebraiche che, in qualità
di minoranze, sarebbero
esposte a intolleranze e
arbitrio? Questa domanda
fondamentale, per ignoranza, ignavia e inettitudine,
non è mai stata seriamente
posta dai politici europei,
che hanno responsabilità
enormi, anche del sangue
sinora versato.
C’è una seconda questione,
che si intreccia alla prima.
Per l’Islam, gli ebrei hanno alterato la Rivelazione divina e i cristiani hanno pratiche cultuali, oltre a condividere con i primi una
Rivelazione alterata, dal sapore idolatrico. E’ possibile per l’Islam,
in ossequio al Corano e per necessità religiosa interiore dei musulmani osservanti, e non solo perché sollecitato daa ebrei e cristiani,
apprezzare positivamente, in una prospettiva teologica, ebrei e
cristiani in relazione alle problematiche sollevate da questo
assunto coranico?
Premesso che ci sono migliaia di singoli musulmani che a queste
domande hanno già risposto personalmente con il rispetto per il
prossimo e per la sua fede, con un certo pluralismo e con l’integrazione ricercata e praticata, tuttavia manca una reale, inequivocabile, onesta, autorevole e vincolante riflessione teologica islamica
al riguardo. È chiaro che se le risposte saranno per lo più negative,
non sufficientemente autentiche o caratterizzate da silenzi e
imbarazzi, ci si troverà tutti di fronte a un immenso problema.
C’è una tentazione che può profilarsi, a diversi livelli, sia nel cristianesimo sia nella politica europea: quella di lasciar soli gli ebrei
e lo Stato di Israele per facilitare una pace politica, culturale e
religiosa con l’Islam politico, specie nell’ottica delle future proiezioni demografiche religiose europee e mediterranee. È una strategia fallimentare che i cristiani arabi provarono con il panarabismo e l’antisionismo. Gli esiti sono ben noti: dopo che quasi tutti
i Paesi islamici si sono sbarazzati dei “loro” ebrei, si sono concentrati con violenze e massacri sulle ben nutrite minoranze cristiane.
È una storia che si ripropone e che va dal genocidio armeno (cento
anni fa), ai cristiani copti di Egitto, ai cristiani etiopi e nigeriani,
sino a Mosul. E molti Paesi europei, un’intera «classe» di intellettuali e molti cristiani di Occidente hanno le mani grondanti del
sangue dei cristiani di Oriente, dato che sono stati disposti a
sacrificarli sugli altari del pacifismo, dell’opportunità politica, di
un malinteso concetto di tolleranza, della cultura benpensante e
È stato necessario un attore per far di
nuovo parlare, interessando, di Bibbia e
del Decalogo: Benigni! Che debacle che
sia stato necessario lui dopo duemila
anni di cristianesimo e duemila e duecento anni di ebraismo in Italia! L’erosione della conoscenza della Bibbia,
non in quanto «tributo antiquario» ma
piuttosto in quanto «forza creatrice e
rigenerante», è uno dei fatti più inquietanti e drammatici per il nostro futuro
sia religioso, sia culturale nelle sue
varie declinazioni, sia in termini economici e politici.
Aveva ragione C. M. Martini a dire che
la Bibbia è il libro del futuro dell’Europa
e dell’Occidente, ma non è stato ascoltato. Aveva ragione Benedetto XVI
nella ben nota conferenza di Ratisbona,
ma fu vittima del discredito mediatico e
culturale. E la Bibbia è stata scritta da
ebrei, per ebrei, in ebraico, e l’ebraismo
ancora oggi sopravvive proprio grazie
alla Bibbia. E, parimenti, credo, il cristianesimo.
II riportare la Bibbia a fondamento della
cultura e dell’etica è un impegno religioso possibile, dalla fecondità straordinaria, condivisibile tra ebrei e cristiani: un impegno
di cui si avverte l’urgenza impellente e drammatica in questi anni
di crisi, di confusione assordante, di efferata violenza e di grande
mediocrità.
Tuttavia, senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Israele, non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cristiani.
Infine, visti i tempi calamitosi in cui ci troviamo e troveremo ancora di più domani a vivere, invito tutte le persone coscienti e
responsabili a raccogliersi in preghiera invocando dall’alto l’impulso in ciascuno di noi ad agire ai fini del rispetto del prossimo
e della pace, concetto e realtà quest’ultima troppo spesso ideologicamente abusata.
GIUSEPPE LARAS
(Il Corriere della Sera, 13 gennaio 2015)
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
radical chic, della «buona» coscienza.
La tentazione di abbandonare gli ebrei e
Israele è già esistente nei ricorrenti episodi di boicottaggio europeo dello Stato
di Israele. Esiste nel silenzio imbarazzato o infastidito sui morti ebrei in Europa
oggi. Con buona pace della Giornata
della Memoria.
La Giornata della Memoria è stata purtroppo addomesticata con liturgie pubbliche e anestetizzata dalle cerimonie in
Parlamento e al Quirinale. Le più alte
cariche dello Stato dovrebbero annualmente andare a celebrarla a Fossoli, a
Bolzano, a San Sabba o nel ghetto di
Roma, per far capire che è una realtà
possibile, come tale ripetibile, e che si è
verificata in Italia, con il plauso, la collaborazione, l’assenso e i silenzi di moltissimi - troppi - italiani. Essa così risulta
azzoppata, fraintesa e priva di potenzialità dinamiche per comprendere il presente e incidervi positivamente.
E l’ignavia e il diniego europeo sulle
questioni presenti e sull’incapacità di
affrontare politicamente e culturalmente
le insidie legate alle derive dell’Islam politico, consegnando così a
razzisti e xenofobi le risoluzioni del problema, gettano ombre lunghe che rievocano i fantasmi del nazismo e, per gli ebrei, della
persecuzione. L’incapacità di comprendere lo Stato di Israele in
definitiva si risolve nel fatto che a una certa politica e a una certa
cultura europea miope gli ebrei piacciono solo in quanto morti da
piangere e ricordare e non come soggetti vivi con cui dialogare e
confrontarsi, ovvero oggi, in primo luogo, Israele.
La nostra contemporaneità ricorda tristemente il periodo sinistro
tra le due guerre mondiali: una sorta di collasso sistemico. La crisi
che viviamo non è economica e demografica soltanto: è una crisi
culturale e valoriale, legata alla crisi del cristianesimo e, in un certo
senso, della conoscenza della Bibbia, il cardine dell’intera nostra
cultura dal punto di vista urbanistico, artistico, musicale, letterario,
filosofico, giuridico, politico e religioso. E proprio per questo la Bibbia non è presente nelle scuole. E questa la chiamano laicità!
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PENSIERO
Satira e religione, un binomio esplosivo
Lo dicevano già gli antichi: ‘Scherza con i fanti, ma lascia stare i santi’.
Colpiti più di tutti sono stati gli ebrei che però non hanno mai pensato
di uccidere i vignettisti
D
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
opo la strage di Parigi nella redazione di Charlie
Hebdo ad opera dei fratelli Kouachi, il rapporto tra
satira e religione occupa di nuovo un posto di primo
piano nel dibattito contemporaneo sulla libertà di
espressione. Un dibattito che è tornato in auge da quando nel
2005 i redattori del quotidiano Jyllands-Posten, che aveva pubblicato il 30 settembre nella versione on line alcune caricature di
Maometto, erano stati obiettivo di ripetute minacce da parte di
fondamentalisti religiosi. Tra le vignette spiccano quelle che
rappresentano Maometto con un candelotto di dinamite sul turbante; in un’altra mentre impugna minaccioso una scimitarra; in
un’altra ancora mentre, sulla soglia dell’Aldilà, respinge alcuni
martiri della Jihad ancora fumanti, comunicando loro che “non ci
sono più vergini” (“Stop, stop, we ran out of virgins!”). In alcune
raffigurazioni le fattezze fisiche di Maometto sono marcate in
maniera tale da attribuirgli un aspetto mefistofelico. Ricordano il
modo in cui in Europa venivano raffigurati gli ebrei nel periodo
che precedette la Shoah. La pubblicazione provoca lo sdegno di
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tutti i musulmani nel mondo, alcuni dei quali reagiscono con
violenza assaltando le ambasciate danesi. In Italia, il ministro
per le Riforme Istituzionali Roberto Calderoli, leghista, getta
benzina sul fuoco dichiarando di indossare da giorni una
maglietta con le vignette incriminate, arrivando a mostrarla compiaciuto nel corso di un’intervista al Tg1 in segno di solidarietà
ai giornalisti danesi.
Il ministro si dimette ma la trovata della maglietta provoca l’assalto di una folla di esagitati libici al consolato italiano di Bengasi, nel corso del quale 12 dimostranti vengono uccisi dalla polizia
accorsa a difendere la sede diplomatica. Queste le premesse dell’assalto a Charlie Hebdo che già nel 2006
ripubblicò le vignette satiriche danesi. Ma quello tra satira e
religione è un rapporto antico, come ovvio. Nell’antica Grecia troviamo traccia di dialoghi caricaturali degli
dei. Tra ‘800 e ‘900 è il Cattolicesimo ad essere oggetto di satira
da parte dell’internazionalismo socialista. Un esempio italiano, forse il più importante, fu l’esperienza del
Mosca ma ebbe la sua punta di lancia in Giovanni Guareschi,
l’inventore di Peppone e Don Camillo. La satira in questo caso
era soprattutto politica. Il Marc’Aurelio esisteva sin dal 1931, ma
più che alla satira vera e propria era dedito all’umorismo in generale. Scrissero e disegnarono sul Marc’Aurelio tra gli altri Fellini,
Scola, Steno, Zavattini.
A fine anni ’70 torna troviamo Il Male e Frigidaire, quest’ultimo
più dedito al fumetto. Il Male divenne famoso soprattutto per le
false prime pagine di quotidiani, con notizie deliranti del tipo
“Annullati i mondiali di calcio”, “Sono atterrati gli extraterrestri
o “Arrestato Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate rosse”. Tentativo di raccogliere l’eredità del Male fu Cuore di Michele Serra,
che ebbe buon successo agli inizi degli anni ’90, ma circoscritto
ad un pubblico politicamente schierato. Ma la rivista satirica più famosa degli ultimi decenni è il Vernacoliere che, come recita la frase sotto la testata, è un «mensile di
satira, umorismo e mancanza di rispetto in vernacolo livornese e
in italiano». Tra le copertine più famose quella in cui campeggia
la scritta, riferita a Papa Benedetto XVI: «Era meglio un papa
pisano, almeno si rideva un po’. Si doveva chiamà Gosto I e voleva rifà le processioni co’ barrocci». Nell’edizione era raffigurate
una serie di vignette come quella che illustra alcuni preti che si
chiedono «ma sei sicuro che quando dice SS intende lo Spirito
santo?». Oppure. «Come mai hanno eletto Ratzinger?», chiede
un tizio. Risposta: «Perché Priebke era troppo vecchio».
NICOLA ZECCHINI
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
settimanale romano L’Asino. Fondato nel 1892 dai due esponenti socialisti Guido Podrecca e Gabriele Galantara, nei primi anni
di vita si concentrò sulla satira contro il governo Giolitti.
Fu nei primi anni del ‘900 che avvenne la svolta anticlericale del
settimanale, dovuta all’ingresso nella vita politica da parte dei
movimenti cattolici. Le vignette prendevano di mira preti e
vescovi, grassi e opulenti cardinali intenti ad opprimere il popolo
e il pontefice stesso e furono oggetto di sospensioni imposte
dalla censura. E’ invece la religione ebraica quella maggiormente colpita a partire dall’ascesa nel nazismo in Germania. La pubblicazione di
riferimento del partito per quanto riguarda la satira illustrata è
senza dubbio Der Sturmer. Nato nel 1923 e sospeso appena dopo
il “putsch” di Monaco, il periodico nazista riprende le pubblicazioni nel 1925 dedicandosi totalmente a quella che più che satira
è propaganda anti-giudaica. Le strisce descrivevano gli ebrei
come grassi, bassi, brutti oltre che pervertiti sessuali dal naso
adunco ed occhi suini. L’antisemitismo a fumetti fece la sua comparsa anche in Francia
ed in Italia. A Vichy era pubblicata la rivista collaborazionista
Vide, mentre i più importanti periodici erano rigidamente controllati dalle forze di occupazione.
Proprio nella Francia occupata nascono le accuse di collaborazionismo a uno dei più grandi autori di fumetti del dopoguerra: si
tratta di Hergé, padre di Tin Tin. Negli anni ’40/50 in Italia le riviste satiriche fondamentali furono
il Candido e il Marc’Aurelio. Il primo fu fondato da Giovanni
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PENSIERO
I confini della satira
Non tutto è lecito, quando si scherza. “Shalom” ne ha parlato
con il Rabbino capo di Roma, rav Riccardo Di Segni,
commentando le vignette di Charlie Hebdo
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E
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siste una Halakhà che regola la materia dell’ironia blasfema, se così vogliamo chiamarla?
La regola è prescritta nel Talmùd (Meghillà 25b) in questi
termini: ogni letzanùt è proibita tranne quella della
‘avodà zarà. Per letzanùt (in ebraico moderno letzàn è il buffone, il
pagliaccio) si intende, in quella pagina, la satira che usa concetti e
forme scurrili. E’ sempre proibita, a meno che l’oggetto sia la
‘avodà zarà, letteralmente il culto estraneo, generalmente una
religione idolatrica. Il Talmùd prende come esempio un verso del
profeta Isaia (46:1) che descrive la caduta delle divinità babilonesi
in termini non tanto eleganti. Ma è solo uno dei possibili esempi
tra tanti della Bibbia.
Storicamente, come ci si è comportati su tali questioni?
L’ironia, lo scherno, la satira, le accuse pesanti nei confronti di altre
religioni sono presenti nella Bibbia e continuano in tutta la storia.
Si pensi che un rito fondante l’identità e la religione ebraica,
come Pesach, il sacrificio pasquale, nasce come opposizione alla
sensibilità e alla religione egiziana. Quando il Faraone aveva proposto a Mosè di fare i sacrifici in
Egitto, Mosè gli aveva detto che
se gli ebrei avessero sacrificato
animali venerati dagli egiziani
avrebbero rischiato la lapidazione
da parte di gente offesa. Ma il
giorno prima della piaga dei primogeniti e dell’uscita dall’Egitto
il sacrificio viene fatto, pubblicamente e per ordine divino. Niente
di politically correct; al contrario, la dimostrazione della sconfitta
di un sistema.
In tempi biblici si ironizzava sui nomi degli dei, Ba’al (il signore)
diventava Bòshet (la vergogna); Ba’al Zevùl (il signore del luogo
sacro) diventava Ba’al Zevùv (il signore della mosca). Su questa
linea continuarono i primi cristiani che trasformarono Ba’al Zevùv
da divinità a principe dei diavoli: Belzebù. Nessuno è innocente in
queste operazioni. Ovviamente tutto dipende da quanto ti lasciano
fare (perché dai tempi di Mosè a oggi la satira è rischiosa…), quale
coscienza si ha del rispetto verso le diversità, e quanto è ostile
l’altra parte nei tuoi confronti, tanto da meritare una critica aggressiva.
Esistono approcci differenti tra le attuali autorità rabbiniche?
Non è un argomento sul quale si discute molto.
Esistono differenze tra le diaspore e Israele?
Non so se ce ne sono, dipende dai rapporti di forza tra comunità
locale e comunità generale. Ma in un’epoca globalizzata come la
nostra un colpo di tosse a Pechino fa notizia ovunque.
Come ci si regola in Israele? In Israele i cosiddetti laici sono
molto aggressivi nei confronti dei religiosi, e viceversa…
Non è una novità. Si pensi ai midrashim che dicono che dopo la
nascita di Izchak–Isacco la matriarca Sara dovette (e fu capace di
farlo) allattare tutti i neonati, per dimostrare che il figlio l’aveva
partorito lei, e che Izchaq era la copia del padre Abramo, per smentire chi supponeva un altro generoso donatore… E chi lo faceva
erano i letzanè hadòr, i satirici di quella generazione, un termine
che nella letteratura midrashica e di esegesi ritorna 130 volte!
Esistono differenze tra sefarditi e ashkenaziti?
Sarei tentato di dare una risposta ironica, meglio tacere.
Mi è stato insegnato che “non si scherza sulla Torà”, tanto meno
su passi e versetti che ad una moderna sensibilità occidentale
sembrerebbero prestarsi a qualche superficiale ironia…
E’ la variante interna ebraica del proverbio “sacherza coi fanti e
lascia stare i santi”. E’ un invito a rispettare la nostra identità e la
nostra tradizione. Se dovessimo cedere acriticamente alla “sensibilità occidentale” (che in parte però è figlia nostra) faremmo a
pezzi molte cose, ed effettivamente è quello che succede. La Torà
contiene tante cose di difficile comprensione e che richiedono studio. La sfida è di mettersi a studiare e non cedere alle tentazioni
autodistruttive. Perché è vero che non possiamo fare a meno,
anche nella Torà, di una certa leggerezza iniziale, per poter entrare
serenamente nei suoi segreti, ma
poi bisogna essere seri.
Anche gli ebrei di formazione e
condotta distanti dalla stretta
osservanza sanno che si tratta di
trasgressione grave e di comportamento comunque biasimevole, soprattutto se manifestato in
pubblico.
Dovrebbe essere un fondamento
del messaggio “civile” dell’ebraismo, il rispetto della dignità
altrui. Ma questo non significa
bandire l’ironia, che è strumento
di crescita.
La considerazione risulta diversa se il responsabile eventuale è
un ebreo, rispetto a chi ebreo
non è? Insomma, c’è un obbligo halakhico di essere particolarmente severi con chi appartiene ad una Comunità ebraica? Si
può rischiare l’allontanamento?
Sono possibili tutti gli scenari, ironia tra ebrei o bidirezionale tra
ebrei e non ebrei. In ogni caso vi sono i limiti del buon gusto e
chiaramente non è lecito superare quelli dell’ostilità tra gruppi.
Un ebreo che si comporta male, tanto più in pubblico, rischia di
fare quello che è chiamato il chilùl haShem la profanazione del
Nome, e per questo ha una responsabilità maggiore. Quanto
all’allontanamento, dipende da cosa si fa e a danno di chi, e via
dicendo. Si possono rischiare forme di emarginazione sociale e
forte critica, ma essendoci anche una forte diversità sociale,
hanno un impatto limitato.
Nel mondo ebraico c’è una tradizione di autoironia e di sarcasmo
intelligente però distruttivo, che spesso colpisce non solo regole
e interpretazioni ma la stessa autorità rabbinica… Insomma, il
fin troppo celebre witz lo abbiamo anche in Italia e soprattutto
qui a Roma…
Non ho l’impressione che da queste parti ci sia una grande tradizione di ironia, soprattutto di quella intelligente. Molte persone
faticano a comprendere l’ironia o sono iper-suscettibili. Molto spesso ho colto battute da persone della ormai vecchia generazione su
questioni di osservanza, che non capivano e quindi schernivano,
ma si tratta di roba vecchia dettata dall’ignoranza. Magari ci fosse
qualcuno che fa ironia intelligente apparentemente distruttiva, ma
utile per la chiarezza. Mi divertirei a rispondergli nella sua stessa
lingua, per quanto mi è consentito, e l’ho già fatto in passato.
Può essere utile citare due casi
celebri di ebrei molto irriverenti,
Philip Roth e Woody Allen. Philip
Roth ha conosciuto forme di ostracismo nelle Congregations americane fin dai tempi di “Addio,
Columbus” e del celebre “Lamento di Portnoy”. Quanto a Woody
Allen lo ricordiamo protagonista
in un film recente firmato da John
Turturro, nel quale si mette duramente in ridicolo un Tribunale
Rabbinico dei Chassidim Satmar.
Per non parlare di moltissimi altri
film più o meno riusciti. L’ebraismo ortodosso ha espresso reazioni in proposito?
L’ebraismo ortodosso è una galassia. Qualcuno si
può arrabbiare qualcun altro si può divertire. Ma i
Satmar non vanno al cinema…
Comunque Izchak deriva da una radice che si
riconnette al “ridere”…
Nel caso specifico è il riso spontaneo di un’anziana
signora che non crede alle possibilità divine di piegare la natura. E’ una lezione su come affrontare la
vita, senza preoccuparsi troppo. Un po’ differente
dal sarcasmo distruttivo.
In molti ambienti ebraici, e non soltanto ortodossi, si fa notare che irridere la fede degli altri è
sconveniente e censurabile. Più censurabile ancora se si tratta di una fede monoteista come quella
islamica. Insomma Charlie Hebdo spesso non
piace neppure agli ebrei, però gli ebrei non sono passati alla
violenza.
Va precisato che l’Islam non è considerato ‘avodà zarà e non ci è
permesso irriderlo. Dire che Charlie non piace agli ebrei, beh…
bisogna vedere a quali ebrei. Ce n’erano due quel giorno in redazione (Wolinski e Cayat) e sono stati uccisi. Gli ebrei a cui non
piace (e sono tra quelli) non si identificano nella sua scurrilità.
Questione prima di tutto di buon gusto, prima che di divieti religiosi. Ma è evidente che è ben difficile immaginare un ebreo che
prende un mitra per fare strage in una redazione di un giornale
Sar
tor
ia
satirico. Non ce lo permette la
nostra religione e, con molta più
forza di quanto possa la religione
su di noi, la nostra storia e la nostra
coscienza.
Qualche volta si ha l’impressione
che la nostra cautela derivi anche
da una mentalità di minoranza.
Siamo molto solerti quando si
tratta di difendere la sensibilità
altrui e di manica molto larga
quando toccano la nostra. Non è
che stiamo sempre in tribunale
dopo aver visto certe vignette. Ma
nelle diaspore le autorità rabbiniche si sono - mi sembra - schierate
dalla parte del buon diritto dei
musulmani a forme di tutela anche forte della
propria sensibilità e suscettibilità, escludendo
ovviamente il ricorso ad ogni forma di violenza.
Non so se siamo di manica molto larga quando
toccano la nostra. Si pensi alle vignette anti-israeliane e spesso antisemite che compaiono soprattutto in tempi di crisi e di guerra. Le proteste ci sono,
ma non si va oltre alle proteste e denunce accorate,
perché gli strumenti giuridici mancano. Penso a
quello che hanno fatto noti vignettisti italiani e alla
nostra impotenza nei loro confronti. Eppure una
soluzione ci sarebbe, rispondergli con gli stessi loro
strumenti; ma ci vuole genio e accesso ai media
(cose di cui non disponiamo molto, malgrado quello
che pensano - e disegnano - gli antisemiti).
Negli USA si è fatto notare che il diritto a non essere offesi nella
propria sensibilità religiosa è un diritto fortemente tutelato.
Obama non si è presentato alla manifestazione di Parigi, e forse
non per caso…
L’assenza di Obama forse dipende da un contenzioso USA-Francia
più ampio. Ma la domanda che dovrebbe riguardarci tutti è quella
dei limiti e non è un dibattito semplice.
INTERVISTA A CURA DI PIERO DI NEPI
Dall'alto: Georges Wolinski e Elsa Cayat
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se
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MONDO
Quelle oscure relazioni tra Iran e Argentina
La misteriosa morte del magistrato Alberto Nisman che indagava sulle responsabilità
e le connivenze dopo l’attentato antisemita a Buenos Aires del 1994
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“L
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’86° vittima dell’attacco all’AMIA” (Argentina Israelite Mutual Association) ha scritto su twitter Sergio Bergman, Rabbino e deputato argentino, riferendosi al pubblico ministero Alberto Nisman, trovato morto il 18 gennaio scorso. Nisman indagava proprio sulla
strage che colpì la comunità ebraica argentina (250mila persone,
la più numerosa dell’America latina) nel 1994, 85 morti e oltre 200
feriti. Secondo la sua ricostruzione, l’attacco sarebbe stato effettuato dai terroristi di Hezbollah e pianificato e finanziato dall’Iran, tanto da emettere sei mandati di arresto internazionale
contro iraniani ritenuti responsabili, tra cui alcuni esponenti di
primo piano del regime di Teheran, come l’ex Presidente Ali Rafsanjani e l’ex ministro della Difesa Ahmad
Vahidi.
Nel 2006, la sentenza della Procura Federale
di Buenos Aires che riconobbe Hezbollah e
il governo iraniano come responsabili diretti
dell’attentato, cui seguì l’interruzione dei
rapporti tra Iran e Argentina. Al momento
della morte di Nisman, però, le relazioni tra
Teheran e Buenos Aires si erano ristabilite,
forse anche troppo. La settimana precedente la sua morte, infatti, Nisman aveva rivelato delle intercettazioni telefoniche tra agenti dei servizi segreti argentini e funzionari
iraniani che discutevano accordi segreti: ha
così accusato la Presidente argentina Cristina Kirchner di aver preparato un’offerta di
copertura all’Iran, con cui avrebbe garantito
l’immunità agli ex funzionari del governo
iraniano, in cambio di accordi economici e
commerciali.
Il riavvicinamento tra Iran e Argentina parte
però prima. Il rallentamento dell’economia
del Paese sudamericano ha trovato nell’Iran sottoposto alle sanzioni internazionali un valido partner per esportare i propri prodotti agricoli e per importare petrolio. Nel 2012, le esportazioni in
Iran erano aumentate del 234% da quando Cristina Kirchner è
divenuta Presidente nel 2007; se poi i dati si comparano con il
2005, l’incremento è addirittura del 1000% secondo il Clarin. L’Iran è così divenuto il secondo compratore al mondo della soia
prodotta in Argentina, da cui ha importato anche cereali, oli e
grassi animali, ma anche prodotti tecnologici.
Si sono dunque incontrate esigenze complementari: da una parte
l’Iran, costretto a embarghi economici e all’isolamento diplomatico, ha guardato a molti Paesi sudamericani come nuovi interlocutori; Ahmadinejad aveva anche avviato un solido asse con il
venezuelano Chavez negli anni 2000, con l’obiettivo di coinvolgere anche altri Paesi come Bolivia ed Ecuador. Da parte di Buenos
Aires c’era da fronteggiare una situazione economica catastrofica: negli ultimi mesi del 2012 si era paventata l’ipotesi di un
nuovo default, tanto che l’agenzia Fitch aveva declassato di 5
gradini da B a CC il rating del debito, mentre a inizio 2013 è arrivata dal Fondo Monetario Internazionale una dichiarazione formale di censura per l’inaccuratezza dei propri dati economici,
cosa mai verificatasi in precedenza, minacciando anche l’espulsione dell’Argentina dal
FMI; inflazione alle stelle e accuse di conti
truccati rendono l’idea dell’andamento
dell’economia argentina degli ultimi anni. Il
tutto si è inserito in un quadro già movimentato dalla nazionalizzazione della compagnia petrolifera argentina YPF (Yacimientos
Petrolíferos Fiscales) espropriata alla spagnola Repsol e dalle rivendicazioni sulle
Falkland-Malvinas.
In questo contesto si è avviata una distensione nei rapporti tra questi due Paesi. Nel
2011, in occasione del discorso di Ahmadinejad alle Nazioni Unite, per la prima volta
dall’implicazione iraniana nell’attentato, il
rappresentante argentino all’ONU non
aveva abbandonato la sala. Nel 2012 si sono
susseguiti incontri bilaterali, come i vertici
di settembre a New York e di ottobre a Ginevra, fino all’accordo, firmato in Etiopia nel
gennaio 2013, per stabilire una commissione congiunta formata da 5 esperti di diritto internazionale esterni
ai due Paesi per indagare sull’attentato all’AMIA. A distanza di
un anno, la morte di Nisman, definita in una dichiarazione della
Anti-Defamation League, il gruppo con sede a New York che si
batte contro l’antisemitismo, “un altro tragico episodio della sordida saga del fallimento dell’Argentina di agire con decisione per
trovare, arrestare e perseguire i responsabili dell’attacco terroristico all’AMIA”.
DANIELE TOSCANO
Le ragioni
del nucleare di Teheran
La bomba atomica ha un valore
simbolico e rafforza il senso
di difesa del Paese. Ma è anche
un'incombente minaccia
sui nemici della rivoluzione islamica
ci che vedrebbero di buon occhio un cambio di regime. Oltre agli
Stati Uniti, che hanno inserito l’Iran nella lista degli "Stati Canaglia",
un vasto panorama di Stati Sunniti è in continua lotta con l’Iran per
la supremazia nella regione, soprattutto l’Arabia Saudita, l’altro
grande Stato dominato dall’ortodossia religiosa e che gli ayatollah
reputano non adatto al ruolo di guardiano delle sacre reliquie di
Medina e La Mecca. Inoltre, proprio in questi ultimi mesi, le milizie
Isis stanno continuando
la loro corsa verso Est
minacciando i confini iraniani. L’intransigenza
degli uomini di Al-Baghdadi, che vedono i musulmani Sciiti come infedeli
alla pari di cristiani ed
ebrei, ha già spaventato
Teheran a tal punto da
far dialogare il Presidente
Rouhani con Obama per
un possibile intervento
dell’esercito
iraniano
nella Coalizione Internazionale anti-Isis.
Una delle principali ragioni per cui il Pakistan non è stato invaso dalla rivale India è proprio
il fatto che questo si era dotato di un arsenale di testate nucleari da
utilizzare come ultima spiaggia. Immaginate ora di essere un leader
iraniano: in queste condizioni non vorreste anche voi un’arma che
vi faccia sentire sicuri in un ambiente così ostile?
MARIO DEL MONTE
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M
entre la comunità internazionale è alle prese con il
terrorismo, con le atrocità dello Stato Islamico e con
il virus Ebola, riprende il dialogo fra le potenze occidentali e l’Iran sulla questione nucleare. I rischi e le
preoccupazioni derivanti dal possesso da parte del regime degli
ayatollah di materiale utilizzabile per la costruzione dell’atomica
sono ormai noti all’opinione pubblica mondiale, ciò che invece
sembra sfuggire sono le
motivazioni che hanno
spinto l’Iran a procedere
su questa strada.
Nonostante il governo di
Teheran sia, dalla rivoluzione islamica del 1979,
chiuso in se stesso, rendendo difficile il lavoro di
qualsiasi
osservatore
esterno, alcune considerazioni possono essere
fatte su quando e perché
l’opzione nucleare è
diventata di vitale importanza per lo Stato.
Esistono due possibili
giustificazioni alla base dell’inflessibilità iraniana riguardo al suo
programma nucleare: la sua valenza simbolica e il senso di pericolo per l’incolumità della nazione.
La società iraniana, in virtù del suo essere stata per secoli un
centro culturale, scientifico e religioso della regione mediorientale, è da sempre pervasa da un forte orgoglio nazionale. Il programma nucleare costituisce, nell’immaginario collettivo, il modo in cui
l’Iran si riafferma come nazione sovrana, avanzata e indipendente
dalle continue interferenze del mondo occidentale all’interno della
sua politica. Le dichiarazioni dei suoi leaders politici, che la definiscono spesso una "questione di dignità nazionale", sembrano
proprio avallare questa tesi.
La seconda motivazione è molto più semplice ma non è mai stata
riconosciuta in pubblico: la difesa e la deterrenza dell’atomica. La
maggior parte degli analisti ritiene che l’Iran vorrebbe dotarsi di
un’arma nucleare per scoraggiare le minacce provenienti dall’esterno. Noi occidentali inorridiamo al pensiero di un regime fondamentalista in possesso di armi di distruzione di massa ma i cittadini iraniani hanno un approccio molto diverso rispetto alle ambizioni nucleari del loro paese: che si tratti di sostenitori dell’ayatollah Khamenei o di laici appartenenti al Movimento Verde, le loro
differenze ideologiche scompaiono quando si tratta di discutere
del diritto dell’Iran di entrare a far parte del club nucleare. Il motivo di questo largo sostegno risiede nel profondo senso di insicurezza e di vulnerabilità della società. In fin dei conti il programma
nucleare è stato avviato durante gli anni '80 quando era in corso
la guerra con l’Iraq di Saddam Hussein il quale non si fece scrupolo di usare armi chimiche sull’esercito di Teheran.
Oggi l’Iraq non è più una minaccia ma, essendo l’Iran uno dei pochi
Stati Sciiti presenti sulla scena mediorientale, non mancano i nemi-
25
COPERTINA
Smascheriamo l’antisemitismo
per contrastare tutti i genocidi
Un appello all’Onu: l’orrore di ieri è direttamente collegato a quelli di oggi.
Chi aveva nel cuore l’Olocausto ha percepito immediatamente la mostruosità dei massacri in Bosnia,
in Ruanda e nel Darfur. Una sintesi del discorso di Bernard-Henry Levy in occasione della riunione
dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite sul tema della crescente violenza antisemita nel mondo
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
S
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e mi avete invitato qui oggi non è per cantare l’onore e la
grandezza dell’umanità, ma per piangere, purtroppo, i
progressi di quella inumanità radicale, di quella bassezza
che si chiama antisemitismo. A Bruxelles, pochi mesi orsono, sono stati attaccati la memoria ebraica e i guardiani di questa
memoria. A Parigi, solo qualche giorno fa, abbiamo sentito ancora
una volta il grido infame “A morte gli ebrei” e i disegnatori sono
stati assassinati perché disegnavano, i poliziotti per il loro lavoro e
gli ebrei perché facevano la spesa e semplicemente erano ebrei. In
altre capitali, in Europa e altrove, la stigmatizzazione degli ebrei
sta ridiventando la parola d’ordine di una nuova setta di assassini,
a meno che non sia la stessa, sotto altre vesti.
La vostra Casa è stata edificata contro tutto questo. La vostra Assemblea aveva il sacro compito di scongiurare il risveglio dei terribili spiriti dell’antisemitismo. Ma essi sono di ritorno, e perciò siamo qui. L’antisemitismo di oggi dice tre
cose. Può operare su vasta scala solo se
riesce a proferire e ad articolare tre enunciati odiosi, ma inediti, e che il XX secolo
non è riuscito a squalificare. 1. Gli ebrei
sarebbero esecrabili perché sostenitori di
uno Stato malvagio, illegittimo e assassino: è il delirio antisionista di chi è spietatamente contrario al ritorno degli ebrei
nella loro terra storica. 2. Gli ebrei sarebbero tanto più esecrabili in quanto fonderebbero il loro amato Paese su una sofferenza immaginaria o, perlomeno, esagerata: è l’ignobile, l’atroce negazione della
Shoah. 3. Infine, commetterebbero un
terzo e ultimo crimine che li renderebbe
ancora più detestabili; crimine che consisterebbe - evocando essi instancabilmente la memoria dei loro morti - nel soffocare le altre memorie, nel mettere a tacere gli altri morti, nell’eclissare gli altri martiri che gettano nel lutto il mondo odierno, e di cui il
caso più emblematico sarebbe quello dei palestinesi: qui ci avviciniamo a quella imbecillità, a quella lebbra che si chiama competizione tra le vittime.
II nuovo antisemitismo ha bisogno di questi tre enunciati. È come
una bomba atomica morale con tre componenti. Riconoscerlo significa cominciare a vedere quel che vi spetta fare per lottare contro
questa calamità. Immaginiamo una Assemblea generale delle Nazioni Unite dove Israele abbia il suo posto, tutto il suo posto, quello di un Paese come gli altri, né più né meno colpevole di altri, con
gli stessi doveri ma anche gli stessi diritti; e immaginiamo che gli
si renda giustizia riconoscendogli, intanto, di essere ciò che è veramente: una autentica, solida e valida democrazia. Immaginiamo
una Assemblea generale delle Nazioni Unite che, fedele al proprio
patto fondatore, diventi la scrupolosa guardiana della memoria del
peggiore genocidio mai concepito da quando esiste l’uomo. Immaginiamo che nel 2015, sotto la vostra egida e con l’aiuto delle più
alte personalità scientifiche mondiali, si tenga la più completa, la
più esauriente, la più definitiva delle conferenze mai riunite finora
sul tentativo di distruzione degli ebrei. Proviamo poi a sognare che
da qualche parte, a New York, a Ginevra o a Gerusalemme, si ten-
ga una seconda conferenza da dedicare a tutte le guerre dimenticate che affliggono le terre abitate, ma di cui non si parla mai
perché non rientrano nel quadro dei blocchi, o dei gruppi, fra cui vi
dividete. E che questa seconda conferenza, contraddicendo lo stupido e mostruoso pregiudizio secondo cui in un cuore c’è posto
soltanto per un’unica compassione, riveli quella che è stata l’autentica verità dei decenni trascorsi: è quando si aveva nel cuore la
Shoah che subito si vedeva l’orrore della pulizia etnica in Bosnia;
è quando si aveva in mente quel campione dell’inumano che fu il
massacro pianificato degli ebrei d’Europa che si capiva immediatamente quel che accadeva in Ruanda o nel Darfur. Insomma, lungi
dal renderci ciechi davanti ai tormenti degli altri popoli, la volontà
di non dimenticare nulla del tormento del popolo ebraico è ciò che
rende rilevante, evidente, l’immensa afflizione dei popoli del
Burundi, dell’Angola, del Congo, e di altri ancora. Adottando questo programma, lotterete contro l’antisemitismo reale. Riabilitando l’Israele, avvalendovi della vostra autorità per far tacere, una buona volta, i cretini negazionisti e andando in aiuto dei nuovi dannati
della terra immolati sull’altare dell’ideologia antisionista, smantellerete una ad
una ogni componente del nuovo antisemitismo. Al tempo stesso, difenderete la
causa dell’umanità.
Non sarei qui se non pensassi che questa
sede sia uno degli unici luoghi al mondo,
forse il solo, dove possa orchestrarsi la
solidarietà degli ebranlés, dei percossi, di
cui parlava il grande filosofo cèco Ian Patocka e che ha rappresentato il senso
della mia vita.
Quando, nel mio Paese, le più alte autorità dicono: «La Francia senza i suoi ebrei
non sarebbe più la Francia», esse erigono una diga contro l’infamia. E quando, nello stesso Paese, un capo di Stato e di governo
su quattro vengono a sfilare per dire «lo sono Charlie, io sono
poliziotto, io sono ebreo», alimentano una speranza su cui non
contavamo più.
La vostra stessa presenza qui, stamattina, la vostra volontà di
rendere questo evento possibile e, forse, memorabile, attestano
che in tutti i continenti, in tutte le culture e in tutte le civiltà si
comincia a prendere coscienza che la lotta contro l’antisemitismo
è un obbligo per tutti: è una grande e bella notizia. Quando si
colpisce un ebreo, diceva un altro scrittore, è l’umanità intera a
essere gettata a terra. Un mondo senza ebrei non sarebbe più un
mondo: un mondo in cui gli ebrei ricominciassero a essere i capri
espiatori di tutte le paure e di tutte le frustrazioni dei popoli sarebbe un mondo dove gli uomini liberi respirerebbero meno bene e
dove gli uomini sottomessi lo sarebbero ancora di più. Sta a voi,
adesso, prendere la parola e agire. Sta a voi, che siete il volto del
mondo, essere gli architetti di un edificio dove per la matrice di
tutti gli odi lo spazio si assottigli.
BERNARD-HENRY LEVY
Pubblicato su Il Corriere della Sera,
27 gennaio 2015
La testimonianza
di rav Israel Meir Lau
Difendere l'identità ebraica, testimoniare
e vigilare che la Shoah non si ripeta mai più
Kampf contro gli ebrei e nessuno protesta. Poi viene eletto Cancelliere e nessuno protesta. Poi nel 1933 vengono emanate le prime
leggi razziali e il mondo non disse nulla. Poi nel 1938 con la Notte
dei cristalli, vengono distrutte 1000 sinagoghe, 3000 ebrei uccisi,
decine di migliaia arrestati e deportati e tutto questo nel più assoluto silenzio della stampa internazionale. “Lancio un appello agli
studenti – ha sottolineato rav Lau - fate una ricerca sulla stampa
per vedere come hanno commentato: dall’Occidente non è venuta
una sola parola".
Tutto questo silenzio, questa indifferenza, ha prodotto il silenzio
sul più grande massacro della storia, quello di Babi Yar, vicino
Kiev: tra il 29 e il 30 settembre 1941, furono massacrati 33.771
ebrei ucraini. “Cercate cosa disse la
stampa, nulla. Non un articolo, solo
il poeta Yevtushenko ha scritto una
poesia”. “Lo stesso silenzio – ha
ricordato Lau – quando nel 1942 con
la Conferenza di Wannsee fu pianificata la soluzione finale e furono
predisposti i campi di sterminio”.
Identificarsi con un dramma così
enorme come è stato lo sterminio di
sei milioni di ebrei (di cui un milione
e mezzo di bambini), è difficile - ha
spiegato Lau - e abbiamo dovuto attendere il 2004 perché l'Onu
dedicasse un giorno alla commemorazione della Shoah.
Per comprendere cosa sia stata la persecuzione e il genocidio
degli ebrei i numeri non bastano, perché non colpiscono, è necessario identificarsi nel dolore delle singole persone. Ci è riuscito il
diario di Anne Frank che eleva il valore del racconto individuale a
testimonianza. “Anche per questo ho scritto questo libro – ha
concluso il rav – per commemorare il passato ma anche per prevenire che l’orrore si ripresenti”.
G. K.
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C
osa ci ha insegnato la Shoah? Quale lezione possiamo
trarre dalla pagina più oscura della storia dell'umanità
e della storia del popolo ebraico? E' ruotata attorno a
queste domande la breve visita che Israel Meir Lau
(già rabbino capo ashkenazita d’Israele tra il 1993 e il 2003 e oggi
rabbino capo di Tel Aviv nonché presidente del Mausoleo Yad
Vashem di Gerusalemme) ha tenuto a Roma, in occasione della
Giornata della Memoria per il 70mo anniversario della liberazione di Auschwitz.
La sera del 26 gennaio Lau – nel tempio di via Balbo - ha svolto
una lezione incentrata sul pericolo dell’assimilazione e sulle conseguenze che essa produce per la sopravvivenza del popolo ebraico. “Esistono tre tipi di diluvio
– ha spiegato – quello dell'acqua, quello di sangue e fuoco ed
il terzo è la confusione/assimilazione. Contro il primo diluvio
l'umanità si è salvata attraverso
l'arca, contro il secondo che è
rappresentato dalla Shoah gli
ebrei sono stati lasciati soli, ma
contro il pericolo dell'assimilazione l'unica ricetta è rafforzare
la propria identità ebraica. La
soluzione contro l'assimilazione è l’educazione, impartita fin
dall’età di tre anni. Portate al tempio i figli, fate indossare la kippah, fateli vivere in una società ebraica".
Rav Lau ha portato alcuni esempi, fra tutti il drammatico calo della
popolazione ebraica negli Stati Uniti. Citando gli studi dei demografi Roberto Bachi e Sergio Della Pergola, rav Lau ha ricordato
che negli Usa nel 1945 vi erano circa sei milioni di ebrei; con una
media di due figli per coppia, oggi avrebbero dovuto essere circa
50 milioni, ma gli ebrei americani oggi sono appena 3,5 milioni.
“Che fine hanno fatto, tutti gli altri?”, ha chiesto Lau?. “Si sono
assimilati, ed oggi nello Stato di New York un ebreo su due fa un
matrimonio misto". E' un calo demografico terribile, un cedere alla
propria identità ebraica che - ha sottolineato rav Lau - non si è mai
verificato nemmeno sotto le numerose persecuzioni e pogrom che
gli ebrei hanno subito nel corso della storia.
Il giorno dopo, ad un pubblico non ebraico prevalentemente formato da giovani studenti, rav Lau ha presentato il suo libro “Dalle
ceneri alla storia” (Cangemi ed.) – nella versione originale, ‘Non
alzare la mano contro il ragazzo’, da un passo della Genesi (cap.
22) - che racconta la sua storia di bambino di otto anni uscito da
Buchenwald e poi attraverso vicissitudini, studio, e amore delle
persone che lo hanno incontrato è giunto fino a diventare rabbino
capo di Israele: "Se avessero raccontato a Lulek - ha spiegato il
rav, il cui nome in polacco è appunto Lulek - che da grande mi
sarei seduto al tavolo con la regina Inghilterra o avrei parlato con
il papa o con il presidente degli Stati Uniti, non lo avrei creduto”.
Ma Lau non ha voluto raccontare la sua storia, non si è piegato sul
racconto del passato quale sopravvissuto ma si è proiettato
sull'oggi, ma soprattutto sul domani: "la Shoah non è una eredità
del passato perché il presente ne è segnato”. “Sono preoccupato
del presente e del futuro – ha spiegato - davanti a nuove tragedie
e a nuovi genocidi, dove è l'umanitá? Non chiediamoci dove è D.o,
ma dove è l'uomo, dove sono i Capi di Stato?".
E' questa stessa indifferenza, questa stessa voglia di non vedere,
di girarsi dall'altra parte, che è stata alla base e ha dato inizio alla
persecuzione nazista degli ebrei. Nel 1923 Hitler scrive il Mein
27
COPERTINA
“Night will fall”:
lo sconvolgente documentario
sui lager nazisti
Un film che per anni nessuno
ha mai potuto vedere
‘Corri ragazzo, corri’
La drammatica storia di giovane ebreo
polacco sopravvissuto alla Shoa,
raccontata in uno struggente film
I
n occasione della Giornata della Memoria, è stata ospitata, il
19 gennaio, presso la Casa del Cinema di Roma, l'anteprima
del film presentato da Lucky Star "Corri ragazzo corri", del
regista Premio Oscar Pepe Danquart, che è stato proiettato
nelle sale italiane dal 26 al 28 gennaio. Il film, tratto dall'omonimo
romanzo dello scrittore israeliano Uri Orlev, è ispirato alla struggente storia di Yoram Friedman, ebreo polacco miracolosamente
sfuggito ai Nazisti.
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28
opo una breve uscita televisiva, anche la Casa del
Cinema di Roma – in occasione della Giornata della
Memoria ha offerto al pubblico le sconvolgenti scene di
“Night will fall” (“Cadrà la notte”). Un documentario
coprodotto, fra gli altri, anche dall’italiana GA & A Productions,
consociata RAI.”Immagini come queste - ha rilevato in apertura
Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica romana rappresentano la migliore replica a quanti, proseguendo l’opera
dei carnefici di allora, vorrebbero negare la Shoah, o quantomeno
ridimensionarla”.
“Night will fall” (del regista e produttore André Singer), incorpora
infatti in gran parte le immagini del documentario sui lager nazisti
che nella primavera-estate del ‘45, fu realizzato, su incarico degli
Alleati, dal produttore e regista britannico Sidney Bernstein,
assemblando il materiale girato nei mesi precedenti dalle truppe
sovietiche, britanniche, americane e australiane, al momento della
liberazione di Auschwitz, Bergen-Belsen, Buchenwald, Dachau e
altri lager. Supervisore del documentario fu Alfred Hitchcock,
amico personale di Bernstein, che lavorò al montaggio e alla sceneggiatura del film, con precise istruzioni (come, ad esempio, far
vedere chiaramente agli spettatori la vicinanza dei vari lager a
tante tranquille cittadine tedesche, dove la vita quotidiana proseguiva tra scenari da cartolina).
Il film, tuttavia, non vide mai la luce per varie ragioni, fra cui la
nascente guerra fredda che spingeva gli Alleati a non infierire
troppo sulla Germania, potenziale futuro alleato nella tensione coi
sovietici. Il film è così rimasto 70 anni negli archivi dell’Imperial
War Museum di Londra, ad eccezione dell’autunno 1945, quando
varie sue sequenze, proiettate in aula, risultarono determinanti
nei processi a Josef Kramer, comandante di Bergen-Belsen,e,
soprattutto, ai massimi leader nazisti a Norimberga.
Sono immagini in cui la morte domina quasi ogni inquadratura,
con le cataste di cadaveri nudi simili a macabri, scheletrici, manichini dagli occhi sbarrati. Quegli stessi occhi sbarrati che per
lungo tempo accompagneranno i sopravvissuti, il cui inserimento
nella società, il cui ritorno ad una vita ‘normale’, non sarà mai più
lo stesso.
FABRIZIO FEDERICI
Nel film Yoram è Jurek, un bambino ebreo costretto a lasciare la
famiglia e a scappare dal ghetto di Varsavia per sopravvivere alla
furia nazista. L'attaccamento alla vita lo ha portato, tra una fuga e
l'altra, ad adattarsi alle situazioni più disperate, ad assumersi
responsabilità di gran lunga più grandi di lui ma soprattutto a
mantenere la promessa fatta al padre nel momento del distacco da
lui: non dimenticarsi mai di essere ebreo. Per mantenere questa
promessa, il piccolo Jurek deve sopravvivere, e per farlo è costretto a resistere ai freddi inverni polacchi, a dormire nei boschi, e a
rubare cibo dalle fattorie. Nei suoi tre anni di lotta per la sopravvivenza avrà la fortuna di conoscere persone disposte ad aiutarlo
e persone che, al contrario, lo hanno tradito, spingendolo a un
passo dalla morte. Jurek si troverà quindi a scappare da una
caserma delle SS, si salverà da una casa incendiata dai soldati
tedeschi e a scampare una tragica fine quando un medico si sottrae al suo compito avendo scoperto che il piccolo paziente è
ebreo.
Anche nei momenti in cui la situazione sembra prendere decisamente una piega tragica e senza via di uscita, Jurek dimostra di
avere una tenacia e una prontezza d’animo degne di un uomo
maturo.
Forse è proprio l'attaccamento alla vita ad essere insito nel DNA
ebraico, tanto che ad oggi quel bambino, ormai 79enne vive in
Israele, dove ha incontrato la sorella dopo più di trent'anni, ed è
padre di due figli e nonno di diversi nipoti.
Un racconto toccante e pieno di umanità, che non trascura temi
ancora attuali come l'attaccamento alla fede e il rinnovato timore
nel nascondere il proprio credo religioso per salvaguardare la
propria vita. Questo film è un inno alla speranza e una tra le tantissime testimonianze di storie ambientate nel periodo della
Seconda Guerra Mondiale sulla continua lotta al limite tra la vita
e la morte.
YAEL DI CONSIGLIO
ambia la sede, non la sostanza.
La cerimonia istituzionale in
occasione del Giorno della Memoria il 27 gennaio, infatti,
quest’anno non ha avuto luogo come di
consueto al Quirinale, ma, a seguito delle
dimissioni del Presidente Napolitano, si è
svolta a Montecitorio, alla presenza di centinaia di studenti. Dopo l’intervento iniziale della Presidente Boldrini, hanno preso la
parola il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna,
tre studenti e la ministra dell’Istruzione,
Stefania Giannini. A moderare, la giornalista Maria Concetta Mattei; presenti fra gli
altri il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti
e il Sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio Graziano Delrio.
Nel corso della Celebrazione è stato proiettato un filmato prodotto da Rai Storia con
Medicina
e Shoah
Convegno al Policlinico
sui cambiamenti
dell’etica medica da fine
‘800 ai giorni nostri
G
li orrori perpetrati dal nazismo
non sono scaturiti da una mente malata, ma sono stati il punto di arrivo di un’ideologia che
precedeva il nazismo e
che, in forme diverse,
continua a manifestarsi
fino ai giorni nostri. Questo è stato il tema principale emerso durante la
tavola rotonda “19452015: Medicina e Shoah,
settant’anni dopo Auschwitz. Dalle leggi di
Norimberga alla bioetica
medica contemporanea”,
organizzata dall’Unione
delle Comunità Ebraiche
Italiane in collaborazione
con i docenti del corso
Medicina e Shoah della
Sapienza Università di Roma, presso la I
Clinica Medica del Policlinico.
Riccardo Di Segni (Rabbino Capo della
Comunità Ebraica di Roma) ha denunciato il fatto che nella nostra Costituzione
compaia ancora il termine “razza” (art. 3)
mentre ormai gli scienziati sono concordi
nell’affermare che tale definizione non
immagini dei campi di concentramento di
allora e di oggi, intervallato da racconti dei
sopravvissuti. C’è stato inoltre un intermezzo musicale della cantante Ute Lemper, accompagnata dalla pianista Vana
Gierig, oltre ad un intermezzo musicale
della violinista Francesca Dego.
“La memoria deve essere coltivata anche
abbia alcun senso. Ha ricordato come,
durante il nazismo, accanto ad una medicina che usava il corpo umano per esperimenti pseudo-scientifici, c’è stata anche
una medicina che ha cercato di salvare
l’essere umano nelle situazioni limite dei
ghetti e dei campi di sterminio dovendo
decidere, ad esempio, a chi dare le poche
medicine a disposizione. Ha, infine, sottolineato come i medici che collaborarono
con il nazismo agirono volontariamente: il
programma da loro messo in atto fu frutto
di un’ideologia condivisa.
Antonio Pizzuti (Università di Roma La
Sapienza) ha delineato un quadro delle
prime teorie dell’eugenetica, nate a metà dell’ ‘800
con lo scopo di migliorare
la qualità della vita, degenerate poi in tecniche di
soppressione degli individui considerati un “peso”
per la società, applicate,
prima dell’avvento in Europa del nazismo, anche
negli Stati Uniti e poi paradossalmente portate come prova di “non colpevolezza” dagli imputati del
Processo di Norimberga.
Georg Lilienthal (Gedenkstatte Hadamar) ha tratto
il tema dell’Aktion T4, ovvero l’uccisione
in Germania di coloro che erano considerati “malati di mente” che è stata, nei
fatti, la “prova generale” dello sterminio
degli ebrei.
Riguardo all’eugenetica, Marcello Pezzetti
(Fondazione Museo della Shoah) ha sottolineato come sia fondamentale il passag-
al di fuori delle commemorazioni ufficiali, deve dare fastidio, deve essere scomoda,
come un pungolo per superare l’indifferenza” ha sentenziato il Presidente supplente
della Repubblica Pietro Grasso nel suo intervento, prima
della consegna dei premi agli
Istituti vincitori della XIII edizione del Concorso “I giovani
ricordano la Shoah”, assegnati alla rappresentazione della
Shoah come un albero dalle mille foglie
della scuola primaria Domenico Luciano di
Givoletto (TO) e ai cortometraggi della
scuola media inferiore Suelli di Senorbì
(CA) e dell’Istituto Professionale Alberghiero di Villa San Giovanni (RC).
DANIELE TOSCANO
gio effettuato dai nazisti da ideologia a
legge dello Stato che coinvolge la società
intera. Infine, Gilberto Corbellini (Sapienza
Università di Roma) ha messo in evidenza
le conseguenze degli orrori nazisti sull’etica medica partendo dal Codice di Norimberga elaborato dopo la Shoah, fino al
Rapporto Belmont (1979) e rilevando come
il dibattito sulla necessità/inumanità degli
esperimenti sugli uomini sia ancora oggi
attuale.
SILVIA HAIA ANTONUCCI
Alla Sapienza
il 9 marzo iniziano i corsi
P
er il secondo anno consecutivo,
il 9 marzo 2015 inizia il corso
Medicina e Shoah, rivolto agli
studenti del Corso di Laurea
delle Facoltà Mediche della “Sapienza”
Università di Roma ed a professionisti
sanitari del Policlinico Umberto I e del
Sant’Andrea. Il corso, tenuto da docenti
universitari e storici della Fondazione
Museo della Shoah, prevede quattro
incontri con lezioni monografiche sui
rapporti tra medicina e nazismo, tra teorie medico-biologiche eugeniche e razziali e le politiche governative di segregazione e sterminio nel III Reich. Scopo
del corso è far conoscere il fondamentale
ruolo dei medici negli orrori nazisti, ma
anche quello di evidenziare quanto,
all’indomani della fine della guerra, il
processo di Norimberga sia stato fondamentale per avviare riflessioni e regolamentazioni delle ricerche sperimentali e
dei trials clinici, sino ad arrivare all’attuale bioetica medica.
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Il Parlamento ricorda il 27 gennaio
29
COPERTINA
Casina Vallati sede della
fondazione Museo della Shoah
Consegnate le chiavi in attesa
che partano i lavori a Villa Torlonia
“O
ggi è un giorno molto importante perché vogliamo avviare e accelerare un percorso di riconoscimento e mantenimento della memoria”. Lo
ha detto il sindaco di Roma, Ignazio Marino, nel
corso della cerimonia di consegna - avvenuta il 26 gennaio - alla
Fondazione Museo della Shoah delle chiavi della Casina dei Vallati, che sorge a largo 16 ottobre 1943, un luogo simbolico, al
centro del quartiere dove avvenne il terribile rastrellamento di
2000 ebrei. “Un luogo - ha spiegato il sindaco - dove coltivare la
memoria, in attesa di realizzare il museo, dove c’era un grande
ritardo sui tempi della gara per la realizzazione del museo stesso
che verrà edificato a Villa Torlonia”.
A prendere le chiavi della Casina dalle mani del sindaco è stato
Leone Paserman, presidente della Fondazione Museo della
Shoah: “Sono emozionato oggi nel ricevere le chiavi di questo
edificio, sia per la fondazione che per i sopravvissuti della Shoah.
Questo spazio bellissimo della casina dei Vallati consentirà subito al pubblico di vedere tutta la documentazione che la fondazione ha raccolto in questi 6 anni e mezzo di attività. L’impegno - ha
concluso - continua e mi auguro anche che quanto prima verrà
aggiudicata in via definitiva la gara di costruzione del museo
della Shoah a villa Torlonia che speriamo sorgerà tra qualche
anno. La memoria della Shoah deve interessare tutti i cittadini”.
Una targa in ricordo dei dipendenti
ebrei del comune di Roma deportati
Con la delibera 388 il governatorato estromise
e licenziò 50 dipendenti ebrei capitolini
U
na targa alla memoria di Aldo e Bixio Pergola, dipendenti
comunali licenziati nel 1939 dall’allora Governatorato di
Roma in conseguenza della promulgazione delle leggi
razziali, e in seguito deportati e uccisi ad Auschwitz, è
stata posta il 27 gennaio nel piazzale antistante il dipartimento del
Personale in via Tempio di Giove. Un omaggio alla memoria dei
fratelli ma anche di tutti i lavoratori comunali che furono vittime
della discriminazione razziale
Il Giorno della Memoria
tra attualità e storia
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“E’ molto importante che sia stata scoperta questa targa – ha spiegato nella breve cerimonia il sindaco Marino - perché fa rabbrividire la lettura delle parole che vennero pronunciate a pochi passi da
qua, nell’aula Giulio Cesare, quando venne votata la delibera per la
‘protezione della razza italiana’ e quindi l’esclusione delle persone
di religione ebraica dai palazzi del Comune di Roma”.
Bixio Pergola, nato nel 1903, era segretario principale del Governatorato. Fu arrestato assieme alla moglie, Emilia Pugliese, il 18 ottobre del 1943: trasferiti nel Collegio militare di Roma, furono poi
deportati ad Auschwitz e uccisi poco dopo l’ingresso nel campo di
sterminio. Il fratello Aldo Pergola, ingegnere comunale nato nel
1899, fu deportato nell’ottobre del ‘43 assieme alla moglie e alla
figlia ad Auschwitz, dove morirono tutti.
Le storie dei fratelli Pergola insieme a quella di circa 50 dipendenti
capitolini che furono colpiti dalle leggi fasciste appaiono sulla home
page del portale di Roma Capitale.
Associazione Culturale ex Alunni Scuola Elementare
Umberto I (www.leggirazziali.org) prosegue la sua attività per sensibilizzare le scuole e le famiglie alla memoria della Shoah. Questo istituto di Roma dal 1938 al 1943
ospitò al suo interno classi per bambini di "razza ebraica" nel pomeriggio, mantenendo gli studenti ebrei separati da quelli "ariani".
Per l’edizione del Giorno della Memoria del 2015, l’Associazione,
presieduta da Maurizio Della Seta, è stata invitata a Fiumicino in
occasione di un Consiglio Comunale straordinario: dopo i saluti
del sindaco Esterino Montino e degli assessori, davanti a quasi
200 studenti delle scuole del territorio, le commoventi testimonianze di Maurizio Della Seta e di Gabriella Costa, bambini nel
’38, seguite dalla lettura dell’attrice Iaia Forte di un brano tratto
da “La Storia” di Elsa Morante sulla deportazione dal ghetto di
Roma. L’Associazione ha poi promosso un volume i cui proventi
sono destinati all’Ospedale pediatrico Alyn di Gerusalemme, che
cura bambini e progetti dell’infanzia per palestinesi e israeliani:
proprio poche settimane fa un’importante donazione, resa nota
con un video messaggio di ringraziamento con cui, a nome di
Brenda Hirsch, Capo Dipartimento dell’Ospedale, si informavano i
presenti dell’assegnazione all’Associazione di una targa di riconoscimento presso l’Ospedale. Il testo “Ora Mai Più – Le leggi razziali spiegate ai bambini”, curato da Daniel Della Seta, è un volume
di riflessioni, una raccolta di 40 testimonianze, poesie, racconti e
disegni degli alunni di oggi, arricchite da manoscritti, documenti,
pagelle e foto dell’epoca e con il testo originale delle leggi razziali.
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Tradizione o suggestione? Quando i racconti della Bibbia
incontrano il cinema, sacro e profano si mischiano
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a Bibbia resta la migliore fonte di soggetti: non ho
mai visto un film religioso che non sia stato un
successo di cassetta”. Così, oltre cinquanta anni
fa, il leggendario regista Cecil B. De Mille che più
di ogni altro ha lavorato agli adattamenti del ‘Libro dei libri’ alla
giovanissima giornalista italiana Oriana Fallaci che era andata a
Los Angeles per intervistarlo e che da quell’esperienza
americana trasse spunto per il suo esordio in campo letterario
con il volume I sette peccati capitali di Hollywood.
“Il sesso e la religione sono le grandi molle che sostengono il
mondo”, continuava De Mille, “il primo
solletica gli istinti peggiori, la seconda
ripulisce le loro coscienze.” Così spiegava
il regista de I dieci comandamenti con
Charlton Heston nel ruolo di Mosé con il
commento di Oriana Fallaci che insisteva
sullo strano connubio di storie d’amore e
tradimento tra begli uomini e belle donne
sullo sfondo dei testi sacri.
Eppure, nonostante alcune incongruenze e
ingenuità e l’inevitabile passare del tempo,
i film di De Mille restano ancora oggi tra i
più interessanti e riusciti per quello che
riguarda l’adattamento biblico. De Mille che
si dice dormisse con la Bibbia sotto al
cuscino e un taccuino per prendere appunti,
concludeva l’intervista dicendo “Racconto
la Bibbia attraverso le immagini, mentre altri lo fanno attraverso
le parole. Il mio è un modo come un altro per pregare.”
Considerazioni sempre attuali nonostante siano passati sei
decadi da quando sono state espresse e che hanno visto
decine di altri film di ispirazione religiosa e di ambientazione
biblica invadere il grande e il piccolo schermo, offrendo una
serie di variazioni sul tema, purtroppo non sempre riuscite o
di gran gusto.
Proprio in queste settimane è, infatti, presente nei cinema
l’ultimo adattamento biblico in ordine di tempo che il regista
Ridley Scott (Alien, Blade Runner) ha tratto dal libro dell’Esodo,
concentrandosi su una versione ‘postmoderna’ della lettura dei
libri che, a dispetto dell’utilizzo di effetti visivi imponenti,
sembra mancare il senso ultimo del lavoro di registi come De
Mille o John Huston, ovvero, quello di drammatizzare storie
antiche seguendo un punto di vista che non sia solo religioso,
ma anche molto umano e non solo ‘ibrido’ per piacere a tutte le
religioni e ‘politicamente corretto’. Ma se Exodus: Dei e Re è
piuttosto piatto e senza punti di vista originali, estremizzando
questo discorso, nella primavera del 2014, l’apprezzato filmaker
americano Darren Aronofsky ha offerto,
invece, una visione insolita della storia di
Noè nel semi-fantascientifico Noah in cui
Russell Crowe interpretava il profeta
biblico in un mondo popolato da creature e
mostri, pur restando fedele allo spirito delle
personalità dei personaggi.
Licenze artistiche che perfino il regista de
La Bibbia, John Huston giustificava nelle
sue memorie ricordando la lavorazione del
film che lo aveva visto nei panni di Noé
dopo il rifiuto di Charlie Chaplin ad
interpretare quel ruolo: “La Genesi –
diceva - è una sorta di mitologia poetica.”
Spiegava Huston: “E’ un passaggio dal
mito, quando l’uomo, di fronte alla
Creazione e altri misteri profondi, si è
inventato spiegazioni per l’inspiegabile. Ma sotto la leggenda,
pian piano, si condensa la Storia quando questa non veniva
ancora scritta, ma tramandata in maniera orale.” Il cinema,
quindi, diventa per certi versi, una maniera moderna per
continuare una tradizione di racconto plurimillenaria passata
dalla parola al digitale, seguendo anche tecniche narrative
differenti da quella tradizionale cinematografica.
Tra le centinaia di pellicole dedicate alla Bibbia iniziate con la
stessa nascita del cinema, senza dubbio una delle più
importanti e riuscite è il film d’animazione Il Principe d’Egitto
perlomeno, personale. Spesso, l’afflato
mistico o religioso ha privilegiato
piuttosto la narrazione epica come nel
caso di Salomone e la Regina di Saba con
Yul Brinner e Gina Lollobrigida diretti da
King Vidor oppure come ne La storia di
Ruth (1960) di Henry Koster.
Marcatamente ‘di genere’ sono Sodoma e
Gomorra di Robert Aldrich con Stewart
Granger, Pier Angeli e Rossana Podestà,
ma anche quel David con Richard Gere
nei panni del più amato re della Bibbia.
Ma, nella più pura tradizione yiddish, la
Bibbia non è stata solo oggetto di
adattamenti quantomeno rispettosi del
suo essere un libro sacro: Mel Brooks
offre una lettura esilarante della storia di
Mosé ne La pazza storia del mondo
volume 1 con il profeta che mostra al popolo i dieci
comandamenti dopo avere distrutto inavvertitamente una delle
tavole dicendo “Uditemi, Uditemi. Prestate orecchio. L’Eterno, il
Signore mi comanda di recarvi questi quindici… (cade una delle
tavole della legge e si rompe) Dieci! Dieci comandamenti cui
dovrete ubbidire”.
Ridere ‘per la Bibbia’ e non ‘della Bibbia’ è – come spiega lo
stesso regista – segno della grandezza dell’ebraismo: “Non
vado in Sinagoga e non pratico tutti i rituali ebraici, ma credo
assolutamente nello spirito ebraico e nella sua cultura.”
Puntualizza Brooks: “Sono orgoglioso di essere un ebreo, perché
siamo un grande popolo che ha avuto tante persone coraggiose
come coloro i quali sono sopravvissuti alla Shoah. Sono
fortunato di essere ebreo, perché questo ti dà un talento
particolare nell’arte del vivere. E’ qualcosa che ti fa ridere nei
disastri e nei momenti tristi”.
E mentre abbondano le produzioni anche sul cosiddetto Nuovo
Testamento, non c’è quindi da aspettarsi che questa nouvelle
vague di film a tema biblico abbia presto conclusione.
Nonostante i primi titoli ad argomento biblico risalgano ai primi
anni del cinema e del Ventesimo Secolo, tra le produzioni
annunciate per i prossimi anni che presto potrebbero andare
oltre la fase di sviluppo troviamo Goliath con Taylor Lautner
(Twilight) e Dwanbe “The Rock” Johnson rispettivamente nei
panni del Re e del gigante; nonché il potenzialmente
interessante e tematicamente inedito La redenzione di Caino
interpretato, ma anche diretto dalla Superstar Will Smith.
MARCO SPAGNOLI
Il mondo islamico contesta ‘Exodus’
«Film sionista e pieno di errori storici»
Come molti altri film di genere ‘biblico’, anche ‘Exodus’ di Ridley
Scott è stato prima stroncato, poi persino censurato, in molti
Paesi arabi ed islamici. D’altra parte era già capitato anche ad un
altro Patriarca di fare la stessa fine: nel 2014 “Noah” di Darren
Aronofsky, con Russell Crowe nel panni del protagonista, era
stato censurato in Qatar, Bahrain ed Emirati Arabi.
Ma il Mosè di Exodus è persino peggio poiché – ha spiegato il
ministro della Cultura egiziano, Gaber Afour – “dà una visione
sionista di Mosè e contraddice la verità storica: mostra gli ebrei
che costruiscono le piramidi, quando tutti sanno che furono terminate almeno mille anni prima dell’Esodo. Per non dire del Mar
Rosso: la divisione delle acque viene fatta passare per un fenomeno naturale, non per un prodigio. Questo è inaccettabile”.
Forse ha però ragione il regista Tarantino che dice che il bello
del cinema è reinventare la storia. Purché non si pretenda d’insegnarla. Ma gli islamici che hanno lanciato la mezza fatwa su
Exodus, sanno chi è Quentin Tarantino?
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
ancora una volta dedicato alla vita di
Mosé che vide l’allora ex capo della
Disney, Jeffrey Katzenberg dare vita al
primo lungometraggio kolossal animato
nel 1998 insieme all’amico Steven
Spielberg con il marchio DreamWorks.
“Per girare quel film in novanta minuti ci
abbiamo messo più di tre anni”, ricorda
Katzenberg. ”Non considero Il principe
d’Egitto un semplice cartone animato,
perché in qualche maniera è stato come
portare alla vita un dipinto. Abbiamo
provato a inventare una nuova specie di
realismo per questo genere
cinematografico, grazie alle tecnologie
che abbiamo sviluppato e all’ottimo
gruppo di sceneggiatori che lavorano
abitualmente con noi”.
Nei film legati alla religione e alla fede uno degli elementi più
importanti è la musica, come ricorda il compositore Hans
Zimmer che proprio con Il Principe d’Egitto ha affrontato una
delle sfide più importanti della sua carriera: “Sentivo molto la
responsabilità di quello che stavo facendo e che poteva
offendere circa il settantacinque per cento della popolazione
mondiale. Ho sofferto molto e sudato tantissimo nel comporre
una musica molto personale e complessa che esprime il mio
punto di vista sulla storia di Mosè. Non volevo ascoltare nessun
altro se non me stesso.”
Del resto, il confronto con i testi sacri è stato sempre molto
problematico. A differenza dell’approccio di De Mille, i registi
non sempre hanno seguito una linea originale di racconto o
33
FOCUS
La Bibbia, la sceneggiatura
più bella di Hollywood
Sono innumerevoli i film e i cartoni
animati che hanno avuto per tema
le storie e i racconti tratti dalla Torà
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
D
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a ‘Sansone e Dalila’ uscito nel '49, al più recente
‘Exodus (dei e re)’ nelle sale in questi giorni, da ‘I
Dieci Comandamenti’ a ‘Noah’. Se la Bibbia è stato il
primo testo stampato, il più tradotto al mondo, nonché
il primo "best seller", non c'è da sorprendersi se da cinquant'anni
ad oggi gran parte dei film prodotti ad Hollywood e dalle più
grandi case di produzione e di distribuzione siano stati ispirati
proprio a questo libro.
Sebbene i vari registi non si siano sempre attenuti ai testi e
abbiano spesso romanzato i propri film, le tante storie della
Bibbia rimangono comunque adatte ad ogni genere di pubblico,
tanto che per i bambini sono stati creati cartoni animati come
"Mosè il principe d'Egitto" e "Giuseppe il re dei sogni", entrambi
prodotti dalla Dreamworks Pictures.
Anche i volti più celebri del cinema, come Charlton Heston e
Russel Crowe, hanno vestito gli umili panni dei personaggi
biblici come quelli di Mosè nel film del '56 "I dieci
Comandamenti" o di Noè in "Noah" uscito nelle sale nel 2014.
Tra i vari colossal appartenenti a questo filone, non c'è però da
trascurare il celebre film del '66 "La Bibbia", del regista
statunitense John Houston, nel quale vengono interpretati i
primi ventidue capitoli del Libro della Genesi: dalla creazione del
mondo al sacrificio di Isacco.
Anche molti sceneggiati riproposti più volte in televisione non
sono stati solo inerenti alle storie della Bibbia, ma più in
generale si sono attenuti ai libri delle sacre scritture; si pensi
alla storia della regina Ester mandata in onda dalla Rai o al film
Davide contro Golia. Alcuni registi, per una miglior resa del
proprio lavoro e una maggior cura nei particolari, si sono spesso
consultati con istituzioni religiose come rabbini e sacerdoti
cattolici prima di cimentarsi dietro la camera da presa.
Anche se le stesse storie sono state più volte proposte si è
continuamente cercato di sbalordire il grande pubblico con un
costante miglioramento degli effetti speciali e della qualità delle
scenografie, cercando di rendere le pellicole di volta in volta
migliori delle precedenti, quasi da far sembrare le trame
differenti. Si può quindi pensare che la produzione di questo
genere di film, rivolto al grande pubblico, risulti essere non solo
un "ripasso" di cultura religiosa per i credenti o un semplice
spunto di riflessione, ma il pretesto per dare maggior spessore al
settore cinematografico sempre più in crisi a causa della sua
incapacità di rinnovamento dei contenuti.
YAEL DI CONSIGLIO
LIBRI
L'ebreo di Roma, in bilico
tra vecchia e nuova identità
L'ebraismo torinese
che non c'è più
La storia di una trasformazione sociale
ed economica, tra Risorgimento
ed emancipazione, nel saggio curato
da Claudio Procaccia
Economia e vicende familiari
in ‘La via di fuga’ di Federico Fubini
L'
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
L
a popolazione ebraica a Roma nel 1816 annoverava 3047
unità fino ad arrivare nel 1911 a 8000 unità, mentre
parallelamente quella dell'intera città passava da 128.000
a 519.000 abitanti; si trattò di un secolo che vide profonde trasformazioni con una comunità mutata, oltre che nei numeri,
nei diversi tratti sociali.
Un periodo che è stato esaminato sotto la lente di ingrandimento
nel testo uscito da qualche settimana "Ebrei a Roma tra Risorgimento ed emancipazione (1814- 1914)", edito da Gangemi e curato da Claudio Procaccia che raccoglie i contributi di storici, statistici ed esperti del mondo
ebraico, ed in allegato un
CD che riproduce la ricostruzione virtuale dell'edificio delle Cinque Scole. E'
un insieme di saggi di
forte valenza scientifica,
con
dati
provenienti
dall'archivio comunitario e
da una storiografia che
negli ultimi decenni ha
arricchito la ricerca sul
periodo. Grazie alla sinergia di collaboratori di
diversa provenienza culturale, la pubblicazione riesce a dare al lettore una
fotografia completa degli
anni trascorsi passando in
rassegna dai differenti
punti di osservazione l'enorme documentazione esistente: così si
passa dalla demografia ai censimenti, dal diritto alla sociologia,
dall'architettura alla cultura, dall'arte al culto; storie di un vissuto
nello spazio ristretto del vecchio Portico d'Ottavia, rielaborate
dagli esperti nel loro passaggio secolare. Non vengono tralasciate
pagine dedicate a singole famiglie o personaggi che si evidenziavano nel panorama ebraico romano.
Va riconosciuto agli autori che nei loro interventi fanno rivivere in
modo trasversale il lungo periodo dinamico e vivace, vissuto tra i
moti risorgimentali, con l'illusione prima svanita di uscire dal
perimetro imposto dalla Chiesa, fino ad arrivare al passaggio
cruciale che segna la fine dell'esperienza del ghetto e l'inizio
dell'integrazione nel tessuto sociale cittadino e nazionale. Un
mosaico che delinea nell'aspetto culturale economico una condizione sociale che presentava agli inizi dell'Ottocento metà popolazione ebraica in completa indigenza, gradualmente. Con la
libertà acquisita, la seconda metà del secolo sarà caratterizzata
da un forte elemento di mobilità sociale, che permetterà di arrivare agli inizi del Novecento, sebbene permanessero ancora larghe fasce di estrema povertà, integrati alla vita capitolina e
nazionale. E con una presenza crescente, tenendo sempre conto
dell’esiguità numerica, sia nel mondo politico e sia in quello universitario e con un attiva partecipazione, già nel 1911, nel commercio capitolino. Ne esce fuori una nuova identità che, grazie
all'emancipazione vissuta fuori dal ghetto, si confronterà con
nuove sfide e conoscerà il fenomeno dell'assimilazione, sconosciuto fino a quel momento.
JONATAN DELLA ROCCA
editorialista economico de La Repubblica, Federico
Fubini, è andato alle stampe con l'ultima opera "La via
di fuga" edito da Mondadori. E' un libro che descrive
come diverse realtà hanno affrontato le crisi economiche con esiti non sempre positivi. E' un'opera di particolare interesse perché riesce a coniugare storia ed economia, con il racconto nei periodi salienti della famiglia paterna dell'autore, uno
spaccato della vita piemontese ebraica del secolo scorso. Questa
descrizione è intrecciata con quella della Grecia di oggi (di cui il
giornalista descrive le reazioni alla crisi economica), e con quella
del mercato dei voti comprati in Calabria, regione in cui affondano le sue radici materne.
Già dalla lettura delle pagine iniziali è interessante apprendere
come il divieto vigente a fine Settecento di accedere all'istruzione superiore e alle professioni avesse causato tra gli israeliti la
diffusione del mestiere di negoziante, rigattiere e banchiere
nella stessa persona; perché in quanto prestatori in garanzia
non potendo accettare terreni, per il divieto di detenerli, come
pegno si facevano consegnare oggetti e abiti usati. Ma tutto ciò
muta a metà dell'Ottocento: grazie allo Statuto Albertino gli
ebrei possono accedere
all'Università. E la reazione
dà dei frutti al di là di ogni
previsione. Perché con il
passare degli anni la partecipazione è talmente in crescendo che il risultato è sorprendente: a inizio Novecento "i docenti ebrei a Torino sono il 16 per cento del
totale dei professori alla
facoltà di Giurisprudenza, e
il 30 per cento a quella di
Medicina". Una frequenza al
di sopra della popolazione
cittadina che porrà le basi di
soddisfazioni nella ricerca
accademica e scientifica.
Tra questi studenti brillanti
spicca Renzo Fubini, prozio
dell'autore, che ci accompagna nelle diverse esperienze fino
all'ultima pagina del libro. Ricercatore promettente e alunno del
futuro presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, dopo aver
maturato esperienze negli Stati Uniti e in Inghilterra, torna in
Italia dopo il crollo del '29: qui ricoprirà la docenza all'Ateneo di
Trieste, prima di esiliare a Parigi con l'emanazione delle leggi
razziali, e di essere poi catturato e deportato nel campo di sterminio di Auschwitz dove troverà la morte nel 1944.
E' un libro vibrante, senza pause che incarna il dinamismo professionale di Fubini. La cronaca diviene storia, raccontata con la
penna fluida del giornalista navigato. La storia del prozio è il
punto di partenza per capire l'inadeguatezza del sistema di fronte alla debacle finanziaria avvenuta nel 1929. Su questa scia le
pagine scorrono con osservazioni acute sulle mancate risposte
alla drammatica crisi economica, con raffronti su ciò che successe allora ed oggi. Sullo sfondo delle depressioni descritte riesce
a ricostruire dinamiche che si ripetono a distanza di secoli, sensibilizzando il lettore sull'incapacità del mondo politico di tirarci
fuori dal declino.
J. D. R.
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LIBRI
EDITORIA PER RAGAZZI
I bambini e la paura
Saper gestire i piccoli o grandi traumi creati da un’informazione che tende
a drammatizzare e a spaventare. L’importante è reagire, lo spiegano gli esperti
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N
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on si tratta di un gioco di parole ma, mai come in questo momento, è importante dire che la paura non deve
spaventare: non sarà la prima né l’ultima volta che capiterà di avere paura ma l’importante è non farsi paralizzare, la paura ha fatto parte della vicenda umana fin dai suoi
albori e la risposta agli interrogativi che suscita sono – e devono
– essere oggetto di riflessione. Soprattutto in una rubrica dedicata a giovani e bambini. Per questo dopo ‘i fatti francesi’ di cui si
parla nelle altre pagine del giornale abbiamo chiesto il parere di
alcuni studiosi: un neuropsichiatra infantile e un sociologo. Cosa
è la paura, e - se possibile - come gestirla.
Saul Meghnagi, sociologo
“La riflessione sulla paura può partire
da riferimenti storici precisi, in un libro di qualche tempo fa Jean Delumeau, professore di storia delle mentalità religiose in Francia, - il libro è “La
Paura in Occidente secoli XIX e XVIII,
la città assediata, edito da SEI ndr spiega come nelle varie epoche non
siano mai mancati elementi di paura.
Nel Medio Evo per esempio era molto
forte la paura del buio. A noi oggi fa
sorridere ma se proviamo ad immaginare il buio di una città medioevale di
notte forse riusciamo a capirla meglio.
Sono state paure spesso misteriose, vi
era la paura della peste, che era una
paura reale, o la paura delle donne
come emblema della diversità, da cui
sono nati poi i roghi delle streghe. In
alcuni casi la paura era legata a dati
veri e possibili di pericolo - per esempio la peste - ma nel caso
delle donne la paura si costruiva nei confronti del potere del ‘diverso’. Oggi la situazione è ovviamente cambiata e il diverso può
essere il musulmano o lo straniero ma non si può attribuire a
tutti quelli che sono portatori di una cultura l’essere portatori di
pericolo. Nel caso degli attentati o delle minacce verso gli ebrei
in relazione a dei musulmani il pericolo c’è ma non è ascrivibile
a tutta la comunità musulmana. Quindi la percezione di paura si
rivolge ad un evento possibile ma non certo.
Per ragionarci sopra è utile recuperare alcune categorie di analisi
usate rispetto al lavoro: si parlava fino a qualche anno fa della
possibilità di rimanere disoccupati e si insisteva molto sulla situazione di rischio. Proprio rispetto alla povertà incombente si
è introdotta la parola vulnerabilità: essa non guarda il rischio
presente ma la paura che ci possa essere un pericolo. In questo
senso credo che oggi, in una situazione di rischio che riguarda
tutta la popolazione, gli ebrei siano un po’ più vulnerabili. E direi
che questo è in linea, per quanto riguarda specificatamente i giovani, da quanto emerso nella ricerca “Cittadini del mondo, un po’
preoccupati. Una ricerca sui giovani ebrei italiani” - edita dalla
Giuntina nel 2011. I ragazzi sono più internazionali e più mobili
ma abbiamo rilevato che la preoccupazione è aumentata. Credo
che quanto si sta verificando in Europa produrrà degli aspetti
di mobilità ulteriore, forse verso Israele o verso gli Stati Uniti,
non solo dalla Francia ma anche da altri paesi europei. E sembra
sia proprio la percezione di essere più vulnerabili che motiva la
necessità di muoversi verso luoghi con altre comunità ebraiche
non tanto però per la ricerca di sicurezza fisica quanto come luogo di accoglienza. In questo la paura ha un suo ruolo anche se
la ricerca rileva una contraddizione evidente: da un lato vi è la
grandissima disponibilità dei giovani ebrei verso gli immigrati,
la memoria dell’essere stati stranieri ‘in terra d’Egitto’ è molto forte,
ma rispetto alla specificità dell’immigrazione islamica c’è una grande
preoccupazione, e credo che questa
crescerà. E’ importante anche tenere
presente che molte famiglie di ebrei
europei provengono da paesi arabi e
conservano di questa fuga un ricordo
effettivo. Anche quando la memoria
famigliare riguarda cose belle si tratta comunque di un passato presentissimo.
Credo però che eventi di riflessione
pubblica e collettiva siano importanti, iniziative di dialogo interculturale
nelle scuole per esempio credo che
aiuterebbero molto anche in ragazzi
ebrei presenti in quelle scuole. Stare
insieme tra ‘diversi’ è difficile, esistono delle ragioni effettive di difficoltà
che non si possono ignorare.
Per quel che riguarda però lo specifico ebraico, non solo giovanile, credo ci sia la necessità di chiarezza assoluta circa il diritto di
cittadinanza, conquistato con difficoltà dagli ebrei nei loro paesi,
e Israele: ciò che gli ebrei devono chiedere è la loro sicurezza e
la loro tutela nel paese di cui sono cittadini. Israele è un luogo di
riferimento ma la priorità è difendere il loro diritto nei paesi dove
vivono e di cui sono cittadini. Se poi gli ebrei vorranno andare in
Israele ciò deve essere, auspicabilmente, il risultato di una scelta
e non di una fuga.
Gavriel Levi, neuropsichiatra infantile
In una civiltà sempre più globale anche i singoli traumi hanno
una ripercussione, un’onda globale. E i mezzi di comunicazione
di massa, per l’appunto globali, trasmettono alle notizie un impatto forte ed immediato. Eppure, nel valutare l’urto dell’evento
traumatico sul singolo, è necessario sapere come e in che modo
agisce, rispetto al fatto traumatizzante, l’aggancio personale. Ad
esempio: un terremoto in California non è diverso dal terremoto all’Aquila eppure, nel secondo caso, è probabile che per un
bambino italiano la prossimità geografica agisca come aggancio
ciascun bambino sviluppa fin dai suoi primissimi anni
di vita. ‘Perché dai a lui due caramelle e a me ne dai
solo una?’ È una frase familiare a ciascun genitore o
educatore su cui si può costruire molto. Ed è in funzione
di questo vissuto personale che è fondamentale tenere
presente che qualunque trauma viene vissuto tanto in
relazione alla propria storia individuale quanto a quella
famigliare entro cui viene letta. In generale rispetto ai
traumi – che ci sono sempre e non si possono misurare (per molti anche il cambio di casa può essere come
una morte traumatica e dolorosa del proprio ambiente)
- è fondamentale che non si creino atteggiamenti che
vengono chiamati ‘nevrosi di indennizzo’: interiorizzare
che si ha sempre diritto ad essere risarcito. Così, per gli
ebrei, una cosa è pensare che vi sia stata nella storia
una frequente componente antisemita, un’altra è interpretare la realtà soltanto attraverso lo specchio dell’eterno antisemitismo.
Quanto al ruolo dell’educazione io credo che niente porterà a superare un trauma passato se non occuparti e
accudire te stesso e gli altri. Non si tratta di un generico
buonismo moralistico, si tratta di educare a fare e non
a comparire poiché è nella dimensione del fare, senza
scivolare nel ‘fare per raccontare’, che qualunque cosa
si può affrontare. Magari con fatica e dolore ma diviene
affrontabile. In questo il contributo ebraico è fondamentale: i modi di leggere la Torah sono tanti ma è importante sottolineare che non c’è scritto da nessuna parte
che siamo i migliori, anzi. Di ciascuno dei personaggi
della Torah sono riportati i limiti e le ambivalenze. La
differenza è in questo, c’è scritto che ognuno di noi fa
delle cose sbagliate e che solo da questo si può partire.
Ed è con questa consapevolezza che l’educazione a fare
il bene per sé e per gli altri diviene centrale. Anche per
elaborare un trauma.
A CURA DI LIA TAGLIACOZZO
Due vendette
Meir Shalev
Bompiani, p. 403 € 19
“E’ così. La storia degli ebrei in Terra d’Israele e del
Sionismo, non è fatta di comitati e dispute ideologiche…
Si tratta prima di tutto di amori e odi e nascite e morti e
vendette, e famiglie…”. E la famiglia Taburi non ha fatto
eccezione. La sua storia in Terra Promessa inizia con un
carretto carico di passato, giunto dai Monti della Galilea,
pieno di speranze alla ricerca di un suolo in cui mettere
radici. A distanza di settantanni dal tragico evento che
segnerà per sempre la vita di Zeev, Rut e della loro
discendenza, la nipote Ruta ne ripercorre le vicende
umane, i sentimenti d’amore ma anche di odio e di gelosia. Ma soprattutto riemergerà dalla memoria familiare
una sanguinosa catena di eventi, “vendette” appunto,
iniziati una piovosa e buia notte del 1930, rimasti a scandire la storia dei Taburi. Un racconto aspro quello di
Meir Shalev, narrato attraverso un continuo salto temporale tra passato e presente, ironia e amarezze, rassegnazione e spirito indomito. Potente fino all’ultima riga.
Charlotte
David Foenkinos
Mondadori, p.204 € 16
Il romanzo è ispirato alla vita drammatica di Charlotte
Salomon, pittrice scomparsa ad Auschwitz nel 1943 a
soli 26 anni, incinta. Foenkinos narra non solo la triste
infanzia di Charlotte a Berlino, colpita da tragedie e lutti
familiari ma anche gli incontri con i grandi artisti dell’epoca. La grande passione per la pittura permette alla
ragazza di essere ammessa, unica studentessa ebrea,
all’Accademia delle Belle Arti. L’amore per Alfred, che
riconosce le sue notevoli capacità artistiche e la incoraggia a coltivare il suo interesse verso la pittura. Poi, con
l’avvento del nazismo, la pittrice è costretta a rifugiarsi
in Francia: qui, sentendosi in pericolo, consegna la cartella con tutti i disegni, “la sua vita”, al suo medico.
L’autore racconta la storia di Charlotte in versi liberi:
una frase per riga, in un ritmo nervoso e incalzante, da
leggere tutto d’un fiato. Travolgente.
La strada per Itaca
Ben Pastor
Sellerio editore Palermo, p 512 € 15
“Se Martin Bora avesse saputo che entro mille giorni
avrebbe perso tutto ciò che aveva (ed era), quella domenica non si sarebbe comportato in modo apprezzabilmente diverso.” E così il lettore sa già per mano di chi si
farà guidare in questo thriller d’atmosfera, tra spie e
criminali, sullo sfondo di un’Europa incendiata dall’ideologia nazista. Quinto romanzo dedicato all’inquieto
Martin Bora, in questo capitolo della serie l’investigatore della Wehrmacht si trova a Mosca, nella fase di alleanza Hitler-Stalin. Proprio a seguito di un ordine russo il
capitano viene mandato in missione a Creta, inizialmente per motivi del tutto futili, salvo poi ritrovarsi davanti
ad un vero e proprio massacro di civili a cui trovare
soluzione. Nessuna ipotesi può essere trascurata: spionaggio, vendetta tra papaveri di regime, movente passionale. Ancora una volta il detective-ufficiale creato da
Ben Pastor non tradisce le aspettative e senza mai
abbandonare l’intima repulsione verso l’ideologia nazista, onorerà l’imprescindibile impegno umano di giungere alla verità, qualunque essa si riveli. Un noir storico
da non perdere.
A cura di JACQUELINE SERMONETA
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
personale. Oppure, al contrario, che ci sia in California
una persona che conosciamo e a cui vogliamo bene. La
notizia quindi non è mai neutrale poiché ad essa si sommano i riferimenti personali dei singoli. Ma, terremoto
a parte, nel caso dei bambini agiscono anche altri elementi: in particolare se sono proprio i bambini ad essere protagonisti, se, per esempio, si parla di bimbi uccisi.
Vi sono infatti notizie che consentono identificazioni
ancora più forti: viviamo in una fase in cui i bambini
sono spesso oggetto delle cronache, si parla di bambini rubati, di pedofilia. Nella confusione gli elementi
si sommano ed impediscono, per chi è esposto alla notizia, di focalizzare il nucleo traumatico, inoltre in un
flusso continuo di notizie c’è un effetto anestetizzante.
Nel caso dei bambini l’effetto dell’esposizione ad un
trauma dipende anche dalla propria storia individuale,
dall’esperienza che si è vissuta di dolore, paura, ansia,
pregiudizi e dall’impatto con il senso di giustizia che
37
ROMA EBRAICA
Bilancio preventivo 2015
N
La relazione dell’Assessore Tony Spizzichino
ell’anno 2015 la CER dovrà pagare costi ordinari per circa
11,6 milioni di euro, cui vanno sommati € 200mila stimati
per il rimborso della quota capitale del mutuo ipotecario
originario pari a €3,5 milioni, (debito residuo attuale circa
2,4 milioni), ovvero costi di natura finanziaria; significa dover preventivare entrate, ovvero trovare risorse, di pari importo.
Le entrate a bilancio sono state divise secondo questo elenco: Proventi istituzionali; Ricavi immobiliari; Proventi mobiliari; Proventi culto;
Proventi attività sociali; Proventi attività culturali; Proventi scuola;
Proventi editoria-libreria-biblioteca; Proventi museo; Proventi casherut; Proventi vari, cui si contrappone l’esposizione dei costi direttamente riconducibili a ciascun settore, visto come Cdc/Cdr (centro di costo/
ricavo), e di cui, nel prospetto di bilancio, si riporta l’avanzo/disavanzo
atteso.
“Rispetto allo scorso anno – ha spiegato l’Assessore Spizzichino abbiamo attese di minori entrate per almeno € 400mila (fondamentalmente per minori incassi di rette scolastiche e di contributi da iscritti)
ed è quindi necessario predisporre un mix di maggiori risorse da
incassare/minori oneri da sostenere per ritrovare il pareggio”.
Osserva Spizzichino: “Il bilancio CER è strutturalmente in deficit, sconta una difficoltà a ridurre i costi, giacché circa il 70% del totale delle
uscite è rappresentato da voci stipendiali. Esso si fonda, tra l'altro, su
alcune voci di entrata 'precarie', cioè non stabili (alcune cicliche, ovvero
legate alla congiuntura) e su costi certi e difficilmente riducibili (oltre
al costo del lavoro, le imposte e tasse)".
Per giungere ad un equilibrio finanziario la Comunità ha quindi due
opzioni, non necessariamente alternative: “tagli lineari e/o ristrutturazione dei dipartimenti, cioè razionalizzazione/miglioramento della
quantità/qualità dei servizi erogati". Per poter raggiungere tali risultati,
occorre che l'attività dell'Ente sia trasparente e coerente con le decisioni intraprese.
“Un obiettivo nei prossimi bilanci - ha spiegato Spizzichino - dovrà
essere quello di predisporre, oltre ai prospetti previsti dalla normativa
privatistica, una relazione di missione ove indicare, per fini informativi
e comunicativi, i livelli di efficacia ed efficienza raggiunti e raggiungi-
bili… Se in questi anni avessimo proceduto così, sicuramente risalterebbero molte cose fatte, e spesso con poche risorse, o almeno si comprenderebbe meglio come ogni assessorato ha gestito le risorse a propria
disposizione, e quali e quante attività ha svolto".
Il patrimonio immobiliare.
Nel corso degli anni, la CER ha provveduto, compatibilmente con le
proprie risorse, a mantenere funzionale il proprio patrimonio immobiliare, sia quello messo “a reddito” che utilizzato direttamente. “Si
prevede di spendere per manutenzioni quanto circa nell’anno precedente e gli stanziamenti preventivati sono sufficienti a mantenere in
stato decente il patrimonio immobiliare”. Le entrate relative alle
locazioni immobiliari sono sostanzialmente in linea con quelle preventivate.
La gestione delle scuole.
Il numero di iscrizioni attese è in diminuzione e conseguentemente
sono state previste minori entrate, rispetto allo scorso anno, per circa
€300 mila. Attualmente (anno in corso) gli alunni iscritti sono 809;
sembra plausibile una riduzione del numero che nel prossimo anno
2015/16 potrebbe essere pari a 776 (con un potenziale ulteriore diminuzione del 10%). Nel biennio 2009/2010 si era registrata una media di
circa 1000 iscritti. Il trend al ribasso è dovuto principalmente al calo
anagrafico ed alle recenti e rilevanti alyiot ma, forse, anche alla difficoltà di alcuni nuclei familiari a pagare le rette.
Da un punto di vista economico, con un deficit complessivo di circa €2
M/anno (e nonostante i notevoli correttivi previsti in questo bilancio già da anni si è intrapreso un serio ed incisivo processo di revisione dei
costi), le scuole rappresentano il maggior onere che la CER deve sopportare. Tuttavia, rappresentando la principale garanzia che la Comunità continui a rimanere viva negli anni a venire, tali uscite vanno
considerate piuttosto un investimento.
L'importo medio delle rette scolastiche è stato aggiornato solo una
tantum, anche per allinearlo alla dinamica dei costi del personale. Nel
loro complesso, e al netto delle borse di studio (il budget delle borse di
studio si attesta a circa 120mila €, e potrebbe aumentare solo se fosse
previsto il contributo per borse di studio dall’Ucei che lo scorso anno è
La Relazione del Collegio Sindacale
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
C
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ome qualsiasi altro bilancio preventivo, anche quello della CER
non contiene dati storici, ma stime future di possibili ricavi e di
relativi impegni di spesa, rispetto ai quali il
Collegio Sindacale non può esprimere giudizi sul raggiungimento dei risultati illustrati. Ciò che il Collegio Sindacale è chiamato a verificare è la sostenibilità delle
previsioni elaborate dal preventivo; che
esse non siano irragionevoli; siano presentate correttamente e siano coerenti con
l’informativa finanziaria storica; e che il
Bilancio Preventivo sia stato redatto conformemente alle norme dello Statuto ed ai
principi generali contenuti nelle “Linee
Guida per la gestione dei bilanci delle Comunità Ebraiche Italiane”. In sostanza il
Collegio Sindacale deve in sostanza verificare la sussistenza di un principio di ‘prudenza’, trattando si appunto di un bilancio
preventivo. Sulla base di tali indicazioni il
Collegio Sindacale (composto da Piero Milano, Piero Alberto Busnach e Stefano An-
ticoli) ha espresso alcune osservazioni. “La
quantificazione della previsione del contributo otto per mille, pari a € 1.116.854, risulta di importo maggiore rispetto a quanto
riportato nel bilancio di previsione 2015
dell’Ente erogatore Ucei (€ 1.023.658). In
relazione a questa voce, pertanto, evidenziamo che per € 93.196 non c’è legittimazione giuridica e, conseguentemente, è
assente il presupposto della relativa previsione economica”.
Il Bilancio Preventivo “non fornisce indicazioni utili a dimostrare anche l’equilibrio
finanziario nella gestione dell’Ente”; “… il
bilancio non lascia intravedere l’esistenza
di un piano d’intervento per un possibile
rientro dell’esposizione finanziaria”.
Non è indicata “una strategia per recuperare il disavanzo degli esercizi precedenti
che al 31/12/2013 ammontava ad €
2.941.157, né tantomeno un ripensamento nell’organizzazione, vastità ed onerosità dei servizi offerti che possa far prefigurare nel prossimo futuro un ripiana-
mento dell’attuale deficit finanziario ed
economico”.
Il Collegio considera “assolutamente improcrastinabile un attento riesame dei centri di costo dell’Ente anche in considerazione del modestissimo accantonamento, in
questo Preventivo, per spese di manutenzione e altro”, tanto più – osservano i revisori – “un possibile mancato rispetto del
Preventivo, per fatti imprevisti e imprevedibili, ha generato in passato perdite economiche e finanziarie”.
Il Collegio Sindacale osserva, inoltre, di
non aver avuto “la previsione relativa al
contributo obbligatorio degli iscritti con la
c.d. matricola dell’anno 2015, in quanto
quest’ultima non risulta ancora predisposta ed approvata”; e segnala che nella stima dei costi manca la voce “stanziamenti
per fondo di riserva e stanziamenti per
eventuali spese straordinarie e legali.
Il Collegio ha evidenziato infine che il Bilancio Preventivo 2015 è stato approvato
oltre il termine statutario del 31 ottobre
2014 e che non sono disponibili i dati di
raffronto con un preconsuntivo al 31 dicembre 2014.
coloro che avrebbero voluto il giornale solo sul web. A Shalom è stato
chiesto un ulteriore piano di riduzione dei costi, riducendo il disavanzo
pari a circa 115.000 euro.
Museo e Libreria
Il Museo oltre a rappresentare un ottimo “biglietto da visita” della Cer
è ormai da qualche anno anche un interessante centro di profitto.
Anche quest’anno per il Museo sono attese entrate per circa 815mila€,
a fronte di spese dirette di circa 652mila€.
La libreria, che accoglie ad oggi nei suoi locali anche il centro di cultura, e per cui stimiamo circa 230mila€ di uscite, le entrate preventivate,
considerando una lieve diminuzione degli incassi consuntivati nel
corso del 2014, sono state ribassate dell’8% rispetto al preventivo 2014
e vengono indicate in 165mila€.
Nel 2015 è stato previsto lo spostamento del centro di cultura ed è stata
data disdetta dell’attuale contratto di locazione della libreria; tuttavia,
a bilancio, sono state stanziate le risorse necessarie alla ordinaria
gestione della libreria in altra sede.
Giovani e sport
Non sono state previste riduzioni di contribuzione ai centri giovanili
mentre si è ridotto lo stanziamento a favore del MACCABI.
Situazione finanziaria
La Cer ha un affidamento bancario di 3,5 milioni di euro, cui si applica
un tasso decisamente più basso di quello di mercato.
“Se considerassimo i flussi solo per competenza – ha spiegato Spizzichino - la gestione Cer causerebbe, cumulativamente nell’anno, deficit
per almeno 4-4,5M€. Tale divario entrate/uscite si è andato ampliando
negli ultimi anni in quanto la quasi totalità delle uscite ha un andamento lineare e regolare, ma lo stesso non può dirsi delle entrate. Per fortuna l’andamento dei “cd residui", ovvero l'incasso ed il pagamento dei
crediti/debiti pregressi, è inverso e, in tal modo, si riesce parzialmente
a compensare il gap finanziario causato nell'anno di riferimento". “Alcune entrate, poi, non vengono riscosse puntualmente, lasciando che
molti crediti si accumulino… l’equilibrio finanziario si regge su una
linea molto labile e su andamenti di entrate non regolari nei vari mesi.”
Conclusioni
Appare evidente come poter predisporre bilanci in equilibrio economico-finanziario diventi sempre più complesso.
In una situazione di crisi straordinaria, lunga e profonda, quale quella di questi ultimi 7 anni, dovremmo rivedere ed approfondire, al
livello comunitario nazionale, qual è il compromesso tra puntuale
rispetto delle norme e del sistema di controlli, e la possibilità di
disattenderli, temporaneamente, giustificandolo se a beneficio della
vitalità delle comunità.
Ove vi fossero determinate garanzie patrimoniali e fosse verificabile
l'esistenza di un trend positivo degli indicatori di "buona salute" delle
Comunità (che sarebbe bene capire quali sono, oltre quelli normalmente utilizzati ed indicati dalla buona tecnica e dottrina aziendalistica),
andrebbe data la possibilità di derogare a certi impegni, se questo
significa investire nel nostro futuro.
In conclusione l’Assessore Spizzichino lancia un avvertimento: “Non ci
si può illudere che la Comunità di Roma possa mantenere lo stesso
livello/quantità di servizi (e quindi debba spesare così tanti costi), e un
certo standard qualitativo, sicuramente migliorabile, senza considerare
seriamente quanto stia cambiando la struttura e la consistenza delle
proprie entrate; conseguentemente, non si può più rimandare una
seria revisione della propria organizzazione tutta".
Tanto a mi ‘un me tocca
Il divertimento in giudaico-romanesco
con il pubblico protagonista il prossimo 3 marzo
Il giudaico-romanesco in un talk show, con spettacolo teatrale e
dibattito con il pubblico, sul tema della comunicazione.
Il primo evento al Teatro Italia (via Bari, 18) il 3 marzo alle 21.00
Per prontazione ed acquisto biglietti (proventi devoluti alla Deputazione): 06.68400636 - 06.5803657 - 06.6877594 - 06.5584325 338.1910525 - 389.6954012
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
stato pari a 100mila € per tutte le scuole italiane),le rette coprono ancora, ed appena, un terzo dei costi.
Per il prossimo anno, non è stato previsto alcun incremento delle rette.
E’ attesa un’importante sovvenzione dalla Fondazione Lauder per
100mila€ che potrebbe anche divenire continuativa e che, nel caso
erogata, farà aumentare il budget delle borse di studio di pari importo.
Tributi/contributo volontario.
La pesante situazione economica del paese incide anche sugli iscritti
CER. Non è sostenibile un incremento, seppur minimo, dell'importo
della c.d. "matricola", nonostante che l’accertato medio per iscritto oggi
è ai livelli di molti anni fa e la contribuzione media, per nucleo familiare, è molto bassa. “Più in generale - sottolinea Spizzichino - va deciso
se ‘spostare’ la contribuzione degli iscritti sui prezzi dei servizi piuttosto che lasciarla su un qualcosa che somiglia ad una imposta”.
Gettito dell’otto x mille
L’andamento delle entrate in Cer, da quando si beneficia di questo
gettito, ha avuto un picco di oltre 1,2 M€ per poi scendere a 0,8 M€.
L’entrata in questione sembra ora assestarsi sul milione/€ da almeno 2
anni.
Culto e casherut
I costi dell’Ufficio Rabbinico e dei servizi rituali sono in diminuzione
(40mila€ circa, per voci stipendiali) rispetto al preventivo dello scorso
anno (si prevede, comunque, un disavanzo complessivo di circa
750mila€). La contribuzione ai Batei Hakeneseth (140mila€ circa), che
si reggono soprattutto con risorse proprie, è stata mantenuta, sebbene
rimangano disparità di trattamento tra i vari templi. Quanto alla casherut, si rileva il costante aumento della domanda di prodotti casher, che
ha comportato un rilevante potenziamento delle risorse impiegate in
questo settore.
Shalom
Lo scorso anno il Consiglio della Cer aveva deliberato un aumento, su
base volontaria, della tassazione di appena 5 euro all’anno, per ricevere Shalom a casa. Tale minimo aggravio avrebbe consentito di incassare almeno 30.000 euro, e avrebbe consentito di risparmiare le copie per
39
ROMA EBRAICA
Insegnare l’uso
responsabile di Internet
È importante conoscere i pericoli che
i giovani possono incontrare sulla
Rete e nei Social Network.
Lo ha spiegato ai genitori degli
alunni della scuola media ebraica il
Commissario di Polizia Roberto Giuli
L
o scorso 19 gennaio presso la
Scuola Media ebraica “Angelo Sacerdoti” si è tenuto un incontro –
rivolto soprattutto ai genitori degli
alunni – con il sostituto Commissario della
polizia postale Roberto Giuli, incentrato
sui pericoli della Rete e sull’uso corretto
di internet da parte dei ragazzi. L’evento è
stato organizzato dal responsabile della sicurezza Gianni Zarfati, dall’assessore alle
Politiche Educative Ruth Dureghello, dal
preside rav Prof. Benedetto Carucci e dal
vice preside Alfi Tesciuba. Vista l’importanza dell’argomento trattato, sono stati
chiamati a partecipare anche rappresentanti della Deputazione ebraica, del Centro
ebraico il Pitigliani e degli Asili infantili.
L’incontro si è aperto con la consegna di
una targa al Commissario come ringraziamento per l’ottimo e costante operato della
polizia per mano di Gianni Zarfati che ha
sottolineato come fosse la prima volta che
questo tipo di incontro fosse aperto anche
ai genitori. Il preside Carucci ha poi evidenziato l’importanza della sicurezza informatica e di come i genitori abbiano un
ruolo fondamentale nel prevenire situazioni pericolose.
“Una vigile e provvida paura è la madre
della sicurezza” (cit. Edmund Burke): così il
Consigli per una
navigazione sicura
su internet e per un
uso responsabile
del computer
o dello smartphone
Commissario ha esordito, spiegando come
sia condizione indispensabile che gli adulti
debbano conoscere delle semplici tecniche
per un uso sicuro e responsabile da parte
dei figli dei Social Networks e della Rete in
generale, al fine di renderli meno vulnerabili di fronte a circostanze pericolose.
Giuli ha sottolineato come i genitori debbano soprattutto aprire un canale comunicativo con i ragazzi, che sono dei “nativi informatici”, proprio per evitare di ritrovarsi
di fronte a “minacce” come tentativi di adescamento, furti d’identità, cyberbullismo e
quant’altro.
Durante l’incontro il Commissario ha evidenziato quale siano gli strumenti per
preparare i genitori ad ogni situazione.
Consigli e regole di condotta: i figli vanno
“rallentati” in una società che si muove con
estrema velocità, imponendogli delle regole non solo nella vita ma anche nell’utilizzo
del computer: il rischio è che i ragazzi, che
utilizzano la rete informatica, avvertano un
senso di deresponsabilizzazione e di onnipotenza che è di per se stesso pericoloso.
Ad arricchire l’incontro hanno contribuito
le numerose domande dei genitori rivolte al
Commissario, che ha fornito risposte molto
esaustive e chiare, tanto che unanime è stata la richiesta di poter ripetere incontri di
questo tipo.
JACQUELINE SERMONETA
• Non dare informazioni personali o dati
finanziari.
• Non rispondere a messaggi imbarazzanti.
• Non condividere la password con altre
persone, anche amici (cambiarla spesso, utilizzando caratteri alfanumerici
per renderla più sicura).
• Non compilare moduli di iscrizione o
profili personali.
• Non partecipare a concorsi online.
• Non accettare amicizie o incontrare
persone conosciute in chat.
• Non scaricare programmi senza il permesso dei genitori, in quanto, senza
volerlo, potrebbero scaricare virus
informatici.
• Non mandare messaggi volgari on line.
• Non aprire i messaggi indesiderati
(spam).
• Non effettuare acquisti online senza la
supervisione dei genitori.
• Non salvare i dati di login.
• Non lasciare il PC/Smarthphone incustodito.
• Controllare che nessuno ti stia osservando quando digiti la password.
• Bloccare lo schermo.
• Utilizzare un antivirus aggiornato.
Autismo, progetto pilota nelle scuole ebraiche italiane
Intervenire in tempo per curare i disturbi dell’apprendimento
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
L
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a battaglia contro l’autismo sbarca negli asili nido e nelle
scuole materne italiane. A partire dal mese di gennaio
negli istituti delle Comunità Ebraiche di Roma, Milano,
Torino, Firenze e Trieste prenderà infatti il via il progetto
di prevenzione primaria “La salute psicomotoria”, che prevede l’individuazione di eventuali ritardi nello sviluppo del
bambino, che possono rappresentare un
campanello d’allarme anche per l’autismo, attraverso l’osservazione dei piccoli in età pre-scolare mentre sono in un
ambiente ludico.
L’iniziativa sarà realizzata in collaborazione con AME (Associazione Medica
Ebraica - Italia) e Sochnut Italia - Agenzia Ebraica per Israele. Il progetto, voluto e finanziato dall’UCEI (Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane) tramite i
fondi dell’8 per mille, prevede un impegno biennale per il 2015 e
2016, ed è frutto della collaborazione pluriennale con l’Ospedale
Hadassah di Gerusalemme, l’Università Ebraica di Gerusalemme
e il Centro di diagnosi e riabilitazione pediatrica dell’Ospedale di
Beer Sheva (Israele).
Suddiviso in tre fasi, quella di formazione degli educatori scolastici, quella di osservazione dei bambini e quella dei laboratori ludico-motori, il progetto utilizza una serie
di strumenti di misurazione dello sviluppo psicomotorio elaborati ad hoc da
terapiste e psicologhe della clinica
comasca ‘Villa Santa Maria’.
“L’aumento impressionante dei disturbi
dello sviluppo ha notevolmente innalzato il livello di allarme nei genitori – spiega Enzo Grossi, Direttore scientifico di
Villa Santa Maria -. Questo programma
consente di fare uno screening sistematico in ambiente scolastico, cogliendo
piccoli segnali di allarme che preludono
a patologie dello sviluppo infantile nella
condotta globale, nella gestualità, nei caratteri della motricità,
nella comunicazione nel gioco, nelle difficoltà e, soprattutto,
nell’efficacia delle risposte a determinati stimoli”.
Foto: A. Nacamulli
La grande famiglia di Sami Modiano
a storia di Sami Modiano e sua moglie Selma Dulman è ben nota, ma
non tutti sanno che il 10 Gennaio
1958, il giorno del loro matrimonio
erano soli e senza famiglia. Sami aveva perso suo padre e sua sorella Lucia nel campo
di sterminio di Auschwitz, mentre Selma
aveva lasciato la casa di suo padre per raggiungere Sami in Congo.
Lo scorso anno dopo una visita alla loro
casa di Ostia, Daniel e Josef Di Porto insieme alla Dott.ssa Elvira Di Cave hanno deciso di organizzare una cerimonia a sorpresa
per Sami e Selma in occasione dei loro 57
anni di matrimonio.
L’evento pubblicato su Facebook ha avuto
subito un enorme successo: tutti volevano
partecipare e dare il loro contributo per regalare agli sposi una festa che non avrebbero mai dimenticato; in particolare hanno
collaborato: “Le Bon Ton” di Giovanni Terracina, la macelleria di Claudio Spizzichino
e “Granelli di pane” che hanno offerto il catering per la festa nel cortile della scuola;
Graziella Terracina e Stella Calò che hanno
pensato agli addobbi, ai fiori e al bouquet di
Selma; i fotografi Ariel Nacamulli e Stefano
Meloni; ovviamente la CER e la direttrice
della scuola Vittorio Polacco Milena Pavoncello, che si è impegnata per rendere i bambini protagonisti di questa festa.
Tra i sorrisi dei bambini, le lacrime dei
presenti e l’emozione dei loro “fratelli” sopravvissuti (erano presenti Lello Di Segni,
Alberto Sed, Mario Mieli e Piero Terracina),
Sami e Selma hanno avuto una meravigliosa
cerimonia; la celebrazione del loro amore è
stata la risposta ai recenti avvenimenti terroristici di Parigi: con la presenza dei bambini e un tempio gremito di gente abbiamo
dimostrato ai nostri nemici la forza del popolo d’Israele.
“È un momento difficile per il popolo ebraico” - ha spiegato nel breve discorso rav Di
Segni - “nella nostra Europa osserviamo
una nuova forma, ma non imprevista, di
odio antiebraico. La nostra presenza numerosa è una risposta alla storia di questa coppia, ma anche una risposta giusta di stare
insieme di fronte alla violenza antisemita”.
“È pericoloso - ha proseguito il rav - parlare
dell’attentato di Parigi come di un 11 Set-
tembre, perché l’11 Settembre è stato un
complotto sanguinoso organizzato per danneggiare gli USA. Quello che è successo in
Francia è il seguito di questi avvenimenti,
ma quando vanno a uccidere i bambini nelle scuole ebraiche non viene considerato 11
Settembre. Perché per gli ebrei ammazzati
nessuno esprime solidarietà? Questa cerimonia - ha concluso rav Di Segni - è una testimonianza, una prova della nostra volontà
di andare avanti e ciò che succede contro di
noi non ci indebolisce ma anzi ci rafforza. La
nostra risposta al male che ci fanno non è la
disperazione, ma la forza di andare avanti”.
“Ad Auschwitz ho perso tutta la mia famiglia deportata da Rodi - le poche commosse
parole che Modiano ha rivolto a tutti, in un
ideale abbraccio - ma a Roma ho trovato
una grande famiglia”.
Il giorno della cerimonia all’interno del tempio è stato messo un bussolotto gigante in
cui ciascuno ha potuto fare la propria offerta. Con il ricavato verrà creato tramite il
KKL un progetto a nome di Sami e Selma a
favore dei bambini in Israele.
GIORGIA CALÒ
Più chiamate
a Sefer per tutti
tutti”, ha ottenuto quasi trecento likes sulla
sua homepage e quasi seicento commenti,
il tutto in soli dieci giorni. Un successo straordinario, quindi, sottolineato soprattutto dalla grande
partecipazione alla richiesta
di indicare i possibili assessori sulla base di soprannomi
veramente esistenti. E cosi
sono saltati fuori ruoli azzeccatissimi come “mezzo milione” assessore alle entrate,
“Biastimella” assessore al
culto, “Sputacchio” alle politiche educative, “Pannolino”
alla terza età, “Kissinger”
assessore alle relazioni internazionali, “Bistecca” e “Simmenthal” in lotta per il posto
di assessore alla Kasherut, “Scienza negra”
alla cultura, “Topolino” alle attività ricreative, “Bavelle” ai grandi eventi, “Staccabraccia” assessore alla difesa e tantissimi altri
ancora.
L’idea nasce proprio come uno scherzo, inutile dire che l’autore stesso non si sarebbe
mai aspettato tanto successo, ma soprattutto che molti iscritti alla comunità gli consigliassero di candidarsi per davvero. «Avevo
già postato qualcosa di simile su Facebook a luglio, un
progetto per un centro commerciale tutto “gnevrimme”,
con dentro un’agenzia per le
scommesse chiamata “Bado
Snai”, un negozio di ottica
“Bonocchio Cevenga”, una
Banca-Vonodde e anche una
bottega per le taglie forti chiamata “Ghibboro”», spiega
Attilio. Non una novità per lui,
quindi, creare uno spazio per
sdrammatizzare le realtà della nostra comunità attraverso il Social Network più famoso
e più utilizzato del mondo. Niente più che
un po’ di Ironia, in un Giudaico Romanesco
modernizzato che, ricordandoci le nostre
origini, riesce a regalarci qualche minuto di
risate in un periodo così importante per la
nostra comunità.
REBECCA MIELI
L’esilarante proposta di Attilio Bondì
per il prossimo Consiglio
della Comunità: scegliere
i candidati in base ai soprannomi
C
he ci sia fermento all’interno della
Comunità in vista delle prossime
elezioni, non è più un segreto ormai. Man mano che ci si avvicina
al momento del voto i toni si alzano sempre
di più ed emergono chiaramente simpatie,
antipatie, contrasti e conflitti, come in ogni
comunità che abbia la responsabilità di scegliere i propri rappresentanti.
Non per questo non è concesso fare un po’
di ironia sulle elezioni, specialmente sulla
scelta dei candidati, proprio come ha fatto
Attilio Bondì con una “scherzosa” candidatura postata su Facebook. Il post, accentuato dallo slogan “Più chiamate a Sefer per
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
L
In migliaia sono accorsi nel Tempio Maggiore per un festeggiamento a sorpresa
in onore di Sami, sopravvissuto ad Auschwitz, e della moglie Selma Dulman
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ROMA EBRAICA
Gli ebrei romani
e l’uso degli stemmi
Nel Museo Ebraico una ricca collezione
V
isitando il Museo Ebraico di
Roma si ha la possibilità di ammirare importanti testimonianze
della storia della comunità ebraica romana e di venire a conoscenza di
aspetti interessanti e meno noti che hanno
caratterizzato la vita quotidiana degli ebrei
romani nel corso di numerosi secoli.
Fra queste testimonianze rientra certamente l’uso di stemmi. Questi
sono visibili su numerosi
oggetti, sono spesso estremamente differenti l’uno
dall’altro e consentono di
avere maggiori informazioni
non solo sui preziosi oggetti
esposti al Museo ma spesso
anche sulle famiglie ebraiche
che li hanno generosamente
donati.
Come si ricorda in Arte
ebraica a Roma e nel Lazio,
‘si conoscono stemmi di
ebrei romani fin dal XIII
secolo: in un Machazor della Biblioteca
Casanatense di Roma è miniato quello di
David ben Ruben ha-Rofè (‘David figlio di
Ruben il medico’: o forse Del Medigo)’.
In passato si riteneva che l’uso di stemmi
fosse stato importato dagli ebrei spagnoli
che alla fine del Quattrocento giunsero
numerosi a Roma dopo essere stati cacciati
dalla Regina Isabella di Castiglia. In realtà
si conoscono stemmi dell’ebraismo romano
più antichi. Sembrano essere stati creati già
a partire dal Medioevo, in parte per emulare la nobiltà romana e come simbolo di
tentata emancipazione e in parte per distinguere la proprietà privata o famigliare degli
oggetti.
Anche nel lungo periodo della reclusione
nel ghetto nacquero nuovi stemmi. Questi
erano legati soprattutto al cognome della
famiglia ebraica. Non era raro che famiglie
con lo stesso cognome (provenienti probabilmente dalla
stessa località) per differenziarsi da altre famiglie omonime, utilizzassero stemmi
diversi. Alle figure araldiche
usate dalle famiglie si
aggiungono anche quelle
forse più note delle diverse
Scole.
Gli stemmi sono presenti su
numerosi oggetti esposti al
Museo: Ketubot, Mappot,
corone, rimmonim e molti
altri.
Sul prezioso bacile in argento donato dai
fratelli Shelomò, Mordekhai e Avraham
Ashkenazi alla Scola Catalana si può notare
al centro lo stemma della Scola Catalana
con un leone in movimento rivolto verso
destra davanti ad una Menorah.
Sull’addobbamento Alatri donato alla
Scola Nova compaiono sui rimmonim i
leoni rampanti su una colonna, stemma
della famiglia realizzato dall’argentiere
Francesco Teoli.
ASSOCIAZIONE
Piccoli alunni, grandi lettori
AMICI MUSEO EBRAICO DI ROMA
Su iniziativa delle morot Deborah Levi ed
Elena Perugia, incontro tra la scrittrice
Lia Levi e i bambini delle elementari
D.A.N.I.E.L.A
DI CASTRO
L’“Associazione Daniela Di Castro
Amici del Museo Ebraico di Roma”
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
è nata per aiutare il Museo Ebraico
42
di Roma nella tutela, conservazione,
promozione, diffusione e sviluppo
della ricchezza del suo patrimonio.
PER INFORMAZIONI E PER ISCRIZIONI:
www.associazionedanieladicastro.org
[email protected]
Tel. 334 8265285
L
o scorso gennaio, nell’ambito dei
programmi scolastici che vogliono
educare i piccoli studenti delle elementari a conoscere e ad apprezzare il mondo della lettura, le Morot Deborah
Levi ed Elena Perugia hanno organizzato
un incontro tra i loro alunni e la scrittrice - e
storica direttrice di ‘Shalom’ - Lia Levi.
Lia Levi si è specializzata nell'editoria per
ragazzi ed in questa veste ha parlato del
suo ultimi libro - edito nella collana Il Battello a Vapore - “Io ci sarò”.
E’ la storia di Riccardo e Lisetta, orfani, che
vivono con gli zii in due città diverse. Ma
Riccardo ha fatto una promessa alla sorellina: “Se un giorno avrai bisogno di me, io ci
sarò”. E in quali pericoli maggiori ci si può
imbattere nella vita se non quello di essere
La torre circondata da leoni rampanti, simbolo della Sinagoga Castigliana, compare
invece su dei rimmonim donati nel primo
ventennio del Settecento dalla famiglia
Efrati, mentre si può identificare lo stemma
dorato della famiglia Corcos (con due leoni
controrampanti che sostengono un monte
di tre cime da cui si dipartono delle spighe
di grano) all’apice dei rimmonim donati
dalla famiglia stessa Scola Castigliana.
Lo stemma della famiglia Mieli è rappresentato da tre api che volano in direzione di un
contenitore di miele come si può vedere da
uno splendido makhazor donato dalla famiglia nell’Ottocento.
Molti degli stemmi rimandano dunque al
cognome della famiglia: Di Cori (un cuore),
Cammeo (con un cammello), Castelnuovo
(una torre merlata), Del Monte (con un
leone rampante su un monte con tre cime),
Di Porto (un’imbarcazione con due vele
rappresentata davanti ad un porto fortificato), Fiorentini (il braccio destro di una figura che tiene in mano tre gigli), Pontecorvo
(con un corvo rappresentato sopra un
monte di tre cime appoggiato sopra un
ponte sotto al quale scorre un fiume).
Ricorrono spesso le stesse figure come ad
esempio il leone che simboleggia la forza e
la tribù di Giuda oltre che il Regno di Leon
da cui venivano molti ebrei spagnoli (Arte
ebraica a Roma e nel Lazio) le spighe di
grano che simboleggiano la prosperità e le
opere buone o l’albero che invece rimanda
all’Albero della vita.
Un visitatore curioso della storia delle famiglie ebraiche romane potrà cercare questi
simboli fra i numerosi oggetti esposti al
Museo Ebraico: sono una preziosa testimonianza di una storia meno nota della nostra
comunità.
SARAH TAGLIACOZZO
dei bambini ebrei nel bel mezzo delle persecuzioni razziali e della guerra? Riccardo,
deciso ad andare da Ferrara a Roma per
raggiungere la sorella, incontrerà mille
agguati, vedrà di fronte a sé i malvagi, gli
indifferenti e anche i buoni, finché non
saranno i partigiani ad aiutarlo a mantenere la sua promessa. Lisetta e gli zii verranno
salvati all’ultimo minuto, con uno spettacolare colpo di mano, quando già stanno per
essere deportati. E Riccardo sarà in prima
fila tra i salvatori. Tante le domande dei
piccoli lettori che si sono stretti attorno a
Lia Levi, desiderosi di avere una copia del
libro firmata dall’autore.
Con una cerimonia al tempio Maggiore,
ha ricevuto il riconoscimento di Chacham
Foto: M. Piazza Sed
N
ello scenario dell'ebraismo italiano, che ha recentemente
visto l'insediamento di tre
nuovi capi rabbini in tre piccole comunità, si è aggiunta, il 12 gennaio
presso il Tempio Maggiore, la cerimonia
per il conseguimento della laurea rabbinica di Roberto Di Veroli, già avente il titolo
di maskil, sofer e shochet. L’evento ha
visto la partecipazione di tutti i rabbanim
della Comunità, del presidente CER Riccardo Pacifici e dei bambini delle Scuole
Ebraiche, oltre che quella dei parenti e
delle persone care al nuovo Rav.
Il Rabbino Capo Riccardo Di Segni è intervenuto pronunciando un discorso su come
lo studio della Toràh e l'adempimento alle
mizvòt permetta ad ogni ebreo di innalzarsi spiritualmente e ha colto l'occasione
per augurare a Rav Di Veroli di poter trasmettere alla Comunità ciò che lui ha
imparato e continuerà ad imparare e che
da ora in poi possa continuare il suo percorso in salita iniziando da questo "primo
gradino" rappresentato dalla sua Semichà.
La cerimonia è proseguita con la Berachà
dello stesso Rabbino Capo a Rav Di Veroli,
che ha poi dedicato il suo Dvar Torah alla
memoria delle vittime ebree morte durante l’attentato all’Hyper chacher di Parigi
per mano di terroristi islamici. Nel suo
intervento, riprendendo il libro di Shemot,
ha ripreso un commento del Rebbe di
Lubavitch riguardo al compito svolto
dagli ebrei ai tempi della schiavitù in
Il mondo delle Tefillot
I
Insegnare ai bambini a pregare:
una garanzia di sopravvivenza
per il popolo ebraico
l 18 gennaio scorso, presso gli Asili
Israelitici Rav Elio Toaff, ha avuto luogo la presentazione del libro “Il mondo delle Tefillot”, creato dai bambini
con le Morot, con l’intervento di Rav Roberto Della Rocca, Rav Roberto Colombo e
Simona Nacamulli del Consiglio UCEI.
A prendere la parola è stata la direttrice Judith Di Porto: “il nostro più grande desiderio e lavorare insieme, scuola e famiglia”.
Ha spiegato che bisogna cominciare da subito ad insegnare ai bambini le cose basilari della cultura e della lingua ebraica poiché rappresentano un bagaglio possente.
“La difficoltà – ha ammesso – sta nel farla
diventare un’attività costante, nonostante
sia molto astratta e i bambini, invece, sono
molto concreti. Bisogna far entrare dentro di loro l’idea di D-o”.
Questo libro è uno strumento dove ci sono i punti essenziali delle
Tefillot con le spiegazioni. Molto emozionato Rav Della Rocca che
ha ricordato che proprio all’interno di questo asilo ha iniziato a
recitare le Tefillot. “Il siddur - ha spiegato - ci accompagna per
tutta la vita e lo porteremo nella nostra memoria intima. La tefillà
Egitto: la costruzione dei mattoni. Nel
commento viene spiegato come, una volta
reso libero dalla schiavitù egiziana, il
popolo ebraico è automaticamente diventato "schiavo" di HaKadosh BarucHu e ha
iniziato a "costruire i mattoni" per Lui. Se
in Egitto gli ebrei erano obbligati a costruire i mattoni in maniera concreta, una
volta resi liberi, hanno continuato a
costruire mattoni: in generale, costruire
mattoni significa partire da un materiale
semplice come la paglia e migliorarlo con
l'aggiunta di altri materiali. Oggi i mattoni
che costruiamo rappresentano la società
in cui viviamo: ognuno di noi all'inizio
della propria vita è come paglia, ma studiando Torah e praticando mizvòt, quindi
unendo delle cose che ci rendono migliori
e che potenziano la nostra spiritualità,
possiamo diventare noi i mattoni che contribuiscono al perfezionamento e alla crescita della società, ma non solo: possiamo
aiutare a diventare mattoni anche i nostri
fratelli aiutandoli nello studio e nella pratica della Torah.
Dopo il discorso, Rav Roberto Di Veroli ha
ringraziato i familiari e i membri del Collegio Rabbinico per averlo sia accompagnato nel percorso che lo ha portato al
raggiungimento di questo traguardo che
per la fiducia a lui affidata aiutandolo
così, da "semplice paglia" a diventare un
"mattone".
YAEL DI CONSIGLIO
ci insegna il senso di riconoscenza, proprio perché uno dei nostri
problemi è quello di dare tutto per scontato e non ringraziare chi
ci aiuta. Non tutti sanno che la riconoscenza è alla base di tutte
le mitzvot” .
Rav Colombo ha spiegato perché per aprire la Tefillà al Tempio
usiamo una benedizione che usa la parola “Sekvì” (Gallo in ebraico antico). Una parola così antica e complicata che ormai non
conosce nessuno. Con il libro “Il mondo delle Tefillot” in mano, ci
spiega che “il significato antico di gallo
vuol dire “cuore” e i chachamim volevano concentrarsi sul cuore delle persone.
Il cuore ha un’unione significativa con
la parola gallo. Il cuore, infatti, gestisce
il futuro della nostra esistenza, proprio
come il gallo che ha il sentore di ciò che
accadrà nel futuro. Bisogna, quindi, rapportarsi con sentimento alla Tefillah e
avere il “culto del cuore”. Questo libro
darà un forte sentimento ebraico a figli
e genitori”.
Il libro è stato realizzato grazie al sussidio dell’UCEI tramite l’8x1000. Simona
Nacamulli, consigliera UCEI, ha spiegato che “ogni progetto è un’emozione e
quando si arriva alla fine non deve essere
una “chiusura”, ma un inizio di qualcosa”. Infine, ha ricordato
che “il Tempio Beth Michael ha attivato, grazie a Gadi Piperno,
un corso di Tefillah Didattica. Il risultato è stato molto bello: le
persone piano piano si avvicinano senza la vergogna di essere
giudicate e imparano a pregare.”
MIRIAM SPIZZICHINO
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
Rav Roberto Di Veroli,
il nuovo 'mattone' della Comunità
43
ROMA EBRAICA
Un rabbino a tutto tondo
Presentato alla libreria Kiryat Sefer il volume
di Paolo Orsucci “Quale è la via del vento?”,
sulla figura di rav Isidoro Moshè Kahn
Q
ualcuno lo chiama "il caso", altri, come Einstein, lo definiscono come il modo del Signore di agire nell'anonimato…
comunque sia, il "destino" ha voluto che nel 1946 l'allora
Direttore del Collegio Rabbinico David Prato andasse in
cerca di ragazzi che studiassero per diventare rabbini: si recò a
Napoli e scelse un piccolo ragazzo, orfano, Isidoro Kahn.
Alla presentazione presso la libreria Kiryat Sefer del volume di
Paolo Orsucci “Quale è la via del vento? Appunti su Isidoro Moshè
Kahn (1934-2004)”, edito da Belforte e pubblicato con il patrocinio
dell'Assemblea dei Rabbini d'Italia, Giacomo Kahn ricorda con affetto lo zio che veniva dalla Lettonia e diventò un "rabbino a tutto
tondo", nel senso che faceva davvero tutto, era shochet, celebrava
tutte le tefillot, componeva le recite per bambini a Purim, costruiva
personalmente la succà. L'arrivo al Collegio Rabbinico di Isidoro
Kahn è stato ricordato da Rav Vittorio Haim Della Rocca: si presentò con un berretto da marinaretto; all'inizio pareva avesse un carattere chiuso, ma dopo qualche giorno divennero grandi amici. L'editore Guido Belforte lo ha definito "un gran signore napoletano, un
uomo di gran cuore" con un carattere "correttamente forte". E la sua
correttezza è stata sottolineata anche da Rav Gianfranco Di Segni
ricordando come, quando si dimise da Capo rabbino di Livorno,
Una nuova app ti ricorda
che la dispensa è vuota
L’ha inventata Uriel Perugia
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
Q
44
uante volte ci è capitato, nel
voler fare una torta, di accorgerci di aver finito le uova? Quante
volte andando a fare la spesa,
una volta a casa, ci ricordiamo di aver
dimenticato di comprare quello di cui avevamo bisogno e abbiamo riempito il carrello
di prodotti che già avevamo?
Sono queste alcune tra le
situazioni più comuni che
hanno ispirato Uriel Perugia a creare SmartQsine.
Questa applicazione innovativa, ci ricorda di fare la
spesa solo quando è
necessario avvisandoci su
cosa sta per finire o meno
nella nostra dispensa. Il
sistema è formato, oltre
che dalla App per smartphone e tablet, da una
bilancia di piccole dimensioni e molto sottile, chiamata "Pad" dove
possiamo pesare i prodotti che vogliamo
siano sempre presenti in casa, in modo da
poterne misurare il quantitativo standard e
monitorarne le scorte. La bilancia è collegata all'applicazione che ci avvertirà quando le
riserve di cibo che abbiamo deciso di tenere
sotto controllo stanno per finire.
Uriel racconta della sua idea: “come tutte le
invenzioni è nata da una necessità. Ad
ognuno di noi è capitato almeno una volta,
disse a quella che era stata, fino a
quel momento, la sua Comunità che,
come insegnava l'Halakhà, da quel
giorno egli avrebbe seguito in tutto
e per tutto il nuovo Capo rabbino e
che si aspettava lo stesso comportamento da tutti: un grande esempio
di umiltà. E non è un caso il fatto che
il suo insegnamento, come sostenuto da Orsucci, arrivava al cuore
delle persone proprio attraverso l'esempio del proprio comportamento; era un uomo di cultura, un fine intellettuale, un rabbino che
ha saputo portare l'ebraismo alla sua Comunità. A tale riguardo,
Luciano Meir Caro, Rabbino Capo delle Comunità Ebraiche di Ferrara e Pisa, scrive nell'introduzione al libro: "Occorreva pochissimo
tempo per percepire e apprezzare il suo grande cuore. Alieno da
ogni forma di ostentazione, aveva la capacità di mettere immediatamente l'interlocutore a proprio agio. Al centro del suo agire poneva costantemente l'insegnamento a tutti i livelli, dispensato con
grande capacità, entusiasmo e passione". "Le parole che Isidoro ci
ha consegnato - ha scritto a tale riguardo Orsucci - sono un testamento morale. Sono una luce guida, che merita di restare accesa" ed
esse, nella particolare struttura del libro, circondano il testo del
volume che risulta impaginato come il Talmud.
SILVIA HAIA ANTONUCCI
Paolo Orsucci,
Quale è la via del vento?
Appunti su Isidoro Moshè Kahn (1934-2004),
Livorno, Belforte, 2014, pp. 395, 22 euro.
o spesso, di trovarsi a casa ed accorgersi di
non avere più qualcosa che si utilizza quotidianamente. Pensiamo ad esempio quando abbiamo i bambini in casa: quante volte
capita di dimenticarsi di comprare il latte
una volta tornati la sera o, addirittura, la
mattina stessa? SmartQsine ci permette
dedicare più tempo alle cose importanti
senza trascurare i beni di prima necessità,
ed oltre a far fronte alle esigenze famigliari
è utilizzabile anche da bar, pub e locali per
‘monitorare’ le scorte dei prodotti ottimizzando le quantità necessarie e conseguentemente le spese. L'idea è
nata a febbraio dello scorso
anno. Ci sono voluti due
mesi per pianificare il progetto e intorno ad aprile
abbiamo iniziato a metterci
concretamente all’opera”.
Ad oggi è pronta una
pre-serie del prodotto e dal
prossimo aprile sarà in
commercio. Nel mese di
gennaio l'App è stata presentata all'International
Consumer
Electronics
Show di Las Vegas (una delle più grandi
fiere mondiali dell'elettronica di consumo):
il prodotto verrà mostrato su un sito di
crowdfounding e in base alle richieste si
procederà con la produzione dei pezzi.
YAEL DI CONSIGLIO
www.smartqsine.com
facebook: smartqsine
twitter: @smartqsine
email: [email protected]
È tornata Zì Fenizia!
C
hi ha vissuto a Roma, in particolar
modo a Portico d’Ottavia, ricorderà sicuramente la pizzeria a
taglio “Zì Fenizia”, meta di tanti
turisti e considerata una delle migliori pizzerie “take away” da Gambero Rosso. Una
volta chiuso ha lasciato un vuoto in tutti gli
amanti della pizza a taglio kasher. Beh, l’attesa è finita... Zì Fenizia è tornata!
In un piccolo punto su Via Ostiense, di fronte alla prefettura, spunta il tanto atteso “Zì
Fenizia, Pezzi di Pizza”. Grande successo
anche nei Social dove, nella bacheca della
pagina facebook, spuntano elogi e vecchi
ricordi. Come ci spiegano Cinzia e Michele,
i proprietari, “la pizza è Chalav Israel e
abbiamo deciso di fare il nostro ritorno in
questa zona proprio per venire incontro a
tutti i ragazzi di religione ebraica che studiano all’università qui vicino, Roma Tre, e non
sanno dove andare a mangiare”.
Basta varcare la soglia per risentirsi a casa:
“Bella cucciola de zia, che te fa Zì Fenizia?”.
E tra un pezzo di pizza e un po’ di concia,
tornano alla mente i bei tempi andati. Un
pezzo dell’infanzia, e dell’adolescenza, di
tutti è tornata a deliziarci con la sua pizza a
taglio kosher. Progetti per il futuro? “Cominciare a servire ai nostri clienti del sabato
sera anche le pizze tonde e per chi, invece,
vuole mangiare i nostri prodotti senza muoversi da casa... Ci stiamo attrezzando per le
consegne a domicilio”. A questo punto non
ci resta che augurarvi buon appetito... Pancia mia, fatti capanna!
MIRIAM SPIZZICHINO
I Love Libya
l 6 gennaio al Teatro Argentina - su iniziativa della Deputazione - è stato presentato “I Love Libya”, uno spettacolo emozionante scritto e interpretato da David Gerbi e diretto da Tonino
Tosto. E’ il racconto di una vita da rifugiato che è dovuto
scappare con la sua famiglia dalla Libia per salvarsi, una storia
unica ma uguale a quella di tante altre persone. “È una storia da
raccontare”, dice Lillo Naman, il presidente della sinagoga di Beit
Shmuel:. “Ho provato una grande emozione. La sua storia è simile
anche alla storia della mia famiglia, anche noi siamo scappati”.
Il Dr. Gerbi è psicologo, rappresentante dell’organizzazione mondiale degli ebrei di Libia che ha sede ad Or Yehuda in Israele e il
presidente dell’associazione “I Love Libya”. Con la sua attività ha
presentato spettacoli anche in giro per il mondo e pubblicato molti
libri: Rifugiato, costruttori di pace, ecc. Inoltre, ha fondato “I Colibrì
sognatori”, un gruppo di persone il cui obiettivo è di avvicinare tra
loro popoli e religioni diversi. Il 30 Novembre 2014 è stata una
giornata storica poiché il parlamento israeliano ha riconosciuto dei
rifugiati ebrei provenienti dai paesi arabi.
Gerbi ha presentato la sua storia come una serie di miracoli che
hanno segnato la sua vita: il trasferimento in Italia nel 1967, la vita
a Roma, la sua attività in giro nel mondo per la pace e contro il razzismo, l’antisemitismo, il terrorismo e la violazione dei diritti umani.
Come nasce questa necessità di raccontare e trasmettere il ricordo della comunità ebraica libica?
Non ho mai dimenticato la sofferenza della mia famiglia. Vedevo
che loro cominciavano a invecchiare e morire e restava quest’ingiustizia. Allora con il passar del tempo ho deciso di prendere in
mano la situazione. In particolare tutto è iniziato con l’11 settembre, quando ho visto il fuoco uscire dalle torri gemelle e mi sono
ricordato di quando ero bambino. Allora c’era di fronte a casa mia
un palazzo abitato da famiglie ebree e degli arabi ci avevano buttato del petrolio e gli avevano dato fuoco. Molti ebrei erano morti
e altri erano scappati per non morire soffocati. Ricordo l’odore e il
panico della gente, questo ha aperto la mia ferita. Tutte le emozioni sono uscite e ho deciso di dire: “Basta! Devo fare qualcosa”. Ho
detto che anch’io ho sofferto, io sono un profugo ebreo dei paesi
arabi, anche la mia famiglia ha sofferto ma non siamo diventati
terroristi. Noi abbiamo cominciato a lavorare onestamente e ci
siamo integrati nella società italiana, nella comunità romana. Ho
detto che si può combattere contro l’ingiustizia ma senza diventare un terrorista, si può costruire la pace, difendendo i diritti umani
e ho deciso di farlo. Ho messo a disposizione la mia vita, ho deciso
di scrivere un libro.
Lo spettacolo racconta momenti toccanti della tua vita: il ritrovamento di una tua zia per caso dopo 35 anni o la rottura del muro
di ingresso della sinagoga di Tripoli…
Sono stati dei miracoli. Ho trovato mia zia ancora viva, pensavamo
fosse morta. Quando Gheddafi mi ha permesso di tornare in Libia
dopo 35 anni e anche di portare via con me mia zia (adesso è sepolta in Israele e non in un cimitero musulmano libico), che era l’ultima
ebrea in Libia, ci sono andato e mi volevano ammazzare. Sono riuscito a salvarmi. Uso quindi la mia storia come uno strumento per
combattere il razzismo e l’antisemitismo, per aiutare le persone. Il
momento in cui ho rotto il muro nella sinagoga in Libia è stato significativo, perché ho rotto il muro del silenzio.
Che cosa hai pensato quando hai rotto il muro?
In quel momento ho rotto la paura di duemila anni, e ho pensato
agli insegnamenti di Jung: “… dover portare a compimento, o anche soltanto continuare, cose che le età precedenti avevano lasciato incompiute.”
Dopo essere stato espulso dalla Libia, vi sei poi ritornato rischiando la vita. Perché?
Ho fatto parte di un gruppo di persone (Associazione Colibrì) che
vogliono combattere per la libertà, la democrazia, i diritti umani, la
libertà di religione e il rispetto dei diritti delle minoranze. Io mi
schiero per Israele che lotta per tutto questo. In Israele c’è tutto,
convivono le sinagoghe, le chiese e le moschee. Sono come i colibrì,
faccio la mia piccola parte come abbiamo visto durante lo spettacolo nel filmato di Wangari Maathai, che nel 2004 è diventata la prima
donna africana ad aver ricevuto il Premio Nobel per la Pace. Lei
racconta la storia del piccolo colibrì, in una foresta divorata dalle
fiamme tutti gli animali scappano, ad eccezione di questo uccellino
che dice: “devo fare qualcosa per questo incendio”. Quindi vola al
fiume più vicino prende delle gocce d’acqua e le getta sul fuoco. Gli
altri animali restano inerti e dicono al piccolo colibrì: “cosa pensi di
fare? Sei troppo piccolo”, e il colibrì ha risposto:”sto facendo il meglio che posso”, e per me è quello che dovremmo fare tutti.
Quale sarà il prossimo miracolo della tua vita? E qual è il messaggio che vuoi lasciare?
Il miracolo sarà quello di portare lo spettacolo dal Papa perché anche lui sostiene gli stessi valori di cui io parlo nello spettacolo: la
lotta contro il razzismo, l’aiuto ai poveri, l’aiuto ai rifugiati, la coesistenza di varie religioni, la lotta contro la violenza, tutti i messaggi
di cui il Papa è portavoce. Il messaggio è semplice: bisogna avere
il coraggio di fare perché le cose cambino. Se ognuno fa qualcosa
anche di piccolo, alla fine qualcosa è successo.
YAARIT RAHAMIM
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
I
Lo spettacolo di una vita scritto
ed interpretato da David Gerbi
45
DOVE E QUANDO
FEBBRAIO
17
SHABAT SHALOM
16.30 ADEI-Wizo
Parashà: Terumà
Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace, 5
Visita guidata dalla dott.ssa Sara Procaccia
MARTEDI
alla mostra “Escher”. Info in sede
--------------------------------------------------------------------------------
18
18.00 ADEI-Wizo e Centro di Cultura EbraicA
Adei, Lungotevere Ripa, 6
MERCOLEDI Aperitivo con l’Autore: Daniele Scalise intervista
19
Venerdì 27 FEBBRAIO
17.00 Le Palme
Mozè Shabath: h. 18.39
La Parashà della settimana: Terumà
Sabato 28 FEBBRAIO
Parashà: Ki Tissà
Venerdì 6 MARZO
Nerot Shabath: h. 17.47
Sabato 7 MARZO
Mozè Shabath: h. 18.48
---------------------------------------Parashà: Vaiakel-Pekudè
Venerdì 13 MARZO
Nerot Shabath: h. 17.55
Sabato 14 MARZO
Mozè Shabath: h. 18.56
Centro di Cultura Ebraica
Da lunedì 23 febbraio per 4 lunedì
Fatti un maestro, trovati un compagno: lezione
di Talmud a cura di Rav Benedetto Carucci Viterbi
“A cosa serve la sapienza?”
Prossimo incontro lunedì 16 marzo ore 20.00
--------------------------------------------------------------------------------
17.00 Le Palme
al Tempio dei Giovani Panzieri - Fatucci
Piazza S. Bartolomeo all’Isola, 24, ore 20.30
Ciclo di incontri sulla tefillà con cena
• Lunedì 23 febbraio: La tefillà nel pensiero ebraico:
chassidismo e razionalismo con Rav Riccardo Di Segni
Facciamo il punto: proposte e progetti per le nuove
attività del Circolo
MERCOLEDI
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• Lunedì 2 marzo: Il Kaddish nella tradizione ebraica
con Rav Benedetto Carucci Viterbi
MARZO
• Lunedì 16 marzo: L’Amidà nel commento tradizionale:
passi della Amidà attraverso il commento dei Maestri
con Rav Roberto Colombo
04
05
07
18.50 IL Pitigliani
Meghillà delle donne per le donne.
Sarà attivo il servizio di baby parking
MERCOLEDI
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17.00 Le Palme
Purim alle Palme, la festa più dolce che ci sia:
G I O V E D I tortolicchio, pizza e ... altri dolci tipici
--------------------------------------------------------------------------------
20.30 IL Pitigliani
Grande festa di Purim per adulti e famiglie
S A B A T O --------------------------------------------------------------------------------
NOTES
ADEI WIZO
Lunedì 16 e 23 febbraio ore
15.00 in sede proseguono gli
incontri di burraco.
Corso per principianti con insegnante: lunedì 2-9-16 marzo
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
Sabato 21 FEBBRAIO
Mozè Shabath: h. 18:31
---------------------------------------Parashà: Tetzavè
Nerot Shabath: h. 17.39
20.00 IL Pitigliani
46
Nerot Shabath: h. 17:30
Roberto Fiorentini in occasione dell’uscita del suo libro
Le chajim Alla vita!
--------------------------------------------------------------------------------
G I O V E D I spiegata da Rav Roberto Di Veroli
25
Venerdì 20 FEBBRAIO
Giovedì 19 e 26 febbraio e 5 e
12 marzo corso base di lingua
ebraica con la Prof.ssa Luisa
Basevi, ore 9.00 -10.30 (un incontro a settimana di 1 ora e
½). Info e prenotazioni in sede
Mercoledì 18 febbraio e 4 marzo
ore 10.00 in sede Lezioni di
Torah e pensiero ebraico a cura di Rav Chajm Vittorio Della
Rocca
SAVE THE DATE:
9 marzo pranzo della donna
17 marzo visita guidata alla
mostra su Matisse.
Info in sede
IL PITIGLIANI
Metodo Feuerstein
Domenica 15 febbraio Inizio
corso pas pasic. Info: Sarah
[email protected] - www.
pitigliani.it
Gruppo Ghimel
Tutti i giovedì dalle 16.30 con
Davide Spagnoletto ed Elisabetta Anticoli Moscati
Programmi educativi
Domeniche di Ebraismo: attività divertenti su feste, tradizioni
e lingua ebraica. Dalle 10.00 alle 15.30 domenica 15 febbraio e
1° marzo. Info: Roberta [email protected]
Domenica 1° marzo ore 11.00
Festa di purim con spettacolo
teatrale, attività e banchetto
per bambini Info e prenotazioni: Giorgia Di Veroli [email protected]
• Lunedì 9 marzo: La tefilla di Channà con Anna Arbib
Lezione con cena a pagamento, posti limitati,
prenotazione obbligatoria:
Tel. 06.5897589 - [email protected]
NASCITE
AUGURI
Benedetta, Simhà Panzieri di Cesare e Denise Di Castro
Sarah Sassun di Ralph e Sharon Di Porto
Joshua Di Nepi di Aron e Federica Di Castro
Elio Nahum di Daniel Efraim e Alisa Ruth Toaff
Samuel Frabetti di Nazzareno e Lina Zarfati
BAR/BAT MITZVÀ
Michelle Piperno di Simone e Anna Restino
Carola Cousin di Richard e Alessia Astrologo
Nicole Menasci di Massimo e Ines Bautista
Michal Spagnoletto di Maurizio e Ester Terracina
Rebecca Calò di Ariel e Tamara Zarfati
Ludovico Pontecorvo di Andrea e Luisa Scalvedi
Lo scorso 20 dicembre è nato David Caviglia di Giorgio e Sara
Bisogno. La redazione formula i migliori auguri.
È nato Joshua Di Nepi. I migliori auguri ai genitori Aron Di Nepi
e Federica Di Castro, ai nonni, in particolare Sandro Di Castro,
presidente del Benè Berith e Flora Sed Piazza, collaboratrice
presso il Museo ebraico.
Mazal tov a Daniele Efraim Nahum e Alisa Ruth Toaff, collaboratrice presso il Museo ebraico per la nascita di Elio. Auguri alla
famiglia, in particolare al bisnonno Rav Elio Toaff.
Mazal Tov a Lina Zarfati e Nazzareno Frabetti per la nascita del
piccolo Samuel. Il Direttore e i colleghi della Cooperativa Avodà.
Lo scorso numero, nell’annunciare le nozze di Cesare Gattegna
con Giada Camerino, non abbiamo segnalato che lo sposo è il
figlio di rav Settimio Raffael Gattegna z.l.. Ce ne scusiamo con la
famiglia.
Sara Coen di Climo e Marina Pavoncello
RINGRAZIAMENTI
Ilan Di Gioacchino di Bruno e Roberta Servi
MATRIMONI
Massimiliano Del Monte - Lia Pergola
Marco Mosseri - Melissa Sonnino
ANNUNCI
Milano palazzo signorile con giardino condominiale e portineria
in zona residenziale ben servita di fronte a scuola ebraica privato vende appartamento mt 200 su 3 esposizioni 3 bagni con box
XL. Affittasi fino a eventuale vendita della stessa, Camera arredata con bagno, cucina kosher, lavatrice e wi-fi.
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Il Presidente Bonfiglioli e il Consiglio della Deputazione Ebraica desiderano ringraziare David Gerbi per aver organizzato la
splendida rappresentazione teatrale “I Love Libya” il cui ricavato ha permesso di contribuire al sostegno delle fasce più deboli
della nostra Comunità. Un ringraziamento particolare al Gruppo
Colibrì che si è adoperato per il buon esito della serata.
I figli Luciano, Elisabetta, Lidia e Giorgio Calò la sorella Giuliana, i
cognati e i nipoti ringraziano parenti amici e colleghi per le amorevoli parole e per l’affetto che hanno ricevuto per la scomparsa di
Franca Astrologo z”l. “A una donna di valore, a una madre esemplare, a una guida unica, all’amore della nostra vita”.
Dopo una lunga malattia, è venuta a mancare lo scorso mese
Tina Spizzichino
madre di Alberto Piazza O Sed (‘Scienza’), assessore alla
Kasherut della Cer. Sentite condoglianze alle famiglie.
CI HANNO LASCIATO
Child survivor / infanzia negata
La Claims Conference – l’Ente che gestisce i risarcimenti per le vittime della persecuzione nazista – ha da poco approvato un nuovo
fondo destinato all’infanzia negata, riconoscendo la sofferenza e il
trauma inimmaginabile dei bambini che hanno vissuto l’esperienza
della clandestinità, il terrore di essere scoperti, la separazione dai genitori, la privazione e gli abusi nei ghetti fino all’orrore dei campi di
concentramento. Il fondo emetterà pagamenti una tantum pari a €
2.500,00 agli ebrei vittime dei nazisti e nati tra il 1 gennaio 1928 e l’8
maggio 1945 e che abbiano subito una delle seguenti persecuzioni:
(I) Reclusione in un campo di concentramento; (II) Reclusione in un
ghetto; (III) Essere vissuti in clandestinità o sotto falsa identità, per
un periodo di almeno 6 mesi nei paesi occupati dai nazisti;
Coloro che già ricevono rimborsi o risarcimenti dalla Claims Conference riceveranno una lettera in italiano con le istruzioni da seguire
per avere accesso al fondo. Per tutti gli altri, l’elenco della documentazione necessaria e il formulario da compilare saranno disponibili
sul sito della Claims Conference a partire dalla prima settimana di
febbraio. Il personale della Deputazione Ebraica è a vostra disposizione sia per chiarimenti e/o eventuali informazioni ulteriori e sia
per un supporto nella compilazione dei moduli (in questo caso, il
martedì e il giovedì dalle 10:00 alle 13:00 previo appuntamento).
Deputazione Ebraica Tel 06 5885656 / 06 5803657
Mail: [email protected]
Costanza Anticoli 31/05/1933 – 31/12/2014
Franca Astrologo 21/04/1938 – 28/12/2014
Angelo Di Cori 03/11/1926 – 21/01/2015
Miriam Di Gioacchino 29/01/1960 – 06/01/2015
Franca Di Nepi 26/03/1929 – 05/01/2015
Piero Di Nepi 17/03/1922 – 14/01/2015
Donato Di Veroli 05/04/1955 – 06/01/2015
Luciano Marino 24/02/1934 – 14/01/2015
Giacomo Moscato 07/09/1940 – 04/01/2015
Lazzaro Moscato 27/01/1942 – 10/01/2015
Alberto Pavoncello 31/03/1938 – 01/01/2015
Silvia Piazza O Sed 13/07/1929 – 18/01/2015
Leone Pontecorvo 08/02/1936 – 05/01/2015
Tina Spizzichino 02/07/1934 – 06/01/2015
Silvana Terracina 04/02/1924 – 13/01/2015
Shalom Vaturi 16/07/1928 – 06/01/2015
IFI
00153 ROMA - VIA ROMA LIBERA, 12 A
TEL. 06 58.10.000 FAX 06 58.36.38.55
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
Michael Sonnino di Stefano e Laura Hannuna
47
ROMA EBRAICA
Berto l’edicolante
Q
Je suis
Charlie
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
uando ne capitava l’occasione,
Berto asseriva con una punta
d’orgoglio di essere un mezzo
ebreo. Il che, nel suo lessico un
po’ arcaico, valeva quanto i panni risciacquati in Arno da Alessandro Manzoni: una
rivendicazione di appartenenza, una sacralità di natali.
A dire il vero quella rivendicazione di appartenenza si era illanguidita nel corso
delle generazioni attraverso i rami di un albero genealogico un po’ ondivago. E la sacralità dei natali era stata negata dai rabbini cui non bastava un padre ebreo per affrancarlo dal mondo dei goym. Ma tant’è. Al
cuore non si comanda e a quello di Berto
non occorrevano certificazioni rabbiniche
per battere in sintonia col retaggio di suo
padre e dei suoi nonni paterni.
Per lui non c’erano Natale o Capodanno. E
quando si avvicinavano Pesach o Kippur
entrava in fibrillazione e mangiava qualche
pezzo d’azzima o saltava una colazione più
per dire a sé stesso: il mio posto è là, che
per un vero afflato religioso.
Così Berto viveva il suo doppio registro. In
cuor suo, senza smanie e con quel tacito
buon senso che per trent’anni aveva consentito a sua moglie, pace all’anima sua, di
fare in casa albero e presepe.
Tutto saltava però quando avvertiva in pericolo quelli che chiamava, con una punta di
infastidita ironia, i suoi fratellastri ebrei.
Allora il sangue delle origini sembrava ribollire.
48
Guerre, attentati, stragi e le
vecchie paure riemergevano
mettendo a nudo ferite mai rimarginate.
Oggi era uno di quei giorni.
Seduto al suo sgabello, dietro
montagne di giornali, Berto
scorreva le cronache da Parigi.
Sangue, terrore. Una città sotto
assedio e il diffuso senso di
sgomento di fronte a un Male
Assoluto che di nuovo insidiava l’Europa.
Un tintinnio di monete lo fece
sobbalzare.
Di fronte a lui c’era quello che
tutti chiamavano l’Onorevole.
Basso, tarchiato, una barbetta
incolta e stiracchiata, indossava un eskimo che sembrava un
residuato bellico. Aveva la fissa della politica ma nessuno avrebbe potuto dire da che
parte stesse. Destra o sinistra, ce l’aveva
con tutti.
“Dammi Libero e il Manifesto.”
Berto trattenne un sorriso ma prese le monete e consegnò i giornali.
“Hai visto che disastro?” stava dicendo intanto quello, evidentemente in vena di comizio. “Una città intera sotto coprifuoco.
Ma questa volta non passeranno. Hanno
osato troppo! La libertà di espressione non
si tocca.”
Nel dirlo scostò i lembi dell’eskimo mostrando la felpa rossa con la scritta bianca
‘Je Suis Charlie’.
Ora Berto era di natura diffidente verso
ogni gratuita ostentazione ma quella gli
sembrava quanto mai bislacca.
“Li fermerai con quella?” chiese con un
sorrisetto provocatorio.
“Beh, tu che sei nel settore della stampa
dovresti essere il primo ad indossarla.”
“Già, mi hai preso per Carlo De Benedetti…
Io comunque una felpa come quella non la
indosserò mai! Anzi, se vuoi saperlo mi fa
proprio ridere!”
“Beh, mi fai pena… Per battere il terrorismo
ci vuole una mobilitazione. E se non reagiamo quando portano la strage in seno a un
comitato di redazione, abbiamo già perso la
nostra battaglia di civiltà. Io domani sarò
idealmente a Parigi per levare al cielo una
matita insieme a centinaia di migliaia di
fratelli europei. E insieme grideremo a quei
cialtroni che oggi siamo tutti vignettisti!
Che ci hanno uccisi ma non imbavagliati!”
Berto sospirò infastidito.
“Mi hai frainteso” disse “io non ho niente
contro quella felpa. E’ che sulla mia, le scritte dovranno essere più piccole.”
“Più piccole…?” chiese l’Onorevole sospettoso.
“Si, più piccole e più numerose. Comincerò
con scrivere sono un atleta di Monaco 72 e
poi sono una mamma uccisa da Sbarro a
Gerusalemme e poi ho perso mio figlio in
un bus di Tel Aviv. E ancora sono un giovane del Delphinarium.”
L’Onorevole ora lo squadrava come se avesse di fronte un marziano.
“Ci vorrà un po’ di pazienza ma ce li metterò tutti. Lascerò solo uno spazio libero per
scriverci sopra: e tu dov’eri Onorevole
quando è iniziata la mattanza?”
Quello fece un balzo indietro, come se l’avessero schiaffeggiato.
“Questa poi…!” esclamò oltraggiato, senza
sapere cosa altro aggiungere.
Girò sui tacchi e si allontanò furioso.
“Un attimo, Onorevole…” gli gridò dietro
Berto. “Quando parti per il tuo viaggio ideale a Parigi non dimenticare di avvertirmi.
Verrò anch’io con te…”
Quello era ormai lontano e non lo udiva più.
“Si” concluse Berto sotto voce “verro anch’io... Ma non alzerò come gli altri una
matita. Io leverò al cielo gli zaini insanguinati dei bimbi di Tolosa.”
MARIO PACIFICI
LETTERE AL DIRETTORE
vocedeilettori
Visitare il Verano è addirittura pericoloso
Giorni fa mi sono recata la Cimitero Monumentale del Verano per
visitare la tomba di mio padre Erberto Olper. L’ho trovata spaccata
in due in uno scenario di tombe scoperchiate e pezzi di marmo
sparsi per tutto il campetto che oltretutto rendevano pericoloso il
già difficile accesso. Ma era soprattutto una scena sconvolgente. Il
campo si trova su un montarozzo – il secondo a sinistra volgendo le
spalle al Monumento ai deportati – forse costruito con terra di riporto che non ha resistito alle forti piogge dei mesi scorsi. Le tombe si
possono ricostruire o aggiustare, ma che succederà se l’evento si
ripeterà? Potremmo trovarci con le bare sul terreno circostante.
Segnalo tutto questo a Shalom sperando che la Comunità faccia
pressione sui responsabili (il Comune? l’AMA?) perché ripuliscano
il campo evitando che qualcuno si rompa l’osso del collo e provvedano a verificarne la stabilità, e invito tutti quelli che si trovano
nella mia situazione a fare fronte comune per riparare a un fatto
così doloroso per noi e così vergognoso per chi dovrebbe provvedere. Un cordiale shalom.
ISA DI NEPI OLPER
Un grazie a tutti voi
Ad Auschwitz ho perso tutta la mia famiglia ma qui a Roma ho
trovato un grande famiglia. La bellissima sorpresa che la “mia grande famiglia” ci ha fatto domenica 11 gennaio, in cui hanno organizzato a nostra insaputa le nostre nozze d’oro al Tempio Maggiore, ci
ha riempito di gioia e felicità. La cerimonia è stata molto emozionante e sentire intorno a noi la commozione della gente ci ha fatto
comprendere ancora di più l’affetto che tutta la comunità ha per noi.
E’ stata una mattinata meravigliosa che io e Selma ricorderemo
sempre. Desideriamo condividere la nostra gioia con tutti voi e
ringraziarvi uno ad uno per essere stati con noi. Un particolare
ringraziamento vogliamo farlo alla Prof.ssa Elvira Di Cave, a Daniel
e Joseph Di Porto, al Rav Riccardo Di Segni, a Riccardo Pacifici e a
tutti coloro che hanno lavorato all’organizzazione dello straordinario evento. Un grazie anche ai sopravvissuti che hanno voluto essere presenti in questa magica mattinata: Lello Di Segni, Alberto
Mieli, Alberto Sed e Piero Terracina.
Grazie anche ai bambini della scuola ebraica che con il loro entusiasmo e vivacità hanno riempito di gioia la nostra giornata.
Sami Modiano
Quegli ebrei traditi dalla Patria
In questi mesi ricorre il centenario della Prima Guerra Mondiale. Io
non c’ero, ma c’erano già mio padre, che aveva 24 anni, e mia
madre che ne aveva solo 8.
Ho trovato tra le fotografie di famiglia questa di mio padre, Lello
Della Seta, nella sua uniforme dell’Esercito Italiano, nel pieno della
giovinezza, bello e molto distinto. Ripenso sempre alla sua storia, è
qualcosa che mi ha sempre accompagnato da quando ero piccola,
quando lui c’era, a quando non c’è stato più. La sua tragica fine e
quella di mio fratello Giancarlo ha segnato irrimediabilmente tutta
la mia vita, da bambina di circa 7 anni, fino ad oggi che ne ho 78.
Questo immenso dolore lo porterò con me per sempre.
Quanti giovani ebrei hanno creduto nell’Italia durante la Grande
Guerra, pronti a morire per questa Patria che poi li avrebbe traditi
mostruosamente. Circa 20 anni dopo la fine della Grande Guerra,
Mussolini e il regime fascista avrebbero promulgato le leggi razziali che tolsero a tutti gli ebrei ogni diritto e dignità.
Ho ricevuto tanti anni fa da una mia zia una medaglia appartenuta
a mio padre in ricordo della Grande Guerra con incisi l’Altopiano
dei Sette Camini e un cannone puntato contro il nemico (prima l’esercito austro-ungarico e poi i nazisti). Purtroppo, non so come né
quando, con grande dolore negli anni l’ho persa.
[email protected]
Il 16 ottobre 1943 mio padre e mio fratello con più di duemila ebrei
romani furono deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau; sei milioni di ebrei morirono nei campi. I miei, come da testimonianza di un sopravvissuto, morirono dopo alcuni mesi di malattie e stenti nel Ghetto di Varsavia. Sempre a proposito della Grande
Guerra desidero ricordare lo zio di mio marito, tenente Augusto
Della Seta, di cui mio marito porta il nome, eroicamente caduto in
battaglia e decorato con medaglia d’argento al valor militare. Una
lapide nella tomba di famiglia lo ricorda.
PAOLA DELLA SETA
Un uomo dimenticato
Vi sono uomini che non soffrono di protagonismo, ma che ciò nonostante si sono dati molto da fare per l’ebraismo e per Israele. C’è chi
per esempio negli anni Sessanta, preoccupato dei numerosi attacchi sferrati all’ex Ghetto da parte di falange neonaziste, si adoperò
per la costituzione della L.E.D. (Lega Ebraica Difesa), madre dell’attuale sorveglianza. C’è chi partì per la Guerra dei Sei Giorni e chi
collaborò attivamente alla stesura di un vero giornale al di fuori dai
normali bollettini, affinché il mondo ebraico romano e non solo,
potesse avere una voce socioculturale ufficiale per comunicare con
l’intero Paese. Una voce chiamata “Shalom”.
Non riscontrare dalla comunità, ma soprattutto non leggere neanche su “Shalom”, un minimo segno di partecipazione per la morte
di Alberto Baumann (z.l.) avvenuta il primo novembre scorso, testimonia come nel nostro microcosmo ebraico romano, spesso le persone vengono interpellate solo per il tempo nel quale possono
essere utili, poi emarginate nell’oblio.
Ringrazio invece gli amici (pochi ma buoni) e l’ADEI che hanno
trasmesso il loro affetto a mia madre Eva Fischer ed a me.
ALAN BAUMANN
Grazie
Caro Direttore,
vorrei ringraziare il moel David Pavoncello per l’accurata professionalità e la cura prestata durante la milà di mio figlio Samuel.
LINA ZARFATI
Non chiamiamoli terroristi
Caro direttore,
smettiamola di definirli terroristi. Mi riferisco alle decine di sigle,
gruppi islamisti alle migliaia di militanti che dal Medio Oriente
all’Africa stanno facendo stragi ovunque si trovino, che si tratti di
Siria o Nigeria. Che da anni stanno insanguinando le città del
mondo occidentale, da Sidney a Parigi. Che usano metodi barbarici
per uccidere, come far esplodere bimbe imbottite di tritolo nei mercati (Nigeria), usare scudi umani per difendersi (Gaza/Hamas),
decapitare ostaggi, Siria, Irak, ad opera di uno psicopatico che si
definisce l’erede di Maometto. Non è terrorismo, è una guerra non
dichiarata. Iniziamo a chiamarla nel modo appropriato, non sono
terroristi, sono movimenti che usano metodi si orribili, ma che
hanno uno scopo ben preciso, fanno una guerra a loro più congeniale, impadronirsi di stati cosi detti “falliti”, impaurendo l’occidente
che appoggia o aiuta quelle nazioni che vorrebbero loro, e far proseliti tra giovani nati e cresciuti nelle democrazie occidentali. Terrorista è una definizione minimalista, sono soldati e criminali allo
stesso tempo. Sarebbe bene che l’Europa, aprisse gli occhi, siamo
di fronte ad un evento epocale, la più grave minaccia dopo la scomparsa del nazismo, e nazisti lo sono loro nei metodi e nella visione
apocalittica. Le nostre sono società pacifiche, in crisi economica e
sociale, purtroppo quando la storia ci mette di fronte mostruosità
come questa, non c’è altro da fare, bisogna affrontarla nel modo
più appropriato. Magari iniziandoli a definire nel modo giusto.
FEBBRAIO 2015 • SHEVAT 5775
La
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LETTERE AL DIRETTORE
L’islamismo integralista che ha dichiarato guerra alla civiltà. Non i
musulmani che sono loro stessi le maggiori vittime, ma chi si è
appropriato della loro cultura e religione. Non li facciamo crescere
come il mondo intero fece con Hitler prima di fermarlo, è il momento di agire, non sarà facile né indolore, ma vanno affrontati dove si
sono annidati, non possiamo continuare ad aspettarli a Parigi, Londra, Boston e domani chissà dove.
ALBERTO DI CONSIGLIO
Si cercano informazioni
Raffaele Zicconi, ucciso alle Fosse Ardeatine, nonno di Massimo
Ciancaglini, durante l’occupazione nazista nascose una famiglia
ebrea nella cantina del suo appartamento in piazza Ledro 7 a Roma.
Massimo Ciancaglini, che cura un blog sulla Resistenza romana e,
in particolare, sulla strage delle fosse Ardeatine (http://lavitaelaresistenzaaroma-myway.blogspot.it/), vorrebbe rintracciare eventuali
discendenti o superstiti di tale famiglia ebrea salvata dal nonno di
cui purtroppo non sa nulla. Se qualcuno ha informazioni a riguardo,
è pregato di contattare l’Archivio Storico della Comunità Ebraica di
Roma, email: [email protected]
La Biblioteca non può essere svanita nel nulla
Caro Direttore,
una recente intervista del Corriere della Sera ad Alessandra Di
Castro e Serena Di Nepi ripropone vigorosamente all’attenzione
generale il problema della ricerca e del recupero della biblioteca
della Comunità ebraica di Roma e di quella del Collegio rabbinico,
razziate dai nazisti nel 1943.
Condivido pienamente la convinzione che la biblioteca non può
essere sparita nel nulla, che appare fortemente motivare le intervistate nella ricerca che si accingono a compiere,. E’ la convinzione,
che fin da epoca remota mi ha spinto a sollevare il problema del
possibile ritrovamento; prima, in seno alla Commissione Anselmi e
poi, in rappresentanza dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane,
forte delle raccomandazioni conclusive contenute nel rapporto finale
di quella Commissione, presso il Governo dell’epoca. Una diversa
Commissione, quella per la ricerca della biblioteca, istituita a seguito di ciò dalla Presidenza del Consiglio di Ministri, della quale facevano parte autorevoli storici e archivisti e che ebbi la ventura di
presiedere, trasse la sua origine proprio da quel convincimento!
Nella intervista al Corriere della Sera si fa un accenno, in verità
breve, al lavoro di questa seconda Commissione, alle indagini che
ha svolto, definite preziose, ed ai contatti che ha stabilito con stu-
diosi nel mondo. Tuttavia, con la affermazione, che presumibilmente è dell’intervistatore, che non sarebbe “approdata a risultati”, si potrebbe lasciare al lettore la spiacevole sensazione che,
alla fine, la Commissione abbia girato a vuoto.
Non è, però, così. Tralasciando di dire che le notizie riportate in
quella intervista sono fornite dal rapporto conclusivo della Commissione e che le vaste ricerche da questa compiute, rese più
difficili dalla dispersione e spesso dalla distruzione dei documenti,
hanno consentito di stabilire taluni punti fermi (il rapporto conclusivo può essere integralmente letto su: http://www.governo.it/
Presidenza/USRI/confessioni/commissioni.html), vorrei sottolineare come l’attività di scavo archivistico, l’azione di sensibilizzazione, le relazioni intrattenute e la partecipazione al dibattito internazionale avviata dalla Commissione medesima abbiano contribuito a dare rilievo internazionale alla questione, sorprendentemente ignorata quasi dappertutto, e a diffondere la consapevolezza
della sua importanza. La avventurosa restituzione di un Pentateuco stampato ad Amsterdam nel 1680 e proveniente da Hungen,
avvenuta in occasione della partecipazione a un convegno tenutosi ad Hannover nel 2005, gli inviti a convegni internazionali tenutisi sui beni razziati dai tedeschi con la pubblicazione delle relazioni ivi presentate dalla Commissione, sono testimonianza concreta dell’interesse suscitato.
La Commissione ha concluso i propri lavori per la scadenza del
termine (pur prorogato) assegnatole e per la impossibilità di avere
altri finanziamenti oltre a quelli, per la verità erogati con il contagocce, già avuti per le missioni all’Estero. Nel rapporto finale, la
Commissione aveva espresso l’auspicio che le indicazioni raccolte
potessero in futuro incrociarsi con altri dati, da altri rinvenuti,
magari con la esplorazione di archivi russi allora inaccessibili, e
consentire il ritrovamento di un insostituibile patrimonio culturale
che, ribadiva la Commissione, non poteva essere svanito nel nulla.
Ripeto qui quell’auspicio, con l’augurio che possa realizzarsi con il
pieno successo del lavoro che Alessandra Di Castro e Serena Di
Nepi stanno per avviare.
DARIO TEDESCHI
Una compagnia di danza speciale
A Morro d’Alba, piccolo paese rurale sito nelle campagne marchigiane in provincia di Ancona, a circa 30 km. dal capoluogo medesimo, vi è, già da molti anni, un gruppo, una compagnia/scuola di
danza denominata “DANZINTONDO”. Ed io ne faccio parte già da
circa tre anni. Si chiama così proprio perché, più che altro, effettua,
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organizza, si esibisce, ed insegna (anzi, effettuiamo, dato che ne
faccio parte anche io) danze “in circolo”, “in tondo”, danze tipiche
folkloristiche tradizionali popolari; sia italiane, come ad esempio il
saltarello marchigiano, la pizzica pugliese, la tarantella calabrese,
la tammurriata campana, ecc..... ma anche danze balcaniche, danze
greche, danze francesi, danze occitane, del nord Italia, ecc.... insomma danze che spaziano un po’ su tutta Europa e non solo.
Ci riuniamo il martedì sera per ballar tra di noi; il giovedì invece si
riunisce il “gruppo” che effettua le coreografie esterne con i costumi di scena. Infatti, alcuni di noi ormai bravi e preparati, si esibiscono durante feste popolari, sagre di paese, manifestazioni sportive,
ecc..... per rallegrare e portare musica e danza in giro per le Marche.
Siamo un bel gruppo unito di varie età, e spesso organizziamo
anche stage per approfondir delle danze, oppure feste a ballo e/o
cene sociali, come momento di aggregazione socializzante.
Ultimamente, con mio stupore e piacevole meraviglia, la nostra
insegnante Lorena ha inserito anche danze tipiche ebraiche-israeliane. Balliamo infatti: Manavu’, Hava naghila, ecc.... ed anche
recentemente stiamo imparando addirittura la bellissima e commovente danza yiddish Dona-dona, conosciutissima in tutto il mondo.
Lo scorso anno poi, questa “mia” compagnia di danza DANZINTONDO, in occasione della giornata della Memoria, è stata invitata,
sia sul palco del teatro comunale di Monte san Vito, che sul palco
del teatro di Montecarotto, a portar in scena “Per non dimenticare”,
commovente spettacolo sulla Shoah. Io son proprio orgoglioso di far
parte di questa compagnia di danza, che sembrerebbe “specializzata” in danze della nostra cultura ebraica!
Chi dovesse passare per Ancona, oltre a visitare la nostra bella ed
antica Sinagoga, si ricordi quindi di venire a Morro d’Alba, dove lo
attende quindi una bella serata di musica e danze tipiche della
nostra millenaria cultura ebraica!
SERGIO FORNARI
Smokéd / affumicato: un gioco di parole. Una sfida nel
segno di uno humor che non vuole offendere nessuno,
ma sorridere di tutto.
Prima presero gli zingari, i comunisti, i socialisti, gli omosessuali… poi presero gli ebrei… Ma io non mai dissi nulla. Poi quando
arrivarono a me, non c’era più nessuno a dire qualcosa. Dopo le
stragi di Parigi non ci sembra di averlo letto e ascoltato, qui in
Italia, il celebre apologo in versi attribuito al pastore evangelico
Martin Niemoller, poi a Bertolt Brecht, ed infine anche ad un’anonima tradizione degli antinazisti in clandestinità. Eppure è dal
1947 che gli ebrei di Israele e della diaspora vanno avvertendo il
mondo intero: prima aggrediscono noi, poi verranno a cercare
anche voi. L’ultima moda, anche tra gli ebrei liberal, è spiegare
che “Israele scherza col fuoco”. Dunque si continua tranquillamente a biasimare Israele per eccesso di legittima difesa. A proposito, sorprendentemente la guerra all’Isis non sembra provocare danni collaterali. Un caso unico negli annali militari. O forse
adesso i giornalisti non sono più autorizzati a documentarli.
Smokéd
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